Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Guastella: SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della conoscenza – filosofia siciliana –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Misilmeri).
Abstract. Grice: “Guastella wrote about almost everything – excpet,
perhaps, implicature!” Keywords: Implicatura. Filosofo italiano. Misilmeri, Palermo, Sicilia. Grice:
“Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote
on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Figlio di Vincenzo
farmacista, uno dei quattro figli, ancorché di famiglia borghese non ebbe
un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a
Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere:
“La conoscenza”; “Metafisica”; e “Il
fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli
Italiani, Dizionario di filosofia. Uno
degl’aspetti più caratteristici del modo di pensare metafisico è lo sforzo di
conoscere il reale A PRIORI, di costruirlo. Anzi possiamo dire, d’una
maniera generale, che a-priorismo è il
sinonimo di metafìsica, come empirismo è il sinonimo di positivismo, almeno del
vero positivismo, cioè quello che non ammette,
rigorosamente, che i fatti, i fenomeni, e le loro relazioni. Noi
vedrenio in effetto nel saggio che, mentre il presupposto su cui si fonda il
modo positivo di pensare è che non dobbiamo ammettere alcuna proposizione senza
prova, non essendovi altra prova che la sperimentale, cioè l’induzione, la
generalizzazione dei casi osservati, e, se la proposizione è particolare, la
deduzione (il sillogismo) fondata sovra
un’induzione antecedente. Il modo metafisico si fonda invece, consapevolmente o
inconsapevolmente, sul presupposto contrario, cioè che vi hanno dei principii
che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, senza prova, e per
conseguenza indipendentemente dall’esperienza e dall’induzione, in altri
termini, a priori. Non vi ha dunque questione
più importante per la teoria della conoscenza che quella sulla possibilità
e sui limiti della conoscenza a priori. E siccome la metafisica si propone di
stabilire resistenza delle cose e il come di quest'esistenza non i loro
rapporti nascenti d’una veduta della mente che le compara l’une con l’altre, cosi
questa questione può circoscriversi per noi dentro confini più determinati. Possiamo
noi acquistare delle conoscenze a/)r/or/ suiresistenza delle cose? O, in altre
parole: questa esistenza può formare l’oggetto d’un giudizio a
priori? L'oggetto di questo saggio è di
dare una risposta a questa domanda. Perciò noi non ricercheremo innnediatamente
se la conoscenza o pretesa conoscenza a priori che oltrepassano il mondo dell’esperienza,
siano o no legittime. Il nostro esame si
restringe, al contrario, nel dominio della conoscenza positiva, fenomenale. Il
lettore puo fare da se stesso le sue inferenze su (luelle che stanno al di là
di questo dominio. Ora un pò di riflessione mostra che la nostra questione, cioè
se noi possiamo formare d’un giudizio a-priori concernenti l’esistenza della cosa,
non si può risolvere senza prima esaminare la natura del giudizio e la sua classificazione. Ma gl’elementi del
giudizio sono le idee, e si ha necessariamente una o un altra teorica del
giudizio, se per elementi d’esso si danno le idee astratte, come fanno le
dottrine da lungo tempo dominanti, oppure le idee concrete. Vi ha dunque, prima
di tutto, una questione preliminare che ci s’impone: esistono o no delle idee
astratte, dei concetti? È questo l’argomento
di questo saggio. Tutti i termini, se si eccettuino i nomi propri, sono
generali. Vale a dire essi si applicano non ad un solo oggetto particolare, ma
a qualsisia di tutti gl’oggetti appartenenti ad una classe. Ora, le parole, essendo
SEGNI dell’idee, si domanda quaU siano le idee SIGNIFICATE dai nomi generali.
Non vi hanno che due risposte. L’una è: un termine generale non significa che delle idee particolari, cioè delle idee d’oggetti
individuali e concreti; solamente, mentre un nome proprio non suggerisce allo
spirito che una sola idea particolare, un nome generale può suggerire
ugualmente una o un altra delle idee degl’oggetti particolari appartenenti ad
una classe. Cosi IL SIGNIFICATO di
questi nomi non è generale che potenzialmente, in quanto possono richiamarci questo o quello degli oggetti
della classe; ma il loro significato attuale, appartar propriamente, è sempre
particolare, in quanto non ci richiamano effettivamente che un solo o alcuni di
questi oggetti. Questa teoria si chiama nominalista. Ma secondo l'altra teoria,
che chiameremo concettuahsta, a un termine generale corrisponde, non delle
rappresentazioni particolari, ma una
nozione generale o idea astratta, che è come la rappresentazione di ciò
che gl'individui di una classe hanno di comune, negligendo i tratti particolari
che sono propri a ciascuno. La grande maggioranza dei filosofi hanno adottato la teoria
concettualista: alcuni, tra cui lo stesso Mill, quantunque si siano professati
nominalisti, pure in fondo hanno ammesso il concettualismo, o almeno spesso
hanno esposto le operazioni del pensiero in termini che implicano quest'ultima
dottrina. Cosi non esitiamo [Mill non ammette che noi possiamo formarci delle
idee separate delle proprietà astratte delle cose; egli non accorda allo
spirito che delle rappresentazioni concrete e particolari. Ma secondo lui noi
abbiamo il potere di prendere per oggetto della nostra attenzione una
parte o un elemento astratto della
rappresentazione concreta, quantunque ci è impossibile di separarlo completamente Non è evidentemente che un’altra
forma del concettualismo. Bain intende per idea astratta un caso tipico o uno
specimen, cioè un individuo particolare, il quale rappresenta per noi tutti i
casi o individui della classe; ovvero un
SIMBOLO (cfr. H. P. Grice on J. L. Austin, SYMBOLO) verbale applicato alla
classe (Dei sensi e dell’intelligenza). Qui egli sembra parlare perfettamente
da nominalista. Ma altrove Logica egli ammette, come Mill, che lo spirito ad
asserire che i tatti dell’intelligenza non sono mai stati studiati ad un punto
di vista rigorosamente nominalista; per cui, accingendoci a dare una
classificazione del giudizio fondata esclusivamente su questo punto di vista, siamo obbligati a
discutere il concettualismo d’una
maniera più larga clie non abbiano latto fin qui gl’autori nominalisti. Fra i filosofi è Berkeley che ha
dato i colpi più forti alla teoria dei concetti; ecco che cosa dice in sostanza
questo filosofo. Noi vediamo un oggetto esteso, colorato e in movimento: tutti
ammettono che queste tre qualità non esistono ciascuna per se stessa, ciascuna
distinta e separata dalle altre; ma, secondo i filosofi concettualisti, lo
spirito può considerare isolatamente ciascuna di queste qualità, e astratta
dalle altre due, il che si chiama
formarsi un^dea astratta. Cosi lo spirito può formarsi la idea di colore air
esclusione di quella di estensione, e Tidea di movimento air esclusione al
tempo stesso di quelle di colore e
d'estensione. Inoltre, osservando che tutte le estensioni particolari percepite
dai sensi hanno questa proprietà comune o questo punto di somiglianza, di
essere estese. nbbia il potere di accordare la preferenza della sua attenzione
all'uno o all'altro dej^H attril)uti d'un oggetto concreto p. e. uno scellino o
una ruota; noi possiamo, egli dice, dare più attenzione alla rotondità e meno
alla grandezza, ma è impossibile che noi
pensiamo alla rotondità, senza pensare a una certa grandezza o a un certo
colore, Spencer, ammettendo che gli elementi dello spunto non sono che le
sensazioni e i rapporti fra le sensazioni, non potrebbe ammettere le idee
astratte: tuttavia egli atterma che i temimi del pensiero possono essere anche,
non delle cose particolari e delle azioni particolari compiute da esse, ma i caratteri generali
delle cose e delle classi di cose, considerati separatamente dalle cose stesse
p. e. PrinclpU di psf colorila. Cosi la sua opmione. sembra pure, al fondo, la
stessa che quella di Mill. Questo semi-concettualismo è comune a tanti altri
filosoll inglesi. ma differiscono perchè questo ha una certa figura, quello
un'altra, questo una grandezza, quello un'altra, lo spirito si forma l’idea
astratta di estensione, senza una figura o una grandezza determinata. Cosi può
formarsi pure l'idea del colore in astratto, che non è né il rosso né l’azzuro
né il bianco nò alcun altro colore determinato. Ma il fatto, dice
Berkeley, non va cosi. Noi possiamo
formarci l’idea d'un uomo avente una grandezza, una figura, un colore
determinato; ma non quella d'un uomo astratto, che non sia né Ijianco né nero
né bruno né di un altro colore qualunque, né piccolo né grande né di statura
media. Noi non possiamo, per qualunque sforzo di pensiero, concepire quest'idea
astratta. Noi possiamo considerare la mano, l'occhio, il naso, l'uno dopo
l'altro, separati dal resto del corpo. Ma (jualunque sia la mano o qualunque
sia l'occhio a cui pensiamo, Ijisogna ch'essi abbiano una forma, un colore
particolari. Cosi noi possiamo rappresentarci un colore particolare e con una
gradazione determinata; ma non ci é possibile di formarci l'idea del colore
astratto. Ci é ugualmente impossibile di formarci l'idea astratta di movimento, distinto dal corpo che si muove, e che non sia né rapido
né lento, né curvihneo, né rettilineo, ecc.; e lo stesso deve dirsi di tutte le
idee generali o astratte Priticlpil della conoscenza umana, Indrodazione. Il
ragionamento di Berkeley non che un appello diretto alla coscienza.
Ci impossibile, esaminando noi stessi, di sorprenderci nell' atto di
avere un' idea astratta. Noi possiam o astrarre in un senso, in quanto possiamo
pensare separatamente delle cose o dei fenomeni che nella realt sono
inseparabili. Cosi possiamo considerare isolatamente una parte di un oggetto,
quantunque l'esperienza non ce la mostri mai isolata, ma sempre accompagnata
dalle altre parti. Della stessa maniera, possiamo concepire isolatamente un
avvenimento, quantunque nella realt esso sia sempre preceduto, seguito e
accompagnato da altri avvenimenti determinati. In una parola, tutto ci che ha
un'esistenza distinta e una posizione separata nel tempo e nello spazio, noi
possiamo concepirlo separatamente. Inoltre, ed quello che ha pi
somiglianza con ci che i filosofi chiamano un'idea astratta, noi possiamo
concepire isolatamente delle propriet d'uno stesso oggetto, ma che noi
percepiamo per dei sensi differenti: il colore d'un oggetto a parte della
temperatura, del sapore, dell'odore, ecc., quantunque nella realt queste qualit
non si trovino separate. Ma tutto ci che noi possiamo concepire sia una
semplice qualit sensibile o un oggetto conosciuto per un complesso di qualit
sensibili, sia un oggetto intero ovvero una parte, sia un fenomeno che duri un
istante indivisibile e che occupi un posto appena percettibile nello spazio,
ovvero un gruppo di fenomeni successivi e simultanei deve sempre essere un
oggetto o un fenomeno assolutamente determinato, deve avere la tinta
particolare e, per dir cosi, la fisonomia di qualche cosa d'individuale.
Tuttavia, questo appello all'osservazione interiore, in cui consiste
l'argomentazione di Berkeley, quantunque trattandosi d'un fatto della
coscienza, non possa esservi una prova migliore, pu nondimeno lasciare qualche
dubbio. Infatti l'osservazione interiore, per consenso dei migliori fra i
psicologi moderni, un metodo fallace o almeno insufficiente; e per quanto
riguarda i fatti pi semplici del pensiero, la coscienza non capace di
rivelarcene chiaramente alcuni la cui esistenza pure indubitabile.
Nessuno dei psicologi contemporanei segue Condillac, il quale riduceva tutti i
fatti mentaU a sensazioni attuali e riproduzioni di sensazioni passate: tutti
ammettono invece che vi ha inoltre nell'intelligenza un altro ordine di fatti
cio la percezione dei rapporti che lo spirito scopre tra i fenomeni
paragonandoli fra loro. Ebbene ! tutti sappiamo in che consista un rapporto di
somiglianza tra due cose; ma chi potrebbe rappresentarsi il fatto interiore, in
cui consiste la percezione d'un rapporto di somiglianza? Ma se l'argomento
dell'osservazione interiore non basta a convincere di falsit la teoria
concettualista,esso ci mostra almeno quale sia la natura di questa teoria il
concetto non che un'ipotesi, non un fatto di coscienza, non
qualche cosa che bisogni ammettere perch sia mai caduto sotto le prese
dell'osservazione. Che ciascuno faccia attenzione a se stesso nell'atto di
pensare egli non scoprir che delle immagini di cose particolari, e s' egli
pensa a qualche argomento astratto, non si accorger di pi che delle
rappresentazioni di alcuni segni o termini generali, che non sono essi stessi
se non delle immagini particolari di un certo ordine di sensazioni. Che alcuno
dimostri, p. e., un teorema sul triangolo non al triangolo astratto che
egli penser, ma a un triangolo concreto e determinato, sia tracciato sulla
carta, sia rappresentato nell'immaginazione. E s'egli non avr in mente alcuno
di questi triangoli concreti, vorr dire che tutto il suo ragionamento si ridurr
ad un' operazione meccanica, in cui i segni delle idee terranno il posto delle
idee medesime. Prendiamo dunque la teoria dei concetti per quello che , per
un'ipotesi destinata a dar conto delle operazioni del pensiero, ed esaminiamo
il valore di quest'ipotesi, in se stessa e nelle sue conseguenze, e alla
stregua dei fatti e delle leggi conosciute dello spirito umano. In primo luogo
bisogna far attenzione al rapporto che noi naturalmente stabiliamo tra il
pensiero e la cosa pensata. Quantunque l'oggetto immediato del nostro pensiero
non sia che un'idea, cio una modificazione o uno stato di noi stessi, un fatto
puramente interiore che non esiste altrove che nella nostra coscienza n in un
altro tempo che nel momento in cui pensiamo; pure ci che noi intendiamo di
pensare, ci che rammentiamo o prevediamo o immaginiamo, ci di cui, in una
parola, affermiamo 1' esistenza, non gi il nostro pensiero stessO;.
ma un oggetto o un avvenimento gi passato o futuro, una cosa o un tatto
per lo pi esteric^re, o, se interiore, un latto almeno sempre distinto dal
fatto attuale di coscienza con cui lo pensiamo. Ora in che consiste questo
legame del pensiero con un oggetto fuori del pensiero stesso? Si dir che noi
abbiamo la coscienza che il pensiero rappresenta un oggetto esteriore ? ci
equivale a dire che noi abbiamo, oltre al pensiero, la coscienza d'un oggetto
esteriore che corrisponde al pensiero; ma la coscienza di quest'oggetto
esteriore non i)Otendo essere che un' idea, la quistione non lia fatto un passo
con (juesta supposizione, e resta ancora a spiegare come quest'idea si
riferisca ad un oggetto esteriore. La difficolt non pu avere, io credo, che una
soluzione. Per un' illusione naturale e primitiva, senza di cui non si puo
immaginare come il pensiero potrebbe avere i)er noi un valore obbiettivo,
avviene che 1' idea s'identifica per noi con la cosa pensata, e che nell'atto
del pensare, noi non crediamo gi di aver presenti alla mente delle mere
rappresentazioni, ma d'involgere e di penetrare le cose stesse. Ci tanto
vero che Reid, il (luale intendeva di ritornare alle credenze naturah del
genere umano, soppresse le idee come rappresentazioni^ e r^etese cJie lo
si)irito ha (Urettamente coscienza delle cose esteriori. E che questa sia
veramente una credenza, naturale, ciascuno pu farne l' esperienza in se stesso
se io j)enso, per esempio, al mio amico il tale, certo che io credo di
avere d'innanzi alla mente il mio amico stesso, e non un'immagine di lui. Nel
pensiero avviene dunfjue come nella sensazione le nostre rappresentazioni si
staccano dall' aggregato fisico psichico che si chiama io, di cui realmente
fanno parte, ci appariscono obbiettive, e prendono jer noi il posto delle cose
stesse. A noi non importa per ava di spiegare quest' illusione naturale lo
faremo nel secondo Saggio .(lucilo che c'importa di domandarci se questo
fatto gencu^ale della nostra intelligenza sia compatibile o no con l'esistenza
delle idee astratte. Ora evidente che non lo . Se nell'atto del pensare
noi crediamo di essere coscienti^ non dell'idea, ma dell'oggetto che l'idea
rappresenta; se l'idea si confonde per noi e si scambia con la realt ; in altre
parole, se noi oljbiettiviamo e realizziamo le nostre idee ; non potremo quindi
pensare un'idea astratta senza realizzarla, senza credere di pensare, non ad
un' idea astratta, ma ad un oggetto astratto. Platone aveva dun({ue ragione di
pretendere che, se vi hanno delle nozioni astratte e universali, vi saranno
degli esseri astratti e universali a ci che si riduce in sostanza quasi
tutta la sua argomentazione per dimostrare l'esistenza delle Idee ma la
conscienza smentisce la sua dottrina, mostrando che se la conseguenza
giusta, il principio falso ; poich se vi fossero le idee astratte, 1'
esistenza degli esseri astratti dovrebbe essere, non una teoria laboriosamente
costruita da un metafisico, ma una credenza naturale del genere umano. Noi
arriviamo ad un risultato analogo, se ricerchiamo quale potreblje essere T
origine di queste pretese idee astratte. Secondo la massima parte dei filosofi
che le ammettono, un'idea astratta non che un'idea parziale : essa nasce
(juando noi rivolgiamo l' attenzione a ({ualche nota o elemento comune a molte
rappresentazioni particolari. Essendoci noi formate, p.e., le idee di pi
oggetti particolari che tutti appartengono alla stessa specie^ il 2. Saggio,
parte 1. il Supplemento sulla imiiuincnza delle Idee platoniche. Locke Saoglo
JllosoficosalVintenr^nento umano; WOLE Psicologa empirica s ecc.; GALLUPPI
(vedasi) Saggio filosofico sulla critica della conoscenza; SERBATI (vedasi)
Saggio sullorigine dellidee; ecc. 12 t ascummo tutte le particolarit clie fanno
di ciascuna di queste Idee lidea d'un in,lividuo particolare e diverso dag 1
altri, e non riteniamo cl.e le note o elementi comuni a utti, ed e cosi secondo
questi filosofi, clie ci formiamo lidea generale della specie. Quest'nltima
idea non cosi secondo essi, che una parte della rappresentazione del1
oggetto concreto ; e l'astrazione non altro che una separazione o una
decomposizione. Essa trae un'idea universale da un'idea particolare, fissando
la nostra attenzione sovra uno dei suoi elementi: quindi ta osservare
quest'elemento (1 elemento comune a molte idee particolari), non lo genera.
Questo elemento preesisteva dunque, secondo 1 concettualisti, ed era gi
contenuto nelle idee particolaried una rappresentazione concreta non che
un fascio' una somma di tali elementi astratti. Ciascuno di questi elementi,
ripetiamolo, esisteva gi per se stesso e a parte nella rappresentazione totale;
l'astrazione non fece che iso arlo dagli altri, farlo riconoscere come un
elemento distinto e separato. Ora la rappresentazione totale o concreta
non die una copia esatta dell' oggetto reale, in quanto almeno noi siamo
capaci di conoscere gli oo-c^etti reali gli elementi astratti non potrebbero
dunque stare nella rappresentazione concreta, a meno che nell' orioinaie, cio
nell'oggetto reale, non si trovassero gli elementi corrispondenti; in altri
termini, un oggetto reale individuale non sar, come la sua rappresentazione,
che un lascio o una somma di elementi astratti E se noi vo Il Sergi I.a ammesso
esplicitamente questa conseguenza Ln immagme sensazionale, un individuo
in presentazioni particolari e senza nomi non vi ha pensiero. Questo
fatto stato ammesso da quasi tutti i concettualisti, a cominciare da
Aristotele. L'anima, dice questo filosofo, non intende mai senza immagini:
gl'intelligibili non sono immagini, ma non sono senza immagini . Ora perch un
concetto non si troverebbe mai puro, ma sem])re congiunto a un'immagine
particolare o ad un nome? Questa difficolt se la proposta gi I. Mill. A
questo eminente pensatore pu tarsilo stesso rimprovero ch'egli ha fatto ad
Hamitton, di \o\qv tenere, cio, un piede nel nominali Galton Limmagini
generiche, nella Revue scientifque; Huxley D. Marne, sua rifa, sua filosq/ia,
traduzione francese; Delboeuf// sonno e i sogni ^ \>ag.'m; Binet Psicologia
del ragionamento De Anima, De memoria et reminiscentia ediz. Didot. 16 smo e un
altro nel concettualismo pure egli al fondo (e ci parr incredibile a un
lettore disattento) un vero concettualista. Secondo il Mill, noi non abbiamo
presenti nella mente gli attributi che costituiscono un concetto, se non come
formanti, per la loro unione con altri attributi, l'idea d'un oggetto
particolare. Solamente, noi abbiamo il potere di fissare la nostra attenzione
sugli attributi costituenti il concetto, negligendo gli altri attributi coi
quali li concepiamo congiunti. Ci va sii. al punto che noi possiamo anche, per
un po' di tempo, non aver iirescnti allo spinto che questi attributi che
costituiscono il concetto, o, in una parola, il solo concetto. Filosofia di
Hamilton traduz. frane. Ma perch noi non pensiamo l'idea astratta
separatamente, ma solo come una parte d'un'idea concreta? E' clie il primo
caso, dice il Mill, effettivamente impedito dalla legge dell'
associazione inseparabile. In altri termini, noi non abbiamo mai sperimentato
un attributo astratto, se non come congiunto o combinato con altri attributi in
un individuo determinato; quindi la rappresentazione degli attributi generici
si trova indissolubilmente associata con la rappresentazione delle particolarit
individuali. Ma questa una soluzione sufficiente della difficolt? Alcune
partilarit individuali, o (lualche eceeit (perch impossibile discutere un
po' a fondo la teoria dei concetti senza impiegare il linguaggio dei realisti)
sono costantemente congiunte con gli altributi generici e specifici, ma non
certamente sempre la stessa ecceii, le stesse circostanze individuali. Nessuna
dunque di queste particolarit indivividuanti potrebbe essere inseparabilmente
associata al con cetto generico o specifico. Senza dubbio, 1' associazione per
contiguit, in molti casi, lega, non due idee paI^ticolari determinate, ma due
tipi d'idee. E ci che avviene quando dalla presenza di un fenomeno inferiamo un
altro fenomeno, in virt d' un rapporto costante che abbiamo osservato nella
nostra esperienza passata. N il fenomeno inferito n quello da cui s' inferisce
il pi delle volte, per non dire mai, sono perfettamente simih ai fenomeni
passati tra cui abbiamo sperimentato il rapporto; solamente, appartengono allo
stesso tipo. Ma le circostanze individuanti, proprie ai diversi individui d'un
genere, non appartengono allo stesso tipo, perche tutto ci che vi ha di comune,
di somigliante, in questi individui, stato separato da queste circostanze
individuanti, e fa parte del concetto del genere. Ne segue che il legame
indissolubile del concetto con l'idea delle circostanze . individuanti, cio col
resto della rappresentazione particolare di cui il concetto , si pretende, una
parte, non potrebbe essere spiegato dall'associazione per contiguit, che
quella che pu invocarsi in questo caso. Similmente, riesce inesplicaljile perch
un'idea astratta, per lare la sua comparsa nella coscienza, abbia bisogno dell
aiuto d'un nome. l'associazione con un nome generico, CI SI dice, Cile
richiama i concetti nella coscienza e h fissa nell'attenzione non vi ha infatti
pensiero astratto senza segni, n un sistema sviluppato di concetti astratti
senza un linguaggio sviluppato. Ora quest'associazione del concetto con un nome
suppone due cose prima che Il concetto possa essere conservato nella memoria, e
poi che sia capace di contrarre delle associazioni con le altre Idee, e possa
cosi venire riprodotto. Ma se cosi che bisogno VI ha che il concetto sia
costantemente associato con un nome? non basterebbero, perch noi ce lo
richiamassimo, quei mille legami svariati che ciascuna idea ha con le altre, per
cui le leggi dell'associazione possono riprodurla al momento opportuno? perch
solo un nome e non qualunque altro antecedente mentale, quegli stessi p. e. che
richiamano il nome, sarebbe capace di richiamarci il concetto? La dottrina di
Mill non , in verit che il nome necessario per richiamarci il concetto.
Secondo lui, come abbiamo detto, il concetto non ({ualclie cosa che
esista nello spirito d'una maniera isolata. Esso non che un complesso di
note o elementi parziali d'una rappresentazione concreta, e non esiste che
congiuntamente alle altre note o elementi di questa rappresentazione.
Solamente, (juesti elementi costituenti il concetto vengono vivamente suggeriti
allo spirito, mentre degli altri non abbiamo che una coscienza debole.
L'associazione costante con un nome o, in generale^ un segno, duncjue
necessaria, non propriamente per richiamarci il concetto, ma per dirigere
specialmente la nostra attenzione sul complesso delle note parziali di una
rappi'esentazione che costituiscono il concetto. Ma la (juistionc sempre
la stessa. Perch qualsiasi altra idea, legata, come (piella del nome o in
generale del segno, non esclusivamente con Tidea di tale o tal altro oggetto
particolare, ma con quelle, in generale, degli oggetti possedenti l'attributo corrispondente
al concetto, non sarebbe pure capace di dirigere la nostra attenzione sulla
parte della rappresentazione i)articolare che costituisce il concetto?.La
teoria concettualista non pu Il Mii.L conviene clie F ininiauinc visuale d'un
oiigctto pu comjtiere lo stesso ulicio del nome relativamente al concetto di
quest'oggetto; e soggiunge che lo stesso pu fare una sensazione forte e molto
interessante (p. e. la soddisfazione della fame) relativamente al concetto
della classe fondata sull'attributo di produrre questa sensazione. Gontuttoci
egli mantiene che i segni sono necessari, non solo alla conservazione, ma jmche
alla formazione dei concetti, e ammette sempre, in pratica, che questi segni
sono i nomi generali. Secondo il Mill, il nome non solamente necessario
al concetto perch esso che dirige V attenzione sulla serie degli
attributi, contenuti nella rappresentazione concreta, che costituiscono il
concetto, ma anche perch 1' associazione con un nome che d una unit nella
coscienza a questa serie di attributi; quest'associazione ci che li lega
insieme nello spirito, con un legame pi forte di (juello che li associa al
resto dclTimmagine concreta. Questa proposizione dipende evidentemente dalla
dottrina dell'autore che dunque spiegare perch i nomi siano necessari alla
formazione e alla riproduzione dei concetti, pi di quanto i)0s.sa piegare perch
il concetto non si pensi mai isolat(j, ma sempre con Timmagine o neirimmagine.
(j.^ Noi potremmo moltiplicare agevolmente le nostre obbiezioni alla teoria
concettualista, ma per non annoiare inutilmente il lettore, non ne aggiungeremo
qui, per (luanto riguarda i concetti in se stessi, che un'altra sola. La
psicologia odierna, seguendo lo spirito generale delle scienze Vologiche, di
cui non che una parte, non [)u vedere neiruomo qualche cosa di
eccezionale e d'isolato, e come un regno nel regno della natura animata. La leciie delil concetto costituitn dagli attributi connotati dal
nome, e che di nome connota, non tutti gli attributi comuni alla classe, ma
solo una porzione determinata di questi attributi. In effetto, se si ammette
che il concetto comprende tutti gli attributi della classe, evidente che, i)er legare insieme questi
attributi nello spirito, ])asta la ripetizione delle esperienze in cui li
a)l)iano trovato in congiunzione, e che ogni altra spiegazione sarebl)e
superflua. Si dir che, frapposta la dottrina di Mill, che fa dipendere il
contenuto dei concetti dal significato convenuto dei nomi, si spiega pure
facilmente perch sia il privilegio del nome di dirigere la nostra attenzione
frulla parte della rappresentazione concreta che costituisce il concetto. E
ci vero, ma solamente ])er i concetti
delle classi comprendenti una i>lumlit di attril)uti. Ma Tanalisi arriver
infine agli attributi semplici, cio indecomponijjili in altil attributi jii
sem]>lici, e bisogner ammettere anche dei concetti corrispondenti a ciascuno
di questi attributi. Ora il contenuto di questi concetti non dipende dall'uso
dei nomi, come (juello dei concetti complessi ch'essi formano per la loro
combinazione; per conseguenza questa dottrina di Mill non i^otrebbe spiegare la
necessit dei nomi per la formazione e la conservazione di questi concetti.
Intanto su di essi che deve volgere
sovratutto la quistione perch i nomi generali siano una condizione necessaria
per l'acquisto delle idee astratte, poich sono essi che costituiscono Toggetto
proprio della l)rctesa facolt di astrarre, per la formazione degli altri
concetti non occorrendo un atto particolare di astrazione, ma una semjlice
riunione di astrazioni gi formate. 1 evoluzione non permette che un fenomeno
essenzialmente nuovo risalti tutto ad un tratto dal fondo dei fenomeni
antecedenti ; e i fatti dello spirito umano non possono essere essenzialmente
differenti dai fatti psichici degli altri esseri sensibili, n essere governati
da leggi diffferenti. Cosi i fatti mentali d^un ordine superiore e appartenenti
a delle facolt che si dicono propriamente umane, non possono essere che uno
sviluppo e una complicazione dei fatti d'un ordine inferiore e appartenenti
alle facolt che si ammette che l'uomo ha in comune con gli altri animali. La
stessa distinzione tra questi fatti o facolt d ordine superiore e d'ordine
inferiore non pu essere che relativa e sino ad un certo punto arbitraria, per
la stretta continuit che deve ammettersi frale une e le altre. Ora le idee
astratte, in cui si sempre vista una
prerogativa dell'uomo, costi' tuirebbero una di quelle soluzioni di continuit,
uno di quei salti, che non sarebbero compatibili n col principio dellevoluzione
n con 1' unit delle leggi dello spirito. Non solo la comparsa delle idee
astratte per se stesse dovrebbe concepirsi necessariamente come un fatto
essenzialmente nuovo nella storia degli esseri sensibili, ma di pi un ordine
complesso di fatti, dipendenti dall'impiego di questa specie d'idee, scaverebbe
un abisso pi profondo ancora tra lo spirito che possederebbe le idee astratte e
quello che non le possederebbe. Nessuno negher, p. e. che si possono formare
dei giudizi senza fare uso delle idee astratte gli animali pi inteUigenti e i
bambini sono certamente capaci di rammentarsi, di prevedere certi fenomeni che
loro sono pi familiari, di percepire gli oggetti reali quando alcuna delle
propriet sensibih di essi cade sotto i loro sensi, di conoscere le somiglianze
e le differenze delle cose, in una parola, di fare molti atti mentali che tutti
implicano il giudizio, e ci senza bisogno d'impiegare idee generali. Gli stessi
concettualisti devono anche convenire che la formazione dei concetti suppone gi
molti di questi giudizi estra concettuali. Cosi ecco due ordini^ di giudizi
essenzialmente differenti: l'uno che ha per termini dei fatti 0 delle idee
particolari e le loro relazioni; l'altro che ha per termini dei concetti, cio
dei soggetti ed attributi, e le loro relazioni, le quali sono esse pure
essenzialmente differenti dalle prime. La stessa duplicit nel ragionamento.
Allo spirito senza idee astratte si conceder senza dubbio una sorta di
ragionamento: sar ci che Leibnitz chiamava una consecuzione d" immagini,
un passaggio da alcune idee particolari ad altre idee particolari fondato suU'
analogia. Noi vedremo che non vi ha in realt altro ragionamento che questo ; ma
se si ammettono le idee astratte, il vero ragionamento sar di una natura
essenzialmente differente poich allora dovr ammettersi che alla proposizione
generale, che il punto di arrivo della
induzione e il punto di partenza della deduzione, corrisponde una nozione,
parlando rigorosamente, generale e questo ragionamento sar esclusivamente
proprio dell'uomo, che solo possiede delle nozioni astratte e generaU. Ecco
dunque come la teoria dei concetti separa violentemente la ragione dell'uomo
dal resto della natura, rompendo l'unit della vita psichica, e mettendosi in
contraddizione con lo spirito della scienza moderna. Esaminiamo ora i concetti,
per dir cosi, in azione, e vediamo in quale ginepraio inestricabile la teoria
concettuaKsta ha cacciato i filosofi, che hanno fondato su di essa la teoria
del giudizio e la sua classificazione. Noi incontreremo altre difficolt
insormontabili della dottrina il SUO
concetto ne sempre un'altra, e il
giudizio concerne il fatto, non il concetto. (Filosofia cU Hamilton, trad.
Franc. Ma che vi sar nella nostra mente invece del fatto concepito? vi sar il
concetto del fatto, o no? vi sar, io voglio dire, un concetto astratto, o Tidea
di un fatto concreto e particolare? Se non vi saranno che delle ideo di fatti o
cose concrete e particolari, e falso che noi non aljljiamo nello spirito cfie
degli attributi, perch questi sono astratti, n degli oggetti particolari
potrebbero stare fra loi^o nella rflazione di soggetto ed attributo. Vi saranno
dunque dei concetti, e Topinione di Mill rientra nella teoria concettualista
comune. Ma dice Mill: il giudizio afferma che gli attributi che formano il
predicato sono uniti con ^li attributi clie formano il so^getto, non per nella
nostra concezione, ma in fatto; e si pu dire che il giudizio afferma che due
concetti sono compatibili, ma nel senso che essi possono essere realizzati
obbiettivamente Vuno a lato delU altro, E dun(]ue il realismo che Mill vuole
sostituire al concettualismo? Questa proposizione il corpo grave , esprime secondo lui ciie due sistemi
d' attributi, la gravit e la corporiet, coesistono e sono obbiettivamente r uno
a lato deir altro ma percli due cose coesistano, bisogna gi che siano due cose
realmente distinte e ciascuna avente un'esistenza propria.Dir il Secondo il R
\in, U\ proiusizioni che aflerinano hi situazione reciproca delle cose neUo
spazio, e quelle che afierinano l'inerenza di pi proi)riet nello stesso
soggetto, non sono die due variet distinte delle ])roi)osizioni di coesistenza.
Invece d'una certa situazione locale con intervalli che i^ossono essere
apprezzati numericamente, abbiamo (nelle seconde) la coesistenza di due o pi
attribu'i [josti in uno stesso luogo. Una massa d'oro contiene in ciascuno dei
suoi atomi gli attributi che caratterizzano questo metallo: il peso, il colore,
il lustro, la durezza, eco: {Logica). DuiKiue, secondo Hain, il peso dell'oro,
il s^o colore giallo. Mill che noi prendiamo in un senso proprio ci ch'egli ha
detto solo in un senso traslato? Ma se non si vuole stare al senso proprio, le
sue espressioni non dicono niente di preciso, e convengono egualmente a
qualsiasi sistema, al realismo cosi bene che al concettualismo e al
nominalismo. Poich allora non direbbero se non questo che la proposizione
unisce due termini generali, di cui ciascuno pu fare da predicato, e che se la
proposizione vera, deve esservi nella
realt un non so che, che corrisponde alla proposizione. Noi stiamo dunque in un
trilemma che fatale per la teoria dei
concetti. Q Taffermazione del giudizio ha per oggetto delle cose concrete e particolari,
e noi non possiamo avere nello spirito, quando giudichiamo, che le idee di cose
concrete e particolari. O l'oggetto deiraffermazione non che una relazione tra concetti, e allora il
giudizio concerne solo dei concetti, e non ha che fare con le cose reali. O
infine il giudizio, mediante i concetti, stabilisce una unione o un rapporto
qualunque tra cose reali, e in questo caso queste cose reali non possono essere
degli oggetti o fenomeni concreti e particolari perch, per ipotesi, le idee
corrispondenti sono assenti dal nostro spirito ma dalle realt adequate ai
concetti, cio degU attributi obbiettivamente esistenti, delle astrazioni
realizzate. Si visto che noi crediamo
naturalmente che, nell'atto del pensiero, non sono le rappresentazioni, ma gli
oggetti stessi, che ci stanno dinnanzi allo spirito. Vi hanno dei filosofi i
quali affermano che questa credenza naturale non c'inganna, e che il nostro
pensiero prende e investe realmente gli stessi oggetti reaU. Secondo noi
questa una il suo splendore, la durezza,
la fusibilit, la duttiUtn, la capacit di essere; disciolto dall'acqua regia,
sono delle entit situate in uno stesso luogo e contenute in ciascuna molecola
d'oro. Ma se non questa, che sar mai la
realizzazione delle astrazioni? illusione, 0 noi non possiamo avere iFinnanzi
allo spirito che (Ielle idee o delle rappresentazioni; solamente queste
rappresentazioni si scambiano e si confondono naturalmente con gli stessi
oggetti rai)presentati. L^idea e la cosa hanno, per esprimerci cosi, la stessa
forma, ma luna ha una esistenza subbiettiva, l'altra una esistenza obbiettiva:
ora, (juando pensiamo, V idea ci ai)parifece come qualche cosa (H obljiettivo e
di reale, che ha per la forma stessa dell' idea, in altri termini, noi
obbiettiamo e realizziamo naturalmente le nostre idee. Cosi avviene che (juando
noi giudicliiamo, ({uantunque non abbiamo nello spirito che delle idee,
tuttavia IVjggetto del nostro giudizio sono i fenomeni o le cose stesse
corrispondenti alle idee. Ma se noi avessimo nello s[)irito dei concetti
astratti, come potrebbero le nostre ailermazioni avere per oggetto le realt?
soltanto obbiettivando e realizzando questi concetti astratti, mettendo al loro
posto qualche cosa che avrebbe un' esistenza obbiettiva, ma che avrebbe pure la
stessa forma delFidea astratta, cio una astrazione obbiettivata e realizzata. A
ci si risponder forse che, (juantun(|ue Toggetto reale deiratlermazione siano
gli attributi astratti delle cose, e non le cose stesse nella loro concretezza,
pure non necessario che ])erci noi
intendiamo di considerare questi attributi astratti come realmente distinti e
separati ; noi non li distinguiamo che per una veduta mentale che li sc[ara
ciascuno dal resto della cosa concreta a cui inerisce, ma senza ammettere perci
che essi esistano per se stessi, distinti e separati. Ma ragioniamo un poco
sulla ipotesi della verit delle nostre credenze naturali, cio sulla
supposizione che il nostro pensiero colga l'oggetto stesso reale. Abbiamo riiiia da noi negletto, accompagna
costantemente ciascun complesso di fatti, cio ciascun oggetto particolare, a
cui corrisponde il concetto. Bisogna dunque aver percepiti degli oggetti,
rammentarceli, paragonarli, ecc. Ma non si j)u concepire un oggetto senza
attenuare la coesistenza delle propriet sensibili costituenti quest'oggetto, la
sua permanenza nel tempo, in una parola, la coesione di tutto un gruppo di
fenomeni, che sono caduti o possono cadere sotto i nostri sensi, successivi e
simultanei. Non si pu rammentarlo senza affermare che esso esistito nel passato ed caduto sotto la nostra esperienza. Il
paragone di tutti questi oggetti poi importa Y affermazione dei loro rapporti
di somiglianza e di differenza. Dunque in un concetto sono, per dir cosi,
condensati e fissati un gran numero di giudizi. Ora ciascuno di questi giudizi
ha bisogno almeno di un concetto, T attributo. Osi dir che sono giudizi estra
concettuali, i cui termini non sono un soggetto e un attributo, ma unicamente
delle idee di fatti particolari? Ci sarebbe arbitrario, perch ciascuno di
questi giudizi suscettibile di ricevere
la forma della proposizione, e di avere per predicato un termine generale.
D'altronde Toggetto di questi giudizi non pu differire sostanzialmente da
quello di tutti gli altri; perch, come abbiamo visto, in tutti i giudizi
Taffermazione, la credenza, volge sempre su dei fatti e sui loro rapporti.
Questo dunque un circolo vizioso,
ed impossibile alla teoria dei concetti
di uscirne con onore: la formazione di ogni giudizio suppone dei concetti
antecedenti, e la formazione di ogni concetto suppone dei giudizi antecedenti.
Forse la dottrina delle idee innate romper, come credeva il Rosmini, questo
circolo? no, perch un po' di riflessione mostrer che i concetti, che questi
giudizi primitivi, anteriori alla formazione dei concetti acquisiti,
implicherebbero, sono le nozioni di fatti e di rapporti tra i fatti, che non
possono venirci evidentemente se non dairesperienza. Andiamo ora finalmente
alla classificazione di SERBATI (vedasi) Xuoco Saggio sulVovgine delle idee; e
confi. FERRARI (vedasi) elio su questo punto
un rosminiano Sa^^'iO sul principio e i limiti della filosofia della
storia, cap. 1. giudizio. Come si sa, i concettualisti ammettono una doppia
quantit o contenenza reciproca nei concetti. Una classe pi generale contiene un
certo numero di classi meno generali subordinate: tutti i predicati che possono
attribuirsi alla classe pi generale,
possono altresi attribuirsi alle classi subordinate, ma di pi pu a ciascuna di
queste ultime attribuirsi un certo numero di predicati che le speciale. I concettualisti dicono che il
concetto della classe pi generale contiene nella sua estensione i concetti
delle classi subordinate, e il concetto di ciascuna di queste ultimo classi
contiene nella sua comprensione il concetto della classe pi generale e inoltre
una o pi note che gli sono proprie. La contenenza o quantit in estensione esterna ai concetti, appartenendo essa,
piuttosto che ai concetti stessi, agli aggregati di oggetti classati insieme, a
cui si riferiscono i concetti ; la contenenza o quantit in comprensione, al
contrario, una propriet interna dei
concetti, e si riferisce ai concetti stessi nella loro mutua relazione. Cosi il
concetto di animale contiene in s o comprende i concetti pi generali di essere,
di corpo, di vi^ venie, e, oltre di questi, una o pi note, che potranno essere
sensibile, semovente, ecc ; tutti questi concetti o note, comuni e proprie,
sono contenuti in comprensione nel concetto di animale, e quindi appartengono
intrinsecamente a questo concetto stesso. Viceversa i concetti di essere, di
Qorpo, di vivente, contengono in estensione il concetto di animale, il quale
per conseguenza, piuttosto che far parte, per se stesso, di questi concetti per
se stessi, si riferisce a una cosa che fa parte delle cose a cui questi
concetti si riferiscono. su questa
relazione dei concetti che fondata la
divisione principale dei giudizi, in analitici e sintetici. Quando il concetto
significato dal predicato compreso nel o
fa parte del concetto significato dal soggetto, il giudizio analitico^ quando il concetto del predicato
non fa parte del concetto J.t 1 del soggetto, ma tuttavia si afferma del
soggetto, il giudizio sintetico. Far
parte o essere compreso vuol dire in queste definizioni essere contenuto in
comprensione. Ma quando che il concetto
del predicato compreso nel concetto del
soggetto, cio quali sono le note che un concetto, capace di Jungere da
soggetto, contiene nella sua com[)rensione, e quali sono le note che non
contiene? La risposta a questa domanda, sulla quale pertanto deve essere
t'ondata la legittimit della classazione dei giudizi in analitici e sintetici,
ha gettato i filosofi in mille perplessit, in mille difficolt insolubili, in un
laljirinto, in una parola, da cui
impossibile Tuscita. Il concetto , come si ammette generalmente, il
significato di un nome generale. Ora i logici distinguono nel senso di un nome
la sua connotazione e la sua denota-^ zione. Un termine denota ciasomo degli
oggetti particolari a cui esso si applica: uomOy p. e, denota ciascuno degli
esseri particolari che vengono cosi chiamati. In quanto alla connotazione del
nome, non s potrebbe spiegarla con tuttala chiarezza necessaria senza
pregiudicare la quistione antecedente; ma noi diremo, d'una maniera generale,
che il nome connota ci che si afferma d'un oggetto jjer ci solo ciie gli si
applica il nome. Ora che si afferma di un essere particolare, chiamandolo uomo?
che egli deve essere classato fra gli uomini, cio che ha un certo rapporto di
somiglianza con altri esseri gi da noi conosciuti, e che siamo soliti chiamare
uomini. Cosi jrendendo per punto di partenza che il concetto precisamente ci che il nome connota, si dir
che il concetto comprende quelle note o attributi, che noi intendiamo affermare
di un oggetto mettendolo nella classe corrispondente e dandogli il nome di
questa classe, note o attributi senza di cui esso non sarebbe classato e
nominato cosi, ma altrimenti. A (j\iesto punto di vista, non tutti gli
attributi che si possono affermare in generale degli oggetti di una classe,
fanno parte del concetto di questa classe, ma solo ima porzione determinata di
questi attributi. Tanto pi che, siccome il senso, cio la connotazione del nome
deve essere la stessa per tutti (luelli che parlano la stessa hni?ua, senza di
che non potrebbero intendersi fra loro, cosi nel concetto della classe se il
concetto la connotazione del nome non
devono entrare che quegli attributi che tutti debbono conoscere perch possano
fare un retto uso del nome. Ma vi ha un altro punto di vista affatto
differente, se si ha riguardo, piuttosto che alla connotazione del nome, cjuale
noi Y abbiamo spiegata, alla sua denotazione. Che significa intatti uomo, se
non gli oggetti reali che vengono cosi chiamati
In una proposizione che ha per soggetto qualche uomo o in generale
Fuomo, qual il soggetto reale del nostro
giudizio, cio qual Toggetto di cui
giudichiamo o affermiamo un certo predicato, se non gli uomini stessi, vale a
(hre delle sostanze reali quali esistono effettivamente? fJra cosa pu essere
una sostanza, se non il tutto costituito dalle sue propriet o modi di essere?
vi ha un attributo che non appartenga alFessere a cui si attribuisce, o non ne
faccia parte? Dunque, se ciascun oggetto significato dal nome il tutto costituito dalle qualit o attributi
che gli appartengono, il significato generale del nome, il concetto, non pu
essere che ci che tutti gli oggetti nominati hanno di comune, vale a dire il
complesso di tutte le note o attributi, che i)Ossono predicarsi di tutti gli
og^^Qi della classe corrispondente. La divisione ordinaria del giudizio in
anahtico e sintetico suppone il primo di questi due punti di vista. Essa stata introdotta da Kant nella filosofia
moderna, ce II corpo esteso , secondo lui, un giudizio analitico, perch
Testensione una nota che fa parte del
concetto di corpo ; ma sintetico,
i)erch la gravit non fa parte di questo concetto. Similmente, sizioni notae per
se equivalgono ai giudizi analitici, e quelle notae per alind ai sintetici. In
effetto, secondo i concettualisti, la definizione appunto la esplicazione del concetto, la sua
decomposizione nelle note parziali che Io costituiscono; donde si vede anche
che il giudizio da Kant chiamato analitico non
che o una definizione o la parte di una definizione. Quando noi ci
domandiamo ammesso anche il presupposto che il contenuto del concetto deve
desumersi dal senso in connotazione del nome corrispondente, se un
giudizio analitico o no, cio se
l'attributo fa parte o no della comprensione del concetto del soggetto, noi ci
troviamo il pi spesso nella pi grande perplessit. Cosi, loro un metallo giallo per Kant un giudizio analitico (v.
Prolegomeni ad ogni metafisica futura
cf. Grice/ Strawson, In defence of a dogma). Questi due concetti dunque,
metallo e giallo, fanno parte secondo ldella comprensione del concetto delForo.
iMa se il colore giallo compreso nel
concetto dell'oro, noi dobbiamo ugualmente comprendervi il suo splendore. La
durezza^'e la fissit, come anche la fusibilit, faranno parte ugualmente di
questo concetto: e come non comprendervi ancora che esso il pi pesante di tutti i corpi Ma se noi vi comprendiamo queste note, non vi
jia ragione di escluderne la duttilit; e pertanto l'oro duttile
sarebbe, secondo il traduttore di Kant, un giudizio sintetico (v.
Critica della ragion pura traduzione italiana, Introduzione, IV, quarta nota
del traduttore). La capacit di essere disciolto nelTacqua regia far pure parte
del concetto delForo, essendo essa una delle propriet che ci servono a
differenziare questo metallo. E se noi ci decidiamo a far entrare nel concetto
tutte queste propriet, noi siamo costretti a continuare a farvi entrare Tuna
dopo Taltra tutte le propriet conosciute deir oro. Non vi ha ragione decisiva
per preferire una ad un'altra; fermarci ad un punto qualunque sarebbe
arbitrario. Si creder forse di rispondere con precisione alla nostra domanda,
dicendo che un giudizio analitico, cio
che il concetto delFattributo fa parte della comprensione del concetto del
soggetto, quando Tattributo fa parte delFessenza del soggetto, o, ci che dire lo stesso con altre parole, quando
rattrijuto un elemento della definizione
del soggetto. Ma se vogliamo sapere ancora quaU attributi siano capaci di
entrare, nella definizione del soggetto, o siano a lui essenziali, noi ci
troviamo naturalmente nelle stesse perplessit. Cominciamo per determinare che cosa
sia lessenza d una cosa, o, ci che vale lo stesso, in die consista una
definizione. Fra gli attributi o propriet appartenenti ad un genere dato, gli
antichi filosofi distinguevano come un piccolo nucleo (sufficiente a
distinguere il genere da tutti gli altri) di propriet riguardate come primitive
e da cui si supponeva che tutte le altre derivassero; era questo nucleo che si
chiamava propriamente l'essenza della cosa, e definizione la proposizione che
Tesprimeva. Questa nozione, come si vede nel 2^ Saggio, venne introdotta da
Platone: essa era uno degFingredienti della sua dialettica, e derivava dal suo
metodo di divisione, Aristotile l'adott ; e cosi venne naturalmente a fetr
parte del bagaglio della metafisica, la quale, non contenta mai di conoscere Yqzi
delle cose, ma aspirando a conoscere il Sizi, della stessa maniera che cerca il
legame intimo che unisce l'antecedente e il conseguente nella relazione
causale, cosi vorrebbe trovare l'altro legame intimo che unisce le diverse
propriet coesistenti in un oggetto dato. Ma se si eccettui la geometria, non vi
ha nella scienza alcuna di queste definizioni, espressive dell'essenza reale, e
da cui tutte le altre propriet della cosa definita possano dedursi: le cose
della natura sono fornite d'un numero indefinito di propriet, irriduttibili e
senz'alcuna connessione percettibile a priori, e di cui molte certamente sono
ancora sconosciute. Cosi, siccome le nuove propriet delle cose sono state
generalmente scoverte per l'osservazione^ e non derivate da qualche idea
dell'essenza, *si venne naturalmente all'opinione pressoch universale che le
essenze delle cose ci sono sconosciute: e l'essenza, che per quelli che
introdussero questa nozione era ci che pi immediatamente e pi chiaramente si
conosceva delle cose, divenuta, per
conseguenza, ci che vi ha in esse di pi oscuro ed incomprensibile. Alla essenza
reale degli antichi filosofi, per un efietto di questo agnosticismo, viene cosi
ordinariamente, per gli usi della logica, sostituita, presso i moderni,
l'essenza logica o nominale, che dovrebl^e con pi propriet chiamarsi l'essenza
concettuale. a questo secondo senso
della parola essenza che si riferisce la distinzione tra gli attributi
essenziali e i non essenziali, con cui ha da fare una teorica del giudizio.
L'essenza d'una cosa, in questo senso,
l'insieme delle propriet che costituiscono il concetto di questa cosa, o
la connotazione del suo nome; e la definizione, per conseguenza, l'analisi del
concetto, o la spiegazione del senso (in connotazione) della parola. Cosi, se
domandiamo quali siano gli attributi che vanno compresi nel concetto, ci si
risponder che sono quelli che fanno parte dell'essenza o della definizione ; ma
se vogliamo sapere quali siano gli attributi che fanno parte dell'essenza o
della definizione, ci si dir che sono quelli compresi nel concetto. Tuttavia,
siccome i logici concettualisti hanno dato un'esposizione pi sviluppata della
dottrina della definizione che di quella del concetto, noi possiamo sperare di
rischiarare la seconda per la prima. Quando si tratta di determinare quali
siano gli attributi che costituiscono l'essenza, o che devono entrare nella
definizione, riappariscono naturalmente i due punti di vista sulla comprensione
del concetto, di cui sopra abbiamo fatto menzione. La maggior pfirte dei logici
insegnano che la definizione si fa per il genere prossimo e la differenza
specifica: cosi sarebbero due i concetti elementari che devono entrare nella
definizione. Questa dottrina sulla definizione
un antecedente naturale della teoria che per determinare la comprensione
del concetto, parte dalla connotazione del nome, quale noi Y abbiamo gi
spiegata. Questa ultima teoria infatti avendo bisogno d nn minimum di note per
la costituzione del concetto, trov naturalmente ci che le occorreva nella dottrina
comune della definizione. Ma vi hanno altri filosofi, come il Bain, i quaU
pensano che nella definizione devono entrare tutti gli attributi ultimi o
irriduttibili della classe che sono conosciuti . Si pu certamente ammettere
come pi conci) V. Bain Logica. Cosi la mortalit fa parte, secondo Ban, della
essenza dell'uomo, e dicendo ruomo
mortale, non si esprimerebbe che una parte della defmizione deiruomo,
essendo la mortalit un attributo primitivo degli esseri viventi, che non pu
dedursi da alcun altro. Ma r uomo fa la cucma
non esprime una parte della defmizione, perch quest'attributo deriva da
un attributo anteriore dell'uomo, ch'egli
industrioso, e quest'altro deriva dagli attributi realmente primitivi, e
quindi essenziali che intelligente e ha
delle mani. Il Bain distingue, coi logici antichi, dagh attributi essenziali a
primitivi, cio quelli che entrano nella detlnizione, non solo i propri, che
derivano da quelli, ma anche gli accidentali. Tuttavia un accidente
rigorosamente universale, o inseparabile, non differisce al fondo, come dice
egli stesso, da un attributo essenziale, e deve quindi considerarsi come tale,
ed entrare nella definizione. Secondo il Bain, la defmizione classica per genas
et (UtJeren^ tiam, e cos pure ogni altra defmizione che non esaurisce la
totalit deizli attributi essenziali o irriduttibili della classe, e una
definizione incompleta: essa serve, non ad esprimere tutta la conforme all'uso
ordinario della definizione, ed anche al senso etimologico della stessa parola
defmizione, che non sia necessario di racchiudervi tutti gli attributi della
classe, e nemmeno gFirriduttibili, ma semplicemente quelli che bastano a
distinguere gli oggetti appartenenti alla classe da tutti gli altri oggetti che
esistono fuori della classe, ed su ci
che fondata la regola ordinaria, secondo
cui basta una sola differenza specifica per formare la definizione. Ma questo
processo non deve illuderci fino al punto di credere che questa capacit di
definire o differenziare notazione della classe, come fa la definizione
completa, ma solamente a distinguerla da ogni altra classe. A parte la dottrina
della connotazione dei nomi, sulla quale noi ritorneremo, ({uesta distinzione
del Bain della definizione completa (che espone tutti i caratteri primitivi o irriduttibili
della ciassc) e della definizione incompleta (che distingue la classe da tutte
le altre), si pu ammettere, quantunque sarebbe forse pi proprio e pi conforme
all'uso della parola definizione, di chiamare piuttosto descrizioni le
definizioni complete del Bain, quando esse comprendono molti caratteri. Anche
per il Mill una definizione incompleta
quella che si fa per il genere e la differenza (Logica): ma il Mill non si
allontana tanto quanto il Bain da questa forma tradizionale della definizione ;
una definizione completa, per il primo, non essendo, come per il secondo, la
enumerazione di tutti i caratteri (irriduttibili) della classe. Per il Bain
tutti questi caratteri entrano neUa connotazione del nome, e quindi nefia
definizione, ma per il Mill solo un numero limitato di essi. L' uomo mortale , non
per Mill un predicato essenziale, ma lo
per Bain, sin tanto almeno che non si mostrer che la mortalit un proprium, derivante da qualche attributo
essenziale dell'uomo e, in generale, degli esseri viventi. Noi andiamo a
mostrare che la dottrina sulla connotazione dei nomi, sulla quale fondata questa esclusione della pi parte dei
caratteri (d' altronde universali e irriduttibili) di una classe dalia sua
essenza, non che una mera finzione dei
logici. Non pu farsi alcun uso corretto della parola essenza, se non per
designare la somma di tutti i caratteri (almeno i non derivati) comuni a una
data classe di oggetti. una classe sia la prerogativa esclusiva di quella tale
differenza specifica che noi mettiamo nella nostra definizione, e che le note
che noi scegliamo per una definizione abbiano con la natura della cosa o con la
nozione di essa un rap{3orto molto pi intimo che qualsiasi altro attributo
conosciuto della cosa. Questo non sarebbe che un pregiudizio trasmessoci dair
antica teoria realista delFessenza che, come si sa, ha formato il punto di
partenza di tutte le ricerche logiche di quest'ordine. L'uomo un animale ragionevole , senza dubbio una definizione preferibile a
qualsiasi altra dcfinizion i dell'uomo, perch essa fa comprendere il pi
facilmente quale sia l'oggetto definito, il genere prossimo essendo di quelli
di cui tutti hanno un'idea sufficientemente esatta, e la differenza essendo
ugualmente conosciuta da tutti come un carattere differenziale tra il definito
e le altre specie del genere. Non
certamente facile, per gli esseri naturali, di trovare molte definizioni
simih. Ma che cosa vieterebbe di definire l'uomo altrimenti, prendendo per
genere, non l'animale, ma il vertebrato o il mammifero o qualsiasi altra delle
classi d'ordine inleriore, a cui pu essere subordinato l' uomo, e per
differenza il bimane, p. e., o qualsiasi altra particolarit della struttura
umana, capace a distinguere la nostra specie da tutte le altre del genere
riguardato come prossimo? Ora non di
questa maniera evidente che qualunque propriet sia generica sia specifica
dell'uomo sarebbe capace di entrare in una definizione di esso? Ma si crede che
la differenza specifica di una vera definizione logica sia, non pi veramente un
attributo pi fondamentale nella natura della cosa, ma un attributo implicato
invariabilmente nella connotazione del nome, e che, per questa ragione, fa
parte della comprensione del concetto.
ci infatti che si vuol dire al fondo, quando si dice, con linguaggio
pieno di mistero, che un attributo essenziale
ci senza di cui la cosa finirebte di essere CIO che : ci che significa un uomo, un cavallo, un albero,
ecc.; e un attributo essenziale cosi ci
senza di cui la cosa non sarebbe chiamata uomo, cavallo o albero. Ora, vero che tutte le note di una definizione,
fatta secondo le regole dei logici, sono implicate invariabilmente nella
connotazione del nome? Se fosse cosi, noi chiameremmo invariabilmente uomo
qualsiasi essere, reale o immaginario, che avesse insieme con l'animafit
l'attributo ragFonevole, e rifiuteremmo con la stessa costanza questo nome a
qualsiasi essere non avente quest'attributo Ma un po' di riflessione mostrer
che non cosi clie noi facciamo di fatto.
Immaginiamo infatti clic esistessero dei pappagalli, o altri esseri organizzati
aventi una struttura assai^ diversa dall'umana, i quali nelle loro parole e nei
loro atti mostrassero altrettanta ragione che l'uomo: certo che noi non chiameremmo affatto uomini
queste creature immaginarie. Supponiamo invece, come tante volte ne corsa la voce per il passato, che si scopra
una razza di esseri, simili in tutto nella forma e nella struttura all'uomo, ma
che non avessero V uso del linguaggio e della ragione: quasi certo che noi li chiameremmo uomini. E
sen7^ correre tanto con 1' inunaginazione, non chiamiama forse uomini g'
idioti? Si dir forse che la definizione trasmessaci dagli antichi insufficiente, e che avrebbe bisognato
definire 1' uomo anzitutto per la sua figura esteriore. Cerchiamo dunque di
definirlo cosi. Certamente noi non diremo, come Democrito , che 1' uomo Jia la
Jtf/nra che conosciamo, se vogliano fare una definizione;. ma determineremo i
caratteri della figura esteriore che sono propri dell'uomo. Ora dobbiamo noi
ammettere che un essere deve avere precisamente tutte le particolarit di questa
forma esteriore per potere essere chiamato uomo?; Aristotile De partiba^
animalUini, iib. 1., e. l, e Sesto Empirico Adrcrms Mathematicos ma per il
passato corsa pure la voce deiresistenza
di uomini, simili in tutto a noi, dotati di i)arola e di ragione, ma con una
coda pelosa fra le gambe, il che, se esistessero in realt, non c'impedirebbe
certamente di chiamarli uomini. Se dunque non
il possesso di tutte le ])articolarit 0 attributi della forma esteriore,
che sarebbe necessario per applicare il nome, allora Tuna delle due: o
l'assenza o presenza della coda verrebbe considerata come una particolarit
insignificante, ma vi sarebbero altre parti pi importanti della figura umana
che sarebbero considerate come necessarie; o nessuna delle particolarit della
forma sarebbe necessaria, ma ciascuna isolatamente potreljbe variare, purch un
certo numero di esse o la maggior parte restasse invariabile. Ora noi non
possiamo ammettere il primo dei due casi, perclie come si parlato di uomini con la coda, si ugualmente parlato di uomini senza testa o
aventi la testa sotto le spalle: non vi ha dunc^ue parte alcuna o carattere della
forma esteriore, la cui presenza si ritenga necessaria per applicare il nome. il secondo caso che si deve ammettere? ma
sarebbe confessare che nessuna delle note della definizione accompagna
invariabilmente l'impiego del nome uomo.Cosi qualunque sia il numero delle note
che facciamo entrare nella definizione, sia che ci contentiamo di una sola
differenza specifica sia che ne impieghiamo molte allo stesso tempo^ non mai NcUa connotazione d uomo, dice Mill, vi
lui cortamente una certa forma esteriore, ma sarel)be impossibile di dire qual
deviazione dalla forma ordinaria sia sufficiente per rifiutare il nome di
uomof/.or/iVa). Ma cosi dicendo il Mill confessa che l'applicazione del nome
non fondata sulla partecipazione di
certi caratteri determinati, ma sovra una somiglianza generale. L'applicazione
del nome non importa dunque V attribuzione di certi predicati definiti: ma che
diventa ollora la dottrina della connotazione dei nomi? Questa oljbiezione
d'altronde rientra nella difficolt sollevata da una pro]>oslzione di Wewell,
di cui appresso. ammissibile che le note della definizione accompagnino
invariabilmente l'applicazione del nome, e facciano parte della sua
connotazione. Intanto ci che deve
necessariamente pretendere la dottrina che identifica la comprensione del
concetto con la connotazione del nome, dottrina che tutto quello che i concettualisti hanno detto
di chiaro su questa comprensione. L' imposizione di un nome o Y aggregazione ad
una classe non implica che una somiglianza generale del nuovo membro con gli
altri membri conosciuti della classe stabilita; non importa la riconoscenza di
un gruppo preciso di caratteri speciali definiti, che siano rigorosamente
comuni a tutta la classe. Io voglio dire che se un buon numero di questi
caratteri speciali si trova ordinariamente comune a tutti i membri della
classe, tuttavia nessuno di questi caratteri, preso isolatamente, si ritiene
come assolutamente necessario ]:)erch un altro membro si faccia rientrare nella
classe. Se un naturalista conosce una specie per quanto ben definita, ma poi
viene a trovare un gruppo d'individui, che manchino di uno qualunque o pi dei
caratteri specifici che definiscono la specie stabilita, egnon esister a
classare questi nuovi campioni come una semplice variet della stessa specie,
purch essi siano sufficientemente vicini agh individui gi conosciuti. Vi hanno anche, come osserva Darwin (Origine delle
specie, cap. 14^), delle classi nella storia naturale, in cui due forme situate
agh estremi opposti della serie, possono appena avere un sol carattere comune
di quelli su cui la classe fondata, o
anche non avere affatto alcun carattere comune; ma siccome nondimeno tutte le
forme della serie sono connesse l'una con l'altra per una catena continua di
affinit, ci basta per farle riconoscere tutte come appartenenti alla classe.
Cosi alcuni, come Wewell, hanno proposto di fondare la classificazione, non
sovra un gruppo di caratteri definiti comuni, ma sul grado di affinit con dei
tipi che ^m-^ possano rapi )resen tare la classe. E in generale, nella
formazione di una classe, no' non incominciamo per istabilire una definizione,
alla quale contiamo di uniformarci strettamente per conoscere Y estensione
possibile della (l) MiLT. ninntiene contro Wcwell rafTcrmazionc clic una
classe fondata sulla definizione, cio
sul possesso di caratteri determinati. Tuttavia eirli ammette che i caratteri,
in ragione di cui sono costituiti i grui>i>i naturali, cosi bene che le
classi artificiali, sono, non i soli caratteri rigorosamente comuni a tutti gli
oggetti compresi nel grupi)0, ma riuelli che si trovano tutti nella pi parte
degli oggetti, e la pi iarte in tutti {Lor/ca). 11 Mill dice altrove che in
questo caso, cio (pianilo un nome di classe viene alTermato d'una sostnnza. la
(fuale non possiede che alcune delle propriet caratterizzanti la classe, ci cie
si afferma non il possesso di un certo
numero di predicati definiti, ma semplicemente la somiglianza con gli altri
oggetti designati dol nome. Quindi . secondo lui, il senso del nome ditt'erente, quando viene applicato a un
individuo normale (rigorosamente conforme alla definizione), e quando a un
individuo anomalo. 1/ ambiguit del termine in questo caso sarebbe perfetta,
essendo diversa tanto la denotazione quanto la connotazione. Una classe sarebbe
dun(iue formata. i)rima da un gruppo d'individui rigorosamente conformi alla definizione,
e sarel)be la classe propriamente detta ; poi da un' appendice, composta dei
casi aberranti, riuniti attorno alla classe, ma fuori, a parlar
proi>riamente, di questa, quantunque i>i vicini ad essa che alle altre
classi. Il nome di classe non si applicherei)! )e con propriet che al primo
gruppo. Cosi, se noi volessimo esprimerci esattamente, noi noi> dovremmo,
secondo 1 principi! tlel Mill, dire, p. e., d'un idiota; (luesto un uomo ; ma l>ensi: (juesto non uomo, ma
simile airuomof(cfr. Locke Saf7{//o ecc.). Ora siccome per ogni gruppo
naturale, noi i^ossiamo sempre supporre di questi individui anomali (non
conformi rigorosamente alla definizione, della classe), ne segue che ogni nome
d classe in realt ambiguo : ma allora,
Tapplicazione di un nome di classe non implica pit Taffermazione di attributi
definiti, e non vi ha pi alcun criterio per distinguere la i^roposizione
analitica dalla i^roposizione sin^ letica. Il Bain si propone anch' egli la
difficolt sollevata dal Wewell, Noi possiamo immaginare, egli dice, un gruppo t
classe; ma prima stabiliamo la classe per Tapprezzamento complessivo delle
affinit reciproche fra i suoi membri, di cui alcune forse indefinibili e
insignificanti, e delle differenze tra essi e i membri delle altre classi, e
poi cerformato da dieci caratteri, ma composto d'individui, nei quali uno o due
di questi caratteri non sono marcati, bench si rassomiglino per il pi gran
numero di caratteri. Noi possiamo anche fare ([uesta supposizione estrema, che
la fluttuazione t^le che alcuno dei
dieci caratteri non persiste in tutti gl'individui, donde, rigorosamente, noi
potremmo concludere che non vi ha pi un sol carattere comune, bench vi siano un
gran numero di rassomiglianze. La difllcolt sollevata da Wewell, soggiunge il
Bain, pu essere risoluta, se si accorda l'esistenza d'un margine, d'un
intervallo vago, d'una transizione incerta, che
essenziale a dei cosi di continuit molto meno complicati che non lo la distinzione dei gruppi in storia
naturale (p. e. la transizione fra la
notte e il giorno, fra lo stato solido e lo stato li(iuido, fra cui vi hanno
delle gradazioni insensibili, in modo che
impossibile di tirare una linea preciso di separazione. su casi simili che si fondava l'antico solsma
del sorite o del cumulo, . Si pu osservare anzitutto su questa soluzione del
Bain, che nei casi della quistione di Wewell non si tratta d'una transizione
incerta o indeterminata: gl'individui anomali il pi spesso vengono senza
esitazione ricondotti a una classe, non vi ha dubl)o ch'essi appartengano a una
specie o a un genere dato. Ma anche il fatto d' una transizione incerta sarebbe
una dilTcolt grave per la dottrina del Bain della definizione e della
connotazione dei nomi: se vi hanno dei casi tali, che dubbio se gl'individui appartengano a una
classe data e se il nome generale debba applicarsi, ci prova che la classazione
e l'applicazione del nome non implicano l'affermazione di caratteri definiti.
La ditlicolt. contenuta nella proposizione del Wewell anche per il Bain pi grave che per il Mill:
ente che alcun altro ha espostoiliondamcnto di questa divisioTie. Dopo avere
rimproverato ad Hamilton che questi fa tutti i giudizi anahtici. perch
comprende nel concetto tutti gli attributi conosciuti del genere, egli dice: Il
concetto d'un genere;il mioconcetto d'uo sogliono avere per oggetto speciale,
non di spiegare il senso di un nome, ma di segnare dei limiti in una
classificazione scientifica. I logici antichi, egli aggiunge giustamente,
sembrano aver creduto che la definizione ordinaria (per genus et dii-ferentiam)
avea per oggetto di formulare la classificazione usuale e, secondo loro,
naturale delle cose. Nondimeno persiste a chiamare tah definizioni definizioni
di nome; perch eiili dice se l-i definizione
l'esposizione completa della connotazione del nome e gi per ci stesso
sufficiente a fissare i limiti della classe ed
quindi tutto ci che pu essere una definizione (ini) ' I nomi di una
nomenclatura tecnica (p. e. della botanica) hanno per connotazione, secondo il
Mill, i caratteri per cui la classe
defimta secondo lo scopo speciale propostosi: questa connotazione particolare, egli dice,
che fa il senso del nome, perch noi ci fondiamo sui caratteri per applicarlo.
Se ai primi caratteri si sostituiscono altri caratteri come pi i^roprii a
distinguere la specie, 1 senso del nome cangia, secondo l'autore, quatunque la
classe %Tr. V^V' P Uomo, egli dice altrove, nell'uso comune connota la
razionalit ma nella classificazione di un naturalista pu avere una connotazione
differente ; p. e. nel sistema di Linneo connota: quattro denti incisivi a
ciascuna mascella, dei canini solitari, e la stazione retta . La parola uomo ha
dunque due sensi differenti, quantunque denoti sempre la stessa cosa; e
l'ambiguit, aggiunge il Mill diverrebbe evidente, se supponiamo che si
scoprisse qualche nuovo ammale avente i tre caratteri di Linneo, ma non quelli
connotati nell accezione comune del nome uomo. I Linneani allora se ve ne
fossero, o dovrebbero chiamare questi nuov i animali uomini , o dovrebbero
abbandonare la classificazione, e con essa la sgn.flcazione tecnica del
termine. In verit l'esito dell'alternativa iiiMilia'aiimiiwa mo p. e., in
quanto distinto dalla mia
rappresentazione mentale d'un uomo individuale, racchiude, non tutti gli
attributi che io assegno alluomo, ma quelli soltanto di essi su cui riposa la
classazone, e che sono implicati nel senso del nome. L'uomo un essere vivente o Tuomo ragionevole, sarebbero dei giudizi analitici,
perch gli attributi vita e ragione sono del numero di quelli che si trovano gi
nel concetto uomo. Ma: Tuomo mortale,
sarebbe contato come un giudizio sintetico, poich, per proposta ai Linncani non
potrebbe essere dubbio: essi al)bandonerebbero la definizione, e
continuerebbero a fare del nome uomo lo stesso uso cbe ne facciamo noi. Ci
mostra che non sui caratteri definiti,
come vuole il Miil, che noi ci fondiamo per apiilicare il nome, e che una pura finzione il dire con lui che
l'autore di una nuova definizione scientifica cangia il senso del termine,
anche quando le cose denotate restano le stesse. Ma se si rigetta (juesta
finzione logica della connotazione dei nomi, diviene evidente, per la stessa
confessione del Mill, che una definizione scientifica, avenrio per oggetto
speciale piuttosto li stabilir*^ una classazione che di far conoscere fuso di
un termine, una definizione,di cosa
piuttosto che di nome. Nella dottrina del P,ain non vi ha pi distinzione
possibile tra definizioni di nonij e di co^a ; il senso in connotazione del
nome . Dire che un corpo solido,
eiuivale a dire che se la mia mano far pressione su di esso, io sentir della
resistenza, o i generale, che questo corpo olfrir della resistenzs, se una
causa esteriore tender a mutare la i>osizione reciproca delle sue parti.
Similmente, dire che un corpo ha un certo colore, e(iuivale a dire che se un
fascio di raggi luminosi cade sul corpo, esso rilletter certi raggi
determinati. Cosi fra proposizioni ipotetiche e categoriche pu stabilirsi una
differenza grammaticale, ma non logica. Proposizioni particolaii. Alcuni uomini
sono dotti non jotrel)l)e essere una
proposizione analitica, percida una parte dotto non un attributo del genere, e d'altra parte la
voce alcuni un termine dimostrativo, e
non attributivo, n pu (juindi niente aggiungere alla comprensione del concetto,
di cui non modifica die l'estensione. Se il concetto dotti fosse contenuto nel
concetto alcuni uomini , noi non itotremmo dire mai: Alcuni uomini
sonoignoranti. Tuttavia FRANCHI (vedasi) (Teorica del giudizio), sostiene che
questa una proposizione analitica, perch
l'attributo della dottrina inerisce o appartiene agli uomini di cui si parla,
cosi bene che la ragione, o qualsiasi altro attril)uto del genere, a tutti gli
uomini. Proposizioni negatile. Una tale proposizione esclude rattri])uto dal
soggetto, non lo include: come dunque potrebl)e l'attributo essere contenuto
nel soggetto, e il giudizio essere analitico? Tuttavia non hanno mancato dei
filosofi . tra cui citer Lindner (Compendio di logica formale, Dottrina
elementare, GALLUPPI (vedasi) (Saggio sulla critica della conoscenza, tomo 4 ^
38. smess CO prendere tutte le note che possono predicarsi della classe.
D'altronde il concetto dovendo rappresentare la natura o r essenza della cosa,
e questa natura o essenza non potendo consistere che nel complesso delle
propriet della cosa poich una essenza costituita solo da un minimum di propriet
non che una finzione metafisica (essenza
reale degli antichi) o una finzione logica (essenza nominale o logica dei moderni)
il concetto d una classe non pu essere quindi formato che dairinsieme degli
attributi della classe, e cosi ogni giudizio, almeno se universale ed affermativo, non pu essere che
analitico (v. specialmente FRANCHI (vedasi) Teorica del giudzio, lettera 2^ li
VI, lett. 4^ X, lett. 7^ XI, lett. l:> , ecc). ) e lo stesso Kant (Critica
della ragion pura, Analitica trascendentale), che hanno riconosciuto il
carattere analitico anche in tali proposizioni, in quanto, come dice il primo,
il giudizio anahtico hnporta che non si deve uscir fuori della comprensione dei
concetti, soggetto ed attributo, per vedere la loro compatibilit o
incompatibilit. Di fatti, quando diciamo luomo
un animale, e l'uomo non una
pianta, l'operazione mentale checiueste due proposizioni supi^ongono, non pu
ditlerire essenzialmente. Aggiungiamo elio talvolta le cose non potrebbero
meglio esser definito che per la negazione di qualche attributo. Se vi ha un
concetto della pianta, come non includere in esso l'assenza della sensi])ilitn,
quando i)er il maggior numero questo il
carattere distintivo fra la i)ianta e l'animale? Giadizi di relazione. Alcuni,
come Krause e Drobisch (v. FRANCHII (vedasi), Teorica del giudizio, lettera),
distinguono i giudizi die affermano una propriet che si trova nel soggetto
stesso, e quelli che affermano una relazione del soggetto con un termine
diverso da lui. I primi sarebbero analitici, e i secondi sintetici. Ma questa
distinzione necessariamente incerta ed
arbitraria GH attributi indispensaljili per costituire il concetto d'un
oggetto, se si ammette che possiamo formarci di questo oggetto un concetto
qualsiasi, non possono non annoverarsi tra i predicati che danno luogo alla
prima classe di giudizii. Ma che cosa rester del concetto dei corpi, se si tolgono
gli attributi, che loro provengono Contro questa dottrina si ripresentano
naturalmente, ma molto pi gravi, le obbiezioni gi fatte al giudizio anahtico
della divisione kantiana. La distinzione, ammessa in tutti i tempi, fra verit
necessarie (di cui V opposto
inconcepibile; e verit contingenti (di cui l'opposto pu concepirsi)
non compatibile con questa dottrina:
tutti i giudizii divengono necessari, perch direbbe una contraddizione colui
che negasse un attributo, il quale gi fa parte del concetto del soggetto. Ogni
giudizio infatti per questa dottrina non sarebbe che tautologico, e Tatto del
daha relazione con altre cose? Noi non conosciamo e non distinguiamo 1 corpi
che per la loro azione su noi stessi (sui nostri sensi) (i sugli altri corpi,
in una parola per le loro proi)riet relative e una proposizione che aiferma
ciascuna di queste propriet, esprime un giudizio di relazione.Giudizi
comparatici. Questa sarebbe la specie pi certa dei giudizi (h relazione: cosi
FRANCHI (vedasi) (V. op. cit. lett., ecc.) esita a riconoscere in queste proposizioni
il carattere analitico, anzi lo nega addirittura. Ma tanti altri filosofi, che
pure non estendono quanto FRANCHI (vedasi) la classe dei giudizi analitici, ma
ammettono la distinzione ordinaria in analitici e sintetici, dichiarano le
proposizioni comparative essenzialmeate analitiche, perch la relazione
scaturisce necessariamente dai termini comparati ed COSI implicitamente contenuta in (juesti
termini, che devono considerarsi come il soggetto del giudizio. Noi abbiamo
visto anche che gh esempli pi tipici delle proposizioni analitiche esprimono
dei giudizi comparativi. Cosi per la maggior parte dei filosofi che ammettono
la distinzione ordinaria dei giudizi analitici e sintetici le proposizioni
matematiche, che sono la classe pi importante dei giudizn comparativi, sono
delle proposizioni analitiche, e tra questi lllosoh bisogna comprendere anche
il Krause. In seguito parleremo pi diflusamente di quest'argomento: per ora
notiamo quanto deve essere oscura ed arbitraria la nozione del giudizio
analitico, quando gli stessi giudizi, che per alcuni costituiscono la porzione
pi importante, la sola importante quasi, deha classe dei giudizi analitici, por
altri invece sono i soli forse fra i giudizi categorici, che devono escludersi
da questa classe. Io non spinger pi oltre questa enumerazione, per amore di
brevit. I giudicare diventerebbe il pi frivolo esercizio dello spirito. Tutte
le proposizioni, o alm eno tutte le proposizioni generali, sarebbero verbali,
come dicono i logici inglesi, e nessuna reale e istruttiva. Ora, era gi
diffcile il credere che delle proposizioni come queste: Tuomo animale ,
ragionevole *, fossero puramente verbali, e non potessero apprenderci
niente pi del senso delle parole. Ma cUe diremo, quando si pretende che
proposizioni come queste altre: Fuomo un
mammifero placentato, la materia
grave, inerte , siano anch'esse
verbali e identiche?. Infatti, si volga la cosa come si vuole, se Il Bain,
ammettendo clie tutti i caratteri ultimi di un genere entrano nella
definizione, e che la definizione non
che l'analisi del senso in connotazione del nome, ha fatto un passo
considerevole verso la dottrina che tutti i giudizi (universali) sono
analitici. La dottrina presenta anche sotto la forma di Bain un aspetto pi
paradossastico, per la semplice ragione che, presso i logici inglesi, la
nozione del giudizio anahtico non si trova pi involta in una specie di
misticismo, come presso la pi parte degli altri filosofi, ma il giudizio
analitico chiaramente presentato come un
giudizio tautologico e verbale. Secondo il Bain, la proposizione: La
materia inerte , puramente tautologica e verbale. poich chi
comprende il senso (scientifico) di materia, sa che vi contenuta la propriet dell'inerzia (1'
espressione di questa propriet essendo la prima legge del movimento di Newton
). Cos pure . quando il naturalista espone tutti i caratteri ultimi di una
specie (e non importa se questi caratteri sono pi di dieci o di cento), egli
non fa che una proposizione verbale e identica: sia che i caratteri vengano
espressi tutti congiuntamente (nella definizione), sia ciascuno separatamente,
vi ha in amendue i casi, non una predicazione realCy ma rerbale. In verit il
Bain non espone questa dottrina senza fare delle riserve. Vi ha dei casi,
secondo lui, in cui la predicazione, in tali proposizioni, reale, e non verbale e tautologica, e questi
casi si riducono a tre: L Alcuno pu essere imperfettamente istruito delle
propriet di una classe complessa, quantunque ne sappia abbastanza^ per riconoscerla:
le propriet che egli ignora, necessariamente, non sono per lui implicate nel
senso della parola; ogni determinazione dunque, aggiunta a ci che gi implicato nella parola, questa
proposizione: ce il corpo grave
)> analitica, essa non vorr mai dire
altro che questo: e ci che e esteso, impenetrabile e grave, grave . Ammetttiamo pure che la proposizione
dica d'una maniera distinta ci che il soggetto diceva d'una maniera indistinta,
che in essa si dica esplicitamente ci che nel soggetto si diceva solo
implicitamente. Ma vero o no che, secondo
questa dottrina, prima di giudicare che il corpo grave, bisogna aver concepito gi il corpo
come grave, e quindi aver conosciuto che il corpo grave? Ma a che serve allora il giudizio? Del
resto, quand'anche noi avessimo, prima di costituir unairermazione sintetica o
reale. Ma questa determinazione nuova, una volta comunicata, compresa e
impressa nella memoria, cesser essa stessa di essere un predicato reale, e
diverr, a partire da questo momento, una proposizione verbale o analitica,
poich non far che ripetere ci che il nome suggerisce o connota da se stesso,
per ognuno di cui le conoscenze sono state -aumentate in questo senso. Tutte le
propriet nuovamente scoverte sono dei predicati reali, quando per la T>rima
volta si presentano a noi ; ma dacch sono state introdotte nella scienza, esse
divengono verbali . (Noi vedremo che su (juesta veduta si fonda una terza
dottrina intermediaria sui giudizi analitici e sintetici). 2. La proposizione
pu supporre il risultato d'un' induzione anteriore, la quale ha costatato il
fatto che le propriet d' una classe complessa o d'una nozione sono realmente
unite nella natura. Cosi delle affermazioni come le seguenti: L' affinit
chimica sottomessa a delle proporzioni
definite ; essa produce calore ; essa
seguita da un cangiamento di propriet , costituiscono una serie di
proposizioni verbali o analitiche, le parole affinit chimica esprimendo (piesti
tre tatti. Ma vi ha al fondo una predicazione reale, cio che l'unione in
proporzioni definite di due corpi
accompagnata da una produzione di calore e da un cangiameto di propriet.
3. La proposizione verbale pu utilmente essere impiegata come un memento, sia
che si voglia esporre un fatto conosciuto, sia che si voglia prenderio come
principio a fine di tirarne una conseguenza {Logica). Riassumendo, il Bain
ammette che, sotto la forma di una proposizione verbale o anahtica, pu
contenersi un' aflermazione reale o sintetica, e ci avviene quando la
[)roposizione comunica o rammenta la conoscenza fare questo giudizio: il corpo grave ^ la nozione del corpo come
"grave, sarebbe sempre un errore di credere che il senso di (juesta
proposizione sia quello che devono supporre i filosofi che la ritengono
analitica. Ci che noi intendiamo dire effettivamente per (jnesta proposizione,
sia la prima volta o no che noi la torniamo,
che un tatto generale nella
natura che par tutto dove vi ha materia neir universo, riuesta materia sempre grave; che non sincontra mai il caso
che vi sia un corpo, ma npn sia grave; insomma che esiste o non esiste (lualche
cosa nella realt, un latto o una legge, e che
questo Toggetto della nostra affermazione. Al contrario, un giudizio
ana(li qualche fatto, di (iiialclie coesistenza di attributi. Ma evidente? che 1 casi clie il Bain d come
eccezioni, costituiscono invece la regola, e che l'eccezione quando una delle proposizioni, che egli
chiama analitiche, ha per oggetto di spiegare una parola. Tuttavia la quistione
. si pu dire, senza interesse, quando si tratta unicamente di apprezzare la
dottrina dei giudizi analitici. Sia una serie di proposizioni, in cui si
contenga la descrizione di una specie naturale, p. e. deU' ossigeno, la
enumerazione deUe sue propriet fondamentah. La forma tecnica e corretta di
queste proposizioni sarebhe, dice il Bain, questa: esiste nella natura un
aggregato di (lualit che sono: la materia, la trasparenza, lo stato gazoso, un
peso speciftco e un potere di combinazione determinati, e cosi di seguito: a
questo aggregato di propriet si applicato
il nome di ossigeno. Vi ha qui dunque al tempo stesso una proposizione reale:
esiste nella natura un aggregato di qualit, ecc., e una proposizione verbale: a
quest'aggregato si dato il nome di
ossigeno. Il Bain considera contuttoci come verbaU le proposizioni contenenti
la descrizione deU'ossigeno, come se esse avessero per oggetto principale di
darci la conoscenza dell'uso di un nome, e solo accidentalmente ci dessero la
conoscenza di un fatto; altri pi facilmente considerer come oggetto piicipale
la conoscenza della cosa, e come accessorio quella del nome. Ma in seguito
viene la quistione: una proposizione verbale , in quanto verbale, una
proiX)sizione analitica o tautologica? Al contrario, essa una proposizione istruttiva e sintetica ;
essa c'istruisce sulluso di un nome, ci fa conoscere un rapporto particolare di
concomitanza fra una parola e la presenza di una classe determinata litico non
pu avere alcuna presa sulla realt, sull'esistenza : esso afferma che un
oggetto, che pu essere reale o solo possibile, il quale insieme ad altri
attributi abbia la gravit, grave; ma se
vi siano o no dei corpi gravi, di oggetti o la loro rappresentazione. Le
proposizioni verl)ali, dice il Bain, ci apprendono, da un lato, qual nome
bisogna applicare a una cosa data ; e dall'altra parte c'insegnano il senso
d'una parola data . questo dunque che
intendono i logici inglesi chiamando verbale una proposizione: il Mill
definisce le proposizioni verbali della stessa maniera. Cos essendo,
proposizione analitica per i logici inglesi, vuol dire, non proposizione verbale
(che una specie di proposizione
sintetica), ma proposizione identica tautologica. Ora una proposizione
tautologica non una proposizione, nel
senso logico di questa parola: essa
tanto una proposizione quanto una petalo prlncipU un ragionamento. La petitio pruicipu SI d
l'aria di essere un ragionamento; cos la proposizione tautologica si d l'aria
di esssere una proposizione. Essa come dice lo stesso Bain, non che un' attenuazione apparente,' e non non ha
che la forma esteriore, vebale, della proposizione dib. L e. 2, 7): in quesLo senso che pu dirsi meritamente
prol)osizione verbale. Una proposizione identica o tautologica dunque una proposizione ingannevole,
sofistica, il cui carattere essenziale e di dare l'illusione, solauienie
l'illusione, di aver affermato y, interpretata in comprensione significa che il
latte produce su noi questa sensazione determinata; interpretata in estensione,
significa che il latte deve annoverarsi fra gli oggetti bianchi. La prima
afferma l'esistenza d'un fatto reale; la seconda un'assimilazione del latte ad
altre cose, una classazione. Questi due sensi differiscono certo logicamente,
ma sono due giudizii diversi. Ora, di questi due giudizi quale quello che somiglia di pi al tipo degli
anahtici? certamente quello in
estensione, perch non afferma che una classazione come quest'altro: l'uomo un animale Noi potremmo conoscerlo
confrontando semplicente tra loro le nostre idee; perch avendo l'idea del latte
quale lo abbiamo osservato, e l'idea degli altri oggetti che diciamo bianchi,
noi vediamo subito che il latte deve entrare nella classe di questi . Esso cosi a priori e necessario, mentre la stessa
proposizione, interpretata in comprensione,
a posteriori e contingente. Noi vediamo dunque qui un' inconseguenza
della dottrina dei concetti; percli il giudizio in comprensione potrebbe essere
analitico, ma non il giudizio in esten'Sont\ nel quale per assegnare Tattributo
si esce necessariamente dall'idea del soggetto: ci tanto vero che alcuni, come FRIES (Critica
della ragione), hanno ricondotto i giudizi analitici a quelli in comprensione,
e i sintetici a quelli in estensione. ^ 17. Noi possiamo ora riassumere con
poche parole i risultati i>i importanti di questa discussione sulla dottrina
concettualista del giudizio e sulle diverse maniere di determinare la
comprensione del concetto, su cui si fondano le digerenti i'oi-me di (juesta
dottrina. Se nel concetto si comprende solo una porzione determinata degli
attributi della classe, questa una
finzione, smentita dalla connotazione reale dei nomi ; se invece si
com[)rendona tutti gli attributi della classe,
un'altra finzione, ])ereli bisogna ammettere un concetto campato neir
aria che non il concetto di nessuno, o
almeno un concetto che non mai
elfettivamente pensato quale esso . Se il inaino modo di determinare il
contenuto del concetto non compatibile
col senso in den(jtazione del nome soggetto, il secondo modo non compatibile con la costanza nella
significazione delle parole, che non si tonda su altro che sulla loro connotazione
costante. Se infine il giudizio sintetico conduce inevitabilmente alla
realizzazione delle astrazioni, il giudizio analitico non alla sua volta che un frivolo giuoco dello
spirito. Un osservazione esatta sulla connotazione dei nomi ci mostra poi che
il senso attributivo erazioni. se prima non si
fermato questo punto, che ai nmni ixenerah corrisi>ondono, non delle
idee genoi*ali e astratte, ma rielle idee di latti [articolari e concreti. Ci
che solitamente si (lice un' idea generale, non
dunque che ini nome ili classe, col corteggio delle rappresentazioni
associate, pronunziato o inteso mentalmente, cio, come dice il Taine, *ercepito
o immaginato, sveglia in me la rappresentazione sensibile, pi o meno espressi^,
d'un individuo della classe; questo legame
esclusivo; esso non svegha in me la la rappresentazione d'un indivivuo
cVun'altra classe. D altra parte, tosto che io percepisco o inunagino un
individuo della classe, immagino questo suono stesso, e sono tentato di
pronunziarlo; questo legame pure esclusivo;
la presenza reale o mentale d'un individuo d'un ahra classe non lo evoca nel
mio spirito e non U> chiama sulle mie labbra (Taine Lintelligenza). Non vi
ha cosi alcuna difficolt sul significato dei nomi, quando si considerano
ciascuno isolatamente: il significato della parola uomo di denotare questo o quelli > degli
oggetti appartenenti alla classe uomini; il significato volosi, (inali i
centauri e simili mostri della aiilologia. si lliiij:(n'an delle specie
ditl'ereiiti insepara])ilniente leprate e riunite in un essere unico. Ciirito
umano di credere neres-iar/c (luelle connessioni tra i fatti che gli sono
estremamente familiari. (V. Saprgio) ^ della parola bianco di denotare ({uesto
0 quello degli oggetti appartenenti alla classe delle cose bianche. Ma che
avviene quando due termini sono in congiunzione, p: e. un sostantivo e un
aggettivo, uomo e bianco? Allora Tuno dei due termini, p: e: Taggettivo,
determina o circoscrive in limiti pi stretti il significato dellaltro termine,
del sostantivo. Uomo bianco significher non uno qualunque tra gli oggetti della
classe uomini 0 della classe bianchi, ma uno qualunque soltanto tra gli oggetti
che possono classarsi al tempo stesso tra gli uomini e tra i bianchi. Tale la funzione delFattributo nella proposizione:
bisogna dun(|ue guardarsi dal credere che, poich l'attributo e il soggetto sono
due nomi distinti, noi nella proposizione necessariamente uniamo due idee
distinte. Alcuni uomini sono bianchi non esprime la congiunzione ileiridea
della bianchezza con Tidea di alcuni uomini: ma noi, per questa proposizione,
ci rappresentiamo certi oggetti, a cui conviene tanto il nome d'uomo quanto
(j[uello di bianco, e ne affermiamo l'esistenza. Noi abbiamo distinto nel
significato dei nomi la denotazione e la connotazione: il nome denota gli
oggetti a cui esso viene applicato, e connota, non un attributo astratto o un
gruppo di attributi astratti, come vogliono i concettualisti, ma una
somiglianza dell'oggetto con gli altri oggetti a cui il nome stato dato. Tuttavia il vero significato del
nome e la sua suggestione, cio le rappresentazioni (particolari) che esso
suggerisce. Noi possiamo chiamare questa suggellane del nome la sua denotazione
suhbiettiea, poich il nome non associato
soltanto con degli oggetti reali (denotazione obhiettica del nome) ma esso pu
richiamarci le idee tanto di oggetti reali quanto di oggetti possbili o anche
semilicemente immaginari. La connotazione del nome segna i limiti della sua
denotazione iOinio obbietti e a quanto subbiettira: \a\e a dive, il nome pu
suggerirci qualsiasi rappresentazione che abbia il grado definito di
somiglianza, connotato dal nome, con le cose a cui il nome stato dato. Ma il senso del nome, quando esso
si unisco, con un altix) per formare una i^roposizione, domanda altre spieIn
una proposizione il soggetto pu essere un termineparticolare 0 generale, ma
lattributo , di regola, generale: nondimeno i tatti che noi affermiamo, e le
idee che ne abbiamo, sono sempre particolari. Un predicato generale non
determina il fatto affermato d\ma maniera assoluta; lo determina genericamente,
ma non individualmente. Ma ci non vuol dire che noi ci formiamo del fatto delle
rappresentazioni indeterminate e semplicemente generiche; solamente, noi non
intendiamo affermare con precisione resistenza di un tal fatto determinato, ma
di uno od un altro tra quelli compresi in una classe determinata. Se io affermo
che io morr, io posso immaginarmi morto sul mio letto, neir estrema vecchiezza,
e con altre circostanze determinate: ma io non potrei affermare che il fatto
avverr precisamente cosi; io potr morire vecchio o giovane, sul mio letto e
dopo una lunga malattia, o sulla strada per un accidente o perla mano (Fun
assassino, ecc.. Tutte le mie rappresentazioni sono di casi determinati,
ga/.ioni. !1 nomo soggetto, dicono quasi t'itti i lo-ici, si prende nelln sua
estensione (denotazione); ma il nome predicato si prende (il pi smesso almeno)
nella sua comprensione. Ci potrebbe far supporre cli3 la predicazione non possa
avere per noi altro senso che di attribuire ci che il nome connota, cio
Tassimilazione, Taggregazione ad una classe determinata. Ma non cosi: la predicazione non ha en'etivamento
(piesto senso che nelle proposizioni interpretate, come si dice, in estensione,
ma non in quelle che s'interpretano in comprensione. (L' uomo mortale, interpretata in comprensione,
significa che tutte le volte che noi conosciamo l'esistenza di un uomo,
possiamo imferirne che esso morr; interI>retata in estensione, significa che
gli uomini vanno aggregati alla classe dei mortali). In che consiste dunque il
senso in comprensione della predicazione? L'estensione di un nome, quando esso
diventa predicato in una proposizione, si restringe nei limiti dell'estensione
del soggetto: mortale, nella proposizione: l'uomo mortale, non denota pi tutti i mortali, ma
solo una parte, gli uomini. Ma la estensione o la denotazione del nome soggetto
non viene modificata per la sua congiunzione col nome predicato. Tuttavia ci
non vero che per la denotazione
obbiettiva del soggetto ; ma per la 8t ed io affermo che uno o un altro di
questi casi si verificher; ma la mia mente vaga dall'uno all'altro, e non sa
decidersi con sicurezza per questo o per quello. Io trovo possibile che
ciascuno di questi casi avvenga, ma dubito se realmente V uno o Y altro avverr:
ci che io assolutamente escludo
qualsiasi affermazione che mi rappresentasse la serie dei fenomeni che
io chiamo la mia vita, come prolungantesi indefinitamente. Per indicare (juesto
stato del nostro spirito, cio questo vagare da una idea airaltra, questa
indecisione del nostro giudizio, questo trovare possibile uno qualunque tra una
classe di fatti, ma impossibile ogni altro che esca fuori della classe, noi
diciamo di avere un'idea generica o astratta; e l'assegnare sua denotazione
subbcettlca il caso differente. Uomo ed
uomo mortale denotano gii stessi oggetti reali; ma la suggestione di uomo e pi
estesa che la suggestione di uomo mortale. Il nome uomo sarebbe anc^he
applicabile a degli esseri immaginari, simili in tutto all'uomo, ma immortali.
La proposizione: l'uomo mortale, afferma
che non esistono di tali esseri, che noi non dobbiamo rappresentarci come reali
uomini immortali, ma soltanto uomini mortali. Adunque la restrizione nella denotazione
del soggetto e del predicato,dovuta alla loro congiunzione, reciproca: anche il predicato viene a
restringere la estensione o la denotazione del soggetto, la sua denotazione
subbiettica, quantunque non la sua denotazione obbiettra. La suggestione dei
due nomi accoppiati nella proposizione
pi ristretta che quella s dell'uno che dell'altro separatamente
presi. su questa restrizione che il
predicato apporta nella denotazione subbiettiva del soggetto, che si fonda il
senso in comprensione della predicazione. Vi hanno tuttavia dei casi, in cui il
predicato non pu apportare alcuna restrizione alla denotazione subbiettiva del
soggetto a cui si unisce: allora la proposizione non ha alcun senso in
comprensione. Ci avviene tutte le volte in cui il nome soggetto non sarebbe
applicabile ad alcun essere (reale o possibile), a cui il predicato non fosse
pure applicabile. Noi non daremmo il nome di uomo a qualsiasi chimera della
nostra immaginazione, a cui non pottessimo dare anche il nome di animale: noi
non chiameremmo mai corpo ci che non potessimo chiamare anche esteso. Uomo e
uomo animale, corpo e corpo esteso, hanno la stessa denotazione subbiettiva ;
quella del soggetto non viene per attributo un termine generale non solo una necessit del linguaggio, ma anche Tespressione o il simbolo di questo
stato mentale. Quando la proposizione
generale, in altre parole, quando il soggetto della proposizione ancli^esso un termine generale, questo
termine significa, non, come Tattributo, uno o un altro dei casi d\ma classe,
ma la totalit. Questi casi, e quindi il significato della proposizione
generale, possiamo dividerli in due porzioni: Funa definita sono i casi clie
abbiamo osservati o altrimenti conosciuti; Taltra indefiniiasono quelli che non
abbiamo osservati ristretta per la sua unione col predicato. questo fatto che Tu intravisto dagli autori
delia dottrina del giudizio analitico. Ma non bisogna dimenticare che la
proposizione in questo caso non ha alcun senso in comprensione, ma solo un
senso in estensione, la predica/ione consistendo nella classazione, ossia nella
contenenza del soggetto neir attributo, e non nella contenenza dell' attributo
nel soggetto, come vuole (luella dottrina. Vi lia pure un altro caso, nel quale
deve dirsi che la predicazione in
comprensione, ma nondimeno il predicato non restringe la denotazione
subbiettiva del soggetto. Ci conviene quando il predicato
appartieno?iecessaramente al soggetto, in modo che sareb)e impossibile di
concepire il soggetto senza il predicato. Sia ])er esempio la proposizione: 1
raggi del cerchio sono eguali. Eguaglianza non restringe la denotazione
subl)iettiva di Raggi del cerchio . essendo inconcepibile un cerchio che non
abbia i raggi eguali. Allora, come mostreremo in seguito, la predicazione
non r aiTermazione deiresistenza di un
fatto; la proposizione non atferma che il soggetto esiste d'una maniera
determinata, ma atferma un rapporto di somiglianza o di differenza. Adunque
questa seconda eccezione sostanzialmente
identica alla prima (al giudizio analitico, in cui non vi ha alcun senso in
comprensione), poich si tratta, in amenroposizione La giustizia comanda il
rispetto la stessa che (luest'altra: Le
persone giuste sono rispettate. Ma la
parola astratta indica qui, con pi forza che ogni altra espressione, questo
fatto che l'effetto prodotto, cio il rispetto, ha per causa unica il rapporto
che esiste fra tutte le persone giuste (in altri termini, esso dipende da ci.
che queste persone sono giuste, che si
fondati a chiamarle cosi o ad ammetterle in questa classe) I termini
astratti sono dei possenti mezzi di abbreviazione; ed per questa ragione che sono stati introdotti
in cosi gran numero nel linguaggio ordinario. Le circonlocuzioni a cui si obbligati d ricorrere per evitarli, Inastano
a provare la loro utilit sotto questo rapporto Un esercizio logico importante,
destinato a scovrire gli errori che mantiene Fuso delle parole astratte,
consiste a convertire le proposizioni presentate sotto ferma astratta in
proposizioni equivalenti composte di nomi generali che non siano astratti (Bain
Logica. Classazione dei giudizi. Dopo avere stabilito che l'oggetto del nostro
pensiero e delle nostre affermazioni sono sempre dei fatti concreti e
particolari, noi dobbiamo ora domandarci che cosa che affermiamo di questi fatti. Noi possiamo
dire d'una maniera generale che le proposizioni si riducono airaffermazione o
negazione delFesistenza di certi fatti particolari. Per prevenire dei
malintesi, aggiungeremo che per fatto o il suo equivalente fnomeno intendiamo
un oggetto, reale o possibile, sia dei sensi esterni, sia del senso intimo, o
della coscienza. Sarebbe desiderabile di avere un termine per denotare ci che
pu essere Foggetto immediato d'una sensazione unica o d'un atto unico della
coscienza (p: e: un suono, un odore, un piacere, un dolore, lo stato in cui un
oggetto si presenta alla nostra vista per un istante indivisibile, ecc:), un
altro termine per denotare i percepiti pi semplici in cui ci che cade sotto una
sensazione unica, ma complessa, pu decomporsi (p: e: i minimi visibili di cui
si compone Foggetto della vista), e un altro termine ancora per denotare i
percepiti pi complessi che noi non potremmo abbracciare che per pi sensaziont
distinte (p: e: un cangiamento o un gruppo di congiamenti). Ma questi termini
non li abbiamo; perci noi indichiamo uguakuente con la parola fenomeno gli
oggetti appartenenti alFuna o all'altra di queste tre classi di percepiti. In
generale possiamo dire quantunque abbiamo distinto pi classi di fenomeni
secondo il grado della loro semplicit o della loro complessitche il
fenomeno Velemento della realt
sensibile, al punto di vista dell'ordine successivo con cui noi ce ne formiamo
Tidea. Gli oggetti esteriori da una parte, e dall'altra parte l'interiore di
noi stessi che noi chiamiamo spirito, sono dei complessi di lenomeni: noi non
conosciamo altrimenti la realt che come un tessuto di fenomeni. Ci si obbietter
forse che di questa maniera noi prendiamo di leggieri per accordato che solo la
realt sensibile esiste, e che non vi ha altra realt; ma in verit noi non
facciamo per ora questa supposizione. Tutti i nostri discorsi familiari e tutte
le proposizioni scientifiche non volgono clic sulla realt sensibile: quindi le
pi semplici ragioni di metodo c'impongono di portare immediatamente la nostra
analisi sulle proposizioni che volgono su questa sorta di realt; poi le nostre
conclusioni potranno estendersi al sovrasensijile, se si trover che possiamo
affermarne qualche cosa. Noi dobbiamo aggiungere ancora che, quando diciamo di
qualche astrazione, p. e. della gravit, che
un fatto, ci deve intendersi come una maniera abbreviata di dire che gli
avvenimenti concreti, di cui la proposizione, p. e. la materia gmvc *,
l'espressione, sono dei fatti; poich il fatto non un' astrazione, ma, come abbiamo detto, un
oggetto, reale o possille, dei sensi 0 della coscienza. i^ 2. Per le
proposizioni singolari, chiaro che esse
non affermano so non l'esistenza di certi fatti: Socrate fu, egli fu
incarcerato, egli bevve la cicuta. Socrate aveva il naso camuso, afferma che
egli esist con questa particolarit nella sua figura, non altrimenti.
Quell'albero verde, vuol dire che vi ha
l un'albero verde, non di altro colore, a meno che non si voglia classare
quest' albero tra gU oggetti verdi, sorta di affermazioni di cui in seguito
parleremo specialmente. Negli esempi addotti l'affermazione categorica, cio incondizionale: ma in altri
casi l'affermazione ijiotetica. Se
inaffieremo la pianta, essa rester verde; Se Socrate non fuggir dalla prigione,
egli morr. Qui noi affermiamo pure l'esistenza, ma non d'una maniera
categorica, jensi d'una maniera ipotetica, o condizionale: noi affermiamo che
certi fatti avranno luogo, alla condizione che altri fatti abbiano o non
abl)iano luogo. Le proposizioni particolari si riducono pure con facilit a
proposizioni esistenziali. Alcuni uomini sono neri, vuol dire che vi hanno degh
uomini neri. Alcuni triangoli sono equilateri, vuol dire che o vi hanno nel
mondo reale dei triangoli equilateri, o almeno questi triangoli sono possibili,
cio possiamo formarcene la concezione. Alcuni animali sono uomini, significa
che esistono degli uomini, e che essi fanno parte della classe degli animali.
Noi mostreremo in seguito come una classazione si risolva nell'affermazione
dell' esistenza di certi fenomeni; per ora osserviamo che uomini, uomini neri,
triangoli equilateri, della stessa maniesa che Socrate e albero verde, non
indicano che delle presentazioni, reah o possibili, dei nostri sensi, e per
conseguenza, dei complessi di fenomeni, nel senso che abbiamo spiegato della
parola fenomeno. In quanto alle proposizioni generali, noi le abbiamo, nel
capitolo antecedente, risolute in proposizioni esistenziali, ammettendo che una
proposizione generale afferma che esistono certi fatti, o piuttosto, certi
gruppi di fatti, tali che loro conviene tanto il nome soggetto quanto il nome
predicato, ma non esistono altri fatti, tali che loro convenga il nome
soggetto, ma non il nome pi^dicato. In seguito per ne abbiamo dato un' analisi
pi profonda, riguardando una proposizione generale come un simbolo, che al tempo stesso un documento dei fatti
osservati (da cui stata tirata per
induzione), e una formula per tirare delle inferenze (cio delle deduzioni) sui
casi nuovi i cui antecedenti si presenteranno alla nostra osservazione. Il
significato d'una proposizione generale, a questo punto di vista, si risolve
dunque nelle affermazioni particolari, o meglio singolari, di cui essa un segno e che pu suggerirci. Essa , per dir
cosi, come un effetto commerciale: noi la scambiamo, da una parte, coi fatti
osservati, e dall'altra, con quelli che siamo in grado di predire; il suo
valore non che di convenzione, e il
valore reale non appartiene che alle affermazioni dei fatti osservati e di
quelli inferiti. Questo s(3Condo modo di considerare il significato delle
proposizioni generali mette in rihevo ci clie non fa il primo questo tratto
caratteristico di tali proposizioni, che
d'indicare una congiunzione di due fenomeni o complessi di fenomeni,
tale che, dato l'uno, noi possiamo inferirne l'esistenza dell'altro. Siccome
sotto il riguardo pratico, che il pi
importante, il significato di una ])roposizione generale appunto questo, d'indicarci che dalla
esistenza di certi fatti noi possiamo concluderne quella di certi altri, cosi
potrebbe credersi che il vero senso di queste proposizioni sia di affermare,
non i fatti stessi, ma la relazione tra alcuni di questi fatti (quelli che noi
possiamo concludere) e le loro condizioni (gli altri da cui possiamo
concluderli). L'acqua arruginisce il ferro, significa che, se il ferro si mette
in prossimit dell'acqua, esso far della ruggine. L'uomo un bipede
significa che, quando noi abbiamo tanto osservato 0 altrimenti
conosciuto d'un oggetto, che ci basti per dire:
un uomo, noi possiamo inferire la presenza in esso di due piedi.
Potrebbe sembrare perci che, in quanto alle proposizioni generali, Herbart ha
avuto ragione di ammettere che le categoriche sono anch'esse, in sostanza,
ipotetiche. Ma se si esamina la cosa pi minutamente, SI vedr che non cosi. Una proposizione generale, abbiamo
detto, un segno, con cui noi notiamo i
fatti osservati, e che ci serve di Ibrmula per tirare delle inferenze ad altri
fatti; per conseguenza il suo significato si risolve nelle affermazioni
particolari, di cui essa il segno, 0 che
ci suggerisce. Cosi, se la proposizione d'acqua arrugginisce il ferro ci
richiama i fatti osservati, l'affermazione
categorica: l'acqua si trovata in
prossimit del ferro, e dopo ci il ferro si
arrugginito. Se la proposizione CI serve in un caso nuovo, ma reale,
l'affermazione ugualmente categorica:
noi osserviamo l'acqua in prossimit del ferro; ne inferiamo: il ferro far della
ruggine. Se infine il caso, in cui noi tiriamo l'inferenza, non reale, ma semphcemente ideale, allora
l'affermazione ipotetica: se metteremo
il ferro in prossimit dell'acqua, il ferro far la ruggine. Cosi una
proposizione generale significa delle atferinazioni particolari, fra cui ve ne
lia delle categoriche, e ve ne ha delle ipotetiche. iMa il senso pi importante
d'una proposizione scientifica rsalvo, come vedremo in seguito, le matematiche
pure) il categorico: quello che importa,
in effetto, di conoscere il corso degli
avvenimenti reali, di sapere che i fatti che abbiamo osservati e quelli che
siamo in grado di predire, si sono svolti e si svolgeranno d'una data maniera o
con un ordine dato. Potrebbe credersi tuttavia che alcune proposizioni della
scienza sono puramente ipotetiche, in quanto esse non si verificano
rigorosamente che supposti certi dati ideali, a cui la realt non mai conforme. Tale la proposizione sul pendolo ideale, che esso
oscillerebbe perpetuamente, ovvero quella proposizione fondamentale della
meccanica secondo cui, se non intervenissero delle cause esterne, i corpi
continuerebbero a muoversi in linea ree con una prestezza uniforme. Non vi ha
infatti n posH^Wtffl-Brl^-gafc* m sibilo
al3uii pendolo ivalc die si conrormi alle condizioni del pendolo ideale, n un
corpo, p e. una palla che esce dal cannone, continua mai a muoversi in linea
retta e con la stessa velocit. Ma dire che le supposizioni espresse da questi
proposizioni della meccanica sono vere,
dire che esse sono conformi al corso reale degli avvenimenti della
natura, ai fatti che abbiamo osservato e a quelli che siamo in grado di predire
per il futuro. Cosi noi veniamo implicitamente ad affermare, per queste
proposizioni, che gli avvenimenti reali sono accaduti e accadranno d'una certa
maniera, (juella che giustifica le su[)i)Osizioni della meccanica, ed questa la parte pi importante delle
affermazioni c!ie esse contengono. Noi simboleggiamo il seguito dei fatti reali
delFosservazione con certe sequenze tipiche o ideali, che formiamo ])er r
astrazione o eliminazione di alcune fra le condizioni multiple dei fenomeni
reali; poi, nellapplicazione di queste regole ai casi concreti, abbiamo cura di
restituire ai fatti tutte le loro condizioni. Ma tutta la verit e V utilit di
queste sequenze ideali, astratte, consiste nella lero corrispondenza ai fatti
gi osservati dei casi concreti che costituis!3ono la loro base induttiva, e ai
fatti degli altri casi concreti su cui possiamo portare delle inferenze: r
affermazione volge dunque, in sostanza, sulFesistenza reale, e non su delle
possibilit o delle semplici ideaUt. Non ho creduto inutile di toccare questa
quistione, })erch alcuni filosofi, dopo aver ammesso che si pu a priori
stabilire qualche cosa neir ordine del possibile, ma non neirordine del reale,
il che in un certo senso vero, lianno
poi tracciata arbitrariamente la distinzione tra i due ordini, dando per
affermazioni sul puro possibile delle proposizioni che, come queste, concernono
invece resistenza reale. Bisogna notare che noi non affermiamo mai l'esistenza
d'un fenmenoo isolato, ma sempre quella d'un sur 09 gruppo di fenomeni,
successivi o simultanei, mettendo cosi ogni fenomeno di cui affermiamo
l'esistenza, in rapporti di precedenza, sequenza o coesistenza con altri
fenmeni. Infatti le nostre i)roposizioni affermano il lAii ordinariamente i
cangiamenti degli oggetti ; e quand'anche esse affermano la semplice esistenza
degli oggetti, non l'affermano come semplici fenomeni fuggitivi, ma come aveuna
permanenza nel tempo, una durata: ora siccome noi non conosciamo il tempo che
per la successione, noi non possiamo conoscere la durata che come la
contemporanea di una successione, e (piindi come consistente essa stein una
certa successione. Di pi, un oggetto concreto, non solo un aggregato di parti localmente separate,
ma ancora un complesso di pi propriet
sensibili, cio di pi fenomeni che noi percepiamo, non per un solo senso, ma per
diversi. E per esprimere il fatto d'una maniera generale, noi non affermiamo
mai un fenomeno dei nostri sensi come qualclie cosa d'isolato, ma o lo proiettiamo
nel mondo esterno, riconoscendovi cosi una parte di un aggregato fuori di noi,
oppure vi riconosciamo una sensazione nostra, mettendolo cosi in rapporto con
quest'altro aggregato che chiamiamo io. Aggiungiamo infine che (piesto fatto,
cio che noi non affermiamo mai un fenomeno isolatamante, ma sempre in
congiunzione con altri fenomeni, non che
una conseguenza delle leggi dell'associazione delle nostre idee, (h cui le
nostre conoscenze, le nostre affermazioni, non sono al fondo che dei casi. Noi
affermiamo un fatto, sia sulla fede della nostra memoria, sia in virt di una
inferenza. Nel primo caso, un po' d riflessione mostrer che noi non
distinguiamo un ricordo da una semplice immaginazione, se non perch sentiamo
che l'idea del fatto si presenta in una stretta connessione con le idee di
altri fatti, antecedenti, susseguenti 0 concomitanti. cosi che il fatto rapprentato ac(juista un
posto nella nostra storia personale; ])i (juesto I 100 corteggio di
associazioni numeroso e ben serrato, pi
questa localizzazione precisa e sicura,
e meno si esposti a confondere la
memoria con la semplice immaginazione ; ma pi le circostanze del fatto sono
scarse e debolmente associate, pi la localizzazione vaga ed incerta, e meno evidente il contrasto fra la memoria e rimmaginazione.
Se poi il fatto affermato un inferenza,
come potremmo noi non affermarlo nel suo rapporto con gli altri fatti,
antecedenti, susseguenti o concomitanti, da cui r inferenza viene tirata?
L'oggetto dell'affermazione non dunque
mai la semplice esistenza dei fenomeni, ma resistenza dei fenomeni con certi
rapporti di successione o di coesistenza. 4^ Per coesistenza deve intendersi la
simultaneit nel tempo o la coesistenza nello spazio. Ma la coesistenza nello
spazio non essa stessa che una specie di
simultaneit nel tempo, la quale non si distingue dalle altre che per la natura
speciale degli elementi sensoriali che entrano nelle nostre rappresentazioni di
spazio. Ci vero, qualunque sia Y ipotesi
che adottiamo sulF origine delle nozioni spaziali. Se noi ammettiamo infatti la
teoria nativista, nella sua forma pi logica, per cui la terza dimensione
non essa stessa, come le due altre, che
un dato immediato del senso della vista, noi dobbiamo ammettere che ogni punto
visibile lia immediatamente il suo posto determinato nel campo visuale, in
tutte e tre le direzioni. Questa posizione determinata una differenza sensoriale di ciascun punto
visibile, cosi bene che il colore ne
un'altra: questa differenza sensoriale, che noi potremmo chiamare il
carattere locale (non il segno locale) di ciascun punto visibile, il germe di tutte le nostre nozioni dei
rapporti nello spazio. Percepire dunque o rappresentarsi certi rapporti di
spazio fra due o pi punti (e con noi) non , secondo questa teoria, che
percepire o rappresentarsi simultaneamente questi punti, ciascuno sur 101 col
SUO carettere locale determinato, cio con la sua posizione differente nel campo
visuale. Naturalmente deve ammettersi che la sensazione della vista non pu dare
che le distanze apparenti: cosi le distanze, sia assolute, sia reciproche, in
cui noi vediamo questi pvmti, non possono corrispondere alle distanze reali,
che quando essi sono molto vicini a noi e fra di loro. Inoltre queste stesse
posizioni apparenti non possono esserci date dalla sempUce sensazione della
vista, che per gli oggetti che possono essere compresi in uno stesso campo
visuale, cio che possono essere veduti simultaneamente dall' occhio immobile.
Cosi, quando gli oggetti sono lontani, in modo erci aleuni osservatori, in un
senso, ( rai-i(me di anunettere che un cieco nato non ha alcuna coiKscenza dell'estensione).
I/ohblio o r ignoranza di nueLa diiferenza fondamantale tra la teoria nativista
e la empirica consiste, in ultima analisi, nel contenuto o significato
differente assegnato alle nozioni di spazio. La seconda teoria traduce
l'estensione in termini di movimento muscolare: secondo essa, dire che certi
punti no in certe posizioni reciproclie,
dire clie bisognano certi movimenti per i)assare da uno a un altro di
questi I)unti, (juesti movimenti essendo percepiti per la sensazione che
accompagna la nostra attivit muscolare, e che varia secondo la (quantit e la
direzione del movimento ( V. specialmente Bain / semi e /' liiteUl(ien.m, \
parte, e. V\ li, 2^ e 2 parte, e. V\ V, Della percezione delle distanze e delle
grandezze dei corpi esteriori), (vluesf analisi sembra risolvere Fidea
dell'estensione in un'idea di sequenza, mentre lestensione implica evidensla
verif la sorgente principale degli eTori
e delle conirovtM'sie suirorigin(i delle nozioni di spazio. Io annnetto la
teo-la initirier lo spazio visuale, e la teoria em/tfrira])Qv lo s]!azio
toltile. Si(M-ome le nozioni dello spazio tatlile non jossono risuitnre che
dalie esperienze sui)biettive del moviiuento, se ne coiicluso che anche ar!a come se la coscienza
fosse, non la stessa cosa clic i suoi pro|rii stati, ma uno si^ettatore che
guarda cpiesti stati, e pu, per un'illusione, vederli dive samente da quel che
sono in realt. Un punto luminoso che gira rai)idamente in tondo, proluce, non
le impressioni successive di un i)unto che si muove, ma l'impressione
sinmltonea di un (terchio di fuoco, perch, l'eccitazione di ciascun punto della
retina i ersisterdo jer qualche tempo doi)0 che esso stato stimolato, i d i versi punti della
retina si trovano contemporaneamente in uno stato di eccitazione. Noi non
ahliamo dunroduce l'impressione della sinuiltaneit; la simultaneit originariamente fra gli stati di coscienza
stessi, e noi non apprendiamo che questa simultaneit subbiettiva corrisponde a
una successione obbiettiva, che rettificando questa esperienza particolare per
altre esperienze. Delle rappresentazioni di seipienza, sia pure rovesciato. non
ci daranno che l'idea della se(pienza, non mai (juella ere o immaginare che vi
ha tra le cose una coesistenza reale, che
alcun che di distinto dalla doppia successione con cui noi la
]>ensiamo. anzi di opposto ad essa, senza formarci una idea di coesistenza,
che non e la doppia successione a cui Spencer l'iduce il rapi)orto di
(.'oesistenza. suhbiettivamenLe considerato? Se possiamo alTermare che vi ha
tra le cose una coesistenza i*eale, ciocche non
una dJueste sensazioni delle superfcie che costituiscono la nozione
deirinterno del corpo, noi non potremmo provarle che successivamente; tuttavia
la nostra affermazione che ci che ci sta dinanzi agli occhi un corpo, implica Taftermazioue deiresistenza
simultanea di tutte queste .superfcie, per tutto il tempo in cui la palla ha
esistito ed esister: ci vuol dire che ciascuna di queste superfcie noi non
potremmo o avremmo potuto vederla solamente in qualche momento determinato, ma
in qualsiasi momento, della esistenza passata e futura della palla, lo credo
inutile di spingere pi oltre que scanalisi, mostrando in dettaglio che le altre
propriet che noi attribuiamo alla palla, la durezza, la elasticit, la quiete o
il movimento, la temperatura, il suono, ecc.-, non significano se non che npi
proviamo preseutemente o proveremo o abbiamo provato, o potremmo o avremmo
potuto provare, certe sensazioni determinate. Solo bisogna aggiungere che
queste sensazioni, attuali o possibili, e le altre che abbiamo enumerato e
potremmo enumerare, noi non le affermiamo solamente di noi stessi, ma di tutti
gli esseri senzienti, o almeno di tutti quelli di cui ammettiamo che hanno gli
stessi nostri sensi e sentono come noi. Tali sono le nozioni che i filosof si
formano degli oggetti esteriori: delle collezioni di sensazioni, attuali o
possibih; taU sono pure quelle che se ne forma il volgare. Ma vi hanno tra le
nozioni dei filosof e quelle del volgare delle differenze che non bisogna
negligere. Anzitutto il volgare non ammettala distinzione che fanno i filosof,
tra le cose jn s e le cose relativamente a noi, cio ai nostri sensi; egli non
sa niente n di atomi n di centri di forza n di monadi n d' Inconoscibile n di
qualsiasi altra ipotesi sulle cose in s; Fidea ch'egh ha del mondo esteriore si
riduce unicamente, come quella di Stuart-Mill o di Bain, a delle semphci
sensazioni. Ma quest'idea differisce da quella di Mill e Bain, e in una parola,
degl'idealisti o fenomenisti, nei tre punti seguenti: P Le sensazioni possibili
cio quelle che non proviamo n abbiamo provato effettivamente, ma che proveremmo
o avremmo provato, se si verificassero o si fossero verifcate le condizioni
necessarie perch i nostri sensi venissero affettati non sono, pei filosof, niente
di reale ; non sono che delle mere possibilit. Ma per il volgare, cio per tutti
quelli in cui la riflessione flosofca non ha distrutto la credenza istintiva
del genere umano (alla quale del resto anche i flosof si conformano nella loro
maniera pi abituale di rappresentarsi le cose), le sensa::^ ioni possibili sono
r^ali non meno che le stesse sensazioni reah. Quando egli non guarda la palla,
tutto ci che il flosofo crede,
semplicemente che, se in questo momento egU guardasse verso la parte in
cui noi diciamo che Ja palla situata,
egli avrebbe la sensazione di una certa superfcie curva, bianca, ecc., Ma il
volgare crede invece che anche quando re
noi anticiiamo in un certo modo sulla seconda (juistione, questa persistenza
essendo uno di quei rapporti ira gli stati successivi di un oggetto, che, come
vedremo, ci fanno riconoscere questi come stati di uno stesso oggetto). Per
ispiegare in che consista la coesistenza in uno stesso oggetto di propriet
sensibili ciie noi percepiamo per sensi diterenti, si dice ordinariamente che
queste propriet sensibili non sono che degli etietti diversi di una stessa
causa, cio delle impressioni differenti che lo stesso oggetto produce sui
nostri sensi. Ma siccome Toggetto non
per noi che il complesso di queste impressioni differenti, attuali o
possibih, sui nostri sensi, noi non possiamo contentarci di (juesta
spiegazione, poich il tutto non pu essere certamente la causa delle sue parti.
Questa spiegazione suppone evidentemente, al di l delle nostre sensazioni, un ^
A' che la causa di queste sensazioni: se
non che in quesf iix)tesi resterebbe a spiegare come noi, non conoscendo niente
di questo .Y n della sua azione sui nostri sensi, sappiamo nondimeno che le
impressioni differenti dei nostri sensi sono degli effetti di un solo e stesso
A'. Per rendere conto dunque di questo fatto, cio dellattri'./fi 'mi m buzione
che noi facciamo a uno stesso oggetto, delle impressioni che esso produce sui
nostri diversi sensi, noi dobbiamo seguire un altro metodo, sostituendo ad AT e
alla sua azione sui nostri sensi, che un
altro A", qualche cosa di dato e di conosciuto. Vi ha, nel gruppo dei
sensibili che noi chiamiamo un oggetto, un nucleo, per dir cosi, centrale e
fondamentale, costituito dalle sue propriet visibili e tangibili: Testensione,
la forma, il colore, la resistenza e il grado di questa resistenza. di queste propriet che si compone la nostra
rappresentazione abituale dell'oggetto;
per esse che abitualmente noi lo identifichiamo, e lo distinguiamo dagli
altri oggetti. Un' altra circostanza importante
che a questo nucleo che
appartengono le qualit dei corpi che ci servono a spiegare i fenomeni; cosi la
fisica, che non lascia alla materia altri attributi che queUi che sono necesari
alla spiegazione dei fenomeni, non le attribuisce qualit sensibili che
lestensione, la figura e la resistenza. 11 nostro nucleo corrisponde dunque in
qualche sorta a ci che si chiamano le propriet primarie dei corpi :
sempUcemente, a queste noi aggiungiamo il colore, sia perch l'estensione e la
figura sono anzitutto, per noi veggenti, l'estensione e la figura visibih, e
queste sono inseparabili dal colore, sia perch il colore evidentemente uno dei mezzi pi importanti di
cui ci serviamo per identificare e distinguere gli oggetti. questo nucleo centrale e fondamentale dell'
oggetto, che, per la nostra rappresentazione,
in qualche sorta l' oggetto stesso, che noi dobbiamo sostituire all'
A" dei filosofi: ad esso che noi
do)3* biamo riattaccare le altre propriet sensibili dell'oggetto cio le altre
impressioni che questo fa sui nostri sensicome degli effetti diversi alla loro
causa comune. Noi ammetteremo dunque che, dicendo che un dato oggetto ha un
certo odore, un certo sapore, un certo suono, un certo grado di calore, ecc.,
ci che noi vogliamo significare
iiiiifigiHiiriif%"a che lina certa cosa visibile e tangibile, cio
che noi conosciamo e ci rappresentiamo come un che di esteso, di figurato, di
colorito e di resistente, la causa di
certe sensazioni, che noi abbiamo o potremmo avere, di odore, di sapore :, di
suono, di temperatura, ecc. Ci non vuol dire per che l'odore, il sapore, il
suono, il calore, non sono per noi che delle semplici sensazioni, che esistono
solamente nel momento in cui le sentiamo e in quanto le sentiamo. Il volgare,
al contrario, oggettiva queste sensazioni, cio, come abbiamo spiegato, egli
riguarda le possibili come reali, le considera tutte,*Ie attuali e \e
possibili, come indi|jendenti dagli esseri senzienti, e identifica quelle di
ciascun essere senziente con le corrispondenti che gli altri provano
simultaneamente. Ma che Fodore, il sapore, ecc., cosi oggetivati, siano
riguardati, non solamente come coesistenti tm loro e con gli altri sensibiU che
costituiscono r oggetto, ma come coesistenti in uno stesso oggetto, ci significa
semplicemente che le nostre sensazioni di odore, di sapore, ecc., vengono
riattaccate, come abbiamo detto, slVoggetto visibile e tangibile, come alla
loro causa comune. Naturalmente con lo
stesso principio che noi dobbiamo spiegare la coesistenza della propriet
tangibile del nucleo (la resistenza) con le propriet visibili (restensione, la
figura, il colore). evidente in effetto
che, se una certa resistenza clie noi abbiamo sentita, Tattribuiamo a un dato
oggetto, perch sappiamo che noi abitiamo
provato questa sensazione, portando la mano o un altro membro sulla superficie
colorata che quest'oggetto esibisce alla nostra vi^ta. Noi riguardiamo dunque
in un certo modo la resistenza come un efietto della parte visibile del nucleo.
In quanto alle stesse propriet visibili, noi supporremo eh' esse sono dei dati
originali della sensazione visuale (teoria nati vista): noi non avremo bisogno
perci di spiegare la coesistenza del colore con l'estensione da figura, e
vedremo in (jueste tre propriet tre punti di vista astratti di considerare uno
stesso sensibile. La coesistenza di pi i\ SUI r.iMiTi E l' oggetto deij.a
conoscenza a priori f propriet sensibili cio che noi percepiamo per sensi
diflerenti in uno stesso oggetto, non implica dunciue, oltre all'idea della semplice
simultaneit, che delle idee di causazione: noi aljbiamo visto che questa
non che un caso particolare della
sequenza. . Sul rapporto che deve esistere fra gli stati
successivi di una sostanza, perch siano riconosciuti come stati di una stessa
sostanza, noi non possiamo stabilire delle regole assolute. Vi ha fra questi
stati, non un rapporto definito e costante, ma una tendenza a un tale
rapl)orto. Il rapporto reale fra gli stati successivi delle sostanze
dell'esperienza non pu, per conseguenza, essere formulato in se stesso, ma solo
relativamente a questo ra[)porto definito e costante, a cui esso non fa che
tendere, e che noi dobbiamo considerare come un ideale, a cui le sostanze:
dell' esperienza non si conformano che d'una maniera approssimativa, e largamente
approssimativa. Per esporre il rapporto reale nelle sostanze dell'esperienza,
noi supporremo dunque il rapporto ideale realizzato in una sostanza ipotetica,
che sar per noi come il tipo delle sostanze: la definizione del rapporio ideale
in questa sostanza tipo ci dar in un certo modo quella del i^pporto reale nelle
sostanze dell'esperienza, jerch (juesto, come a>biamo detto, non pu
formularsi che in relazione a (|uello. Il nostro metodo somiglier in (jualclie
maniera a ({uello che alcuni logici hanno proposto per sopperire alla (hfficolt
che vi ha a determinare le classi naturali, riferendosi a certi caratteri
definiti: cio di sostituire alla definizione un tipo, vale a dire un caso della
classe, considerato come possedente eminentemente il carattere della classe.
(V. Mill Logica). Noi presenteremo come sostanza tipo l'atomo. Il carattere
della sostanza tipo, al punto di vista del rapporto tra i suoi stati
successivi, l'assoluta immutabilit,
tranne nei suoi ra])porti ih posizione con le altre sostanze. La sostanza tipo
conserva sempre le stesse propriei sensibili: se potesse essere un oggetto dei
nostri sensi, questi riceverebbero sempre da essa delle impressioni identiche,
e non percepirebbero mai in essa altro cangiamento che quello della sua posizione
nello spazio. Alla nostra sostanza tipo, cio airatomo, non si attribuiscono
altre propriet sensibili che V estensione coi suoi modi e la resistenza; ma
queste propriet sono sempre identiche: l'atomo ha costantemente la stessa forma
e la stessa grandezza, insuscettibile di
deformazione, di dilatazione e di compressione, e se noi potessimo trattarlo
con le nostre mani, ollrirebbe sempre ai nostri sforzi lo stesso grado di
resistenza. La stessa immutabilit, che compete alla sostanza tipo nelle
propriet che le appartengono considerata assolutamente, cio in se stessa, le
compete pure nelle propriet che le appartengono considerata nella sua azione
mutua con le altre sostanze: un atomo ha costantemente le stesse attitudini a
modificare gli altri atomi e ad esserne modificato va da s che, trattandosi di
atomi, o generalmente, di sostanze tipo, non pu supporsi altra modificazione
che r alterazione del loro stato di riposo o di movimento, perch, come a^biamo
detto, la sostanza tipo non suscettibile
di altro cangiamento che della sua posizione nello spazio. 11 cangiamento di
posizione dell'atomo come di qualsiasi altra sostanza, ipotetica o empirica ha
una condizione, la contumt: in una parola, il movimento contlnuo. Per questa continuit s'intende,
come si sa, che un corpo non pu passare da una posizione ad un allra senza
passare prima per le posizioni intermediarie. IMa qusta continuit assoluta? in altri termini, il corpo, prima
di passare a una nuova posizione, deve passare per tutte le posizioni
intermediarie fra di essa e l'antica? Io credo con SERBATI (vedasi) (v. Saggio
sulVorigine delle idee e Psicologia) e con r altri filosofi, che ci logicamente impossibile e contrad-, e che il
movimento continuo solo in un senso
relativo. Per questa continuit relativa del movimento bisogna intendere,
secondo me, che il cangiamento di posizione di un corpo si fa per una
gradazione insensibile, in modo che ogni cangiamento discernibile sia il
risultato e la somma di piccoli cangiamenti indiscernibili: in altre parole, fra
due posizioni successive di un corpo, che noi possiamo percepire come
differenti, s'interpone sempre qualche posizione intermediaria (una o pi), in
se stessa distinta certamente da quelle due, ma che noi non possiamo conoscere,
nel momento della percezione, come differente da esse. Le posizioni imme he la
continuit, nel senso assoluto, sia o no da attribuirsi al movimento noumeno
supposto che vi sia un movimento noumeno, cio che esistano delle cose in s e
che il movimento sia un loro attributo, ci che ci sembra evidente che noi non possiamo affatto attribuirlo al
movimento fenomeno, vale a dire al movimento come nostra percezione e
rappresentazione. In effetto, percepire il movimento d'un corpo non che percepire successivamente questo corpo in
posizioni differenti; tutto ci che noi percepiamo del movimento non che questo: la differenza nelle posizioni
successive di un corpo. Ora queste posizioni successi vp non possono formare
un'estensione continua, come sarebbe se la continuit del movimento fosse
assoluta. Fissiamo infatti un punto qualsiasi nell'estensione del corpo in
movimento: in ciascuna delle percezioni elementari successive, da cui risulta
la percezione complessa del movimento del corpo, noi vedremo questo punto
occupare un punto differente dello spazio. Se il movimento fosse assolutamente
continuo, il punto del corpo, per passare da uno a un [ altro punto dello
spazio, dovrebbe passare prima per tutti i punti intermediari. Ma i punti
intermediari tra un punto e un altro dello spazio sono infiniti, e il punto del
corpo non potrebbe percepirsi come occupante successivamente due qualunque di
questi punti, che con due percezioni distinte e successive: dunque la
percezione del movimento come continuo, nel senso assoluto, importerebbe, in un
tempo finito, un numero infinito di pervezioni successive, ci che impossibile e contraddittorio. Di pi, ammessa
anche g&gy^^^g^^l^^^ iiff.MiiiHa tt^sn^^siswsms^emmfim^ 2C,diatainente
successive clie un corpo pu occupare, sono dunque per noi indifferenziabili,
quantunciue distinte in se stesse; e per conseguenza noi possiamo assegnare,
come una condizione perch gli stati successivi di una sostanza siano
riconosciuti come stati di una stessa sostanza, che questa sostanza, nei suoi
stati successivi, cio nei jnomenti successivi della sua durata, sia o possa
essere percepita, o come occupante la stessa posizione nello spazi(j, .0 come
cangiante questa i)Osizione, ma per una transizione insensibile, in modo che la
posizione susseguente sia per noi indiscerni))ile dalla posizione
immediatamente precedente. r ipotesi di un'intnit di percezioni successive (in
ciascuna delle (luali il corpo fosse percepito in una posizione distinta), la
continuit assoluta del movimento sarel)])e sempre impossi})ile. In ell'etto.
che le percezioni successive delle posizioni distinte del corpo siano finite o
infinite, vi saranno, nell'un caso come nell'altro, delle percezioni
immediatamente successive. Consideriamo due (lualunquo di queste. Nella seconda
percezione ciascun ]>unto del corpo sar visto occupare una posizione
distinta da quella che era visto occupare nella prima; ma due posizioni del
juinto non possono essere distinte, che se vi ha fra di loro un certo
intervallo, per quanto sia piccolo; dunque noi abbiamo percepito, per queste due
percezioni, non un cangiamento assolutamente continuo, ma nn cangiamento in
realt saltuario (quantunque il salto possa sfuggire, e sfugga elTettivamente,
alla nostra osservazione, perch, come abbiamo detto, tra due posizioni
diterenziabili di un corpo s'interpone sempre
Le attitudini, le'gate a q^sS gruppi d, sensibili, a modificare altri
gruppi contemporanei o piendeia facilmenle che io non intendo qui parlare di un
Identit assoluta, ma di una certa identiti relativa, che sarebbe superfluo di
spiegare circostanziatamente). Riunendo una moltitudine di fenomeni successivi
in una nozione unica, e chiamando il tutto una sostanza, ci che noi vorremmo
dire, supposto, ci che non , che U "i nouiu (li sostanza non si accordasse
che alle sostanze perfette cio conformi alla sostanza tipo, non sar(3l)]jc
altro se non che in (jiiesti fenomeni, riuniti in questa nozione unica, si
verificano queste tre condizioni. Ma due d queste condizioni, la prima e
Tultima, nelle sostanze deir esperienza non si verificano mai rigorosamente.
Tutti gli esseri sono in un cangiamento continuo, si rispetto alle loro
propriet assolute che a (fuelle relative ad altri esseri: come diceva Eraclito,
niente permane, tutto diviene. Se le sostanze reali si conformassero pienamente
alle condizioni della sostanza tipo, ogni cosa dovrei )be avere sempre la
stessa forma, la stessa grandezza, lo stesso colore, lo stesso odore, ecc.; gli
esseri viventi non cangerebbero incessantemente, (^ome fanno, gli elementi
materiali ciie li costituiscono, n si svilupperebberoci che vale a dire (^.he
non vi sarebljero pi affatto esseri viventi; non vi sarebbe pi cangiamento
nello stato fisi(^o dei corpi ; ecc. Nondimeno
evidente che, per identificare gli oggetti, noi teniamo conto anche, e
principalmente, deiridentit delle i)roi)riet; in altri termini, che il segno pi
imi)ortante, per riconoscere che ciotremmo, per esempio, n3lla lenta
distruzione che il tempo ik di un oggetto, fissare il limite sino al quale noi
consideriamo ancora quest'oggetto come lo stesso; noi non potremmo nemmeno,
nella lenta evoluzione per cui si forma un essere vivente, fissare un momento
in cui noi i)Ossiamo cominciare a considerare quest'essere come gi esistente, e
riguardare Fembrione come lo stesso essere che la pianta o l'animale che esso
diverr in se contenere niente di pi che ci che
contenuto nella loro intuizione-, (juando cpiesta intuizione completa ed esatta ; noi possiamo tenere come
sufficientemente stajilito che non vi ha niente di pi, al punto di vista
obbiettivo, nelle nostre idee sull'universo sensibile, che dei fenomeni e dei
rapporti di successione e di simultaneit tra questi fenomeni. Qui per dobbiamo
mettere in guardia il lettore contro una generalizzazione troppo assoluta. La
proposizione che tutte le nostre idee sull'universo sensibile non contengono
niente di pi che delle sequenze e coesistenze di fenomeni, non rigorosamente vera che per la parte di
quest'universo aperta ai nostri sensi esterni: per l'altra parte, quella che l'oggetto del senso interno o della
coscienza, cio lo spirito, non potrebbe essere ammessa senza siserva.
Certamente lo spirito, in quanto almeno noi Ijossiamo conoscerlo, non anch'esso, come la materia, che una
collezione di sensazioni, successive o simultanee: vale a dire, oltre alle
sensazioni propriamente dette, di sentimenti, d' idee, di volizioni, ecc. Ma
tra queste sensazioni successive e simultanee che compongono uno spirito, una
coscienza, non vi hanno, come tra quelle che compongono il mondo materiale e le
unit in esso esistenti, d^i semplici rapporti di successione e di simultaneit.
Mi sembra al contrario indubitabile che vi ha tra gli stati 0 porzioni di una
stessa coscienza un rapporto pi intimo, che fa che essi compongono una stessa
coscienza e non pi coscienze distinte ; un legame sui ge-, che non trova alcun
riscontro negli oggetti del mondo esteriore, e che, come tutti i fatti ultimi,
noi non possiamo definire, ma solo esprimere con le parole: unit o continuit
della coscienza. Questo fatto sar evidente, se si considerer una rappresentazione
complessa, costituita da pi rappresentazioni successive o simultanee, p. e.
l'immagine di un corpo in movimento, o semplicemente un'immagine visuale
(jualunque, anche istantanea, composta necessariamente di una moltitudine di
parti. Non chiaro che tra le
rappresentazioni parziali che costituiscono la rappresentazione totale, vi ha
un rapporto pi intimo che non vi sarebbe fra di esse, se ciascuna
rappresentazione distinta appartenesse a una coscienza distinta ? E qual la differenza tra i due casi, se non che tra
le differenti rappresentazioni vi sarebbe, nel secondo caso, un semplice
rapporto di successione o di simultaneit, mentre, nel primo caso vi ha fra di
esse, oltre questo rapporto, un altro rapporto sui generis, che noi non
possiamo indicare, se non dicendo che tutte queste rappresentazioni fanno parte
di una sola e stessa coscienza? Questo fatto che il Galluppi (v. Saggio sulla
critica della conosccn;^a tomo 4. e. 2. ed Elementi di filosofia t. 3. S.)
chmma. unit sintetica della percezione e del pensiero, bisogna distinguerlo
dslVunit metafisica del me che, con altri metafisici, egli ne deduce, se per
questa seconda unit s'intende, come fa questo filosofo, quella d'un substratum
sconosciuto dei fenomeni della coscienza, che resta sempre lo stesso nel flusso
continuo di questi fenomeni (sostanza me). Noi accettiamo il fatto, che ci
sembra incontestabile, ma l'ipotesi che se ne deduce, quella della sostanza me,
la lasciamo ai metafisici, riserbandoci di spiegarne rorigine nel Saggio.
Notiamo per incidtmte che, tacendo di essere il sinonimo di sostanza (\,.
(i*^), noi non ab])iamo inteso parlare che degli esseri materiali: lo
spirito clie d'altronde^ per noi, il
solo vero essere di cui possiamo atterinare l'esistenza non una sostanza, perch, coniti ben osserva Kant
(Analitica trascendentale, 1. 2, Scolio generale al sistema dei i)rincipii), la
sostanza importa la permanenza, e questa non compete che a ci che esiste nello
spazio (mentre lo spirito un divenire
continuo). In quanto all'unione tra lo spirito e il corpo, noi non abbiamo
nessuna restrizione a tare alla proposizione generale die il reale, i>er
quanto almeno noi possiamo conoscerlo, si risolve in sequenze e coesistenze di
fenomeni. Si visto in questa unione il
mistero per eccellenza; ma, qualunque sia il mistero, non che (juello generale della causazione,
l'unione tra lo spirito e il corpo non consistendo elle nei loro l'apporti di
azione reciproca; e noi sappiamo che la causazione, che che sia al senso
metafsico, non (' al senso fisico, cio empirico, che un caso della sequenza.
Tra i fatti di cui possiamo atlermare 1' esistenza, ve ne ha una classe
che in un contrasto cosi marcato con
tutte le altre, ed ha una si grande im[)ortanza intellettuale, che noi dobbiamo
farne una divisione distinta, opponendola a tutto il resto: sono le
somiglianze^ e le differenze che esistono tra i fatti. Noidobljiamo vedere
senza dubbi(j, anche in questi rapporti, dei latti particolari ; perch cosa pu
essere un rapporto di somiglianza di ditlerenza, se non ciuel sentimento
speciale che noi proviamo, (juando delle cose, che chiamiamo simili o
diferenti, ci vengono presentate insieme, e le mettiamo in confronto? Una
somiglianza o una differenza non
certamente una propriet che esista nelle cose in se stesse, perch essa
non esiste n nell' uno n nell'altro dei due termini del rapporto presi a parte,
e non esistendo in questi, non i)u esistere altrove fuori del nostro spirito,
poich nessuno immaginer clie una somiglianza o una differenza sia come un
tratto d'unione interiX)sto fra le due cose che diciamo simili o differenti. Un
rapporto di somiglianza u di difterenza non
dun(|ue qualche cosa di obbiettivo, ma una percezione, una veduta dello
spirito, clie mette in coiifwnto le cose. Se non pertanto noi ci esprimiamo
come se la somiglianza e la differenza fossero (jualche cosa di
obbiettivo, (juesta una circostanza che
non special, ai soU sentimenti di somiglianza
e di ditlerenza. Noi diciamo che due oggetti sono in se stessi simili o
differenti, nello stesso senso in cui diciamo che un'azione o una cosa in se stessa ])Uona o bella; noi intendiamo
di dire in questo caso che il sentimento del buono o del bello prodotto nel
nostro spirito, non (jualche cosa di
ar>itrario e di variabile, ma di costante e di necessario, in modo che la
capacit (H produrre questo sentimento determinato noi la consideriamo come
insei)arabile dalPazione o dalla cosa stessa. Della stessa maniera, affermando
che due ogge^tti sono simili o differenti, noi intemhaino (U dire che la
capacit di i>rodurre il sentimento di somiglianza o di differenza inseparabile dagli oggetti stessi; che vi ha
un legame necessario fra gli oggetti e il sentimento, tale che la
i)resentazione o la rajipresentazione dei primi svegli in noi irresistibilmente
il secondo. Donde si vede pure che, come le somiglianze e le diff*erenz(3 sono
anch'iisse dei fatti, cio dei fenomeni del nostro spirito d' una natura
particolare, cosi le affermazioni delle somiglianze e delle differenze rientrano
anch'esse in una delle (hie classi di cui abbiamo parlato sin qui, non essendo,
al fondo, cliedell(. affermazioni di sequenze d'una natura particolare. Per
l'affermazione di una somiglianza o una ditlerenza non si afferma niente
sull'esistenza dei fatti tra cui si stabilisce questo rapporto: i termini del
rap])orto possono essere reali o no, ci non fa niente alla realt del rapporto
stesso. Che esistano o no dei triangoli e degli angoli retti, nella natura, ci
non l'a niente alla verit della proposizione geometrica che gU angoli d'un
triangolo sono eguali a due retti. I giudizi della somiglianza e differenza
sonouna sorta di proposizioni ipotetiche, in cui noi affermiamo che, dati i
termini, vi sar una certa relazione fra di loro. Noi divideremo dunc^ue i
giudizi in due classi. Gli uni affermano resistenza delle cose, e questi, come
abbiamo visto, non affermano mai la semplice esistenza, ma resistenza
simultanea o successiva, la coesistenza o la sequenza; ancora questa sequenza o
coesistenza essi r affermano sia d'una maniera categorica sia ipotetica; cio
affermano ovvero che pi fatti coesistono o si seguono, ovvero che, dati certi
fatti, altri coesisteranno con essi o li seguiranno. I giudizi deiraltra classe
non affermano niente sulFesistenza delle cose, ma semplicemente la loro
somiglianza e la loro differenza. Sotto questi nomi noi comprendiamo
naturalmente Tidentit e la diversit, la eguaglianza e la disuguaglianza,. la
maggioranza e la minoranza, ecc. Perch la somiglianza ha molti gracU: se le due
cose sono simili in modo da essere indiscernibili, si ha un rapporto d'identit;
la somiglianza assoluta sotto un punto di vista particolare, p. e. del numero o
della grandezza, si chiama eguaglianza. Quando poi una grandezza uguale a una parte d'un'altra grandezza, noi
chiamiamo minore la prima grandezza, e maggiore la seconda. Osserviamo che la
somiglianza e la differenza non sono due fatti distinti e separati, ma un fatto
solo, visto da due lati: lo stesso dire
di due cose che si somigliano molto o che differiscono poco. La differenza
non dunque che un grado minore di
somiglianza, e non vi hanno cose talmente differenti che non siano pure simili;
p. e. i nostri stati di coscienza pi differenti hanno almeno fra di loro quella
somiglianza che permette ^ di classarli insieme, dando loro gli stessi nomi:
siato di coscienza, fenomeno, uno, ente, ecc. Noi diremo dunque, con un nome
unico, i giudizi della prima classe giudizi suWesistenza, e (luelli della
seconda giudizi sulla somi^ glianza. Sono (jueste le denominazioni che
esprimono con pi propriet la natura delle due classi; ma se vogliamo marcare la
loro opposizione per Tantitesi dei termini che li denotano, noi possiamo anche
chiamare i primi positivi, e i secondi comparativi. La nostra classazione del
giudizio coincide al fondo con quella ini , non si afferma solamente che h
seguir ad a, ma ancora che la sequenza tra a q h avviene secondo una sequenza
uniforme e in variai ie tra due tipi di fenomeni, di cui a e sono degU esempi
particolari. Per conseguenza una tale proposizione involge tre affermazioni distinte:
il rapporto (di sequenza o coesistenza) tra due fenomeni particolari, il
rapporto generale di cui esso un caso, e
la classazione del primo rapporto come un caso del secondo. Se poi diciamo, non
che a avr per effetto b, o die b ha dovuto avere per causa a, ma, supponendo
preconosciuta la sequenza tra a e h, clie a
la causa e b il suo effetto, allora delle affermazioni distinte nella
proposizione precedente, la prima viene a mancare, e non restano che le due
altre. L'affermazione pu anciie ridursi ad una sola, se si su[)[)one ])ure
preconosciuto il rapporto generale di causazione, di cui la causazione in
(luistione un caso particolare: in
(jucsta ii)Otesi, la proposizione che a
la causa di b, o che b l'effetto
di a, non che una sem}>lice
classazione, quella della sequenza tra a q b con le sequenze simili che sono
gli altri casi del rap[)orto generale (U cau-, e non esprime quindi che un
giudizio sulla somiglianza. Terminando, io far quest'avvertenza generale, che
ci nei sapitoli susseguenti sar detto sui giu(Uzi di somiglianza, non applicabile che (luando questi giudizi sono
stati distinti da quelli suiresistenza, con cui essi sono implicati, o con cui
potrebbero confondersi. ci che bisogner
sempre tener presente, i)er valutare le o))biezioni, che potranno presentarsi,
contro le proposizioni che stabiliremo sui caratteri speciali a questa classe
di giudizi, e la loro opposizione, al punto di vista particolare dell'argomento
di questo scritto, con ([ucUi di sequenza e di coesistenz Giudzi a priori e
giudizi a posteriori. La divisione dei giudizi in a priori e a posteriori,
ngGi'osaiaeiitc tracciata, corrisponde a quella, stabilita nel capitolo
i>recedente, in comparativi o sulla soniig lanza .3 positivi o sulla
esistenza. I rapporti di somiglianza e di differenza tra le cose noi possiamo
scoprirli per il solo esame delle idee di queste cose, e senza bisogno
dell'osservazione delle cose stesse. Quand'anche noi non avessimo mai fa,tto il
confronto attuale di tre oggetti, noi iiotreinino, consultando i nostri
ricordi, conoscere, pelli semj)lice conlronto delle rap!>resentazioni di
questi' oggetti, che due di essi sono pi somiglianti Ira di loro che col terzo,
per il colore, 0 per la forma, o per la grandezza, ecc. Noi ijotremmo pure
conoscere per lo stesso mezzo (luale di essi
pi grande e quale pi piccolo, e se due riuniti superano, per la somma
delle loro grandezze, 1 a grandezza dell' altro, o le restano inferiori.
Similmente per vedere che il verde non
il rosso, 0 che il rotondo non il
quadrato, cio che questi due colori 0 queste due figure sono differenti, noi
non abbiamo bisogno d'una comparazione attuale di questi colori 0 di queste
figure, ma ci basta la comparazione delle ler noi, quando si tratta di tali
proposizioni, il tii)0 della certezza logica, e il solo senso intelligibile che
[.uo avere in riuesto caso la parola certezza. 3 " Tuttavia, quantunque la
pretesa che l'esperienza non i)u dar luogo a proposizioni rigorosamente
umversali sia evidentemente illusoria, (luesta illusione e si generalmente
ditusa tra i metafisici, e si imposta
con tanta forza anciie a dei pensatori che, per lo spinto g;eneralc delle loro
dottrine, possono riguardarsi come dei campioni dell'empirismo lo scetticismo
di Hume e le opinioni di Locke sull'incertezza delle conoscenze positive
essendo appunto fondati su questo presupposto-, che noi non i)Ossiamo qui
dispensarci di accennare ai motivi psi-, da cui essa si origina. ( )tre alle
verit intuitive (cio a (luelle date immediatamente nell'osservazione dei latti
particolari), vi hanno, anche nei limiti delle propcjsizioni sull'esistenza,
delle verit o pretese verit generali con un grado tale di certezza che la
maggior parte delle conoscenze induttive non i.otrebbero oguagliario. Esse sono
delle inferenze, e l.cr conseguenza anch'esse induttive ; ma queste induzioni
si fondano sulle espei-ienze che ci sono le pi familiari di tutte. Non che una generalizzazione tirata da (mesti
fatti i pi familiari, sia logicamente meglio fondata di un'altra tirata da
fatti meno familiari: ma i^er una conseguenza delle leggi dell'associazione
delle idee, vi lia t tra lo due
si)eciedi proposizioni una direrenzsi psicologica, determinata dalla somma
disuguale delle esperienze. Ora tali generalizzazioni tirate dai latti pi
lamiliari, sono caratterizzate da ({uesta circostanza, che tra le idee che esse
uniscono, si stabilita una coesione cosi
intima, che non solo la loro certezza ci pare superiore a quella delle altre
proposizioni induttive, ma esse ci sembrano certe (Fun'evidenza intrinseca, vale
a dire, noi siamo disposti ad ammetterle indipendentemente dalla loro base
logica, dalle esperienze passate che esse generalizzano, e la coesione stessa
che noi sentiamo tra le idee, ci sembra nn criterio sufficiente della loro
vei^it. (Questo al fondo il sofisma a
priori di Stuart-Mill, che egli esprime sotto U(') dubitare. Si possono
prendere per esempio tutte le relazioni (U numeri; ti^e e due fanno cinque; noi
non possiamo concepire clie sia altrimenti. Noi non i)ossiamo per alcuno sforzo
del pensiero immaginare che tre e due facciano sette. Ci che dobbiamo
notare che questo non vero solamente delle verit matematiche (della
matematica pura) che si conoscono intuitivamente, ma anche di quelle cJie, \)(v
essere ammesse, hanno bisogno di una dimostrazione. Non solo una verit necessaria che due e due fanno
quattro, ma anclie (^iie gli angoli del triangolo sono eguali a due retti; noi non
possiamo concepire che tra la somma degli angoli del triangolo e due angoli
retti sarebl)e possibile un rapporto differente da quello che noi conosciamo
esistere realmente fra di loro, cio di eguaglianza. Nel seguito di questo
Saggio in questo stretto significato, di
un'assoluta inconcepibilit del contrario, che noi impiegheremo i termini
necessit e proposizione necessaria, ^ ij'' Gli arfioinenti di cui i filosofi
razionalisti si servono per istabilire la loro dottrina, talliscono dunriue il
loro scopo: Tuno non prova afiatto clie vi siano dei ;'u> dizi a priori, Y
altro non prova che vi siano dei giudizi a priori sull'esistenza. Ma non solo
la dottrina dei razionalisti manca di prove, essa presenta inoltre le pi gravi
difficolt intrinseche. Cn giudizio a priori anzituttto, nel senso dei
razionalisti, non pu essere che una necessita primitiva e inesplicabile del
pensiero. Di queste necessit bisogna ammetterne altrettante, tutte indipendenti
Ira di loro, quante sono le verit o pretese verit assiomatiche : non vi ha,
i)er le proposizioni che esprimono queste verit, una condizione generale per T
unione del soggetto e del predicato. N bisogna lasciarsi illudere dal
linguaggio metaforico dei razionalisti. Quando una verit o pretesa verit a
priori non dedotta da altre verit pi
primitive, essi dicono che si conosce intaiticaniente SemJDra che questa
espressione e le altre corrispondenti non siano che delle figure rettoriche,.
destinate a supplire in (jualche modo al difetto radicale della dottrina. Sia
p. e. l'assioma che due quantit eguali ad una terza sono eguali fra di loro.
Conosciuto che A uguale a B e che B uguale a C, noi conosciamo che A e C sono
eguali: questa conoscenza i razionalisti la chiamano un'intuizione. Ma ci vuol
dire forse che noi abbiamo la percezione attuale dell'uguaglianza tra A e C?
Certamente no, perch i razionalisti non ammetti no che noi conosciamo questa
eguaglianza immediatamente, ma che inferiamo da altre eguaglianze conosciute.
Che cosa vuol dire dunque, in questo caso, un" intuizione Lo abbiamo detto, non altro che una necessit
primitiva e inesplicabile del pensiero. Sia che la conoscenza delPassioma si
consideri come un possesso innato del nostro spirito (conformemente alla vieta
dottrina delle idee innate); sia che si consideri come accjuisita, ma si
sup[)Onga che sin dalla prima volta che abbiamo avuto la coscienza di due
quantit eguali ad una terza, (juesta coscienza
stata indissolubilmente legata a quella dell'eguaglianza di queste due
quantit fra di loro; e in {juest'ultima ipotesi, sia che si ammetta, con la pi
parte dei filosofi razionalisti, che airorigine noi apprendiamo la verit dell'assioma
per il confrondo dei concetti astratti, cio come principio generale, e che
(juando la riconosciamo nei casi particolari, non lo facciamo che per
un'applicazione di questo principio generale; sia che si ammetta mvece con
altri, come Locke e Stewart, che nei casi particolari noi conosciamo la verit
dell'assioma d'una maniera immediata: sarebbe sempre im[)0ssibile, nella
dottrina dei razionalisti, di assegnare una ragione perch noi uniamo il
soggetto della pro}>osizione col suo predicato; non che per un impulso cieco e istintivo del
nostro spirito, per una legge primitiva della nostra vita mentale, di cui si
deve rinunziare a dare una spiegazione. Di queste leggi primitive bisogna
aiiunetterne una i)er l'assioma di cui abbiamo parlato, un'altra per (juello
che le somme di quantit eguali sono eguali, altre i)er il principio di
causalit, per quello della sostanza, ecc.: ogni verit immediata supj)one una
legge particolare distinta; non vi ha, nella dottiina razionalista considerata
per se stessa, cio a parte le ipotesi sussidiarie di cui diremo nel paragrafo
seguente, alcuna legge superiore, che comprenda queste leggi particolari, e da
cui esse possano dedursi. Niente di pi naturale n di pi semplice della
spiegazione, che la teoria dell'esperienza d di questi fatti, ultimi e
inesplicabili per la dottrina razionalista. Possono i razionalisti mettere in
dubbio che nella nostra esperienza passata si trovano i fatti particolari che,
secondo la spiegazione empirista, servono di base induttiva alle verit assiomatiche?
ovvero negare che noi siamo portati costantemente a fare delle induzioni, a
generahzzare la nostra esperienza, ad estendere al futuro ci che sappiamo del
passato, a rappresentarci Fignoto e il non sperimentato a somig:lianza del noto
e dello sperimentato? Hanno essi mai dato una ])rova che queste verit si
trovano nel nostro spirito anteriormente airesperienza? Essi dicono solamente
ma noi abbiamo visto l'erroneit di queste atlermazioni die Tesperienza non pu
dar luogo a delle pro[)Osizioni necessarie e rigorosamente universali. In verit
anche la teoria deiresperienza arriva a un tatto, che esso stesso ultimo e inesplicabile. Perdio ci
rappresentiamo il futuro a somiglianza del passato, Fignoto a somiglianza del noto?
Si dir che questo un eietto delle leggi
delFassociazione delle idee? ma queste non possono ricondursi ad altre leggi
superiori, e sono, almeno per il momento, inesplicabili. (Questa del resto la condizione comune di tutte le
siegazioni della scienza: tutte devono fermarsi a un certo punto, al di l del
quale non si pu andare. Ma la dottrina razionalista non fa nemmeno il primo
i)asso: lungi di ricondurre i fatti a delle leggi generali, essa chiude gli
occhi sulle analogie pi evidenti, e li considera come isolati ed eccezionali.
La teoria delFesperienza non solo rende conto delForigine dei fatti mentali
che, secondo la teoria contraria, sarebbero inesplicabili, ma d pure Tunica
spiegazione che noi possiamo comprendere, di questa conformit tra il pensiero e
le cose, in cui consiste la conoscenza. Ma se noi ammettiamo che il nostro
spirito possiede delle conoscenze sul reale anteriormente alFesperienza, se
non rimpressione delle cose stesse che
determina le nostre credenze, com' che queste credenze possono essere vere?
Perch questa coincidenza tra il pensiero la realt? Che ragione si avrebbe per
supporre che i fatti obbiettivi devono corrispondere alle necessit subbiettive
del nostro spirito? Nell'ipotesi dei razionalisti la conoscenza non che un azzardo fortunato; un errore a priori
sarebbe cento volte [ probabile che una verit a priori. Nesoserebbe di
ammettere, alla vista di un ritratto ras*somigliante, che l'autore non ha mai
visto n altrimenti conosciuto l'originale, n niente altro che potesse
rappresentarglielo : ma non vi avrebbe niente di strano in paradosso, che non
si ritrovi esattamente nell'ipotesi razionalista. Ci che si deve notare che queste ditticolt della dottrina
razionalista non esistono nella nostra tesi sui giudizi a priori. Ad essa non
pu rimproverarsi, come a quella, l'assenza d'una condizione generale, che
spieghi l'unione del soggetto e del predicato. Questa condizione, nella nostra
tesi, che noi possiamo trasportare le somiglianze, osservate tra le
rappresentazioni, alle cose stesse rappresentate. N sorprendente in questo caso la coincidenza
tra il pensiero e la realt. Sostituiamo ai termini realt e pensiero gli
equivalenti sensazione e rappresenta:^ ione, o meglio sensazione forte e
sensazione debole. Un rapporto di somiglianza o di diferenza un'impressione prodotta nel nostro spirito al
seguito di certe sensazioni: per conseguenza, la coscienza della somiglianza o
della differenza legata a queste
sensazioni, tanto se sono originarie, quanto se sono riprodotte, tanto se sono
allo stato forte, quanto se sono allo stato debole, e i rapporti j3ercepiti fra
le nostre idee non possono non corrispondere a quelli percepibili fra gli
oggetti stessi. ^ %.!.'' Ci che abbiamo detto nel paragrafo precedente si
applica alla dottrina razionalista considerata nel suo concetto generale, cio
come consistente nella proposizione che afferma che i legami necessari (d'una
necessit sia assoluta sia relativa) tra le idee esistono indipendentemente
dall'esperienza e anteriormente ad essa, e sono ima propriet originaria del
nostro spirito. Ma i filosofi razionalisti si limitano raramente a questa
proposizione: la pi parte di essi alla tesi principale ed essenziale del
razionalismo agginngono delle ipotesi sussidiarie, destinate appunto ad ovviare
alle ditticolt di cui abbiamo parlato. Queste ditticolt sono due: lassenza
d\ina condizione generale, che spieghi lunione del soggetto e del predicato nei
diudizi a priori, e l'incomprensibilit, in questi giudizi, della coincidenza
tra il pensiero e la realt. (Quantunque (jucste ipotesi sussidiarie dei filosofi
razionalisti abbiano tutte per oggetto, in lin dei conti, di sopperire tanto
alFuna (pianto all'altra difficolt, tuttavia noi possiamo dividerle in due
classi, secondo che esse principalmente all'una ovvero allaltra. La prima,
(luella che si propone principalmente di assegnare una condizione generale per
l'unione dei concettiquasi tutti i iilosof razionahsti ammettono il
concettualismol'onda le conoscenze a priori su un legame logico tra questi
concetti. Il caso pi ordinario, se non runico, di questa classe d^ipotesi quella che ammette che nei giudizi a priori
il predicato implicitamente contenuto
nel soggetto, e che perci questi giudizi sono fondati sui principii d'identit e
di contradizione. Questa forma della dottrina analitica dobjiamo distinguerla
dalle due altre che abbiamo discusse nel primo capitolo. L'una di esse ammette
che tutti i giudizi, o almeno tutti i giudizi universali categorici
affermativi, sono analitici, e suppone che tutti gli attributi conosciuti, che
possono predicarsi generalmente d'una classe, sono compresi nel concetto
corrispondente a questa classe. L'altra quella che si fa rimontare a Kant
ammette che i giudizi analitici sono delle definizioni o parti di definizioni,
e suppone che un concetto comprende, non la totalit degli attributi conosciuti
della classe ccrrispondente, ma una porzione determinata di questi attributi,
quelli che, secondo i partigiani ^^v/'(' irodotto deirattivit intellet. Secondo
(luesta detinizione delTidealismo, la dottrina di Berkeley, e tanto meno quella
di Mill e di Bain, che negano la realt del mondo esteriore come indipendente
dal sol?i;etto^ senziente, non sono tuttavia dei sistemi idealisti. delle
opinioni tllosotclie ci dispensi dal tener conto della dottrina mistica
delFintuizione razionale: la tendenza della filosofia contemporanea non certo al misticismo, ed ben lontano il tempo in cui la grande
quistione dei filosofi italiani era se noi vediamo in Dio Tessere reale, come
pretendeva GIOBERTI (vedasi), o solamente Tessere possibile, come voleva
Rosmini. Tra le diverse forme delT idealismo tedesco quella di Kant la sola che eserciti un' influenza reale
nella filosofia contemporanea. D'altronde la dottrina dell'identit dell'essere
e del pensiero non potrebbe riguardarsi propriamente come un'ipotesi, di cui
uno degli scopi sia di sopperire alle difficolt della dottrina razionalista.
Questa, come sistema psicologico, si limita ad ammettere che le coesioni tra le
nostre idee, che attualmente ci sono date come indissolubili o quasi
indissolubili, sono indipendenti dall'esperienza e anteriori ad essa. j\Ja la
dottrina dell'identit dell'essere e del pensiero eleva tutte le conoscenze
generali al rango di verit a 7)r/or?; essa suppone che lo spirito pu tirare la
scienza dal suo proprio fondo, riproducendo in se stesso tutta la realt per la
sola forza della ragione. Per conseguenza il nostro esame della dottrina
razionalista sar sufiicientemente completo, se a ci che abbiamo detto in questo
capitolo aggiungeremo una discussione della dottrina analitica sui giudizi a
priori e di quella dei giudizi sintetici a priori di Kant. Nel capitolo
seguente parleremo della prima. Dottrina aiiaitica dei giii(l2;i a priori. .
1.^' I/aitesignanC) di (jiiesta dottrina in Italia pu considerarsi GALLUPPI
(vedasi). Questi essendo trai nostri maggiori filosofi (juello che, quantunque
pi lontano di tempo, pi vicino a noi per lo s[)iritrj della sua filosofa, non
crediamo inutile di discuterne le opinioni. Vi hanno secondo il Gallupjvi due
ordini di verit generali : le prime sono necessarie, le altre sono contine
genti. Per ac(|uistare la cognizione delle verit della seconda specie, noi non
aljbiamo altro mezzo die Tesame dei casi particolari, per conseguenza, la sola
esperisnza. Ma per le verit generali della prima specie, lo spirito non viene
in cognizione di esse per mezzo della cognizione delle verit i)articolari, ma
del semplice paragi^ne delle idee universali ch'egli si formate. Come si vede, la teoria di GALLUPPI
(vedasi) su])pone h\ dottrina delle idee astratte. Noi ammettiamo che vi hanno
delle verit, a cui lo spirito i)u [)ervenire per il semplice paragone delle
idee: ma le idee che lo spirito })aragona, non sono clie concrete e
i)articolari. Il risultato di un paragone essendo Tintuizione (h una
somiglianza o di : ima differenza, di una eguaglianza o di una disuguaglianza,
ecc, in ({uest ordine di verit, come in tutte le altre, le prime acquisizioni
dello spirito sono delle verit intuitive. Ma (juando lo spirito estende, per
inferenza, la verit, dai casi particolari in cui egli l'ha conosciuta d\ma
maniera intuitiva, agli altri casi particolari in cui Tintuizione fa ditetto,
(jual (3 il fondamento di questa estensione ? Noi abbiamo potuto trovare in
molti casi partico-, per il paragone delle nostre idee di certe grandezze, che
due grandezze uguali ad una terza sono uguah fra di loro: noi Tabbiamo
conosciuto (Uuna maniera intuitiva. Si tratti ora di dimostrare nn teorema; noi
applichiamo rassi(jma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra (U
loro, ad un'alt l'O caso particolare. In ciuesto caso la verit delFassioma
non conosciuta pi d\ma maniera intuitiva
; perch la dimostrazione di un teorema non consistendo che nelFapplicazione
degli assiomi, se la nuova verit che si stabilisce per quest applicazione,
fosse una verit intuitiva, noi conosceremmo allora il teorema per intuizione, e
non per dimostrazione. Se noi conoscessimo d\ma maniera intuitiva che due
grandezze sono eguali, noi non avremmo bisogno, per istabilire questa verit, di
conoscere prima che le due grandezze sono eguali una terza. L applicazione d'un
assioma dunque un'inferenza o una
deduzione ; e la deduzione reale, in questo caso come in tutti gli altri, non
pu essere che dal particolare al particolare: dai casi particolari caduti sotto
la nostra intuizione, a quelli die non vi sono caduti. Ma secondo il Galluppi
la cosa non avviene cosi: non pei' il
paragone delle idee i)articolari, per il
paragone delie idee unicersali, che noi veniamo a conoscere una verit
necessaria; se noi ammettiamo che la proposizione vera in im caso particolare, ci avviene perch
noi abbiamo gi preconosciuto la verit generale, che non lega che dei dati
astratti e puramente generici. Una verit generale risulta dunque, secondo
GALLUPPI (vedasi), dal paragone delle idee generali: ma qual il rapj)orto che lo spirito percepisce fra le
idee che egli paragona? (Questo rapporto, secondojil Galluppi, un rapporto d'identit: una proposizione a
priori una proposizione analitica, in
cui l'attributo contenuto impHcitamente
nel soggetto; e se queste proposizioni sono necessarie, perch il contrario implicherebbe
contraddizione. Una proposizione necessaria
dunque fondata, secondo il Galluppi, sulla identit delle idee: ma questa
identit pu percepirsi o immediatamente, ci che avviene nelle veriti
assiomatiche, o mechatamente, ci che avviene quando la verit necessaria , non
assiomatica, cio evidente per se stessa, ma dedotta. (Queste verit dedotte che
sono, per Galluppi, necessarie e fondate sul princijo dell'identit, noi
possiamo distinguerle in due classi: alla |)rima appartengono le proposizioni
delle matematiche pure, le quali esprimono, come noi sappiamo, dei giudizi
coml)arativi; quelle delle seconda classe sono invece, secondo la nomenclatura
che nyi abbiamo adottato, dei giu(hzi jx)sitivi o esistenziali. GALLUPPI
(vedasi) ammette dunque delle verit esistenziali, che non sono fondate
sull'esiierienza; tali sono, oltre il principio di causalit, alcune
affermazioni della metafisica sull'assoluto, che in sostanza possono, secondo
lui, ridursi a questa formula: se qualche cosa esiste, l'essere necessario
esiste; e oltre a ci ancora i i)rincipi pi generali della meccanica. GALLUPPI
(vedasi) non vuole fondare tutte (jneste proposizioni sull'esperienza e
sull'induzione, ma vuole dimostrarle, cio dedurle; sia ])erch non gli jaresse
possibile di stabihrle col primo metodo, sia perch credesse pi scientifico di
stabilirle col secondo. Noi crediamo inutile di occuparci d'una maniera
particolare dell(3 dottrine di GALLUPPI (vedasi) relative a questa seconda
classe di proposizioni necessarie: ma la sua dottrina su quelle della prima,
classe, cio sulle verit della matematica pura,
per noi, l pi interessante, ed su
di essa che volger specialmente la nostra discussione. S. 2^. 11 Galluppi trova
assurda la nozione di un giudizio sintetico a priori: tutta la sua
argomentazione generale contro questa specie di giudizi si assomma in due
luoghi che noi riporteremo, perch T autore stesso cita altrove (piesti luoghi,
come se fossero i pi probanti di tutti. La distinzione che la scuola
trascendentale pone Tra i giudizi analitici ed i giudizi sintetici assurda. Se le due idei A e B non hanno
alcuna identit Tra di esse, lo Sjrito non pu riguardarle che come distinte e
senz'alcun legame fra di loro;
impossibile dunque ch'egli vi perce[)isca un rapporto necessario di
convenienza, e l'asserirlo un porre una
contraddizione nei termini; dire che le due idee A e H non sono affatto
identiche lo stesso che dire ch'esse som
diverse; dire che son diverse lo stesse
che dire ciie l'una non pu affermarsi dell'altra, lo stesso che dire che non vi ha alcun
rapporto di convenienza Tra di esse; dire in conseguenza che lo spirito dee
percepire necessariamente un rapporto di convenienza Tra d^ie idee
diverse, affermare che lo spirito \m()
[)ronunziare una contraddizioni) evidente. Noi concediamo alla scuola
trascendental(3 che vi sono nel nostro spirito dei giudizi sintetici a
posteriori somministratigli dall'esperienza, e sono api)unto quei giudizi che
Locke chiama di coesistenza, ina (piesti gimhzi sono a j)Osterioriy poich nel
nostro spirito sono contingenti. Tutti i giudizi necessari debbono in idtima
analisi risolversi nel principio di contraddizione, essi son dunque tutti
analitici, ed i giudizi a priori non possono essere che necessari. Ammettere
dei giudizi necessari non poggiati sul principio di contraddizione, un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede
alcuna contraddizione neiro})i)Osto di un suo giudizio, egli non pu certamente
riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a jtriori non possono dunque
esistere (Saggio J/losq/ico sulla
critica della conoscenza, t. 1,^ 55?. 115). XI: Ivi Se fra due idee non vi ha
un rapi)orto d'identit, non vi ha, dice GALLUPPI (vedasi), alcun legame fra di
loro, e lo spirito non pu percepirvi un rapporto necessario di convenienza. E
perch? Perch dire che le due idee non sono identiche, lo stesso che dire clie esse sono diverse ; e
dire clie sono diverse, lo stesso che
dire che l'una non pu affermarsi dell'altra. Ma se questa ragione fosse valida,
essa proverebbe, non solo che non esistono giudizi sintetici a priori, ma che
non esistono affatto giudizi sintetici : tutti i giudizi, a priori o a
posteriori, necessari o contingenti, sarebbero analitici. Intenderemo duncpie
che di due idee non identiche 1' una non pu afCermarsi dell'altra con un
giudizio necessario e a priori i" Ma allora tutto il ragionamento del
Galluppi non che una continua petizione
di principio: il dunque non vi sta per indicare la conclusione di un
raziocinio, ma sempUcemente la conversione di una proposizione in una forma
equivalente. che secondo il
Galluppi una verit evidente l)er se
stessa che un giudizio necessario un
giudizio il cui contrario implica contraddizione. Ma questa pretesa verit
evidente una proposizione puramente
gratuita. Perch sarebbe una contraddizione di dire, p. e., che la somma degli
angoli d'un triangolo non uguale a due
retti? perch questa propriet, di avere
gli angoli uguali a due retti, si trova in tutti i triangoli che noi possiamo
concepire, e perci essa inseparabile dal
concetto del triangolo, e fa parte della sua essenza? Non vi potrebbe essere
altra ragione per affermare che la proposizione
contraddittoria; una proposizione non potendo contenere una
contraddizione, se non quando il predicato viene a negare ci che si era gi
affermato per l'attribuzione del soggetto. Noi siamo cosi andati all'incontro
dell'altro luogo di GALLUPPI, che ci eravamo proposti di riportare. Se
togliendo la nozione del predicato si toglie la nozione del soggetto, la prima
deve essere o una parte della seconda o identica i)errettainente con essa; in
questo caso il giudizio necessario. Ma
esso ancora identico o analitico. Se
togliendo la nozione del predicato non si toglie insieme quella del soggetto,
il giudizio non identico, ma sintetico;
ma esso insieme contingente, poich io
posso ammettere il soggetto senza essere necessitato di ammettere il predicato.
Un giudizio sintetico necessario dunque
un assurdo (tomo:*' .111). Ora una proposizione matematica , secondo la
dottrina del Galluppi stesso, una verit di rapporto, un giudizio comparativo.
In un rapporto si distingue la relazione stessa e il fondamento della
relazione. In ({uesta proposizione: la somma degli angoli di un triangolo uguale a due retti , ci clie si atlerina una relazione d'eguaglianza: fra gli angoli
del triangolo e due angoli retti. La relazione non esiste che per la
comparazione: essa, secondo il Gallupi>i stesso, non che una veduta ideale dello si)irito, (juando
mette in confronto gli oggetti (v. t. 1" 32, t. 3 31, t. 4" 32, 34,
37 e segg, ecc). Cosi l'eguaglianza con due angoli retti non una propriet degli angoli del triangolo
considerati assolutamente ; una veduta
dello spirito, che mette in confronto la somma di questi angoli con due angoli
retti. La relazione stessa dunque non fa parte dell'essenza del triangolo, e
non contenuta nella sua nozione. Si dir
che vi contenuto, se non la relazione
stessa, il fondamento della relazione? Ma il tbndamento della relazione, a
parte la relazione stessa, non qualche
cosa che lo spirito possa distinguere negli angoli del triangolo o nell' idea
di questi angoli. Il fondamento della relazione, a parte la relazione stessa,
non altro che l'oggetto stesso o la sua
nozione, non una parte di quest'oggetto
o di questa nozione. Una propriet relativa non acquista per lo spirito
un'esistenza mentalmente distinta, che nell'atto stesso della relazione o della
comparazione: fuori di questa relazione, lo spirito non pu distinguere nella
nozione dell'oggetto la nozione della sua propriet. Per conseguenza, pensare
gli angoli del triangolo come aventi in se stessi il fondauiento della
relazione che la proposizione afferma, non
altro che pensare che essi hanno (juesta relazione. L' attributo
affermato dalla proposizione, non pu essere dunque il fondamento della
relazione, a parte la relazione stessa, perch questo, fuori della relazione,
non ha un'esistenza mentale distinta. Ne che quest'attributo non pu essere che
la relazione stessa. Ma se cosi, la
proposizione non (' analitica, i)erchi3, secondo il ( Tallup[)i stesso, l' idea
della relazioii(3 non contenuta nelF
idea del soggetto. Se, malgrado ci, egli pretende che analitica,
perch necessaria, e quando la
nozione del ])redicato non fa })arte della nozione del soggetto, noi possiamo,
egli dice, ammettere il soggetto, senza essere necessitati di ammettere il
predicato. Ma questo principio che
bisognerebbe provare, e che n il Galluppi n gli altri sostenitori della stessa
dottrina non provano mai. i5i. 3". Queste due dottrine del Gallui)pi, per
ciuanti sforzi egli abbia fatto per metterle d'accordo, non possono coesistere
luna con l'altra. Non si [)u, come fa il Galluppi, sostenere senza
contraddizione chele proposizioni matematiche sono verit di rapporto, e che il
rapporto una veduta dello spirito,
distinta dalle idee che sono i termini del rai>porto (v. i l. i indicati nel
^ precedente), e al tempo stesso che queste proposizioni sono anahtiche. La
circostanza che il rapporto deriva necessariamente dalla natura delle cose o
delle loro idee, che impossibile di
avere le idee e non vederne il rapporto quando sono convenientemente paragonate
(), non prova che il giudizio analitico.
11 soggetto della proposizione, dice il Galluppi, non il soggetto considerato assolutamente per se
stesso, ma il soggetto comi)arato con un'altra cosa; e il giudizio ' analitico,
perclir dice, non in verit ci che V idea
in se stessa, ma ci(') che l'idea
nel suo })aragone con un'altra. Ora in un giudizio comparativo si
trovano tre idee: i due termini comparati, e la relazione, cio la veduta ideale
dello spirito, che risulla dal i)aragone. Di queste idee (juale sar il soggetto
della proposizione? Un termine nella sua comparazione con l'altro termine, dice
il Gallu]>pi. Ma (juest'idea del primo termine deve [^rendersi separatamente
dall'idea del rapporto ? in questo caso l'idea del rapporto non contenuta neiridea del soggetto. G il
soggetto comprende al tempo stesso l'idea del primo termine e l'idea della sua
relazione con Taltro? Ma allora il giudizio consiste tutto nel soggetto ; e non
bisogna dire che Y attributo contenuto
nel soggetto, perch inutile di
aggiungere al soggetto un attriljuto. Ci che vi ha di singolare che Toperazione dello spirito, per cui esso
paragona gli oggetti, e percepisce i loro rapporti, , secondo lo stesso
Galluppi, una sntesi. I rapporti, dice egli ripetutamente, sono un prodotto
dell'attivit sintetica dello spirito ; avere due idee non la stessa cosa che conoscere la loro
relazione. Perci si richiede un atto di comi)arazione: le nozioni dei rapporti
sono il prodotto della comparazione ; esse non vengono dalle sensazioni, ma
dall'attivit sintetica dello spirito, la quale le aggiunge agli oggetti
sensibili. L'avere insieme nello spirito due percezioni, non lo stesso che paragonarle. 11 rapporto un'idea dello spirito, la quale nasce in
seguito del paragone, e non altra cosa
fuori di quest'idea. I termini delle relazioni sono reali, ma le relazioni sono
solamente idee dello spirito. L'azione dello spirito, da cui nascono le
relazioni, e per cui queste si uniscono al soggetto paragonato, il Galluppi la
chiama sintesi ideale. Ma se l'operazione, per cui lo spirito paragona gli
oggetti, e conosce i loro rapporti, una
sintesi, cio un atto con cui esso aggiunge un nuovo elemento, una nuova idea,
idee che gli sono state date ; come il giudizio, che non se non un altro nome per indicare la stessa
operazione paragonare e di conoscere i rapporti, sarebbe un'analisij cio un
atto con lui lo spirito non aggiunge niente di nuovo, ma solo distingue un
elemento gi contenuto negli stessi dati? La sintesi, dice il Galluppi, una delle elementari dello spirito unmno: per
essa noi paragoniamo le nostre idee e scovriamo i loro rapporti. La sintesi
estende le nostre conoscenze: ma sarebbe un errore il confondere l'operazione
sintetica, che ci d alcuni rapporti, vale a dire che ci d alcune idee, coi
giudizi sintetici a priori. Nel giudizio lo spirito decompone una percezione
complessa, e indi la ricompone con gii stessi elementi. Kant ha confuso
l'operazione sintetica coi suoi prodotti, che sono le percezioni dei rapporti
fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della
relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale il principio efficiente, che pone un termine
rapportato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con
ci un'analisi ; indi unisce questo rapporto che aveva separato dal termine
rapportato, astesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito, prima della
comparazione, non aveva che il termine della relazione; dopo la comparazione ha
un termine rapportato: l'attivit sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel
termine della relazione, il rapporto, e questo rapporto un elemento soggettivo aggiunto all'
oggettivo. Ma nel giudizio lo spirito non percepisce se non ci che si trova nel
termine della relazione in quanto rapportato, nel che lo spirito non sorte
dall'identit, poich nel termine rapportato
compreso evidentemente il rapporto. Quest'osservazione dilegua qualunque
dubbio su la soluzione data circa l'utilit del raziocinio, e su V impossibilit
dei giudizi sintetici a priori. Il raziocinio, si domanda, essendo poggiato su
Tidentila, come esso istruttivo? Abbiamo
risposto, perch ci scovre i rapporti diversi delle nostre idee, che non
possiamo immediatamente conoscere, ma questi rapporti, essendo nei termini
rapportati, non si va fuori della legge deiridentit. 1 termini non sono
rapportati se non dopo razione sintetica della comparazione. Il raziocinio nel
suo risultamento scovre dunque un elemento nelle nostre idee, clie la
comparazione vi ha i)Osto. pia operazione sullo stesso oggetto ? un'operazione
primitiva, per cui lo spirito confronta le cose e percepisce il loro rapporto,
ed la comparazione; e uiroperazione
secondaria, })er cui lo spirito ritorna o riflette sulla prima, ed il giudizio? Ma la stessa distinzione
potrebbe applicarsi con lo stesso fondamento a tutte le conoscenze che noi
possiamo acquistare: la parte del giudizio potrebbe ridursi in tutte alla
riflessione sulle conoscenze primitive. Ora non
evidente che il giudizi(^ cosi inteso avreb))e una parte molto
accessoria nelle operazioni delTintelligenza? il vero giudizio, il giudizio fecondo,
sarebbe, non questo giudizio, ma la sintesi i)rimitiva e originale, essendo
questa, anche secondo il Galluppi, che (f estende le nostre conoscenze .
D'altronde noi saremmo ritornati di (luesta maniera alla teoria, di cui sopra
aljbiamo i)arlato, secondo la quale il giudizio sintetico e il giudizio
analitico si distinguono, perch il primo
originale e primitivo, il secondo
ripetuto e riflesso. E allora la distinzione fra il giudizio analitico e
il sintetico non corrispondereljbe pi, come vuole il Galluppi, a (luella fra il
giudizio necessario o a priori e il contingente o sperimentale. Il Gallui)pi ha
ben compreso (juesta verit: che tutte le pro])Osizioni della matematica i)ura
sono comparative, (), come egli dice, delle verit di rapporto ; che questi
ra[)porti non hanno al fondo che un'esistenza mentale; e che dalla natura speciale di questi rapporti che
deriva il carattere particolare di questa scienza, di essere un si-stema di
conoscenze necessarie ed a priori. Ma egli ha avuto il torto di ostinarsi,
malgrado ci, a pretendere che queste proposizioni sono analitiche: che egli confonde le due nozioni di giudizio
analitico e giudizio necessario. Dire che un rapporto comparativo nasce dalla
natura stessa dei termini o delle idee comparate; che esso un attributo essenziale al soggetto, e che il
soggetto non pu concepirsi senza Tattributo; sono unicamente delle maniere
diverse di dire che questo rapporto una
conoscenza necessaria e a priori, (Questa
una ragione per distinguere le proposizioni che ci danno una conoscenza
di ({uesti rapporti, dalle proposizioni per cui conosciamc dei rapporti d'un
altro ordine: ma non segue da ci(') che le prime proposizioni siano identiche e
analitiche, cio che Tattributo sia compreso nel soggetto, e che esse siano
fondate sui principii d'identit e di contraddizione. Anche nel caso in cui il
contrario di questi 'giudizi
assolutamente inconcepibile, non si deve confondere, come si fa
ordinariamente, Tinconcepibilit con la contraddizione; poich, se vero che tutte le proposizioni
contraddittorie sono inconcepibili, non
vero chC;, reciprocamente, tutte le proposizioni inconcepibili sono
contrad. Galluppi ha un'altra ragione per provare il suo assunto: tutti i
rapporti che noi stabiliamo fra gli oggetti comparati tra di loro, si riducono
air identit e alla diversit. Ci proverebbe che i gi . dizi che hanno per
contenuto questi rapporti, sono analitici e fondati sulFidentit. L'eguaglianza
delle grandezze (l) La natura sintetica dei giiulizi matematici e stata ben
capita dal Gio])erti. Tali griudizi . eg:\i dice, sono tutti sintetici, essendo
fondati, non sulla identit, ma sulla relazione ( sulla corrispondenza e
proporzione reciproca ) delle varie conformazioni quantitative del tempo e
dello spazio. dairintclligibile che lo
spirito cava questa relazione, e Tanalisi pi sottile non potr mai farla
scaturire dap:li elementi quantitativi del tempo e dello spazio, come tali. Nel
giudizio: A eguale A, il concetto d'eguaglianza che nel predicato, arziale) fra le due idee,
della mediazione di altre idee? Siccome una proposizione necessaria non pu
concludersi die da premesse tutte e due necessarie, (luelli che pretendono che
le ]^roposizioni necessarie sono analitiche, e che di tali proposizioni ve ne
hanno delle mediate o concluse, ilevono ammettere, almeno per questo caso, la
dottrina del ragionamento die Stuart-Mill ha confutata in Ikimilton, e che noi
possiamo chiamare la (ottrna an aliti a a del ragionamento. Secondo questa
dottrina, la nozione indicata dal termine medio
compresa in (luella indicata dal termine minore (rapporto atcrmato nella
premessa minore), e comprende alla sua volta la nozione indicata dal te^mine
rnarfrjioie (rapporto alTermato nella p^emessa mar/ffioie); e dal confronto di
questi due rai^porti ne risulta la conoscenza del terzo rapporto, quello
affermato nella conclusione, cio che la nozione del termine minoie comprende
quella del termine maggiore. 11 fondamento del ragionamento sarebbe cosi il
principio evidente che una j^arte della ])arte
una parte del tutto. Ma come i>ossiamo aver ^isogno del ragionamento
per riconoscere, nel caso particolare, che la parte della parte una parte del tutto? Stuart-Mill ha ben messo
in luce le inconcepibilit inerenti a questa dottrina: impossibile di ammettere al tempo stesso che
il ragionann^nto una maniera di
costatare che una nozione fa parte di un'altra, e che Fuso del ragionamento ha
per iseopo di scoprire delle verit che non sono evidenti per se stesse. Come pu
darsi, domanda il Mill, che una verit che consiste in una nozione che una luirte contingenti, n^^^n si d accordo su questo punto dai |u^irtigiani
della dottrina analitica: ina alcuni ammettono ciie anche queste sono
identiche; solo noi non cosciamo la loro identit, sia intrinseca, sia c'on
altre verit ap])arentemente digerenti; non conosciamo la loro derivazione dal
gran principio da cui nascono tutte le verit, il principio d'identit 0 di
contraddizione. Ma se cosi, che cosa pu
apprenderci una proposisizione? e in che il ragionamento pu estendere le nostie
conoscenze? Allora una verit assiomatica m^n ta che aliermare un'idea di se
stessa, e una scienza deduttiva non che
una serie di esi)resioni digerenti delle stesse idee. Noi siamo forzatamente
circoscritti ncWkcm per idem: le parole cangiano, ma le idee restano le stesse.
Quando tiriamo un'interenza, noi pronunziamo un giudizio, che abbiamo gi
pronunziato in altri termini nelle premesse; ben pi, tutte le proposizioni,
ahneno le necessarie, non l'anno che ripetere sotto forme diiTerenti ucste
conseguenze sono talmente inevitalli, che il pi celebre forse dei sostenitx)ri
della dottrina, Condillac, le ha espressamente inculcate. L' identit, dice quest'autore, il segno al (^uale si riconosce che una
proi)0sizione per se stessa evidente; e
si scorge Tidentit quando non si pu tradurre che in termini che tornino a
(piesti: lo stesso io stesso. In
consegucnzix una proposizione per (l un' altra, non sia cvidt^nle por se
stossa? Le nozioni sono immeuprosj/iono tutto e due nel nostro s]>irit.
{Arte di ragionare, lib. 3*' e. XI). Il suo Trattato delle sensazioni non ,
secondo Condillac, che una serie di proposizioni identiche in se stesse, e il
principio che comprende tutto il sistema pu brevemente enunciarsi di questa
maniera: le sensazioni sono sensazioni. Se potessimo in tutte le scienze
seguire ugualmente la generazione delle idee, e cogliere e vedere da per tutto
il vero sistema delle cose, vedremmo nascere da una verit tutte altre, e
ritroveremmo Tespressione abbreviata di tutto quello che sapremmo in questa
proposizione identica: lo stesso lo
stesso (Arte di pensare, e. 10). Ma se
tutte le proposizioni d'una scienza dimostrativa sono identiche, obbietta a se
stesso Condillac, non saranno perci stesso frivole? Le proposizioni, egli
risponde, sono identiche, se esse sono vere; perch avendo dimostrato che e/
c/ie non sappiamo la stessa cosa di ci
che sappiamo, evidente che non possiamo
lare che delle proposizioni identiche, allorch passiamo da ci che sapiuamo a ci
ciie non sappiamo. Ma non r identit
nello idee che la il frivolo, V identit
nei termini . Sei sei una ])roposizione identica e al tempo stesso
frivola, perch T identit nelle idee e
nei termini. Ma tre e tre fanno sei non
una proposizione frivola, perche Tidentit unicamente nelle idee (Linr/iia dei calcoli). Noi non possiamo
passare, dice Condillac, da cii) che sai)piamo a ci che non sappiamo, se non
perch ci che non sappiamo la stessa cosa
di ci che sappiamo. Noi andiamo dal noto airignoto, perch l'ignoto si trcjva
nel noto, e non vi si trova che perch la
stessa cosa. (Lingua dei calcoli, hb. 1" e. 5^). Ma se Tignoto, risponde
il Galluppi, lo stesso del noto, il
cammino che si pretende che faccia lo s])irito, andando dal noto all'ignoto,
non esiste allatto, perch quest' ignoto
una clamer: se il punto da cui io parto
1<3 stesso di quello a cui giung(3, non ho fatto alcun cannnino, io
resto immobile, ed il parlare d'un passaggio da un punto ad un altro un linguaggio visibilmente contraddittorio.
(Galluppi^ Opera ci-, t. P 70). evidente
che questa obbiezione colpisce la dottrina del Galluppi stesso: cos'ha fatto
quest' ultimo autore per risolvere la difcolt? Egli ha ricorso a due
espedienti: il raziocinio, dice in primo luogo,
istruttivo, ed estende effettivamente la sfera delle nostre conoscenze,
in quanto ci scopre i diversi rapporti delle nostre diverse idee, paragonate le
une con le altre. I triangoli costruiti su basi eguali e tra le stesse
parallele sono uguali. Se un triangolo e un parallelogrammo sono costruiti su
basi eguali e fra le stesse parallele, il triangolo la met del parallelogrammo ; queste
proposizioni, dice il Galluppi, non sono identiche l'una all' altra ; la prima
scopre il rapporto fra un dato triangolo e un altro dato triangolo ; la seconda
scopre il rapporto fra un dato triangolo e un dato parallelogrammo ; or questi
due rapporti son distinti nel nostro pensiero, e perci formano due conoscenze
distinte. Non si pu dire che in queste proposizioni non si faccia altro che
dire: 11 triangolo triangolo, il
parallelogrammo parallelogrammo, poich
queste proposizioni identiche non indicano alcun rapporto fra due figure
distinte, (t. 1 81 V. anche t. 4<^ 38, t. 1 IGl, ecc.) Ma con questa
risposta il Galluppi abbandona la dottrina dell'identit e del giudizio
analitico ; o piuttosto, dovrebbe abbandonarla, se fosse conseguente. Noi
abbiamo esservato, in effetto, che se, come insegna il Galluppi;, i giudizi
matematici sono verit comparative o di rapporto, e il rapporto una nozione nuova che lo spirito aggiunge
alle nozioni dei termini comparati, i giudizi matematici non possono essere
analitici o identici, perch questa seconda dottrina in contraddizione con la prima. L'altra
risorsa del Galluppi consiste nell'invocare la vecchia dottrina dei logici sul
sillogismo: il ragionamento, egli dice, va dal generale al particolare, dal genere
alla specie e dalla specie all' individuo. Ma T idea del genere non perfettamente identica con quella della
specie, poich v'ha pi nella specie che nel genere, pi nell'individuo che nella
specie; cosilo spunto passa da nozioni pi semplici e generali a nozioni \)i\\
complesse e particolari. Dunque nella dimostrazione non vi ha una sola idea, e
il Condillac ha torto di riguardare il raziocinio come una serie di (Utlerenti
espressioni di una stessa idea (t. 1^ Js?. 73 e sgg). (xJuesta seconda risposta
non vale j)i della prima: essa t'ondata
su un falso presu[)posto, cio che il sillogismo rappresenti il processo reale
del ragionamento, ed inoltre illusoria,
perch, ammesso anche questo presupposto, il ])rogresso deirintelligenza, nel
ragionamento, resterebbe sempre incomprensibile. . 8.'^ Uno dei fondamenti
della dottrina analitica sui giudizi a priori
certamente Topinione, per lungo tempo dominante nella logica, clie il
sillogismo un ragionamento reale, anzi
il tipo universale del ragionamento. E in eiletto rimpiego del metodo
sillogistico, da una parte, ha dato la ragione apparentemente pi forte per
credere che la costatazione di una semplice necessit logica, cio di una
conseguenza fondata sui rapporti logici necessari tra le idee e non sulle
analogie tra i fatti, pu dare un'estensione reale alle nostre conoscenze; e
d'altra parte, l'oggetto della dottrina analitica dei giudizi a priori essendo
di tbndare questi giudizi sulla semplice necessit logica, questa dottrina
trovava perci uno strumento proprio e gi preparato nel sillogismo, qual ordinariamente considerato dai logici. Cosi mentre, dopo la disfatta della scolastica, si
trova generalmente nei filosofi novatori l'abbandono e il dispregio della
logica formale, noi vediamo al contrario Leibniz, die si avrebbe ragione di
riguardare come il fondatore della dottrina analitica dei giudizi a priori (v.
il Saggio seguente, parte 1*, cap. 6^) quantunque egh non ammetta ancora,
almeno esplicitamente, che in questi giudizi il predicato contenuto nel soggetto , fare il pi gran
conto del ragionamento sillogistico: secondo lui, tutte le verit razionali,
anche ([uelle che si chiamano assiomatiche, devono essere dimostrate secondo le
regole della logica, cio col metodo sillogistico, sinch si arrivi, come primi
[)rincipii, a delle proposizioni di cui si veda chiaramente che sono delle
verit identiche (v. Leibniz Nuovi Saggi Hitirintcndimenio umano, lib. 4'^ e. 2^
7^ i)^ 12^ 17^; Meditationes de co-gniiione, veritate et ideis (Opera omnia,
Datens, i.as 2us /% 17); Teodicea, Osserv'.zioni sul Uhro(i King, TI 0 K ecc),
Dei filosofi, i quali credono che, in una ])roposizioistruttiva, l'idea del
]:)redicato pu fare parte dell'idea del soggetto, non possono vedere la
(hfticolt che vi ha ad ammettere che un ragionamento, in cui la conclusione contenuta nelle premesse, costituisca ci non
ostante una vera inferenza, cio un progresso reale della conoscenza. jMa la
diiticolt in se stessa talmente
evidente, che l'obbiezione contro il sillogismo che esso, considerato come una
prova, una pura petizione di
principio, tanto vecchia quanto il
sillogismo stesso. Questa obbiezione in
effetto, come dice il Mill (Logica, h. 2^ e.:V^ ^. 1), un corollario legittimo
del teorema del sillogismo, cio del principio, unaTiimamente ammesso dai
logici, che nella conclusione di questo ragionamento non deve esservi niente di
pi di ci che gi dato nelle premesse.
Quando si dice: Tutti ixM uomini sono mortali, Socrate uomo, Dunciuo Socrate mortale, gli avversari della teoria del
sillogismo obbiettano irrefutabilmente che la proposizione Socrate mortale
presupposta nell'asserzione pi generale Tutti gli uoiiiini sono mortali;
che noi non possiamo essere sicuri della mortalit di tutti gli uomini, a meno
d'essere gi certi della mortalit di ciascun uomo individuale; che se ancora dubbioso che Socrate sia mortale,
Tasserzione che gli uomini sono mortali
colpita della stessa incertezza; che il principio generale, lungi di
essere una prova del caso particolare, non pu esso stesso essere ammesso come
vero sinch resta Tombra d'un dubbio su uno dei casi che esso abbraccia, e sinch
questo dubbio non stato dissipato per
una prova alunde; e allora che resta a provare al sillogismo?* (MW Logica hb.
2^ e. 3^ . 2^). Il ragionamento sillogistico non dunque un'inferenza reale, ma verbale e
apparente. ci del resto che implicitamente ammesso dai suoi stessi
difensori, quando insegnano, come fanno generalmente, che la transizione dalle
premesse alla conseguenza giustificata
dal semplice principio di contraddizione, cio che il solo motivo di accordare
la conseguenza dopo aver accordato le premesse^
che vi sarebbe contraddizione se quella si supponesse falsa, queste
essendo supposte vere. Cosi essendo, siccome la contraddizione consiste ad
affermare e negare al tempo stesso le stesse cose, si deve confessare che,
negando la conseguenza, si negherebbero dei fatti che le premesse affermano, o
se ne affermerebbero che le premesse negano, e quindi, che ci che si afferma
enunciando la conseguenza, era gi stato affermato enunciando le premesse. Ma ci
vuol dire che, passando dalle premesse alla conseguenza, il pensiero non ha
fatto che ripetersi^ che non si fatto
alcun passo in avanti, e che l'inferenza non
stata che apparente. sorprendente
come questo, che chiameremmo un paradosso se non fosse invece un luogo comune,
cio che verit date possono contenere in se stesse altre verit, che sono
nondimeno nuove e differenti dalle prime, ha potuto imporsi ai logici sino al
Mill. Si credeva di vedere pie1 namente realizzato questo caso nelle scienze di
puro ragionamento, in cui, come nella geometria, tutto un sistema di conoscenze
importanti viene cavato, a quel che pare, da pochi principii semplicissimi
supposti al cominciamento. Ma (juesta
un' illusione, dovuta all' impiego necessario del linguaggio, e per
conseguenza, dei termini genemli: le verit dimostrate, nelle scienze cosi dette
deduttive, non sono provate dalle verit pi generali, cio dagli assiomi, ma dai
fatti particolari di cui queste ultime verit sono la generalizzazione. Ogni
ragionamento, di qualunque specie esso sia, se
reale, cio se costituisce un progresso delle nostre conoscenze, sempre un processo essenzialmente induttivo,
cio un'assimilazione dei casi nuovi ai casi particolari dell'esperienza
passata. La vera prova della mortalit di Socrate non che tatti gli uomini sono mortali perch,
come stato detto sopra, se non si ancora sicuri della mortalit di Socrate, non
si pu essere sicuri della mortalit di tatti gli uomini, ma che A, B, C e tutti
gli altri uomini che sono vissuti, sono morti. Se si dubita infatti che Socrate
morr, non si pu esserne resi certi per la proposizione che tutti gli uomini
sono mortali , percli sinch dubbio il
fatto particolare, necessariamente anche
dubbia la proposizione generale. Il dubbio non potr essere dissipato che per la
enumerazione dei casi particolari, di cui questa la generalizzazione induttiva. Sono dunque
questi casi particolari che provano, tanto la proposizione generale che tutti
gli uomini sono mortali, quanto la verit particolari che Socrate morr (v.
Stuart Mill Logica, lib. 2^ e. 3^ o almeno questo scritto cap. P. 19^).
L'inferenza non mai dunque, come crede
GALLUPPI dal generale al particolare, ma
sempre dal particolare al particolare.
questa del resto una conseguenza evidente del rigetto della dottrina dei
concetti. Se noi non abbiamo che delle idee particolari, se non vi ha altro di
generale che dei meri simlx)li, noi non possiamo ragionare che su dei fatti
particolari, e Tinlerenza non pu andare che da alcuni altri di questi latti
particolari. Ora questo genere d'inferenza non pu servire di base alla dottrina
anaUtica dei giudizi a priori, perch questa pretende di fondare le conoscenze
razionali sul principio di contraddizione, ma non vi ha contraddizione alcuna a
negare la verit dei fatti inferiti (p. e. che Socrate morrai, mentre si ammette
quella dei fatti da cui s'inferiscono (che A, B, C e tutti gli altri uomini che
sono vissuti, sono morti). Il sillogismo bensi
fondato sul principio di contraddizione quantunque un fatto si chiaro
sia contrastato da alcuni dei pi illustri logici moderni (v. in seguito,. 2G
20) ; ma appunto perci un'inferenza
apparente, e non pu dare un'estensione reale alle nostre conoscenze, come lo
esige la dottrina analitica. La dottrina dei concetti non permette di vedere
chiaramente ci(*) che vi ha di paradossastico e d'impossibile in quest'
asserzione, che noi possiamo acquistare delle conoscenze nuove per il solo
sviluppo di nozioni antecedenti. Quando si ammettono le idee astratte, si pu,
appoggiandosi su questa vaga nozione: analisi, credere che si possa,
sviluppando o esplicando un'idea, come si svolge, p. e., un gomitolo o si
spiega una stoila che era ripiegata, mettere in luce altre idee che vi erano
occultamente, o come si dice pi d'ordinario, imphcitamente, contenute. Un'idea
non pu essere racchiusa in un'altra, in un ragionamento o in un giudizio reale,
che come la scintilla racchiusa nella
selce, cio per una semplice metafora. Se i metafsici possono reaUzzare questa
metafora, per ci che vi ha di vago e di
mistico in quest'altra nozione: il concetto, degna compagna di quella
delYanalisi, Ma se si ammette che noi non pensiamo che per idee concrete e
particolari, non vi avr pi alcun luogo, evidentemente, per l'analisi, n nel
ragionamento n nel giudizio. Come nel ragionamento in cui il processo reale
deirinferenza non ha potuto essere misconosciuto, che perch una proposizione
generale si riguardata come l'enunciato
di una nozione, rigorosamente parlando, generale, e non sem[)liccmente come un
segno per ricordarci dei fatti particolari dell'esperienza passata, e indicarci
ci che doljbiamo attenderci, per l'avvenire, nei casi analoghi cosi anche nel
giudizio, il principio che un'idea ne contiene un'altra che le viene aggiunta,
non pu sembrare plausibile che per questo semi realismo, che d ai significati
dei termini generali un'esistenza mentale distinta. Noi possiamo addurre ad
esempio le proposizioni enunzianti le propriet dei numeri e delle figure
geometriciie. Queste propriet non sono che delle relazioni (d'eguaglianza,
d'ineguagUanza, ecc.) fra oggetti distinti;, ma il concettualista potr
riguardarle come delle determinazioni intrinseche astratte delle figure e dei
numeri in se stessi. Sia la proposizione: Due pi due fanno quattro. Se si
comprende bene che essa non pu volgere che su dei fatti concreti, si vede
subito che non afferma che ima relazione tra gruppi distinti di oggetti, i
quali sono numericamente eguali, ma distribuiti differentemente nello spazio o
nel tempo. Ma se si ammette che qaatti'o designa un concetto astratto, siccome
questo concetto necessariamente
applicabile a due pi due, si vedr nella proposizione l'attribuzione a due pi
due d'una propriet astratta che loro inerisce necessariamente, e per
conseguenza, nel concetto quattro una nota inclusa necessariamente nel concetto
due pi due. Cosi pure perla proposizione: Il triangolo rettilineo ha la somma
degli angoU uguale a due retti. Essa non stabihsce che una relazione
d'eguaglianza fra i tre angoli del triangolo e due angoli retti; ma la teoria
concettualista la riguarder invece come attribuente al triangolo, considerato
per se stesso e indipendentemente da qualsiasi relazione, una detmasmm^sim
terminazione astratta acl esso inerente, e cosi la proposizione sembrer
analitica. Non vi ha in ogni caso che a tradurre una proposizione nelle
rappresentazioni reali che essa significa, e la dottrina analitica non potr pi
fare illusione. Si sa che una delle proposizioni a cui di preferenza questa
dottrina viene espressamente applicata,
quella enunciante il principio di causalit. Ora ci che non pu sembrare possibile,. che smch
questo principio si formula e si stabilisce servendosi di termini astratti.
Allora il partigiano della dottrina analitica dir che nella proposizione: ogni
effetto prodotto da una causa , evidente che il concetto che la da attributo,
cio di prodotto da una causa, dato
implicitamente nel concetto che fa da soggetto, cio in quello di effetto ;
ovvero, dopo che gli si fatto comprendere
che la difficolt sta appunto nello spiegare perch noi riguardiamo tutto ci che
comincia ad esistere come un effetto, forzer il senso delle parole, e si giover
degli equivoci, a cui si prestano tutti i termini e specialmente gli astratti,
per dimostrare che il concetto di effetto
o prodotto da una causa
contenito in qualche altro concetto o in alcuni altri concetti, che sono
alla loro volta contenuti in quello di ci che comincia ad esistere . Ma
svolgiamo il contenuto reale della proposizione; Uno specimen di queste pretese
dimostrazioni del principio di causalit pu vedersi in SERBATI, Nuoco Saggio suW
origine delle idee, la dimostrazione
presentata sotto la forma appropriata alla dottrina analitica, cio
mostrando che il concetto di cominciare ad esistere racchiude un altro concetto, e questo un
altro ancora, il quale infine racchiude quello di avere una causa .
Naturalmente ogni altra dimostrazione di questa o qualsiasi altra proposizione
a priori o pretesa tale, fatta da un partigiano della dottrina analitica, che
non riveste questa forma (come quella, pure del principio di causalit, che si
trova in GALLUPI Saggio Jtlos. sulla rrit. della conosc. o dovrebbe essere suscettibile di rivestirla.
'fa ' A*' i traduciamola in termini che indichino chiaramente le
rappresentazioni concrete di cui essa
Te.spressione sommamaria; si vedr immediatamente che un puro non senso il dire che essa unisce
delle idee, di cui Tuna contenuta
neiraltra. La proposizione significa che un fenomeno costantemente preceduto da un altro fenomeno;
che la natura dei due fenomeni che costituiscono questa sequenza, non arbitraria, ma che un fenomeno della classe a sempre preceduto da un fenomeno della classe
a^ o di una di un certo numero determinato di classi: a\ a^^ ecc.; il fenomeno
della classe b da un fenomeno della classe b^ o di una di un certo altro numero
determinato di classi, ecc.; che cosi
stato sempre in tutti i casi deiresperienza passata, 0 almeno in tutti
quelli che abbiamo potuto conoscere; che per conseguenza noi ci attendiamo che
anche cosi sar per Tavvenire e siamo certi che
stato nei casi del passato che non abbiamo potuto conoscere; che anche
quando non si sa quale sia il fenomeno da cui un fenomeno dato stato o sar preceduto, noi siamo sicuri
almeno clic esso stato o sar tale, che
la sequenza tra i due fenomeni sia conforme alla sequenza tipica, o ad una
delle sequenze tipiche, di cui Faltro fenomeno suole essere il termine
conseguente. Non vi lia altro in tutto ci che delle rappresentazioni di
sequenze di fenomeni e di somiglianze tra queste sequenze. Come dunque Tidea deireffetto
pu contenere Tidea che esso preceduto da
una causa? la rappresentazione del fenomeno a contiene forse la
rappresentazione del fenomeno a^ o di un altro fenomeno qualsiasi come suo
antecedente? e quelle inoltre delle altre sequenze simili a cui questa sequenza
particolare si conforma, e delle somiglianze fra tutte queste sequenze? quale
analisi potrebbe trovare nelFidea del primo fenomeno le idee di tutti questi
altri fenomeni con quelle delle loro relazioni? Tutte le nostre proposizioni
non esprimono che dei raj>porti tra fenomeni, e la rappresentazione d'un
fenomeno non contiene mai, n esplicitamente n implicitamente, la
rappresentazione delPaltro fenomeno o degli altri fenomeni con cui esso messo in rapporto, n quella del rapporto
stesso o dei rapporti che vengono stabiliti tra questi fenomeni. Nel caso
stesso in cui le cose espresse dai termini che si trovano in una proposizione,
sono contenute Tuna nell'altra, nemmeno allora la relazione fra le
rappresentazioni concrete che co> stituiscono il senso reale della
proposizione, veramente quella di
contenente e contenuto. Quando diciamo: Questa casa ha il tetto, il giudizio
non mette in rapporto la rappresentazione di un tutto e quella di una parte,
non afferma che la seconda si contiene nella prima. Questa proposizione,
evidentemente, non analitica, ma
sintetica: essa esprime un giudizio di coesistenza, il quale afferma che una
parte, cio il tetto, coesiste con le altre parti, in quei rapporti di posizione
reciproca che noi sogliamo osservare nelle case. In verit la proposiziono
potrel)])(; onclic avere un altro senso, e per >orti particolari di
somiglianza o di diltoronzo, vi ha come un ]>roscn ti monto del vero nella
dottrina che tutti.' lo verit necessario sono analitiche. Noi abbiamo visto in
elTotli cIk gli esempi tipici del liiudizio analitico, nel senso Kantiano, sono
anch'essi dei giudizi comparativi, cio sulla somiglianza o la dilferenza. torto
del (ialluppi e degli altri sostenitori della dottrina analitica oltiv^ di non aver tracciato esattamente la
linea come soggetto e *:B'> come
predicato, ovvero A e B come soggetti entrambi, e come predicato semplicemente
:)^. Ma la rappresentazione di A e B* non contiene quella di :, e tanto meno la
rappresentazione di (tA quella di :B'>; anche in ques^ipotesi, quindi, la
dottrina analitica inapplicabile.
Limix)ssibiht di questa dottrina risulta duufpie chiaramente da una veduta
corretta sulla natura delle idee e sul significato reale delle proposizioni.
It). Come abbiamo mostrato nel paragi*al'o precedente, la dottrina analitica,
che essa si applichi al giudizio o al ragionamentc , necessariamente legata alla dottrina dei
concetti: su di questa che si appoggia,
e con essa deve cadere. Noi avremmo perci ragione di sorprenderci come uno dei
pi geniali pensatori contem Ci che al)l)iaino dettu e ci rcsUi a dire nel
presente caiitolo sulla dottrina analitica dei iriudizi a priori, deve essere
completato per ci che dicemmo nel capitolo i su quella dei iriudizi analitici
in ^^enerale. Sono specialmente applicabili anche alla prima dottrina le
osservazioni fatte nei. 12 e li. Per rapplicazione della dotti'ina analitica al
ragionamento, noi intendiamo, non ci che nella nota al J5\ 6. abbiamo chiamato
la (fottrina euialitica del rafjionaiucfito, ma la dottrina pi irenerale che,
in un ragionamento, la conseguenza
contenuta nelle premesse, e cie questo, quindi, un'analisi: ci che necessariamente devono
ammettere tuiti (luelli die credono che il sillogismo sia uninferenza re(de. r.
**^\ I 'iS poranei, il Taine, rigetti della maniera pi categorica le idee
astratte, e ammetta al tempo stesso in tutto il suo rigore la dottrina di
Condillac che il principio d'identit e di contraddizione il gran principio da cui derivano e devono
farsi derivare tutte le conoscenze umane; che le verit formano una catena
continua in cui non si passa dalFuna all'altra che in forza dell'identit; che
una legge scientifica una proposizione
analitica, la quale accoppia due dati di cui il secondo contenuto nel primo. Ma la sorpresa cessa,
quando si riflette cJie, quantunque il Taine rigetti le idee astratte, egli
ammette invece gli esseri astratti: essa non sparisce cosi sovra un punto che
per ricomparire pi forte sopra di un altro. Per una singolarit senza esempio
nella storia della quistione degli universali, il Taine ammette delle entit
generali, ma non riconosce che delle idee particolari. Ci che noi chiamiamo
un'idea generale, una vista d'insieme, non , dice il Taine, che un nome; non il
semplice suono che vibra nell'aria e scuote il nostro orecchio, o l'insieme
delle lettere che anneriscono la carta e colpiscono i nostri occhi, nemmeno
queste lettere percepite mentalmente, o questo suono mentalmente pronunziato,
ma questo suono o queste lettere dotate, quando noi le percepiamo o le immaginiamo;,
d'una propriet doppia, la propriet di svegliare in noi le immagini degT
individui che appartengono a una certa classe, e di questi individui solamente,
e la propriet di rinascere tutte le volte che un individuo di questa classe e
solamente quando un individuo di questa classe si presenta alla nostra memoria
o alla nostra esperienza. Condillac era lungi di avere una dottrina
perfettamente coerente sul soggetto delle idee astratte. Egli dice p. e. nella
Lingua dei aalcoli 1. 1. e. 4. che le idee astratte non sono che dei nomi
generali: ma che si legga, p. e., il cap. 8. (XdWArte di pensare; si vedr che
egli suppone che lo spirito abbia il potere di fare delle astrazioni.
l>IWl'*tl'IWJ!g {Llntellhjenza.L V\:i5), (t Un nome che si comprende dun(iue un nome legato a tutti gii individui
che noi passiamo percepire o innnaginare d' una certa classe e solamente agli
individui di (juesta classe. A (juesto titolo esso corrisponde alla qualit
comune e distintiva che costituisce la classe e clie la separa dalle altre, e
corrispode solamente a questa (juaUt; tutte le volte che questa presente, (juello presente; tutte le volte che questa assente, quello assente; quello svegliato da (juesta e non svegliato che da essa. Di (juesta maniera
esso il suo rappresentante mentale, e si
trova il sostituto d'una che ci
interdetta. Esso ci tiene luogo di questa esperienza, fa il suo ufficio,
le equivale Artificio aminiraliile e spontaneo della nostra natura ! noi non r)Ossiamo
percei)ire n mantenere isolate nel nostro spirito le (jualit generali, sorta di
filoni preziosi che costituiscono Tessenza e fanno la classificazione delle
cose, e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza bruta, j)er comprendere r
ordine e la struttura interiore del mondo, bisogna che noi le tiiamo dalla loro
ganga, e che le concepiamo a parte. Non bisogna credere che quando il Taine
parla delle qualit generali come di altrettante realt distinte, egli non faccia
che delle semplici metafore: no, vi hanno etfettivamente per lui delle cose
generali, ed esse sono loggetto della conoscenza generale. Vi hanno delle cose
generali , cio delle cose comuni a molti casi o individui; in altri termini vi
Jianno dei caratteri comuni, di cui la presenza moltiplicata e ri])etuta lega
fra loro i diversi individui della classe ; e questi caratteri sono la
i^orzione uniforme e fssa dellesistenza (Uspersa e successiva (t. 2 p. 230). Non siamo noi che li creiamo
per la comodit del nostro pensiero ; non sono dei semplici mezzi di classare,
degli strumenti di nmemotecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi,
e spesso ben al di l della corta portata dei nostri sensi e delle nostre
congetture ; ma ancora essi sono efficaci. Ciascuno di loro y per se stesso e
per s solo, ne trascina con s un altro che
il suo compagno, il suo antecedente o il suo conseguente, e fa con esso
una coppia che si chiama una legge (pag.
237). Ci che noi chiamiamo una legge generale, non dunque per Taine che un accoppiamento di
questi caratteri generali: luno di questi caratteri ha per se stesso la
propriet di essere legato alFaltro ; basta che esso esista, perch Taltro sia il
suo compagno >. Dacch esso dato,
alcun'altra condizione non richiesta ;
le circostanze possono essere qualunque, ci non importa. Che esso sia dato in
tale o tale individuo, con tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal
luogo o momento, ci indifferente ; la
propriet che esso ha non dipende n dalle circostanze n dalPindividuo n dal
gruppo circostante degli altri caratteri, n dal luogo, n dal momento; preso a
parte e in se stesso, isolato perlastrazione, estratto dai diversi ambienti in
cui si trova, esso possiede questa propriet. L] perci che in qualunque ambiente
venga trasportato, esso la conserva con s. Se la ha sempre e da per tutto, perch la ha da s stesso e per s solo; se la
ha senza eccezione, perch la ha senza
condizione. Se tutti i triangoli racchiudono una somma d'angoli uguale a due
retti, perch il trlam/olo astratto ha la
propriet di racchiudere una somma danwli uguale a due retti. Se tutti i pezzi
di ferro sottoposti airumidit si arrugginiscono, perch il ferro, preso a parte, in se stesso,.
e sottomesso airumidit, presa a parte, in se stessa, possiede la propriet di
arrugginirsi. Se la legge
universale, perch essa astratta. Niente di sorprendente in questa
costituzione delle cose. Non pi strano
di trovare dei compagni, dei precursori e dei successori a un carattere
generale, che di trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento
momentaneo. Senza dubbio nello sparpagliamento infinito e il flusso
irrimediabile dell'essere, questa sorta di caratteri sono i soli elementi che
siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi ; ma essi non
esistono in fuori degF individui e degli avvenimenti, come voleva Platone , n
in un mondo altro che il nostro ; perch essi sono i caratteri degli avvenimenti
e degFindividui che compongono il nostro mondo. Come gFindividui e gli
avvenimenti, essi sono delle forme deir esistenza, e non difteriscono dagF
individui e dagli avvenimenti che perch sono delle forme pi stabilire pi
diffuse. A questo titolo noi dobbiamo attenderci a trovar loro pure dei
contemporanei, dei precedenti, dei conseguenti, delle particolarit, delle
propriet personali, e per riuscirvi, non si ha che ad osservarli per se stessi
e a parte (t. 2^ p. 300) . Tuttavia noi
non abbiamo il potere di percepire o rappresentarci (Y una maniera qualunque
queste cose o caratteri generaU. Un^idea generale e astratta un nome, niente altro che un nome, il nome
sirjnjeativo e compreso d'una serie di l'atti simili 0 d una classe d'individui
simili (t. 2^ 241). Ci che noi abbiamo
in noi stessi, quando pensiamo le qualit e carattari generali delle cose, sono
dei segni, e niente altro che dei segni, io voglio dire certe immagini o
risurrezioni di sensazioni visuali o acustiche, affatto simili alle altre
immagini, salvo in ci che esse sono corrispondenti ai caratteri e (jualit
generali delle cose, e Qui il Taine coiiii'ivnde IMatone alla maniera
tradizionale, come se le Idee platoniclie fossero in im alfro mondo. Ma in
realt le cose o caratteri i^enerali del Taine non dilVeriscono dalle Idee di
Platone: s le une che le altre non sono che gli elementi astratti e generali
del mondo sensibile (V. il Saggio seguente, parte 1., il cap. 7. e il
Supplemento sulla immanenza delle Idee platoniche). Per (jiiesto realismo del
Taine vedi i luoghi di altre opero dello stesso autore, che noi citeremo nel 2.
Saggio rimpiazzano la percezione assente o impossibile di questi caratteri e
quaUt. Il nome equivale alla vista, esperienza o rappresentazione sensibile che
non abbiamo e che non possiamo avere del carattere astratto presente in tutti
gF individui simih. Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio. Cosi noi pensiamo
i caratteri astratti delle cose mediante i nomi astratti che sono le nostre
idee astratte, e la formazione delle nostre idee non che la formazione dei nomi, che sono dei
sostituti. Non vi ha dunque, secondo il Taine, nel nostro pensiero altro che
dei nomi, quando noi pensiamo le cose generali o i caratteri generali ; ed un^ illusione di credere che vi siano delle
idee generali e astratte corrispondenti ai nomi generali e astratti. Noi
abbiamo bisogno, per uscire dalla grossa esperienza bruta, di concepire a parte
i caratteri generali o astratti delle cose: ma non vi riusciamo che sostituendo
loro dei nomi, perch la loro rappresentazione
impossibile, tutte le nostre rappresentazioni non essendo che immagini
di cose particolari. Ma come il nome pu essere un mezzo di concepire a parte
una cosa, che noi non possiamo affatto rappresentarci a parte? Come il nome pu
essere per noi il sostituto di una cosa, di cui non abbiamo e non possiamo
avere Fidea? Se i nomi rappresentano le cose,
perch vi ha un legame fra i nomi e le idee delle cose per cui si
suggeriscono reciprocamente, legame che, per dire le parole dello stesso Taine
(t. 2^ p. 245), non che un' associazione
d' un certo genere . Come dunque il nome potrebbe rappresentare una cosa, con
la cui idea esso non associato, poich,
per ipotesi, quesf idea ci manca? Noi possiamo, nei nostri ragionamenti, non
avere per qualche tempo presenti nello spirito che dei nomi o dei segni, le
idee delle cose stesse essendo per tutto questo tempo assenti dal nostro
pensiero ; nondimeno noi applichiamo alle cose stesse il risultato del nostro
ragionamento, operando cosi sui segni come se operassimo sulle idee stesse
delle cose. In questo caso pu dirsi che il nome
per noi il sostituto dell'idea o della cosa: ma se noi non avessimo il
potere di sostituire a vicenda i nomi alle idee e le idee ai nomi, i nomi non
sarebbero il sostituto niente, essi non sarebbero che dei puri suoni. Ma il
nome, dir il Taine, un sostituto,
precisamente perch ci manca 1idea ; perch adempie nella nostra mente lo stesso
utticio che ademi)irebbe T idea, se essa vi jxDtesse essere ; i)ercli infine
ci() che la cosa generale nella realt,
il nome generale nel nostro pensiero. per questa corrispondenza fra la cosa
generale o astratta e il nome generalt o astratto, che il nome il sostituto della cosa ; ed cosi che noi abbiamo delle conoscenze
generali. Non vi ila altro nel nostro spirito che delle proposizioni generali ;
ma per questa sostituzione o corrispondenza dei nomi alle cose, una
proposizione generale una conoscenza
generale, cio una conoscenza delle cose generali. Di questa maniei*a noi
veniamo a conoscere le cose generali, quantunque non ne abbiamo Tidea. Ma come
jjossiamo noi aftrmare che delle cose generali corrispondono ai nomi generali,
se non abbiamo affatto ridea di (jueste cose? Si pu affermare una cosa senza
pensarla, o si pu pensarla senz'averne Tidea? La contraddizione talmente evidente, che noi non vi insisteremo
di pi, perch la discussione non potrebbe renderla pi chiara. S 12. La stessa
contraddizione naturalmente si riproduce nella teorica del giudizio e del
ragionamento. Lo scopo del ragionamento, , secondo il Taine, di dare la
ra[lione esplicativa, di trovare ci che egli chiama Vintermediario esplicativo.
Una proposizione esprimendo l'unione di due dati, un soggetto e un attributo,
vi ha un perch, una ragione esplicativa, dell'unione di questi due dati; ^
questa ragione o questo intermediario esplicativo un terzo dato, i)er l'intromissione del quale
i due dati della proposizione si trovano legati. Se Pietro mortale,
perch egli uomo, e ogni uomo mortale ; se queste due rette tracciate su questa
tabella e perpendicolari a una terza sono parallele, perch esse sono perpendicolari a una terza, e
tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Uomo, nel primo caso,
e rette peiyendicolari a una terza, nel secondo, sono gl'intermediari
esi)licativi . Nel caso degli oggetti individuali sottomessi a delle leggi
conosciute, l' intermediario che lega ciascun oggetto alla propriet
enunciata, un carattere incluso in esso,
pi astratto e pi generale di esso, comune ad esso e ad altri analoghi, e il
quale, trascinando per la sua presenza la propriet cnunziata, la porta con s in
ciascuno degl' individui a cui ^q\ appartiene. Se invece di spiegare un fatto
particolare, si tratta di spiegare una legge generale, o, come dice il Taine,
se si tratta, non pi (U legare una propriet a un oggetto individuale, ma di
legare una propriet a una cosa generale, la natura e il posto dell'
intermediario esi^icativo non
differente. Il primo dato della legge contiene l'intermediario, che
contiene il secondo. A un altro punto di vista il primo dato pi complesso dell' intermediario, che pi complesso del secondo. A un altro punto di
vista ancora, il secondo dato pi
astratto e pi generale dell'intermediario, che
esso stesso pi astratto e pi generale del primo. Ci posto, associamo i
tre dati a due a due: noi avremo tre copf)ie di dati o leggi. Ogni pianeta una massa; ora ogni massa tende ad
avvicinarsi alla massa centrale con cui
in rapporto; dunque ogni pianeta tende ad avvicinarsi alla massa
centrale con cui in rapporto, cio al
sole. Di queste tre coppie, la prima associa il primo dato e V intermediario ;
la sesonda associa l'intermediario e il secondo dato; la terza associa il primo
dato e il secondo, ed la legge che
bisognava dimostrare. Se pensiamo le tre coppie in quest'ordine, noi abbiamo
tre proposizioni che loro corrispondono, e che si compongono di tre idee,
associate a due a due, come le tre leggi si compongono di tre dati associati a
due a due. Di queste tre idee, la prima, pi comprensiva della seconda, contiene
la seconda, che, pi comprensiva della terza, contiene la terza, e lo spirito
passa dalla pi comprensiva alla meno comprensiva per Tintromissione di quella
di cui la comprensione inedia. Cosi il
ragionamento un'analisi; e la
dimostrazione di un teorema non che un
analisi, che decompone il primo dato (il triangolo, la sfera, l'ellissi, ecc.),
per tirarne Tintermediario. L'intermediario esplicativo e dimostrativo si trova
cosi, analizzando i termini della definizione; e Yanalisi in cui consiste la
dimostrazione di un teorema, l'analisi
dei termini della definizione. La definizione contiene il primo intermediario,
che contiene il secondo, che contiene il terzo, che contiene il quarto, ecc.,
che contiene la propriet enunziata. come
una serie di cassettini rinchiusi l'uno dentro l'altro; il pi largo la definizione prima, e il pi piccolo Y ultimo attributo annoilo elio si rinvo
dimostrare); ciascun cassettino pi ^ruiuiu nu rcicjuiLiiiti uno pi piccolo, e
noi non possiamo toccarne uno che dopo aver aperto 1' uno dopo F altro tutti
quelU che lo racchiudono. Gli assiomi sono anch' essi dei teoremi, ma che noi
ci dispensiamo di provare, sia percli la dimostrazione ne molto facile, sia perch ne molto difficile. Ma essi sono delle
proposizioni analitiche, in cui il soggetto contiene l'attributo (t. 2^ p.
340); la loro dimostrazione, come quella degU altri teoremi, un'anahsi, o una decomposizione dei loro
dati; come gli altri teoremi, essi si dimostrano per la definizione prehminare
dei termini. Dimostrare una proposizione assiomatica mettere in luce l'identit latente dei suoi
dati (t. 2 p. 386); tutti gli assiomi non sono che dei casi o delle
applicazioni del principio d'identit. da
questa sorgente unica, che si espande in una dozzina di rivi, che derivano le
innumerevoli correnti e tutti i fiumi della scienza. Se il contrario degh
assiomi e delle loro conseguenze non pu essere creduto e nemmeno
concepito, perch esso contraddittorio; in questo senso che gli assiomi e le loro
conseguenze sono delle verit necessarie (t. 2^* p. 38(i). Se le verit dette
necessarie avessero la stessa origine che le verit d'esperienza, non vi
sarebbe, almeno per noi, tra i fatti, alcun legame necessario ed universale.
Noi saremmo capaci solamente di conoscenze relative e limitate; ma saremmo
incapaci di conoscenze assolute e senza limiti. Per gli assiomi e le loro
conseguenze, noi teniamo dei dati, che non solo s'accompagnano l'un l'altro, ma
di cui l'uno racchiude l'altro. Se, come dice Mill, essi non facessero cli^
accompagnarsi, noi saremo obbligati di concludere che forse non si accompagnano
sempre; noi non vedremmo la necessit interiore della loro congiunzione; noi non
la porremmo che in fatto; noi diremmo che, i due dati essendo per loro natura
isolati, possono incontrarsi delle circostanze che li separino; noi non
aferineremmo la verit degli assiomi e delle loro conseguenze che riguardo al
nostro mondo e al nostro spirito. Aia poich al contrario i due dati sono tali
che il primo racchiude il secondo, noi stabiliamo per ci stesso la necessit
della loro congiunzione: da per tutto ove sar il primo esso porter il secondo,
poich il secondo una parte di esso, e
non pu separarsi da se stesso. j. Il cardine di tutta questa dottrina del
Taine la teoria della dimostrazione: il
Taine adotta la forma particolare della dottrina concettualista del
ragionamento, secondo la quale questa operazione del nostro spirito consiste a
vedere che un'idea contenuta in
un'altra, per l'intromissione d'una terza idea media, la quale contiene la
prima ed contenuta nella seconda.
Tralasciamo Tinsormontabile difficolt inerente a questa dottrina per se stessa,
come possa farsi che una verit la quale consiste in una nozione che fa parte di
un'altra, non sia evidente per se stessa, 6 vi sia bisogno di comparare queste
nozioni con una terza, di cui si veda immediatamente che una parte delluna e che laltra una parte di essa. A questa inconcepibilit il
Taine ne aggiunge un'altra che gli
propria: egli ammette la dottrina cori' ceitaalista, ma non ammette i
concetti. Di queste tre idee, egli dice, la prima, pi comprensiva della seconda,
contiene la seconda, che pi coni presi va della terza, contiene la terza, e lo
spirito passa dalla i)i comprensiva alla meno comprensiva per Fintromissione (U
(juella la cui comprensione media. Ora
che sono (jueste tre idee^ esse sono dei soggetti e dei predicati. Un soggetto
pu essere un'idea concreta, ma un predicato
necessariamente una idea astratta. Di queste tre idee dunque, o due o
tutte e tre sono delle idee astratte. Ma non vi lianno idee astratte, dice il
Taine, non vi hanno che dei nomi. Come intenderemo (hmque questa identit
parziale tra le idee, (questa contenenza delFuna nell'altra? E evidente che
questa teorica del ragionamento suppone che il giudizio metta in rapporto due
concetti, un soggetto e un predicato: se il giudizio non mette in rapporto dei
concetti, ma delle rappresentazioni particolari e concrete, non potre]3be
affatto dirsi che queste rappresentazioni sono luna parte dell'altra. Se il
giudizio afferma le sequenze, le coesistenze, le somigianze tra i fenomeni,
questi fenomeni che il giudizio mette in rapporto, non so no certamente l'uno
parte dell'altro. Se dunque noi pensiamo per rappresentazioni concrete e
particolari, il soggetto e il predicato sono gli elementi della proposizione,
ma non sono gli elementi del giudizio. E delle idee contenute nel giudizio
l'una non pu essere una parte dell'altra; quindi nemmeno le idee contenute in
un ragionamento si comprendono l'una nell'altra, e lo spirito non passa, nel
ragionamento, dalla pi comprensiva alla meno comprenper l'intromissione della
media. Come dunque intenderemo il Taine, quando dice che delle tre idee, di cui
consta il ragionamento, la prima contiene la seconda, e la seconda la terza?
che noi vediamo che la terza contenuta
nella prima, perch vediamo che (j[uesta terza
contenuta nella seconda, e questa seconda nella prima? Queste tre idee
non sono che idee astratte, e le idee astratte non sono che nomi. Dunque il
primo nome contiene il secondo, e questo il terzo i La voce Pietro o Grice -- contiene la voce uomo, e questa la
voce mortale?, Confesser forse Taine che
un'impropriet di dire che un'idea ne contiene un'altra, e questa una
terza ; ma deve intendersi che questi rapporti di contenenza esistono, non fra
le idee astratte, che noi non abbiamo, ma fra i dati astratti, a cui
corrisponderebbero queste idee, se noi le avessimo. Nel ragionamento dunque noi
non percepiamo successivamente l' identit parziale fra i termini o fra le idee
; non percepiamo che un termine astratto
contenuto in un altro termine astratto, o che un'idea astratta contenuta in un'altra idea astratta: noi
percepiamo l'identit parziale fra i dati astratti, cio fra le entit astratte ;
percepiamo immediatamente che la prima entit contiene la seconda entit, e
questa la terza, e di l abbiamo la percezione mediata che la terza contenuta nella prima. Ma se queste entit
sono assenti dal nostro pensiero, perch noi non possiamo niente rappresentarci
di astratto, come intuire questa identit parziale fra di loro? come conoscere
che r una contenuta nell' altra? Se il
ragionamento fondato suU' identit, la
forza del ragionamento sar la percezione dell' identit: ma noi non possiamo percepire
identit alcuna n altro rapporto qualsiasi fra coso di cui non abbiamo
percezione n rappresentazione alcuna. Per iji a dir tutto in una parola, se
questi dati astratti, cose generali 0 caratteri o entit, non sono gli oggetti
del nostro pensiero, tanto meno possono essere gli oggetti del nostro
rarfonamento . (l) Le dimostrazioni che d ii Taine dei primi principii sono
fondate su questa realizzazione delie astrazioni, ed esse non potrebbero
conservare alcuna pretesa ad essere delle dimostrazioni, se si ammette che noi
non abbiamo idea di queste astrazioni. Tutte queste dimostrazioni sono foggiate
sullo stesso tipo: noi ne daremo qualche esempio. Il Taine vuol dimostrare
l'assioma: Se a quantit eguali si aggiungono (luantit eguali, le somme sono
eguali.. Egli ]>remette una detnizione dell' eguaglianza, secondo la quale
eguaglianza numerica significa la presenza (la Tuapooaia platonica) dello
stesso numero, mentre ineguaglianza significa la presenza di due numeri
differenti. Siano dunque due quantit eguali a cui si aggiungono delle quantit
eguali. Secondo l'analisi precedente, ci significa che la prima collezione
contiene un certa numero d'individui o d'unit, che le se ne aggiunge un certo
numero, che la seconda contiene lo stesso numero d'individui o d'unit che la
prima, che le se ne aggiunge lo stesso numero che alla prima, che nei due casi
lo stesso numero aggiunto allo stesso
numero, e che, pertanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero
aggiunto allo stesso numero, cio a dire lo stesso numero totale d'individui o
d'unit, donde segue, secondo la definizione, che le due somme o grandezze
finali sono delle grandezze eguali. Se in questo ragionamento lo stesso numero
vuol dire due numeri eguali, la dimostrazione pretesa non sarebbe che una
semplice petizione di principio: la forza probante della dimostrazione suppone
dunque che lo stesso numero sia un numero astratto o ideale, uno in se stesso,
ma presente in tutti i gruppi sensibili diversi che si dicono avere lo stesso
numero. Ma se si ammette che noi non possiamo concepire quest'astrazione
realizzata, la dimostrazione
impossibile; la sua nullit
provata dalle condizioni stesse del nostro pensiero. Veniamo ora alla
dimostrazione dell'assioma, del quale Taine fa tanto conto, che ogni verit o
proposizione ha la sua ragione esplcatlca. Per ragione esplicativa s'intende
uno o pi caratteri del soggetto, inclusi in esso come un frammento in un tutto,
pi astratti e pi generali di esso, e che essendo legati essi stessi all'
attributo, legano 1' attributo al soggetto. Ci viene a dire che l'attributo
non legato al soggetto stesso tutto
intero, ma ad uno 1 1 I 14^. Taine
arrivato a questo risultato, che un sistema di conoscenze reali pu
essere fondato sul semplice principio d' identit e di contraddizione, non tanto
per la via psicologica, come Condillac e GALLUPPI, quanto per la "^o pi
caratteri astratti e generali del soggetto. Il princpio dell'induzione secondo Taine un corollario del principio
della ragione esplicativa: il principio dell'induzione sarebbe che un carattere
generale indica sempre la presenza di un altro carattere generale a cui
esso legato. Questo principio si
dimostra mediante il principio della ragione esplicativa, cosi: Un carattere
generale un attributo, lo stesso in
molti soggetti distinti. Ora secondo l'assioma (della ragione esplicativa) esso
appartiene non direttamente a tale o tal altro soggetto distinto, ma
indirettamente a tutti per l'intermediario di una porzione che loro comune, e che a questo titolo un carattere generale: dimodoch esso suppone
la i)resenza di un altro carattere generale a cui appartiene; cos la sua
presenza basta per garantirci la presenza di quest'altro. Di i)i ({u*^st'altro
a cui appartiene generale, in altri
termini esso gli appartiene in non importa qual soggetto, o ambiente, b luogo,
o momento; in altri termini ancora, la presenza di quest'altro bosta per
trascinare e pertanto per garantirci la sua presenza . Se dunque noi possiamo
generalizzare la nostra esperienza, se supponiamo sempre con ragione che vi ha
un ordine uniforme nella natura, perch
sappiamo che un carattere generale
sempre legato ad un altro carattere generale, e noi sappiamo questo in
virt del principio della ragione esplicativa. Ora che conosciamo l'importanza
di questo principio, vediamo la sua dimostrazione. Un attributo comune a pii soggetti distinti, significa,
dice il Taine, che esso lo stesso in
tutti questi soggetti distinti. Ma un soggetto distinto una somma o riunione di caratteri che non si
ritrovano tutti e rigorosamente gli stessi in alcun altro, per quanto simile si
immagini. Questo parallelogrammo possiede almeno un carattere che gU proprio, e lo distingue dagli altri
parallelogrammi, il suo posto nello spazio. Se il soggetto , non particolare,
ma generale, il pa^ rallelogrammo in s, esso avr pure qualche caretterc
proprio, che lo distinguer dalle altre ligure simili. Se ora un attributo comune ad un soggetto e ad altri soggetti
distinti, cio se lo stesso in soggetti
die non sono gli stessi, vi hanno tre ipotesi possibili, e tre ipotesi
solamente. O l'attributo appartiene direttamente alla somma dei carattei'i
riuniti (di uno dei soggetti); o gli appartiene (al soggetto) indirettamente,
sia appartenendo a questa porzione ontologica. Condillac e Galluppi, e con loro
la maggior parte dei sostenitori della dottrina analitica, si tanno an (juesta
domanda: in che consiste Yevidenza di ra(jlone Zea ci rispondono: essa fondata sul rapix)rto d'identit fra le idee.
Ma il problema per Taine invece
anzitutto ontologico o metafisico: in che consiste, egli domanda, il
modo essenziale di produzione delle cose? questo legame necessario, (luesf
incatenamento reale delle cause e degli effetti, che Tesperienza non pu
mostrarci, non mostrandoci invece che delle semplici uniformit di della somma
clie si compone lei oaratteri assenti nell'altro sojxf^^etto, sia appartenendo
all'altra porzione. Ora le due i)rime ipotesi sono contraddittorie Infatti,
danna parte, l'attributo non pu appartenere alla porzione della somma clie si
compone dei caratteri assenti nel secondo soggetto; ioicli allora non
apparterrebbe af secondo soggetto, perdio questi caratteri vi mancano; ora, per
detinizione, gli appartiene. D'altra parte l'attributo non pu ap])artenere alla
somma dei caratteri riuniti; perch allora non appartcrrebl^e al secondo
soggetto, poicli questa riunione vi manca; ora. perdelnizione, gli appattiene.
Queste due sui>posizioni essendo escluse, non resta ciie la terza. Donde
segue che l'attributo a])partiene a (luesta porzione del nostro soggetto che si
compone di caratteri presenti in esso e nel secondo soggetto, cio a dire comuni
all'uno e all'altro, cio a dire infine generali. Questa la dimostrazione. Ora perch l'attributo non
potrey)be appartenere una volta alla somma dei caratteri riuniti del primo
soggetto, e la seconda volta alla somma dei caratteri riuniti del capitolo precedente nella sua forma
generale non che la tendenza, innata al
nostro spirito, ad uni versaUzzare della maniera pi assoluta 1 dati della
nostra esperienza pi famihare; e nella sua applicazione psicologica cio quale
sofisma a priori della psicologia intuizionista-ima formularsi cosi I legami
attuali fra le nostre idee, o fra le nostre sensazioni e le nostre idee, di cui
l'origine empirica non evidente, perch
sono dovuti a un'inferenza automatica o incosciente cio le cui premesse sono
assenti dalla coscienza e ci sembrano portare in se stessi la prova della loro
validit obbietttiva, noi siamo portati a eredere che lianno sempre esistito, e
non possono non esistere, nel nostro spirito e in quello di tutti gli uomini La
dottrina analitica dunque anzitutto uno
sviluppo ulteriore di questo sofisma a priori. La psicologia razionalista
comincia per supporre che vi Iianno delle necessita primordiali del pensiero,
senza cercare di darsi ra^ gione di queste necessit. Ma il diletto assoluto di
valore scientifico di (luesta ipotesi non le permette di mantenersi lungamente
senza subire una trasformazione la
trasformazione che si rende ragione di
queste necessit del pensiero, riducendole a una necessit logica ; e siccome non
si conosce altra necessit logica (derivante dai rapporti stessi delle idee e
indipendente dall'esperienza) che quella fondata sui principii d'identit e di
contraddizione, per questi principii che
si cercano di spiegare le pretese necessit del pensiero delia psicologia
razionaliperche nessuno riguarderebbe i fatti di cui si tratta come delle
operaziom della ragione. Per indicare dunque nella sua generalit la teoria
psicologica che, rigettando la spiegazione empirista d come originarie allo
spirito delle conoscenze o pretese conoscenze in realta avventizie ed
acquisite, il termine razionalista non ci sembra adatto: noi impiegheremo
perci, prendendolo dai filosofi inglesi, quello di intuizionista. sta (l. La dottrina
analitica, in quanto concerne gli assiomi, si basa dunque sul rigetto di questo
principio londamcntale della teoria deir esperienza, che ogn^inlerenza dal particolare al particolare, in virt deir
analogia tra il noto e rignoto. Ma se si comprende che (luesto i)rincipio applicabile anche agli assiomi ; se si
comi)rende che di antecedenti logici della conclusione A = C non som/gi A=:B e
H=:C per se stessi, ma sono le osservazioni dcir esperienza passata, che ci hanno
mostrato Teo-uaulianza Ira due grandezze legata con Teguaglianza fra ciasemia
di ([ueste grandezze e una terza grandezza; non sar pi ix)ssibile di ammettere
che la conoscenza dell'assioma riposa sulla semplice percezione di \\n legame
logico Ira le idee che costituiscono Y assioma, (i si dovr KoiNe si vedrn una
coiitraddizioiiL in ci che noi no.irhianio a'^li assiomi -enorali sulle
egun-lianze il carattei'e d necessit del pensiero mentre riconosciamo in essi
(luello di verit strettamente ncrcosizioni enuncianti due modi diversi di
formazione dello stesso numero. Il pensiero
lo stesso, egli dice, nelle due proposizioni, ma il modo della
generazione del pensiero differente
nella prima e nella seconda. Ora ci
un'estensione della nostra conoscenza. La sostituzione di un'espressione
ad un'altra equivalente o identica nel senso conduce perci secondo iui alla
scoverta della verit; e il principio logico per cui ci permesso di passare da ima proposizione alla
sua equipollente, come dalla prima alla seconda delle due proposizioni citate,
egli lo chiama un principio generale per trovare la verit ignota, un principio
luminoso che guida lo spirito indagatore alla scoverta del vero. (Sar/r/io
Jlos). Il fondamento e l'essenza della dottrina anaitca consiste nella
confusione tra l'inferenza reale e l'inferenza puramente apparente o verbale. E
infatti che cosa pu essere una verit assiomatica, per questa dottrina, se non
un'inferenza immediata come quella da una proposizione ad un'altra
equipollente? Questa confusione si vede anche, d'una maniera palpabile,
nellpiamo, era pure un partiiiiano estremo del sillogismo, d la forma
sillo.i^istica alle inferenze immediate: cosi egli dimostra le roncersionc
delle proposizioni per mezzo di silloijismi di (Uii uno premessa una i>roposizione identica nei termini
(O.s^ni A A) -ci die fa vedere, egli
dice, rutiiit delle proposizioni identiche i>i pure (cio anche nei
tennnii)-(V. N. S. MiirintcnrL urn. lil). ^. e. viaino una tendenza tutta
opposta in alcuni filosofi contemporanei, cio a ridurre o assimilare certe
inferenze apparenti a quelle inferenze reali che vengono ritenute delle
necessit primordiali del pensiero. Quantunque queste due dottrine sono in una
certa guisa contrarie, tuttavia esse hanno un fondamento comune: fassimilazione del-" le interenze reali
e delle inferenze apparenti; solo, in un caso le prime sono ricondotte alle
seconde, nell'altro caso le seconde alle prime. Ora questa seconda dottrina
non meno della prima in contraddizione
coi principii della teoria dell esperienza; perch essa pure tende a stabilire
che vi siano delle inferente reali, che non sono fondate suUesperienza e
sulfinduzione. Bench gli autori in cui troviamo questa dottrina non ammettano
sempre questo risultato di essa, e alcuni lo rigettino anche esplicitamente
esso non ne sarebbe meno, secondo noi, una conseguenza logica. Cosi, sia per
(luesta ragione, sia per if rapporto di (luesta dottrina con la dottrina
analitica, non sembrer inop[)ortuno di parlarne; noi crediamo anzi che sia un
complemento naturale della discussione della dottrina analitica. Spencer uno degli autori, in cui noi troviamo la
tendenza di cui quistione: e^li non
riconosce nel sillogismo ( (piale lo considera la logica formale, cio prendendo
la premessa maggiore per una proposizione strettamentc generale, e non, come
vuole Spencer, per una pro[K)sizione indicante una uniformit dell'esperienza
passata) il carattere d^inferenza reale ( v. Prineipii di psi-^ cokxjux); ma
non ammette che il sillogismo sia la sola forma logica della deduzione, e
questo carattere cFinferenza reale eh egli nega al sillogismo, lo riconosce
nondimeno a deduzioni clf egli considera^estrasillogistiche. Ora con ci questo
filosofo si mette necessariamente in contraddizione coi principii della
dottrina delfesperienza, clfegli generalmente segue nella sua Psicologia. Non
pu esservi, secondo questi principii, una deduzione che non sia fondata sopra
un^induzione: ora se cosi, se ogni
deduzione suppone un'induzione, ogni deduzione non pu essere che un'inferenza apparente,
e non reale, e di pi non vi ha alcun vero ragionamento che sia
estra-sillogistico, in quanto ogni ragionamento valido deve essere capace di
passare per due fasi, di cui la seconda
sempre un sillogismo, come la prima
sempre un'induzione. Ma invece secondo Spencer vi hanno delle inferenze
reali e necessarie che egli sembra considerare come indipendenti dalFinduzione
(e perci pure dal sillogismo); e vi hanno inoltre delle inferenze puramente
apparenti clfegli considera come reali. 2P. Nel primo caso si tratta degli
assiomi matematici: Spencer sembra considerarli come delle intuizioni della
ragione, indipendenti dairesporienza. Egli definisce il ragionamento
rintuizione di un'eguaglianza o ineguaglianza, somiglianza o differenza, di
rapporti. L'inferenza che noi facciamo in questo ragionamento: La fermentazione
della birra sviluppa dell'acido carbonico; dunque la fermentazione in questo
tino di ])irra sviluppa dell'acido carbonico ,
un' assimilazione del rapporto tra i due fatti afermato nella conclusione
ai rapporti simili tra i fatti antecedentemente conosciuti, rapporti che sono
riassunti nella premessa generale. Cosi, quando nella dimostrazione di un
teorema geometrico s'invoca una proposizione antecedentemente dimostrata, vi
lia l' intuizione dell' e^uaglianza fra il rapporto attuale nel caso
particolare su cui volge la dimostrazione, e il rapporto anteriormente
dimostrato nella proposizione invocata. Sin qui la teorica di Spencer non
differisce essenzialmente dalla dottrina dei logici moderni, quale si trova in
Mill o in Bain. Ma quando tratta invece di applicare, nella dimostrazione, non
una proposizione anteriormente dimostrata, ma un assioma f>ulle eguaglianze
o sulle ineguaglianze, l'intuizione non
pi, secondo Spencci*, (juclla dell' eguaglianza o somiglianza Ira il
rapiX)rto stabilito nel caso particolare su volge la diiiiostrazione, e i
rapporti analoghi antecesicologia associazionista e con la pi-oposizione
tronerale tanle voUe emessa dall' autore, che le verit necessarie sono
anciiesse dei risaltati da!resi>erienza (v. Prncipi di jsicolooia). La
teorica di Spencer sulle verit necessaire , come si sa, un'ipotesi che pretende
di conciliare le due teorie rivali suir origine di queste verit, Vaprioiista o
intuizionista oAa empii ista, annnettendo che le conoscenze che la prima suppone
dovute a necessit-i'i primordiali del pensiero, sono delle inferenze latenti
dovute all'accumulazione oriranica delle esperienze avitiche ( 282, 284), e
nega che essa riposi sul ragionamento. Spencer neir assioma matematico indicato
vede un caso speciale di una verit pi generale, la pi (v. J'iincipii (li
psicoloiiia, e Saufii di morale, di scienz-a e d'estetica, v. 3. Obbiezioni ai
Primi principii e Hisi)oste). una forma
della teoria empirista: ma siccome Spencer non si mantiene sempre fedele alla
teoria, e ammette esplicitamente che vi hanno delle verit che non sono il
risultato deiresperienza, sia individuale che ereditariatale il pi*incii>io della pei-sistenza della
forza coi suoi corollari (indisti'uttibilit della materia. leg}2:e della
causalit, ecc. v. questo Sagji:io cap. 9. nota ultima al??. > -cos non pare
impossibile che (|uesto filosofo si allontani anche in altri casi dai
i)rincipii che. in venerale, etili anuncttc in comune con la llosofia deiresperienza,
secondo i juali oirni assioma matematico dovreb])e essere i^cr lui un'inferenza
latente dovuta alle esperienze ereditarie. Nella {(iov\ex\ i\(i\ ragionatnento
(/aantitatiro, in cui l'autore avrebbe avuto tante occasioni di alludere a
(juesfipotesi suIForgine degli assiomi, egli non lo fa mai. mentre al contrario
vi allude in un altro caso, d'unimportanza insignificante, d" inferenza
matematica, che non per assiomatica (Il
caso questo: Se A dMilOO pi piccolo che H, si ]u concludere
immediatamente che la met di A pi grande
cie il terzo di B. K questa, secondo Spencer, una conclusione immediata, uif
inferenza latente, la cui genesi si si>iega peiM'ipotesi dell'accumulazione
ereditaria delle esperienze. Mi sembra strano, sia detto di passaggio, che lo
Spencer alVermi di questa )roposizione matematica che non si pu citare ne un
princi]io generale ne un'espei-ienza particolare che servano di i)rincipio a
questa conclusione, (juando l;i ])roposizione
facilmente dimostrabile, e si possono (juindi citare principii generali da cui deriva, che non sono
se non gli assiomi generali sulle eguaglianze, su cui riposa tutta la
matematica). Ma non solo lo Spencer non fa la minima idlusione a questa
ipotesi, di pi egli emette delle asserzioni che sono inconciliahH con
(lualsiasi forma erlanto se quej4,i casi fossero di natura da ]>oter essere
formulati in sillogismo . E pi generale che si possa conoscere per il
ragionamento a rapporti congiunti (cio in cui i rappoi^ti comparati, che
vengono dati^ hanno un termine comune): egli formula quesfassioma generale di questa
maniera: Le cose che o-i dice 11 rairionamento doirhigegncro clic fi\ il suo
ponto a tubo Tche ecrli adduce in esempio nel. 277) non pu esseiv messo m
sillogismo N nella sua esperienza n in (piella degli alln uomini, il nostro
in-egnere non ha trovalo un sol caso che possa servire di base alla sua
conclusione. Tuttavia egli arriva a questa conclusione per un atto mentale che
si pu analizzare quantuniue sia complicato: egli riconosce in un caso
particolare (piesta venta generale che dei rapporti che sono eguali ciascuno a
dei rapponi che sono ineguali tra loro, sono essi stessi ineguali. Che questo
principio sia una verit assiomatica, come crede Spencer, o sia unaproposizlone
dimostrabile e n. non , dice Spencer, una scienza delle leggi del pensiero;
queste leggi di correlazioni necessarie che formula la logica, sono delle
necessit obbiettive, non delle necessit subbiettive. Vi ha una distinzione
difficile a comprendere in ragione del suo carattere molto astratto, tra la
scienza della logica e la spiegazione del processo del rar/ionamento ... Ecco
questa distinzione in poche parole: La logica formula le leggi pi generali
d'una correlazione tra esistenze considerate come obbiettive; la spiegazione
del processo del ragionamento formula le leggi pii^i generali di correlazione
tra le idee corrispondenti a queste esistenze. L'una studia nelle sue
proposizioni certi legami affermati, i quali sono contenuti necessariamente in
altri legami dati questi legami essendo considerati come esistenti nel non me,
sotto una forma qualunque, e indipendentemente dalla forma sotto la quale noi
li conosciamo. L'altra studia il processo nel me, che conosce questi legami
necessari ( 302). mostrare questo
carattere obbiettivo dei rap})orti della logica, Spencer si appoggia
Sjjecialmente sui siilo-gismi numericamente definiti di Morgan: egli sviluppa
lungamente dei sillogismi che sono delle applicazioni di questa formula: Se la
pi parte dei B sono C, e la pi l)arte dei B sono A, dunque alcuni A sono C. Ma
oltre questi sillogismi, che sono i soli, sembra, secondo Spencer, che
formulano delle correlazioni obbiettive necessarie , vi hanno altre
correlazioni di questa natura che Noi diciamo che questi sillogismi sono i soli
a cui Spencer fa esprimere dei rapporti obbiettivi necessari: ma l'esposizione
d\ (luesto punto della sua dottrina non ci sembra avere tutta la nettezza che
si potrebbe desiderare, ed difficile di
essere sicuri rendere il vero i^ensiero dell' autore sul sillogismo Per provare
il carattere ol)biettivo delle necessit logiche, egli cita pure la lju'china di
lenons per fare sillogismi. i'\ qui evidente, egli dice, che il rapporto dato
nella conclusione obbiettivo, e che essi
non possono abbbracciare. Un esempio che d T autore quello che
contenuto in questa veccliia arguzia: supponiamo che vi siano pi persone
in una citt che capelli nella testa d\ma persona qualunque; devono esservi
almeno due persone in questa citt che abbiano nella testa lo stesso numero di
capelU. Questo caso, continua Spencer,
oltre che ci mostra chiaramente resistenza di correlazioni obbiettive
necessarie che, come abbiamo detto, formano la materia della scienza obbiettiva
pi astratta, ci la vedere pure che la logica, considerata come essente questa
scienza, comprende molte cose che non possono essere racchiuse nelle forme
logiche ordinarie questo rapporto
obbiettivo era ncccssariaiiiente contenuto in questi aUri rapporti obbiettivi
ohe costituiscono le premesse . Ma se
cosi, se la conclusione contenuta
neremessa maggiore non il semplice
equivalente dei fatti particolari dell' esperienza passata , perch in questa
supposizione la conclusione non sarel)be cotenuta necessariamente nelle
premesse ; ma il tutti signilca tutti i casi senza eccezione che
sono compresi nella classe, senza escluderne il caso stesso della
conclusione. allora soltanto che il
rapporto obbiettivo atermato nella conclusione
contenuto necessariamente nei rapporti obbiet-; tivi die costituiscono
le premesse, e del resto di questa
maniera che i logici ordinariamente considerano il sillogismo. ^U\ nel
sillgismo cosi considerato l'inferenza , come Spencer sostiene con ragione
contro Hamilton, non reale, ma apparente. Se dunque le conclusioni ottenute per
la macchina di levons non sono che delle semplici inferenze apparenti, come
potrebbero esse corrispondere a delle correlazioni ohbiettice? Noi perci
abbiamo considerato ci che Spencer dice a questo soggetto come detto
semplicemente in grazia dell'argomento, e non valevole quindi a modificare
l'interpretazione che noi abbiamo dato della sua dottrina, attribuendogU
l'opinione che fra i sillogismi i soli numericamente definiti esprimono delle correlazioni obbiettive
necessarie. Studiando questa parte della teorica del ragionamento di Spencer, e
considerandola isolatamente, potrebbe sembrare di aver da fare forse con
qualche discepolo di Hegel. Se le correlazioni della logica sono obbiettive,
siccome la logica ( formale ) non concerne che le correlazioni fra le
proposizioni, e le proposizioni sono generali, bisogner dire che vi hanno delle
entit generali, corrispondenti alle proposizioni generali, e le correlazioni
obbiettive della logica saranno le correlazioni di queste entit. Ma Spencer non
la intende a questo modo, ed egli non un
dispepolo di Hegel; egli sempUcemente un
discepolo, nella sua teorica del ragionamento, di questa scuola di logici
inglesi che noi possiamo chiamare formalisti, perch il loro oggetto precipuamente di sviluppare la logica
formale, mentre la logica di Alili e di Bain
una logica tutta reale, che approfondisce la natura delle operazioni
reali della ragione, e studia le condizioni generali della validit di queste
operazioni. Senza dubbio, nella sua teorica del ragionamento, lo Spencer non ha
per oggetto di sostituire e di aggiungere, come fanno questi logici
fornialisti, delle nuove formule a quelle della logica tradizionale ; ma evidente T influenza delle idee dei promotori
di questa scuola su quelle di Spencer. Questa influenza io la riassumo in due
punti: la confusione tra un' inferenza reale e un'inferenza apparente ; e le
forme logiche ordinarie (induzione e sillogismo) considerate, non come il
totale, ma come una semplice frazione, delle operazioni del ragionamento.
Secondo Morgan, a cui (e ad Hamilton) si riattacca sovratutto questa scuola di
logici formalisti, vi una logica
generale, di cui la logica ordinaria non
che un caso particolare. Gli assiomi della matematica, come: A = B, B =
C, dunque A = C, non sono riduttibili alle forme logiche ordinarie: la logica
delle matematiche e la logica ordinaria sono due casi speciali e paralleli
della logica geiiemle. I Ibiicainenti del ragionamento (deduttivo) non sono i
pi4nciiii d'identit, di contraddizione e del mezzo escluso: essi non
giustificano i progi^ssi del pensiero. Il ragionamento possibile per il carattere di iramitlcii
appartenente alla copula (simtolo generale della relazione, che egli wkAq
sostituito alle copula ordinaria >),
qualunciue sia il senso [^articolare ili essa. Il senso ddla copula pu essere
uno di questi: eguale a, identico a,
legate a, il fratello di, si
accorda con, ecc. E il carattere di transitivit pu esprimersi per (piesta
proposizione: Se una cosa in una
relazione data con una seconda e una tei^a cosa,* queste due ultime sono tra
loro nella stessa relazione. (Soi ai )]jinmo gi trovato in Spencer una variante
di questa lnnula). Nella logica irmale la copula indica Videntttk: ma la logica
deYidentit e quella e\Veijua(jlian:^a non sono che due casi della logica
generate della relazione. L'assioma del sillofiismo e l'assioma matematico
sopraindicato (se A =: B e H C, A =C), come anche l'assioma deirargomento a
foj'tiijri.'souo delle lorme particolari di (piest assioma generale: La
relazione di una illazione una relazione
comiX)sta delle due. Tutti (jucsti assiomi sono delle necessit iJi^mitive e
irriduttibili del nostro pensiero. Cos il sillogismo non fondato sui principii d'identit e di
contraddizione; ma esso non che un caso
della riduzione di due relazioni atl una sola, o della conposizione delle
relazioni (V. Liard Lo(jici ine/ lesi contemporanei; . (Inlevans si riirovaiio,
in uiraltra foriua, iie priK-4iM t^ssc^n/ialmcntt' identici. L'unico processo
del ragionamento la sostituzione dei
simili. La logica generale procede per sostituzioni, Xkcrcli, in ogni
relazione, una cosa oon un* altra cosa
nello j=ftesso rapiM3ito in cui essa con
una cosa identica, simile o eqiiivalente a questa, e in un insieme noi possiamo
rimi)iazzarc una parte per il suo equivalente senza alterare il tutto. 11
rnj2:ionamento matematico i un caso di questa so.stituzione. A^-H: S 11 fondo
di tutte queste affermazioni, in ci che esse hanno, secondo noi, di erroneo,
consiste in questi due punti: che delle conoscenze dovute all'esperienza
vengono considerate come delle intuizioni primordiali della ragionoi
i>ossiamo sostituire, in ogni relazione, H ad A ed A a U. Se H , e levons
Mannaie rll JjJdca (Manuali IocpU). 11 sistema di levons certamente molto ingegnoso, tanto \mi che io
stesso >rincii>io della sostituzione pu applicarsi alla sfu'egazioiKi del
ragionamento per analogia. Tuttavia (juesto princ-ipio non potre)l3e passare
per una rigorosa generoliz/azione scientilica, perch i fatti che si liuniscono
in una unica formula generale non sono essenzialmente identici, ma dispaniti.
Dei casi che si pn^sentano come paralleh, rieiitrtmo al contrario gli uii negli
altri: le sostituzioni in matematica non sono infatti flei casi distinti did
sillogismo e dall' induzione e paralleli ad essi, poi-ch queste soslitnzioni si
fanno per l'applicazione degli assiomi, ({uind mediante sillogismi le cui
i)remesse maggiori sono delle induzioni. Inoltre i>ef le sostituzioni dei
termini nella logica formale il pensiero non fa alcun j^rogn^sst, e (jueste
sostituzioni sf)no governate dal principio dell' identit: ma le sostituzioni in
mjdematica costituiscono un vero pwgresso del ]*enilicazone particolare del
principio generale, gi espresso iiKjUesta forma: y r'z. Questa sostituzione non
, in altri termini, che la conclusione di questo sillogismo: Si pu sempre
sostituire r'z ad // in qualunque proposizione // si trovi; ma questa
espressione: v ^ry, che Boole chiama un'eciuozione, una proposizione in cui si trova //; dunque
in questa espressione si pu sostituire r\: ad //. Cosi, lungi che il sillogismo
sia fondato sulla sostituzione, al
contrario la sostituzione che fondata
sul sillogismo. Se noi ora domandiamo a Boole donde sa egli che //=r^-?, cio
che r'z pu sempre sostituirsi ad //, egli non potr dare al fondo una ragione
che sia dirVerente dnlla vecchia massimo: nota notae est nota rei ipsius. ^-^j'
. nei fatti reali e concpeti clic esse significano: dire che una
proposizione vera dire semplicemente che i l'atti reali e
concreti, che sono da essa significati, esistono realmente; cosi tutte le volte
die la verit di date pro|XK sizioni implica resistenza di certe cose o di certi
lenoineui, e resistenza di queste cose o di (luesti lenonieni stessi basta,
senzaltro, perch una nuova proposizione sia vera, allora il passaggio dalle
prime proposizioni alla , non un'inferenza reale, ma api)arente.
I/inferenza reale, quando invec3
l'esistenza dei fatti implicati dalla verit di proposizioni date non basta per
se stessa perch la nuova proi)Osizione, a cui si passa, sia vera, bisognano
perci altri fatti nuovi, sia d'alti^nde che questi, nel nostro pensiero, siano
separabili dai primi, sia che siano legati ad essi d'una maniera inseparabile.
Facciiuno ora lapplicazionc del nostro principio a queste pre* tese inferenze:
Se A prima di B e B prima di (:, A prima di C; ovvero: se A simultaneo con B e B simultaneo con C, A simultaneo con C. L' atiermazione delle
conseguenze importa forse dei fatti nuovi che si aggiungono ai fatti implicati
neUaHermazione delle premesse? evidente
che no: tuttavia si replicher che, Infatti Ui lettera r' indica unicamente die
-: i>iii esteso di^, e ci vuol dii'c
die // il soetto di questa proposizione
predicare il predicato di //. K duiKiue luesta massima die il vero princifuo su (^ui si fondano i
processi di Hoole relativi al sillogismo, massima die non se non una generalizzazione tirata dalle
illazioni valide die noi ab})iamo gi fatte senza Taiuto n di (juesta n di altre
massime, e in virt del semplice principdella coerenza, e die non ha niente di
comune con gli assiomi su cui fondato il
processo della sostituzione in matematica. QJieste stesse osservazioni possono
applicarsi al processo di sostituzione ammesso da levons. implicata la coesistenza di A e di C, e che
per V allermazione di quest'ultima coesistenza non vieie posto alcun fatto
nuovo, che non fosse contenuto nella posizione delle ])iettivo, se non un fatto obljiettivo, perch
le eguaglianze sono dei fenomeni subbiettivi, delle percezioni, reali o
possibili, che si distinguono realmente dalle percezioni dei fenomeni
oljbiettivi tra cui le eguaglianze si staljilis^ono. Dicendo che A uguale a C, io intendo (Hre che io o altri
i)Otremmo avere la percezione attuale deireguaglianza tra (pieste grandezze,
facendole coincidere perfettamente runa con l'altra, o misurandole e trovando
che esse hanno la stessa misura, cio facendo coincidere Tuna e Taltra uno
stesso numero di volte con uria stessa grandezza. Ora questi fatti, significati
dalla proposizione: A Uguale a C, sono
dei l'atti nuovi, che non sono compresi tra i fatti significati direttamente
dalle proposizioni: A uguale a B, B uguale a C. Ma niente di simile potrebbe
dirsi per le coesistenze, perch una coesistenza o una sequenza non un nuovo fenomeno, distinto dai fenomeni che
si dicono coesistere o seguirsi; non che
un ordine nel tempo, cio un modo di esistere, di questi fenomeni: ora dato
l'ordine nel tempo tra A e B e tra B e C,
dato gi con ci stesso quello fra tutti e tre questi fenomeni, e quindi
pure tra A e C. perci che l'assioma
sulle eguaglianze esprime im'inferenza reale, mentre il preteso assioma sulle
coesistenze, o quello sulle sequenze, non esprime che un inferenza apparente.
Lo stesso deve dirsi delle proposizioni: Se A
fratello o camerata di B, e B
fratello o camerata di C, A e C sono fratelli o camerati , e di tutte le
altre pretese inferenze, che si sono immaginate o possono immaginarsi sullo
stesso tipo. Se esistono i fatti, i (piali sono le condizioni percli le due
j^rime affermazioni siano dette vere, questi fatti stessi^ senz'altro, bastano
perch la terza aMermazione sia detta anch'essa vera. N il caso differente per la vecchia arguzia menzionata
da Spencer: vi hanno pi i)ersone in una citt che capelli sulla testa di una
persona qualunque, dunque vi hanno almeno in questa citt due persone con un
numero eguale di capelli. evidente che
se esistono i fatti, i quali permettono di dire che la premessa vera, gli stessi fatti, senz'altro,
permetteranno i)ure di dire che vera la
conseguenza. Tuttavia qui vi sarebbe una difficolt al punto di vista della
teoria concettualista: la premessa non determina con precisione quali siano i
fatti particolari e concreti, con tutte le loro circostanze individuanti, a cui
essa corrisponde. Perch essa sia vera,
certo che certi fatti particolari e concreti devono esistere, e questi
fatti non possono esistere d'una maniera astratta e indeterminata, come le
entit degli scolastici, ma con tutte le circostanze particolari che
appartengono alle cose concrete e deter. Ma la proposizione non pone alcuna di
queste circostanze particolari: cosi essa non afferma niente sul numero delle
persene che esistono nella citt, sulla loro quaht, e su tutti i caratteri
particolari che fanno di ciascuna di queste persone un tal individuo
determinato; essa non afferma dunque che una condizione astratta dei tatti concreti,
la quale si verifica in tutti i differenti casi possibili, in cui la
proposizione non cessa di essere vera La stessa indeterminazione vi ha pure
nella conclusione: questa afferma un'altra condizione astratta, alla quale i
fatti sono necessariamente sottomessi tutte le volte che essi sono sottomessi
alla prima, e l'inferenza reale, in
quanto afferma la correlazione necessaria fra queste due condizioni astratte,
la necessit die la seconda segua la prima. Questo potrebbe dirsi al punto di
vista della teoria concettualista: ma noi sappiamo che una propriet o una
condizione astratta non altro che la
possibilit di applicare ad una cosa determinata o a dei fatti determinati una
certa forma verbale; perci la correlazione necessaria fra due propriet o
condizioni astratte non altro che la
correlazione necessaria tra due forme verbali, di cui se l'una apphcabile, l'altra pure necessariamente applicabile. La
proposizione non enuncia che una condizione astratta: ci vuol dire
semplicemente che le parole non sono perfettamente determinative ; non
determinano d'una maniera assoluta i fenomeni particolari di cui esse sono i
segni. Le parole essendo generali, non possono esprimere perfettamente l'
individuale, ci che assolutamente
determinato: applicando la parola uorao, non affermiamo niente del colore,
della statura e di tutte le particolarit infinite, che sono proprie
dell'individuo, qualunque sso sia, a cui il nome viene applicato. Se si dice:
vi ha 2fi(i l un uomo, un' infinit di rappresontazioni particolari j>ossono
ugualmente essere suggerite al nostro spirito;
|)0ssil)ile che vi sia un uomo bianco o nero, di statura alta o di
statura bassa, ecc. Qualunque sia di ([uesti casi possibili quello die si
verifica, la propos izione sempre vera,
ma perch la proi^osizione sia vera, uno o un altro di questi casi passibili
deve verificai'si La parola non determina dunque i tatti reali da essa
indicati; ma ci presenta un numero infinito di jos sibilit, tra cui si in certa guisa lilxn di scegliere. Essa
traccia, i>er dir cosi> c^mi ui c3i*:ihio di pr>>i!jilit: uni o
un'altra delle [xdssil)ilit comprese dentro il cerchio deve effettuarsi, ma
nessuna di (luellc che re^stano fuori del cerchio pu effettuarsi, se la
enunciaziiue vera. Ora se, (jualunque
sia quella fra le possibilit, incluse da una pro[X)sizione, che si verificili,
i fatti saranno sempre tali che essi basteraimo, senz'altro, i)erch una seconda
proposizione sia vera, vi ha allora un passaggio possil)ile dalla prima proposizione
alla seconda, che noi possiamo, se vogliamo, chiamare un'inferenza, purch sia
convenuto che 1* inferenza in ({uesto
caso semplicemente verijale o apparente, e non reale. . 25.*' Le stesse
osservazioni i)Ossono applicarsi al sillogismo numericamente definito: La pi
parte dei B sono C, la pi parte dei H sono A, dunque alcuni A sono C.
Supponiamo, come fa Spencer, che la classe H raj)presenti gli animali d'una
masseria, C i montoni, e A gli animali malati; ed esponiamo cosi il sillogismo
in termini pi concreti: La pi parte degli animali della masseria sono montoni;
la pi parte degli animali della masseria sono malati; dunque vi hamio tra gli
animali della masseria alcuni montoni malati. Si i)aragoni (questa inferenza
con quest'altra: Tutti i montoni che io ho conosciuti ruminavano ; dunque i montoni
della masseria ruminano. Qui i latti significati dalla )remessa e i fatti
significati dalla conseguenza sono dei fatti distinti: essi esistono
separatamente nella realt, e noi i)Ossiamo rapseparatamente. I fatti del primo
gruppo sono certamente in un tal rapporto con ({uelli del secondo gru[)po, che
la verit dei primi ci permette di ammettere anche la verit dei secondi. Ma ci
non toglie che resistenza fatti significati dalla prima proposizione: i montoni
che ho conosciuto ruminavano >, non importa i>er se stessa la verit della
seconda proposizione: i montoni della masseria ruminano ; la verit di (|uesta
seconda proposizione implica l'esistenza di un altro gruppo di fatti, i quali,
quantunque siano logicamente legati con quelli del primo gruppo, ne sono per
assolutamente distinti. In (piesto (!aso perci l'inferenza reale. Ma nel sillogismo numericamente
definito di cui quistionc, il caso
non lo stesso. Gli stessi latti
implicati dalla verit delle due premesse, importano pure per s(3 stessi la
verit della conseguenza. Se gli animali della masseria sono in tali condizioni
che le due premesse siano vere, ci basta, senz'altro, perch la conseguenza sia
pure vera. I fatti che permettono di enunciare le due prime pi^oposizioni, sono
gli stessi fatti che permettono di enunciare la terza proIX)sizione. Le duo
prime proposizioni, in verit, non determinano questi fatti d'una maniera
assoluta: ma ci non toglie che i fatti reali, di cui esse sono i segni, siano
dei fatti assolutamente determinati; poich le proposizioni non significano
delle astrazioni, le quali non esistono n nella realt n nel .nostro pensiero,
ma dei fatti concreti e particolari. I fatti reali, di cui le due piime
proposizioni sono i segni, sono dunque gli animali della masseria con tutte le
circostanze |)articolari con cui questi esistono. Ma le proposizioni non
determinano che certe condizioni astratte dei fatti reali significati: ci vuol
dire che esse lasciano aperto il campo ad un gran numero di
possil>ilit,delle quali qualunque siano quelle che si verifichino, le
proposizioni non cesseranno di essere vere. La pi parte degli animali della
masseria sono montoni *: questa proposiziono ci permette di fare un'infinit di
supposizioni sul numero degli animali, sulla proporzione precisa dei montoni con
gli altri, sulla specie di questi altri, sullo stato di salute o di malattia e
su tutte le altre condizioni particolari di ciascun individuo. La proposizione
segna i limiti dentro cui possiamo fare delle supposizioni: una o un'altra di
queste deve eifettuarsi, perch la proix)sizione sia vera; una o un'altra pu
effettuarsi, la proposizione restando sempre vera. 11 somiretare le parole del
leiiislatore. Del resto non si potrel)be attermare senza riserva che il
silloiiismo numericamente definito sia un' inferenza, non reale, ma aj)]arente
Ci ci seiid>ra vero del sillojjrismo clic Spencer adduce l>er esempio, ma
non di (luclli a cui Morgan applica proprianu^nte la designazione di sii lori
^iit a ^/uantit nume rict unente (/cfinita. (juesti sillo.LTismi lianno luogo,
([uando sono dati dei numeri esatti. W e., in KM^i casi di non importa che cosa
(siano 10(i animali 0 = 30 A's (montoni) devono essere Vs (malati). In questo
caso non i>u dirsi che vi sia uaa semplice inferenza aiX>arente,
i>erch ] er trovare il numero 'M) Insognano delle inferenze reali. (Questo
numero esatto non pu trovarsi senza fare delle o[erazioni sui numeri dati; ocn
(lueste operiizioni imi-licano l' ai>plicazione degli assiomi mateuatici
sulle eguaglianze, e perci delle inferenze reali. In verit il sillogismo a
quantit numericamente detinita, sotto la t'orma api>arente del sillogismo,
non che un vero problema di matematica,
di cui le premesse presentano i dati, e la conseguenza d la soluzione. Es,so non
dillei'isce da un altJ'o problema articr>lar.^: a questa specie d'inferenza che si
api>licano di tutto punto le massime e le regole odinarie sul sillogismo.
D'altronde (piesta specie d'inferenza merita di occupjuv un posto proposizione
distinta, vi sia necessariamente un i)roaresso i^ale del f>ensiero e una
vera inferenza; questa illusione, dico,
tanto naturale al nostro spirito, che gli stessi i)rornotori della vera
teoria del ragionamento, la nominalista, non ne sono stati del tutto esenti. 11
Mill e il Bain si sono aneli essi lasciati sedurre da questa falsa analogia tra
le inferenze puramente apparenti della logica formale e le inferenze i-eali
della matematica. Per evitare la difficolt che il ragionamento sia una semplice
petizione di principio, e siegare al tempo stesso T intromissione d^ma seconda
proposizione (la premessa minore), per cui un'inferenza mediata s lUstingue da
un' inferenza immediata, il concetdistinto fra tutte le inferenze di cui tjuistione o pu essere (juistione nella
logica formale, perche, se essa si considera non l isolatamente, ma in
connessione con l'induzione anteriore di cui la ^u^Milessa maggioi^e il risultato, noi abbiamo il tipo a cui oimi
inferenza reale legittima pu ricomlursi. Mn niente di tale pu dirsi di t^tte le
altre inferenze apparenti della logica formale, e non imi)orta se abbiano una
sola o due premesse. Queste ijderenze'con due premesse, le (juali non sono dei
veri sillogisnn', nel senso che stato
delnito. potrebl>ero cMh\xunv^\ pseuclo -sillogismi 'Hdi sono oltre i
silligismi numericamente definiti di Morgxuj. i sillogismi con premesse
singolari, e i sillogismi ilK>tetici, di cro i)ure Hcondurre alla stessei
categoria dei iseudosillogismi le inferenzxr di cui ^ stata in ogni sillogismo, considerato come un argomento
provante una conclusione, vi ha una petitio principu {Logica). Ma contuttoci egli respinge il
cUctam come principio del sillogismo, perch, il cUctum essendo una
proiX)sizione identica, in questo caso il sillogismo sarebbe certamente, come
spesso si detto . una sollenne futilit.
Sembra dunque che l'introduzione dell'assioma dell'autore abbia per oggetto di
salvare il sillogismo, non dall'accusa di essere una petizione di i)rincipio,
ma da quella di essere una futilit. Ma ci pare difficile di vedere una
distinzione reale tra futilit e petizione di principio. Locke chiamava frivola
una proposizione in cui lo stesso si predica dello stesso, cio in cui
l'attributo contenuto nel soggetto: un
ragionamento frivolo o futile sar cos un ragionamento in cui lo stesso si prova
per lo stesso, cio in cui la conclusione
contenuta nelle premesse, vale a dire una petizione di principio.
Ammettere, come si fa generalmente, che il sillogismo fondato sul principio di contraddizione, riconoscere che esso, considerato come
costituente una prova per se stesso,
realmente una petizione di principio. Se in effetto si ammette che una contraddizione di negare la conclusione
dopo aver affermato le premesse, perche
il principio generale, che fa da premessa maggiore, si considera come
l'equivalente di tutte le verit particolari che esso abbraccia, e quindi la
verit affermata dalla conclusione come una parte di quelle affermate dalla
premessa maggiore. Ora, siccome appunto
perch la verit affermata dalla conclusione
una delle verit affermate dalla premessa maggiore, che questa
proposizione una prova di quella, ne
segue che una cosa la prova di se stessa,
e che il ragionamento un circolo
vizioso. Questa obbiezione contro il sillogismo, clie esso non che una petizione di principio, , come
abbiamo detto, tanto vecchia quanto la teoria stessa del sillogismo. Nel
sillogismo, dice Aristotile, pu trovarsi la difficolt di cui quistione nel Me none . dove si dice che o
non s'impara niente, o non pu impararsi che quello che gi si sapeva. Alcuni,
egli aggiunge, risolvono questa difficolt, dicendo che ci che si preconosce (ci
che Mill chiama gli antecedenti logici reali) non sono gi tutte le cose
contenute sotto la !i lari ad esso, ma sono comuni a tutte le dottrine che
vogliono fondare il sillogismo sovra un assioma, cio sovra un principio
smteiieo e reale, e non sul semplice princidella coerenza, cio d'identit o di
contraddizione. E prima di tutto, se fare un sillogismo applicare un assioma, lapplicazione di
quest'assioma al sillogismo partizro, d'un intendimento Ubero interamente
dairinfluenza dei sensi, sembra giustamente al Lange una delle delx)lezze pi
deplorevoli del sistema kantiano. La sintesi delle impressioni non presuppone,
egli dice, la categoria della sostanza; al contrario la sintesi sensoriale
delle impressioni la base sulla quale
solamente una categoria della sostanza potr svilupi)arsi. Non sono i concetti
stessi che esistono avanti Tesperienza, ma solo delle disposizioni tali che le
impressioni del mondo esteriore sono tosto riunite e coordinate conformemente alla
regola fornita da questi concetti. Forse si trover, un giorno, il fondo dell'
idea di causalit nel meccanismo del movimento riflesso e dell'eccitazione
simpatica: allora avremo la Ragion pura di Kant tradotta in fisiologia, e resa
cosi pi evidente (Storia del rnaterialisnio). A questa trasiormazione del
kantismo si presenta naturalmente lo stesso dilenmia che noi dianzi abbiamo
op[X)sto al sistema originale di Kant. Come bisogna intendere quest'
organizzazione, in cui Lange vuol trovare la base della sintesi a priori, delle
condizioni generaU di ogni esperienza possibile? E l'organizzazione fsica,
fenomenale? Ma questa suppone gi le leggi generali del fenomeno, le condizioni
di ogni esperienza possibile: essa non pu spiegare rordine dei fenomeni, perch
essa stessa parte di quest'ordine che si
tratta di spiegare. Sar invece il lato trascendente dell'organizzazione fisica,
fenomenale, la cosa in s del cervello. Ma non si pu, secondo i principii del
criticismo, concepire la cosa in s, non si pu provarne \ esistenza. Noi non
possiamo concepirla, perch le nostre concezioni sono limitate dalle forme
subbiettive dell'intuizione sensibile e del pensiero ; noi non possiamo
provarne resistenza, perch ogni prova riposa su dei principii che non sono che
l'espressione delle condizioni generali dell'esperienza pos* sibile, e questi
principii non possono applicarsi che nei limiti di questa esperienza stessa.
Per altro questo compromesso tra i principii della Critica della ragion pura e
queUi della psicologia fisiologica sembrer, dopo l'iflessione, non altro che
una combinazione puramente arbitraria, che non soddisfa alle esigenze, i>er
cui le i]:>otesi metafisiche, rimaneggiate in uno spirito di eclettismo,
erano state unicamente create. Tanto la cosa in s, quanto la efficienza d'un
principio subjiettivo sulle forme o sull'ordine con cui i fenomeni ci vegono
presentati, sono delle veri i|30tesi metafisiche: vale a dire, esse sono
destituite affatto di prove, e non si
inclinati ad ammetterle che in virt delle tendenze metafsiche dello
spirito umano. Queste tendenze, come mostreremo nel Saggio 2,'' si riducono,
nella loro origine, all'influenza di forti abitudini mentah, inse[)arabili
dall'esercizio della nostra intelligenza. Noi non ammettiamo la cosa in s che
per l'abitudine di obbiettivare le nostre sensazioni: tutta la forza e il
valore dell'ipotesi si riduce a ci, che per essa soddisfatto questo bisogno dell'obbiettivit
che ha il nostro spirito. Similmente l'ipotesi kantiana, che le forme o
l'ordine con cui ci vengono dati i fenomeni, hanno le loro catise nel soggetto
conoscente, non deve la sua forza e il suo valore che alla tendenza generale,
di cui essa un caso, che ci porta ad
elevare la nostra attivit, sia interna sia diretta sul mondo esteriore, a tipo
di spiegazione universale. Questa tendenza proviene anch'essa dairinfluenza di
una forte abitudine mentale, poich i fatti che servono di base alla
spiegazione, come quelli che servono di base a qualsiasi altra spiegazione
metafsica, non sono che dei fenomeni della nostra esperienza pi familare, la
spiegazione metafisica consistendo appunto a ricondurre tutti i fenomeni a
quelli che ci sono i pi familiari (v. Saggio 2 parte 1^). Cosi se all'attivit
del pensiero, come principio determinante Tordine e la regolarit dei fenomeni,
si* sostituisce il meccanismo delFazione riflessa, con cui solo il fisiologo ha
qualche familiarit, o Fazione delle cosa in s del cervello, di cui alcuno non
ha mai conosciuto n immaginato niente di simile, l'ipotesi cosi modificata non
corrisponde pi alle condizioni e allo scopo d'un'ipotesi metafisica: essa non
riduce pi i fatti al tipo di qualche fatto dei pi familiari della nostra
esperienza quotidiana, e non pi quindi
una spiegazione. Da un alto canto, pi
soddisfacente per il nostro bisogno dell'obbiettivit, di riguardare con Spencer
il nexus dei fenomeni come il correlativo di un nexus obbiettivo delle cose in
se stesse, anzich di riguardarlo, con Kant e coi suoi, come il prodotto di un
principio subbiettivo. Ma ci che Kant perdeva da questa parte, lo guadagnava
dall'altra, perch egli dava una spiegazione di questo nexus dei fenomeni: al
contrario, la perdita di Lange senza
compenso, perch la sua ipotesi sull'origine di questo nexus non , come abbiamo
detto, una spiegazione. Del resto, sia che col vecchio kantiano Sigismondo Beck
(in cui Fichte riconosceva il suo precursore) si sopprima l'azione della cosa
in s nella produzione del mondo dei fenomeni; sia che col neo kantiano Lange si
sopprima l'azione dei concetti; non si
fatto niente ancora per ehminare la contraddizione, inerente al sistema,
di estendere al di l del mondo dei fenomeni la nozione di r: l'oggetto della
conoscenza a priori 305 causa, che, sec^ondo i principii del criticismo, non
serve che a completare il cervino delle conoscenze fenomenali. Se si sopprime
la cosa in s, non si ta che riportare sui concetti la parte di causalit che a
quella veniva attribuita; se si sopprime l'attivit dell'intendimento o dei
concetti, la parte di causalit attribuita a questi viene riportata sulla cosa
in s: ma, in ogni caso, ricercare con Kant l'origine e la produzione del mondo
dei fenomeni, significa mettere in rapporto questo mondo dei fenomeni con
qualche esistenza trascendente, mediante un legame che non pu essere che quello
di causalit, qualunque sia d'altronde il nome con cui si voglia designarlo .
(l) Non bisogna tacere che il Lange non lui. in fin dei conti, pi rispetto per
la cosa in s che pei concetti dell'intendimento puro. Noi non sappiamo
realmente, egli dice, se una cosa in s esiste. Noi sappiamo solamente che
Tapplicazione logica delle leggi rendendo le mosse dai principii della Critica
della ragion pura, facilmente condotto.
Kant si avvolgeva in una contraddizione Riassumiamo. Secondo Kant, ogni
principio rigorosamente universale, che d un'estensione alia nostra
conoscenza, un giudizio sintetico a
priori) e un giudizio sintetico a priori ha un valore obbiettivo, in
quanto il pensiero stesso che determina
il suo oggetto. Un principio necessario ed universale dunque, o un giudizio
sintetico a priori, non ha valore che nei limiti del mondo delle apparizioni,
in (guanto queste sono, riguardo alla l'orma, insolubile (iiumdu, avendo posto
come i)iincii>io che la nosti'a conoscenza
puramente fenomenale, si domandava poi donde ci l>rovenisse jiiesf
oggetto fenomenale che noi conosciamo, il che supponeva che si potesse
conoscere ((ualche cosa al di l del fenomeno. Il Lange poteva dunque
felicitarsi di avere sl)arazzato il kantismo da una patente contraddizione,
quando egli rigettava l'atfermazione categorica d'una cosa in s e la dottrina
dell'intendimento puro che produce la sintesi delle impressioni sensibili, o
l'ordine dei fenomeni. Ma cie resta allora di Kant? Non resta che ci che questo
tilosofo ha di comune col vecchio Protagara: l'uomo la misura di tutte le Qose. Il fenomenismo
criticista non il fenomenismo dei gi'and
lilosofi em|>iristi inglesi: noi potremmo chiamare (piello di un Mill o di
un Hain un fencmienismo ohbiettLro^ e (piello dei neo ktjntiani un fenomenismo
.erchc quest'ordine non che una forma
della mia conoscenza: la connessione dei fenomeni non esiste che per lo spirito
connettente. Vi furono realmente prima di' me degli esseri che sentirono e che
pensarono? ve ne sono simultaneamente a me? ve ne saranno dopo di me? Il prima,
il dopo, il simultaneamente iianno un' esistenza reale, ol)biettiva? No,
secondo i Kantiani: il tempo non niente
fuori di me; 1' ordine non nei fatti
conosciuti, ma nel soggetto conoscente ; gli altri esseri, quali io li conosco,
non sono che un prodotto della mia facolt conoscitiva; l'oggetto conosciuto non
esiste per se stesso, ma pel soggetto conoscente. questa impossibilit di uscire dal proprio me,
quest'aj)l^erenza universale senza poter alTerrare aUuina realt, che la conseguenza inevita)ile del Ivantismo. L
ci che Fichte dichiara determinate dal pensiero. Ne segue ciie alcuna
connessione fra le cose non conoscibile,
se non una connessione tra apparizioni,
in quanto questa viene determinata dall'attivit connettente del pensiero. Ne
segue ancora che r esistenza di cosa alcuna non
conoscibile, se questa cosa non appartiene al mondo dei fenomeni, o
delle apparenze; poich, da una parte, noi non abbiamo altro di dato die i
fenomeni o le apparenze, e dallaltra parte, niente nei termini pi espliciti (v.
Destina:: Ione deWuono, in line della 2. parte): egli vuol ricondurre per la
credenza l'elemento della realt che sfugge allo conoscenza, ma cpiesto semplicemente confessare rinsuficienza del
sistema. (V. la stessa opera, parte 3. Noi dobbiamo ammettere, secondo Fichte,
che le apparizioni che, nello spazio, si mostrano simili a noi stessi, sono
realmente degli esseri simili a noi,.i>erch la coscienza morale ci ordina di
riguardarle come creature libere, indipendenti da noi ed esistenti perse
stesse, i che io chiamo corpi simili al mio, io ne inferisco che esse sono
legate per gli stessi rai>porti di sequenza e d antecedenza con altri
sentimenti simili a riuelli che io chiamo stati del mio spirito. Questi altri
sentimenti che io inferisco, non fanno parte della mia coscienza; essi sono gli
stati di altre coscienze, di altri spiriti simili al mio. Ma ci non toglie
niente alla validit delle mie inferenze: io non ho potut.0 osservare i rapporti
su cui queste inferenze si fondano, ne verificarle direttamente, che nei limiti
della nu'a esperienza personale, cio della mia propria coscienza ; ma nella esperienza personale di ciascuno che si
trovano, in ultima analisi, gli antecedenti logici di tutte le conoscenze che
egli pu acquistare. Se io ho appreso per la mia esperienza personale che certe
possibilit di sensazioni, che noi chiamiamo (lei fatti del mondo materiale,
sono in un rapi>orto costante con certi stati di coscienza o fatti del mondo
spirituale, io sono autorizzato ad inferirne che lo stesso avviene al di l dei
limiti della mia esperienza personale, cio al di fuori della mia propria
coscienza. L'operazione induttiva, cosi bene che i dati da cui essa parte, sono
]>recisamente gli stessi che se io credessi alla realt della materiji, cio
se io realizzassi, come fa il realista naturale, le possibilit di sensazioni
(confr. Mill Filosofa di Hamilton). Questa inferenza, la (juale mi conduce all'
affermazione di altri esseri fuori di me,
legittima, perch i rapporti sovra cui essa si fonda, sono dei rapporti
reali, obbiettivi: ma un kantiano non ini fare legitLiinamentc essere Teffetto dellattivit del pensiero,
percli questa connessione non altro che
la stessa attivit del pensiero. Noi aljbiamo cosi delle conoscenze sulle cose e
sulle connessioni tra le cose, che non sono limitate al inondo delle apparenze:
se (jueste conoscenze fossero scientifiche o rigorose, dovrebjero essere il
i)ortato di principii necessari e strettamente universali, e (juindi di giudizi
sintetici a priori. Ma questi luto, esso non e che relativo al soggetto
conoscente. Sinch il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto sono una sola e
stessa cosa (la coscienza che ciascuno ha degli stati del suo proprio me), non
vi ha una difhcolt seria: ci che io (come oggetto conosciuto) sono relativamente
a me stesso (come soggetto conoscente), sar una realt in confronto di tutto ci
che io posso essere relativamente ad altri soggetti conoscenti. Ma (juando si
stabilisce un rai)i>orto (p. e. di anteriorit e posteriorit) fra esseri
distinti, dove sar la realt? Il tempo non , secondo Kant,, che una forma del
mio senso interno; la causazione, la reciprocit d'azione, ecc. non sono che
categorie del mio intendimento; in una parola, non vi ha alcun rapi^orto reale
tra i fatti stessi, e lordine che noi attribuiamo alle cose non niente al di fuori della nostra
rappresentazione. Un essere organizzato difterentemente da noi potrebbe loro
attribuirne un altro: (juale sar la verit 1 Per ciascuno rero ci che (jU pare: ecco la formula che
riassume il criticismo fenomenista. Per Kant, che ammetteva i noumeni^ la verit
era inaccessibile; per un kantiano che li rigetta, la verit non esiste. Senza
dub])io, Protagora era pi logico di Kant e dei suoi discepoli, (juando
dichiarava ugualmente vere tutte le apivarenze, tutte le opinioni: noi
riconosciamo che vi ha in questa audace tesi dell'antico sofista un carattere
veramente .^q/stlco (nel senso tradizionale della parola), ma una conseguenza logica del lrincipio,
ammes.so ugualmente dai kantiani, che l'oggetto conosciuto non che relativamente al soggetto conoscente La
verit la corrispondenza fra il pensiero
e le cose, fra la rappresentazione e gli oggetti rappresentati, aequatlo rei et
intc/ectas: se questa corrispondenza non esiste, la verit non esiste, non vi ha
i)i distinzione tra il vero e il falso, e tutte le opinioni sono egualmente
vere (ed egualmente false). Xoi non potremmo tropiu insistere su questa
din'erenza tra il E l'oggetto dell.v conosg:nza a priori 3giuilizi non hanno
valore che unicamente nei limiti de! mondo delle apparizioni, perch non vi lia
die un caso, secondo Kant, in cui un giudizio sintetico a priori possibile: (juando il pensiero che determina l'oggetto
conosciuto. Per conseguenza o non vero
che sia questa che dice Kant la condizione della validit dei giudizi sintetici
a priori, o non vero che le conoscenze
di cui sopra abbiamo parlato, le quali non potrel)bero essere che fenomenisuio
di un empirista e (|uello di un criticista. Per Mill le cose risolvendosi in
sensazioni, la verit l'accordo fra le
rapi>resentazioni e le sensazioni: quando i rapporti di sequenza o di
coesistenza, che noi ci ra])i>resentiamo fra le sensazioni (nostre e de-gli
altri), corrispondono al loro ordine reale, vi ha verit; la verit assoluta, i^erch quest'ordine assoluto, non
relativo al soggetto conoscente. Ma, per un kantiano, cosa pu essere la
verit? F/universo (sono parole di Lange che in parte abbiamo gi citate) non solo una rappresentazione, ma la nostra
l'appresentazione, un prodotto dell'organizzazione del genere nei tratti
generali e necessari di ogni esperienza, un prodotto dell'individuo nella
sintesi che .lisi(ne liberamente del suo oggetto. Si i)u dunque dire che la
realta il fenomeno ])er il genei'e,
mentre l'apparenza illusoria un fenomeno
per l'individuo, fenomeno che non diviene un errore, se non perch gli si
attribuisce la realt, cio a dire l'esisteza ier il genere . Ma queste
proposizioni di Lange possono sembraj'c un'inconseguenza in un darwiniano: esse
su|>]^ongono che la' specie sia rigorosamente delimitata; che vi siano delle
essenze o delle Idee, degli stampi insonmia su cui la natura modella
costantemente gl'individui ; che unatlnit e una distinzione di si)ecie sia
iariscono. Ter T.ange non il pensiero
che determina 1' *'S!)erienza, e non
nemmeno lespericnza che determina il pensiero, il giudizio essendo a
priori: come spiegare dunque la loro coincidenza? Kant emette incidentalmente
la congettura che le due sorgenti della conoscenza umana, i sensi e
rintendimento, provengono forse da una l'adice comune: essere fornita una proposizione sintetica,
che non sia sperimentale; ma una proposizione sperimeniale non pu mai
raccliiudere la necessit ed assoluta universalit, le (luaU costituiscono
tuttavia il carattere essenziale di tutte le proposizioni geometriche. Quanto
al primo e unico mezzo di acquistare queste cognizioni, vale a dire per
semplici concetti o per intuizioni a priori,
cliiaro che da soli concetti non pu ricavarsi alcuna cognizione
sinteti;:^, ma soltanto una analitica. Sia pure la proposizione che due linee
rette non [xossono chiudere uno spazio, e che non si pu quindi con esse
costruire una figura; e proviamoci di derivarla dai concetti della linea retta
e del numero due. Oppure sia quest'altra, che per mezzo di tre linee rette si
pu costruii'e una figura, e cercate ugualmente di ricavarla da questi concetti.
Tutti i vostri slorzi saranno inutili; e sarete costretti di ricorrere alla
intuizione, come ha fatto semjU'ela geometria. Voi dunque vi date un oggetto in
intuizione: ma di ([uale specie questa
intuizione? una intuizione pura o
/>r/or/, o una intuizione empirica? Se fosse empirica, non potrebbe
certamente venirne mai una proposizione universale, molto meno una
projxDsizione apodittica, percli l'esperienza non pu somministrarne. Dunque
dovete darvi il vostix) oggetto a priori in una intuizione, e fondarvi la
vostra proposizione sintetica. Ora se non fosse in voi una facolt di avere
delle intuizioni a priori, se (juesta condizione, subiettiva quanto alla forma,
non fosse al tempo stesso la condizione a priori, sotto la quale unicamente
\)\\ darsi Foggetto di questa esterna intuizione; se infine quest'oggetto, p.
e. il triangolo, tosse qualclie cosa in s e senza rapporto al vostro soggetto:
come potreste dire, in tutti questi casi, che quanto necessario, nella vostra condizione
subbiettiva, per la costruzione di un triangolo, debba con uguale necessit
convenire al triangolo in se stesso i Giacch ai vostri concetti (di tre linee)
nulla potete aggiungere di nuovo (la figura), che dovesse perci trovarsi
necessariamente neir oggetto, se questo oggetto
dato prima, e non niediante, la vostra cognizione. Se dunque lo si)azio
(e cosi pure il tempo) non fosse una pura torma della vostra intuizione, clic
contiene le condizioni a priori, sotto le quali soltanto delle cose possono
essere per voi degli oggetti esteriori (chj non sono niente in se stessi, o
senza queste condizioni subbiettive). voi non potreste niente pronunziare a
jtriori e sinteticamente su questi oggetti y> ( Estet. trascemL.) Il principio
che tutti i fenomeni sono grandezze estensive
quello clie rende applicabile, in tutta la sua precisione, agli oggetti
deiresperienza la matematica pura: il che non sarebbe per s evidente senza
questo principio, e ha dato anche occasione a molte contraddizioni. La visione
empirica non pu aver luogo tramie mediante la pura (dello spazio e del tem[)0):
il perch vale per quella, senza eccezione, ci che di questa dice la geometria ;
n regge il pretesto che non corrispondano gli oggetti dei sensi alle leggi, per
le quali si costruisce nello spazio (come alla divisibilit degli angoli o delle
linee all'infinito). Giacch per tal guisa s impugnerebbe pure ogni valore
obbiettivo allo spazio e a tutte le matematiche: n pi si saprebbe perch n sin
dove esse sono applicabili ai fenomeni. Ci che rende possibile V apprensione di
questi, quindi ogni esperienza esterna e qualsiasi conoscenza degli oggetti
della medesima, la sintesi degli spazi e
dei tempi: e ci che provano le matematiche nel loro impiego puro a tal sintesi
ha eziandio valore necessario nella esperienza. Le obbiezioni che sono state
mosse incontrario si risolvono in meri cavilli di una ragione falsamente
erudita: la quale avvisa, in modo erroneo, far liberi e separare dalla
condizione formale della nostra sensibilit gli oggetti dei sensi: e,
(juantunque non siano che mere apparizioni, li rappresenta otterti air
intelletto quali oggetti per se stessi. Nel qual caso certamente nulla si
potrebbe dire dei medesimi sinteticamente a />r/or/, per conseguenza mediante
i concetti puri dello spazio ; e non sarebbe possibile la scienza che determina
tali concetti, cio la geometria > (Analit. Ass, delliatuizione), ^. W\ I
luoghi citati contengono, in sostanza, tutto ci('> che si trova in Kant
sulla spiegazione delia possibiht dei giudizi sintetici a priori della
matematica; e per quanto concerne la geometria, cui specialmente Fautore ha di
mira, la dottrina di Kant si riduce a dire che la geometria pu essere una
scienza a priori, perch, lo spazio essendo un elemento formale della
conoscenza, noi possiamo avere un'intuizione a priori delle determinazioni
dello spazio, e i giudizii ricavati da questa intuizione a priori possono
applicarsi agli oggetti che ci vengono otferti dall'esperienza, in quanto
niente pu essere oggetto dell'esperienza, che non sia conforme a questa
condizione formale della conoscenza. Secondo questa dottrina di Kant, la grande
obbiezione che i Ivantiani fanno alla teoria empirista la seguente: Donde sappiamo noi e possiamo
sapere che le linee reali rassomigliano perfettamente alle linee immaginarie?
(Cohen ap. Lange Stor, del mater.) Due linee rette prolungate all'infinito non
possono circoscrivere uno spazio. Noi non possiamo fare alcuna esperienza a
questo riguardo nel senso volgare della parola. Secondo Mill l' immaginazione
rimpiazza qui l'intuizione esteriore ; ma donde sappiamo noi che i quadri della
nostra inmiaginaziono si comportano esattamente come le cose esteriori? Donde
sappiamo noi che due linee rette ideali si comportano assolutamente come le
linee reali? Kant risi>onde: che
stabiliamo quest'accordo noi stessi.... L'intuizione dello spazio, con le
propriet che gli appartegono necessariamente,
un prodotto del nostro spirito nell'atto dcUesperienza; ed ecco perch
essa appartiene egualmente e necessariamente ad ogni esperienza possibile come
ad ogni intuizione dell" innnaginazione
( Lange) Una quistione analoga si era proposta il Locke nel capitolo
sulla realt della nostra conoscenza. La conoscenza consistendo per lui nella
percezione della convenienza o disconvenienza delle nostre proprie idee, era
naturale di domandatasi come una tale conoscenza possa istruirci sulla realt
delle cose stesse. Per quel che riguarda le conoscenze matematiche, ecco come
i*isponei^nto che la conoscenza ch'egli ha di qualsiasi verit o propriet che
appartenga al cerchio o ad ogni alti*a figura matematica, non sia vera e certa,
anche a riguardo delle cose realmente esistenti, perch le cose reali non
entrano in questa sorta di proposizioni, e non vi sono considei'ate, se non
altrettanto che esse convengono realmente con gli archetipi che sono nello
spirito del nmtematico. vero dell'idea
del triangolo che i suoi tre triangoli sono eguali a due retti? La stessa cosa
sar pure vera d'un triangolo, in qualunque luogo esso esista realmente. Ma clie
ogni altra figura attualmente esistente non sia esattamente conforme all'idea
del triangolo" ch'egli ha nello spirito, essa non ha assolutamente niente
da lare con questa [)roposizione. E per conseguenza il matematico vede certamente
che tutta la sua conoscenza toccante questa sorta d'idee reale; perch non considerando le cose se non
altrettanto che esse convengono con queste idee ch'egli ha nello spirito, egli sicuro che tutto ci ch'egli sa su queste
figure, mentre non hanno che un'esistenza ideale nel suo spirito, si trover
pure vero riguardo a queste stesse figure, se esse vengono ad esistere
realmente nella materia: le sue riflessioni non volgono che su queste figure,
che sono le stesse, ovunque e di qualunque maniera esse esistano. Che la
risposta di Locke contenga o no una soluzione soddisfacente della difficolt
proposta dallo stesso autore, essa calza ad ogni modo alla domanda dei
Kantiani: Donde sappiamo noi che le linee reali rassomigliano esattamente alle
linee ideali? Ma se le linee reali non rassomigliassero esattamenta alle linee
ideali che il matematico ha nello spirito, esse non sare])bero delle linee di
quella specie determinata di cui parla il matematico: se sono di quella specie
determinata, le linee reali non possono non rassomigliare esattamente alle
linee ideali. Che esistano o no nella realt delle Unee conformi alle linee
ideali, agh archetipi, come dice Locke, che sono nello spirito del
matematico, questa una quistione
assolutamente estranea alla matematica, perch le proposizioni di questa scienza
non affermano niente sull'esistenza. Se per l'osservazione delle immagini
mentali di certe linee, veniamo a conoscere una propriet di questa s[)ecie di
linee, noi non concludiamo gi che esistano nel mondo esterno delle linee aventi
tale propriet: se vi saranno nella realt delle linee conformi a quelle che noi
ci rap[)resentiamo, la nostra osservazione ideale varr anche per (pieste linee
reali; ma se le linee della realt saranno differenti dalle nostre linee ideali,
una proposizione fondata sull'osservazione delle seconde non riguarda le prime
n punto n iK)co. Siano queste proposizioni: Due rette non iX)ssono chiudere uno
spazio; Un triangolo rettilineo ha la somma degli angoli eguale a due retti;
ovvero Y assioma, su cui la "seconda proi)Osizione fondata: Per un punto non pu passare che una
sola parallela ad una retta data. Secondo Kant il valore e Tuniversalit di
(juesti giudizi dipende da ci, che gli oggetti dall' intuizione empirica sono
conazio difirente dal nostro, quale potrer)lje supporsi secondo Riemann, le
pretese rette chiudenti uno spazio sarebbero, non ci che noi attualmente
chiamiamo rette, ma, secondo una definizione arbitraria della parola, le linee
della pi breve distanza fra tutte quelle che potrebbero condursi in questo
sup[)Osto spazio (lin'erento dal nostro. L*esistenza di questo si)azio non
toglierebbe perci Tuni versalit deirassionia: Due rette non chiutlono uno
spazio; peluche quest'assioma non si riferisce che alle rere rette, nra le
pretese rette del nuovo spazio supposto, (pialunque sia la loro analogia con le
vere rette, cio con le nostre, sarebbero sempre una classe diierente * biamo
detto, delle vere rette, perch a queste pretese rette sarebbe applicaljile non
la nostra nozione della retta, ma un'altra nozione. Dunque l'attributo di non
chiudere uno spazio una condizione della
nozione della retta: due rette che non chiudesseso uno sj)azio non sarebbero
delle rette, cio sarebbbero una nozione contraddittoria, e la
pi*0[>()siziassare per lo stesso punto un numero iiide.inito di altre rette,
di cui alcune, ma soltanto alcune, asservo che vanno ad incontrare la retta
data. L'intuizione per la sem[)lice immaginazione pu, vero, sostituire Tintuizione effettiva, ed
estendere cosi ad altre delle rette che passano per il punto dato, la mia
osservazione che esse incontrano la retta data. Ma, senza contare che n la mia
intuizione efiettiva n la mia intuizione immaginaria pu comprendere ttitte le
rette che possono passare per il punto dato, il loro numero essendo
mfinito; evidente che Timmaginazione non
pu estendere Tintuizione reale che sino ad un certo punto. La vista
deirimmaginazione, come quella dell'occhio, non pu seguire due rette che sino
ad una certa distanza: noi non possiamo prolungarle indefinitamente, n nella
realt n nella semplice immaginazione; noi non possiamo n vedere n immaginare
delle linee che abbiano al d l di una certa lunghezza. Lungi dunque che F
intuizione possa mostrarci la verit della proposizione nella totalit dei casi
compitesi nella sua estensione, essa non pu nemmeno mostrarcela, rigorosamente,
in un sol caso particolare. Qui, come da per tutto, non che Finduzione quella che pu stai )ilire una
verit generale. Kant salta a pi pari questa difficolt ; sembra anche di' egli r
abbia appena intraveduta. Ma ascoltiamo lo stesso autore: La conoscenza
filosofica la conoscenza razionale per
concetti, ma la conoscenza matcnjaticjx
la conoscenza razionale per la costriuione dei concetti. Ora, costruire
un concetto esporre a priori r
intuizione che gli corrisjionde. Per la costruzione di un concetto bisogna
dunque una intuizione non empirica, che abbia per conseguenza, come intuizione,
un oggetto unico, ma die, nondimeno, come costruzione d'un concetto (duna
rappresentazione generale), deve esprimere nella rappresentazione qualche cosa
di universalmente valevole per tutte le intuizioni possibili che appartengono a
questo concetto. Cosi io costruisco un triangolo, allorch espongo un oggetto
che corrisponde a questo concetto, 0, ijer mezzo della semplice immaginazione,
in intuizione pura, o, se^ondj rimmaginazionc ancora, sulla carta, in
intuizione empirica, ma nell'uno e l'altro caso periettamentc a priori, senza
averne preso 1' esemplare da alcuna esperienza. La figura particolare descritta empirica, a serve nondimeno a esprimere il
concetto senza l)regiudizio per la sua generaUt, perch in questa intuizione
empirica non si considem mai che l'azione di costruire un concetto, al quale
molte determinazioni ([). e. quella della grandezza, dei iati e degli angoli)
sono affatto indifferenti, e si la per conseguenza astrazione da queste
differenze che non cangiano il concetto del triangoloLa conoscenza filosofica
non considera dunque il particolare che nel generale, e la conoscenza
matematica il generale che nel i>articoIare, e anche nel singolare,
quantunque tuttavia a priori e per mezzo della ragione; di tal sorta che, come
il singolare determinato da certe
condizioni generali della costruzione, cosi l'oggetto del concetto a cui questo
singolare corrisponde solamente come schema, deve essere concepito determinato
universalmente. {Metodologia
trascendentale, e. 1". sez. l-\ ) E. |! un po' pili lungi: La filosofia si
attiene seuipliceinente ai concetti generali ; le matematiche non possono nilare
con questi semplici concetti, ma esse si affrettano di ricorrere airintuizione,
nella quale considerano il concetto in concreto, quantunque tuttavia non
empiricamente, ma semplicemente in una intuizione che esse propongono o
costruiscono a priori, e nella quale ci che risulta dalle condizioni generali
della costruzione deve valere i)ure generalmente per l'oggetto del concetto
costruito '. Ma si domanda: come tacciamo noi a sapere, in vma figura
particolare che abbiamo sotto gli occhi o nelFimmaginazione, se una i)ropriet
determinata risulta dalle condizioni generali della costruzione del suo
concetto, o appartiene soltanto a questo caso particolare? Riconoscere che una
propriet appartiene in generale air oggetto del concetto costruito, e iipende
dalle condizioni generali della costruzione di questo concetto, e non invece da
una di quelle determinazioni particolari inditt'erenti al concetto, da cui si
la astrazione perch questo non ne
mutato; precisamente
generalizzare, fare un'induzione, inferire da qualche caso particolare, esibito
neirintuizione, a tutti i casi compresi nel giro dello stesso concetto. Sia .
da dimostrare la proposizione ( l'esempio stesso di Kant) che gli angoli del
triangolo sono eguali a due retti. Noi facciamo astrazione, egli dice, da tutte
le determinazioni particolari della figura che non mutano il concetto (p. e.
quelle della grandezza, dei lati e degli angoli): ma chi ci permette di fare
quest' astrazione di stabihre che la
propriet dimostrata per questa figura particolare non legata a queste determinazioni particolari che
non cangiano il concetto X E che noi sappiamo che la stessa dimostrazione pu
aver luogo per un altro triangolo, (pialunque ne sia la grandezza, i lati e gli
angoli. la stessa considerazione che ci
autorizza, nel corso della dimostrazione, a l'are rapplicazione dei teoremi
antecedenti, i Mi *l quali essi stessi non sono stati dimostrati che sopra una
figura particolare. Ma infine la dimostrazione arriva agli assiomi ; fra di cui
a quello di Euclide che non che un'altra
espressione dell' assioma di cui sopra abbiamo parlato, cio: che due rette
inclinate 1' una verso l'altra, o in altri termini, che formano, con una
trasversale, la somma degli angoli interni minore di due retti, prolungate .
finiscono per incontrarsi. Come sappiamo noi che la propriet d'incontrarsi
appartiene in generale all'oggetto del concetto: due rette inchnate l'una verso
l'altra? cIkj risulta dalle condizioni generali della costruzione di questo
concetto, e non dalle determinazioni particolari dell'esempio esibitoci
nell'intuizione? Ciii ci autorizza, dopo aver verificato questa propriet nei
casi particolari dell'intuizione, a stabilire ch'essa non legata alle determinazioni particolari
indifferenti al concetto, p. e. la (Ustanza o il grado d'inclinazione delle
rette osservate sia nella visione reale sia nell'immaginaria Sono certamente i casi particolari osservati
che ci autorizzano, secondo il principio dell'analogia, ad estendere a tutti
gli altri casi della stessa specie il risultato della nostra osservazione: noi
possiamo dirlo, ma Kant non lo pu, percli egli nega che l'induzione possa
stabilire delle proposizioni necesj^irie e rigorosamenie universali . (I)
Non forse imitilo di riportare altri luoghi
di ICaiif, coiiii>r(>vanti che tale
elfettivamente la sua dottrina, cio che le i>rop()sizioni della
matematica si fondano sull'intuizione, per conseguenza sullOsservazione dei
casi particolari. >^(^\V IntroOuz . della Crii, (iella rafj. intra, V, (2.
ediz.), egli dice: Il concetto di 12 nori
alTatto Iensato per ci solo che io concei^isco (juesta unione di 7 e di
5; ed io pos.^0 decomporre il mio concetto in altrettanti numeii possibili
quanti io vorr, senza clie perci io vi trovi il numero 12. Risogna dunque
lasciare (juesti concetti, e ricorrere a un'intuizione clie corrisponda alTuno
dei due numeri, come alle cinque dita della Tiano, o (come Segner lia Tatto
nella sua aritmetica) a cinciue punti, L'obbiettivit dei giu.lizi sintetici a
priori, la possibilit di applicarli agli oggetti (bllesp^rienza, fon lata, S3condo Kant, su di ci clic
Tesperienza stessa, cio la sintesi dei fenomeni, si fa secondo le regolo di cui
questi giudizi e agprLinuere succossivnnionte al concetto di sette le ciiKiue
unit date in intuizione. Perch io prendo aUorn il numero sette, e ricorrendo
alle mie dita comc^ ad aUretlante intuizioni per sip:nif(!are il numero cinque,
io ag*2iunK0 successivamente a sette, staccandole dall'immagine totale che le
rappresentava, le unit che io aveva prima riunite in intuizione, col mezzo
delle mie dia\, per formare il numero cinque, e io vedo risultare da questa
operazione cotnplessa il numero 12. Per l'addizione di 7 a 5 io ho in verit
l'idea d'una sounna-^74-5, ma non l'idea che questa somma uguale al numero 12. La proposizione
aritmetica dunque sintet'ca: ci che si
vede pi chiaramente ancora (piando si prendono numeri [i grandi; gli allora evidente che. di (jualunciue maniera
noi rivolgiamo i nostri concetti, non ]tossiafno mai formare lasimma per il
solo mezzo della decomposizione dei nostri concetti, senza ricorrere
all'intuizione . }se\VKstetica tixisccndentac, dello spazio, a. 4: Tutti i
i>rincipii della geometria, p. e. clic lue lati di un triangolo presi
insieme sono pi grandi del terzo, nodittica dai concetti generali ili linea e
di triangolo, ma dalla intuizione, ila una intuizione a priori .
"ScWAnalit. trai della matematica non fanno i arte del sistema dei
principi dell'intendimento puro, perch essi non sono presi che dalla
intuizione, e non dai concetti dell'intendimento. E pi oltre, nello stesso
cap.,sez. 3: Vi hanno dei principi puri a priori che io non posso i)ropriamonte
attrihuire all'intendimento puro, perch essi non derivano da concetti puri, ma
da intuizioni pure (iegazione ci abbandona precisamente al punto in (Uii una
spiegazione diventa necessaria, vale a dii'e quando arriviamo alle generalit pi
alte della scienza (Noi abbiamo gi osservato che Kant ebbe il torto di non
vedere chiaramente ch'era necessario di distinguere con i'iuw i i^rinn
})rincipii delia matematica, sui (juali doveva portare il suo esame, e le
proposizioni derivate). La sua spiegazione
si poco propria a dar conto di questi princi]>ii generali, che,
quando egli incontra gli assiomi la cui natura sintetica la meno contestabile, vale a dire gli assiomi
sulle eguaglianze, egli non sa decidersi a riconoscere il loro carattere
sintetico Un piccolo numero di principii supposti dai geometri. iUcc ueW
Introduzione, V. n. /., sono in verit analitici, e rii^osano sul principio di
contraddizione; ma i)ure non servono, come ]>roposizioni identiche, che
all'incatenamento del metodo, e non hanno alcun valore come princiii. Tali sono
p. e. gli assiomi: a=:-a, un tutto
uguale a se stesso, o (a4-b)> a, cio il tutto pi grande della parte. E tuttavia questi
assiomi in se stessi, quantunque valevoli secondo semplici concetti, non sono
ricevuti nelle matematiche che perch essi possono essere rappresentati in
intuizione. Ci che ci fa generalmente credere che il predicato, in questa sorta
di giudizi apodittici, si trova gi far parte del nostro concetto, e che il
giudizio per conseguenza analitico, semplicemente l'ambiguit dell'espressione.
Noi siamo obbligati ce aggiungere un certo predicato a un concetto dato, e
questa necessit tiene gi ai concetti. Ma la quistione non questa: Che dobbiamo noi aggiungere per il
pensiero a un concetto dato? 3:^8 strettamente generali. Kant ha stabilito,
analogamente a questo principio, che noi possiamo applicare agli oggetti reali
deiresperienza i giudizi l'ondati suirintuizione pura o anticipata, perch gli
oggetti reali delFesperienza proma (iiicst'aitra: Che vi i)eiisiarno noi
realmente. (iuantun(iiie oscuramente? Si vede allora clie il predicato aderisce
necessariamente a questo concetto, non gi come concei)ito nel concetto stesso,
ma col mezzo di un'intuizione che deve aggiungervisi. hi questo luogo sono
contenute due asserzioni contradittorie, che non si vede come possano
conciliarsi: secondo la prima, questi assiomi sono l)roposizioni analitiche,
secondo lultima, sono ]>roposizioni sinteticheSe il pensiero di Kant dovesse
desumersi da piesto solo luogo, si sarehbe fondati ad attribuirgli almeno la
st.'ssa esitazione risjHnto ai grandi assiomi delle matematiche: due grandezze
uguali ad una terza sono uguali fra loro; aggiungendo grandezze eguali a
grandezze eguali, le sonane sono eguali. Infatti la natura sintetica di queste
i>roposizioni pi evidente che quella
delle proposizioni indicate da Kant. Ma altrove Fautore sembra pi esplicito:
Per quel che riguarda la quantit, cio la i-isposta alla quistione: Qual la grandezza di una cosa?, bisogna osservare
che sotto (juesto rapporto non vi ha propriamente alcun assioma . (juantunciue
molte di (juesta sorta di proposizioni siano sinteticamente e nnnediatamente
certe (indemonstrabilia): perch che l'eguale aggiunto all'eguale o tolto dair
eguale dia 1' eguale, sono queste delle proposizioni analitiche, poich io sono
immediatamente certo dell' identiti della produzione duna quantit con l'altra,
invece che gli assiomi devono essere dei principii sintetici . Al contrario le
proposizioni evidenti esprimenti i rai>porti numerici, come le prol^osizioni
geometriche, sono in verit assolulamente sintetiche, ma non generali, e non
possono, precisamente per questa ragione, chiamarsi assiomi, ma solamente
formule numeriche. Che 7-^5=12 ncm vi ha l nienie d'analitico QuantmKjue
(fuesta proposizione sia sintetica, essa non
tuttavia che una proposizione singolare {Analit.). Lange riconosce la
natura sintetica delle in'oposizioni che qui Kant dichiara analitiche. Le
proposizioni matematiche, dice (luest'autore, dacch esse sono dimostrate per
l'intuizione, svegliano tosto la coscienza della loro generalit e della loro
necessit. Cos p.e. per mostrare che 7 e 5 fanno 12, io mi servir
dell'intuizione, facendo un'addizione di punti, di lineette, di piccoli
oggetti, ecc. In questo caso, l'esperienza m'indica solamente che i punti,
lineette, ecc. ^ U t cedono dairintuizione pura. Ma con ci la necessit e la
stretta universalit di questi giudizi non
spiegata ancora: non dimostrato
come, le condizioni generali deir intuizione pura, di cui gli assiomi sono
Tespressione, non pr determinati m'hanno (luesta volta condotto a (luesta somma
precisa Lix generalizzazione rapida e assoluta di ci che si e visto una volta
non pu, spiegarsi che per la convinzione che tutti i rapporti numerici sono
indipendenti dalla struttura e dalla disposizione dei corpi contati. La
proposizione che i rapporti numerici sono indipendenti dalla natura degli
oggetti contati e essa stessa una verit a priori. facile di provare che essa e inoltre
sintetica (Stor.rfel materiale ^. trad. Iranc.) ora la lroposizione di cui
parla il Lange non che l'assioma
fondamentale a grandezze eguali
aggiungendo grandezze eguali le somme sono euuali, con gli assiomi secondari
che ne derivano, come: da grandezze eguali togliendo grandezze eguali i resti
sono eguali, occ V il primo assioma che ci autorizza, dopo aver verificato in
un caso particolare che 7 -5--= 12, ovvero che 7-1^8, a stabilire m generale
che in un altro caso qualunque 7 n saranno pure eguali a p> e 7 il offuali
ad 8. Di qui si vede ancora che le sole proposi'zni generali indimostrabili
della scienza dei numeri sono gli assiomi fondamentali sulle eguaglianze _ Kant
dichiara, corno si visto, analitiche
(lueste propos.ziom: ma la cosa si ammetter difncilmente, dopo che si gin ammesso che queste altre proposizioni:
2il^.3, 3-M^4. ecc. (che sono le sole formule numencie, per usare il linguaggio
di Kant, che non possano dimostrarsi) non sono analitiche . ma sintetiche. K
mteress-nte per l'apprezzamento della dottrina Kantiana, non che della one onerale dei giudizi in analitici e
sintetici, di confrontare emione e essere del loro avviso, perch quest ass omo,
appartenendo .juanto gli altri alla nostra intuizione pura o forma^, non pu
essere meno degli altri necessario ed a priori rll A' ??'",' ' Vnm-x^W
sintetici delPintendimento puro iAnaht I., r.,,e^.S) dei principii mcacmmri,
che Kantdisfmgue da. dinamici. Essi corrispondono alle categorie dello quantit
e della qualit, e sono: il principio .leoli assk.nu deWinUU^o/if.Ogn.
fenomeno una grandezza estensiva ( un
a^rgregato ^ w > di una lenta evoluzione scientifica, ma il patrimonio
comune di ogni uomo c/ie viene in (jiiesto mondo. Per il principio di
causalit, una dottrina concorde degli
avversari deirenpirismo che esso una
conoscenza innata o una necessit del i>ensiero, e non un })rodotto
deiresperienza. Ma bastei^bbe la credenza quasi generale nel libero arbitrio
per escludere la supposizione di una necessit del pensiero, che ci porti ad
attribuire ad ogni avvenimento una causa determinante. Di pi vi sono stati dei
filosofi, come tutta la scuola di Epicuro, che hanno ammesso una simile
indeterminazione anche nei tatti del mondo materiale: Kant ha bel chiamare
impudente EpicuiX) ixr questa sua dottrina, il tatto stesso che essa stata anmiessa, costituisce una pix)va contro
la teoria Kantiana che vede nella causalit una l'orma o una legge necessaria
del soggetto conoscente. D'altronde questa distinzione tra i tatti del mondo
moi'alc e quelli del mondo materiale non sarebbe ammissibile che al i)unto di
vista delTuomo moderno che partecipa pi o meno alla coltura scientifica: non
sarebbe un'ironia di dire che il selvaggio, o semjJicemente Fuomo
superstizioso, il quale, in tutti i fenomeni della natura che sorpassano la sua
stretta capacit di comprendere, vede Teffetto della volont capricciosa di
agenti spirituali, creda alFincatenamento delle cause e degli eftetti, cio
all'ordine uniforme o al determinismo universale, nei tatti del mondo
materiale? Quanto ai due criteri di cui Kant si serve per distinguere questa
sorta di proposizioni dalle sperimentati, noi abbiamo notato che, per ci che
concerne Tassoluta universalit, si possono lare due quistioni distinte, quella,
per dir cosi, del fatto, e quella del dritto. Alla prima cpiistione, cio se gli
uomini sogliono effettivamente riguardare come assolutamente universali delle
proposizioni indiscutibilmente ricavate dalFesperienza, noi aljbiamo gi
risposto nftermativamentc: alla seconda, cio se alle gencralizzazioni
delFesperienza si ha il diritto di accordare una universalit rigorosa, la
precedente discussione ci autrjrizza a rispondere pure affermativamente, perch
ci ha dimostmto l'insuccesso di ogni tentativo, come (luello di Kant, di
fondare fuori delFesperienza la legittimit delle nostre conoscenze. In quanto
all'altro criterio, chiaro che le
jn^oposizioni che Kant chiama traHcendeaiali, non possono affatto aspirare alla
necessit dei principii della matematica. Sarebbe per noi certamente incredibile
che un'eccezione al principio di causalit avesse luogo: ma quantunque sappiamo
con certezza che tutti gli avvenimenti sono subordinati a questo principio, noi
possiamo tuttavia immaginare che il contrario potrebl)e accadere di quello che
sappiamo che eftettivamente accade. Lo stesso Kant ne conviene: Una
proposizione sintetica della ragion pura e trascendentale ben lungi, egli dice, dall'essere cosi
evidente che la proposizione che due (i due fanno quattro. La filosofia non ha
assiomi, e non le permesso d'imporre
puramente e semplicemente i suoi principii
biettivamente valido, senza una giustificazione o una deduzione
conveniente. Una tendenza subbiettiva a credere non potrebbe i)er se stessa
provare la legittimit della credenza. Neir ipotesi delF esistenza delle idee o
dei giudizi a priori, non vi Jia niente che si possa opporre alla supposizione
di giudizi a jtriori falsi ed illusori. Questa su^)posizione stata di fatto ammessa: c cap. 0^); il successo del metodo deduttivo in queste
scienze che ha dato sovratutto occasione a pensare che si potrtbbe costruire a
priori la scienza dell'universo reale cosi bene che quella dei numeri e delle
figure. L^na ricerca minuziosa sull'origine e sulla natura dellevidenza
particolare alla matematica non sar dunque uno sterile esercizio del pensiero e
una vana micrologia, ma una preparazione indispensabile alla soluzione delle
quistioni flosoficiie a cui il nostro spirito non cesser mai d'interessarsi,
sul valore e sui limiti delle nostre conoscenze, sulla legittimit dei metodi
proposti per perfezionarle, e sui principii che governano lo sviluppo della
intelligenza umana. Gli empiristi hanno avuto torto di negare Y apriorit delle
matematiche pure, che la particorit pi
saliente per cui esse si distinguono dalle scienze naturali e da tutte le altre
scienze in generale: ma (juesta apriorit delle proposizioni delle matematiche
non deve intendersi in un senso che escluda Torigine empirica o induttiva delle
premesse di queste scienze. Essa consiste unicamente in ci, che le
osservazioni, di (]ui queste premesse sono le generalizzazioni, non hanno
bisogno di essere fatte sulle cose stesse, ma basta di contemplare le idee di
queste cose. Per sapere che due e due fanno quattro, clie due rette non possono
chiudere uno spazio, che la retta la
linea pi breve fra due punti dati, ecc., non c* bisogno di osservare delle
collezioni di oggetti reali, n delle rette materiali: Inasta airuopo di
rappresentarci due coppie di oggetti e delle linee rette. Cosi pure basta di
rappresentarci distintamente tre grandezze eguali in una situazione
conveniente, per verificare lassioma che due grandezze eguali ad una terza sono
eguali fra loro. La scuola empirista non ha negato (piesta i)ropriet delle
verit evidenti per se stesse della matematica: il Mill specialmente ha mostrato
che essa basta per rispondere alle obljiezioni della scuola intuitiva contro
Torigine empirica o induttiva di ([ueste verit. Le nostre impressioni di forma,
dice il Mill, hanno questa propriet parttcolare
clie le idee o immagini mentali rassomigliano esattamente ai loro
prototipi e li rappresentano adequatamente per Tosservazione scientilica. Di l
e dal carattere intuitivo delF osservazione, che in questo caso si riduce alla
semplice ispezione, segue che, cercando di concepire due linee rette che
chiudono uno spazio, non possiamo evocare a questo fine nelFimmaginazione le
due hnee senza, per quest'atto stesso, ripetere Tesperienza scientifica che
stabilisce il contrario (Logica). Oltre
alFobbiezione che si fa airorigine empirica degli assiomi perch hanno per essi
Tinconcepibilit della negativa, si dice che se il nostro assenso alla
proposizione che due linee rette non possono chiudere uno spazio provenisse dai
sensi, non potremmo essere convinti della sua verit che per un'osservazione
attuale, cio vedendo o toccando le linee rette; mentre, in fatto, essa riconosciuta vera solo pensandovi . Di pi per
quesf assioma particolare si pu aggiungere che la sua evidenza, in virt della
testimonianza attuale degli occhi, lungi di essere necessaria, non pu nemmeno
essere ottenuta cosi j: che due rette, prolungate airinfnito, dopo la loro
intensezione, non s'incontreranno mai, e continueranno a divergere Tuna
dall'altra j> c( non pu provarsi in un caso particolare per un' osservazione
diretta , perch non si possono seguire le linee all'infinito. A queste due
obbiezioni si sar risposto d'una maniera soddisfacente, se si tien conto d'una
delle propriet caratteristiche delle forme geometriche, che le rende atte ad essere
figurate nell' immaginazione con una chiarezza ed una precisione eguali alla
realt ; in altri termini, della perfetta rassomiglianza delle, nostre idee di
forma con le sensazioni che le suggeriscono. Noi siamo perci in istato, prima,
di farci (almeno con un po' di pratica) delle immagini mentali di tutte le
combinazioni possibili di linee e d'angoli, che rassomigliano alle realt cosi
esattamente che quelle che si potrebbero tracciare sulla carta; e in seguito,
d' esperimentare geometricamente su queste immagini cosi sicuramente che sulle
realt stesse; atteso che queste pitture, se esse sono sufficientemente esatte,
manitestano tutte le propriet che sarebbero esibite dalle realt a un momento
dato e per una semplice vista. Ora in geometria
di queste propriet che noi abbiamo ad occuparci, e non di ci che non
potrebbe essere mostrato per delle immagini, Fazione mutua dei corpi gli uni
sugli altri Queste considerazioni distruggono pure l'obbiezione l'ondata
suirimpossilnlit di seguire ocularmente le linee prolungate air infinito.
Perch, bench per vedere attualmente che due linee date non s' incontrano mai,
sarebbe necessario di seguirle air infinito, noi possiamo tuttavia sapere,
senza di ci, che, sedesse s'incontrassero, 0 se, dopo essersi allontanate, cominciassero
a ravvicinarsi, ci dovrel)be accadere, non ad una distanza infinita . ma ad una
distanza Unita, Supponendo dunque che
cosi, noi possiamo trasportarci in immaginazione a questo punto, e
rappresentarci mentalmente ra[)parenza che presenterebbero l le due linee,
apparenza a cui dob'biamo fidarci come assolutamente simile alla realt. Ora,
sia che noi consideriamo (juesta pittura immaginaria, sia clie ci rammentiamo
le generalizzazioni d'osservazioni oculari anteriori, sempre la testimonianza deiresperienza che
c'insegna che una linea retta che, do^Kj essere stata divergente da un'altra
retta, comincia a ravvicinarsene, produce sui nostri sensi l'impressione che si
designa per l'espressione di linea curva, e non per quella di linea retta
(Logica). Quando si tratta I. linea retta, e non una linea spezzata o curva.
Noi abbiamo bisogno di sapere che la Ibtografia rappresenta adequatamente
Toriginale, per essere in grado di descrivere coscienziosamente quest'originale
sulFosservazione della sola immagine, perch qui le nostre proposizioni
sarebbero esistenziali. Esse stabilirebbero che esiste un animale rea,le,
avente una tale forma esteriore o una tale struttura. Ma una proposizione
geometrica relativa alla retta non stabilisce sulla retta niente di simile. La
quistione qui sollevata dal Mill corrisponde alla difficolt dei Kantiani: donde
sappiamo che le linee ideali si comportano come le linee reali? I Kantiani
rispondono: che stabiliamo quest'accordo
noi stessi. Mill risponde invece: lo sappiamo per Tesperienza. Nella quistione
presentata sotto questa forma vi ha un equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice:
aequi-vocality thesis]: la vera quistione non : perch sappiamo che le linee
reali rassomigliano esattamente alle linee ideali? ma invece: percii noi attribuiamo alle linee o
alle formi reali i mutui rapporti che noi apprendiamo dall'osservazione delle
linee o forme ideali? Il Mill nella sua risposta ad una critica si approssima
alla vera soluzione. Il W'ewell aveva obbiettato che non si vede perch la
rassomiglianza C(jn gli oggetti reali sareljbe considerata come particolare
alle idee di spazio. A cui il Mill risponde: La particolarit non che di grado. Nessuno potrebbe rappresentarsi
un colore o un odore d'una maniera cosi distinta e completa che una retta o un triangolo.
Nondimeno proporzionalmente al loro grado possibile di esattezza, i nostri
ricordi degli odori e dei colori possono essere dei soggetti d'esperienza, cosi
bene che quelli delle linee e degli spazi, e possono autorizzare delle
conclusioni che saranno vere dei loro prototipi esteriori. Una persona in cui,
sia naturalmente, sia per l'esercizio del senso, le sensazioni di colore sono
molto vive e distinte, potr, se gli si domanda (juale di due fiori turchini ha
un colore pi carico, dare una risposta soddisfacente sulla sola fede dei suoi
ricordi, quand'anche non li avesse mai comparati, e nemmeno visti insieme; vale
a dire che essa potr esaminare le sue immagini ^ Ogni proposizione dell'aritmetica e
dell'algebra staljilisce, al fondo, delle eguaglianze o delle ineguaglianze.
(xJuando nel calcolo aritmetico si mette il segno = fra i dati dell'operazione
proposta e il risultato di quest'operazione, ovvero quando nel calcolo
algebrico questo segno si pone fra due espressioni distinte, ci che si afferma
non semplicemente, come si ix)trebbe
credere, che vi hanno due espressioni diverse iVuna stessa quantit, nel senso
che la differenza consisterebbe unicamente nelle espressioni ma la cosa
espressa sarebbe identica; al contrario, ci che si afferma sono delle relazioni
fra cose realmente distinte. Fra 7+5 e 12 non vi ha identit assoluta, ma solo
egualianza: 7+5 designa due gruppi di oggetti . ma 12 designa un gruppo unico;
e la proposizione 7+5=12 afferma che i due primi gruppi presi insieme sono
numericamente eguali al terzo gruppo. 7+5 e 12 possono anche denotare gli
stessi oggetti, 7+5 prima della loro riunione in un gruppo unico, e 12 dopo
questa riunione: ma la disposizione di questi oggetti, il loro modo di
aggregarsi sarebbe diverso prima e dopo la riuninione. 11 risultato della somma
potrebbe anche considerarsi come rappresentante, non un gru[)po unico, ma due
grup])i formati, l'uno d'una decina, l'altro di due unit, perch in un sistema
razionale di numerazione la valutazione di una somma di numeri per il numero
totale pu essere riguardata come l'affermazione dell'equivalenza tra la soimna
data e un'altra somma diversamente formata secondo un metodo generale, e che si
esprime per il nome del numero o, in generale, il suo segno: nel sistema
decimale, p. e., quest'ultima somma consiste nell'addizione di un numero di
unit semplici e di numeri d'aggregati costituiti ciascuno da una delle })0tenze
successivi di dieci. Della stessa maniera IX^ ~^^ afferma l'eguaglianza
numerica fra quattro grup[)i di cin({ue oggetti ciascuno e un gruppo unico di
venti o (kie di dieci. Cosi ancora in questa eguaglianza: (:}+2)''=*r^ +2
(3.2)+2~, la quantit indicata nei due mem])ri dell'eguaglianza in un senso la stessa, ma la struttura interna,
per dir cosi, di questa (juantit (come si potrebbe rappresentare sensibilmente
per mezzo di i)untini segnati sulla carta) differisce nelle due espressioni: il
modo di ag gregarsi delle unit, i gruppi che esse formano per la loro riunione,
e i gruppi di second' ordine formati da questi gruppi, non che quelli di un
ordine pi complesso ancora costituiti da questi gruppi di gruj^pi, sono
diversi. Siccome noi abitualmente valutiamo i gruppi di (luantit, affermandone
l'equivalenza con un dato numero, cio con un mm^imi&.^Ms^j..-.. aggregato formato
secondo il sistema decimale, V eauaglianza suindicata pu interpretarsi, non
come un rapporto immediato di eguaglianza fra i due membri, ma come
un'equivalenza delluno e dell' altro allo stesso numero o aggregato del sistema
decimale. La tbrmula (a -^ b ) ^ = a ^ +2 a b -i b ^ poi una proposizione generale, che indica
un'infinit di equivalenze della stessa classe. Cosi pure la formula (a -} b) (a
b) = a b 2 non indica un' identit reale fra due espessioni diverse^, ma delle
equivalenze fra gruppi di quantit realmente distinti: essa dice che la somma di
due numeri, a ( b, ripetuta tante volte quante sono le unit contenute nella
differenza fra questi due numeri, uguale
ad un numero il quale, aggiunto a b^-, sar uguale ad a 2. Similmente la formula
tv i^ ^^^, significa che il numero, il quale, ripetuto tante volte quanto sono
le unit di b, uguale ad a, se invece si
ripete tante volte quante sono le unit di
e, sar uguale ad a e ; il che ancora indica, non un'identit assoluta, ma
delle uguaglianze fra quantit e gruppi di quantit realmente distinte. Dagli
esempi citati si vede facilmente di quale specie particolare sia l'eguaglianza
con cui ha da fare la scienza dei numeri: si tratta sempre al fondo
dell'eguaglianza numerica fra un aggregato o un certo gruppo di aggregati e un
altro gruppo distinto di aggregati. Tale evidentemente il ra[)porto che si afferma quando si fa
un'addizione: in quanto alla molti[)licazione, essa non che un caso dell'addizione, e l'elevazione a
potenza un caso della moltiplicazione. Per le operazioni poi che sono le
inverse di queste, la loro definizione mostra che esse si riconducono alle
operazioni dirette corrispondenti. La sottrazione non differisce dall'addizione,
se non perch ci l)e vedervi invece una proposizione di coesistenza, affermante
l'unione dei due attributi. Quando una proposizione en\mcia clic da certe
relazioni fra certi elementi delle figure dipendono altre relazioni fra altri
clementi, si trover forse pi facilmente ancora che si tratti d\ina coesistenza.
Cosi Spencer {Princ, di psicoL. ) nel teorema: In un triangolo al maggior
lato opposto il maggior angolo, vede un
rapporto di coesistenza fra il maggior lato e il maggior angolo. Questo
rapporto, egli soggiunge, non
semplicemente quello di coesistenza:
un rapporto di coesistenza in certe posizioni ris[)ettive . Ma certo die il teorema non stabilisce che certe
rette esistono insieme con certi angoli, o si trovano simultaneamente nelUo
spazio, con una certa posizione rispettiva: questo intanto , alla lettera, il
senso delle parole di Spencer. L^esistenza e la coesistenza delle rette e degli
angoli un dato, cio una supposizione,
del teorema, jjerch 1' esistenza del triangolo stesso un dato; ma queste affermazioni esistenziali
sono affatto indipendenti dall'affermazione espressa nel teorema stesso. Esso
aferma evidentemente, non una coesistenza tra grandezze, ma una coesistenza o
dipendenza tra relazioni d'ineguaglianza definita, di cui queste grandezze sono
dei termini. Si pu pretendere, continua lo Spencer, 'che in (jucsto caso come
negli altri casi simili, i termini della relazione dovrebbero essere riguardati
piuttosto come rapporti tra grandezze che com3 grandezze stesse. Per dilucidare
questa quistione, esaminiamo il teorema: L'angolo che misura una semicirconferenza un angolo retto. Qui la parola
semicirconferenza indica dei rapporti
quantitativi definiti una curva di cui tutte le parti sono equidistanti da un
punto dato, e di cui le due estremit sono riunite da una linea retta che passa
per questo punto. Le parole angolo che misura una semicirconferenza ^ indicano
altri rapporti quantitativi; negativamente quantitativi, se non positivamente
quantitativi. E la cosa Secondo Spencer una proposizione geometrica die
concerne soltanto la posizione, senz'alcun rapporto metrico, negativamente fjuantitativa. V. Classcuone
delle scienze, tamia I. fi: i3 I affermata
che con questo gruppo di rapporti quantitativi coesiste (luest'altro
grupjo di rappor quantitativi, di cui la parola angolo retto indica l'esistenza
fra le due linee che lo racchiudono. In
conclusione, secondo lo Spencer, questa proposizione: L'angolo che nella semicirconferenza retto, afferma la coesistenza dei rappjjrti
che costituiscono l'angolo nella semicirconferenza coi rapporti che costituiscono un angolo
retto . Ora non evidente che le
espressioni di Spencer, se andassero prese alla lettera, impliclierebbero una
realizzazione di astrazioni ? i rapporti che costituiscono l'angolo nella
semicirconferenza hanno forse un'esistenza propria e separata dai (( rapporti
che costituiscono l'angolo retto Ma se
non devono essere prese alla lettera, non vi ha altro in esse che
un'espressione tortuosa del .fatto che l'angolo che nella semicirconferenza ha quelle relazioni
metriche determinato che noi inchcliiamo con le parole a/Kjolo retto. Il
teorema non afferma dunque che un rapporto d'eguaglianza, il fatto che la
parola retto indica non essendoaltro che un tale rapporto, come risulta dalla
definizione dell'angolo retto: che si legga infatti in Euclide la dimostrazione
di questo teorema; si vedr che ci che si dimostra che l'angolo in quistione uguale al suo angolo conseguente. Se una
propriet astratta non deve mai considerarsi come avente, n realmente n
mentalmente, un'esistenza distinta, ma risolversi sempre in una relazione fra
termini concreti (ammenoch noi non vogliamo rinunziare a tradurre le parole
nelle idee che esse significano); tanto meno sar permesso di trattare una
determinazione quantitativa come qualche cosa che pu esistere o pensarsi
all'infuori di una relazione. Che una determinazione metrica sia l'espressione
di un rapporto fra due grandezze date, o che essa esprima la misura di una
grandezza in modo che l'altra con cui essa viene paragonata non sia
particolarmente indicata; il fatto
sempre che una determinazione tale non [)ii acquistare un'esistenza
mentalmente distinta che per la comparazione di certe grandezze con altre
grandezze. Se si considera una proposizione enunciante una propriet metrica o
come analitica o come Faffermazione di una coesistenza (nel senso di cui
abbiamo i)arlato), si dimentica questo fatto evidente, o si rinunzia
volontariamente a rendere conto del pensiero per il i)ensiero stesso e non i)er
la sua espressione verbale. Secondo alcuni autori, l'eguaglianza applicata alle
grandezze estese non altro che la
coincidenza sensibile: quando noi diciamo che due grandezze sono eguali, noi
vogliamo dire che esse coincidono o pjssono coincidere. Euclide stesso
definisce Teguaglianza: la coincidenza visil)ile delle grandezze est(?se. ^Nla
dice )ene il Mill: LY^guaglianza di due grandezze geometriche non pu differire
essenzialmente da ([uella di due pesi, di due gradi di calore o di due
intervalli di tempo, cose a cui questa pretesa definizione deireguaglianza non
converrebbe affatto. Nessuna (U queste cose pu essere ai)plicata Funa
sull'altra in modo da coincidere, e pertanto noi comprendiamo perfettamente ci
che vogliamo dire quando le chiamiamo eguali. Delle cose sono eguali in
estensione, in peso, quando costatiamo fra di loro ima somiglianza completa
neirattrilmto che vi consideriamo. Applicando degli oggetti run(j suir altro
nel primo caso, cosi jene che pesandoli per mezzo d'una bilancia nel secondo,
noi non facciamo che porli in una posizione, in cui i nostri sensi possono riconoscere
il diletto d'esatta rassomiglianza, che senza di ci ci sarebbe sfuggito
{Logica). La coincidenza non dunque che
un mezzo, il pi sicuro, per costatare o percepire l'eguaglianza fra le
grandezze estese; ma non pu essere nemmeno l'unico mezzo. Quando noi facciamo
coincidere due grandezze, noi non ne con(^dudiamo soltanto che esse sono eguali
nel momento in cui coincidono, ne concludiamo anche che erano e saranno eguali
prima e dopo la coincidenza. Noi facciamo cosi, perch sappiamo che
ordinariamente gli oggetti conservano, almeno d'una maniera approssimativa, la
stessa grandezza, cio restano eguali a se stessi. Conosciamo noi ci unicamente
perch abbiamo misurato pi volte gli stessi oggetti in tempi differenti? ma
questo suppone la conoscenza che l'unit di misura stessa abbia conservato una
grandezza determinata, cio sia restata uguale a se stessa chiaro dunque che la nostra conoscenza delle
eguaglianze suppone necessariamente almeno un mezzo di accertarci che una grandezza
^ uguale a se stessa in due momenti diversi, indipendente dall'applicazione
delle grandezze l'una sull'altra; e che cosi l'eguaglianza delle grandezze
estese e la loro coincidenza non possono essere una sola e stessa cosa. . ()^\
Si ammetter facilmente che i teoremi della geometria, che hanno per oggetto le
relazioni metriche delle grandezze, sono delle proposizioni comparative ; ma si
trover forse pi difficolt ad ammettere lo stesso per i teo remi che non hanno
quest'oggetto. I geometri moderni dividono la scienza in due campi: la geometria
della m/sura e la geometria di posizione. Alla prima appartengono i teoremi che
considerano le relazioni di grandezza, cio le relazioni quantitative fra
grandezze estese; alla seconda i teoremi che considerano i rapporti di
posizione scambievole delle figure e dei loro elementi. Le pro})riet dunque,
che sono l'oggetto dei teoremi di quest'ultima specie, sono, non delle propriet
metriche o quantitative, ma grafiche o descrittive (V. tra altri Reye Lezioni
di geo^ metria di posizione, Introduzione, e Ballzer Elementi di matematica,
parte J% /, 0.) Alcuni dei teoremi di posizione stabiliscono che fra Noi
ntondiauo la rarola in un senso pi loto di quello in E l'oggetto della
conoscenza a priori certi punti, lince e superfcie certi rapporti di posizione
sono 0 non sono possibili; come: Un poligono regolare pu essere inscritto o
circoscritto ad un cerchio; Due cerchi non possono segarsi in pi di due punti;
ecc. Ma la pi parte si propongono un altro quesito, clie noi possiamo formulare
di questa maniera: in un sistema di punti, linee e superfcie, da dati rapporti
di posizione reciproca, inferire altri di questi rapporti. Come esempi di
questa seconda classe, la pi importante, dei teoremi di posizione, rammentiamo
il teorema di Pascal: In .ogni esagono inscritto in una curva del secondo
ordine, i punti d'incontro dei lati opposti sono in linea retta; e quello di
Brianchon: In ogni esagono circoscritto ad una curva del secondo ordine, le
diagonali che congiungono i vertici opposti si tagliano in uno stesso punto. A prima
vista potrebbe sembrare che queste proposizioni, stabilendo che certi punti e
linee sono in certe posizioni rispettive, ci che si afferma sia una
coesistenza, quella specie di coesistenza che Alili chiama ordine nel luogo,
{Logica). Tale sarebbe laffermazione, se la proposizione stabilisse, d una
maniera assoluta, che certe cose si trovano in una certa posizione scambievole^
ma le nostre proposizioni non lo stabiliscono che condizionalmente. Ora date le
condizioni, cio date le grandezze coi rapporti dati di posizione, il sistema si
trova interamente determinato, e ci die dipende dalle condizioni o dai dati,.
cio i rapporti dimostrati, quindi
implicitamente contenut(j nei dati stessi. Che si costruisca la fgura: s
inscriva un esagono, p. e., in un cerchio, e si prolungliino i cui
ordinariamantc rimpiegano i f>:eo metri: (luamlo tra forme metricamente
determinate il teorema stabilisce dei rapporti di posizione, esso potrebbe
classarsi fra i metrici: ma noi i>referiamo di vedervi un teorema di
posizione, poicli il suo ogi^etto non di
stabilire dei rapporti quantitativi, ma dei semplici rapporti di l'osiyione. r
lati opposti sino ai punti d'incontro ; queste, nel primo teorema, sono le
condizioni date; ma per queste condizioni la fgura si trova assv)lutamente
determinata, con tutti i rapporti di posizione scambievole fra i suoi elementi,
tra di cui quelli stessi fra i punti d' incontro dei lati opposti. Cosi per il
secondo teorema: circoscritto un esagono ad un cerchio, e congiunti i vertici
opposti con le diagonali, questa circostanza, che le diagonali si tagliano in
uno stesso punto, non un fatto nuovo che
si aggiunge ai precedenti; il teorema dimostra appunto che essa vi necessariamente compresa. E evidente dunque
che le propriet della fgura che il teorema suppone come date, e le propriet
-che il teorema dimostra, non potrebbero avere, nello spazio, un'esistenza
distinta e separata. Ma esse non possono averla nemmeno nel nostro pensiero;
poich, una propriet astratta non essendo per se stessa un oggetto distinto del
pensiero, le nostre nozioni sulle forme sono anch'esse delle idee concrete, e
queste non possono essere che delle copie o rappresentazioni delle forme reali
che esistono nello spazio. Qui noi ci troviamo dunque in presenza di questa
difficolt: una proposizione generale afferma sempre una uniformit, un rapporto
costante fra pi fatti distinti ; riducendo a due questi fatti, essa afferma che
il secondo dipende dal primo, e gli
invariabilmente congiunto. Un teorema geometrico non pu dunque esso stesso
affermare che una di queste uniformft, o congiunzioni costanti di fatti
distinti: ma non per tanto in questo caso il fatto uno solo; la condizione e ci che condizionato non sono due fatti, ma uno
stesso fatto, se per fatto noi intendiamo ci che pu essere separatamente
l'oggetto d'una percezione distinta dei nostri sensi. Intanto si deve ammettere
che alle propriet distinte fra cui il teorema stabilisce una connessione, corrispondono
dei fatti realmente distinti: bisogna dunque cercare altrove questi fatti
distinti che vengono posti in connessione. Kainineiitiaino brevemente il
risultato di una precedente ricerca: un attributo astratto non che il legame d'una cosa con una
denominazione generale, la sua capacit di riceverla; denominazione a cui non
corrisponde altro, come Tatto distinto, che una relazione definita di
somiglianza dell'oggetto a cui si applica, con una certa classe di oggetti. Che
cosa sono dunque le pro[)riet o attributi, ira cui il teorema di Brianchon
stabilisce una connessione Sono anzitutto
delle denominazioni che noi possiamo applicare alle grandezze, da cui la
figura costituita, sia considerate
assolutamente, sia considerate nei rapf)orti scambievoli di posizione; le
parole esaf/ono, circostn'ito, cnrva del secondo ordine, diagonali, ecc.
indicando la (jualit di queste grandezze o la loro posizione rispettiva. Il
teorema stabilisce die, tutte le volte che noi possiamo applicare queste
denominazioni: un esagono, circosar ilio ad una curca del secondo ordine, i
vertici opposti del (piale sono congiunti dalle diagonali, noi possiamo anche
dire che queste diagonali si tagliano in un sol punto. Ala se si domanda quali
siano i l'atti clie corrispondono a (jueste denominazioni distinte, e su cui
esse sono l'ondate, si deve rispondere che, in questo caso come in tutti gli
altri, bisogna distinguere nelle parole un doppio significato: esse indicano i
latti obbiettivi, cio gli oggetti delle nostre percezioni e delle nostre
rappresentazioni, e li classano al tempo stesso. Ora, come abbiamo detto, i
fatti obbiettivi indicati non sono, in questo caso, distinti: le parole che
enunziano i dati ole supposizioni del teorema, e quelle che enunciano ci che
dipende da queste supiX)Szioni e che il teorema deve dimostrare, non indicano
due fenomeni, che siano ciascuno T oggetto di una percezione o una
rappresentazione distinta. Ala queste parole significano pure delle
classazioni: alle denominazioni distinte corrispondono degli atti mentali
distinti, per cui noi classiamo le grandezze a, cui esse si applicano, sia
considerate assolutamente, sia considerate nei loro rapporti scambievoli di
posizione; e questi atti mentali si risolvono, come si sa, in affermazioni di
somiglianze definite. Cosi una proposizione della geometria di posizione
afferma, come qualsiasi altra proposizione generale, una uniformit, una
dipendenza o connessione tra pi fatti distinti: ma questa connessione non tra fenomeni obbiettivi distinti, come nelle
proposizioni suiresistenza, ma solamente fra denominazioni distinte, da una
parte, e dalTaltra, se noi vogliamo andare al di l delle [)arole, fra i
rapporti distinti di somiglianza, che costituiscono le classazioni su cui
queste denominazioni sono fondate. I rai)porti di somiglianza in cui si
risolvono queste classazioni, non sono i soli che siano implicati in un teorema
di posizione. Siccome il teorema non
vero in un sol caso particolare, ma in tutti i casi, noi dobbiamo
aggiungere, come per tutte le proposizioni generali, un alti-a somiglianza, cio
Tuniformit che ci permette di generalizzare. Infine, i)er ima gran parte di
proposizioni, ve ne ha un' altra ancora che non si deve negligere: i numerosi
teoremi in cui, come in (pielli che abbiamo citati, si dice che pi rette si
tagliano in uno stesso punto o pi i)unti si trovano in una stessa retta,
contengono i)ure evidentemente Taftcrmazione di una concordanza nella
I)Osizione dei punti o delle rette che vi si considerano. Questa osservazione
potrebbe estendersi a tanti altri casi; ma noi non ne parliamo che in linea
secondaria, sembrandoci che questo non sia un carattere generale delle
proposizioni geometriche di posizione. In conclusione, l'analisi delle
proposizioni della geometria di posizione non ci d altre affermazioni reali che
di soMiglianza ; risultato a cui si deve pervenire, d'una maniera o d'un'altra,
tutte le volte che una proposizione non
esistenziale. Ogni affermazione essendo laftermazione di qualche fatto,
una proposizione non pu che affermare, in senso lato, resistenza di certi
fatti: se questi fatti non sono dei fenomeni sensibili, esterni ed obbiettivi,
non possono essere che dei fenomeni interni e subbiettivi. Ora il solo fenomeno
interno o suljbiettivo, con cui abbiamo da fare nella conoscenza
obbiettiva, la percezione o il sentimento
di somiglianza che ci proviene dalla comparazione degli oggetti. Una
proposizione geometrica dunque, non affermando niente suUesistenzadelle forme o
delle grandezze stesse, non pu affermare che resistenza di somiglianze (o
differenze; tra queste forme o grandezze. 7.^, ma a cui i geometri moderni
danno quest'altra forma pi generale: Due rette che coincidono in due punti
coincidono interamente ; e V altro
relativo al piano, cio, secondo Euchde, che Una retta che Jia due punti in un
piano giace interamente nel piano . Oltre a ci le ricerche dei geometri moderni
sulla teoria delle parallele hanno messo in chiaro che vi ha bisogno, per
fondare questa teoria, d' un assioma speciale: quesf assioma stato poco felicemente scelto da Euclide, e i
geometri moderni gliene hanno generalmente sostituito un altro, che, espresso
sotto una forma o sotto un'altra, sta5, in nota, dimostra alcuni degli assiomi
secondari, deducenroposizioni ) cali e j^'imitive. cio indimostrabili. Del
resto la distinzione fra gli assiomi e le definizioni rii)Osa sopra un fondamento
logico, ed a>l)astanza yrccisa.[/
assioma stabilisce una uniformit, un acco])piamento invaria))ile tra due fatti,
in modo clie, il primo essendo dato, il secondo se ne ]ossa infei'ire. Ma la
delnizione non serve come i)rincipio per fare delle inferenze, cio j-er passare
da un fatto dato air altro che gli
costantemente legato: la definizione del cerchio, ]). e, non lia Io
scopo di al)ililarci a fare lillazione: posto gi che ha i raggi eguali. Le
definizioni duncjue, quantun(]ue siiuio proj^osiziorn /vah\ non sono, a pai'lar
]>ropriamente, delle [remesse della geouetria come gli assiomi: esse
enunciano una propriet i>rimiMva di una forma geomctri(!a. la ((uale fa
riconoscere (juesfjX forma, e alla (juale sdiranno legate tutte le altre
iiropriet che verranno dimostrate una successione di sostituzioni, fatte in
virt dei due assiomi fondamentali sulle eguaglianze: Quantit eguali aggiunte a
quantit eguali danno quantit eguali; Due (]uantit eguali ad una terza sono
eguali fra loro. Cosi, nella risoluzione delle equazioni, le sostituzioni che
si fanno aggiungendo o togliendo una stessa quantit ai due memljri
dell'equazione, moltiplicandoli o dividendoli amen due per la stessa quantit,
hanno luogo in virt del primo assioma: ma quando nell'uno dei membri deirequazione
si sostituisce ad una quantit il suo equivalente, si applicano tutti e due gli
assiomi; in virt del primo si ammette che, per la sostituzione, il valore del
membro deir ecjuazione in cui essa si fa non viene alterato, e in virt del
secondo si ammette che Tequazione, cio T eguaglianza di questo membro con
Taltro, sussiste ancora dopo la sostituzione, (ili stessi principii governano
le operazioni deiraritmetica. Le operazioni sui numeri elevati si eseguiscono
col metodo della divisione in operazioni parziali, metodo che suppone delle
sostituzioni successive, ciascuna delle quali ha luogo in viri dei principii:
Quantit eguali aggiunte a (luantit eguali sono eguali; Due (pianitt eguali ad
una terza sono eguali fra loro. Siano da addizionare certi numeri: per mettere
sotto gli occhi del letbjre un esempio, siano (>072 Secondo la regola,
ciascun numero 7847 = 11819 si considera come composto di tanti numeri
parziali, le unit di ciascuno dei quali sono di diverso oi'dine, il che esattament conforme alla nozione del numero
nel sistema decimale; e si fanno le somme parziali delle unit dello stesso
ordine, sostituendo cosi ({ueste sonuue, i)rese insieme, ai numeri dati, o
jnttosto a tutte le [larti, prese insieme, in cui i numeri dati si sono
considerati comdecom|)Osti. Questa sostituzione
giustificata dairassioma che (Quantit eguali aggiunte a ciuantit eguali
danno quantit eguali. Ma allo stesso tempo le unit dello stesso ordine che si
trovano in queste somme parziali vengono esse stesse sommate, quando il
risultato della somma delle unit di un certo ordine contenendo unit d'ordine
superiore, queste ultime si riportano per unirle alla somma delle unit del loro
ordine. Che il risultato cosi ottenuto sia eguale alle somme parziali primitive
prese insieme, ancora una conseguenza
dall' assioma che Quantit eguali aggiunte a quantit eguali sono eguali; ma che
esso possa sostituirsi a queste somme parziali nel rapporto d'equivalenza che
lega queste ultime ai numeri dati, e venga perci riconosciuto eguale a questi
numeri, ci avviene in virt dell'assioma che Due quantit eguali ad una terza
sono eguali fra loro. Merc la divisione in operazioni parziah, le operazioni
sui numeri di pi cifre si riconducono a quelle sui numeri d'una sola cifra; e
l'aritmetica suppone come conosciuti i risultati dell'addizione e
moltiplicazione di due qualunque di questi ultimi numeri. Ci per non vuol dire
che essi non siano suscettibili di essere dimostrati; poich per tutta la serie
dei numeri, ammesso che ciascun numero della serie si forma per l'addizione del
mimer immediatamente inferiore e dell'unit, si possono dimostrare tutti i
differenti modi di formazione di ciascuno per l'addizione di numeri minori. Si
pu, p. e. dimostrare che 7+5= 12, ragionando di questa maniera: 5= l-f-4;
aggiundendo ({uantit eguah, 7+5= 7+1+4; ma 7-f 1= ^; aggiungendo quantit
eguali, 7+1+4= 8+4; e siccome due quantit eguali ad una terza scno eguali fra
loro, 7+5= 8+4. Della stessa maniera si dimostra che 8+4= 0+:^, e quindi, perch
due quantit eguali ad una terza sono eguali fra loro, 7+5= 0+3; e dimostrato
similmente che 9+:]= 10+2, si dimostra infine che 7+5= 10+2 o 12, queste due
ultime espressioni essendo assolutamente identiche di senso nel nostro sistema
di nume i razione. Aggiungiamo che (jucste proposizioni stesse, le quali
stabiliscono l'eguaglianza fra un numero e il numero immediatamente inferiore
pi l'unit, non sono tutte ugualmente primitive: se quelle che concernono i pnmi
dieci numeri devono ritenersi come primitive, le altre al contrario possono
ritenersi come derivate. Cosi che 1^+1=15 pu a buon diritto considerarsi come
una verit dedotta; infatti 14 non significando altro per noi che una decina e
quattro unit, e 15 non significando altro che una decina e cinque unit,
conosciuto che 4+1=5, noi ne possiamo inferire che, aggiungendo ai due membri
di questa eguaglianza una stessa quantit, cio una decina, l'eguaglianza non
viene alterata. Per non dobbiamo concluderne che queste sole verit immediate
sulle eguagUanze numeriche, che sono il minimum indispensabile alla
dimostrazione, siano evidenti per s stesse, e non vi siano altre conoscenze
immediate ed evidenti della stessa maniera sulle eguaglianze numeriche: al
contrario, chiaro che noi conosciamo die
due e due fanno (luattro e che tre e due fanno cinque d'una maniera cosi
intuitiva come conosciamo che quattro e uno fanno cinque. Come dunque le
premesse della geometria si riducono agli assiomi sull'eguaglianza pi altre
poche verit particolari ugualmente evidenti per se stesse, assiomi o
definizioni, ciascuna delle (juali enunzia una propriet di (jualche forma
geometrica; cosi le premesse della scienza dei numeri si riducono agli assiomi
dell'eguagUanza, che essa ha comuni con la geometria, pi alcune poche verit
particolari, che potrebbero pure in un certo senso chiamarsi assiomatiche, per
le quali conosciamo le somme dei numeri pi piccoli. La quistione dunque sulla
Noi faremo qui un'osservazione analoga a (juella fatta sulle dctlnizioni
geometriche. Le proposizioni sui rapporti numerici, o per impiegare il linguaggio
l\ Kant, le formule numeriche, che sonatura flelle conoscenze niateniaticlie
vol^e in sostanza sulla natura di queste i)Oclie proposizioni primitive: sono
esse, per conseguenza, che noi dobbiamo particolarmente esaminare. Cominceremo
per istabilire il loro carattei*e sintetico. . S^. In quanto agli assiomi sulle
eguaglianze, per non misconoscere il carattere reale o sintetico di queste
proposizioni, basta non dimenticare queste due verit: Primo, che un rapporto
d'eguaglianza esso stesso un tatto allo
stesso titolo che un tatto sensibile qualunque, in quanto TaiTermazione d'un
rapporto di tale natura non che
l'affermazione clie in circostanza date noi avremo o }jotremmo avere certe
percezioni definite, che noi cliia-miamo d'eguaglianza. E, secondo, che i
termini d'un rapporto d'eguaglianza sono delle cose concrete, realmente
distinte le une dalle altre. Se in due (juantit eguali non si vedono che due
designazioni diverse d'uno stesso numero astratto, allora sar tacile di trovare
nell'assioma. Due quantit eguali ad una terza sono eguali 1 ra di loro , una
proposizione analitica, imphcata in questa nozione del numero e deireguaglianza
numerica. Cosi la geometria, per il no delle verit primitive, non meritano
rro]>ritniiente il nome di assionn' : ma ci
per un'altra ragione che le definizioni iieometriche. die la generalizzazione contenuta in queste
proposizioni, non e una verit ultima, che non possa dedursi dagli assiomi sulle
eguaglianze, lo voglio dire die, se noi i^ossiamo annuettere in un caso
i>articolare la verit di alcuna di queste ]>roposizioni. noi ])0ssiamo
generalizzarla in virt degli assiomi generali sulle eguaglianze. Se io prendo
per accordato, p. e., clietiuattro oggetti particolari pi un altro oggetto che
stanno a me d'innanzi, sono eguali a cin(iue, io ])osso perci sta)ilire in
generale che, in tutti i casi, juattro pi uno sono sempre eguali a cinque, in
virt dell'assioma che Le somme di quantit eguali sono eguali. K co>i. p. e.,
che fu Ilelmholtz. V. Berne scientiff/ue sei'. 3. t. i4 !>. Notiamo il fatto
che Ilelmholtz crede cie gli assiomi lell'aritmetica si ricavino dalla nozione
stessa dei numeri, perch Ili .seguito ci sar utile di tenerlo presente. , una pro|)Osizione sintetica per le stesse
ragioni che lassioma Due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra loro. In
(guanto agU altri assiomi geometrici suUeguaglianza, quelli che, come il Bain
{Logica lib. 5^ e. 1^ (j), negano che r eguaglianza fra le grandezze sia un
fatto distinto dalla loro coincidenza, negano anche naturalmente il carattere
reale o sintetico della loro pro}X)sizione Due grandezze che coincidono sono
eguah . Noi abbiamo detto le ragioni per cui (juesta opinione non ci sembra
ammissibile. Pi [)lausibile })are T opinione del Bain, quando egli contesta il
carattere di proposizione reale all'assioma d'Euclide, che \^olf ha
laboriosamente dimostrato: La parte
minore del tutto. Per, ben considerando la cosa, si trover che anclie
questa proposizione reale o sintetica,
altro essendo l'intuizione passiva di un tutto e di una parte, ed altro la
percezione d'un rapporto d'ineguaglianza, quale viene affermato nell'assioma.
Nondimeno quest'assioma d' Euclide presenta una difficolt reale: cio come possa
intendersi, senza fare una proposizione identica, che la parte minore del tutto, mentre, come noi stessi
abbiamo ammesso, una gran.lezza si dice minore d' un'altra, i: r;o::i:;zTTO
dem.a conosci-nza a Piuofu 3S5 ;> (luando la prima uguale a una parte della seconda. Noi
crediamo che questa difficolta si risolva cosi: l'assioma d'Euclide certamente una proposizione affermativa, ma
essa implica delle proposizioni negative corrispondenti, cio che la parte
non uguale n maggiore del tutto, e sono
queste che danno all'assioma un significato reale. Intatti nei numerosi casi in
cui Euclide si serve dell'assioma nella prova per l'assurdo, mostrando che da
una certa ipotesi seguirebbe che la parte sarebbe uguale al tutto o mnggiore,
l'assioma realmente invocato che la
parte non potrebbe essere uguale n maggiore del tutto. Quando invece egli si
serve dell'assioma nella prova diretta, cio ({uando, dopo aver detto che una
grandezza uguale a una parte d'un'altra
grandezza, soggiunge che quindi essa
minore di tutta la grandezza, egli non fa in realt alcun uso
dell'assioma, non facendo alcuna inferenza reale, perch dire che una
grandezza minore d'un'altra, precisamente dire che la ])rima uguale a una parte della seconda. Il Bain
nega egualmente il carattere di proposizioni reali o sintetiche agli assiomi
particolari della geometria, che enunciano una propriet d'una determinata forma
geometrica: Due rette non chiudono uno spazio ,
per lui una proposizione identica o puramente verbale: che due rette
chiudessero uno s[)azio sarebbe, egli dice, una contraddizione. Il Bain
considera la proposizione, non come un assioma, ma come un corollario della
definizione della retta, la quale, secondo lui, : quando due linee sonO' tali
clie esse non possono coincidere in due punti senza confondersi l' una con F
altra, esse sono chiamate linee rette. E nel fatto Tassioma d'Euclide non che un caso particolare di quest'assioma pi
generale che i geometri moderni ordinariamente gli sostituiscono: se due rette
coincidono in pi di un punto, esse coincidono interamente . La proposizione
negativa Due rette non chiudono uno spazio
non che Tequivalcnte della
i)i*oposizione aflermativa Due rette che lianno in comune i due ])unti che le
limitano, coincidono; ed questo latto
che si dimostra effetti vamente per rap[)licazione dell'assioma, (piando questo
viene invocato (v. Euclide lib. 1,'^ i)rop. 4^^). Ora che questa proposizione o
r altra pi generale di cui essa un caso
particolare, debba })i correttamente esprimersi sotto la forma di un assioma o
sotto (juella di una definizione,
inditTerente per la (piistione se la proposizione sia sintetica o
analitica, perch evidente che dare ad
una proposizione reale la forma della definizione, non basta perch essa diventi
verbale o analitica. Vi ha certaniente un aspetto sotto cui la proposizione pu
semjrare semplicemente verbale: queste due espressioni, Due rette clie
coincidono in pi di un punto , e Due rette che coincidono interamente , non
designano dei fatti reali distinti, ma un solo e stesso fatto, a cui conviene
tanto la ])rima (|uanto la seconda designazione. Se la prima designazione applicabile, i fatti obbiettivi sono tali,
che ci basta, senz'altro, perch la seconda sia pure applicabile, e non vi ha
bisogno perci deir esistenza di nuovi fatti reali distinti. Due rette che
coincidessero in pi di un punto, ma che non coincidessero interamente,
sarebbero un non senso; non sarebbe possiljile alcuna rappresentazione reale
corrispondente a queste parole. Ma le stesse osservazioni sono applicabili,
come abbiamo visto, a tutte le proposizioni geometriche di posizione. Non ci
sareljbe possibile alcuna intuizione o rappresentazione di oggetti nello
spazio, in cui si trovassero i rap[)orti che la proposizione suppone come dati,
ma non si trovassero quelli che essa dimostra. La coesistenza necessaria
affermata in tali proposizioni, non
quella di due fatti reali distinti e separati, ma quella di due propriet
astratte dello stesso fatto, cio, al fondo, delle possibilit di venirgli
applicate due denomina1 \ i-r srr [.iMiT[ i: i/oggktto dktj.v conoscenza a
imiioii 387 zioni distinte. Ma da ci non segue che le pro])Osizioni della
geometria di posizione siano semplicemente verbali; perch quantunque ci
che dato e ci che inferito non siano dei fatti obbiettivi
distinti e sej^arati, sono nondimeno delle relazioni differenti sotto cui gli
stessi fatti obbiettivi possono considerarsi, e queste relazioni sono anch'esse
dei fatti di un certo ordine. In generale, noi lo sapi)iamo, le proposizioni
della matematica pura non affermano r esistenza o la simultaneit o la sequenza
di fenomeni obbiettivi, ma delle relazioni di somiglianza o di thfferenza tra
questi fenomeni, e delle dipendenze tra queste relazioni; e noi abbiamo visto,
in particolare, che in una [)roposizione geometrica di posizione vi ha almeno
un minimum di affermazioni reali di questa natura, le quali consistono a
stabilire clie, se certi oggetti possono entrare in certe classi date, essi
230ssono per ci stesso entrare pure in certe altre classi. Ora, facendo
l'applicazione di (juesto principio alla proposizione in quistione, si vedr che
essa sintetica, perch afferma una unione
di fatti distinti di una natura particolare, cio di relazioni distinte di
somiglianza definita: essa stabilisce che Due linee che possono classarsi tanto
fra le rette quanto fra le cose che coincidono in pi di un punto, potranno per
ci stesso classarsi pure tra le cose che coincidono interamente. Ma ci non
basterebbe al Bain per chiamare sintetica e reale la proposizione, poich per
luilasempUce percezione della somiglianza o della differenza fa parte del la
nozione stessa della cosa, e (juindi un giudizio affermante delle semplici
somiglianze o differenze, egli non lo considera che come anahtico o identico. Cosi mentre il Mill avea classato i significati
delle proposizioni in affermazioni della coesistenza, della sequenza e della
somiglianza (oltre quelle della semplice esistenza), il Bain non amm(3tte, come
abbiamo gi detto, la terza classe, cio delle proposizioni sulla somiilianza,
parche questa costituisce, secondo lui, un predicato identico o verbale, e alla
somiglianza di Mill sostituisce la quantit oTeguaglianza. AUi le osservazioni
precedenti sulle proposizioni delgeometria di posizione mostrano che vi ha una
lacuna nella classazione del Bain: queste proposizioni non dei rapporti metrici
o quantitativi, delle eguaglianze ; in quale classe devono esse rientrare? Il
Bain non parla mai di tali proposizioni: esse non possono classarsi fra le
proposizioni di coesistenza, perch, da una parte, sarebbe inesatto, come noi
abbiamo osservato, di anniiettere che esse aftermano quella specie di
coesistenza che VW chiama ordine nel luogo, e d'altra parte contentarsi di
ammettere, come la talvolta il Bain per certe proposizioni, che la coesistenza
atlermata una coesistenza di attributi nello stesso soggetto, rinunziare
ad un'analisi rigorosa del vero contenuto delle proposizioni. La coesistenza
nel tempo o nel luogo presenta un'idea chiara: ma cosa vuol dire coesistenza
d'attributi, se non si vogliono realizzare delle astrazioni? Vuol dire
semplicemente che certe forme verbali si possono applicare simultaneamente,
riferendosi allo stesso soggetto: ma si tratta sapere quali siano le
rappresentazioni reali corrisponalla predicazione di queste forme verbali. Se,
come abitiamo detto, nelle proposizioni della geometria (U posizione le
affermazioni reali si risolvono in relazioni delinite di somiglianza, che
non eguaglianza, l'eguaglianza o la quantit A una categoria troppo
stretta per contenere tutte le proposizioni della matematica, e bisogna
ritornare per questa parte alla classazione di Mill, cio mettere la somiglianza
al posto della eguaglianza o della quantit. Perch il Bain vede in una specie
della somiglianza (cio l'eguaglianza) un predicato reale, e non nelle altre
specie? 11 criterio ch'egli sembra seguire clie una verit d'inferenza
reale o sintetica, mentre una verit intuitiva verbale o analitica:
infritti tra i principii della matematica egli non riconosce come sintetici
cJie i due assiomi generali sulle eguaglianze, i quali costituiscono secondo
lui il solo fondamento induttivo della scienza. Ma questo criterio non pu
servire di base a una classazione rma sotto diverse espressioni, non si
comprende come il raziocinio porti all'estensione delle nostre conoscenze {Op.
cit. t. 1. 70), egli cerca di evitare questa diflicolt, chepm'e inerente alla
sua propria dottrina, mostrando che il raziocinio ordinariamente procede dal
generale al particolare. Ma se nella dimostrazione della proposizione in
quistione non vi ha che una sostituzione tra il defuiito e la definizione, non
vi ha allora alcun' a pplicazione di un i)i'incipio generale, e
l'inferenza che T accompagna, al conti'ario, afferma un fatto che pu(')
condurre a delle conseguenze pi o meno importanti ; esso afferma Y esistenza
attuale o })0ssil)il( di cose clie {possiedono la combinazione d'attributi
dichiaraata dalla delnizione; e questo fatt(j, se i*eale, pu essere il
fondamento di tutto un edifzio di verit scientifiche. Mill fa un'obbiezione
alla propria dottrina: Non vero che esista un cerchio a raa'gi esattamente
eguali: i postulati implicati nelle definizioni non sono dun(iue coml)letamente
veri. Vi ha dunque qualche difficolt a conce[)ire che le conclusione l certe
rii)Osano su i>remesse, che, lungi di essere certamente vere, non sono
certamente vere in tutta l'estensione che comi)orta la loro enunciazione. Ma,
risponde l'autore a quest'obbiezione, vi ha altrettanta verit nel postulato,
quanta ne bisogna {er portare ci che vi ha di vero nella conclusione. Le
definizioni devono essere considerate corno le nostre prime e pi evidenti
generalizzazioni relative alle figure quali esse esistono negli oggetti
naturali. (Queste generahzzazioni, in ({uanto generalizzazioni, sono
i)erfettamente esatte. I^' eguaglianza (U tutti i raggi vera di tutti i
cerchi, altrettanto che essa vera di un cerchio, ma essa non
completamente vera d' alcuno; essa non lo elle d'una maniera molto
approssimativa, e cosi a|)prossimativa ciie la suj)|)psizione che essa
assolutamente non trascinerebbe nella pratica alcun errore di qualche
importanza. (v>uando ci accade d'estendeiv) queste induizioni 0 le loro
conseguenze a casi, in cui l'errore sarebbe apprezzai )ile, noi correggiamo le
nostre conclusioni combinandovi nuove proposizioni relative all'af)errazione .
11 carattere di rigore o di certezza i>articolare attribuito alle
matematiche , dice percii") il Mili, un'illusione, la (juale non si
mantiene, se non supponendo che ciueste verit si rapportano ad oggetti
puramente ideali, mentre esse si rapportano invece agli oggetti realuKMite esistenti
nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragionamenti si fondano non
corrispondono, in geometria, )i esattamente che nelle altre scienze ai latti;
ma noi .S77>jfoniamo che essi vi corrispondano, per poter tirare le
conseguenze che derivano dalla su})posizione. Io trovo dunque esatta in
sostanza l'opinione d Dugald Stewart, clic la geometria fondata su delle
ipotesi ; che a ci che essa deve la certezza particolare che la
(hstinguerebbe, e che in ogni scienza si [ui, ragionando su dell(i ipotesi, ottenere
un insieme di conclusioni cosi certe clu; quelle della geometria, cio a dire
cosi rigorosauKMite crjncordanti con le ipotesi, e forzanti cosi
irresistibilmente l'assentimento, a condizione die le ipotesi sian(j vere >.
(1. 2'^ e. 5 1). Ora, ammettiamo, coin vuole il Mill, che le [)rop(jsizioni
della geometria siano i|)0teticlie: l'affermazione di una proposizione
ipotetica implica forse l'atermazione categorica dell'ipotesi? Dire: se vi lia
un pendolo nelle con (erai'si come definizioni, dineriscono dalle altre
definizioni, in quanto non spieirano seniplicemente il senso di un nome, ma
lanno pure la sui)[)Osizione che esistono nella realt de^uli oii'getti
corrispondenti alle definizioni. Intatti, dice il Min, sarei )be evidentemente
impossibile di dedurne alcuna verit di i^eometria da una i)roposizione che
indicasse solamente la maniera di cui s'intende impiegare un segno particolare.
Vi ha dunque una distinzione real(i tra le defhiizioni di nomi e ({uelle che si
chiamano a torto definizioni di cose ; ma , che (lueste enunciano tacitamente,
nello stesso tempo che la signific^azione di un nome, un punto di latto.
Quest'asserzione tacita non una definizione, un postulato. La
definizione una sem})lice proposizione identica, che non insegna niente
altro che Fuso della lingua, e dalla quale non si pu tirare alcuna conclusione
relativa a dei tatti. Il postulat> che T accompagna, al contrario, all'erma
un fatto che pu condurre a delle conseguenze i)iii o meno importanti ; esso
atlerma Y esistenza attuale o possiljile di cose che {possiedono la
combinazione (T attriljuti dichiaraata dalla definizione; e questo tatto,
se ideale, pu essere il tbndainento di tutto un edifzio di verit
scientifiche (1. ^ e. 8' 5). Il Min ta un'obbiezione alla })ropi-ia dottrina:
Non vero che esista un cerchio a raa'd esattamente euuali; i postulati
implicati nelle definizioni non sono dunque completamente V(3ri. Vi ha dunque
qualche difficolt a concepire che le conclusioni pi certe rii)Osano su
premesse, che, lungi Od essere certamente vere, non sono certamente vere in
tutta lestensione che comporta la loro enunciazione. Ma, risponde Fautore a
quest'obbiezione, vi ha altrettanta verit nel postulato, quanta ne l)isogna per
portare ci che vi lia di vero nella conclusione. Le definizioni devono essere
(considerate come le nostre prime e pi evidenti generalizzazioni relative alle
figure quali esse esistono negli oggetti naturali. (^)ueste generalizzazioni,
in (juanto generalizzazioni, sono j^erlettamente esatte. L' eguaglianza (H
tutti i raggi vera di tutti i cerchi, altrettanto che essa vera di
un cercliio, ma essa non completamente vera d'alcuno; essa non lo
che d'una maniera molto approssimativa, e cosi approssimativa che la
su])ppsizione che essa assolutamente vera non trascinerebbe nella pratica
alcun errore di qualche importanza. Quando ci accade d'estendere c[ueste
induizioni o le loro conseguenze a casi, in cui l'errore sarebbe apprezzai
)ile, noi correggiamo le nostre conclusioni combinandovi nuove proposizioni
relative all'aberrazione . 11 carattere di rigore o di certezza jiarticolare
attribuito alle matematiche , dice perci il Mill, un'illusione, la (juale non
si mantiene, se non su[)pon(3ndo clie (jueste verit si rapportano ad oggetti
puramente ideali, mentile esse si rapportano invece agli oggetti i*ealm(3nte
esistenti nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragionamenti si l'ondano
non corrispondono, in geometria, pi esattamente che nelle altre scienze ai
tatti; ma noi .S7^y>poniamo ciie essi vi corrispondano, per poter tirare le
conseguenze die derivano dalla sui)|)Osizione. Io trovo dunque esatta in
sostanza l'oinnione di Dugald Stewart, che la geometria fondata su delle
ipotesi ; che a ci('> clieessa deve la certezza i)articolare che la
(Ustinguerebbe, e che in ogni scienza si i)u, ragionando su delie ipotesi,
ottenere un insieme di conclusioni cosi certe ch(3 quelle della geometria, cio
a dire cosi rigorosamente concordanti con le ipotesi, e l'orzanti cosi
irresistibilmente l'assentimento, a condizione che le ipotesi siano vere . (1.
2'^ e. 5osizione geometrica non stabilisco che rapporti comparativi, vuoi fra
le cose, vuoi fra le loro idee: questi rapporti dipendono certamente dalle idee
o dalle cose; se si vuole, l'attributo, cio il rapporto, non affermato
del soggetto che per ipotesi, cio alla condizione che il soggetto esista. Ma
l'esistenza del soggetto non posta perci: questa esistenza forse
affermata per un altro atto del pensiero, ma non per quello che afferma il
rapporto, e il giudizio esistenziale e il giudizio comparativo sono due giudizi
logicamente indipendenti, r anmiissione dell' uno dei due non implicando
affatto Tammissione dell'altro. Il Mill per provare che una conseguenza non pu
tirarsi da una definizione per se stessa, ma solo da un'asserzione tacita suir
esistenza, legata alla definizione, mostra che nel primo caso una conclusione
Axlsa seguirebbe da premesse vere. Un dragone una cosa die soffia delle
fiamme; Un dragone un serpente; Dunque qualche serpente soffia delle
fiamme. La premessa reale in questo caso, dice il Alili, non la
definizione, ma la supposizione tacita dell' esistenza dell' oggetto definito.
Ed vero: ma la conclusione qui essendo una proposizione esistenziale,
essa non poti'ebbe seguire che da un* altra afiermazione esistenziale. Al
contrario, le proi)Osizioni dimostrate della geometria essendo, non
proposizioni esistenziali, ma solo comparative, j)erc]i le premesse dovrebbero
essere esistenziali? Se nelle scienze di fatto impossibile, come nella
geometria, di dedurre nuove verit da una definizione, ci non perch nelle
definizioni geometriche implicata un'asserzione tacita sull'esistenza, ma
non nelle definizioni degli esseri reah; ma perch come dice lo stssso Mill, le
propriet distintive delle cose non nascono l'una dall' altra, in altri termini,
non pu stabilirsi fra di loro una connessione a priori, come fra le propriet
delle figure geometriche; il che non , come abbiamo osservato, che un caso di
questa circostanza pi generale, clie la geometria una scienza a priori e
deduttiva, mentre le scienze degli esseri reaU sono sperimentali ed induttive.
Quand'anche, aggiunge il Mill, si ammetta che la definizione geometrica, p. e.
del cerchio, non postuli l'esistenza di cerchi reali, e sia semphcemente la
descrizione della nostra nozione di un cerchio ideale, essa postulereb)je
sempre la esistenza reale di quest' idea, prenderebbe per accordato che lo
spirito pu formare e forma la nozione di un oggetto corrispondente alla
definizione. Dentro questi limiti, cio che la definizione implica, non
l'esistenza o la possibilit dell'oggetto definito nell'universo reale, ma la
semplice rappresentabilit di quest' oggetto, la dottrina di Mill potrebbe, in
un certo senso, ammettersi. I matematici dicono qualche volta che una
definizione geometrica deve mostrare la possibiht della cosa definita, e i
leibniziani, d'una maniera generale, distinimMiguevano la definizione reale
dalla definizione nominale, ammettendo che la i)rima mostra questa possibilit,
ci elle non la la seconda. Questo vuol dire semplicemente che una definizione
geometrica ( noi sa{>piamo che sono queste definizioni clie hanno dato ai
metafsici Y idea di definizione l'eale o essenziale) non una pura torma
verbale senza significazione reale, un semplice non senso, come sarel)le p. e.
la definizione del hil/neo rettilineo: una fii'ura terminata da due linee
rette ; ma che ad essa corrispondono delle vere idee, delle
ra[)presentazioTii etettive, (3 che ci deve essere evidente dairenunciato
stesso della proposizione. Ma il Mill pretende che Tailermazione lY^ale
contenuta in una definizione geometrica e un alermazione esistenziale; che il
l'atto che essa aicrma (nel tempo stesso die spiega il senso di un nome), e
che il i)unto di partenza dei ragionamenti del geometra, resistenza,
se non di certe forme geometriche, delle rappresentazioni almeno di queste
torme. Ora esaminiamo r atto mentale inq)licato nella riconoscenza del latto
che r oggetto definito possibile, o che vi hanno delle forme
rappresentaijili conformi alla definizione. Il cerchio una curva, i cui
punti sono equidistanti da un punto interno che si chiama centro;
L'ellissi una curva, in cui la somma delle distanze di ciascuno dei suoi
punti da due punti fissi che si chiamano fuochi, costante . Ciascuna di queste
proposizioni contiene due idee distinte: r intuizione (U una certa figura
geometrica, e quella di una certa relazione fra certi elementi di (juesta
figura ( della eguaglianza della distanza da un centro di tutti i punti del
cerchio, o piuttosto, della circonferenza, e della eiruadianza delle sonime
delle distanze dai due fuochi di ciascun punto della curva che termina
relUssi). Dire che vi hanno degli oggetti, reali o possibili, conformi alla
definizione, dire che vi hanno, sia nell'universo reale, sia nel mondo roposizioni
geometriclie sul cerchio sono necessarie, percli esse sarebbero egualmente
vere, quand' anche non fossero mai esistiti n potessero mai esistere nella
realt dei cerchi conformi, sia rigorosamente, sia approssimativamente^ alla
definizione. Cosi ancora che esista la rappresentazione di un cerchio
geometrico, che lo spirito umano aljbia la facolt di formarsela, una
proposizione anch'essa contingente: noi ])0ssiamo supi)orre facilmente la
possibilit del contrario, tanto pi che noi sappiamo che gli uomini non
j^ossiedono tutti allo stesso grado la facolt di rappresentarsi le forme dello
spazio. Ma la definizione del cerchio una proposizione necessaria, perch
essa afferma semi)licemente una somiglianza definita tra i raggi del cercliio,
senza niente decidere n suiresistenza di cerchi reali n su quella delle nostre
rappresentazioni di cerchi possibili. Quando dice che le vere premesse della
geometria sono, non le definizioni, ma i postulati in esse sottintesi, il Mill
suppone che i postulati siano delle proposizioni esistenziali. Ma nemmeno
questo ci sembra vero. I postulati (nel senso rigoroso in cui Euclide impiega
questa parola) sono le pia semplici delle proposizioni geometriche di
posizione, appartenenti alla classe di queste proposizioni che stabilisce che
certe torme possono o non possono avere certi rapporti di posizione. Il
postulato relativo alla retta dice che per due punti pu passare una retta (e
una sola); il postulato relativo al cerchia dice che, dato un punto, ad un
intervallo dato ria questo punto, in un piano, pu passare una circonferenza (e
una sola), avente questo punto per centro. Queste proposizioni sono analoghe ai
teoremi: Per due rette che si tagliano pu passare un piano, e uno solo ; Da un
punto dato si pu condurre un piano, e uno solo, parallelo a un piano dato ;
l?er quattro punti, non situati in uno stesso piano, pu passare una slei*a, e
una sola; e^c. Tutte queste proposizioni non concernono per niente resistenza
reale di oggetti nelle condizioni proposte. Supponiamo infatti che in un caso o
in tutti i casi vi fosse un'impossibilit fisica a descrivere un cerchio, avente
per centro un punto dato, e a im intei'vallo dato; forse allora il postulatosi
trovere!jl>e falso L'impossibilit dell'operazione materiale non
toglierebbe niente alla possibilit ideale ammessa nel p stulat(^. Ciascuna (U
(jueste proposizioni afferma semplicemente che non vi ha alcuna incompatibiht
nelle condizioni proposte ; che il loro concorso idealmente possibile ;
che qualclie cosa, ma una sola, pu essere conforme alla definizione della
retta, del cercliio, del piano, o della sfera, i suoi rapporti di posizione
essendo al tempo stesso conformi ai rapporti enunciati nella proposizione; che
cei'ti attributi, quelli p. e. di essere un cerchio, di essere situato in un piano
dato, di essere a un intervallo dato da un punto dato, possono coesistere in un
soggetto, ma in un solo. Ora la coesistenza in un soggetto di certi attributi,
di certe propriet astratte, non altro, noi lo m sapi)iamo, ch(3 la
possiljilit per una cosa di ricevere delle denominazioni distinte, di cui
ciascuna ai>plicabile a tutta una classe di oggetti, e quindi ancora
la suscettibiht che ha questa cosa di entrare al tempo stesso in pi classi
distinte. Ma tutto ci che ciascuna di queste classazioni distinte implica, non
sono che delle relazioni deinite di somiglianza: (piello dun(iue che queste
proposizioni, ii ultima analisi, affermano la possibilit o Timpossibilit
della coesistenza in uno stesso soggetto di certi rapporti definiti di somiglianza.
Le proposizioni di posizione indicate enunciano che una figura di una specie
determinata [vu trovarsi in certi rapporti determinati di [)Osizione, e negano
al tempo stesso che altre figure della stessa specie possano trovarsi negh
stessi rapporti di posizione: ma un'altra variet dello stesso genere negano
semplicemente che delle figure di una specie determinata possano trovarsi in
certi rapporti determinati di posizione. V. e.: Due cerchi non possono segarsi
in pi di due punti; questa proiH-)sizione afferma che (juando due figure
possono classarsi tra i cerchi, non possono classarsi tra le figure che si
segano in pi di due punti, e viceversa (pianolo possono entrare in questa
seconda classe, non possono entrare nella prima. Tutto questo genere di
proposizioni geometriche di posizione afferma dunijuc cfie la coesistenza di
certi rapporti definiti di somiglianza possibile o impossibile,
mentre un altro, il pi importante, della stessa classe di proposizioni (di cui
abbiamo parlato al. 0^) afferma invece che una tale coesistenza
necessaria. Il Mill ammette pure, come il Bain, che la proposizione che enuncia
la formazione di un numero per il numero immediatamente inferiore pi l'unit, pu
considerarsi come la definizione del primo numero; ma questa definizione implica,
secondo lui, come (luelle della geometria, Tafiermazione d'un punto di fatto.
Il punto di fatto p. e. la cui affermazione contenuta nella definizione
di tre SSK wiiKnlaiiM^@Ms^^^gB9^^^^MHnn mmm {3=2+1), che un gruppo unico
di tre oggetti pu essere ottenuto, riunendo a un gruppo di due oggetti un altro
oggetto unico, gi separato. In generale, dice il Mill, ci che il nome di numero
connota la maniera in cui degli oggetti del genere dato devono esssere
agglomerati per formare quest'insieme particolare. Se si tratta d'un ammasso di
sassi, e se noi lo chiamiamo due, questo nome implica che per formarlo bisogna
aggiungere un sasso ad un altro sasso. Se noi lo chiamiamo tre, che per
produrlo bisogna riunire uno ed uno ed un sasso, ovvero aggiungere un sasso ad un
aggregato del genere due, gi esistente. (,}uello che chiamiamo quattro ha un pi
gran numero ancora di modi caratteristici di formazione Ogni proposizione
aritmetica, ogni enunciato del risultato d'un'operazione aritmetica,
Tenunciato dell'uno dei modi di formazione di un numero dato. Vi si afferma che
tale aggregato avrebbe potuto essere formato per la riunione di pi altri, o per
la separazione di certe parti da un altro, e che per conseguenza si potrebbe
per il processo inverso riprodurre questi altri aggregati. (Lor/ica). Noi
abbiamo seguito l'idea del Mill che il totale d'una somma e i suoi dati
designano degli oggetti, che fanno sui nostri sensi delle impressioni distinte,
per una differenza d'ordine e di posto. Ma non possiamo seguirlo pi oltre in
una via che conduce a misconoscere la differenza fra una proposizione
esistenziale ed una comparativa. Per far comprendere in che noi rigettiamo le
asserzioni del Mill, mettiamo in rapporto il luogo citato con la supposizione
d'un autore citato dallo stesso Mill {Filosofia di Hamilton e. G^).
Immaginiamo, dice quest'autore, un mondo costituito di tal maniera, che tutte
le volte che due e due oggetti si volessero riunire in un gruppo unico, un
altro oggetto apparisse improvvisamente, introducendosi nel gruppo totale. In
un tal mondo sarebbe falso che due e due fanno quattro, ma due e due farebbero
invece cinque. Ci proverebbe, secondo il Mill, che noi possiamo concepire il
contrario di una proposizione pretesa necessaria. Ma se due e due fanno quattro
vuol dire che duee due sono eguali a quattro, e non che riunendo due oggetti e
due oggetti si ottiene un totale di quattro, sarebbe sempre vero, anche nel
mondo immaginario di cui si fa la supposizione, che due e due fanno quattro e
non fanno cinque. La proposizione dunque necessaria nel primo senso,
contingente nel secondo: necessaria, quando esprime un giudizio
comparativo, sopra un'eguaglianza numerica; contingente quando esprime un
giudizio esistenziale, sull'ordine con cui i fenomeni appariscono nella natura.
Una proposizione sulla formazione di un numero capace dell'uno e
dell'altro senso: i due sensi sono strettamente legati nella nostra mente, ma
per prendere nella sua jjurezza la vera portata della proposizione matematica,
bisogna separare le due affermazioni. Che nel numero degli oggetti reali vi sia
una costanza, almeno relativa, in modo che riunendo due gruppi di due oggetti
ciascuno, noi siamo sicuri di ottenere un gruppo di quattro, una verit
dell'esperienza pi familiare, ma che non ha niente da fare con l'aritmetica. Se
di questa maniera si pu(') dimostrare sensibilmente a un bambino, dopo che egli
ha imparata la numerazione, che 7 pi 5 fanno 12, facendogli contare p. e. il
gruppo di i3allQ ottenuto per la riunione di due gruppi di palle gi contati,
uno di 7 e l'altro di 5; ci buono per il bambino, che non sarebbe capace
di comprendere una dimostrazione rigorosa. Ma una tale dimostrazione
tanto aritmetica, quanto sarebbe geometrica la dimostrazione della proposizione
che gli angoli del triangolo sono eguali a due retti, misurando gli angoli per
mezzo del quadrante. Sembra che il calcolo non avrebbe scopo alcuno, se non vi
fosse una costanza nei rapporti numerici, 0 in generale quantitativi, dei
fenomeni reali: cosi la geometria, se nella natura non vi fosse una costanza
nelle forme e nelle grandezze. Come questa persistenza intimamente legata
alle pi semplici nozioni delle relazioni matematiche dei numeri, cosi
essa legata alle pi semplici nozioni della geometria. Affermare un' eguaglianza
fra grandezze, tutte le volte che essa non percettibile d'una maniera
immediata, affermare che esse avranno lo stesso rapporto air unit di
misura. Ci suppone la possibilit di misurare le grandezze: ma questa operazione
alla sua volta suppone che le grandezze e l'unit di misura non cangino durante
il tempo dell'operazione. L' Helmholtz ha fortemente insistito su questo punto
nei suoi scritti sugli assiomi geometrici (v. Revue scientifque). Non si pu
parlare delle grandezze, egli dice, che se si conosce qualche metodo pratico
secondo cui si possano comparare, divi-dere, misurare. Ogni misura dello
spazio, ogn'idea di grandezza adattata allo spazio, suppone dunque la
possibilit del movimento di elementi, di cui la forma e le dimensioni devono
essere tenute per invariabiU. ( Ree. seleni., artic. del IG giugno 77,
VII.) Perci^, secondo lui, la geometria fondata sulla supposizione che vi
siano dei corpi solidi, e che essi possano spostarsi liberamente
senz'alterazione della loro forma e delle loro dimensioni. L'Helmholtz
considera come un assioma geometrico il principio enunciante il fatto
d'esperienza ammesso in questa snpposizione: ma se egli intende per ci clie
esso sia una premessa della geometria, sareblje questo certamente un errore. Si
deve accordare ad Helmholtz che una proposizione affermante una relazione
metrica fra grandezze non avrebbe senso, se non vi fosse un metodo pratico
qualunque di compararle: affermare p. e. una eguaglianza fra due
grandezze, aflermare l' identit di risultato della loro misura. La proposizione
dunque che atferma questa relazione metrica, contiene la suppo sizione che
delle operazioni di misura siano eseguite, nelle condizioni in cui una tale
operazione possibile. Potrebbe quindi dii*si, a questo riguai'do, che una
verit geometrica una proposizione semplicemente ipotetica. Ma come noi
abbiamo sopra osservato, la verit di una proposizione ipotetica non im[)lica la
verit della supposizione: un principio dun(jue, che esprima d'una maniera
generale la supposizione contenuta in tutte le particolari proposizioni
geometriche, non ima premessa della geometria. Se il preteso assioma di
Helmholtz avesse una funzione logica anaIoga ai veri assiomi della geometria,
la verit del suo contrario sareblje incompatibile con la verit delle proposizioni
geometriche ; mentre evidente che, se tutte le volte che le grandezze
cangiassero di posto, la loro forma e le loro dimensioni venissero
sensibilmente alterate, non ne seguiirebbe perci(') che i teoremi della
geometria finirebbero necessariamente d'essere veri, e diverebl^ero Ma vi hanno
casi in cui la possibilit dello spostamento delle figure senza cangiamento
della loro forma o dimensioni sembra una vera i^remessa di una proposizione
geometrica. 1^] quando un'eguaglianza viene dimostrata per una sovrapposizione
immaginaria delle figure, com' il caso nella 1* proposizione d' Euclide. Questa
[)roposizione d'un'importanza speciale, perch mentre essa non suppone dei
teoremi antecedenti, i teoremi susseguenti, al contrario, si appoggiano sopra
di essa. La (piarta proposizione, dice il Bain, implica questa supposizione,
che una figura pu essere sollevata e rivolta senza che cangi di forma E
THelmlioltz d'una maniera pi generale: La base d'ogni dimostrazione nel metodo
euclidiano consiste a stabilire la congruenza di linee, d' angoli, di figure
])iane, di solidi, ecc. Per rendere questa congruenza evidente, si suppone che
si ap[)lichino le figure geometriche le une sulle altre, senza cangiare
beninteso le loro forme e le loro dimensioni. Quando noi vogliamo dare il
carattere d' una necessit logica, rondandoci sulla possibilit di trasportare
cosi le figure, senza cangiare la loro forma, in tutte le parti dello spazio,
questa possibilit, secondo Helmholtz, implica una proposizione non ancora
dimostrata. Perci ogni dimostrazione fondata sulla congruenza resta appoggiata
sopra un fatto puramente sperimentale . Ora non vero che la 4
proposizione (rEuclide e le altre la cui dimostrazione analoga,
suppongano la verit di questo fatto sperimentale, di questa affermazione
esistenziale, che gli oggetti estesi possono cangiare di posto senza cangiare
la loro forma e le loro dimensioni. La dimostrazione non ha bisogno di alcun
processo materiale di questa sorta, die consista a prendere una grandezza, e
trasportarla sopra di un'altra. Basta ad essa di supporre che [KDSsibile,
per una figura data, una figura esattamente eguale nella forma e nelle
dimensioni, ma in un'altra posizione qualunque: questo il postulato
implicitamente ammesso, ed esso non ha che fare coi fatti del mondo reale, o
con Tesperienza, nel senso stretto in cui Helmholtz intende questa parola. Dati
i due triangoli A B C, D E F, aventi due lati AB ed A C uguali a due lati DE e
D F, e Fangolo, compreso fra i lati eguali, eguale, Euclide suppoiie, a
prenderlo alla lettera, che il triangolo A B C si adatti sul triangolo D E F,
in modo che il punto A si ponga sul punto D e la retta A B sulla D E; e
dimostra che, per conseguenza, i due triangoli devono coincidere perfettamente,
e sono quindi eguali. Ma siccome ABCprima della sovrapj^xDsizione e A B C dopo
la sovrapposizione sono degli oggetti di due percezioni distinte; e siccome la
supposizione che questi oggetti siano due stati successivi d'uno stesso
triangolo materiale , com' facile mostrare, inutile alla dimostrazione del
teorema; cosi ci AM) C B' E FC' che Euclide supiX)ne , in realt, che un altro
triangolo (per la parola altro noi intendiamo ci che l'oggetto d'un'altra
percezione^, esattamente eguale ad A B C, e che noi chiameremo A^ B^ C^
indicando con le stesse lettere i vertici corrispondenti dei due triangoli, si
trovi in certi rapporti di posizione con D E F, cio gli sia sovrapposto, in
modo che il lato A^ B' stia sul lato DEeilpuntoA^ coincida col punto D. Siccome
la A^ B^ uguale alla 1) E, perch l'una e l'altra sono, per ipotesi,
uguali alla A B, ne seguir che il punto B^ coincide col punto E, e tutta la
retta A^ B^ con tutta la retta D E; e siccome l'angolo B^ A^ C^ uguale
all'angolo E D F, perch uguali tutti e due a B A C, anche la A' C^ sar sovrapposta
alla D F, e il pxmin O coincider col punto F, perch queste due l'ette sono
amendue uguali alla A C, e quindi uguali fra di loro Vev conseguenza, siccome
due rette i cui punti estremi coincidono coincidono interamente, anche il lato
B' C coincider col lato E F, e anche gli altri angoli coincideranno con gli
altri angoli, e i due triangoli coincideranno perfettamente, e saranno eguali.
Ma il triangolo A^ B^ O , per ipotesi, eguale ad ABC; dun(jue anche A B C e D E
F sono eguali. Siccome il postulato non vero soltanto del triangol( A B
C, ma di ogni altro triangolo qualunque nelle condizioni date; siccome,
similmente, a D E F possiamo sostituire un altro triangolo (lualuncjue nelle
condizioni date ; cosi la conclusione pu estendersi, per parit di ragionamento,
dal caso particolare ihmostrato, a tutti gli altri compresi nella proposizione,
come avviene nella dimostrazione di tutti gli altri teoremi. Cosi la
diiiiostpazione della 4^ proposizione non n pi sperimentale n meno
rigorosa che quella delle altre: la j)remessa particolare che essa implica non
concerne che delle possibilit ideali, e come tutti i postulati e tutte le
premesse delle matematiche pure in generale, afferma dei rapporti comparativi
fra oggetti rappresentabili, ua niente suUesistenza o sull'ordine dei tenomeni
reali. . l.> Noi dobbiamo infine proporci la quistione se i risultati delle
ricerche di alcuni moderni matematici, che sono conosciute sotto il nome
generale di metamatematica o metageometria, possano infirmare quelli a cui noi siamo
pervenuti sulla natura e Torigine delPevidenza matematica. La quistione si
hmita per noi ai sistemi di geomemetria (htterenti dal nostro, che si pretende
di costruire in uno spazio a tre dimensioni come il nostro. Le nozioni di
questi sistemi essendo incompatiljili con le nozioni geometriclie ordinarie, pu
sembrare che il fatto stesso dell'esistenza di tali speculazioni contraddica al
carattere di verit necessarie, che noi abbiamo riconosciuto alle proposizioni
geometrice. I geometri malerni fondano generalmente la teoria delle parallele
sull'assioma che per un punto dato pu(') passare una sola parallela ad una
retta data >, le parallele essendo definite delle rette situate nello stesso
piano, che prolungate non s'incontrano mai . Ora se noi paragoniamo (juest'assioma
agli aitri assiomi speciali della geometria elementare, come: . e. on la misura
effettiva dei tre angoli d'un triangolo rettilineo . Fortunatamente risulta da
queste misure effettive dei triangoli, come anche dalle osservazioni
astronomiche, clie Tassioma delle parallele e i teoremi della geometria
eucHdlana sono, almeno approssimativamente, veri. Se i matematici
trascendentalisti avessero avuto un'idea pi giusta sui processi logici dello
spirito umano, essi non avrebbero probabilmente contestato la legittimit
delTassioma ordinario delle parallele. Quest'assioma non , lo abbiamo
riconosciuto, una verit intuitiva, ma un'inferenza; il nostro punto di partenza
per arrivare alla generalizzazione della i)roposizione , (|ui come altrove^
Tesperienza: solo, |)er la natura speciale dei rapporti che sono l'oggetto
della geometria, non necessariamente un'esperienza obbiettiva; ci )asta
l'esperienza o l'osservazione tutta subbiettiva di oggetti ideali, o
semplicemente posto di mettere da parte Tassioma, e di definire le parallele
]>er la equidistanza, fcnidando unicamente su questa delni/ione la teoria
delle parallele K possijile infatti dimostrare i teoremi delle parallele, senza
invocare altro principio die juello ammesso nella dellnizione indicata: il
lettore che conosce gli elementi della ij:eometria, pu trovare facilmente la
dimostra/ione, lo gli abbrevier il lavoro,. indicandogli la via che io stesso
ho seguita. Prima ho dimostrato che nelle parallele le perpendicolari condotte
all'una delle due dall'altra sono anche perpendicolari a quest'altra; poi le
relazioni metematici trascendentalisti, hanno dei punti di contatto evidenti
con certe dottrine odierne della scuola empirista (v. Stallo La materia e la
fisica moderna e. lo"") non sono familiari con questa nozione che gli
assiomi genetriche degli angoli formati con una trasversale; e doi>o di
queste,, dimostrato prima che la somma degli angoli d'un triangolo uguale
a due retti, sono passato alle proposizioni reciproche, cio che se le relazioni
metriche degli angoli formati con una trasversale sono queste, le due rette
sono parallele. Infine ho dimostrato (juesto teorema, che due rette che non
s'incontrano mai sono parallele (cio equidistanti per dimostrarlo mi sono
servito della stessa dimostrazione con cui negli Elementi di Baltzer, i^arte
4,?? 2, 7, III, si dimostra che se in im triangolo la somma degli angoli
18, anche nelle parallele la somma degli angoli interni sar 180'' . ); e, come
corollari di quest'ultimo teorema, l'assioma ordinario delle parallele ( vale a
dire che per un punto pu passare una sola retta che non incontri mai un'altra
retta data) e quello d'Euclide, cio l'XI (Erra dunque il Taine quando, dopo
aver dato una dimostrazione, ch'egli crede rigorosa, della ecpiidistanza delle
i)arallele, soggiunge tuttavia che l'assioma ordinario, di cui nega il
carattere assiomatico, non pu dimostrarsi. V. L' Inlellgenza). Ma la
dellnizione, su cui la dimostrazione sarel)be fondata, .soddisfacente? si
pu ammettere senza prova la possil^ilit delle parallele cos deinite? in altri
termini, si pu anmiettere senza |rova che due lince situate nello stesso piano
)Ossono al tem]to stesso avere queste due propriet, di essere rette e di essere
equidistanti? Perch questa linea equidistante da una retta data sarebbe una,
retta, e non jn'uttosto una curva, come p. e. nel sistema non euclidiano di
\\o\\QV. {\ . Recue phlo^ophque sec. semestre 1870, Tannery La (jeometria
fniniaf/inana). Io credo die si pu ovviare a quest'inconveniente, deducendo la
equidistanza, ammessa nella delnizione, da un principio pi generale e pi
assiomatico, ])reso dalle esperienze pi familiari che noi abbiamo della
convergenza e divergenza delle rette. Tale principio potrebhc essere c]uesto:
Se una retta in due punti disugualmente distante da un'altra retta, le
due rette s allontanano continuamente in una direzione, e si avvicinano
continuamente nell'altra, sicch eSvSe restano situate luna dalla stessa parte
dell'altra. Posto (juesto rali sulle eguaglianze sono ancir essi delle verit
ac(iuisite e (F esperienza: quando essi applicano uno di questi assiomi,
credono che si tratti d'una necessit puramente assioma, oun altro onalofro.
(lefniremino scmplicciiientoleptirnllelf^ secondo il desidei-atiun di d^Memhert
(FJcincntl dijlo^qfia, ScJuarimento suffli elementi (U geoiaetj /a): anta una
retta, s'innalzino sn due punti (luaUimpie di essa e suHo stesso lato due
perpendicolni-i uguali; la retta che con^iunire le estremit di (luestc, si
cliianni/^arallela alia retta data. Da (piesta deHinzione si potrii dedurre,
mediante l'assioma, che le parallele (cosi definite) sono eciuidistanti. Io
ci-edo che non si possa contestare il cai^attere assiomatico del principio
indicato: esso ha anche, sembra, un vonta^i'^io sulTassioma onlinario Per tutte
le rette che noi vediamo o possiamo immaginare, noi osserviamo che quando una
ronvor^a^ alciunnto verso un'altrji, la convergenza va sempre crescendo da un
lato, mentre la divergenza va sempre crescendo dall'altro: al contrario, non di
tutte le i*ette, reali o inmioginarie, che cominciano a convergere, noi
possiamo osservare che esse finiscono per incontrarsi. Al nostro assioma si
opporr forse che le esperienze familiari su cui esso fondato, non hanno
un rigore .sulciente ; la comparazione delle distanze dei punti di una retta da
un'altia implicimdo, prima, lapprezzamento della linea pibwveche va da ciascun
punto d'una i-ettii allaltra, e i^oi, la comparazione di (jueste linee le i)i
brevi fi*a di loro. II rigore dunii sieui'i che noi conosciamo rocesso pi
prinu'tivo, e necessariamente ]>i grossolano, per apprezzare le relazioni
fra le grandezze: iier esso, come ]el nostro assioma, noi siamo ridotti alla
testimonianza dei sensi (ai pone che durante 1' o]>ertizione. in cui noi
facciamo successiviunente coincidere tre grandezze a due a due, (lueste non
cangino; ora sapere ci avere una conoscenza logica, che leghi le
eguaglianze date alle eguaglianze inferite; essi non pensano che in questa
inferenza, come in tutte le altre, noi ci fondiamo unicamente sulFosservazione
anteriore. L'Helmholtz certamente di (juest'opinione (V. Rev. Scient.) ;
e lo stesso A. Comte, come abbiamo visto, ammetteva die la matematica astratta
ha un carattere puramente logico, ed as.solutamente indipendente
dalTesperienza . Quando i metageometri dicono che gli assiomi e i teoremi
d'Euclide ben potrebbero non essere che approssimativamente veri , non vi ha
nella loro asserzione un assoluta inconcepibilit, in quanto questa non si
trova, a parlar propriamente, che nel contrario delle verit che noi conosciamo
d'una maniera intuitiva, mentre per quelle che conosciamo per inferenza, cio
per induzione o per deduzione, si pu, prima della prova, dubitare, e quindi
supporre la possibilit del contrario. Tuttavia anclie per tali verit il
contrario , in un certo senso, inconcepibile. di eguaglianze, che non pu essere
ottenuta per mezzo della coincidenza. L'assioma ordinario delle parallele, non
conc^ernendo dei rapporti quantitativi fra grandezze, non mostra cosi ])ene
come la i^rojosizione che gli abbiamo sostituita, che esso ha un fondamento
analogo a quello degli assiomi generali della matematica e un valore logico
eguale. Al contrario la nostra proposizione, stabilendo anch'essa delle
n^lazioni metriche, ha pi punti di contatto con questi, e fattala comparazione,
ne risulta che non si pu logicamente dubitare del rigore dei teoremi sulle
parallele, a meno che questi dubbi non si vogliano estendere a tutta la
matematica. (I) Aggiungiamo al luogo citato nel 5. (t. 1. lez. S). quest'altro
luogo della Le^. 4: Quando ci proponiamo di valutare un numero sconosciuto di
cui il modo di formazione dato, esso , per il solo enunciato stesso della
quistlone aritmetica, gi defunto ed espresso sotto una certa forma; ed
evalutandolo, non si fa che mettere la sua espressione sotto un'altra forma
determinata, a cui si abituati a rapportare la nozione esatta di ciascun
numero particolare . l'acendolo rientrare nel sistema regolare della
numerazione . Un discepolo di Condillac non parlerebbe altrimenti. li i in
quanto, })er le proposizioni che concernono, non resistenza, ma la somiglianza,
una volta che noi sappiamo che la cosa cosi, noi non possiamo, come
abbiamo pi volte osservato^ immaginare che essa potrebbe essere altrimenti.
Come comprenderemo dunque le altre asserzioni dei metageometri, che, senza
elevare dei dubbi suiresattezza delle proposizioni geometriche, abbassano
queste ftf*oposizioni dal grado di verit necessarie a quello di
contingenti Dentro il cerchio della nostra esperienza, dice Baltzer, ha
realmente luogo la geometria ordinaria, com' stata formata dai Greci (in cui
gli angoli del triangolo e gli angoli interni delle parallele sono eguali a due
retti), ma in s potrebbe anche valere un altro caso della geometria astratta,
che stata ideata da Gauss, Lobat chewsky e Bolyai per tutti i casi.
{parie 4*, Prefazione) Tutti i tentativi per dimostrare questa
proiX)sizione (che gli angoli del triangolo sono eguali a 180^) dovevano
necessariamente riuscire vani, perch in s pure ammissibile ripotesi
contraria, cio che in un triangolo, e quindi anche nelle parallele, la somma
degh angoli interni sia minore di 180" {parte ^*, 2, 7, IV), Sarebbe
dunque possibile, sembra, che la somma degli angoli di un triangolo l'osse
minore di 18i>: questo Tal tro* caso della geometria astratta, di cui
la nostra, la euclidiana, non che uno dei casi. Ma quando il Baltzer dice
che nel cerchio della nostra esperienza vale quest'ultimo caso, parla solo dei
triangoli reali, ed esclude i triangoli possibili? No certamente, perch egli
dimostra che, se in un triangolo la somma degli angoli uguale a due
retti, lo sar pure in tutti gli altri triangoli, cio in tutti i triangoli
possibili. Ma se in tutti i triangoli possibili la somma degli angoli
uguale a due retti, come sarebbe possibile che in un triangolo questa somma
fosse minore di due retti? quali sono dunque i casi in cui varrebbe, non la
prima proposizione, ma la seconda? Forse questi casi si troveranno nei sistemi
geometrici diflerenti dal nostro, che alcuni matematici moderni hanno costruito
con un metodo puramente analitico, senza fondarsi sopra alcun dato intuitivo.
Beltrami ha, come si :sa, studiato con questo metodo una certa superfcie, eh
egli chiama pseudosfera: questa superfcie non possibile di
rappresentarsela; essa non ha di pensabile che la sua definizione analitica, ma
air infuori della stessa relazione analitica, non vi ha niente che vi
corrisponda, sia nella realt, sia neir immaginazione. La geometria di questa
superfcie conforme all' altro caso della pangeometria di Lobatchewsky: se
essa fosse chiamata piano, e le sue linee geodesiche (linee della pi corta
distanza fra due punti) rette, essa sarebbe identica alla planimetria non
euchdiana. (Per avere un'idea di questa superfcie, v. Helmholtz Assiomi della
geometria, Tannery Ree. pJu'los. , Milhaud Rei\ p/dlos., Calinon la stessa
rivista giugno 89, ecc.) Dalla possibilit di costruire analiticamentente dei
sistemi geometrici difl'erenti dal nostro, se ne concluso espresamente
che le nostre nozioni geometriche sono contingenti ed empiriche (nello stesso
senso in cui empirica una verit di fatto). Gli assiomi, dice Helmholtz,
su cui il nostro sistema geometrico basato, non sono delle verit
necessarie, dipendenti solamente dalle leggi irrcfra(l) Quaiuranclie si ammetta
la possibilit di sistemi ireometrici differenti dal nostro, di spazi ciwin,
come dicono i metagreometri, chiaro che anche in questo caso grli assiomi
e i teoremi della i?eometria eucUdiana sarel^bero sempre d' una verit
universale. Se si ammette che il nostro spazio piano, la retta, cio la
linea pi breve fra due punti, di uno spazio cuvoo non sarebbe una retta nel
nostro senso; e quindi i triangoli rettilinei dello spazio pseadosferico non
sareblero ci che noi intendiamo per triangolo ret^tilineo. Sarebbe dunque
sempre universalmente vero che gli angoli d'un triangolo rettilineo sono eguali
a due retti. il 11 iriliiWnlli SUI Cimiti i: i/ogetto deij.a conoscicnlv a
priori 417 gabili del nostro intendimento. Al contrario diversi sistemi di
geometria possono svilupparsi analiticamente con una consistenza logica
perfetta. I nostri assiomi sono in realt l'espressione scientifica d'un tatto d
esperienza generalissimo, cio che nel nostro spazio i corpi possono muoversi
liberamente senza alterazione della loro forma . Ne segue che il nostro
spazio uno spazio di curvatura costante. Ma il valore di (juesta
curvatura non pu essere provato che per misure dirette. Lo stesso Tannery della
Revuc p/illosop/ii(jue, quantunque non decisamente favorevole alle speculazioni
dei metageometri, sembra opinare che queste speculazioni hanno provato la
natura empirica e contingente delle nozioni geometriche. 11 concetto dello
spazio, egli dice, formato dair associazione di nozioni distinte, e
ciuest'associazione non necessaria. Ogni proposizione sullo S])azio
dunque contingente. La nozione della retta , come quella del nostro spazio, un
complesso di nozioni logiche distinte, la cui origine o almeno la cui
associazione empirica (perch alla propriet comune con la geodcsica dello
spazi( pseudosferico si deve unire la pro})riet diterenziale della retta reale,
ed solo res[>erienza che pu provare che (iueste due propriet
at)par(engono alla stessa linea Ree. jt/u'l.). (\) l\ fatto (Iella possibilit
dello spostamento delle grandezze seriz" alterazione espresso dai
inatnnatici trascendentalisti con la foniiula che il nostro spazio lia uk
coeffULente d curcataia co!unto pu passare una sola parallela a una vetta data.
Il primo assioma distingue lo spazio piano e lo spazio pseudosferico dallo
sferico; il secondo distingue lo spazio piano dallo spazio pseudosferico.
Quando i metageometri dicono clie il nostro spazio i)iano, non intendono
escludere assolutamente che esso possa essere pseudosferico o anche sferico. La
proposizione che il nostro si)azio potrebbe forse essere pseudosferico
non che un' altra espressione della proposizione di Lobatchewsky, che per
un punto possono passare pi parallele ad una retta data. In quanto alla
proposizione detcriniriate, il loro modo di esistere. Come ayyr/or/ (|ualsiasi
ordine tra i lenomeni della natura sarebbe su[)i)onibile, ma Tosservazione soki
])u decidere a quale di (queste supposizioni sia conforme il corso reale degli
avvenimenti, cosi si ])retende che noi possiamo l'ormarci a />r/ori la
nozione di ditl'ei'enti spazi o sistemi geometrici [)0ssibili, ma la sola
osservazione decide a (juale di usizioiic ii forzata aiiora che quella di
Lobatcliewsky. essendo la ue-zazionedeirassiouia che due reUe non ]H)ssono
chiudiii chiaramente il le.uanie della i:eouieti*ia trascendentale con
lopinione che. mentre {ili assiomi generali della matematica sono ivuramente
loniei o razionali, e quindi necessari, al conti'ario quelli uramente
razionale, mentre la geometria fa parte della matematica conci'eta, ed . come
la meccanica, una scienza fisica e s[>erimentjde. i,)uesta dottrina si
appogijria, come ab])iamo detto, sul fatto che il calcolo non voliie chiii
facile, per la iireometria, irica delle sue generalit. Ma per gli assiomi
generali delle matematiche si continua iu\ ammettere roinione comune che
(piesti fiono d'una necessit }>uramente logicji e indipendenti djdl"
es])erienza. lo spazio , che esse presentano immediatamente: senza ricercare se
questa realizzazione si trovi solamente nel linguaggio, o sia piuttosto inerente
alle concezioni stesse, dei metageometri, supporremo che questa parola lo
spazio sia un'espressione compendiosa per designare le forme date o
rappresentate nello spazio, e ci che si dice delle propriet o della natura di
un certo si)azio determinato, debba intendersi delle forme geometriche
determinate che sono possibili in questo spazio, cio in questo sistema di forme
geometriche. IVIa anche cosi intese, siffatte proposizioni misconoscono il vero
significata degli assiomi e dei teoremi della geometria, perch tendono a
riguardarli come giudizi esistenziali, che c'istruiscono sulle qualit e la
natura delle forme determinate che si trovano nel mondo della nostra
esperienza. Abbiamo gi osservato in pi di un caso che (juando le proi)Osizioni
matematiche si riguardano come esistenziali, una conseguenza inevitabile
di riguardarle pure come verit contimi eni, essendo questo il carattere di ogni
giudizio sull'esistenza. Questi tre punti di vista duncjue della matematica
trascendentale, di considerare le verit geometriche come sperimentali, come
contingenti, comc esistenziali, non ne fanno in realt che uno; ed SSO
legato, come gi notammo, all'abuso delle astrazioni che fanno i matematici
trascendentalisti. Qui noi ci tro viamo in presenza (F un apparente paradosso,
cio che delle opinioni risolutamente empiriste sulle nostre facolt conoscitive
vengono appoggiate sovra speculazioni eminentemente trascendenti. Si suppone,
come abbiamo detto, che degli spazi differenti o dei sistemi differenti di
geometria siano egualmente possibili a priori, e di l si conclude che solo
lesperienza pu decidere quali di queste possibilit sia divenuta un'attualit.
Qual lo spazio in cui viviamo? T osservazione del mondo reale che
deve rispondere a questa domanda, e la risposta viene formulata negli assiomi
geometrici. Ecco come questi assiomi diventano al tempo stesso esistenziali,
contingenti e sperimentali. II cardine della ciuistione dunque se sia
vero che* degli spazi o dei sistemi di torme geometriche dit'erenti dal nostro
siano possibili, cio pensabili, perch qui non pu trattarsi di un altra specie
di possibilit. Su questo terreno i metageometri si sono trovati necessariamente
di fronte alle dottrine kantiane. Kant, spiegando Tapriorit delle proposizioni
geometriche per Tapriorit dello spazio, aveva anch' egli perduto di vista il
significato puramente comparativo di queste proposizioni,, accostandosi al
punto di vista che vede in esse una sorta di verit esistenziali. Trovando egli
il fondamento della sintesi, contenuta nelle proposizioni a yjr/or/, in una
funzione dello spirito, il quale esso stesso deve congiungere ci chepoi si
rappresenta come unito, la sintesi delle proposizioni geometriche fondata
per lui sulla sintesi anteriore che costituisce le rappresentazioni dello
spazio. Quindi una proposizione geometrica non pu essere per Kant che la
traduzione in una sintesi di concetti della sintesi contenuta nelle
rappresentazioni spaziali ; e Y oggetto proprio di (jucste^ proposizioni
non una comparazione reciproca delle forme geometriche o dei loro
elementi, ma la descrizione-di queste forme, la conoscenza della loro
costituzione e delle leggi secondo cui le propriet, inerenti a queste forme
considerate assolutamente, vanno accoppiate. Se la conoscenza geometrica
a /)rori ed necessaria, se noi possiamo in geometria formare delle
proposizioni d'una universalit assoluta, ci avviene, secondo Kant, perch le
nostre rappresentazioni geometriche, cio spaziali, sono costituite secondo una
forma determinata dalle condizioni interne della nostra facolt intuitiva, e non
possono mai allontanarsi dal tipo prestabilito. Ecco dove Kant si trova in
contraddizione con la geom.etria trascendentale: mentre egli fa dipendere il
carattere necessario e a usi priori delle nozioni geometriche ordinarie
dairimpossiljilit in cui siamo di rappresentarci delle forme geometriche
ditlerenti, al contrario i metageometri dalla possibilit di rappresentarci
queste forme differenti ne concludono il carattere empirico e contingente delle
nozioni geometriche ordinarie. Quantunque la tesi di Kant non sia per se stessa
pi vera deirantitesi dei metageometri, tuttavia nella quistione particolare se
sia o no possibile la rappresentazione di forme differenti dal sistema
geometrico ordinario, certo die i principii fondamentali e lo spirito
generale della filosofa empirista danno ragione air idealista trascendentale
contro i metageometri empiristi. Su questa quistione, la tesi kantiana
appartiene al lato vero ed empirista del criticismo: Timpossibiht per il
pensiero di oltrepassare i dati fenomenali od intuitivi, la necessit di restare
circoscritto e condizionato dai "limiti e dalle condizioni stesse
dell'intuizione sensibile. Noi che al)biamo si lun>amente dimostrato che non
esistono idee astratte, e che non si pensa che unicamente per rappresentazioni
concrete, non jossiamo esitare a chiamare parole vuote di senso delle pretese
nozioni a cui non corrisponde alcuna intuizione . {[) Beltrami liti
rapi>resentato i punti, linee e superllcie dello spazio pseiuloslcrico.
]>roiettan(loli sulPintemo d'una 8U[)erflcie sferica del?iostj'o spazio, i
punti della (piale corrispondono ai inintl jnlnitainente lontani dello spazio
pseudosferico, in modo che le linee iieodetiche di cjuest" ultimo sono
rappresentate, nelTinterno della sfera, da rette. Secondo llelmlioltz, noi
perveniamo di questa maniera a rapprcsentarcc lo spazio ]>seudosferico.
Eiili suppone che un osservatore del nostro mondo sia trasportato nel mondo
i>seudosferico. Dopo la sua entrata nella pseudosfera, quest'osservatore
continuerebbe a riguardare i rairiri luminosi o le sue linee di visione come
linee rette, cos l)enc che nello spazio ]>iano, e come ^sse lo sono in realt
nella rapi>resentazione sferica dello spazio pseiidosferico. I/inunagine
visuale degli oggetti nella pseudosfera r^li farebbe dunque la stessa
impressione che se egli si trovasse al Un carattere speciale della matematica,
e pi propriamente del calcolo, ciie alle cose stesse vengono sostituiti
dei contro Mella sfera mp^rcj^erihUiva di HoUraini. Gli sonil)rerel)be oic ^'li
o-^iretti pi lontani lo attorniassero a una distanza finita, p. e. (li cento
piedi. Ma se si i^ortasse sino ad essi, li \edre)l)e estendersi dinnanzi a s, e
i^ii in profonero. Se e-iii avesse visto due linee rette, clie ixli
i>aressero pai'allele sino a juesta distanza di cento piedi, love il mondo
finisce per lui, avvicinandosi, riconoscerebbe clie, per juesta estensione
dejili o^^'retli che si avvicinano, esse si allontanano tanto pi quanto pi euli
si avanza: dietro di lui al contrario la loro distanza seml)rerebl)e diminuire,
in modo che esse parrel)l>ero di i>i in ii divergenti e lontane luna
dallaltra. Due linee rette clie. rima posizione, iili fossero juirse tai-diaisi
in un solo e slesso punto dietro di lui a una distanza di cento p.iedi, fare])l>ero
ancora lo stesso, ed e^rli avrebbe un l>eir avvicinarsi, non attinprerebbe
mai il punto d'intersezione . Con (juesta supiosizione, secondo Helmholtz. noi
ci rupin esiniti(itii) lo spazio pseudosfeiico. Non ne^^a ei^di clic la
rappresentazione suiponiia un elemento sensoriale: i-er l'espressione di
rap]>reseidarsi. eiili dice, o di essere in irrado di l,i:urarsi ciclie
avviene, io intendo la facolt d'immaiiinare la serie intera delle impressioni
sensoriali die si ]>roverebbero in questo caso . La definizione di
llelmlioltz ^riusta, ma alla condizione die noi suppongliiamo die le
nostre impressioni sensoriali siano la riproduzione esatta di ci die noi
diciamo Poiiiietto esteriore. Se (|uesta corrispondrMiza fra la natura
deiro.Hixetto e le percezioni dei nostri sensi non esiste, noi possiamo
svolirere (comejiii diarte dei filosot attuali e lo stesso llelmlioltz
ammettono come la causa e l'oir^^ctto esterno delle nostre sensazioni,
ler noi irrappresental)ile ed inescogitabile, quantunque noi svoliriamo continuamente
la serie delle impressioni sensoriali die esso ci fornisce. Al fondo, per
concei>ire un oguetto esteriore, noi non facciamo nitro die obbiettivare le
nostre percezioni: se cpieste percezioni sono varie e tali clic non potrebbero
al temito stesso attribuirsi alio stesso oggetto, noi ne scegliamo (lualcunaela
realizziamo, alfesclusione delle altre. Cosi un oggetto visiliile presentandoci
diverse apparenze secon.lo la distanza da cui lo guardiamo, l'apparenza
che essa simboli e il nostro pensiero ordinariamente non va al di l di questii
simboli medesimi. Le parti pi elevate della ci presenta quando siamo in
prossimit, che noi obbiettiviamo. L'osservatore dumpie del mondo pseudosferico
non potrebbe comportarsi altrimenti, in presenza bielle apparenze cangianti e
contraddittorie che gli presenterebbero gii oggetti della pseudosfera, s'egli
volesse farsi un'idea della natura reale di questi oggetti. Egli penser che
(pieste apparenze cangianti e contraddittorie non potrebbero essere tutte degli
stati delf oggetto reale in un solo e stesso momento della sua esistenza, e si
domander a juale di (lueste percezioni, o se non a nessuna di esse, a quale
delle immagini che egli i)0tr mentalmente costruire, attribuir la realt
obl)iettiva. S'egli non ]>erverr a rispondere a luesta domanda d'una maniera
soddisfacente, che gli desse un'interpretazione coerente delle apparenze del
mondo strano in cui egli si smarrito, concluder o che le forme reali
degli oggetti sono per lui inconoscibili, o che non vi hanno forme reali, ma
che le forme, in (piel mondo, sono puramente relative al punto di vista
dellosservatore Se ])oi (piest'osservatore volesse considerare le forme a lui
esibite, non pi come fisico o come filosofo, ma semplicemente come geometra, la
piistione della realt di (jueste forme non avrebbe pi importanza per lu: la
geometria considerando una forma per se stessa e nella maniera determinata in
cui esiste o pu esistere in un momento indivisibile della durata, l'oggetto del
suo studio come geometra sarebbe l'apparenza presentata da un oggetto a un
momento determinato, considerata singolarmente. Siccome queste forme apparenti
non si allontano mai, considerata ciascuna per se stesso, dal tipo eacUd/ano,
cos la sua geometria non potrelibe essere che eacUdiana. Se dunque i fenomeni
osservati nel mondo Xseudosferico sarel)bero flmicamente dilTerenti dai nostri
(in (juanto si seguirebbero in un ordine dilferente), non esisterebbe, al
contrario, per l'osservatore, differenza alcuna al jamto di vista ])uramente
fjeonieti'fjo. Svolgendo perci la serie delle impressioni sensoriali che il
mondo pseudosferico fornirebbe al nostro osservatore, noi non ci rappresentiamo
lo spazio pseudosferico, per la semplice ragione che nemmeno egli, lo stesso
osservatore, se lo rappresenterel>be. (l) La perfezione del linguaggio
dell'aritmetica e dell'algebra consiste nella sua ajtpropriazione completa ad
un uso puramente meccanico.. . Ogni operazione sui simboli corrisponde a un
sillogismo, l'appresenta un passo d'un ragionamento, relativo, non ai nostra
conoscenza non potrebbero fare a meno di un sistema api)ropriato di simboli:
quando si un po' approfondita la natura del pensiero, si vede che il
linguaggio e in generale i segni non sono solamente i mezzi per comunicare le
idee, ma sono anche indispensabili alle operazioni pi elevate deirintelligenza.
La matematica ne il migliore esempio. 11 carattere eminentemente
simljolico del ragionamento matematico non dipende semplicemente dal sistema di
segni estremamente semplici e precisi che questa scienza ha a sua disposizione,
ma t'ondato sulla natura stessa delle nozioni che tanno l'oggetto di
questa scienza. Gi anzitutto le nozioni quantitative non sono fissate che per
mezzo di simijoli, non i)Otendo noi immaginare le cose, al i)unto di vista
della quantit o della grandezza, d'una maniei'a cosi adequata e precisa, per
Fuso del ragionamento, come al punto di vista della (pialit. Inoltre, un
rapporto di eguaglianza non essendo altra cosa he la percezione di questa
eguaglianza, tutte le volte che noi non possiamo ettettuare, sia nella realt,
sia per Tiuimaginazione, una comparazione attuale fra le grandezze, o
immediatamente ira di loro o con l'unit di misura comune, il rapporto affermato
non rappresentato d' una maniera ade(iuata, ma d'una maniera pi o meno
simbolica (confr. cap. 8^' S 2% Lo stesso deve dirsi per le eguaglianze dei
numeri. Non c' bisogno di aggiungere clie le quantit incognite che entrano nel
calcolo sono necessariamente delle nozini simboliche. Ma questo processo non
deve fare . corrispondono dei rapi)orti fra queste cose queste cose essendo gli
oggetti di i)ercezioni che noi abbiamo avuto o avremo o potreuniio avere in
date condizioni. Esso sarebbe completamente vano, se ai simboli non si
potessero finalmente sostituii^e delle percezioni, attuali o possibili:
per la possibilit di questo scambio che i simboli hannc un valore. Noi abbiamo,
in un capitolo precedente, paragonato le nozioni astratte e generali a degli
effetti commerciali, il cui valore puramente convenzionale, il valore
reale non appartenendo che alla moneta e alle merci con cui essi possono
scambiarsi. A ciie bisogner dunque paragonare una nozione astratta, cio una
combinazione di simboli, a cui non corrisponde intuizione alcuna? ad un effetto
cambiario, che nessuno vorr accettare per pagamento. Un l)anchiere potrebbe
averne piene le casse, non sarebbe perci pi ricco d'un centesimo. Tutte le
speculazioni metaempiriche, che esse siano chiamate metamatematiche o
metafsiche o con qualsiasi altra parola che si potreljbe foggiare con lo stesso
prefsso, si trovano nello stesso caso. Le s'^ienze di fatto non sono, come la
matematica, soggette a (juesta illusione di dare un valore reale a ci che non
ne ha che uno convenzionale: che questa sostituzione completa dei simboli
alle cose non avviene che nella matematica. Si detto che la
mitologia una malattia del linguaggio: quantunfjue non sia forse
conveniente ad un non matematico di esirimersi su (lueste materie in una forma
cosi decisa, noi diremo che la metamatematica, (juesta mitologia dei
matematici, una malattia del linguaggio matematico. Noi non do))l)iamo
per altro rinunziare a vedere anclie nelle speculazioni metageometriclie . come
in tutte le speculazioni metaempiricbe in generale, un prodotto, assai indiretto
in verit, delle illusioni naturali del nostro spirito. Abbiamo accennato die il
fondamento su cui riposano le speculazioni sulla pangeometria, sullo spazio
pseudosf'erico. ecc., la dottrina comunemente ricevuta die 42f; .^ 15.^
Il carattere di necessit e di apriorit che appartiene alle matematiche
pure, legato col latto che queste scienze escludono, sia dalle loro
premesse, sia dai loro risultati, qualsiasi proposizione esistenziale, che non
pu essere che contigente e sperimentale, e non v' includono alti'e verit che
dei rapporti comparativi. Le verit diquest'ordine sono logicamente indipendenti
dalle esistenziali, ma esse i)Ossono ibrmare, anzi (ormano necessariamente, dei
punti di partenza per la inferenza di queste: di l il i^osto delle conoscenze
comparative nella economia del sapere umano. Cosi le matematiche sono
logicamente indipendenti dalle scienze che hanno per oggetto Tordine dei
tcnomeni reali; mentre, al contrario, le seconde suppongono la conoscenza delle
prime. Gli autori di classazioni delle scienze assegnano il loro posto alle
matematiche, Ibndandosi sulla generalit o sulla semplicit pi ^'li assiomi della
inateniatica sono fondati, non sulla generalizzazione dell' esperienza, ma
soprn una necessit pui'amente logica; donde i tentativi di dimostrare il principio
della teoria delle parallele, e il riliuto, dopo l'insuccesso di questi
tentativi, di riconoscere in esso il carattere assiomatico. Ora, la dottrina
che glassiomi matematici si fondano sopra una necessit logica non che un
caso di quella pi generale che tale il fondamento di tutte le verit
dichiarate necessarie, e questa alla sua volta non , come sapiamo, che una
trasformazione di quello che abbiamo chiamato il sofisma a priof'i della
psicologia intuizionista. Il legame della metageometria con questa dottrina
Hlosofica sembra, nel fatto, incontestabile, llelmholtz crede, come abbiamo
visto, che i princii)ii comuni delle matematiche derivano dalle leggi
irrefrag(d)ili del nostro intendimento . e che essi si ricavano dalla nozione
stessa del numero e rincipio che collima con la dottrina analitica dei giudizi
a y>/YO/x spinta alle sue conseguenze ultime): egli ammette che la
connessione delle cose, o la maniera di cui la natura tira dehe conseguenze,
corrisponde all'incatehainenlo logico dei concetti nel i>ensiero . grande
del loro oggetto, ed anche Aristotile attribuiva a questa circostanza la
superiorit logica che le distingue (v. Metafisica). Ma vi ha un' altra ragione
pi decisiva percii esse deljbano occupare il primo posto in una distribuzione
delle scienze, che voglia seguire l'ordine di dipendenza fra le
conoscenze: (juesta relazione generale, che noi abbiamo indicata, fra le
conoscenze comparative e le esistenziali. Noi abbiamo visto che la matematica
ha })er oggetto dei* rapporti di somiglianza, ma dei rapporti (iejnitl di
somiglianza: questi sono o delle classazioni o delle egualianze. D' una maniera
generale possiamo dire che ogni verit importante, consistente in rapporti
comparativi, si riduce a stabihre delle classazioni o delle eguaglianze:
che soltanto queste due specie di relazioni Jianiio un'impoi'tanza per la
previsione dei fenomeni reali; poich, da una parte, la conoscenza dcirordine,
cio delle uniformit, della natura suppone Tesatta nozione delle classi, e
dall'altra parte, in quest'ordine, tutti i rapporti, dai pi evidenti ai pi
riposti, implicano delle relazioni quantitative. i:^ 10.^' Non vi ha altra
scienza, oltre le matematiche pure, che abbia per oggetto dei rapporti
necessari e conoscibili a priori Potrebbe sembrare forse che tale sia la logica
formale: ma questa concerne i rapporti, non tra le cose, ma tra le
proposizioni, in quanto vi ha una dipendenza fra la verit di ciu'te asserzioni
e r[uella di certe altre, giusta le regole della coerenza o, come dicono i
logici inglesi, della consistenza, che sono i principii d'identit e di
contraddizione. La logica formale dunque, non essendo governata che da questi
[)rincipii, si aggira neYidera per idem, e rinferenza, in cjuanto
l'oggetto di (luesta parte della logica, non che un'inferenza appal'cnte,
pei* cui la conoscenza non fa alcun vero progresso. Le necessit con cui ha da
fare la logica formale, si riducono quindi a (jnella di evitare la
contraddizione; non sono delle connessioni necessarie tra fatti distinti, o tra
verit distinte: cosi esse restano fuori dell' argomento di questo capitolo, in
cui non si tratta che delle necessit subiettive che rappresentano delle
necessit obbiettive (bench i fatti, che queste legano, siano in |)arte
anch'essi subbiettivi), e che, come tali, costituiscono dei giudizi e delle
conoscenze reali. Le verit necessarie e a priori, che si trovano fuori della
matematica, sono generalmente, non d'inferenza, ma intuitive; e si riducono
quasi tutte (quelle che non si limitano ad enunciare che A somiglia a B o ne differisce)
all' alTermazione di cassazioni o esclusioni da classi. Noi potremmo chiamare
questa sorta di verit delle proposizioni analitiche, intendendo con ci di
conformarci aira])plicazione pi abituale di questo termine, purch non si
dimentichi che una proposizione analitica non vorr gi dire per noi
l'espressione di un giudizio in cui l'attributo contenuto nel soggetto,
come pretcn.jono i concettualisti, ma una proposizione d'una conoscenza
intuitiva, che non implica altro se non delle classazioni o esclusioni da
classi. Questa sorta (U proposizioni non sono, a gradi diversi, che una
complicazione della semplice affermazione in cui non si pone altro che la
somiglianza o la difl'erenza fra due cose. Il caso pi semplice il
giudizio di percez^ione; p.e.: Questa cosa che io vedo un pomo
Bisogna avvertire die questa proposizione, come tutte quelle dello stesso
genere, pu avere due sensi dilrenti. Dall' impressione che fa sulla mia vista
la superficie del pomo, io posso inferirne che, con questa propriet particolare
che r oggetto della mia sensazione attuale, coesistono tutte le altre
propriet del pomo, che io ho trovate costantemente associate con la prima.
Questo un giudizio esistenziale, che perci('> contingente a a
posteriori. La })roposizione indicata non dunque necessaria ed a priori,
se non in quanto essa esprime che la cosa percepita, date I tanto le sue
propriet che io percepisco attualmente, quanto quelle che sono oggetto
d'inferenza, deve classarsi tra ipomi. Noi abbiamo un caso alquanto pi complesso,
se il soggetto, non particolare, ma generale; p.e.: L'uomo un animale.
Tali proposizioni potrebbero considerarsi come le enunciazioni di dipendenze
fra due classazioni. Noi dobbiamo qui ripetere l'osservazione antecedente:
L'uomo mammifero pu esprimere sia che l'uomo ha quelle particolarit
dell'organizzazione che si trovano in un mammifero, sia che esso, avendo gi
conosciuto che egli ha queste particolarit, deve classarsi tra i mammiferi. Vi
ha un caso speciale, di cui dobbiamo fare menzione, perch potrebbe tirarsene
un' obbiezione contro la teoria nominalista. quando l'attributo non pu
denotare altri oggetti all' infuori di quelli stessi che sono denotati dal
soggetto. Sia p. e. questa proposizione: Gli oggetti colorati hanno
un'estensione visibile. Non vi hanno altri oggetti che abbiano un' estensione
visibile tranne gli oggetti colorati, il colore e 1' estensione visibile
essendo d' altronde, non gli oggetti di due percezioni distinte, ma di una sola
e indivisibile percezione, in modo che noi non potremmo separare queste due
qualit se non per un'as^razione. Tuttavia la proposizione non enuncia altro che
delle classazioni di oggetti concreti con altri oggetti concreti: essa
significa che ogni oggetto, il quale pu classarsi sia fra i bianchi sia fra gli
azzurri sia fra i rossi ecc., pu anche classarsi sia fra i lunghi sia fra i
corti, sia fra i larghi sia fra gli stretti, sia fra gli alti sia fra i bassi,
ecc. Un altro caso di affermazioni disgiuntive di classazione si ha nelle
proposizioni di divisione, cio nelle quali si divide un genere nelle sue
specie. Alcuni concettualisti vi hanno visto una sorta di giudizi analitici, in
cui il soggetto viene decomposto, non secondo la comprensione, ma secondo V
estensione. Ma in realt esse non enunciano se non che tutti i particolari, i
quali si classano sotto il genere, si classano altres sotto Tuna o Taltra delle
specie. (Queste proposizioni sono necessarie ed a priori, quando non implicano
alcun'atlermazione sull'esistenza . r Una sezione conica un' ellissi,
un'iperbole o una parabola : qui si tratta di oggetti semplicemente possiljili,
quindi la proposizione necessaria. Ma: I vertebrati sono mammiteri,
uccelli, rettili o pesci ; la proposizione contingente e
s[)erimentale, perch implica Tatlbrmazione che queste classi, e soltanto
queste, dei vertejrati esistono. Una divisione di oggetti reali, la (pale
esaurisca tutti i possibili, come ({uesta: Gli animali sono vertejrat i o
invertebrati , necessaria, soltanto se non implica Tafterniazione che
tutti i membri della divisione esistano eflettivamente. La dieresi di Platone
trattava i reali come i I^ossibili: questo filosofo retendeva di possedere un
metodo, per cui si i)Oteva, i)er la semplice divisiono progressiva dei
concetti, partendo da un concetto primitivo, il pi universale di tutti, la cui
realt era data a priori, pervenire alla scoverta di tutte le specie reali (
Idee ) comj)rese sotto (juesto concetto, e quindi alla conoscenza a priori di
tutto il reale. Noi possiamo considerare come un altra variet delle
proposizioni analitiche (di classazione) quelle che atl'ermano la dipendenza
fra due termini correlativi: Il superiore sui)|:>one Tinleriore , one
la valle Designare un oggetto per un nome implicante una
correlazione, assimilare quest'oggetto ai termini omologhi di una data
classe di coppie di correlativi, il che suppone che roggetto considerato
in correlazione con un altro, il quale alla sua volta pu essere assimilato agli
altri termini a s omologhi delle coppie di correlativi della classe data, ed
essere designato, quindi, per il nome opposto. Cosi Tatfermazione contenuta in
una proposizione come quelle che abbiamo citate, che se un oggetto riceve
il nome d'un correlativo, un altro oggetto, con cui viene paragonato e che noi
ci ra|)presentiamo simultaneamente con esso, deve ricevere il nome deiralti'o
correlativo. La proposizione dunque non esprime che una dipendenza necessaria
Tra due classazioni. Il principio hegeliano che gli O])])Osti si implicano
reciprocamente, e che data l'esistenza dell'uno data per ci stesso quella
dell'altro, pu riguardarsi come una generalizzazione del latto contenuto nelle
cori'elazioni di cui abbiamo Ciarlato, con la pretesa di estendere, per questo
mezzo, alle conoscenze sull'esistenza la stessa connessione necessaria ed a
jtriori che si trova in questa classe di giudizi sulla somiglianza. I gruppi
indicati di proposizioni analiiic/tc sono uno sviluppo dell'atlei'mazione di
somiglianza; un altro grupjMj, che si potrebbero chiamare proposizioni
analitic/te ncf/ative, es[)rimono invece delle affermazioni di differenza. Noi
considerereuio soltanto (juelle il cui soggetto un termine generale. Tali
sono }>. e.: L'uomo non un bruto, Il cerchio non quadrato .
(Queste proposizioni non enunciano, come abbiamo gi detto, che delle esclusioni
da classi, cio che gU oggetti che ai)partengono all'una delle classi (uomo,
cerchio, ecc.) devonr) essere esclusi dall'altra classe 0>i'uto, (juadrato,
ecc.). Il senso della i)roposizione al l'ondo lo stesso, se invece di
dire: Il cerchio non quadrato, noi diciamo: l'na cosa non i)u
essere cerchio e (piadrato , cio la llgura circolare e la figura quadrata sono
due attributi non compatibili nello stesso soggetto. Non bisogna vedere in una
simile proposizione im giudizio esistenziale negativo, cio la negazione
del-l'esistenza di un cerchio quadrato: ci di cui si negherebbe l'esistenza in
questo caso, sarebl)e un impossibile logico, vale a dire una cosa di cui non
possiamo formarci nozione alcuna (Impossihie, dice W oli*, est ciijm nullani
notionera formare posswnus). Ma noi non possiamo port l -tare alcun
giudizio su ci di cui non possiamo avere alcuna idea: quindi non possiamo, a
parlar rigorosamente; negarne l'esistenza, ix)ich perci bisognerebbe pensarlo e
averne l'idea. Ci in realt che una simile proposizione enuncia non
duncjue che delle esclusioni da classi: cio che tutti gli oggetti possibili,
vale a dire che noi possiamo rappresentarci, a cui convenga il nome di
quadrato,, o in altri termini, appartenenti alla classe dei quadrati,, non
possono far parte della classe dei cerchi; e viceversa tutti gli oggetti
possibili, cio rappresentabili, appartenenti alla classe dei cerchi, non
possono far parte della classe dei quadrati. Quando noi non possiamo
rappresentarci alcun oggetto, il quale appartenga al tempo stessa a due classi
date, i nomi delle due classi si chiamano attributi incompatibili; tali sono:
uoao e bruto, cerddo e quadrato, tutto bianco e tutto nero, ecc. Se invece noi
possiamo rappresentarci che uno stesso oggetto appartenga alluna e all'altra di
due classi distinte, comeKjuadraio e grigio, o ^flosofo e j^oeta, i termini che
indicano queste classi sono degli attributi ditlerenti, ma non incompatibili.
Due attributi digerenti possono non mai trovarsi uniti nella realt, p. e. moneta
e combustibile; ma da ci non se^ue che i due atti'ibuti siano incompatibili,
nel senso logico di questa parola, una moneta combustibile non essendo un
impossibile logico, cio una cosa irrappresentabile. Cosi la proposizioi.: .
Similmente, quand'anche non vi fossero nell'esperienza altri cerchi che quelli
che ditTeriscono d'una maniera ai)prezzabile dall'ideale geometrico, i nostri
sensi ci apprenderebbero sempre che, nella misura in cui un cercliio e una
retta si avvicinano alla definizione, 1' estensione del loro contatto si
avvicina ad un sol punto (Logica, e Filos, di Hamilton trad. frane)!' Ma perch
in questi casi, domanderemo noi al Mill, le associazioni contrarie, relative ai
cerchi e alle rette approssimative, non impediscono almeno la formazione
dell'associazione inseparabile, sulla quale secondo lui fondata la
necessit delle pi*0[)Osizibiettiviamo le nostre sensazioni, e consideriamo
l'estensione, la figura, ecc. come attributi di oggetti reali esistenti fuori
di noi. Ascoltiamo ora lo stesso Mill sul principio di causalit: Ogni
persona, egli dice, abituata all'astrazione e all'analisi arriverebbe, io ne
sono convinto, se essa dirigesse a questo fine lo sforzo delle sue facolt,
dacch questa idea fosse divenuta familiare alla sua immaginazione, ad
anunettere senza ditiicolt come possibile nell'uno, per esempio^ dei numerosi
firmamenti, di cui Y astronomia siderale compone l'universo, una successione
degli avvenimenti tutta fortuita e non obbediente ad alcuna legge determinata;
e di fatto, continua il Mill, non vi ha n nell'esperienza n nella natura del
nostro spirito una ragione qualunque di credere che non sia C(5^i in qualche
parte (Logica). Noi facciamo le nostre riserve sullo scetticismo di
quest'ultima proposizione, contraria evidentemente alla pratica uniforme di
tutti gVi uomini di scienza: ci che noi vogliamo mostrare non che il
principio di causalit non sia una verit assolutamente universale, ma che esso
non una verit, in senso stretto, necessaria ; e la citazione di Mill, a
cui si potrebbe aggiungere tutto ci che gli scettici hanno detto contro (juesto
principio, vie come prova che la negazione di esso pu essere perfettamente
concepita. 3^. innegabile che una proposizione basata sulle esperienze pi
familiari si distingua dalle altre per una sorta di necessit: ciascuno sentir
la differenza che vi ha, sotto questo rapporto, fra queste due proposizioni: I
corpi in movimento comunicano per l'urto il movimento agli altri corpi ; e: I
corpi si attraggono in ragione inversa del quadrato della loro distanza. Vi ha
nella specie di proposizioni di cui la prima un esempio, un legame cosi
stretto fra le idee, che esse hanno in ci la pi grande somiglianza con quelle
che sono rigorosamente necessarienoi vedremo anche nel Saggio seguente che questa
somiglianza fra le due specie di proposizioni ha una importanza particolare per
la spiegazione dei concetti della metafisica. Nondimeno la necessit, tutta
relativa, delle proposizioni che non sono che delle generalizzazioni
dell'esperienza pi familiare, non raggiunge mai il grado delle proposizioni
strettamente necessarie: il legame fi*a le idee non diviene mai cosi forte da
renderle assolutamente inseparabili, e noi possiamo sempre concepire la
fMDssibilit del contrario. Noi ripeteremo un esempio gi citato, il quale
assai proprio a mostrarci la differenza tra una verit assolutamente necessaria,
come quelle della matematica, e una verit familiare, che non ha se non questa
necessit relativa che pu essere spiegata per la associazione delle idee. Cercando
di mostrare che il contrario di una proposizione matematica pu essere
concepibile, si supposto il caso di un mondo in cui, tutte le volte
che due coppie di oggetti sono poste in prossimit l'una dell'altra, o esaminate
insieme, un quinto oggetto immediatamente creato, e portato sotto l'esame
dello spirito al momento in cui egli unisce due e due . Noi abbiamo osservato
che anche in un mondo sifttto due e due sarebbero sempre eguali a quattro,
bench, in un certo senso, laggregato totale l'ormato dalla riunione di due
oggetti a due oggetti sarebbe, non quattro, ina cinque; e che la supposizione
mostra che, se il contrario della proposizione aritmetica che atlerma
un'eguaglianza, inconcepibile, il contrario della proposizione fisica,
strettamente legata con la prima, e che afferma una seipienza, pu concepirsi
quantunque in (luesto caso non possa invocarsi alcuna ditl'erenza nella
frequenza delle esperienze, Tesperienza dell'una di queste due verit essendo
stata per noi sempre congiunta con quella dell'altra . Ora se vi ha una verit
fondata suirunitbrme esperienza d'ogni momento, certamente (luesta
persistenza numerica degli oggetti, questo fatto die l'aggregato totale,
risultante dalla riunione di pi aggregati minori, uguale alla loro somma.
Ma se una verit familiare come questa diilerisce ci non per tanto da una verit
necessaria, allora bisogna convenire che tra le verit necessarie e le
contingenti vi ha una differenza di specie, e non una semplice differenza di
grado, dovuta alla frequenza pi o meno grande delle esperienze . '{) Un
esenii'o r inconccpililit della negativa dovuta all'associazioTie, il (iiialr
-^i trova in quasi tutti gli associazionisti, Tinipossibilit di concepire
separatamente il colore e l'estensione. Hamilton obbiettava giustamente che
questa incapacit del nostro pensiero una i^^ova che queste due proprieti
degli oggetti ci sono date primitivamente e indissolubilmente unite (per
quanto lecito dire di due astrazioni clie esse son( indissolubilmente
unite) in una percezione unica del senso della vista. Se il colore
assolutamente inconcepil)ile separatamente dall'estensione, cil)asta a
dimostrare la nullit radicale della teoria cos detta empirista sull'origine
delle nozioni di spazio: perch la teoria supi>onendo un momento in cui ij colore
esiste nello spirito senza l'estensione, suppone una cosa che per noi
assolutamente inconcepibile, cio un non senso, poich una cosa inconcepibile e
un non senso sono dei termini perfettamente sinonimi. Quest' argomento acquista
una forza particolare contro lo Spencer, per cui il criterio della verit
consiste nella inconcepibilit della negativa. In altro esempio d'inconcepibilit
della negativa dovuta aU'assui iJMiri l: l'oggetto della conoscenza a piuori
4i7 4" 11 tentativo di spiegare per 1' associazione delle idee una verit
necessaria ( nei . casi in cui si tratta di una necessit assoluta, come nelle
verit intaitice della matematica^ al fondo contradcUttorio in se stesso.
Uno dei motivi della dottrina degli psicologi intuizionisti, secondo la quale
delle proposizioni, non aventi elfettivamente che ima necessit semplicemente
relativa o approssisociazione , secondo Mill (/'//os. di Hamilton, e. VI),
limpossibih't di rappresentarci il tempo e lo s]azio come liniti. Ova questa
proposizione: il tempo e lo spazio sono inHiiiti , pu avere icemente
l'assenza di limiti dello sj^azio e del tempo considerati in se stessi. Nel
])imiio senso In iu'oiosizione, come vedremo nel lungi azio in ({uesto senso
non sono niente di reale: essi non haimo che un'esistenza puramente ideale, non
sono er le cose e per gli avvenimenti. L'atfermazione deirinflnit del tempo e
dello spazio, in o intinito: ci vuol dire semplicemente che. data una
siuM'e di fenomeni successivi, di (lualuncjue lunghezza essa sl vi ha sempre
posto, prima e dopo ([uesta seiMe, per nitri jtvvenimenti possibili: in altri
termini, che noi possiamo, in iden, ]>rolungare la serie indefinitamente,
(iio quanto vogliamo. Il temiM infinito, lo spazio inhnito , sono
dun(iue una specie di i)ostulati, come (piello della geometria che una
retta pu essere prolungata indefinitamente, e gli altri che si trovano innanzi
al I libro d'Eu('lide. Onesti ]iostulati sono, in un senso, delle
iroi>osizioni necessarie, in quanto la possibilit ideale che essi enunciano
, in un senso, necessaria. Attermare la necessit di una di queste possibilit
ideali, semplicemente alVermare l'assenza di qualsiasi incongruenza o
impossibilit intrinseca nella nozione, altermazione che necessn riamente
m ) #1 mativa ma che questi psicologi confondono con le profKDsizioni
assolutamente necessarie sono indipendenti dalTesperienza, certamente la
difficolt che noi proviamo a pensare separatamente le idee che sono gli
elementi di queste proposizioni^ ( . evidente in effetto che per
affermare che esse provengono dall' esperienza, noi dobbiamo pensare vero, come
sarebbe necessarioinente vera ralferinazione contraria^ se si trattasse invece
di una no/ione composta di elementi incom]>atibili. La necessiti! dell"
infinit del tempo e dello spazio, nel secondo siirnifcato di questa
espressione, si spiega dunque altrimenti che i>er le leprgi
dellassociazione. Se invece essa s'intende nel primo significato, cio che il
reale non ha limiti n nel tempo n nella spazio, in (luesto caso si
-ertamente fondati a dire che questa tendenza pressoch irresistibile ad
oltrepassore ciuolun(]ue limite immaginabile (tendenza, per altro, che non
esiste >ropriamente che per i limiti nel tempo, non i>er(]uelli nello
spazio) e una conseguenza dell'associazione delle idee; ma juesta tendenza
jirodotta dall'associazione pu cosi poco dar luogo a delle proposizioni
necessarie. che essa d luogo, al contrario, a delle j^roposizioni necessaria'
mente false. LoS])eneer. iei suoi Piinripii di Psicoloffia, d pure degli esemp
di pro>osizioni necessarie dovute alTesperienza. Nella teorica del
ragionamenti), dopo aver diviso questo in quantitatico e (juaitatiro ^
suddivide il secondo in perfetto ed imperfetto. Un ri\S'oni\ mento
perfetto quello la cui conclusione una verit necessaria, cio di cui
la negazione sarebbe impossibile. Quantunque quest'ultima distinzione sia ivi
fondata sul carattere dei rapporti comi>arati, che nei ragionamento perfetto
sono, secondo l'autore, eguali, mentre nell'imperfetto non sono clie simili,
tuttavia la dottrina generale di Spencer sulT inconcepibilit della
negativa che questa quando non deriva da una necessit primordiale del
pensiero fondata sulla frequente ed uniforme ripetizione dell'esperienze,
sia nell'individuo sia nella specie. Cosi, siccome egli considera come dovute
all'esperienza le verit enunciate nei suoi ragionamenti jualitativi perfetti,
sembra che per lui la necessit di queste verit sia, in ultima anahsi, fondata
sulle leggi dell'associazione. Noi al)biamo visto che i ragionamenti
qualitativi perfetti, che (jueste idee Tuna separatamente dairaltra: dobbiamo
inlatti concepire il tempo in cui il legame ira (lueste idee non si era ancora
ibrmato, e immaginare che, in con dizioni empiriche ditlerenti, questo legame
non si sareb-. be formato, ma si sarebljero formati invece altri legami
incompatibili con esso; ci che pensare le due idee senza il loro legame,
e disgiungerle Tuna dalFaltra. Ora se Si>encer chiama a r((pporfi concinni/,
y. e. so A coesiste con B e H con C. A e C coesistono, se A prei.'ede H e H
precede C, A precede C, ecc. non costituiscono delle inferenze reali, e che
perci tutta la necessita della conseguenza si riduce. i>er essi, alla
necessit di evitare una contraddizione. In quanto a (luclli a rapporti
(Hxganti, alcuni esempi addotti dall'autore costituiscono delle inferenze
reali, ma queste inferenze non sono delle verit strettamente necessarie, cio il
cui contrario assolutamente inconccitiblle uno di questi esempi consiste
nel legame fra la causa e l'effetto, e mi jiltro in (piclio fra la sensazione
di resistenza e la l)resenza di (pialche cosa di esteso (cio, secondo noi, di
visibile). Al contrario i due alti'i esempi che egli adduce (v. ;'/v6otenza a
separare queste idee non essendo pi relativa o a[)prossimativa, ma assoluta,
noi siamo del tutto incapaci di conce]>ire che il legame (lue punti
oaduepai'ti osto, si trova ora in un altro, e una conclusione necessario che
essa ha attraversato uno spazio intermediario: inconcer>ibile che essa
sia giunta nella losizione ]>resente senza essere pass;\ta per le
]>osizioni intermediarie fra la sua situazione ori.irinale e la sua
situazione attuale. Vi ha qui secondo Spencer raft'ermazione di una
successione, che si fonda suUesi^erienza: invece secondo noi si tratta anche in
(jucsto caso di una proposizione (aiaitica, nel senso ^ilmeno della
proposizione in cui essa strettamente necessaria. Si gi osservato
che noi riconosciamo per (mo smesso oggetto delle ]resentazioni distinte e
successive dei nostri sensi, alla condizione che o non vi sia stato cangiamento
negli attril)uti imi>Iicanti delle relazioni si>aziali, o che vi sia
stato, sotto questo rapporto, un cangiamento, ma risultante dall' accumulazione
di una serie di cangiamenti ciascuno per se stesso indiscernibile. Ne segue che
^Tsedia. da noi veduta in due posizioni dilferenti. non sarebbe da noi chiamata
la stessa sedia, se noi non supponessimo che essa ha attravei-sato le posizioni
intermediarie. Se fossimo costretti ad escludere la supposizione t\i queste
]osizioni intermediarie, noi non diremmo pi che loggetto visto nel secondo
]tosto e lo Messo che (jucllo visto nel iwimo; ma che l'oggetto del primo
posto stato distrutto, e un altro in tutto simile stato creato nel
secondo. Ora il fatto di un cominciamento assoluto e di un annichilamento
assoluto di un corpo certamente una delle cose pi incredibili; ma
nondimeno (M sembra che ogni persona abituata', come dice Mill, all'astrazione
e all'analisi, non lo trover inconcepibile; questa persona vedr chiaramente la
differenza fra una proposizione cnunciante un simile fatto e delle
i^roposizioni assolutamente inroncei)ibili,comerhedue e due fanno cinque o che
due rette chiudono uno spazio. Cosi se, nella proposizione non si formato
se non nel corso deir esperienza, che anteriormente a (juesta esso non esisteva,
e che in condizioni empiriche differenti esso non esisterebbe, ma esisterebbero
invece dei legami differenti incompatibili con esso; perch, ripetiamolo,
concepire ci, rappresentarselo/ sarebbe rompere il legame attuale Ira le idee,
e pensarle separatamente Tuna dall'altra, ci che in contraddizione con
ripotesi. Ne segue che il tentativo di spiegare le verit necessarie per la
forza dellassociazione timpirica arriva logicamente al risultato di negare
resistenza di verit necessarie. Ed di questa maniera clie la intendono,
al tondo, gli associazionisti. Non vi ha, dice Mill, proposizione di cui
si possa dire che ogn'intelhgenza umana deve eternamente e irrevocabilmente
crederla. Piti proposizioni a cui questo privilegio era accordato con la piti
grande confidenza, hanno gi trovato degl'increduli. Le cose che si
supposto non poter mai essere negate sono innumerevoli; ma due generazioni
successive non si accorderebbero a formarne la lista. (Logica). Cosi Bain,
d'accordo col Mill, non accorda l'esistenza di altre verit necessarie che
quelle fondate sui principii d'identit e di contraddizione: per lui verit
necessaria e propoche la sedia ha atti'aversato le ])Osizioni iiUvrmediai'ie,
non si vedr l)i il semplice enunciato di una condizione necessaria dell'identit
della sedia, ma invece Taffermazione deiresistanza di questi fenomeni
intermediari che hanno formato il legame fra le due presentazioni successive
dei nostri sensi, allora certamente la proposizione, in questo signillcato, non
sar pi cauditica, ma non sar nemmeno strettamente necessaria. Ci si perdoner
d'avere insistito cosi lungamente sucpiesto soggetto, che ha per noi la sua
importanza; la quistione se Tassociazione empirica possa formare fra le idee
dei legami assolutamente indissolubili, e determinare per conseguenza delle
proposizioni, nel senso stretto, necessarie, essendo per noi connessa con le
quistioni pi importanti della teoria della conoscenza. sizione idtntica (o
puramente verbale) sono termini perfettamente equivalenti. (Logica, t. 1",
Primi princ. della logica.) Noi dobbiamo aggiungere all'osservazione
antecedente rimpotenza in cui sono gli associazionisti, di spiegare per il loro
principio la necessit delle proposizioni matematiche. Intatti, se la frequenza
delPesperienze pu sembrare di fornire una spiegazione plausibile delle
conoscenze immediate delta matematica, lo stesso non potrebbe (J irsi per le
conoscenze defivate. Si pu certamente invocare Tesperienza d'ogni momento per
la proposizione clie due e due fanno quattro o ciie due rette non chiudono uno
spazio; ma le proposizioni che la tangente non tocca il cerchio che in un
punto, che la somma degli angoli d'un triangolo uguale a due retti, e in
una ])arola, un teorema qualuncjue della geometria o dellalgebra non enunciano
delle verit d'un'esperienza cosi familiare come molte proposizioni sulle cose
di fatto, le quali nondimeno sono> contingenti, mentre le prime sono
necessarie. Cosi noi ritroviamo negli empiristi inglesi, sotto una forma pi
generale, le opinioni dei metageometri sulla contingenza e sul valore limitato
delle verit matematiche. L assioma: due cose eguali ad una terza sono
eguali tra loro , non , dice il Bain, una verit identica: cosi essa non
una verit necessaria (Logica). Il Mill cita, approvandolo, un autore anonimo,
per mostrare che dei principii contrarii alle verit pi familiari della
matematica avrebbero potuto divenire perfettamente concepibili, anche con le
facolt che abbiamo, se queste fossero coesistite con una costituzione
differente della natura esteriore. La citazione comincia per la supposizione,
da noi pi volte menzionata, di un mondo in cui una quinta cosa
immediatamente creata tutte le volte che si uniscono due e due: Fautore ne
conclude che non inconcepibile che due e due facciano cinque ; ma noi
abbiamo visto die egli confonde con la verit matematica e comparativa una verit
fsica ed esistenziale che con essa strettamente legata. Si
potreijbc pure sui)porre, continua l'autore, un mondo in cui due linee rette
chiuderebbero uno spazio. Immaginate un uomo che non ha mai avuto Tesperienza
di due linee rette i)er T intermediario di un senso qualunque, i)Onetelo tutto
ad un tratto sopra una -ferrovia che s'estende in lontananza su di una linea
perfettamente retta a una distanza indelinita nei due sensi. Egli vedrebbe le
rotaie, le ]3rime linee rette ch'egli avesse mai viste, toccarsi in apparenza,
o almeno tendere a toccarsi, a ciascun limite deirorizzonte, e ne
concluderebbe, a difetto d'ogni altra esperienza, ch'esse chiudono uno spazio,
(piando sono pi*olungate abbastanza lontano. L'esperienza sola potrebbe
disingannarlo. In un mondo in cui ogni oggetto fosse rotondo, alla sola
eccezione di una ferrovia retta inaccessibile, tutti crederebbero che due linee
rette chiudono uno spazio. In (piesto mond(j, per conseguenza, rimpossibilit di
conceire che due linee rette possono chiudere uno spazio, non esisterebbe (\\
Filos. (li Hamilton). In realt in questo mondo, in cui non esistessero altre
linee rette che le rotaie di una ferrovia inaccessibile, non sarebbe vero i)er
nessuno che due linee rette possono chiudere uno sj^azio, quantuncpie potrebbe
essere vero clie nessuno avesse l' idea di linee rette. Il Alili come chiunque
altro chiama un'illusione della prosprettiva quella di una ])ersona die,
gettando gli occhi sopra una via lunga, vede convergenti i due lati che in
realt sono paralleli : ora Y illusione non consiste in ci che le forme
geometriche percepite sembrano avere propriet diiferenti di quelle della stessa
specie, ma in ci die gli oggetti sembrano avere delle forme geometriche
d'un'altra specie di quelle die essi hanno in realt. (Queste linee che
l'occhio, i)er un'illusione, vede convergenti, egli non le percejsce come
parallele n come pertettamente rette: quindi, se noi non potessimo rettificare
quesf illusione, noi non ne inferiremmo gi che due parallele convergono o che
due rette jxDssono chiudere uno spazio, ma che le linee, che noi guardiamo, non
sono parallele ne rette. La stessa osservazione vale per Taltra citazione che
la il Mill della Geometria dei visibili di Reid, in cui questo filosofo
sostiene che, se noi avessimo il senso della vista ma non il senso del tatto,
ci semljrerebbe che ogni linea retta prolungata deve ritornare infine su se
stessa, e die due linee rette prolungate devono incontrarsi in due i)unti.
L'i[Ktesi di Reid riposa sulla teoria che noi non i)ercepiamo immediatamente
per la vista la terza dimensione dello spazio. Supponiamo che ([uesta teoria
sia vera^ e che Reid fosse i)erci fondato ad asserire che ad un uomo, limitato
al solo senso della vista, le rette sembrereb)ero ritornare su se stesse. Non
ne seguirebbe che quest'uomo attribuirebbe alle rette geometriche propriet
dilferenti da ({uelle che noi ad esse attribuiamo, ma che quelle linee che noi
vediamo rette, egli non le vedrebbe tali, ma di tutt'altra forma. 5"
Conformemente alla dottrina che non vi ha altra necessit nelle j)roiX)sizioni
che quella fondata sul I)rincipio di contraddizione, o in generale, sui
principii della conseguenza, il Mill sostiene che i teoremi della matematica
sono delle verit necessarie, solo in (juanto derivano necessariamente dalle
loro premesse. 1 risultati delle matematiche, egli dice, e in generale delle
scienze deduttive, ^ sono, senza dubbio, necessarie in questo senso ch'essi
derivano necessariamente da certi [)rincipii, chiamati assiomi e definizioni ;
cio a dire eh' essi sono certamente veri, se questi assiomi e definizioni lo
sono; perch la })arola necessit, anche presa in questo senso, non significa
niente di pi che certezza. Noi sappiamo cli-i secondo il ]Mill (questo
carattere di necessit e di certezza |)articolare attribuito alle proposizioni
della geometria. un'illusione, perch alcune delle premesse su cui (|ueste
proposizioni si fondano, cio le ipotesi implicate nelle definizioni, si
allontanano sempre, pi o meno, dalla verit ( V. e. G'^ 10 ). Non occorre di
ritornare su (] uesta opinione del Mill, di cui abbiamo sufiicientemente
discusso il fondamento su cui essa appoggiata, cio la dottrina che una
definizione geometrica implica la supposizione deir esistenza di oggetti reali
corrispondenti alla definizione. Noi abbiamo visto che non vero che
questa pro[)Osizione esistenziale sia una premessa della geometria. Ma
quand'anche l'argomento del Mill fosse probante contro l'esattezza e il rigore
delle pi'oposizioni geometriche, sarebbe sempre un/r/noratio clcticld come
obbiezione contro il carattere (fi necessit che si attribuisce a queste
proposizioni ; poich la necessit matematica non consiste in ci che le
proposizioni di questa scienza siano pi rigorosamente vere che quelle delle
altre scienze e pi esattiimente conformi ai fatti, ma nella incapacit del
nostro spirito di sup[)orre come j)Ossibile il contrario di ci die enuncia una
pro[)0si/jone matematica gi riconosciuta come vera, mentre, [)er le
proposizioni meglio stabilite delle scienze fisiche, questa possibiht del
contrario pu essere sempre supposta. \\ questo il[)untoclie il Mill perde di
vista nelle sue considerazioni su (juesto soggetto:(iuaido si tratta degli
assiomi, egli pu spiegare la coscienza della necessit per la legge
dell'associazione inseparabile ; ma questa spiegazione essendo inapplicabile
alle proposizioni dimostrate, egli non lascia perci altra necessit a queste
ultime che quella della dinixstrazione stessa, cio il sentim3nto della
connessione necessaria fra le [)reiiiesse e la conseguenza, che accompagna
ciascun passo del ragionamento. (Quando si di!e che le conclusioni della
geometria s^no delle verit necessarie, la necessit consisti), egli lice, unica
niente in ci che esse derivano regolannerite dalle supposizioni da cui sono
dedotte Il solo senso nel quale le conclusioni di una ricerca scientifica
qualun(]ue possano essere dette necessarie che esse seii'uono
Icittimamente da qualche supposizione, la (juale, nelle condizioni della
ricerca, non da mettere in quistione. per conseguenza in (jucsto
rapporto che le verit derivate di ogni scienza deduttiva si trovano con le
induzioni o supposizioni su cui la scienza stabilita, e che, vere o false,
certe o dubbiose in se stesse, sono sein[)re ritenute certe, relativamente allo
scopo particolare della ricerca >'. Cosi non vi lia, secondo il iNIill,
alcuna ditlerenza, (juanto alla necessit, fra le matematiche pure e quelle
branche delle scienze naturali che, per le matematiciie, sono divenute
deduttive. Siano }). e. queste due proposizioni: il teorema della geometria che
stabilisce che, nel cerchio, il diametro ha con la circostanza il rapporto ;r,
e il teorema della fsica che stallisce che il pendolo ideale eseguisce intoi'no
alla verticale una serie indefinita di oscillazioni della stessa am[>iezza e
della stessa durata. Le due i)roix3sizioni sono [)er AJill egualmente
necessarie, perch seguono con la stessa necessit dalle loro premesse: la
i)roi)Osizione fisica dai principii della meccanica su cui la teoi-ia del
pendolo fondata, e dalla supposizione d'un pendolo nelle condizioni
ideali supposte dalla teoria; e la i>roposizione geometi'ica dagli assiomi
della geometria e dalla supposizione di un cerchio coiTispondente alla
definizione. Se la seconda jn'oposizione sembra pi necessaria della
prima, iie, derivata da ci, die mentre, per la proposizione fisica, si
tiene conto della circostanza che non vi hanno nella realt dei pendoli
esattamente conformi al pendolo ideale, al contrario, per la |)roposizione
geometrica, si mette da parte la circostanza che non vi Jianno nemmeno, nella
realt, dei cerchi esattamente conformi al cerchio della defnizione. Noi
sappiamo invece che la diierenza fraledue proposizioni reale, e che si ha
ragione di chiamare necessar/a la geometrica e eontiiKjcnte la fisica, in
quanto noi possiamo immaginare facilmente che la costituzione della natura
avrebbe potuto essere diterente dall' attuale, e elle un potere soprannaturale
potrebbe cangiare o sospendere le leggi a cui il pendolo obljedisce e tutte le
altre leggi del mondo fisico, mentre, al contrario, noi possiamo ignorare quale
sia il i'a})porto fra il diametro e la circonferenza, ma non possiamo allatto
supporre che il diametro potrebbe avere con la circonferenza un rapporto
diverso da quello che noi conosciamo che esso ha. .^Quando il Alili obbietta,
contro l'esistenza di verit strettamente necessarie, che molte proposizioni, a
cui stato accordato il privilegio di non poter essere affatto negate,
hanno poi trovato deglincreduli, egli pensa a certe induzioni spontanee
dell'esperienza [)i familiare, ricevute come verit evidenti per se stesse, come
queste: che niente non pu(') essere fatto da niente, che gli antipodi non
possono esistere, che una cosa non pu agire dove essa non , ecc. IMa la
necessit di queste e simili proposizioni non che quella sorta di necessit
relativa che i)u sola derivare dalla forza dell'associazione: queste sono delle
proposizioni esistenziali, e noi al)biamo visto che la necessit, nel senso
stretto, non pu appartenere che alle proposizioni comparative, (juali le cosi
dette analitiche e quelle della matematica pura. Lo stesso Mill, (v. Filos, d
Hamilton e. (')") distingue tra ci che nel senso stretto inconcepibile
e ci(') che semplicemente incredibile, e conviene che la negazione delle
i)roposizioni citate non era propriamente inconcepibile, ma era o sembrava
incredibile. Cosi i partigiani della scuola intuitiva gli hanno opposto che
egli non avrebbe potuto citare un sol caso, in cui si sia provata la verit o
anche la possibilit di un inconcepibile nel senso proprio. INla io non so, dice
il Mill, ({uale risposta potrebbe darsi alla quistioiie: si inai provato
che una cosa che era o sembrava inconcepil^ile l'osse vera o t)Ossibile? la
(piale i^otesse impedire di replicare che ci che si chiamava inconcepibile non
era niente di pi che incredibile; in ettetti, poich T inconcepibilit presenta
gradi numerosi, che vanno da una ondendo cosi, senza dubbio coerente alla
sua dottrina, che s[)iega le verit necessarie per un'associazione inseparabile:
secondo questa dottrina intatti non vi potrebbe essere una linea i)recisa di
se[)arazione ira i due ordini (U [)roi)Osizioni. Ma siccome gli avversari hanno
ben ragione di sostenere che tra i due ordini di proposizioni vi ha, non una
ditlerenza di grado, ma una ditlerenza s[)ecifica ("(juantunque alcun
hlosolb della scuola intuitiva non abijia mai tracciato esattamente la linea di
separazione), cosi i casi citati, e che si potrebbero citare, di proposizioni
in un tempo ricevute come innegabih eure che luce ed oscurit, rumore e
silenzio, movimento e riposo, eiznaprlianza ed inei^uai^^lianza, prima e poi,
successiont^ e sinuiUaneit. ogni feno'meno positivo e il suo negativo sono dei
fenomeni .listinti, rontrastati di tutto punto, e di cui l'uno sempre
assente^ (juando l'altro presente. Io considero il principio in luistione
come una generalizzazione di tutti pone l'accoppiamento resi .sono andati sino
a pretomlere che non vi l.anno ilti-c leggi -nentali, e che tutti i fatti sono
spiegabi p l' 1 ti sole legg.. (VI. Mill Dissertai J e .//LI.sST III, lOo e
seg.; (Questa dottrina esclusiva, incontrandosi fese lopi delle cose .,on
esistessero? Si prelcndc che resierieii^-, -ore ..esenti al tenn^o 'stesso
i\;LZoT;r ^^l^roln e e .dente che quando la ne,a.ionc di c.ualche cosa veTe
forni U^ d ^tr di '"u;: r:,u!"r -^ gene ' Wone s,,' f^"t' "
l"'Ssouo nascere per islisiiiiil Lh w f '' " ""Possil.ile
(tranne forse per alcuMo juelli
^licIIaeclv-elcl.iamaore-anismiseni'n,...^n;> i
;liaPl.'ondereda,lesperien.a-criTe:n o' 'ii ":rr.3-r ^Mia. avrebbe
l,iso,M.ato che noi fossimo stati in ."lo di .rei H nozione d. una coso
che fosse 1 tempo stesso luce et, eh e movnnento e in riposo, e in una parola,
.li un J^,'tto lev " ! thiM,Y^ ^ leMsten/n della contrnddziono /va/c Voi i
os^-me ';n:ni':',r''v^ c-e mS la no,.a. o e d ir "i e.^di
",3"'''''^ >o.--.,,csprin,a pere. ^i^ii LMSLLii/a (Il (|ualelie
rosa, perdio ri ^n-res8ioiie corretta del principio di contraddizione non
duniiie clic una cosa non ])u essere e non essere al tempo stesso, o che un
nttributo positivo e il suo negativo non possono coesistere al tempo stesso
nello stesso sogiz-etto, ma sem])]icemente che due Itroposizioni, di cui T una
nega ci clic l'altra alerma, non possono essere tutte e due vere. dalla
obbiettivazione illusoria di questo principio e degli altri dello stesto
ordine, implicata nelle f(H'mule comunemente impiegate per enunciarli (formule
clie per idtro il Min non impiega), che venuto naturalmente il tentativo
di derivarli dairesi)erienza; ed anche qui questo tentativo non ha mancato di
conduri-e al solito risultato di negarne la necessit e r universalit assoluta.
Il Mill trova a ridire sull' otTerma/Jone di Hamilton che il princii)io di
contraddizione e le altre legge del pensiero siano d'unapplicazione universale,
e che noi siamo obbligati di crederli veri anche al di l deiresperienza, cio
cidi fenomeni. Egli ammette che queste leggi sono universalmente vere per i
fe'^oineni, ma non sicuro della loro verit per i noumeni (se essi
esistono): la inapplicabilit di questi principii ai noumeni viene, secondo lui.
da ci che noi non abbiamo il dritto di estendere al roposizioni della
matematica, e in generale, (jnelle concernenti relazioni fra le idee, siano
fondate sul i)rincipio di contraddizione; il die certamente un errore. (
)ltre a ci il fondamento della classazione in lui espresso d'una maniera
poco precisa: cosi egli si esposto a non essere compreso. Ma non vi ha
dubbio che i suoi giudizi sulle relazioni fra idee, i ([uali sarebbei-o sempre
veri, (juaiKranche non esistesse alcun oggetto corrispondente alle idee, non
siano i i>iu1 (lizi non esistenziali, essendo opposti ai giudizi
concernenti cose di fatto, cio esistenziali. Quantunque perci egli abbia
mancato d'indicare cliiarainente che questi rapporti ira le idee sono dei
rapporti comparativi (non in verit fra le idee, ma fra le cose stesse, le quali
non sono necessariamente reali, ma possono essere semplicemente possibili),
tuttavia egli ha tracciato esattamente la linea di separazione fra le due
classi dei giudizi, e ha ben visto che alcun giudizio esistenziale (
concernente cose di fatto) non pu essere necessario n a priore. Notiamo che lo
scopo, a cui Hume fa servire la sua divisione dei giudizio, lo stesso che
il nostro, quello di determinare i hmiti della conoscenza a priori, mostrando
che alcuna Huxley, nel suo libro su Ilunie, (traduz. iranc.), critica questa
dottrina, ma mi sembra ch'egli H non l'abbia compresa esottauicnte.
Naturalmente i suoi attacclii sono diretti sovratutto contro l'apriorit delle
proposizioni matematiche. Che bisogna intendere, egli dice, per quest'
asserzione che le proposizioni di questa specie si scoprono per la sola
operazione del pensiero, e non dipendono in niente dalle cose che esistono
nell'universo? Le nostre idee dei numeri e delle figure e delle loro relazioni
sono, come tutte le altre, copiate sulle nosti'esensazioni, e ci che noi
chiamiamo universo non che la somma delle nostre sensazioni. Supponete
che non si produca niente nelr universo che rassomigli alle impressioni della
vista e del tatto: qual idea potremmo avere d'una linea retta, e a pi forte
ragione d'un triangolo e delle relazioni dei lati d"un triangolo? Cosi
pure senza l'esistenza nell'universo d'impressioni corrispondenti
all'affermazione della somiglianza, evidente che quest* afiermazione
sarebbe impossibile, e (juindi anche l'assioma: Due quantit eguali a una
terza sono eguali fra loro, che non ne che un casoparticolare. Senza
dubbio nessuno contester a Huxley, e tanto meno un seguace di Hume, che le idee
su cui volge la matematica derivano dall' esperienza ( proposizione tuttavia
che non vera, in sensa stretto, se non dentro certi limiti ; poich
evidente che, purch si fossero gi ottenute dall' esperienza le nozioni pi
elementari sulla forma e sulf estensione, basterebbe la dethiizione p. e. del
cercliio o dell'ellissi per darci, anche in difetto d'esperienze specifiche, la
nozione di queste figure geometriche. Confr. Bain Logica). Quando Hume dice che
le proposizioni della matematica non dipendono dalle cose che esistono nelf
universo, egli non vuol dire gi, come suppone Huxley, clie noi potremmo formare
queste proposizioni anche se non esistessero nell'esperienza le sensazioni, che
sono gli originali delle idee su cui esse volgono, o, ci che vale lo stesso,
anche se non esistessero nella natura gli oggetti corrispondenti a queste
sensazioni; ci che egli vuol dire semplicemente che la verit
dell'affermazione contenuta in una proposizione matematica, logicamente
indipendente dalla verit o falsit dell' offermazione deh' esistenza di oggetti
reali, a cui questa proposizione si riferisca. ( ci che viene spieiu conoscenza
simile non possilMle sulle cose di fatto cio suU' esistenza. Ci basta per
giustificare I' empirismo al punto di vista logico, cio come metodo. In effetto
il megato Halle pnrole die se^niono iinincliotaniento: \o vi fosse n cerchio ne
triangolo nella natura, lo verit .liniostrate .la Euclide non
con,servere.,l,oro mono er sempre la loro certezza e la loJo evi.lenza. ) Cu. e
perch tali proposizioni non concernono resistenza n,a solamente, come noi
abbiamo si'io-alo, delle relazioni .. ^onnuhanxa a,,| dilTonza. La r.uistionc o
dun,|ue. non se le i lee che unisce una proposizione matematica lerivino
.lallesperienza ma se r esr.orionza sia necessaria per -iustificare T
afrermazionJ del rapporto che Io-etto di una fale,.roposizione. Noi
abbiamo .nostrato che non lo , perch, i^er conoscere i rai>porti .li
som.^'lianza e di dilToronzo.allaos.servnzione delle cose stesse si pu
sostituire ^it. ' '-aucic assoiutaiiit^nte accadere d un altra maniera. Il
^nudizio imnlicntn in .,n rorrumf tfr "''5^ adotSoTclas: queHi ,l e
cseTrTT"" -Momento a classario tra etnlr^qu^rii ^.'.iL'tdS
VlZ""'toclo a priori e il metodo a posteriori non si disputano le
conoscenze sui rapporti comparativi tra gli esseri in essi, cio in quelli fra
essi che sono suscettibili di uno studio scientifico, il regno del primo di
questi due metodi incontestato, ma le conoscenze sugli esseri stessi, le
loro propriet, la loro azione mutua, e in una parola il loro esistere e il loro
modo di esistere. r 'firMiioiiiiM yii limi IMipiM^m0> ^J^JAU^JJ^A Fondamento
psicologico della necessita e apriorit dei giudizi sulla somiglianza. 1.^ La
necessit di un giudizio non consiste in altro porto che essi hanno in
realt. :;n. 2". Ma quando il rapporto che noi |)ensiamo iion pu essere
conosciuto d'una maniera intuitiva come negli esempi ri[)ortati; quando p. e.
noi pensiamo un'eguaglianza, che non si conosce immediatament(3 o per una
semplice intuizione come quella di due [)i due e di quattro, ma che si conosce
soltanto per dimostrazione, come il caso in tutte le eguaglianze
enunciate nei teoremi geometrici; sar vero anche allora che pensare un
rapporto, p. e. d'eguaglianza, avere il sentimento o l'intuizione di
un'eguaglianza fra termini pre^senti nel nostro pensiero? Potrebbe sembrare che
no; perch, se non fosse possibile di pensare un'eguaglianza fra angoli o linee
o superficie che alla condizione di avere il sentimento o l'intuizione
dell'eguaglianza fra (jueste grandezze nel momento che ce le rappresentiamo,
allora ({uest'eguaglianza non sarebbe una verit di dimostrazione, ma una verit
d'intuizione. Vi ha (lui dunque una difficolt reale, che pere) non
insolubile. Per fissare la nostra attenzione sopra un caso concreto, prendiamo
p. e. la proposizione che in un trian^rolo che ha due angoli uguali, i lati
opposti a questi angoli sono uguah. Siccome quest eguaglianza, almeno quando si
tratta d'un grande triangolo, p. e. d'un campo triangolare, non pu essere
intuita per l'immediato confronto dei due lati, dire che questi sono eguali
non altro che dire che essi hanno lo stesso rapporto con una misura
comune. Un rapporto d'eguaglianza non pu, in ultima analisi, indicare altra
cosa che delle percezioni d'eguadianza che abbiamo effettivamente avuto o che
potremmo li vere: ma nel nostro esempio come in tutti gli altri in cui il
rapporto non immediatamente percepito, esso invece d'indicare la
percezione unica deireguaglianza immediata, indica tutte le percezioni
d'eguaglianza che sono implicate nellbperazione della misura. Siccome
l'eguaglianza enunciata non ha senso, in questi casi, che relativamente
all'operazione della misura, cosi concepire quest'eguaglianza non pu essere che
formarsi una concezione delle eguaglianze percettibili implicate
nell'operazione della misura. Ora evidente che, per pensare queste ultime
eguaglianze, noi non possiamo rappresentarci, con una precisione rigorosa, i
termini fra cui corrono tali rapporti; perch ci sarebbe rappresentarci, con una
precisione rigorosa, tutta roi)erazione della misura, cio le grandezze
"(la misurare, la grandezza che serve a misurarle, e l'applicazione
successiva di quest'ultima sulle due prime Se fosse possibile di rappresentarci
tutto ci con una precisione rigorosa, (luestamensurazione ideale equivarrebbe
ad una mensurazione reale, e, per cpiesta sola operazione mentale, noi potremmo
conoscere allora il rapporto enunciato nella proposizione d'una maniera cosi
intuitiva come lo conoI sciamo per roperazi(jne reale dalla misura. Tuttavia
noi non possiamo pensare questo rapporto che come consistente in certe
eguaghanze percettibili ossia intuitive, e non possiamo pensare alcuna di
queste eguaglianze se non per un sentimento di rapporto d'eguaglianza datocida
due termini presenti nel nostro pensiero. Ci necessario, perch la
rappresentazione d'un rapporto d'eguaglianza non pu essere che la percezione o
il sentimento di questo rapporto allo stato debole, e n possiamo concepire che
questo sentimento si produca indipendentemente dalla presenza nella coscienza
dei termini del rapporto, n come esso possa essere la percezione di un
rapiX)rto fra termini dati, se non prodotto dalla presenza nella
coscienza di questi termini stessi. Noi dobbiamo dunque ammettere ciie anche in
questi casi noi ci rappresentiamo i rapporti obbiettivi per dei rapporti
corrispondenti intuiti fra le nostre rappresentazioni: le coppie dei termini
ideali dei rapporti presenti nel nostro pensiero rappresentano le coppie dei
termini reali dei rapporti che possono essere obbiettivamente percepiti, ma non
li rappresentano adequatamente ; i primi termini e le loro eguaglianze,
piuttosto che le rappresentazioni, nel senso psicologico della parola, dei
secondi e delle loro eguaglianze, ne sono semplicemente i simboli. Lo Spencer
mostra come una gran parte delle nostre concezioni scientifiche non sono che
simboliclie (Pruni pHndpi,) ; e noi stessi' abbiamo gi osservato che le nostre
nozioni quantitative sono generalmente pi o meno inadequate e simboliche,
essendoci impossibile di rappresentarci le cose, al punto di vista della
quantit, d'una maniera cosi precisa come ce le rappresentiamo al punto di vista
della qualit. Il carattere simbolico, e perci in un certo modo arbitrario,
delle nostre concezioni delle eguaglianze, e in generale, dei rapporti
comparativi, che non si conoscono d'una maniera immediata o intuitiva, fa che
le proposizioni enuncianti questi rapporti, non hanno per s, rigorosamente
parlando, rinconcepibilit della negativa. Nondimeno anche queste proi30sizioni
sono necessarie, nel senso die. una volta conosciuta la loro verit, noi non
possiamo supporre che le cose potrebbero andare diversamente, come lo
iX)ssiarao sempre per le verit esistenziali, anche le pi evidenti. E la
ragione che noi non IX)ssiamo rappresentarci un rapporto di somiglianza
che come dipendente necessariamente dalla natura dei termini del rapporto
stesso, tutti i rapporti tali esistenti nel nostro pensiero, o che
rappresentino adequatamenteirapporti obbiettivi, o che ne siano semplicemente i
simboli, essendo semi)re concepiti in una connessione necessaria coi loro
termini. .^ 3. Latto dunque dello spirito, quando esso percepisce 0 pensa un
rap)orto comparativo, una vera azione riflessa del cervello, nel senso pi
proprio della parola: i termini del rapporto, quando essi sono presentati d'una
maniera conveniente ai nostri sensi o rappresentati nel nostro pensiero, ci
destano irresistibilmente e fatalmente il senso del rapporto; la coscienza del
rapporto non pu avere per condizione che la coscienza dei termini, ed
essa tale, se questi termini sono tali; il rapporto sentito non i)Otrebbe
cangiare, a meno che i termini non cangino. una necessit primitiva e
irredutdella nostra costituzione mentale, un atto prlma-r riamente automatico
della nostra intelligenza, e noi non dobbiamo sorprenderci se le necessit
acquisite del pensiero, dovute allassociazione o alFabitudine, quelle che si
sono chiamate delle azioni secondariamente automaticJte, non possono competere
per la loro forza con (juesta necessit, che ingenita al pensiero stesso.
Ci che abbiamo detto siega pure perch le verit comparative possono essere
conosciute a priori. Allontanate le ipotesi sussidiarie dei razionalisti per
ispieirare la possibilit dei giudizi a priori ( dottrina analitica, teoria
deirintuiziono razionale, ecc.), la quistione sull'esistenza di questi giudizi
si riduce a sapere se esistono o no fra le nostre idee delle connessioni
primitive e non derivate dair esperienza. Per le verit esistenziali non vi ha
nel nostro spirito alcuna connessione simile: cosi i giudizi che hanno per
oggetto queste verit sono tutti a posteriori. Noi non potremmo mai indovinare
per la semplice contemplazione deir idea d'una cosa se questa cosa esiste o no
nella realt: similmente invano che noi ricorreremmo alla contemplazione
delle idee di due fenomeni per apprendere se il primo suole o no precedere,
seguire o accompagnare il secondo. Ci perch non vi ha nella nostra
organizzazione psichica alcun atto primariamente automatico che associi il
sentimento della realt alla ra})presentazione di un fenomeno, o (juesta
rajjpresentazione a quella di un altro fenomeno antecedente, susseguente o
concomitante. La contemplazione delle sole idee ci basta al contrario per
vedere se due oggetti sono simili o difterenti, per conoscere che il bleu
non il rosso, che tal gradazione d'un colore pi carica che tal
altra, che la retta pi breve della spezzata e della curva, ciie due e due
sono eguali a quattro e sono minori di cinque, ecc. Cosi i giudizi sulla
somiglianza possono essere a priori, perch T osservazione delle cose pu essere
sostituita da (juella delle loro idee. E la ragione che la coscienza di
un rapporto di somiglianza essendo invariabilmente legata alla coscienza dei
termini del rajjporto, essa deve accompagnarla, tanto se questi termini
appariscano nella coscienza a titolo di realt, cio di sensazioni forti, (pianto
se vi appariscano a titolo d'idee, cio di sensazioni deboli. 11 legame lo
stesso nell'un caso e neiraltro, e cicV che vero delle nostre idee si
trova necessariamente vero delle cose stesse. i:> 4 Ma qui sorge
naturalmente una (piistione: (juando noi confrontando le nostre
rappresentazioni, scopriamo fra di loro un certo rapporto di somiglianza, cio
otteniamo da questo confronto un certo sentimento di somiglianza, noi
atlermiamo subito che le cose corrispondenti alle rappresentazioni hanno lo
stesso rapporto, cio che lo stesso sentimento sar ottenuto dal confronto di
^jueste cose stesse. Noi dunque, passando cosi dal rapporto sperimentato fra le
idee al rapporto non ancora sperimentato fra le cose, facciamo una vera
anticipazione suiresperienza futura. Ora si domanda: per lare questa
anticipazione, cio per sapere che i rapporti fra le idee corrispondono ai
rapporti fra le cose, ci fondiamo noi sullesperienza del passato, la quale ci
mostra costantemente questa corrispondenza, ovvero agiamo in virt di una
necessit del pensiero, anteriore e indipendente dair esperienza stessa? Noi
crediamo che la seconda supposizione che la vera, e che questo
fatto costituisce un'eccezione alla teoria deir esperienza, l'unica eccezione
per altro che vi sia, pcich su questo fatto che riposa in definitiva il
carattere a /)r/or/ di tutte le conoscenze razionali. Sia p. e. la
proposizione: due pi due sono eguali a quattro, e supponiamo un'intelligenza
che venga a conoscere per la prima volta questa verit, per il confronto delle
solo idee. Se si conviene che questa una verit necessaria nel senso pi
stretto, e che il suo contrario inconcepibile, deve ammettersi pure che
quest'intelligenza, non potendo concepire che due coppie di cose reali fossero
ineguali a quattro, non aveva la possibilit di dubitare clie il rapporto fra le
cose reali dellesperienza potesse diflerire dal rapporto che essa veniva a
scoprire fra le sue idee; e che essa era forzata quindi, anteriormente alle
lezioni dell'esperienza, ad estendere alle cose stesse ci che le era stato
appreso dalla contemplazione delle sole idee. Tuttavia si supr)orr forse che,
quantunque questa credenza spontanea che i rapporti percepiti fra le nostre
idee corrispondono ai rapporti percepibili fra le cose, non sia un risultato
dell'esperienza, l'esperienza possa almeno giustificare in seguito quest'anticipazione
che noi facciamo spontaneamente sull'esperienza stessa. Anche questa
supposizione sarebbe, secondo nti, un errore; perch il sentimento del
rapixDrtO' essendo indissolubilmente legato alle idee dei termini del rapporto,
ogni verificazione sperimentale deiraftermazione si3ontanea di cui si tratta,
sarebbe, se ben si riflette, impossibile. Infatti questa verificazione implica
che noi. ci rappresentiamo fedelmente per la memoria i rapporti percepiti,
tanto in realt quanto in idea, cio i termini di questi rapporti, si i reali che
i rappresentati, in connesione con le percezioni dei rapporti stessi. Ora,
rappresentarci una somiglianza o una differenza, o, ci che vale lo stesso, la
percezione di una somiglianza o di una differenza, non essendo altro, come
abbiamo visto, che percepire attualmente questa somiglianza o questa differenza
fra le nostre rappresentazioni; siccome la rappresentazione dei termini di uno
di tali rapporti produce necessariamente nel nostro pensiero la percezione di
questo rapporto; ne segue che noi non potremmo altrimenti rappresentarci nella
memoria questi termini che col rapporto determinato che percepiamo fra le loro
rappresentazioni, e la credenza nella veracit della memoria non qui che
un caso particolare di questa credenza spontanea nella corrispondenza dei
rapporti rappresentati, cio percepiti nel pensiero, coi rapporti reali, cio
percepiti o percepibili fra le cose stesse. Questa corrispondenza fra il
pensiero e la realt deve ammettersi dunque senza prova: essa un'affermazione
primitiva e indimostrabile, un postulato indispensabile della nostra
intelligenza. . 5. A ci che stato detto nel paragrafo precedente,,
dobbiamo aggiungere un'altra osservazione: quando noi diciamo che due oggetti
sono simili o differenti, noi non intendiamo di dire semplicemente che la
presentazione a !la l'iippresentazione di questi oggetti ci produce attualmente
il senso della somiglianza o della differenza ; ma che la somiglianza e la
differenza appartiene realmente agli oggetti stessi. Siccome un rapporto di
somiglianza e di differenza non niente di obbiettivo, die possa esistere
iuori della nostra coscienza, questa proposizione, che la somiglianza e la
differenza appartengono realmente alle cose, non significa altro se non che le
slesse cose producono in noi costantemente e necessariamete la percezione degli
stessi rapporti. ( )raquest'ari'ermazione implicata in tutte le nostre
affermazioni di rapporti di somiglianza e di ditl'erenza, ugualmente
spontanea ed ugualmente incapace di una verificazione sperimentale; o piuttosto
essa non pu essere sottoposta a questa verificazione, se non si ammette la
veracit della memoria dei rapporti che abbiamo percepito, e quindi il postulato
della corrispondenza dei rapporti rappresentati, cio intuiti fra le nostre
idee^ coi rapporti intuiti 0 intuibili nella realt, cio fra le cose stesse. Noi
vediamo dunque che (|uesto postulato implicato in tutte le affermazioni
sulle somiglianze e sulle differenze, e che tutte le conoscenze che hanno per
oggetto (juesti rapporti possono riguardarsi come dedotte dalF esperienza, ma
purch si ammetta come un' altra premessa questo postulato. Come infatti
Fesperienza pu dimostrare TuniIbrmit delle nostre percezioni di somiglianza, ma
alla condizione che si prenda per accordato questo principio indimostrabile;
cosi sull'osservazione che si fondano le verit sulla somiglianza che noi
apprendiamo per il solo pensiero sulFosservazione delle idee se non su quella
delle cose, e ci che in esse oltrepassa la semplice osservazione, non che
l'applicazione alle cose di ci che abbiamo osservato nelle idee, fatta in
conformit di questo principio incUmostrabile. Tutto ci che postulano i nostri
giudizi sulla somiglianza, dunque contenuto in questo j)Ostulato; ed esso
non una conoscenza a priori, ma la conoscenza a, priori, a cui si riduce
tutto ci che vi ha di a priori nelle nostre conoscenze. .^ ()'' La nostra
proposizione che le conoscenze sulle somiglianze possono ottenersi a priori,
non deve intendersi nel senso che tutte queste conoscenze sono eflttivamente
ottenute cosi. L' apriorit dei giudizi sulla somiglianza non consiste che nella
possibilit di conoscere i rai)porti tra le cose per la comparazione delle idee
di (jueste cose. ra quando la comparazione di due cose non jasta ad istruirci
sul grado preciso della loro somiglianza ( come avviene nella pi parte dei casi
in cui si tratta di rapi)Orti fra grandezze), la comparazione delle loro idee
potr istruircene ancora meno. Di pi, per quanto vivamente noi ci rappresentiamo
gli oggetti, le nostre rappresentazioni non raggiungono mai il grado di
nettezza e di distinzione che sarebbe necessario })erch una comparazione ideale
equivalesse, in tutti i casi, ad una comparazione reale. Cosi in molti casi le
nostre conoscenze sulle somiglianze sono altrettanto emi)iriche quanto quelle
sulle sequenze o sulle coesistenze. (Quelle stesse di queste conoscenze che
sono a j)riori, cio che noi possiamo ricavare dal semplice esame delle idee,
non sono tutte egualmente indii)endenti dairesperienza. Bisogna distinguere tra
verit intuitive e verit (T inferenza. L'indi])endenza assoluta daires])ericnza
non ai)partiene che alle prime: tali sono le proposizioni cosi dette
analitiche, e tra i principii della matematica ; le proposizioni pi semplici
sulle eguaglianze numeriche che la scienza dei numeri non pu a meno di supporre
come immediatamente co-, e alcuni assiomi della geometria, (juali (juelli della
retta e del piano, e quelli che il tutto maggiore della parte, e che due
grandezze che concidono sono eguali (sono quei principii che il Bain dichiara
analitici). La conoscenza di una di queste verit in un caso particolare
sempre immediata, non mai un'inferenza che noi tiriamo dai casi
anteriormente sperimentati a un nuovo caso. Per essere certi che due grandezze
date che coincidono sono eguah, noi non abbiamo bisogno di fondarci, n
consapevolmente n inconsapevolmente, su questa premessa che in tutti i casi che
abbiamo anteriormente conosciuti^ due grandezze coincidenti ci sono parse
sempre eguali; ci basta perci di vedere o d'immaginare la coincidenza di queste
due grandezze particolari, perche noi non i30ssiamo percepire n in alcun modo
rappresentarci due grandezze come coincidenti, senz'avere la coscienza
immediata,, cio r intuizione, della loro eguaglianza. Similmente, se noi
sappiamo che due fiorini e due fiorini fanno quattro fiorini, non una
conclusione dall'esperienza passata, che ci ha appreso che due coppie d'
oggetti danno costantemente un totale di quattro; noi abbiamo l'esperienza
presente di questa verit, paragonando, tanto nella semplice immaginazione
quanto nella realt, due coppie separate di fiorini con quattro riuniti. Al
contrario, quando nella dimostrazione di un teorema noi invochiamo uno degli
assiomi generali sulle eguaglianze, noi conosciamo l'eguaglianza particolare
che ne concludiamo, non intuitivamente, ma per una deduzione fondata, come
qualsiasi altra, sopra un'induzione antecedente, cio sopra una generalizzazione
dell'esperienza passata. Questi assiomi dunque, sui quali sono fondate le inferenze
nella scienza dei numeri e nella geometria metrica, sono, in quanto
costituiscono la base di queste inferenze, dei principii induttivi e
sperimentali, come sono induttive e sperimentali le verit particolari che se ne
inferiscono. Cosi le verit a priori sulle somiglianze, quando non sono
intuitive ma d'inferenza, sono a priori in un certo senso, in un altro sono a
posteriori: sono a posteriori in quanto riposano sull'induzione, come le verit
sperimentali propriamente dette; e non sono a priori che in quanto le
osservazioni, su cui le induzioni sono fondate, non hanno bisogno di essere
fatte sulle cose I '' I ti Sn Stesse esteriori, ma basta che siano fatte sulle
idee di queste cose. Noi abbiamo visto che le verit di questa classe, cio le
inferite, sono delle concezioni simboliche: un giudizio comparativo intatti, in
cui le rappresentazioni sono per-rettamente adequate alle cose rappresentate,
non pu non essere una conoscenza intuitiva (Ij. . 7^ Prima di finire questo
capitolo, dobbiamo ritornare su alcune osservazioni gi fatte nel capitolo >,
ma di cui ora il lettore pi in grado di giudicare la verit. La dottrina
razionalista contiene due gravi difficolt intrinseche, che i filosofi di questa
scuola cercano vanamente di risolvere per le ipotesi sussidiarie ch'essi
aggiungono alla loro tesi principale. L'una che bisogna ammettere
altrettante necessit del pensiero indipendenti quante sono le conoscenze
supposte a priori, cio propriamente quante sono quelle fra di esse che non
possono dedursi da altre conoscenze pi generali. L'altra l'armonia
prestabilita che essa suppone tra lo spirito e le cose, il carattere fortuito e
l'inesplicabilit, nei giudizi a priori, della coincitra il pensiero e la realt.
La nostra propria tesi, che non ammette altri giudizi tali che quelli sulle
somiglianze, esente da queste difficolt, e non ha bisogno di ricorrere ad
ipotesi, come quelle dei razionalisti, senza base e inconcepibili. Essa non
suppone altro d'innato nello spirito che la facolt di parcepire un rapporto di
somiglianza, altra necessit del pensiero ciie il legame tra la presenza nella
coscienza dei termini di questo rapporto e il sentimento del rapporto stesso.
In questo caso la corrici) Il termine conoscenza intutica ha due sensi: in uno
vuol dire conoscenza Immediata, e si oppone a conoscenza dedotta o
d'inferenza; in questo senso che lo abbiamo usato nel testo. Nell'altro
significa che nel pensiero vi ha la rappresentazione adequata della cosa
pensata, e in questo senso intiUUro si oppone a Minbolico. Le conoscenze
matematiche che sono intiUtice in questo secondo senso, lo sono necessariamente
anche nel primo. S9BB 1 spondenza fra il pensiero e le cose non ha niente di
misterioso: il sentimento del rapporto essendo invariabilmente legato alla
presenza dei termini del rapporto nella coscienza, il rapporto ugualmente
sentito tanto se questi termini sono presenti alla coscienza come presentazioni
dei sensi, (pianto se lo sono come rappresentazioni delFimmaginazione, e i
rapporti osservati tra queste rappresentazioni non possono non corrispondere a
quelli osservabili tra le cose rappresentate. In ultima analisi, le
proposizioni necessarie ed a priori sono tali, perch le verit che esse
enunciano, non volgono sulle cose stesse, sulla realt obbiettiva, ma non sono
che delle vedute del nostro spirito. Non vi ha tra i fenomeni che noi chiamiamo
del mondo esterno, alcuna connessione tale, che Tapparizionc deir uno nella
coscienza sia invariabilmente legata all'apparizione dell'altro: se cosi fosse,
la connessione tra questi due fenomeni sarebbe subbiettiva, e non
obbiettiva. dunque perch il rapporto di somiglianza subbiettivo e
non obbiettivo, che esso pu costituire una necessit del pensiero; ed per
la stessa ragione che noi possiamo apprendere in noi stessi le verit 0 le leggi
che corcernono quest'ordine di rapporti. L' inconcepliflit/i della negativa e
il postulato universale. Noi abbiamo visto nel capitolo antecedente che vi
hanno dei principii intuitivi o immediatamente conosciuti, che noi dobbiamo ammettere
senza prova: il criterio della validit obbiettiva di questi principii che
la loro negazione sarebbe per noi inconcepibile. Ora qui si presenta
naturalmente una quistione: non potremmo noi estendere ad altre proposizioni lo
stesso criterio? non potremmo, in virt di questo stesso criterio, ammettere,
senz' altra prova, la validit ojbiettiva d' una credenza, fondandoci sulla
jjersistenza con cui questa credenza presente nella nostra coscienza? non
j30trebbe di pi questo criterio essere il criterio unico della verit, il
postulato universale, in modo che la prova di una verit particolare non
consista in altro, in definitiva, se non a mostrare che la negazione di questa
verit sarebbe incompatibile con Taffermazione di qualche altra verit pi
fondamentale, la cui persistenza nella coscienza assoluta, e la cui
negazione per conseguenza impossibile? Spencer ammette tale dottrina:
Tinconcepibilit del contrario secondo lui il criterio unico della verit,
e il postulato universale che noi dobbiamo ammettere come vere le proposizioni
il cui contrario inconcepibile. Questo criterio garantisce secondo lui la
verit delle credenze naturali die i discepoli di Berkeley si sforzano di
negare: di pi sullo stesso criterio che si basano le generalit pi alte
della scienza; e siccome queste generalit sono le premesse ultime della
conoscenza umana, oltre i fatti particolari e immediati delFesperienza, la cui
verit del pari garantita dallo stesso criterio, cosi su di esso, in
definitiva, che fondata tutta la certezza delle nostre conoscenze. Lo
Spencer comincia per istabilire, sul fondamento del suo postulato universale,
il principio della persistenza della materia: noi non possiamo concepire,
secondo lui, che la materia possa crearsi o distruggersi, ed perci che
ammettiamo che la quantit della materia inalterabile^ che essa non pu
accrescersi n diminuire. A ci potrebbe obbiettarsi prima di tutto che^, quan-^
tunque la creazione e Tannientamento della materia sianodei fatti, non solo
difficili ad essere creduti, ma anche ad essere immaginati, tuttavia una
proposizione enunciante questi fatti non assolutamente inconcepibile,
come p. e. la proposizione che due e due fanno cinque o che due rette
chiudono uno spazio. Secondo i principii degli stessi sostenitori della
dottrina dcir associazione inseparabile, mancano in questo caso le condizioni
per la formazione ili im legame indissolubile fra le idee, cio l'assenza di
associazioni contraddittorie. Nella nostra esperienza giornaliera vi ha,
dice Mill, tutto ci che bisogna per immaginare Tannientamento della materia.
Noi vediamo un annientamento apparente, quando Tacqua si evapora o il
combustibile si consuma senza lasciare residuo visibile. IL fatto non potrebbe
presentarsi a noi sotto una forma pi palpabile se Tannientamento fosse reale.
Il volgare di tutti V. Stuart Min Filosofia lU Hamilton >-v_''S.'/i paesi ha
un tipo esatto sul quale pu formare la sua concezione deirannichilamento della
materia, e per conseguenza non ha difficolt a farsene un' idea perfetta .
(Filos. di Hamilton trad. frane). Se non che, secondo Spencer, la necessit
delle proposizioni che la materia non si crea n si annienta, non fondata
suir associazione empirica delle idee: esse appartengono invece a un' altra
classe di proposizioni necessarie 0 aventi per s V inconcepibilit della
negativa. Queste s^jno per lui fondate, non suUesperienza, ma sopra una
necessit primordiale del pensiero; in altre parole, esse sono delle conoscenze
a priori, nel senso pi stretto di questo termine. La ragione, secondo Spencer,
per cui noi dobbiamo necessariamente ammettere la persistenza della quantit
della materta , lo sappiamo, perch noi non possiamo concepire la creazione e
lannientamento della materia: ma ])erch non possiamo concepire questa creazione
e (jucsf annientamento ci(') secondo Spencer perch noi non possiamo
concepire il niente. Il pensiero, egli dice, una posizione di
relazioni. Non si possono porre relazioni, e per conseguenza pensare, quando
Tuno dei termini relativi assente dalla coscienza. \\ dunque impossibile
di })ensare che qualche cosa divenga niente per la stessa ragione per cui
impossibile di pensare che niente divenga qualche cosa; e (|uesta ragione
che niente non pu divenire un oggetto di coscienza. L'annientamento della
materia inconcepibile per la stessa ragione per cui la creazione della
materia inconcepibile; e la sua indistruttibilit diviene cosi una
conoscenza a priori dell'ordine pi elevato, non come risultato d'una lunga
serie d'esperienze gradualmente organizzate in un modo di pensiero
irrevocabile, ma come data nella forma di tutte le esperienze qualsiansi.
{Primi principii). Lo Spencer non si dissimula l'obbiezione a cui questa
dottrina naturalmente va incontro. Sembra assurdo di dire che una
proposizione non pu essere concepita, quando Tumanit tutta intera la
professione di concepirla, e la grande maggioranza degli uomini crede ancora di
concepirla ( ibcL) Ma la dottrina comunemente ammessa che la
materia stata creata dal niente, non mai stata, egli risponde,
concepita realmente,' ma solo simbolicamente; cosi pure Tannientamento della
materia non stato concepito che simbolicamente, e si presa a torto
una concezione simbolica per una concezione reale (bkl). 2*\ evidente che
non necessario di concepire il niente per concepire una perdita assoluta
o un nuovo acquisto di materia: un cangiamento nella quantit della materia non
Im bisogno di altre condizioni per essere pensato che un altro cangiamento
qualunque. Rappresentarsi un cangiamento semplicemente rappresentarsi degli
stati successivi digerenti: cosi pensare un cangiamento nella quantit della
materia non che pensare due stati: successivi delle cose in cui la
quantit della materia sia digerente. Tuttavia quando Spencer d la legge
delFindistruttibilit della materia per una conoscenza a priori e per una verit
necessaria, la sua tesi non ha la stessa aria paradossale, che quando egli
atlerma che i medesimi caratteri di necessit e di apriorit convengono al
principio deirindistruttibilit del movimento). La massima che lessere non pu
venire dal niente n ridursi in niente ha avuto sempre del credito, fondata
com'essa sulla generalizzazione di fatti dei pi familiari, e in conformit
di questa massima gli antichi llL^sof greci ammettevano generalmente Teternit e
Timmutabilit della sostanza, che per loro non era al fondo che il principio
materiale. Ma la legge della persistenza del movimento, lungi di poter invocare
lappoggio delle nostre esperienze pi familiari, queste le sono anzi
apparentemente contrarie. Sinch la scienza non c'insegna il contrario, noi
dob-1/ biamo credere necessariamente che il movimento si crea, perch ogni
essere animato sembra di avere il potere di crearne ad ogni momento, e che il
movimento si annichila, perch noi vediamo che ogni corpo in moto si rallenta
continuamente e finisce per ritornare in riposo. Lo Spencer non pu naturalmente
dissimularsi questa obbiezione ; ma egli d la soUta risposta: La
distruttibiht del movimento non stata mai concepita (quantunque i Greci
non abbiano potuto mai disfarsi di questa nozione, ed essa si sia im[)0sta sino
a Galileo); essa sempre stata una pura forma verbale,una pseudo idea (
.jG; confr. 55). La ragione per cui non possiamo concepire la creazione e
Tannichilazione del movimento la stessa per cui non possiamo concejjire
la creazione e F annichilazione della materia; cio che noi non possiamo
concepire il niente. Ma nel caso del movimento Targomonto non cosi
specioso come in quello della materia: cliiaro che della stessa maniera
si potrebbe provare che tutto ci che suscettibile della nozione di
quantit non pu essere annientato ; che la S(jmma p. e. di vita o di benessere o
di intelligenza o di moralit, ecc. indistruttibile nel mondo; che alcuna
porzione di ciascuna di ({ueste cose non pu sparire in un punto senza che
riapparisca in un altro il suo equivalente quantitativo. Anzi por una china
inevitabile si arrivereblDC alla tesi di Parmenide, clic non vi lia alcun
cangiamento nella natura, e non esiste che Tessere unico ed immutabile, perch
se si considera come una creazione e un'annichilazione un cangiamento nella
(juantit del movimento, non vi ha ragione per non considerare ogni cangiamento
qualsiasi come una creazione ed una annichilazione. Evidentemente T
indistruttibilit del movimento non potrebbe riguardarsi come una conseguenza
del principio che T essere non pu venire dal niente e non pu annichilarsi, se
non considerando il movimento, non come mmm-.i iriMMa IIBiMlilMIIIIBI
un'astrazione, ma come una realt, cio supponendo, come quei cartesiani di cui
parla Leibnitz (X. S. salV Interni, ipn. 1. 2" e. 21 4 e e. 23 28), che
quando il movimento passa da un corpo ad un altro, rigorosamente lo
stesso movimento (idem numero) che si trasferisce, come se esso fosse qualche
cosa di sostanziale, e rassomigliasse a del sale disciolto nell'acqua .
Ora, non solo sare3be assurdo di pensare che il movimento guadagnato da un
corpo sia individualmente la stessa cosa che il movimento perduto da un altro
corpo, ma ancora essi differiscono in tutti i punti in cui un movimento pu
differire da un altro, la velocit e la direzione cangiando continuamente
nelloscambio dei movimenti. Che si cominci^ dice il Lange, per risolverci il
i)roblema del i)arallelogrammo delle forze, se si vuol farci credere alla
persistenza della cosa. O una forza che agisce con T intensit x, nella
direzione ab, pure incontestaJjilmente la stessa cosa, (juando la sua
azione s' fusa con un'altra forza in una risultante dell'inlensit // e della
direzione a d Si certo, la forza primitiva ancora contenuta nella
risultante, ed essa continua a perseverarvi, quand anche nelFeterno turbine
dell'azione e della reazione meccanica, l' intensit primitiva x e la direzione
a h non riapparissero mai. Dalla risultante io posso, j)ei' cosi dire, estrarre
la forza i)rimitiva, se io sopprimo la seconda forza componente per mezzo d'una
forza uguale d'una (Urezionc opposta, (jui dunque io so ci che devo intendere o
no per conservazione della forza. Io so, e bisogna che io sappia, che l'idea di
conservazione non che una concezione comoda. Tutto si conserva, e niente
si conserva, secondo il punto di vista al quale io mi pongo nella
contemplazione dei fenomeni. La verit sta unicamente negli e(iuivalenti della
forza che io ottengo per il calcolo e l'osservazione (Storia del materialismo).
L'affermazione stessa che la quantit del movimento (ci che comunemente si dice
il momento) costante, non una espressione rigorosamente adequata
dei fatti: essa non vera, se non in quanto si considera come positivo il
movimento verso un lato, e come negativo quello verso il lato opposto, e questo
si sottrae cosi dal primo, nel calcolare la quantit del movimento dopo
l'incontro di due corpi. Ma questa una finzione, due movimenti in senso
contrario essendo evidentemente amendue reali e positivi allo stesso titolo.
Ben pi, la scienza moderna distingue le energie attuali e le energie
potenziali: quando un mobile viene proiettato m alto, lottando cosi contro la
forza del peso, viene un momento in cui la forza meccanica si esaurisce; la
perdita di movimento da una parte non compensata dalla produzione, da un'
altra parte, di movimento o di calore o di un' altra manifestazione qualunque
dell'energia. Ma il corpo acquista una nuova posizione vantaggiosa rispetto
alla gravitazione: esso pu, cadendo, .restituire col suo movimento in basso
l'energia perduta nella sua ascensione. In questo caso si dice che l'energia
attuale del movimento viene compensata dall'energia potenziale della
situazione; che la prima viene accumulata e tenuta in riserva mentre che il
corpo persiste nella nuova situazione acquistata, per essere poi restituita nel
ritorno verso la situazione primitiva. Ma il fatto che nello scambio
incessante fra le energie attuali e le energie potenziali vi ha cessazione o
generazione di movimento; che al movimento si sostituisce il riposo, e al
riposo il movimento; che non che una semphce metafora di dire che
l'energia del movimento perduto si trova accumulata, immagazzinata e tenuta in
riserva nel corpo in riposo. La scienza suppone che dal movimento di
attrazione, dovuto alla situazione primitiva degli elementi i quali attualmente
comjjongono la massa del nostro sistema solare, che nato, mediante
l'urto, il calore, e di l tutte o la maggior parte delle Ibrze che esistono
attualmente nella terra o in generale in questo sistema: queste forze dunque
sono^ state letteralmente tirate dal niente, perch il loro antecedente non fu
del movimento meccanico o un'altra manifestazione qualunque delFenergia, ma
semplicemente la posizione iniziale dei corpi o delle molecole. Ma anche limitandoci
al caso pi semplice della comunicazione del movimento, cio quando un corpo ne
urta un altro e il movimento perduto dal primo ha per equivalente totale il
movimento, verso la stessa parte, acquistato dal secondo, la proposizione che
il momento o la quantit del movimento resta la stessa, non deve darci
riilusione di credere che vi sia un'identit o anclie semplicemente un
eguaglianza nei fenomeni. 11 momento o la quantit del movimento non die
il prodotto della massa per la velocit: ma la massa non si misura che per la
spesa di una forza esteriore necessaria per indurre nel corpo un' accelerazione
data. La valutazione della quantit del movimento suppone cosi la valutazione
della massa, e la valutazione della massa suppone alla sua volta la valutazione
della quantit del movimento. L'affermazione che la quantit del novimento
costante implica l'aftermazione che la massa costante; ma l'aftermazione
che la massa costante implica alla sua volta l'atfermazione che la
quantit del movimento costante. Sarebbe questo adunque un circolo
vizioso, se si volesse vedere in queste due proposizioni altra cosa che una
maniera di esprimere certi rapporti costanti tra le velocit nello scambio dei
movimenti. La velocit perduta dal corpo A sta alla velocit acquistata dal corpo
B nel rapporto di 2 ad 1: ci si verifica una volta; noi siamo fondati ad
inferire che tutte le volte che il corpo A comunica del movimento al corpo B,
questo rapporto sussiste. Di pi quando il corpo B che comunica il
movimento al corpo A, lo stesso rapporto sussister tra la velocit accjuistata
da A e la velocit perduta da B. Ancora, se il rapporto delle velocit scambiate
tra i corpi C ed A quello di 3 a 2, il rapporto delle velocit scambiate
tra A e B essendo di 2 ad 1, noi siamo fondati ad inferire che il rapporto
delle velocit scambiate tra C e B sar di 3 ad L Nello scambio dei movimenti
avviene come nello scambio delle merci: ima data quantit di velocit acquistata
o perduta da un corpo ha per equivalente un'altra quantit data di velocit
perduta o acquistata da un altro corpo, della stessa maniera che una quantit
data di una merce ha per equivalente un'altra quantit data di un'altra merce.
La massa, nella fsica, non che relativa, come il valore nella economia
politica: il rapporto delle masse di due corpi non che il rapporto
inverso delle velocit che i due corpi possono scambiarsi. Ci che nel movimento
corrisponde a un dato immediato dell'esperienza, dunque la velocit
soltanto, ma non la massa; e le leggi (luantitative del movimento non sono che
i rapporti quantitativi delle velocit. Ora come nello scambio delle merci una
quantit dell'una non si sostituisce alla stessa quantit dell'altra, ma ad una
quantit equivalente, cosi nello scambio delle velocit tra i corpi, una quantit
di velocit di un coppo non si sostituisce alla stessa quantit di velocit
dell'altro, ma ad una quantit equivalente. Ne segue che il principio della
indistruttibilit del movimento, nei limiti in cui esso si verifica
strettamente, non esprime un'eguaglianza (juantitativa, ma solo un equivalenza,
tra i movimenti, cio tra le velocita, che si succedono : esso non afferma se
non che vi hanno dei rapporti costanti, secondo cui le velocit dei corpi"
possono reciprocamente sostituirsi. D'una maniera analoga, la legge della
conversione e della trasformazione dell'energia non afferma che delle
equivalenze, cio dei rapporti costanti, nello scarnino o nella sostituzione
reciproca dei differenti stati dei corpi che noi chiamiamo energie: tanto di
movimento meccanico si scambia costantemente con tanto di calore e con tanto di
elettricit, altrettanto di calore scambiandosi pure costantemente con
altrettanto di elettricit, ecc. Se dunque la legge della conservazione della
forza non afferma che dei rapporti qnantitativi costanti nello scambio
incessante dei fenomeni, come s'intender che questa legge non che una
conseguenza del principio assiomatico che Y essere non pu crearsi e non pu
annientarsi? Ci sembra in verit che si avrebbe la stessa ragione di provare, in
virt di questo preteso principio, che il valore delle merci deve conservarsi,
che esse continueranno perpetuamente a scambiarsi con gli stessi raj)porti,
perch, si potrebbe dire, se il valore di una merce aumentasse, allora (lualche
cosa verrebbe dal niente, e se qu-^sto valore diminuisse, allora qualche cosa
diventerebbe niente. Deve notarsi [)er in favore deirargomentazione
venire da niente. Il principio degli antichi filosofi greci, che l'essere non
pu venire dal niente ne ridursi nel niente, e che non vi ha veramente n
generazione n distruzione ( ad esso che pensa lo Stallo, dicendo che la
dottrina della conservazione dell'energia rimonta all'aurora deirintelligenza
umana), non implicava alcuna nozione meccanica determinata noi esamineremo il
senso e lo portata di questo principio nel Saggio II, Appendice alla parte I. 1
Greci erano necessariamente nell' illusione, creata dalle apparenze
giornaliere, che ci mostrano ad. ogn' istante una distruzione completa del
movimento, senza lasciare alcun equivalente osservabile: cosi, nella piena
maturit della loro filosofa, tutti sentivano la necessit di ammettere una
sorgente permanente del movimento, che per gli spiritualisti (come Platone ed
Aristotile)era il principio spirituale o animico, e pei materialisti (gh
epicurei) era il peso degli atomi. La legge d'inerzia, nel senso della
fiSpencer non considera la ibrza come un (luid infuso nella materia; ma
non meno evidente perci ch'egli la considera come una sostanza. La
l'orza come essa esiste fuori della nostra coscienza non la forza come
noi sica moderna. non fu mai sospettata dagli anfichi. Aristotile dimostra elio
una forza Unita non vni muovere che i>er un tempo finito, basandosi sul
princii>io, che in realt conforme alle prime lezioni doUesperienza,
che una forza maj?iiiore muove per un tempo maggiore, e una forza minore per un
tempo minore. (P///*. vni. X ech'z. Didot). len pi. questo filosofo ammette che
un corpo spinto non si muovo, in virt della spinta, che sinch toccato dal
corpo che lo spingo, o che cosi la continuazione del movimento suppone ad
ogn"istante una .nuova impulsione. ( Phijs. IV, vili, 5, Vni, X. 5).
Platone della stessa opinione: la continuazione del movimouto d'un corj'O
lanciato avviene, secondo lui, perch questo fende laria, la quale, ripiegandosi
attorno di esso, lo spinge di dietro ( Timeo HO a). Aristotile adotta la stessa
teoria: egli suppone i>uro che la reazione continua dell' ambiente che
sola mantiene il movimento. 1 commentatori d'Aristotile, pur dunitando della
sua teoria, non gli contestano per la necessit d' un' impulsione senza cessa
rinnovellata per la continuazione del movimento (V Martin Timeo). AgU antichi .
nei loro tentativi per ispiegare 1' accelerazione nella caduta dei gravi, non
venne mai in mente che essa potesse essere dovuta air azione continua della forza
del peso e alla conservazione della velocit ac(iuistata. La nozione di rapporti
quantitativi precisi nei fenomeni del movimento non poteva esistere ancora in
ciucilo stato primitivo della scienza: gli oycurei pare che immnginassero che
un cori)0 sottile pu trasmettere il suo movimento a un altro corpo pi grosso o
pi denso, indipendentemente dalla massa, e questo a un altro pi grosso o pi
denso ancora, la somma del lavoro meccanico moltiplicandosi gradualmente invece
di restare la stessa ( v. Lange Stor. del material). U Hain ( Lofjicay ; fa
l'onore ad Hamilton di avere duto per il primo l'espressione del principio
della conservazione della forza: ma, in realt. la concezione di quest'autore
era analoga a quella degli antichi filosofi ionici, e non implicava pi di
questa alcuna nozione meccanica alla la conosciamo. Per conseguenza la forza di
cui affermiamiamo la persistenza la forza assoluta di cui abbiamo
vagamente coscienza come correlativo necessario della forza che noi
conosciamo.... Le manifestazioni che sopravvengono in noi e fuori di noi non
persistono; ma ci che persiste la causa sconosciuta di queste
manifestazioni. In altri termini affermare la persistenza della l'orza
non che un'altra maniera di affermare una realt incondizionata senza
cominciamento n fine Esaminando i dati che implica una teoria razionale dei
fenomeni, noi troviamo ch'essi possono tutti ricondursi al dato senza di cui la
coscienza impossibile: l'esistenza permanente d' un'Inconoscibile come
correlativo necessario del Conoscibile... Le verit assiomatiche della scienza
fisica suppongono inevitabilmente l'Essere assoluto come loro base comune...
Noi non possiamo edificare una teoria dei fenomeni interni senza supporre
l'essere assoluto; e a meno di suppore l'essere assoluto, l'essere che
persiste, noi non possiamo costruire una teoria dei fenomeni esterni. La
forza dunque per lo Spencer l'essere assoluto, e la sua persistenza
la permanenza dell' essere, di cui tutti i cangiamenti di forma nell'universo
sono delle manifestazioni, e che resta costante sotto tutte le forme ( 101). La
persistenza della materia e quella del movimento non sono che delle maniere
diverse di affermare la persistenza della forza, cio deU'essere assoluto,
perdio non sono parte 1.) L'idea di Hamilton di ricondurre il principio di
causalit aU'impossibilit di concepi/^e un cominciamento assoluto dell'ossere ha
dovuto avere dell' influenza suU' idea corrispondente di Spencer: la metafisica
del secondo pu riattaccarsi, su questo punto come su tanti altri, a quella del
primo. Ma con lintroduzione del principio odierno della conservazione dell'
energia, mediante cui la legge di causalit messa in rapporto col
principio che niente non pu venire da niente, lo Spencer ha certamente
apportato una moditicazione felice alla dottrina di Hamilton. V I J.
JJi^b'B'-J^^-^gj^ m che dei corollari di (juesto principio. Esso il
principio primo, di cui le generalit pi elevate della scienza sono le
conseguenze, e l'ideale di questa sar compiuto, quando essa diventer un aggregato
organizzato di deduzioni dirette e indirette tirate dalla persistenza della
forza ( 193). In quanto alla stessa persistenza della forza (che non che
un'altra espressione per dire: la permanenza della realt assoluta ed
inconoscibile), questa una verit ultima, che non pu avere prova'
induttiva Deve esservi un principio che, essendo la base della scienza, non pu
essere stabilito dalla scienza Se noi riconduciamo i principii derivati a
quelli di pi in pi larghi donde si deducono, non possiamo mancare d arrivare
infine a un principio pi largo di tutti gli altri, che non pu ricondursi ad
alcun altro n dedursi da alcun altro.... Questo principio, che alcuna
dimostrazione non pu dare, la persistenza della forza ( 59). La
persi-^ stenza della forza ci dunque conosciuta d'una maniera immediata:
noi raffermiamo necessariamente, per rim{>ossibilit in cui siamo di pensare
che qualche cosa divenga niente e che niente divenga qualche cosa, e la sua
negazione inconcepibile. f 61). (l) Il metodo seientilco propugnato da
Spencer dunque essen-^ zialmente deduttivo; l'induzione non pu avere per
lui, tra i processi della scienza, che un posto secondario. ci
che'risulta indipendentemente dal suo ideale della scienza come una catena di
deduzioni tirate dal principio della persistenza della forza dal suo^ criterio
dell'inconcepibilit della negativa e dalle dottrine psicologiche che ne sono la
conseguenza. Questo essendo il criterio universale della verit, ne segue che le
premesse ultime delle nostre conoscenze devono essere dei principii intuitivi,
cio a priori I logici moderni, come Mill e Bain, hanno mostrato che ci che noi
chiamiamo un'induzione rigorosa, non che una vera deduzione di cui una
delle .premesse la grande induzione del principio di causalit. Ma questo
principio secondo Spencer una verit pnori, sia die debba riguai^ars
come l'ctTetto di una necessit i s 5*\ Questa realt assoluta ed inconoscibile,
di cui ?7 senso indefinito forma la base della nostra intelligenza ( 31) ,
rappresenta due parti nella metafsica di Spencer. Vi hanno, come si sa, due
problemi capitali in meta/sica: quello del mondo reale o esteriore, e quello
delle cause. Primo: vi hanno delle cose esteriori, al di fuori delle nostre
sensazioni, e rjuali attributi noi dobbiamo loro assegnare? Secondo: quali sono
le cause efficienti dei fenomeni ? Le scienze positive ci danno la conoscenza
delle loro successioni uniformi, e chiamano cause gli anteceer noi altra
comunicazione possibile Ira il pensiero e le cose che Tesperienza: se questa
comunicazione si rompe, la coincidenza tra il pensiero e la realt diventa un
mistero, 0 piuttosto un felice azzardo; e Ijasta ci perch sia vano ogni
tentativo di fondare la certezza delle nostre conoscenze altrove che
suiresperienza stessa. Tuttavia a questa obbiezione e ad altre della stessa
natura che potrebbe^ farsi alle dottrine di Spencer, egli ha una ris[X)sta
perentoria: tutte queste proposizioni suir assoluto, egli dice, devono
ammettersi in virt del criterio deirinconcepibilit della negativa. Noi dobbiamo
atlermarle per la semplice ragione che la loro negazione impossibile. Le
proposizioni contrarie, p. e. che non vi ha un mondo esteriore indipendente
dalla nostra sensi^ Ijilit, che la materia o la forza non sono persistenti^
sono assolutamente inconcepibili. Se alcuno crede di concepirle, questa
un'illusione: esse non sono delle idee^ ma delle pseudo idee, cio delle pure
forme verbali a cui non corsisponde in realt alcuna nozione . UiiJ^^ndo Spencer
d resistenza del mondo esteriore o anche r indistruttil)ilit della mnteria per
delle proposizioni il cui contrario inconcepibile, quantunque questa
opinione sia seconda noi erronea, tuttavia un' erroneit che potrebbe
i>assare inosservata, essendo un'abitudine dei filosofi razionalisti di
scambiare per assolutamente necessarie delle proposizioni necessarie solo
relativamente, vale a dire il cui contrario non inconcepibile, ma solo
ditticile ai essere concepito, ci die basta peixiii esso sia alTatto increer
conseguenza, se alcuno pretendesse di concepirle, q facesse professione
(Wcn^^^yle (confr. la 1. nota al s^ 0 di questo capitolo), egli non avrebbe nel
suo spirito delle idee reali, ma illusorie, o. come dice Spencer, delle psendo
idee. Ma quantumiue quelli che non conoscono o non ammettono il principio della
persistenza della forza, si rai-presentino i fenomeni d'una maniera che
non conforme alla scienza e alla verit, le loro rappresentazioni erronee
sono certamente altrettanto reali quanto le rai'presentazioni vere di chi
stato istruito dalla scienza moderna, guando 1' incontro di due cori che si
muovono in senso contrario e Y'on velocit inversamente proporzionali alle loro
masso, determina la cessazione del loro movimento. vi ha una contraddizione
ap]Urente al principio della persistenza della forza, che si risolve ammettendo,
come hanno scoverto i fisici moderni, che la forza meccanica perduta
stata sostituita da una quantit equivalente di calore. Cosi, (juando,
anteriormente a (lucsta scoverta, si credeva che la forza meccanica, in cpiosto
caso, fosse assolutamente perduta, cio senza che la sua perdita fosse
compensata da un nuovo. actpiisto di calore o d'un' altra forma) qualunque
dell'energia, si anunetteva una proposizione che era realmente in
contraddizione col i^rincipio i fenoiiienale sono delle imi30ssibilit psicologiche.
Gli elementi della coscienza sono, secondo lo stesso Spencer,. delle sensazioni
e dei rapporti fra sensazioni, queste sensazioni i)otendo essere o allo stato
forte (sensazioni propriamente dette) o allo stato debole (rappresentazioni o
immagini). Dunque il nostro pensiero necessariamente circoscritto tra i
dati dei nostri sensi, e noi non possiamo concepire niente di soprasensibile.
In verit, non segue da questa teoria che noi non possiamo pensare se non ci che
possiamo sentire: i dati della sensazione noi possiamo combinarli in un ordine
diverso da quello in cui li abbiamo sperimentato, e avere cosi dei pensieri che
non sono una copia delle presentazioni dei nostri sensi ; ci della persistenza
della forza-(]uaiitiin(iiie i dotti pensassero che il fatto fosse conciliabile
con (jiiello della conservazione della forza meccanica -( confr. Hain Lonlca 1.
Ili e. IV n. 10 e 17). Era questa una proposizione vuota ili senso, una pura
forma verbale, a cui non corrispondeva alcuna rappresentazione reale?
assolutamente inimmaLrinal)ile die, dopo l'urto dei due corpi, non vi sia alcun
aumento di temperatura n nei corpi stessi n nel loro ambiente, n r apparizione
di altri nuovi fenomeni o di elettricit o di magnetismo o di un'altra
manifestazione lualuncpie dell'energia? Non i)ossamo noi immaginare che, ilopo
1' urto e la cessazione del movimento, i due corpi e il loro ambienle si
trovino ancora nelle identiche condizioni termiche, elettriclie, ecc., in cuf
si trovavano primn? ci che sostiene, in sostonza. lo Spencer quando
atferma che il (-ontrario della persistenza della forza inconcepibile. O
dir egli che fueste cose, (juantunque possano immariinat\, non possono pertanto
conreprsl f Vi sono dei filosofi che ammettono che noi possiamo concepire ci clie
non possiamo immaginare; ma nessuno ha mai preteso. per quel eh' i( sappia, che
ci che possiamo immaginare non lo possiamo concepire, e sarebbe strano che il
primo a pretenderlo fosse un filosofo, come Spencer, per cui gli elementi
dell'intelligenza non sono che sensazioni e rapj^orti tra sensazioni. Le
ritlessioni precedenti riguardano il principio della pei^istenza della forza
nel suo significato empirico, cio come formulante delle relazioni tra fenomeni;
in (pianto al suo sii>nncato metaempinco o trascendente, varr c cUq segue
nel testo che ci impossibile avere dei pensieri che non si
risolvano finalmente in elementi sensoriali. Ci di cui non possiamo formarci un
mmar/ ine (cio una sensazione risvegliata o un complesso di sensazioni risvegliate),
o copiata fedelmente sui dati dei nostri sensi, o ottenuta per una riunione pi
o meno libera di questi dati, non pu essere un oggetto del nostro pensiero. Ora
Tlnconoscibile n un dato dei nostri sensi, n noi yjossiaino l'ormarcene
alcuna immagine, combinando, per quanto liberamente,. 1 dati dei nostri sensi:
i suoi attributi, p. e. la sua permanenza per cui non dobbiamo intendere una
durata nel tempo, perch il tempo non che un lenoincno subbiettivo ,
Tordine ontologico che corrisponde a ci che noi conosciamo come tempo, quello
che corrisi>onde a ci che noi conosciamo come spazio, e il nexus ontologico
che corrisponde a ci che noi conosciamo come differenza, escono ugualmente
dalla sfera dei nostri sensi e della nostra immaginazione. Ne segue che
ci assolutamente impossibile di pensare, o di concepire, alcuna di queste
cose, e cosi tutte le pretese nozioni suirinconoscil)ile, che V autore accorda
al nostro spirito, sono, non (Ij L' imi)ero che 1' uomo ha sul piccolo mondo
del proprio intendimento lo stesso, dice Locke (Saggio su/V intendimento
am. li)). II, e. II, i^ 2), di quello che esercita nel gran mondo degli esseri
visibili. Come tutta la potenza che abbiamo sul mondo esteriore si riduce a
comporre e a dividere i materiali clic sono a nostra disposizione, senza poter
produrre la minima particella di nuova materia, cosi noi non possiamo formai'c
nel nostro intendimento alcuna idea semplice, ma solo delle idee complesse,
ripetendo. comparando e unendo insieme, con unn variet presso(di inlniln, le
idee semplici che ci vengono dai sensi e dalla riflessione {per riflessone
Locke intende, come si sa, la coscienza che il nostro spirito ha dei suoi
propri atti, ci in cui nessun sensista potreblie rilutare di vedere una
sorgente reale delle nostre idee; il torto di Locke e semplicemente di non aver
couipreso che tutti gli atti di ('ui lo spiiMto pu avere coscienza, si
riducono, in sostanza, a sensazioni o sentimenti;. ri04 delle idee, ma delle
pseudo idee, cio delle pure forme verjali, a cui non corrisponde alcuna nozione
reale. Lo Spencer quindi costretto ad abbandonare i prinipii della
dottrina deir esperienza anche nella quistione sullurigine delle idee: le sue
dottrine ontologiche lo conducono fatalmente ad ammettere una classe d'idee che
non ci provengono dai sensi, (jupste idee non possono essere che dei dati
originali deirintelligenza; essi devono trovarsi in noi sin dall'alba della
coscienza. Cosi noi troviamo in Spencer, sidl idea deir Inconoscibile, delle
proposizioni che hanno V analogia [)iii colpente con quelle sulle idee innate
di una parte dei metafisici che sostengono questa dottrina (quelli che la
deducono dal concetto che la sostanza dell'anima^ consiste nel pensiero), p. e.
di Rosmini sull'idea dell'essere. (V. N. S. suirorigine delle idee, 'S, G2:WJ2j,
ecc. Confr. il mio Saggio seguente, l'A/)pendlce alla parte 1^ e. 2^ verso la
fine, e il Supplemento sulla dottrina di Rosmini sulla sostanza delVanimo).
L'idea, o piuttosto il sentimento, dell'essere assoluto, cio
dell'Inconoscibile, non solo un dato ultimo della coscienza (Primi
principii) e un elemento mentale ultimo, ma un elemento permanente del
pensiero, e non pu mai essere assente dalla coscienza ( 2G, 27, 10, G,
ecc); come il l'ondo della coscienza stessa ( 45) e il suhstratum comune di
tutto ci che in essa, e l'autore lo chiama la materia bruta > o
la sostanza i)ura del pensiero, a cui diamo pensando differanti forme
^>, la sostanza indifferenziata della coscienza, che riceve delle
condizioni nuove in ciascun pensiero. che, come sappiamo, l'effetto
d'un'illusione naturale del nostro spirito). Ma ci che vi ha di particolare
alla dottrina di Spencer, che ci che essa presenta come dati originali
della coscienza, sono delle nozioni che questa, il pi delle volte, ignora
completamene. L'affermazione di una realt assoluta inconoscibile, lungi di
essere una credenza naturale del genere umano (come dovrebbe essere pertanto,
se fosse veramente un dato originale della coscionza), l'ultima risposta
che la metafisica d ai pi ardui problemi dell'inteUigenza umana, dopo averne
cercato vanamente una soluzione positiva. L'uomo non esordisce gi per affermare
1' esi Una contraddizione analoga vi lia fra i Primi principii e i Principii di
sociologia: secondo i Primi principii, il senso della realt assoluta e
inconoscibile clic Ibraia la base delle credenze reliiiiose; ma di ci neppure
una parola nei Principii di sociologia, dove l'autore studia le origini della
religione. Dopo aver parlato di questa dottrina di Spencer sull'idea
delrinconoscibile, noi ci troviamo pi in grado di rispondere a un rimstenza
d'una realt indeiinita al di l delle apparenze che gli mostrano i sensi; le
realt per lui, sinch non ha ricevuto le lezioni dei metafsici, o d'una
filosofia critica che i loro sistemi hanno preparato, non sono che le
presentazioni dei sensi stessi. Similmente egli non comincia per Tatlermazione
di cause superiori alla sua concezione e senz alcuna analogia con quelle
deiresperienza; ma in possesso di generalizzazioni incoscienti tirate dai fatti
pi familiari, cerca istintivamente di ricondurvi gli altri fatti, rappresentane
provero che potrebbe venirci mosso sulla nostra interpretazione della sua
dottrina sulle proposizioni a priori, (quella dei Primi prtnctpu sulla
persistenza della forza, V esistenza d' una realt assoluta, ecc.).
Quest'apriorit noi la comprendiamo nel senso stretto e tradizionale, cio come
se queste proposizioni fossero assolutamente indii>endenti dalfesperienza,
sia personale sia avitica. Ma ci si potreble obbiettare, e, come vedremo, non
senza qualche ragione, che lo Spencer non d le sue proposizioni a priori come
tali che per rindividuo, mentre per la specie sarebbero a posteriori, esultando
dalla eredit organica delle esperienze ancestrali. Questa seconda
interpretazione, in effetto, ha il vanta^^gio di mettere di accordo la dottrma
dei Primi prinripii con quella dei Prinripii di psicologia e. generalmente
delle altre opere dell'autore: ma la quistione appunto se (piest'accordo
sia possibile, o non vi sia inveire tra le due dottrine di Spencer un'aperta
contraddizione, che l'autore non ha fatto niente y>q^v risolvere. Gi prima
di tutto, per la proposizione che cMmi)orta di pi,, cio la persistenza della
forza-che quella sulla cui apriorit insiste speci(dmente lo Spencer-,che
(piest'apriorit debba intendersi nel senso antico e rigoroso, e non come il
prodotto delle esperienze ereditarie, ci che seml)ra risultare dalle
dichiarazioni esilicite dellautore. Nel capitolo sull' indistruttibilit della
materia , proposizione che, come sappiamo, un corollario del principio
della persistenza della forza, e impresta, per conseguenza, la sua apriorit a
quella di questo principio, dice: L'indistruttibiiit della materia ,
rigorosamente parlando, una verit a priori. E un po' prima (nello stesso
paragrafo): L'annientamento della materia e inconcepil)iIe per la stessa
ragione per cui la creazione della materia inconcepibile ; e la sua
indistruttibilit diviene c>. E parlando della continuit del movimento
: r3ire che il movimento creato o annientato, dire che niente
diviene cpialche cosa o qualche cosa diviene niente, stabilire nella
coscienza una relazione fra due termini di cui l'uno assente dalla
coscienza,, ci che impossibile. La natura ste^naturale al nostro
spirito, dunque calcata suiresperienza e sui fenomeni ; tutte le altre
sono un prodotto della coltura, e il pi tardo quella d'una causa o d'una
cosa assolutamente inconoscibile e irrappresentabile. Qui noi tocchiamo il
punto pi debole del criterio dell'inconcepibilit della negativa. Quale di
queste due proposizioni ha per se rinconcepibiht della negativa? quella che
dice: ci che mi presentano i sensi sono degli oggetti reali, permanenti,
indi[)endenti dai sensi stessi ; o quella che dice: al di l delle apparenze che
i sensi mi presentano. vi ha una Se il vero principio primo di Spencer, da cui
s deduce la i^ei*sisten/a della forza coi suoi corollari, cio che niente non
iU() diventare qualche cosa ne qualcje cosa niente, fosse un risultoto
deiraccumulazionc or.iianica delle esjterienze, le necessitn del pensiero su
cui esso fondato, sarel)hero, non delle necessit primordiali, ma
ac(]uisite e derivate dalFesperienza (avitica). Queste sono: clie pensare
sta])ilirc delle relazioni ; e che niente ( vale a dire r uno dei termini della
relazione che noi dovremmo stabilire per pensare che qualche cosa diventi
niente e niente qualclie coso) non rappresentabile. Ora evidente
che n l'uno n l'altro di questi due fatti potrebbe sj^etrarsi come un prodotto
deiraccumulazionc delle esperienze che i nosti'i antenati hanno avuto della
persistenza della forza, della materia, e in una parola, delFessere reale.
Supponiamo che la natura fosse costituita in modo che essi non avessero avuto
le esperierienze di (piesta persistenza, ma avessero avuto invece delle
esperienze allatto contrnrie. Forse il pensare avrel)be cessato di essere un
i^orre delle relazioni? vi ha l;"i evidentemente un fatto che dell'
essenza stessa del pensiero, cio della facolt rappresentativa, e noi non
possiamo immaginare alcun cangiamento della natura esteriore e delle sue leggi,
che potesse avere per eHetto di cangiarlo. 0 forse il niente, in quest'ipotesi,
sarebbe divenuto rappresentabile? Lo Spencer non dice nei luoghi citati perch
il niente irrappresentabile: egli l'afferma come una verit evidente
i>er se stessa: noi dobbiamo duncpie supporre, per la sua atVermazione, le
ragioni pi ovvie. Queste sono, evidentemente, cl.e una rappresentazione
qualche cosa di reale, di positivo, e non pu quindi rappresentare che un
oggetto anch'esso reale e positivo. La rap])resentazione essendo un' immagine
della cosa rappresentata, il niente non potrebbe essere rapi>resentato che
dal niente ; ma allora non vi sarebbe rappre^ realt indefinita e inconoscibile?
Non la prima, perch Spencer la rigetta ; non la seconda, perch il senso comune
la ignoi^a. Sar dunque un'affermazione, che queste due affermazioni differenti
hanno in conmne? Ma non vi ha alcuna affermazione comune alle due: io voglio
dire, non vi ha alcun oggetto, la cui esistenza sia affermata si dal realismo naturale
che dal realismo trasformato, e la cui realt perci possa essere giustificata
dal criterio delrinconcepibilit della negativa, o della persistenza della
credenza L'oggetto che il realismo naturale alferma, sentazione, n, per
conseguenza, cosa rappresentata. L" irrappresentabilit del niente
dunque un fatto che una conseguenza necessaria della natura stessa della
facolt rappresentativa, non meno che quello che pensare stabilire delle
relazioni. Del resto lo Spencer stesso d esplicitamente questi due fatti per
una conseguenza della natura stessa del pensiero, della sforala del pensiero)
{Udd, della natura stessa dell'intelligenza w i luoghi citati, i tratti in
corsivo): cosi essendo, siccome delle esperienze avitiche differenti avrebbero
potuto determinare delle coesioni differenti fra dei pensieri particolari, ma
non mutare il liensiero stesso nella sua essenza, l'impossibilit di concepire
che niente diventi qualche cosa e qualche cosa niente, non potrebbe originarsi
dalle esperienze avitiche della persistenza della forza, della materia, ecc., e
noi dobbiamo intendere per questa imix)S8lilit una necessit psichica primitiva
e assolutamente indipendente dall'esperienza Un' altra ragione che lo Spencer
assegna alla inconcepibilitii della negativa della sua proposizione
fondamentale, cio la persistenza della forza, il legame necessario
dell'idea della persistenza con quella che non pu mai essere assente dalla
coscienza, vale a dire l'idea dell'Assoluto o dell'Inconoscibile -noi sappiamo
in effetto che la Forza non altm cosa che la realt assoluti! e
inconoscibile L' autore considera evidentemente la persistenza della forza come
implicata neirintuizione continua, ch'egli accorda allo spirito, dell'essere
assoluto; in altri termini, in questa intuizione, quest'essere ci dato,
secondo lui, con l'attributo della persistenza. Cosi l'idea che la
sostanza della coscienza e non pu mai esserne assente, cio quella dell'
Assoluto, chiamata un sentimento di ci clie esiste d'una maniera persisteate
e indipendente dalle condizioni. Nel s CO il dato senza di cui -^ ^Nj'^ un
oggetto colorato, esteso [cf. H. P. Grice: Can a sweater be red and green all
over no stripes allowed?], esistente nel tempo e nello spazio, ecc.: ma
l'oggetto che afferma il realismo trasformato, un oggetto senza colore,
senza estensione, l'iiori del tempo e dello spazio, ecc. Lo Spencer non pu
avere che una risposta a questa difficolt: Taffermazione di una realt
indetinita un elemento deiraffermazione di una realta definita, estesa,
colorata, ecc ; il realismo trasformato non sostituisce un altro oggetto air
oggetto affermato dal reahsmo naturale, ma conserva un elemento della credenza
e del suo oggetto, il senso (runa realt, la coscienza r iiiii)ossibile
dato per cui dol)l)iaino intendere l'idea, sempre j>resente alla coscienza,
deirAssoluto, della quale lia parlato nel?? 20 resistenza pcnnanente
.\\\\\nQOwosersistenza di questa qualche cosa la persistenza della Forza).
Siccome la nozione dell'Assoluto o deirhiconoscibile non pui' i>rovenire
dalla senzazione n essere un'induzione dairesi>erienza,ciche il motivo
per cui l'autore ne fa un' idea innata e sempre presente alla coscienza;
l'attrilnito della persistenza essendo compreso in questa nozione stessa,
lunione di quesf attributo col suo so;?getto non pu essere un risultato
dell'esperienza, sia individuale, sia avitica, e la proposizione che alferma la
persistenza dell'Assoluto, cio della Forza, necessariamente un giudizio a
priora nel senso stretto e tradizionale. Talvolta questa proposizione
dedotta, invece che dalla irrappresentabilit del niente, dalla persistenza
assoluta dell'idea dell'Inconoscibile nella coscienza. Noi abbiamo visto che il
potere sconosciuto, di cui non si pu concepire il cominciamento n il
fine, presente nella coscienza come una materia bruta che riceve uua
forma nuova in ciascun pensiero. La nostra incapacit di rapprensentarci i suoi
limiti semplicemente il riscontro della nostra incapacit di mettere fme
al .soggetto che pensa sinch continua a pensare. Ma nel oli sopprimendo gli
altri elementi, vale a dire Fattribuzione a questa realt delle forme definite
sensibili, di cui la credenza, per un'illusione, la riveste. Noi abbiamo
coscienza del relativo come d'un'esistenza sottomessa a delle condizioni e a
dei limiti: impossibile di concepire queste condizioni e questi limiti
separati da qualche cosa a cui essi danno la forma; la soppressione di queste
condizioni e di questi limiti la soppressione delle condizioni e dei
limiti solamente. Per conseguenza deve esservi un residuo, una concezione di
qualche cosa che rieinine il loro contratto che segue (nello stesso??), questo
concetto si fonde con l'altro, che la ragione della incapacit di concepire i
limiti, cio il cominciamento e il fine, della forza l' impossibilita di
rappresentarsi il niente. Nei due capitoli precedenti noi abbiamo considerato
(luesta verit fondamentale (la persistenza della forza) sotto un altro aspetto.
Noi al)biamo visto che l'indistruttibilit della materia e la continuit del
movimento sono in realt due corollari dell' impossibilit di stabilire nel
pensiero una relazione tra qualche cosa e niente. Ci(') che noi chiamiamo lo
stabilimento d'una relazione nel pensiero, il passaggio della sostanza
della coscienza da una forma ad un'altra. Pensare (jualche cosa divellente
niente imi)licherebbe che questa sostanza della coscienza, avendo esistito
sotto una forma data, non prenda pi forma o cessi di essere concepita. Cos r
incapacit di concepire la distruzione della materia e del movimento, l'incapacit
di sopprimere la coscienza stessa. Ci che noi abbiamo trovato vero d^lla
materia e del movimnto nei due capitoli precedenti, ajortiori vero della
forza, vale a dire dell' elemento di cui si formano le concezioni della materia
e del movimento . (Qui la persistenza della forza si deduce, al solito, dalla
irrappresentabilit del niente: ma di questa irrappresentabilit del niente si d
una spiegazione diversa da quella che ne abbiamo dato noi. Sopra, noi l'abbiamo
Si)iegato per la necessit che ogni rai)presentazione sia qualche cosa di
positivo: qui l'autore la spiega per l'impossibilit di rigettare dalla
coscienza la sostanza della coscienza stessa. Ma le due spiegazioni non si
contraddicono: la seconda non esclude che la ragione per cui non possiamo
rapprentarci il niente sia che ogni rappresentazione necessariamente
qualche cesa di positivo; solamente aggiunge che questa qualche cosa di
positivo deve essere una determinazione dell" idea di esistenza assoluta
che torno, ed questa qualche cosa crindefinito clie costituisce la
nostra concezione dellassoluto L'impulsione del pensiero ci porta
inevitabilmente, di l dallesistenza condizionata, all'esistenza incondizionata.
Da ci la nosti^ ferma credenza a questa realt, credenza che la critica
metafsica non pu scuotere un sol momento. Si pu venire a dirci che questo ixzzo
di materia che noi riguardiamo come esistente fuori di noi, non pu essere
realmente conosciuto, che noi possiamo solamente conoscere le impressioni che
esso produce su di noi ; ma noi siamo la sostanza della coscienza). Secondo il
{^ (il (lunqiie, la ragione ultima della necessit in -ui siamo di afTermare la
i)ersistenza della forza, la permanenza deir essere assoluto nella
coscienza. Sulla quale deduzione dobbiamo osservare che, siccome non vi ha
alcun rapporto concepibile fra questa permanenza e le esi>erienze del fatto
che si pretende dedurne, essa non pu essere spiejcrata per l'accumulazione
organica dell'esperienze, i)i che l'idea stessa dell'assoluto o rimpossibilit
di rai)presentarsi il niente; e quindi la proposizine che se ne d come una
conseguenza, cio la persistenza della forza, non pu essere che una proposizione
a jn'ori nel senso antico e rigoroso del termine. Ma l'argomento pi decisivo
dell'apriorit, in questo senso, del princiiio fondamentale di Spencer, e questo
tratto del susseguente: Il postulato al quale siamo arrivati da persistenza
della forza) anteriore alla dimostrazione, anteriore alla conoscenza
definita; esso cosi antico che la natura stessa del nostro spirito. La sua
autorit si eleva al di sopra di ogni altra autorit; perch non solo esso
dato nella costituzione della nostra propria coscienza/ ma impossibile
d'immaginare una coscienza costituita in maniera da non darlo. Poich il
pensiero non implica che lo stabilimento delle relazioni, si pu facilmente
concepire ch'esso si eserciti quando le relazioni non sono state ancora
sistematizzate nelle nozioni astratte che chiamiamo spazio e tem[)0; si pu
concepire una specie di coscienza che non contenga i principii detti aprtorC
che implica l'organizzazione di queste forme di relazioni. Ma non si pu
concepire che il pensiero prosiegua la sua opera senza certi elementi tra i
quali le sue relazioni possano essere stabilite;non si pu dunciue concepire una
coscienza che non implichi l'esistenza continua come dato fondamentale. La
coscienza i)0ssibile senza tale o tal altra/o/7na particolare, ma
impossibile senza contenuto.forzati, per la relativit del pensiero, di pensare
che queste impressioni sono in relazione con una causa positiva^, e allora
apparisce una nozione rudimentaria d'un'esistenza reale che le produce. Se si
prova che ogni nozione d'un'esistenza reale implica una contraddizione
radicale, che la materia, di qualunque maniera la concepiauKj, non pu Il solo
principio che oltrepassa T esperienza, perch le serve di base, dun(iue la
persistenza della forza. 11 luogo citato esclude della maniera pi assoluta che
il ]trincipio della persistenza della forza sia un risultato delFaccumulazione
organica delle esi>erienze. Allora, in eiTetto, i)rima che
quest'accumulazione fosse gi un fatto compiuto, avrebbero esistito delle
coscienze di cui il principio in quistione non sarebbe stato un dato, e cpiindi
sarebbe possil)ile d' hnniagnurc una cosricnz-a co'^tituta in maniera da non
darlo. Notiamo che in questo luogo, specialmente se si mette in rapporto col
antecedente, del luale una conclusione (basta di confrontarlo coi tratti
citati), si trova anche la conferma della giustezza dei nostri argomenti
precedenti. I fatti dello spirito la cui lo Spencer deduce il suo principio
fondamentale, cio che il pensiero una posizione di relazioni, che il
niente non rappresentabile, e che r idea dell' essere assoluto
continuamente ])resenle alla coscienza (ci che qui chiamato il contenuto
della coscienza evidentemente ci che altrove ne detto la sostan^a.
vale a dire l'idea dell'assoluto), non possono, come abbiamo osservato, essere
un eltetto delle esperienze avitiche, perch qui sono dati come dei fatti
necessari implicati nella costituzione di qualunque coscienza, e non solamente
della coscienza modificata dall' esperienza ancestrale. Ialine possiamo
osservare che la proposizione con cui termina la nostra citazione, si pu a buon
dritto intendere come un'affermazione esplicita che il principio della persistenza
della forza assolutamente indipendente dall'esperienza, anche avitica,
tanto pi se si bada all'antitesi tra il solo principio che oltrepassa 1'
esperienza e i principii detti a priori di cui prima ha
parlato (detti a priori significherebbe : impropriamente chiamati cos,
perch se sono tali per l'individuo, non lo sono per la specie). Come si vede
dalla citazione precedente, l'idea dell'assoluto non potrebbe riguardarsi, pi
che il principio della persistenza della forza che se ne deduce, come un
risultato delle esperienze ereditarie. Quest'os3ervazione serve a completare ci
che abbiamo detto nel testo su quest'idea; ma essa ha anche un' importanza
diretta essere la materia quale effettivamente, la nostra concezione si
trasforma e non distrutta; resta il senso della realt, separata per
quanto possibile dalle l'orme speciali sotto di cui era prima
rappresentata nel pensiero. Quantunque la filosofia condanni l'uno dopo Taltro
ogni tentativo di concezione dell'assoluto ; quantunque, per obperla dottrina
deirautore sulle vro[>osizioni a jn ort (iiidix)eiulenteniente da (juanto si
riferisce al inMiicipio della persistenza deUa forza). L'idea, sempre presente
alla coscienza, dell" assoluto non ci clie irli scolastici
chiamavano nnei se in /tUrc a /}prensioiic,\Q.\e a dire una rappresentazione
senz' alcun' affermazione: ques' idea al contrario, secondo S])encer,
insepai'a)ile dalla credenza all'esistenza reale del suo o^i^etto. Ci r provato
gi dai luoirlii citati in cui la persistenza della forza data come una
verit implicata neir elemento permanente della coscienza, o che se ne deduce,
poich piesta iM^:)iiosizione enunciando una legiiG della natura reale, essa non
alTerma semplicemente il legame del predicato col soggetto, l'esistenza del
soggetto restando ii)Otetica. ma anche la realt del soggetto stesso. In alcuni
di questi luoghi, che nell'idea sempre presente che la coscienza ha dell'
assoluto sia compresa la sua esistenza, anche alTermato duna maniera
esplicita : noi abbiamo visto, in elTetto, che, secondo il ^ (50. il dato senza
di cui la coscienza impossibile l 'esistenza permanente d'un
Inconoscibile >, e che, secondo il i^ 02. non si pu concepire una coscienza
cie non implichi 1' esistenza continua come dato fondamentale. Ma,
indiii>endentemente dai luoghi che si riferiscono alla persistenza della
forza, che all' idea ]>ermanente dell' Inconoscibile sia congiunta la
credenza nella sua realt, risulta da ipielli in cui quest'idea chiamata
un .senso o un sentimento o una coscienza dell'essere assoluto ( 2(), 9i trad.
frane.: una coscienza positiva (luantunque vaga di ci che oltre])assa la
coscienza : : il senso della realt: : un sentimento sempre presente
d'esistenza reale ; un sentimento di ci che esiste d'una maniera
persistente e indij-endente dalle condizioni; (jucsto senso indefinito d' un
esistenza ultima che fa la base della nostra intelligenza; : una
coscienza vaga dell'essere assoluto; ecc.); ed detto esplicitamente nei
seguenti: L'impulsione del pensiero ci porta inevitabilmente, di l
dall'esistenza condizionata, all'esistenza incondizionata; e questa rimane
sempre in noi come il corpo d'un pensiero 41 cui non possiamo dare forma. Da ci
la nostra ferma credenza bedirle, noi neghiamo Tuna dopo Taltra tutte le idee a
misura che si producono ; siccome non possiamo bandire tutto il contenuto della
coscienza, resta sempre al fondo un elemento che passa sotto nuove forme. La
negazione continua d'o^^ni forma e d'ogni limite particolare non ha altro
risultato che di sopprimere pi o meno completa.^Ua realt obbiettiva, credenza
che la critica metafisica non pu scuotere un sol momento ( 2(>)
La nostra concezione dell'incondizionato essendo letteralmente la coscienza
incondizionata, o la sostanza pura del pensiero, a cui diamo pensando ditferenti
forme, .ne segue die un sentimento sempre presente d'esistenza reale fa la
])ase della nostra intelligenza. Poich noi possiamo in atti intellettuali
successivi disfarci di tutte le condizioni particolari e rimpiazzarle con
altre, ma non possiamo disfarci di questa sostanza indifferenziata delia
coscienza, che riceve delle condizioni nuove in ciascun pensiero, resta sempre
in noi un sentimento di ci che esiste d' una maniera persistente e indipendente
dalle condizioni. Nello stesso tempo che le leggi del pensiero c'interdicono di
for.mare una concezione (definita) d'esistenza assoluta, esse c'impediscono
egualmente di disfarci della concezione (indefinita) d'esistenza assoluta,
poich questa concezione non , noi veniamo di vederlo, che il rovescio della coscienza
di s. infine, poich la sola .misura (iella calidit delle nostre credenze,
la resistenza che esse oppongono a fili sforzi che si fanno per cangiarle, ne
risulta che quella che persiste in tutti i tempi, fra tutte le circostanze, e
die non pu cessare a meno che la coscienza stessa non cessi, possiede il pi
alto calore. Esaminando le operazioni del pensiero, noi abbiamo visto
come ci impossibile di disfarci della coscienza d'una realt nascosta
dietro le apparenze, e come da (piesta impossibilit risulta la nostra
indistruttibile credenza a questa realt (ibid.). Bench non si possa conoscere
l'assoluto in alcuna maniera e ad alcun grado, se si i)rende la parola
conoscere al senso stretto, noi vediamo pertanto che 1' esistenza positiva
dell'assoluto un dato neces.sario della coscienza; che sinch la coscienza
dura, noi non possiamo un solo istante sbarazzarci di questo dato; e che allora
la credenza che vi ha il suo fondamento ha una certezza superiore a tutte le
altre. Citiamo ancora il 45, in cui l'autore identifica il fondo
primordiale che la coscienza implica col postulato d' una Forza
inconoscil)ile ; o il 40, in cui, dopo avere stabilito clie il reale per
noi ci che persiste nella coscienza, dice che noi abbiamo coscienza d'una
mente tutte le forme e tutti i limiti, e di arrivare ad una concezione
indefinita deirinforme e 'leirillimitato In oconcetto vi ha un elemento che
persiste. impossibile che quest elemento sia assente dalla coscienza,
ed impossibile che vi sia presente affatto solo. L^una o Taltra
alternativa implica la non coscienza, l'una per manrealt assoluta superiore
alle relazioni, prodotta dalla persistenza assoluta in noi di qualche cosa che
sopravvive a tutti i cano un omaggio, a ]>arole, al suo principio
psicologico con cui egli pretende conciliare la dottrina apriorista e la
empirista, ha costruito in realt, trascinato dalle sue premesse ontologiche e
metodologiche, una teoria sulle verit ultime interamente aprioristica, e che
non l'u assolutamente mettersi d'accordo con quel principio. 1 motivi di
(luest'incoerenza sono ovvii. L'idea dell'Inconoscibile non ])otendo derivarsi
dai sensi, egli obbligato a vedervi un possesso ingenito dello spirito,
che, per la stessa ragione per cui non pu essei*e acquisito ]>er l'individuo,
non pu esserlo nemmeno per la specie. Da un altro canto, siccome non si pu
immaginare una reale irrappresentai )ilit derivante dall'esperienza, per
appoggiare la sua pi'oposlzione fondamentale sul criterio dell' inconcepibilit
della negativa culi deve cercare quest'irrappresentabilit nella natura stessa
del jicnsiero; ma allora gli diventa impossibile di trovare a ja \n stesso
ontoi^e Hicoiioscioino tutto ci che vi lia li ben durevole nei tentativi
continui clic si fanno per formare una concezione di ci cie inconcepibile
possibile, ed ancie irobabile, die, sotto le loro forme pi astratte, delle idee
di (jnest' ordine continue) anno sempi*e ad occultare il fonro])osizioni.
L'autore comincia per dare la cosa come possibile, poi la d comt proha ale,
]>oi come probahilissinia, ma infine^ vince la logica, e Unisce iter
atlermarla categoricamente). noi non ne abbiamo alcun bisogno, perch quest'
analisi si trova nella Psicologia dello stesso autore. In generale, per
combattere le sue dottrine ontologiche, non si ha ad opporre a Spencer che lo
stesso Spencer: come all' eroe sedotto dagl'incanti della maga, di cui narra il
poeta, si deve a questo filosofo, sedotto dagl'incanti di questa maga che
la metafisica, mostrare se stesso in uno specchio, quello delle sue opere. Dove
mai lo Spencer, nei suoi Principii di psicologia, costruisce le nozioni degli
oggetti percepiti con altri elementi che i dati della sensazione? quando mai la
sua analisi arriva a qualche altro elemento diverso da questi dati
stessi? Levate, diceva Herder (sulla cosa in s di Kant), ad una ad una
tutte le pellicole che formano la sostanza bulbosa della cipolla, e ci che
rester sar questa pretesa cosa in s >^. Lo stesso deve dirsi di questa
nozione di una realt assoluta e indefinita che si pretende restare delle nostre
idee delle cose, dopo che si sono spogliate delle qualit sensibili. Che cosa
potr restare della nostra concezione di un oggetto esteso, colorato, duro,
odoroso, ecc., dopo che si sono soppresse tutte le rappresentazioni venuteci
dai sensi? Tutti gli attributi dell'oggetto non hanno altro per contenuto che
delle sensazioni: ci non stato mai posto in dubbio per il colore, la
durezza, l'odore, ecc.; in quanto all'estensione, essa risulta, secondo
Spencer, dall'associazione delle sensazioni del movimento muscolare con le
sensazioni specifiche degli organi della vista e del tatto; per altri invece
l'estensione visibile , come il colore, un dato originale della sensazione
visuale, congiunto e, per dir cosi, fuso indissolubilmente col colore stesso.
Di questi attributi, alcuni indicano dei fenomeni sensibiU che per noi non
esistono, anche al punto di vista delle credenze naturali, se non nel momento
stesso della sensazione, e attribuendo agli oggetti tali attributi, noi
vogliamo dire semplicemente che essi ci occasionano certe sensazioni. Altri
attributi invece designano dei fenomeni sensibili che, per la credenza
naturale, non esistono semplicemente nel momento della sensazione, ma sono
permanenti, e appartengono all'oggetto stesso, o i)iuttosto lo costituiscono.
Tali sono Y estensione, il colore, ecc. Ma attribuendo la permanenza e
Tobbiettivit a questi fenomeni sensibili, che non sono, come gh altri, che
delle sensazioni nostre, noi facciamo ci forse appicciccandole alla pretesa
nozione di un oggetto reale, permanente, indefinito, nuda per se stessa di ogni
forma sensibile V operazione del nostro spirito nella concezione degli
oggetti esteriori, come abbiamo spiegato nel capitolo 2^ pu indicarsi
brevemente cosi: 1 noi consideriamo questi fenomeni sensibili, i quali in verit
non esistono che per la nostra sensibilit, come indipendenti da qualsiasi
relazione a noi stessi, cio dalle loro condizioni subiettive 2 ai fenomeni
sensi bih, che sono stati realmente per noi delle sensazioni attuali, noi
aggiungiamo, come concomitanti, come antecedenti, come conseguenti, le
sensazioni possibili, cio che noi potremmo o avremmo potuto avere, se fossimo
posti o fossimo stati posti nelle condizioni convenienti ; ma queste sensazio^
ni possibili noi le consideriamo, non come fenomeni puramente possibiU, ma come
fenomeni reali, e s' intende che questi ultimi fenomeni sensibili, che in se
stessi non sono che delle possibilit, ma a cui noi attribuiamo la realt,
vengono riguardati, del pari che i primi a cui li aggiungiamo, come
indipendenti da qualsiasi condizione subbiettiva. Gli oggetti, quali noi ce li
rappresentiamo, non sono cosi che degli aggregati di fenomeni sensibili, cio di
sensazioni attuali e di sensazioni possibili realizzate. CJie cosa rester
dunque della nozione di un oggetto, dopo aver soppresso tutte le
rappresentazioni di senzazioni? ci che rester del bulbo della cipolla dopo aver
levate tutte le pellicole. () i)retender forse lo Spencer che, oltre le
sensa.sazioni che costituiscono la nostra idea deirestensione, oltre r ordine
fra le sensazioni che noi chiamiamo successione, oltre le particolarit
distintive di queste sensazioni che ci danno Fimpressione della diUerenza, ci
formiamo noi la rappresentazione radimentavia d'un ordine ontologico
corrispondente a ci che noi conosciamo come spazio, d'un ordine ontologico
corrispondente a ci che conosciamo come tempo, d'un nexas ontologico
corrispondente a ci che conosciamo come differenza, e d' un quid indefinito
come substratum di tutte queste relazioni ontologiche, e che queste
rappresentazioni rudimentarie formano parte integrante della nostra
rappresentazione di ci che noi chiamiamo un oggetto esteriore? O ammetter
invece che le nostre rappresentazioni degli oggetti sono costituite unicamente
di rappresentazioni di sensazioni, ma che il senso della realt indefinita
un elemento delle sensazioni stesse? che ogni sensazione di colore, di
resistenza, ecc. contiene la concezione della realt indefinita, assoluta,
permanente, che la scienza chiama materia e forza, e che la religione chiama
Dio? Tra lo psicologo Spencer che c'insegna Questa sarebbe i)ertanto la sola
maniera (Vin tendere la dottrina sulla concezione deirinconoscibile, che la
inetterel)be d'accordo col sensismo dei Pricpii di psicologia, e la salverebl)e
dal rimprovei'o d essere una forma della teoria delle idee innatese per questa
dottrina si prestasse ad una tale interjiretazione. Essendo un elemento di
ciascuna sensazione, (juesta concezione sarebbe anche necessariamente un
elemento di ciascuna idea (perch un'idea una sensazione risvei^liata), e
cos non si troverebbe mai assente dalla coscienza. Ma la dottrina non si presta
ad essere interpretata cos, per pi ragioni di cui due mi sembrano le pi
importanti: 1. L'atto mentale per cui apprendiamo l'assoluto, non una
sensazione o una parte di una stmsazioae propriamente detta (cio allo stato
forte), perch l'autore parla sempre di (piest'atto mentale come di un pensiero
o una rappresentazione (v. 26). Egli lo chiama i>upe, vero, un
.>ononde a una distinzione reale nelle cose, o soltanto relativa
all'uso delle parole? Io credo che la seconda proposizione sia la vera, poich
un termine negativo non al fondo che una designazione generica,
conveniente a ciascuno degli attributi positivi che sono incompatibili con l'attributo
designato dal termine positivo corrispondente; o in altre parole, il
significato di un termine negativo di denotare le cose che hanno alcuno
di questi attributi incompatibili: non bianco il nome di tutti gli
oggetti neri, grigi, cerulei,, o aventi un altro colore ({ualunque differente
dal bianco; non quadrato il nome di tutti gli oggetti triangolari,
pentagonali, o aventi un'altra ligura qualunque ditTerente dal quadrato. Cosi
una proposizione che nega un attributo di un soggetto, al fondo una
proposizione che qtrerma che il soggetto ha alcuno degli attributi
incompatil)ili con questo, ma senza determinare (jaalc; e la ])roposizione, sia
che essa abbia la forma affermativa, sia che a])bia la forma negativa,
sempre un' ajrernicu ione, solo nel primo caso l'oggetto deiraffermazione
pi determinato, nel secondo pi indeterminato. (Aristotile, nel trattato De
interpretatione, chiama i termini negativi, p. e. non homo, infiniti; e i
platonici riconducevano l'opposizione deiresT^cre e del/io/i esset-e e di tutti
i contrari. volgere che sul primo caso: quando delle idee sono
indissolubilmente legate Ira di loro, la inconcepibilit della negativa, cio la
nostra incapacit di separare queste idee, un criterio della verit? Alla
quistione se un legame indissolubile fra le nostre idee sia una prova della
verit, si potrebbe aggiungere la quistione corrispondente, se Timpossibilit di
congiungere certe idee sia una prova di falsit o dlmpossi])ilit reale. Ma
questa seconda quistione rientra a quella dai finito (determinato) e
dell'm/^/itYo (indeterminato), come anche a quella dell'ano e del molti notiamo
che i contrari delle due aoOTOiy 17.1 erano contaddittori, essendovi tra loro
un'opposizione senza medio). A questo punto di vista, la distinzione ammessa
nel testo fra una contraddizione e un'asserzione che congiunge in uno stessa
soggetto degli attributi opposti o incompatil)ili, svanisce in uua semplice
distinzione verbale. Non vi hanno dunque propriamente che due casi
d'inconcepibilit: in un caso la proposizione inconcepibile perch le
rappresentazioni, che i'suoi termini esprimono, sono per se stesse opposte o
incompatibili, e non vi ha perci alcuna rappresentazione che corrisponda a
questi termini, applicati congiuntamente; esso comprende i due casi, distinti
nel tosto, della contraddizione e della semplice opposizione o incompati])ilit,
e si pu in ([uesto caso dire indifferentemente che l'inconcepibilit
dovuta ad una contraddizione, o che dovuta alla opposizione o
incompatibilit delle nozioni. Nel primo caso d' inconcepibilit, invece, questa
contraddizione o incompatibilit non direttamente fra le nozioni, che si
tenta di congiungere, prese per se stesse, ma fra una d queste nozioni e
un'altra nozione, che necessariamente congiunta con quelle a cui si tenta
di congiungere la [rima. Che un corpo sia quadrato e rotondo,
un'inconcepibilit dovuta alla contraddizione o alla incompatibilit degli
attributi stessi: quadrato e rotondo si escludono direttamente e considerati
per se stessi. Ma nella proposizione che abbiamo riportato come esempio
dell'altro caso d'inconcepibilit: Due pi due e quattro sono ineguali , la
contraddizione o opposizione non direttamente fra ineguale e due pi due e
quattro, ma fra ineguale ed eguale, e l'idea dell' eguaglianza non pu
congiungersi a ({uelle di due pi due e di quattro, perch invece con queste s
trova necessariamente congiunta l'idea dell'eguaglianza .nella prima, perch
rimpossibilit di formare un le-ame fra certe idee non potrebbe derivare se non
dalla circostanza che questo sarebbe incompatibile con qualche altro legame
necessario o indissolubile esistente fra le nostre idee. Le obbiezioni di Mill
e di Bain contro il criterio l' influenza delle nostre emozioni vive e
delle nostre affezioni.... Queste due influenze saranno pi tardi messe in tutta
la loro luce come le cause principali dell' errore e dei sofismi. Bisogna pure
tener conto di questa circostanza che, in ragione dei limiti della nostra
esperienza, la forza del legame non rappresenta la ripetizione reale dei fatti,
a meno che noi non siamo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le
volte che si producono. Ci che il pi familiare per la natura pu non
essere ci che il pi familiare per noi. Noi non consideriamo sempre
l'universo dall'alto d*un punto di vista centrale e dominante. Il miglior
esempio che possiamo darne l'importanza eccessiva che noi siamo disposti
ad attribuire a un tipo particolare di causalit, la volont umana, perch
ci pi familiare degU altri. Ne risulta che noi crappresentiamo la volont
come il tipo naturale ed essenziale dell'attivit, quantunque, in fatto, non sia
che una forma rara ed anche eccezionale dell'azione e della causalit In
riassunto, allorch si considerano le differenti influenze che concorrono a
tonnare le nostre convinzioni, la circostanza unica che Spencer mette
avanti talmente dominata dalle altre, che la vivacit della credenza e,
per conseguenza, 1'. in-^ concepibilit del contrario, non possono pi essere
considerate come un criterio di certezza . (Lofj.) (l). j:^ 11. 11 lettore si
accorto facilmente che il nerbo i\ Huxley, i cui principii filosofici soik,
i)cr il fondo, identici a quelli d Mille di Hain, si conlbi'nia inire a questi
autori, rigettando il criterio deli'inconcepibilitn. U fatto, egli dice, che il
contrario di una credenza inconcepil)ile, forse una presunzione in
favore) della verit di (luesta credenza, ma non ne certamente una prova
(V. D. nume, sua cita. ecc. trad. fronc. iGiJ-170. hi 540 deHargomentazione di
Mill e di Bain consiste in questo: vi hanno e vi sono state delle credenze o
incapacit di credere pressoch irresistibili di cui la scienza ha riconosciuta
la falsit; queste credenze o incapacit di credere non sono dovute che a delle
forti associazioni fra le nostre idee; dunque noi non siamo fondati ad ammettere
che un'associazione, anche inseparabile, fra le nostre idee, determinante una
credenza irresistibile, possa essere per se stessa un criterio della verit e
della falsit; o per riassumere l'argomento con una frase dello stesso Mill: a
meno che non esistano degVidola tribus (che sono fondati su ci che il Mill
chiama dei sofismi a priori, e sono tutti dovuti alle strette associazioni fra
le nostre idee ), la credenza non pu essere una prova concludente della sua
propria verit {Log,). facile di prevedere la risposta che un discepolo
della scuola intuitiva pu fare a quest'argomento: queste incapacit di credere
di cui la scienza ha riconosciuto la falsit, non sono state delle
inconcepibilit assolute; la cosa che si negava sembrava incredibile, ma non era
assolutamente inconcepibile. Ma a ci Mill e Bain replicherebbero: Non vi ha una
differenza specifica, ma una semplice differenza di grado, fra ci che
soltanto incredibile, e ci che assolutamente inconcepibile o
inimmaginabile. L'inimmaginabilit presenta dei gradi numerosi, che vanno da una
debole difficolt a una impossibilit almeno temporanea, e non vi ha hnea precisa
di separazione tra ci che assolutamente inimmaginabile e ci che
totalmente incre dibile, nemmeno tra ci che inimmaginabile per una
persona data e ci che semplicemente incredibile per essa. Se un'
associazione empirica fra due idee non avente la forza che la renderebbe
affatto irresistibile, non permette d'immaginare facilmente la separazione dei
due fatti corrispondenti, si fondati a credere che un' associazione
empirica pi forte, prodotta da una ripetizione ancora pi incessante,
convertirebbe questa difficolt in una impossibiht condizionale, impossibilit
che non potrebbe cedere che innanzi ad una esperienza contraria, che le condizioni
della nostra esistenza terrestre possono non permettere. E se un'associazione
mentale di due fatti, tropp poco forte perch la rappresentazione della loro
separazione sia impossibile, pu ancora creare, e, se non vi ha associazioni
contrarie, crea sempre pi o meno difficolt a credere che i due fatti esistano
separati ; se, secondo i tempi e i luoghi, questa difficolt acquista spesso la
forza d'un'impossibiht ; un'associazione che abbastanza forte per rendere
la separazione inimmaginabile pu sicuramente creare un'impossibilit di
credenza, non per un tempo e un luogo, ma che durer sinch durer l'esperienza
che ha dato nascita all'associazione (V. Mill Filos, di Hamilton, trad. frane).
Ora data questa gradazione continua e questa variabilit nella forza dei legami
formati dall'associazione; dato per conseguenza che ogni linea di separazione
tra i casi di una forte tendenza a credere e quelli di una necessit assoluta di
credere, tra i casi di una difficolt di concepire e quelli di un'impossibilit
di concepire, non potrebbe essere se non arbitraria ; sarebbe un'incoerenza di
non volere che si accordasse ai primi, fondandosi sulla forza con cui la
credenza ci s'impone, un valore obbiettivo (visto che esistono degYidola
tribus), e di volere che, sullo stesso fondamento, si accordasse ai
secondi. evidente cosi che tutta la forza dell'argomentazione di Mill e
di Bain s'incardina nella dottrina dell'associazione inseparabile, nella
dottrina, cio, che la forza di un'associazione empirica pu arrivare al punto
che questa divenga assolutamente indissolubile, e che tale l'origine
delle necessit del pensiero. su ci che fondata il primo argomento
contenuto nella prima citazione di Mill: ora, se ben si riflette, questo
il solo argomenta j forte, il secondo non clie una vaga generalit,
che uno scettico potrebbe impiegare, con la stessa ragi(V ne, contro il valore
di ogni conoscenza umana. Se vi fossero, dice Mill, nello spirito delle
impossibilit di concepire inseparabili dallo spirito stesso, noi non potremmo
concludere che ci che siano incapaci di concepire non pu esistere, perch ci
supporrebbe che noi sai)essimo a j)riori che siamo stati creati capaci di
concepire tutto ci die pu esistere; che il mondo del pensiero e quello della
realt sono stati fabbricati in maniera da corrispondersi mutuamente. Ma
precisamente su questa supposizione a priori, che il mondo del pensiero e
quello della realt si corrispondono mutuamente, che si fonda la conoscenza
umana: il pensiero non pu uscire da se stesso, e confrontarsi immediatamente
con le cose; credere alla realt della nostra conoscenza implica un atto di fede
nelle nostre facolt conoscitive. Cosi la nostra credenza nella veracit della
memoria, il Mill ne conviene, un fatto ultimo: noi l'ammettiamo senza
prova, perch tutte le prove che se ne potrebbero dare suppongono gi la credenza
stessa. Ora questa fede nella memoria, e nelle nostre facolt conoscitive in
generale, non implica, altrettanto che la fede nella validit di qualsiasi
necessit primitiva del pensiero, la supposizione a priori che il mondo del
pensiero e il mondo della realt sono stati fabbricati in modo da corrispondersi
mutuamente? Del resto, ammettendo (l) Ci che pu esservi di umuissil^ile nei
(Uil)bi di Mill sulla validit di una necessit innata del pensiero, che la
sua corrispondenza con una necessit obbiettiva sarebbe inesplicabile, e siccome
noi dubitiamo naturalmente della possibilit d'un fotto quando ve, ed egli
stesso, senza osare di affermare assolutamente che tutte queste
leggi possono essere rigorosamente rap]X)rtat 3 a un' assoluta necessit
della natura delle cose , riconosce questo carattere alla legge che io ho
citato. Quantunque, dice egli, la prima legge del movimento sia stata,
storicamente parlando, scoverta dall'esperienza, noi siamo ora posti ad un
punto di vista che ci mostra che essa avrebbe potuto essere costatata
indipendentemente dall'esperienza >>. (Storia delle scienze induttive),
Qual esempio pi colpente di questo dell'influenza dell'associazione ? I
filosofi, pel* generazioni, trovano una difficolt straordinaria a congiungere
insieme certe idee; alla fine vi riescono; e, dopo una sufficiente ripetizione
dell'operazione, immaginano dapprima che vi ha un legame natu.rale tra queste
idee; poi provano una difficolt che aumentando di pi in pi, finisce per divenire
una impossibiht di disgiungerle. {Log.). Il Mill qui non comprende la vera
ragione di questa trasformazione della credenza : non per
l'abitudine di congiungere le idee unite dalla prima legge del movimento, per
essersi, dopo una sufficiente ripetizione dell'operazione, familiarizzati con
essa sino al punto da diventare imposisibile una disgiunzione di queste idee,
che i matematici riguardano questa proposizione come upa verit necessaria. Il
fatto r spiegato meglio altrove dallo stesso Mill. In ogni tempo, egli dice
(parlando del sofisma a /^r/o/-/ dellaragion sufficiente), i .geometri si sono
esposti al rimprovero di voler provare i fatti del mondo esteriore per mezzo
ili ragionamenti sofistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi....
Essi credono pi scientifico di stabilire questi principii cosi che per la prova
dell' espe;rienza. (Log.). Il sofisma della ragion sufJciente, come tutti gli
altri tentativi di dimostrare ie verit di fatto (le quali riposano, non sulla
dinostrazione, ma sull'induzione), non che un caso del metodo a priori,
applicato, non, come fanno i filosofi radicalmente aprio.risti, a tutto il
sistema delle conoscenze umane, ma a qualche branca particolare, e specialmente
ai principii della meccanica noi vedremo nel Saggio seguente che la
ricostruzione a priori della realt una delle manifestazioni generali del
modo di pensare metafisico, e come questa manifestazione si riattacca alla
tendenza fondamentale imetafsica o sofistica a priori del nostro spirito Del
rimanente noi dobbiamo aggiungere che se la difficolt di concepire, dovuta alle
prime apparenze, non sufficiente per fare respingere le leggi
scientifiche del movimento,. essa sufficiente almeno per far trovare
incomprensibili i Tatti enunziati in queste leggi: quando si dice che la
comunicazione del movimento per l'impulsione (questo fatto per noi il pi
familiare della natura esteriore) un mistero, che r azione a
contatto cosi inesplicabile come Fazione a distanza, questo non che
un effetto della contraddizione delle leggi del movimento, scoverte dalla
scienza, con le suggestioni spontanee prodotte dalle prime appai^enze. Il Bain
pensa come il Mill che le inconcepibilit sono qualche cosa di variabile e di
relativo ai tempi, ai luoghi, alle l>ersone. in gmn parte, egli
dice, la nostra educazione clie decide ci clia noi possiamo concepire e ci che
non possiamo concepire. La prova ne che delle verit, che passavano per
inconcepibili a certe epoche e in certi paesi, divengono concepibilissime con
un'educazione differente, ed anche si sono a tal punto fissate negli spiriti,
che il contrario di queste verit ciie ora inconcepibile. I Greci
ammettevano che la materia eterna, ch'essa esiste per se stessa: molti
moderni pretendono che l'esistenza per s della materia assolutamente
inconcepibile. Vi ha dei filosofi che pensano che l'azione dello spirito
la sola origine concepibile del potere motore, della forza motrice: altri
riguardando al contrario l'azione dello spirito sulla materia come assolutamente
inconcepibile, hanno inimaginato delle ipotesi speciali per risolvere la
difficolt p. e. Malebranclic con la sua teoria dell'intervento di Dio, e
Leibnitz con la sua armonia prestabilita. Newton 11 disaccordo dei llosol
suirazione della volont, consideraci ora come il l'arto pi cliiaro, ed ora come
il pi inesplicabile, ha suggerito al Mill oneste riliessioni: 1/
inconcepibile e il concepihilc e una circostanza tutta accidentale, e clie
dipende interamente dalla esperienza e dalle abitudini di pensiero degli uomini;
degrindividui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, esnon
poteva concepire la gravitazione senza l'esistenza d'una sostanza
intermediaria: teoria oggi abbandonata ^ (Log,). Noi osserveremo, in primo
luogo, su questo ragionamento del Bain, che tanti secoli d'insegnamento della
dottrina cristiana non hanno potuto fare che la creazione della materia dal
niente finisse di sembrare un mistero incomprensibile, il che prova che
l'insegnamento e l'educazione possono cangiare le nostre credenze, ma non le
inconcepibilit o le semplici difficolt di concepire del nostro spirito. Se
alcuni filosofi hanno appoggiato il dogma incapaci di concepire una data cosa
qunlancjue, e divenire in seguito capaci di concepire molte cose, per (luanto
inconcepibili avessero potuto sembrare dapprima; e gli stessi fatti clie per
una persona determinano nel suo spirito ci die concepi])ile o no,
determinano pure quali sono nella natura le sequenze che gli parranno si
naturali e plausibili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza della
loro luce propria, indipendentemente da ogni esperienza e da ogni spiegazione.
Per qual regola decidere fra una teoria di questo genere e un'altra? 1 teorici
non ci rinviano ad alcuna evidenza esteriore; ciascuno di loro fa appello ai
suoi sentimenti subbiettivi Essi elevano all'altezza d'una legge primitiva
deFintelligenza umana e della natura una successione particolare di fenomeni
che sembra loro pi concepibile e pi naturale delle altre solo perch loro
pi familiare {Log.). Secondo noi una concezione metafisica non
({ualche cosa di cosi arbitrario ed accidentale come (jui il Mill sembra
credere: basta a provarlo la persistenza di certe alce madri, di certi tipi
generali, nella storia della metafisica (animismo -nel senso che il Tylor d a
questa parola, ilozoismo,' spiegazione di tutti i fenomeni fisici per
l'impulsione, concezione del reale come sostanzialmente immutabile,
realizzazione dei concetti unita al metodo deduttivo, ecc). 11 metodo che noi
impiegheremo nel Saggio seguente, per renderci conto delle concezioni dei
metafsici, sar di ridurle a dei tipi d pi in pi generali, mostrando, per
ciascuno di questi tipi, il concetto fondamentale che gli serve di base, e
deducendo questi concetti fondamentali da certe credenze o tendenze a credere
istintive, comuni a tutti gli uomini, e che costituiscono la metafisica
iiatarale del nostro spirito religioso su degli argomenti razionali, questi
argomenti sono tirati quasi unicamente dalla necessit di evitare un altra
inconcepibilit (la quale d'altronde una inconcepibilit assoluta e non una
semplice diticolt di concepire), quella deirinflnito attuale. In secondo luogo,
perquel che riguarda Fazione della volont, la concepibilit o inconcepibilit di
questo fatto non (lualche cosa di puramente accidentale ed individuale,
come pensa il Bain: esso presenta etl'ettivamente alFintelligenza umana, per
dir cosi, due l'acce opposte; dall'una, sembra il latto pi evidente e pi
naturale, dalFaltra, il pi oscuro ed inesplicabile. Noi spiegiieremo altrove
(Saggio 2^ parte 1% e. 4^) questo fenomeno psicologico, per cui i (atti pi
familiari del nostro spirito ci sembrano da una parte i pi evidenti di tutti e
tali, non solo da non aver bisogno d altra prova, come diceMill(Lo^. 1. 3 e. 5^
0, 1. e), che l'evidenza della loro luce propria, ma ancora da poter comunicare
questa luce a tutti gli altri, servendo di spiegazione ultima delle cose
in generale (Mill ibid.); ma dall'altra parte ci paiono invece i pi
misteriosi di tutti e i pi ribelli ad ogni spiegazione. Per ora accenneremo
solamente che questo doppio aspetto in cui gli stessi fatti ci appariscono,
non che una conseguenza del modo differente in cui ce li rappresentiamo:
Tidea che la scienza ci d di questi fatti tutt altra da quella che
abbiamo attinto immediatamente dalle osservazioni pi familiari. Quando ci
sembrano i pi misteriosi di tutti, perch ce li rappresentiauo secondo
l'idea che ne d la scienza; quando ci sembrano i pi evidenti, perch li
concepiamo nel modo suggeritoci spontaneamente dalla nostra esperienza
giornaliera ; ma siccome (per servirci di un'altra frase di Ml'bdem) le
suggestioni della vita di tutti i giorni sono pi forti che quelle della
riflessione scientifica , il secondo modo di concepirli non mai
soppiantato interamente dal primo, e la loro evidenza prescientifca persiste
sempre, per conseguenza, a lato dell'aspetto misterioso in cui la scienza ce li
presenta. A ci aggiungeremo, per quanto concerne l'azione volontaria, che ci
che prova che l'evidenza e il mistero, attribuiti a questo fatto, non sono
qualche cosa di accidentale e di relativo all'individuo, che, mentre
nessuna scuola filosofica ha insistito quanto la spiritualista
sull'incomprensibilit dell'azione mutua fra lo spirito -e il corpo, l'evidenza,
superiore a quella di qualsiasi altro fatto dell'esperienza, dell'azione dello
spirito sul corpo ^l tempo stesso il concetto fondamentale su cui questa
scuola basata, senza di che essa non eleverebbe questo modo particolare
di causazione a tipo universale della causazione e a spiegazione radicale di
tutti i fenomeni. Lo stesso autore dell'armonia prestabilita dichiara
espressamente che l'idea pi ciara della potenza attiva ci data dalle
operazioni del nostro spirito, e che se questa -si trova anche nei corpi, essa
non appartiene gi alla materia, ma alle entelechie (cio alla monadi), che spno
analoghe allo spirito (N, S. sulVint, urm). In quanto a Malebran che, egli
deduce, vero, la dottrina che Dio la causa universale, dalla sua
onnipotenza, e non dall'evidenza superiore dell'azione volontaria: ma le
.prove, con cui un metafisico dimostra il suo sistema, non sono necessariamente
i motivi reali di questo sistema; ed difficile a credere che la filosofia
di Malebranclie sia fondata su un semplice concetto della teologia positiva, e
.non su quello che la base della filosofia teologica in generale, cio
l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attivit umana, o
semplicemente animale. Il disac" cordo dei filosofi sull'evidenza e il
mistero dell'azione volontaria non dunque che apparente ; e questo fatto,
ben interpretato, lungi di provare la variabilit delle necessit (relative) del
nostro pensiero, ne prova, al contrario, la persistenza. Ora che conclusione si
pu(') tirare da questa persistenza (Ielle necessit, tanto assolute quanto
relative, del i3ensiero, per la quistione presente sulla validit del criterio
deirinconcepibilit della negativa? Da una parte essa mostra pi apertamente la
contraddizione die vi ha a respingere la validit del criterio ; poich le
necessit del pensiero essendo generali e permanenti, Mill e Bain ne partecipano
come tutti gli altri uomini, e, trattandosi di necessit assolute che impongono
una credenza irresistibile, essi non possono quindi, senza incoerenza,
respingerne teoricamente il valore obbiettivo, quando praticamente sono
costretti ad animetterlo. Ma dallaltra parte, se vi hanno delle necessit
assolute del pensiero derivate dall'associazione delle idee; se vi ha pericolo
che queste necessit assolute siano delle illusioni come quelle necessit
relative di cui la scienza ha scoverto l'erroneit; il male sar pi grave ancora
di quello che possa temere Mill o Bain, perch, una necessit del pensiero non
potendo modificarsi, Tillusione sar senza rimedio. Cosi, lungi dairesserci
liberati dalla contraddizione e dalla perplessit, noi vi ci troviamo pi che mai
inviluppati: le contraddizioni e le perplessit sono nel fatto inevitabili,
sin-che si mantiene la dottrina deVassociazione inseparabile. Queste
perplessit, queste contraddizioni ine Noi abbiamo vista in una note antecedente
l'incertezza di Mill sulla quistione se un'associazione inseparabile o
un'inconcepibilit del contrario (che per Mill la stessa cosa) produca o
no una credenza irresistibile: un'altra incertezza simile noi la troviamo,
quando egli determina la nozione stessa dell'associazione inseparabile, (ra
Mill chiama inseparabile un' associazione che sar tale sinch delle esperienze
contrarie non la diseiolgano (v. p. e. il 1. e. della Filos. di
Hamilton); questa, secondo noi, la vera nozione dell'associazione
inseparabile. Ma ora invece ammette che, non solo delle esperienze contrarie,
ma anche le operazioni del pensiero possono disciogliere un'associazione
inseparabile; cosi nel e. XI della Filos. eli Hamilton, sul principio,
distingue l'associazione inseparabile dall'associazione indissolubile. Non si
vuol dire per stricabili, in cui la dottrina deirassociazione inseparabile
getta fatalmente i filosofi empiristi che la sostengono, non sono che un altro
aspetto della contraddizione radicale di questa dottrina coi principi!
fondamentali della filosofia dellesperienza. Il canone fondamentale di questa
filosofa che non bisogna niente ammettere senza j)rova (la prova non
essendo altra cosa che una detluzione fondata sopra un induzione antecedente ):
ma se vi ha in noi una necessit del pensiero che e' impone irresistibilmente la
ci^edenza, o che questa necessit sia congenita allo spirito, o che sia il
prodotto d'un'associazione empirica, ogni prova sarebbe vana; sarebbe inutile,
come dice Mill, di appellarne, perch sarebbe impossibile di modificarla. Ma non
ne seguirebbe, come aggiunge lo stesso autore conformemente ai principi!
deirempirismo, che la credenza fosse vera. E nel fatto i risultati della
dotqueste parole (associazione inseparal)ile) che l'associazione deve
inevitabilmente durare sino alla line della vita, che alcuna esperienza
susseguente, alcuna operazione del pensiero non possa diSi-ioglierla; ma
solamente che. sinch questa esperienza o ensiero non avr luogo, lassociazionc
rester irresistibile ; che ci sar impossibile di pensare 1' uno dei suoi
elementi separato dall'altro. Ma come chiamare irresistibile un'associazione
che un'operazione del pensiero pu disciogliere? Non sembra (juesta una
sconfessione della dottrina dell' associazione insei)arabile1 Se luesta
la nozione dell'associiazione insei^arabile, noi siamo presti ad al)bandonare
tutte le obi)iezioni che al>)iamo fatte contro (piesta dottrina; ma Mill
deve abbandonare pure la pretesa di spiegare per un'associazione inseparabile
la necessit dei principii intuitivi della matematica, perch evidente che
noi non ]ossiamo immaginare alcuna operazione del pensiero che i>os8a valere
a disciogliere il legame fra le idee di cui consta il giudizio espresso in
(juesta proposizione: due e due fanno cpiattro. Sono questi i legami iva le
nostre idee che soli meritano il nome d' inseparabili: se si ammette che
un'associazione empirica pu diventare inseparaile sino a (juesto punto, allora
rinasce la nozione dell'associazione inseparabile contro la quale ab])iamo
fatte lejostre ol^ Iniezioni, e con essa l'applicabilit di queste obbiezioni
"stesse. trina empirista sono la negazione di molte di queste credenze
irriflesse che tendono ad imporsi con la forza pi grande al nostro spirito,
credenze che non sono che l'opera dell'associazione spontanea d^Ue idee: cosa
che necessariamente deve rendere sospetta ogni associazione relativamente o
assolutamente irresistibile, in cui non pu vedersi, invece che una convinzione
fondata su Tesarne e delle prove, che un prodotto fatale dell' attivit
istintiva dell' intelledas sili permissiis. Ne segue che il canone fondamentale
della filosofia dell'esperienza non pu ssere applicabile d'una maniera
universale, se non alla condizione che non vi siano fra le nostre idee delle associazioni
assolutamente inseparabili. Ora noi abbiamo visto in un capitolo antecedente
che questa condizione fortunatamente si verifica; che nel fatto l'associazione
non pu stabilire fra le nostre idee alcuno di questi legami assolutamente
indissolubili, tali da determinare la irresistibilit della credenza. Cosi si
dissipa qu6*,st'ombra di dubbio che le illusioni naturaU del nostro spirito
(illusioni per altro che noi possiamo correggere) Un critico di Mill,
appartenente alla scuola intuizionista, protesta contro la dottrina
dell'associazione inseparabile, che determina necessariamente la credenza, ed
esorta la giovent a scuotere l'influenza di questa dottrina, e ad apprendere
che il nostro -dovere di fondare le nostre credenze sovra un giudizio antecedente,
e di basarle sull'esame delle realt e delle attualit. 11 Mill si lagna di non
essere compreso, e risponde che egli un missionario delle stesse idee
(Filos. d Hamilton trad. frane). Ma Terrore del critico
perdonabile: un'incoerenza] quando si un missionario di queste
idee, di ammettere al tempo stesso la loro inapplicabilit, un' associazione
irresistibile producendo necessariamente una credenza che non fondata
esclusivamente su delle prove, come vuole il Mill. Ci , mutati^ mutandis, come
se un moralista, convinto die l'uomo non capace se non di azioni
egoistiche, predicasse nondimeno la morale dell'evangelcf: Amate il pi'ossmo
c-ome voi stessi. ^ proiettano sul criterio della inconcepibilit della
negativa, e noi evitiamo le contraddizioni, in cui lo spirito non pu non
cadere, quando pensa di scuotere questa fede necessaria che noi dobbiamo avere
nelle nostre facolt conoscitive. Non vi ha altra necessit del pensiero, altra
inconcepibilit della negativa, che nei giudizi immediati sulle somiglianze e sulle
ditTerenze: il reale, l'esistente, non pu essere attinto che dalla prova, e
questa non pu essere che una deduzione rigorosa fondata sovra un'induzione
anteriore. Ma con tutto ci una necessit del pensiero (anche dentro questi
limiti) non sempre una contraddizione ai principii della dottrina
dell'esperienza? Questa contraddizione in realt pi con la lettera che con
lo spirito di questa dottrina. Ci perch il postulato, a cui si riduce
ogni anticipazione suU' esperienza contenuta in tutte le nostre conoscenze
veramente a priori e necessarie, uno di quei postulati che noi dobbiamo
ammettere senza prova, per la ragione che ogni prova implica gi l'ammissione di
questi postulati. Vi hanno tre facolt fondamentaU nell' intelligenza : sono la memoria,
la comparazione, e la facolt di concludere o di tirare delle inferenze. Ogni
ragionamento, ogni prova o esame dei fatti, suppone 1' esercizio in comune di
queste tre facolt associate, facolt che noi non distinguiamo che per una specie
di astrazione, perch ogni operazione dell'intelligenza suppone il concorso di
tutte e tre. Prendiamo un sillogismo, un sillogismo considerato, non come lo
considera la logica formale, cio come un'inferenza puramente verbale, ma come
un'inferenza reale, nella quale perci i veri antecedenti logici sono i fatti
delF esperienza passata, di cui la maggiore l'espressione generale. La
maggiore enuncia dunque questi fatti deiresperienza passata (e, per essere
esatti, insieme a questi fatti, esprime pure la riconoscenza che essi / * -^sono
tali, che noi ci crediamo autorizzati a tirare delle su altri latti non ancora
sperimentati): ora questi tatti deiresperienza passata noi non li ammettiamo
che sulla lede della memoria. JMa oltre la memoria, la maggiore suppone anche
la facoltc della comparazione: infatti per avere scoverta Tunitormit, cio
la somiglianza, tra questi tatti dellesperienza passata, che noi possiamo
riassumerli in una formula generale. La minore del sillogismo non esprime pure
che una comparazione: essa aferma die il caso presente ha una somiglianza
definita, per gli attributi che noi ne conosciamo, coi casi delFesperienza
passata che sono stati registrati nella maggiore. La conclusione, infine,
afferma che il caso presente deve somigliare ai casi passati anche per T attributo
che noi ancora non abbiamo direttamente conosciuto, e che quest attributo gli
appartiene. (Confr. e. 2^ 14^' n.*^ 4). evidente che quest'ultima
affermazione altra cosa che una comparazione o un atto di memoria:
per quest affermazione che si manifesta la terza facolt, quella di concludere,
o di tirare delle inferenze. Ora ciascuna di queste tre facolt ha il suo
postulato, o piuttosto, l'ammissione della veracit di ciascuna di queste tre
facolt non che un postulato; noi non possiamo provarla, ma dobbiamo ammetterla
senza prova. Noi ammettiamo che i fatti che la memoria attualmente ci
suggerisce lianno in realt esistito nel passato; noi ammettiamo che le
somiglianze che il nostro pensiero percepisce sono le somiglianze reali delle
cose; infine noi ammettiamo che abbiamo il dritto di tirare delle inferenze dal
noto air ignoto, dal passato air avvenire. Tutto ci noi lo ammettiamo senza
prova; essi sono dei postulati, e tutti insieme costituiscono il ix)stulato
universale, che noi dobbiamo aver fede nelle nostre facolt conoscitive, che il
pensiero e la realt si corrispondono, che la verit esiste, che rintelligenza pu
conoscere e le cose possono essere 2il pensiero e la realt, non solo e
un'anticipazione delFesperienza, ma non potrebbe essere nemmeno verificata ; perch
questa verificazione implicherebbe la fede nella veracit della memoria dei
rapporti gi percepiti, e siccome in generale p >nsare un tal rapporto
non che percepire il rapporto stesso fra le nostre rappresentazioni
(l'idea 0 impressione del rapporto non potendo essere prodotta che da termini
presenti attualmente nella coscienza), quindi la fede nella memoria implica, in
questo, caso, il postulato che i rapporti sentiti fra le nostre
ra})presentazioni corrispondono ai rapporti sentiti fra le cose stesse. Infine,
quando noi diciamo che i rapporti attualmente percepiti (sia fra le idee sia
fra le ca.se) corrispondono ai rapporti reali esistenti fra le cose stesse,
(siccome un rapporto di somiglianza o di differenza non niente al di
fuori della nostra percezione) noi vogliamo dire che la i)ercezione del
rapporto non arbitraria e accidentale, ma costantemente legata alla
presenza dei termini del rapporto nella coscienza, che gli stessi termini ci
[)rotlucono costantemente gli stessi sentimenti di rapporto. Questa costanza
delle percezioni dei rapporti, implicata in ogni affermazione di somiglianza e
di differenza, e anch'essa una supposizione anteriore alfesperienza e elio
Tesperienza non pu, rigorosamente, verificare; perche questa verificazione implicherebbe
la fede nella veracit della memrria dei rapporti percepiti, la qual fede
non che un caso del postulato che i rapporti perce[)iti fra le
rappresentazioni corrispondono ai rapporti percepiti o [)ercepibili fra le cose
stesse. Ora questi risultati noi dobbiamo a[)plicarli a tutte le affermazioni
di somiglianza e di ditlerenza, le quali, oltre che sono l'oggetto esclusivo
delle matematiche pure e di ogni altra verit cosi detta razionale,
costituiscono anche un momento necessario di qualsiasi operazione della nostra
intelligenza. Ogni ragionamento implicando la costataz ione di cert^ uniformit,
fra oggetti di cui una parte almeno sono assenti dalla coscienza, le
comparazioni dalle quali risulta la costatazione di queste uniformit, implicano
il postulato che i rapporti (di somiglianza e di differenza) percepiti nel
pensiero, o fra le nostre rappresentazioni, corrispondono ai rapporti percepiti
o percepibili fra le cose stesse. Di pi il ragionamento suppone la costanza di
questi rapporti, cio che gli stessi termini ci producono costantemente le
stesse impressioni di rapporto. Supponiamo infatti (per quanto una tale
supposizione pu essere intelligibile) che le nostre percezioni di questi
rapporti non si pi^ducessero pi d'una maniera regolare, che il simile ci sembrasse
differente e viceversa; allora ci(j che attualmente chiamiamo ordine della
natura ci sembrere bbe invece un disordine, perch la percezione dell'ordine o
dell'uniformit non consiste che in percezioni di somiglianze. Allora tutte le
nostre classazioni, tutte le nostre previsioni dei fenomeni futuri, sarebbero
false o impossiljili; l'ordine della natura non sare)l)o cangiato,
semplicemente noi non jx)trcmmo pi com[)renderlo. Tutti i nostri ragionamenti
suppongono dunque la regolarit delle nostre percezioni dei rapporti di
somiglianza; ma questa supposizione non potrebbe, come abbiamo detto, essere
sperimentalmente verificata, a meno che non si ammetta il postulato: che i
rapporti percepiti fra le nostre idee corrispondono ai rapporti percepiti o
i)crcepibili fra le cose stesse. Questo postulato dunque implicato in
ogni ragionamento, in ogni prova: al fondo esso , unitamente, per le nostre
percezioni di somiglianza, ci che i due altri postulati, quello della memoria e
quello dell' inferenza, separatamente, sono per tutte le altre nostre
percezioni. Dentro i limiti delle percezioni di somiglianza, esso sostituisce
il postulato della memoria, percli noi non ci rammentiamo una somiglianza gi
percepita per la retcntivit e la reviviscii)ilit della percezione gi provata,
come avviene per I 5 le altre percezioni, ma semplicemente perch la
rappi^sentazione delle cose simili gi percepite produce attualnella nostra
coscienza il sentimento della soQiiglianza. Dentro gli stessi limiti, esso
sostituisce il postulato dell'inferenza, perch per conoscere cjual percezione
di rapporto ci produrr la presentazione di dati oggetti, noi non abbiamo
bisogno di fare un'inferenza, ma ci fidiamo alla inspezione attuale delle
rappresentazioni di questi oggetti. Cosi la natura, con mezzi apparentemente pi
semplici (una pura azione riflessa) ha ottenuto, per questa classe di
percezioni, ci che per le altre non ha potuto ottenere che con mezzi
apparentemente pi complicati, quelli che costituiscono il meccanismo, ignoto
nei suoi ultimi elementi, della memoria e della inferenza. Se ora ci domandiamo
che ragione abbiamo noi di ammettere la validit obbiettiva di questi tre
postulati, o, in una parola, del postulato universale della corrispondenza fra
il pensiero e le cose, la risposta sar semplice ; ragione che noi non
possiamo fare a meno di ammetterli, se pure non vogliamo rinunziare all'uso del
pen-, e ridurci allo stato di vegetali (come dice Aristotile contro quei
sofisti che negavano il princiio di contraddizione). Noi possiamo certamente,
d'una maniera speculativa, e in ultima analisi, solo verbalmente, elevare dei
dubbi sul valore delle nostre facolt conoscitive ; E appena bisogno di
oggiungerc che ci che noi diciamo nel testo sui rapporti di somiglianza si
riferisce a quelli che sono conosciuti d'una maniera intuitiva o immediata:
quando il rapporto viene invece conosciuto per inferenza, allora, come abbiamo
detto nel capitolo precedente, noi non ci facciamo una rappresentazione
adequata dei termini rapportati, ma le nostre rappresentazioni sono simboliche.
In (]uesto caso la congiunzione delle nostre idee governata dalle leggi
generali dell'associazione, e il meccanismo dell'inferenza lo stesso che
in ogni altro caso qualsiasi d'inferenza, in cui si tratti, non di somiglianze,
ma di altri fenomeni qualunque. ma, ogni esercizio del pensiero implicando la
riconoscenza di questo valore^, noi non lo possiamo senza avvilupparci in
inestricabili contraddizioni. Queste facolt sono^ vero, per noi la
sorgente di persistenti illusioni: ma noi possiamo correggerle, ben pi, noi
possiamo studiare il meccanismo della loro produzione. Dicendo che noi dobbiamo
ammettere necessariamente la corrispondenza fra il pensiero e le cose, per
queste cose non intendiamo altro che i fenomeni: cio da una parte i nostri
fenomeni interni o subbiettivi, da un'altra parte quelli della natura
esteriore, che si risolvono in sensazioni reali e possibilit di sensazioni. Per
quelli che pensano come Mill e Bain, come per il realismo volgare, le cose non
sono che le presentazioni dei nostri sensi: noi non possiamo affermare altra
realt, al di l della sensazione o del fenomeno, perch da una parte la credenza
spontanea, che fa delle nostre sensazioni delle cose poste fuori di noi e
indipendenti dal soggetto senziente, stata irrevocabilmente distrutta
dalla riflessione scientifica; e d'altra parte le concezioni filosofiche che si
tenta di sostituire a questa credenza spontanea, n c'impongono immediatamente,
com'essa, l'assentimento, n possono essere giustificate per mezzo di "prove
(v. Saggio seguente parte 2^), ben pi, esse sono, come abbiamo detto,
intrinsecamente inintelligibili e contraddittorie. Il postulato della
corrispondenza Tra il pensiero e la realt, cio l'aftermazione supposta in ogni
atto del pensiero, che l'intelligenza pu conoscere e le cose possono essere
conosciute, implica che i fenomeni sono assolutamente intelligibili, e che vi
ha, o piuttosto pu avervi, una coincidenza assoluta fra la conoscenza e
l'oggetto conosciuto (aequatlo rei et intellectas). Cosi, non solo lo
scetticismo propriamente detto, ma anche il criticismo, la dottrina
dell'Inconoscibile e, in generale, tutte le forme dell'agnosticismo
contemporaneo, sono in contraddizione r con questo postulato. Il criticismo
perch a parte i limiti che il noumeno oppone alla nostra conoscenza il
postulato suppone al temjxD stesso l'opposizione e la coincidenza tra la
conoscenza e la cosa conosciuta. Per Kant la cosa conosciuta non che il
i)rodotto del nostro pensiero; Fordine con cui le cose ci appariscono non
in esse, ma in noi. I neo-kantiani che abbandonano la cosa in s, arrivano
necessariamente alla conseguenza die l'oggetto non esiste assolutamente e per
s, ma relativamente al soggetto conoscente. Cosi il criticismo la
negazione della dualit della conoscenza e dell'oggetto conosciuto,
dell'indipendenza del secondo dalla prima. In Potrebbe sembrare che la dottrina
di Mill e d Rain sul mondo esteriore implica anch'essa la negazione della
diudit della conos^^enza e della cosa conosciuta e della indipendenza di questa
da (pit'lla: ma mettendosi al punto di vista del sistema, si vedr clie
non cosi. Le cose, cio le presentazioni dei nostri sensi, non sono
(ertamente, in luesto sistema, indipendenti dol soggetto senziente, ma esse
sono indipendenti dal soggetto conoscente; una presentazione dei nostri sensi,
una sensazione, non una conoscenza, ma l'oggetto conosciuto; la
conoscenza incomincia l dove incomincin la rappresentazione, il giudizio, ci
che suscettibile di verit o di falsit. La proposizione che non pu esservi
verit o falsit (e quindi nemmeno conoscenza; nella sensozione, si trova del
resto generalmente ammessa, a cominciare dAristotile. Tuttavia secondo la
dottrina comune che considera la sensazione come la rappresentazione di un
oggetto esteriore distinto da essa, potrebbe avere ancora un senso il dire che
la sensazione una conoscenza: ma nella dottrina di Mill e di Hoin non
potrel)be avere alcun senso, perch in essa non solo, come nel realismo
popolare, la sensazione s'identifica con la cosa, ma non vi ha altra rosa che
la sensazione stessa. Ora ])er questa dottrina le cose, cio le presentazioni
dei nostri sensi, i fenomeni, sono indipendenti dal soggetto conoscente, ed
hanno un'esistenza assoluta, in quanto l'ordine con cui essi avvengono qualche
cosa di reale e di (\ssoluto; non una foi-ma del nostro ]>ensiero come
per Kant, ma esiste indil>endent('mcnte da ogni rapporto con un soggetto
conoscente. (Gonfr. e. V, la nota al 0). m7 quanto alla dottrina
dell'inconoscibile in se stessa, indiI)endentemente dalla sua alleanza con le
dottrine kantiane, parr forse esorbitante l'asserzione che essa contraddice
pure al postulato necessario dell'intelligenza; perch, si dir, affermare che la
nostra conoscenza limitata, non invalidare il valore reale di
questa conoscenza. Ed vero: cosi quelli che pensano come Mill e Bain, non
negano che, al di l dei fenomeni, possa esservi qualche cosa che sfugge
assolutamente alla nostra conoscenza. Ma quelli che ammettono che la realt che
noi conosciamo, il fenomeno, non che la semplice apparenza d'una realt
sconosciuta, invalidano necessariamente il valore reale diquesta conoscenza.
Perch intatti essi trovano necessaria la supposizione di questa realt
sconosciuta che serva di fondamento ai fenomeni? Perch, secondo loro, la realt fenomenale
inintelligibile, e ci mostra per questa sua inintelligibilit che essa non
una vera realt, ma una semplice apparenza; perch le idee ultime della scienza
sono contraddittorie, e noi ci troviamo di fronte a delle alternative d'inconcepibilit
in ciascuna delle concezioni fondamentali che cerchiamo di formarci; perch, in
una parola,, la nostra non una conoscenza, ma un simulacro (U conoscenza
(V. Spencer Primi princ. e. 2*^ e:>, e DuHoys Reymond / limiti della
filosofa naturale nella Rev. scienti/:). Si replicher tuttavia che queste
asserzioni dei fautori della dottrina dell'Inconoscibile non sono essenziali
alla dottrina stessa ; che si pu ammettere che lo spirito umano pu formarsi una
concezione perfettamente chiara e coerente della realt fenomenale, tanto nelle
sue parti quanto nella sua totalit, e che anche in questo caso nondimeno il
bisogno di oltrepassare questa realt sareljbe legittimo, perch una conoscenza
assoluta delle cose implica la conoscenza dell'essenza, e il fenomeno non
l'essenza ('non l'essenza, perch la percezione sensibile non ci d la
realt assoluta, ^ cio ogg(3ttiva, e perch i legami tra i fenomeni non sono
(Ielle vere causazioni, cio efficienti, ma delle semplici uniformit di
sequenza). Certamente, in quest'ipotesi, limitare la conoscenza non sarebbe
invalidarla; se non che, non si avrebbe, allora, alcuna ragione di limito re la
conoscenza, perch non si avrebbe alcuna ragione di affermare un'essenza al di l
del fenomeno. L'intelliresso sotto un'altra forma Una cosa che oggetto di
prova e non di conoscenza immediata, non pu essere stabilita che per una
deduzione (sillogismo) fondata sovra un'induzione antecedente. Questa induzione
antecedente una proposizione generale, che abbraccia in una stessa
formula tanto le cose dell'esperienza passata clie costituiscono il punto d
partenza dell'induzione, (luaiito le cose che ne costituiscono il punto
d'arrivo, tra le altre quella che l'oggetto della deduzione susseguente.
Cosi la cosa dedotta deve essere dello stesso genere che le cose che servono di
punto di [mrtenza aU' induzione antecedente: ma queste non sono che fenomeni ;
dunque anche (|uella non pu essere che un fenomeno. essa non potrebbe nemmeno
essere conosciuta d'una maniera intuitiva 0 dedotta a priori, perch, come
abbiamo mostrato, la realt, l'esistenza, non pu essere l'oggetto di una
conoscenza a priori. Noi vediamo dunque che mostrare l'impossibilit di ogni
conoscenza a priori sul reale non , come avrebbe potuto credersi, mortificare
le aspirazioni pi alte dell'intelligenza, , al contrario, giustificarle. Perch,
da un canto, quest'impossibilit implica che non vi ha alcuna ragione che ci
forzi di oltrepassare il conoscibile ; e dall' altro canto, che esista o no un'
altra realt, nei limiti della nostra, cio della fenomenale, noi dobbiamo
ammettere che la nostra conoscenza, quella che le facolt umane possono
attingere, completa ed assoluta Nei fenomeni, che sono le sole cose di
cui possiamo affermare l'esistenza, non vi altro a conoscere che l'ordine
regolare con cui essi si presentano, le loro sequenze costantie questa la
sola causalit che abbiamo il dritto di ammettere; ora noi possiamo conoscere
queste sequenze e quest'ordine; dunque la conoscenza umana , virtualmente,
illimitata. Un empirismo incompleto, inconseguente, rinchiude in limiti stretti
l'intelhgenza; ma il vero empirismo, l'empirismo rigoroso, assoluto, rovescia
questi limiti, perch non riconosce niente al di l dell'esperienza. Dicendo che
un' esistenza trascendente non pu essere dedotta a priori, noi contempliamo
anche, e principalmente, Tipotesi che questa esistenza s'inferisca dalla
empirica, ma per un'inferenza d natura non induttiva, cio in virt d' una
connessione evidente per se stessa o dimostrabile, che vi sia tra la prima e la
seconda. Una tale connessione sarebbe una conoscenza a priori;: e, siccome
questa conoscenza avrebbe per oggetto r esistenza, e non dei rapporti
comparativi, cosi la sua impossibilit una conseguenza necessaria dei
risultati a cui siamo pervenuti sui limiti l'oggetto della conoscenza a
priori. . IZ>f anima dalle realt noi obbiettiamo non si pu concepire una 0
pi note mentale pan. 9-' 33 21 1 25e26Cocke pi stesso y.nche esteso, Ci
conviene CAR. II. fenmenoo di primitivo d'irreduttibile sostanze:
dell'esperienza ile la continuit pervezioni successive senza siserva
agnoticismo. '^\) 1. Jl ii73 che risulla non involti; ancora tutte altre
(v. in seguito i^ 20-20) l'unita si.^tematica 11 sillogismo: fondato
iucorrenza le leggi dell'intendimento pen. il 11 9 dall'intuizione empirica non
pu, spiegarsi iStor. del materiale ipotesi metafisica si propone in circostanza
date che essi vi corrispondano sicch esse GAP. viicircostanza t'ondato
ditfeuza GAP. IX. 31 Bench 32-33 estensione figura, 32 in favore) CORRIG De
anima, Z, 5; delle realt noi obbiettiviamo si pu percepire una 0 pi altre note
mortale Locke) pi spesso anche esteso. Ci avviene di primitivo e
d'irriduttibile sostanze dell'esperienza U) Che la continuit percezioni
successive senza riserva agnosticismo che risulta e non involte ancora tutte le
altre (V. in seguito 26-23) l'uuit sistematica 11 sillogismo fondato
incoerenza i concetti puri e le funzioni dell'intuizione empirica pu spiegarsi
Stor. del material. in circostanze date che esse vi corrispondano sinch esse
circonferenza fondata differenza " Bench estensione, figura, in favore
Sono stati omessi molti altri errori, che il lettore aor notato e corretto
facilmente da se stesso. Errata L'ipotesi dei concetti 3 Glassazione dei
giudizi 93 Giudizi a priori e giudzi a posteriori, Dottrina analitica dei
giudizi a priori Dottrina di Kant sui giudizii sintetici a priori Esame delle
proposizioni matematiche e di altre classi meno importanti di proposizioni a
priori 347 Dottrina d>' *. I '%' " F n,w,357 ,1 J*rti?iW pt 1 ^^
ffe TiSivl-4-. ^'.r f ^ m m* \.'-l ut the riti xit %\ixv ^0vh 4 1 n Vi ^'^
tttctt itttcnttituoit'sltr -il f :l i Pi \ SOLLA KOeiA OELLA CONOSCENZA
FILOSOFIA IIELLI MmmA T-^l^ ir-l^l jf^ ^~^n^^ll'^|IIIMI' PALERMO Remo Sandron
Il,nI I LA CAUSA EFFICIENTE Tomo Peimo O CD O (\vrsE K3i]Min(^iii: i:
c^vrsi::Mi:TAi::MPP.n('iii v^ ('i mi lunno clic {jn'iidc un !})i() pei un
tcloscopio: c^Ii credi' di scmh'ui'It ;ii di fuori e coiisjuTa a coiidi lui
d(\i!,ii ,i;,\L'(*tli inlcrcssantissiuii teii)[)laili tutta la sua attcn/ioiu'.
Su})i)(>niaiuai'ticolare a be . (^^iieste parole deirrnitore della
S7or/f/ ponupaiisce qnest'al di l dei ienonieni. che roi,\L"etto ni
del mondo nh1ietti\'o, si dati dell' espeiienza. Tuttavia. siccome \v
im])i-essioni obbiettive da cui deiivano (pU'sti concetti sono comuni u
ecessaiiamente ad oiini uonn). e non si ])n noi a\'erl( se si i^narda il
nn)inlo dal ]ninto di vista iri cni 1* nomo collocato. noi jjossiamo
attribnire la loi'o origine nnicanHMite al fattore siilihicffiro. e
considerarli come dei ])i'odotti inevitabili, fatali. Iella nostra
organizzazione intellettnale. Non solo i concetti fondamentali della metalisica
sono j)ro. TiittaNia noi non tardiamo ad accorgerci che \i ha in tutte le
e])oche. nella stona Iella metalisica. nn ceito numero di concezioni
determinate, o almeno di tembnize o di tipi, di cni i diversi sistemi non sono
che delle nnxliticazioni particolari V ( lell e combinazioni: sembra i he lo
spirito nmano nella ricerca tilosoiica non abbia che il potere di sceuiiere. di
|>i-io shiiicio: ma la pt'sta cli'ci]! sciiiio, e ])vv consc.mu'iixa, il
caniniiiio eli" c.uli ])('rc()n'(', iioii sono stati ti-acciati (la
lui. 1/ iiivciizioiic nu'tatisica r cos circo scritta tataliiu'iitc
dentro liniiti certi dalla natura stessa e dalle disposi/ioni intiiie della
nostra intelli.i;('n/a: nella struttura dello spirito umano (du' sono
se;;nate le tracce ])rescritte anticipatamente allo slancio del meta fisico, e
(Toetlie ha detto una ]n-otonda verit, (piando Ila para.uonato il metalisico a
un animale, cui uno svilito maliiino costringe ad ^a^uirarsi in un cerchio
fatale. Il meto(h) che noi cercheremo di seiiuire nella nostra icerca
consistei' essenzialmente in una i^'enerali//azione ])ro.u"essiva. Noi
i'idurr'nio tutti i concetti nu'talisici che ci ])resenta la stoiia a un certo
numero di toinie o tipi costanti e .^emM-ali, e ([ueste ad altre pili ^eneiali
ancora: ])oi mostrerinno couc (pieste t'ornu' o ti])i generali di metahsica
sono dei^li sviluppi o delle api)lieazioni ditterenti di (vrti coni'etti
fondamentali comuni ad o,uni metatisica o almeno alla ])iii parte dei sistenn
metatsici ; intine dedurremo (piesti concetti fondamentali da una t(Mi(h'nza
naturale e pressoch(' irresistibile della nostra intelliii'eiiza, dimostrata
dai fatti ])iii ovvii e spiei^ahile facilmente per le IviXXi conosciute dello
spirito. (,>iiesti concetti fondamentali comuni ai diversi sistemi
nu'tatsici e la tendenza sp(uitanea della nostra iiitelliucnza (hi cui essi
derivano, i)oss()no considerarsi come la Hciafixicfi indurale dello
s[)ii"ito umano, di cui la metatisica dei tilosoti (' uno svilup])o in uno
o in un altro senso determinato. L '1 i ricerca che noi ci pro[>oniamo na
])er noi un h doi)i>io intei'esse. L'uno al juinto di vista della psicolo])o
dello spirito umano. Oi'a cpiest' importanza aumenta, se si ammette, come noi
crediamo, ch'essa (' un fenonu'uo permanente del nostro sj)irito, il
])i'0(lotto inevitabile di una tendenza naturale, cheta ])arte della
costituzione stessa della nostra intelli,^enza. Ma la nostra ricerca ha anche e
sovratutto un'interesse teoiico, al juinto di vista Iella teoria della
conoscenza. Se si mostrer che i concetti metatsici sono il ])rodott^ di una
tendenza ])uramente suhhiettiva, (' evidente che (pn^sti concetti non
])otraniio ])iii pretendere ad alcun valore obbiettivo. Come se si mostrer che
una percezione dei sensi (' ]>rod()tta da cause subbiettive, da
un'alterazione deL^ii or.i;ani do\ uta a stiuoli imramente interni, si prover
al tem^x stesso il carattere subbiettivo di (piesta ])ercezi(me, e saia \i\no
di supporre d(\uli o,usiti\ismo, se non si sa che cosa (' metalisica, e vice
versa: sono due contiari senza medio, di cui l'atfeiniazione o la negazione
dell'uno ('^ la nei^azione o 1* aifermazione dell' altio. Ora (' una rei^ola della
lo.^ica che (piando si detinisce un conc(4to, si detinisca simultaneamente il
concetto contrario , ci(') che i tilo>soti antichi formulavano col
])rincij>io che iI(( c k sricfCd dei ((tnfrari princi[>io perfettamente
esatto se si tratta di contrari senza medio. Conu sarebbe j)ossibile di a\cr(^
V. hn'u Lof/ica. [ H r i avere una coscienza ciijra del sisteua e d.el metodo
che e.Lli [)rofessa, ma ditticile che vi si atten.i;a strettamente e
coerentemente. l la conseguenza uv\ pensiero, conu' nella condotta. )er 1 non
\)\U) seuui'e ciie dall' ;i])plicazione costante di ])rincipii n'enerali, e non
da un concorso iortuito svilujipo spontaneo, senza previsione e, per
oniamo: [K'rch oltrepassiamo V esjK'rienza? quale r orii;iie della
metailsica e delle sue diverse torme? La dottrina della limitazione necessai'ia
tlella ostra facolt di conoscere divenuta da .^ran temp n un lU( iie
niente di pi semplice che la soluzione del ])roblcma che noi ci pr(qoniamo: non
sembra intatti naturale che lo spirito umano, prima che l'esperienza dei
proprii insuccessi ili facesse actprisrare la coscienza dei limiti iiu'vitabili
di'lla sua conoscenza, si sia accanito alla ricerca di qiie/ ste essenze e di
({ueste ca.use .misteriose delle cose. da cui dipendono i lenomeni e ixVi
riletti che V esperienza ^li rivela? Se non che la supposizione irit(K e cos,
lunu' che (piesta su[)[>osiziom' p(ss i dare una soluzione al nostro
problema, al contrario c detto, naturale e pressoch irresistibile. La
nu^tatisica., \\ quanto ha per ou",i;"etto la comscenza della natura.
voi!i,'e jn'incipaiimnite su due quilu. stioni. latino :i l )i'in !il l
)i';> ibrmnlai'si col vesv) :'!:i!-ei {']\v o la spieLi,azione dei lenomeni
che lo ciiTonilano: la scienza .uli apprende i rapporti costanti iVji paesti
(muneni. ma ci non i^li d ancorji questo j)erch o questa s[>ii\iiazione
circoli domandava. L (pu'sto perch queste cause che la scienza non ]>u
da]-e. '' as]>lra iinzitutto a conoscere !a metafisica : ci che il
j>osi( ivismo, m-lla sua l'orma pili ordinaria, dichiara anzitutto
inconoscibile. Ma. specialmente nella t!enli oi;\uetti materiali non sono elie
reIjitive ai m>stri sensi. che e(sa sono questi o,uu(*tti materiali in se
stessi, cio indipendentemente dalle nostre sensazioni I a [)iu i)ai te d ei
concetti metatisici. il cui ou^ctto non la conoscenza deH. pt'i' ruesta
livisione non rocesso della loro [)roluzione. In.i'atti la tendenza metalisica
niticat(> in cui (piesta parola si pi-ende nelle scienze positixc,
stata lucidamente (\sposta nella Loi;ira di St. Mill. (I. ili. e. \ ): in
([uesto senso, la causazione si (h^Hnisce: ii i'((i/jK>rf() inrdriahlc d
scqucizn. 1 fenomeni si succedom secomlo le.u.ui inviolahili: certi fatti
sui-cedono e succtMhnanno senijire a certi altri fatti, l/antecedente
imariabile chiamato la c(()(sn: il consci uente invariahile
chiamato V elcilo: e la niversalit re s(\u'uito dall' avvenimento del fenomeno.
La causa la somma delie condizioni. i)ositive v nei;ative, 1 )rese
insieme, i 1 totale delle contingenze di o.uiii natura., essendo realizzate
conseuiu*nte {V eifelto) st\uue invarialimente. (,)uantun(pie, nel
lin-ua^i;\uio pi ccnnune, si scelpi \)vv il solito (pialcuna di (pieste
condizioni. di (piesti antecedenti dvW api>arizione del fenomeno. e hi ;i
decori co 1 nome di causa, innidimeno alla totalit di (juest(^
condizioni, il cui concorso (' il vero antecedente invariabilmente se^uuito dal
fenomeno, che conviene con })ro[ni(^t il nome di causa del fenomeno. (^)uando
(hdiniamo la causa (runa cosa: d* antecedente al siunito del quale ({Uesta cosa
accade invaria>ilinente (pieste espressioni non iMpiivali^ono a:
l'anteeedente al st^uuito del (piale (pu-sta cosa (' accaduta invariabilmente
neiresperienza ])assata . Perclu a (piesta 10 n m ultima tonila della dctiuizioiu'
l)ir/iiu' ]>H volte mossa roi (che al toml() (,areM)e applicabile V
ol>itro la dottrina di Iliitie la vera tlottniia ( Iella eausa) elie a
piesto conto la notte sarpoito di eauazione tia d\w tenomeni Uisouiia elle la
loio scijuenza sia a ziona nelle, nello stesso tem})o eUe nivana l>il.
nieoiK liIc. La eansa d/un fenomeno pu} ( lunciue essere * r cui onesto si
trova a.iia portata Iella luce del sole ()nni alila condizione ( superllua. e
senza cpieste co n dizioni il 'jiorno non avrebbe luo.^o. Non ' dunnue la notte
causa dei uiorno. ma la riunioiH' di pieste com lizioni: percue e la
riunione di ilz'nnH((' del la nott , r antecedente invanalule e ///co bill
giorno. St. Min a'4-uiun.!L!:e ( Ile Pantecedeiite che non invana cu le
che c/>//f//'://>////////c///c, e io che non sar se,i;uito dal
consemiente se non a enniore seunito da un altro tatto. ;e r esjx'rienza
generale ci a])preiu ile ci 1 esso j)o trebl )e non esserne sem])r seguito, o
se Tesi jcrieiiza ite ssa e tale ch'essa lascia un posto alla jM>ssibilit
che i casi 1 conosciuti non ra]>presentano torse esatramente tutti i casi
])ossibiM, r antecedente n/// (jn ururhtbili' mm ]>ri\so ])er la
causa; e perch? ])erc]i noi n.am(^ tra la causa e 1" eifetto non
dnn(|ue . nelle scienze ]ositive. clic un rajijHuto nnitbiue o iinal'iabih' di
successione: A la causa di 1), \uol dire che H \ iene unitbrmemente o
invarial)ilmente dorso di A. A ]>rima. I> (h>])o, ecco
tutto. Dopo di A (\sisre costantement'.' \\. (iuantiinque mm sia vero uiiualmente
che prima di i> esista costantemente A. ]ierch uno stesso fenomeno non
dovuto sempre alle stesse cause. Ma ])oich runa o .'altra di un ci'rto numero
definito di cause de\'e esistere percli un certo feninueno \\ esista, noi
possiamo esprimej-e la lei'.ue di causalit di . roiiiju'to pi elevato della
scienza consiste a scoprire (pieste nnifoi'init inva'ial)ili o lei;i;i natnradi
nella successione dei fenomeni. Fra le h\u".ui naturali della scipienza
(hi fenomeni sono le ])in generali, (pielle a cui s})esso viene limitata
l'applicazione i\v\ nome di v( lazi (n r:i V rauo recinroraiiiente con una
tor/a che e m raiiioue i 11versa del ipiadato d( Ila loro distanza. Il
noviuuMito dei piani ti ain stesso. continnerel>l)i> a muoversi in linea
retta con una prestezza uniforme. Alla ])roduzione di ((Uesto tenomeno
concoireid; delle cause distinte, esso si s'pie^a dererminamio le:;ne un
proiettile, a.^isse sola, il ]>ianeta sca])>( rel>i>e ner la
tani;"ente: ( lalla composizioiu' u: queste ( \nv forze diifcrenti (j)'r
non piii'are di altri eleaienti clic nel fatto i-endono la s[)ieu:iZone pili
complicata) risulta il movimento del pianeta, conformemente alla le.!4-.i;(*
j^cneraU^ della composizione delle forze. Ma oerclii' ^ i ia un'attrazione
reciproca tra i cor^ji, t'orza elle in ragione inversa del is(iri((: a
priori. t)iuttosto che un 13 movimento di (piesta st)ec4\ (pialsiasi altro
avvenimento avrehhe sembrato u;i.ualmente ]>otenu' seguire: il non
can-,i;iamento nello stnto dei cori)i, a priori, sembrerebbe anzi pi
]>lausibile else il loro movinumto di attiazione. La j)arola xple^j^tzoiv ha
dumpu', nelle scienze ])(>sitive. un siputicato tutto ])articoiare: nel
senso pi ordinano (iella ilelli ])aroia. xjnci/arc una cosa vuol dire tar
compren(ier( 1 di fa ih la ragione dell'esistenza di (piesta cosa, rendere
conto del perch(' la cosa sia necessariamente cos e non altrimenti, e cosi
.'^picf/firc un fenomeno [>er le sue causer noi un carattere misterioso: ('
sotto (piesto as[)etto che si [)resentauo tutti i fatti ultimi che sono la
spiei;azione de.i;li altri fatti. Una sensazione si lU'oduce nel nostro
s])irito al s(\i;uito (leira{)plicazione di uno stimolo esteriore a^li ori^jini
esterni dei nostri sensi: spiegare il fatto sarebbe per la scienza sco[)rire
tutti ;rintermediari fra i due fenomeni estremi, Papplicazione dello stimolo
esteiiore e la sensazione; e mostrare come in (piesta serie di fenomeni ciascun
cons(\ji,'uente v le.lAato al suo autece(h'nte da (pialche uniformit,ieuerale
di se(pienza o le;;L!.e di causaziime. Fra (pu'ste uniformit pi .ucnerali di
se(iuenza, in cui deve risolversi il fatto, ve ne ha una (die
c(Uisiderata couu' il mistero i)er eccellenza: (' (piella che le.ua Tultimo
antecedente tisico col fatto |)sichico, cio con la sensazione. Come un
caui>iamento materiale (verisimilimnite un movimento molecolare) incerte
cellule della sostanza nervosa produce una sensazione o un pensiero ? La
i)roduzi(nu' d(n f(numieni ])sichici da certi feuoIl m U % lU'in hsici, i' \ ]4
ict'vcrsa qiu'la di (-(MtitV' iioiiu-iii tisici ( lai IVuomciii psicliici,
sniibra un fatto cosi incoini>rciis]i>iic, ]w tra i (lue ordini di
triioiiicni vi ia tante, ma non un rappoito di cauclic si (* aninusso ( na
concomitanza cos u sazio scicn ne. Non si rHettuto cln una cjuisazione ]
)e la za non che una scpunro in (juesti fatti ultind a tinalmente (piesta
spiepizioiK ne scientilica dei fejline a certi fatti inesplicabili e micui
arriva he consistono le unitormit pili universali della setpienza tra i
tenomeni 1 leuami u'cnei'a li tra le cause e uii etfetti. Cos la
spie.uascientilica non s( )( Idisfa il bisouno clic lia il nostro s])iriro di
una spieuazione: i le.^ami osservabili tra le causi e uli effetti non
soddisfano il desiderio espresso (bd poeta: Fiu'lix mi potiiit 'cruin
coiiiiosccrc cjnissjis li Lun.ui di sembrarci y/cccs'Nv/r/, questi !eiami ci
semDraiio arbitrari: lun.ui di sembrarci evidenti, ci sembrano misteriosi;
lunii,i di send>rarci naturali, ci sembrano, per nsai-e le es])ressioni di
Bacone, strani ed inverisinnli e c(nne altrettanti articoli di 'vdv. Ne
se.i>ue che, al di l ostatati' dalla scieiizr. speriim'Utale, lo spie cause
( dell rito si foina la nozione di un altro genere di cause: sono (jiieste
delle cause tali, tra cui e i Uno ettetti. se esse fossero com )sciute. lo spirito
vedrebbe nn U\uame necessarie una ra-i(iu>ute 15 iL^li eft'etti e non ne
sar(d)bero sem})licemente dei^li antecedenti invariabili, in modo che il lepime
tia la causa e il suo etfetto fosse una cosa naturale ed evidente ]>er se
stessa, e inni un fatto misterioso ed incomprcMisibile, che noi amuH'ttiamo
(piasi mal.^rado la nostra ra.uione e come un articolo di i'viU^ rivelato dalla
es})ei-ienza. vN 4. dopo Ilume che la distinzione fra i due ordini di
caus{' cominci ad ammetteisi esplicitamente da piasi tutti i liosoti. [/analisi
dell'idea di causazi;^etto (li attribnisce dei caratteri che bastami a
distiniiuei-e il concett l; Ili (h'ile supposte causazioni m cui esso si trova
(la ((Ueiio delle causazioni che noi conosciamo. Mentre infatti in ([ueste
ultime caiisazila esjxnienza, nelle ])rine invece noi conosceremmo a priori, s,
in coniiinnzionc, ma non niai in concssionc >. La definizione di Ilnme
della, causa non cone costantemente l'esistenza, ed esse formano, ]er
conseguenza, una specie distinta dalle e se le com)sc(^ssi') un !(\i;ame
naturale e iwcessario. 1/ o^^ctto delle scienze della natuia, dicono (piesti
flosoi, n )n di scoprir/ i Icfffmn nccessdr o le cause ('licicnfi dei
fenomeni, ma le Imo cause /isiclic: cos le scienze tisiclie non possono mai
mettere in luce la causa 'caic (efficiente) di un sol fenomeno della natuia, ma
solo le le.u'.u'i che redolano (piesti fenomeni, per ([ueste [)arole di cause e
di effetti nelle operazioni della natura noi non intendia.mo veramente che dei
s(\i;ni e le cose annunziate da (piesti sei;ni. A. Comte, formulando nettamente
il j)ensiero di (piasi tutti,i;ii uomini di scienza, (' su ((uesta distinzione
che si fon(hi, })er separale le ricerche che sono scii'iitificlie ed
accessibili alla nostra intelligenza, e (jiielle ('he mm 1i;i di successione:
la ]>arola cU(^ scoi)rire tra i fatti alcuna connessione necessaria.
Quantumpie le cose abbiano un legame costante e re'olai"e nel corso
odinario della iiatura, tuttavia siccome (piesto leiLame non ])U() essere riconosciuto
nelle idee stesse, clie non sembrano avere alcuna dipendenza necessaria, noi
non ])ossiaino attribuire la hn-o coniu'ssi(Hie ad altro che alla
deternnnazioiie arbitraria d'un ai^cnte tutto sa.i>.uio che le ha fatte
essere ed a.uire cos per delle vie che (* assolutamente impossibile al nostro
(h'bole intendimento di couipicndere. \' ha in alcune delle nostre i(U'e delle
relazioni e d(u le.uaini che sono cos visibilmente racchiusi nella natura (Udle
iiU'e stesse, che noi non potremmo conce T. IV. Icz. 51. ^* I! }J pire
ciri'ssi' ne i)(ssaiiotere arbitrario clie Vhi\ fatta cos a sua volont o
ravrel)l>e potuto tare altrimenti. Ma la coesione e la continuila delie
purti della materia, la maniera di cui le sensazioni ossiam attribuirle che
alla vobmt arbitraria e al buon piaeiare iscono in virt (runa WiX'^v che
bu'o prescritta, ma che pertanto ci sconosciuta: nel (piai caso
ancorch le cause a-iscano i'e,u(laiiuente e .;1 ettetti ne seguano
costautenu'iite, tuttavia come noi non potremmo sco])rire per le nostre idee le
loro connessioni e le loro dipemU'Uze, noi mui possiamo averne che una
conoscenza sperimentale (la (luale mm , secomh) Locke, una
ccniosceii7AXsvieifiJrii). Da tutto ci r tacile di vedere in (inali tenebre
siamo immersi, e (luanto la conoscenza che possiamo avere di cibbiamo
risolverci ad ionorarle. (l) !SifUU'^ Sftirinl. >nn.. e. IH. ^N -'-^ o
21>. Quaii(h> Locke parla di eause e d' ettetti tra cui non si pim
scoprire alcuna connessione, eorto uniforme fra le cause fmvlc e i loro effetti
coniiinuto con ro])inione che le cause ('(ficicnti sono inacc(\ssibili alla
nostra conosctMiza. Hei'kelev distin,i;ue i;i, coiic ]m) fece Hed, le eause
fisiche e le cause )iU'f(( fisiche. Noi non vediamo nei fenomeni sensibili
alcun pote'(^ o attivit: essi non sono la causa .u'ii uni de^^ii altri ; essi
non hanno tra loro che dei rappoi'ti d se^L'iii a cose sii^niticate, non di
cause ad effetti. (l*riuei}>ii). Hisoona distiiii^uere la fsica e la
metafisica : (piesta rimonta sino alla causa i-eah^,_/';/. v et l'incipiHu: \)vr
le hanno ric(m(h)tte ai principii pi sem])liei, alle le.U'.^i. Le cause sono in
(pu\sto caso le soru'enti della conoscenza, non (h'IT esistenza: la causa d'un
fenomeno (^ la rehizione costante di (piesfo fenomeno ad un altro. La fisica
non attin,ue che ^ii effetti apparenti, le cause seconde ; ma le cause reali,
le cause veramente attive, fanno V oge Motu), La tsica o la nuM-canica scopre
il come delle cose: il perch deve essere domandato alla nu'talisica. fSiris).
In Malebranche la distinzioiu' tra la vera causa 20 21 e la causa oeca.^ionale
corrispoiide tn ideiiteniente della lianiera pi esatta alla nostra distinzione
tra la eausa ettieiente e Tanteeedente invariabile. Causa vera, diee
Malebranehe, una eausa tra la (piale e il suo effetto lo spirito
percepisce un le,i;anie //^rcs'svnv'o . Perci Dio solo una vera causa,
perch vi lia un le.uanie necessario tra la sua volont e 1* esecuzione di
([uesta volont: ma i fenomeni non sono cause,i>'li uni de,i;li altri, perch
lo s])irito non percepisce liai fra loro un h'ifume necessario. L'avvenimento
che noi chiauiiamo causa, non che Toccasioie per cui Dio si determina a
])roduri'e lo avvenimento che noi chiamiamo ue, seccnnlo lui, che i due ordini
di fenomeni non possono essere cause gii uni degli Nie. della cer., 1. VJ.
parte IT, e. III. MoKidol:^2. (8) S(t(/f/i sffll(( hoif di Dio ecc., parte I.
i4. Il; altri, perch una vera causa deve contenere una ragion sufficiente
dell'effetto. Di pi come T^nbnitz nega un'azione reale deiranima sul corpo e
del corpo sull'anima, perch non vede alcuna connessione intelligibile tra le
cause mentali e gli effetti tisici o tra le cause tsiche e gli effetti mentali,
cos ancora egli nega un'azione reah^ dei corpi gli uni sugli altri, perch
neppure tra le cause e gli effetti egualiiH-nte tisici vede una connessi(Mie
intelligibile, cio tale che lo spirito possa scoprire nella causa (pialche cosa
che ])ossa s])iegare l'efiltto. che possa servire a rendere ragione a ])riori
perch (pu^sto efltto ne segua piuttosto che (pialche altro. Ma per ispiegare
(luest'apparenza dell'azione reciproca fra gli esseri, T.eibnitz non trova
soddisfac(mte il sistema delle cause occasionali, il princi])io della rauion
suftciente esigemh), secondo lui. che le affezioni delle cose possano derivarsi
dalla natura delle cose stesse , e per conseguenza che i fenomeni siano
spiegabili i)er la natura e le tVnze che Dio ha dato alle creature. Leibnitz
.{u)n((dr. cica ((sscrt. thcot'. Stdhl. II. Il sistema delle cause
occasicuiali, se esso fosse vero, sarebbe, dice Leibnitz, un miracolo perpetuo.
Alcuni credono che il nnracolo non sia che un'ecccv.ione alle regole o leggi
generali che Dio ha stablite aibitrarianiente. Ma non tutto ci(^ che avvi(Mu^
])ei' leggi generali si fa senza miracolo: se la legge non fondata
in ragi()ni. e non serve a spiegare l'avvenimento per la natuia delle cose,
essa non j)U(> essere eseguita che ])er miracolo . Se Dio avesse
risoluto di far esistere continuamente (puilche avvenimento che fosse poco
conforme con (piesta natura, non ne avrebbe fatto una legge (h'ila natura, ma
avrebbe risoluto di fare un miracolo per])etuo, e di mettervi sempre la mano
egli stesso, per produrre ci(^ che sarchi e al di so]H'a delle forze (Telia
natura. Ya\ ci() clic accadve)>\>e nel sistema delle cause
occasionali, se l'anima e il corpo s'accordassero sempre, senza che la loro
natura, e ci(> che vi si piu) concepire, li portasse a(T accordarsi: cio se
l'automa del corno non lo ])ortasse a fare ci(') che l'anima. >>
ri;L;*'tta dmHjUt' ripott^si di ^Malclnaiic'lic. peiclir questa (list ru,u;mMi
u 1 sia si attivit iu\uii esseri ereati: ma ei;'li (Vacvuole, e se il
seguito iiatui'al' delle ])ereezii"e non ])oti-el)l)e essere eseguita che
])er miracoli continui, non essendo contorme alla natura del movimento dei
cori)i, che porta che un corpo, mosso in linea curva, continua il suo movimento
nella retta tan^icnte, se niente non l'impedisce. Una tale le.u.ue di movimento
circolare non sarebbe dunque naturale, su]q>osto che la natura del c(n-po
tosj;e tale . f///c (>///>/V.c. ili'V itili, ie Uh. (vUa ((nKt^cilhc
ki'U('st(M'h('L('ibnitz(li(-('sulh\(lifterenzatia una le,!e della natura e un
miracolo perpetuo, ho voluto ri])ortarlo perch mi sembra assai pi()[)i'io a far
comiu-endere la differenza tra una causazione efficiente e una sem)liceseio dei
metatisici della causalit efHciente e la (h>ttrina deiLili emi)iristi ])er
cui una causa.zione non altni cosa che una sequenza unifornu'. 1/
opinione, cond)a1tita da Leibnitz, secondo r(ssione della dottrina empirista
sulla causalit: basta di estrarla dal suo in\iluppo teologico, per (ttenere la
dottrina stessa di Min. Invec(% (jUjindo I.eibnitz esige che, perch un fatto
non sia miracoloso, debba essei-vi tia le condizioni del fatto e il fatto
stesso, non sem>iicemente un rap])orto costante, ma anche una conn(\ssione
intelligibile, razionale, egli non fa altra cosa che enuiu;iare il principio
della causalit etHciente. 23 cordo con lui nel neii.are ogni reale azione
recii)roca tra gli esseri; cos non gii resta altra ipoti^sichedi lasciare alle
cose un'attivit s(Mn])licemente interna, immaiuMite. Ogni sostanza semplice ha
dumpu' in se stessa la causa e la ragione dei ])ropri cangianuMiti: essa
un che d'animato, o, ])ifi pro])riamente, un'anima; ma Dio ha costituito le
sostanze in maniera tah* che, ciascuna s\ ilnj)pandosi indipendentemente dalle
altre, e tirando unicanuMite dal pi'(>pi*io fondo tutto ci che le accade, vi
ha nondimeno tra le modificazioni delle diverse sostanze una corrispondenza o
un'armonia, che ])roduce Fappai'enza. ma soltnil') l'apparenza, di inrazione
reci])roca tra le cose. \'i hanno dinujiie anche ])ei' Leibnitz due spcM-ie di
causazini: le causazioni Jisic/tc (ci che noi chiamiamo azione di una cosa su
di u'altra). in cui non vi ha tra la causa ^(It(' o effch'i. poste al di l dei
tnonu'ni, in Di* e nelle monadi, (ili stat^i successivi della monade lerivano
intelligibilnuMite dagli stati antecedeiti. hanno in (pu'sti la ragion
sutHciente che li s{iega, che basta a determinare j)erch essi devono i incomprensibile,
vi ha nondisueno tra (piestn Causa sujU'eia e i siuu effetti una connessione
tabnente intelligibile, che da Essa che (piello clic avesse
un'intelligenza sufHciente, df'duirebbe a prioi'i tutti i t'ciMMueni. Ma non
lusoiiU'i credere che In distinzione tra i semplici antecedenti a cui i
fenom;^ni seguono costantemente e le cause efticienti dei fenomeni a])p'iitenga
solt:int(> ai tilosoli che abbiamo ricordato e ad alcuni altri. assano al di
tuori ; lur:iiiultaneamente. e a divenire abili cos a )resaojiv il futuro
secondo il passato. I fenomeni sono delU' ombre, delle apparenze senza realt,
appunto pervhi noi li vediamo se-uirsi e accompa-narsi eostantemente, ma nmi c
vedianu) il percbc; ma nel imnnlo,MU' cose reali (cio delle bU'c). di mi i
tViKUneii -(Mio K ombK, niente non esiste senza un perche; la ra-ione vrde coc
.incute (( pi ()(r(h>no le une (hdle altre se-,.ond(> dei h'-ami
necessari, e la nuMlo,li (MUioseere non vi ia aleuna ra-u)ne i>
Iei;anu' necessario . iv'. !.. r>p> i-i\. {2} V. il cnp. VII di '/c//c,
non sono clie gli antecedenti di secpienze invariabili; fra (lueste cause e i
loro effetti non vi ha un texus, un legame necessario e per se stesso evhU'nte,
non vi ha niente nella natura della causa che possa spiegare la natura
deireftetto. >bi (pu'ste cause supposte, ehe "restano al d l
deiresperieiiza, le cause nwiajisivhe o rifcienti, sono (pialche cosa di pi che
(U-gli antecedenti di secpienze invariabili: tra (lueste cause supposte e i
loro effetti non vi ha una semplice congiunzione, ma mia connessione, un legame
necessario e per se stesso evidente, e una volta conosciute (pieste cause, noi
mm conosceremmo sempliceim'iite che un tale effetto ne segue, ma
ciunprenderemmo y>crc//c un tale effetto, ])iuttosto che un altro, derc
seguirne. La differenza tra i metafisici e i positivisti i che i tarimi
pretendono di conoscere delh' cause di (luesto genere, cio(' lueidjisirhc o
efiricnti: ma i secondi le dichiarano inconoscibili, e ammettono che solo le
cause dell'altro genere, le .//x/c//c, cio -li antecedenti invarialuli. sono
accessinli alla nostra Conoscenza. Tuttavia anche i positivisti suppongono, al
di l del genere di cause (die ci rivela 1' esi)erienza, un genere differente di
cause: noi non le cimoseiamo, ma '^r le ronosce^xiwo. uoi percepiremmo il
Ici/awv narssaro tra cpieste cause e i hu'o (>tf(>tti: le secpienze
costanti tra i fenomeni, attualmente misteriose, verrebbero spiegate: mentre
noi mm conoseiaim> attualim-nte se non come \ femmieiii si seguono, noi
conosceremmo alhna perch essi si segmmo cos: mentre noi non vediamo attualmente
gli avvenimenti che in nnifiiHKone . noi b vedremmo allora in cnniexsione.
Quamh) A. Comte dice rhe noi non eonosciamo PcxNcy/c^/ (h'ile cose, (-li
intendedire lo stesso che iser:(t (IHle cose, ic ai>]miito qiK^sta
pjn'ticobnit. che iicn nntnia delle cause tisiclie, la (|iiale
sj>in/l(('irhhe il loro modo d'azioiK' e i loi'o eftetti: ci farebbe
couipreiid(M'e ])ercli le cose acuiscono e patiscoio iutuaineiite Ih 1 modo che
noi costatiamo per res]>erieiiza. Ma .u-m*tto di osservazione. (1ie cosa
jMover dun(iue resistenza di ({ueste cause (fencniirici o ('lcci:^ die cos;i
piover che vi ha altro, nella natuia de.iili esseii ol>'oiettivi, i'he delle
sem])]ici se(pienze invariabili? che vi ha mi )ku(> csscnzidlc d produzUnic
che lare non ancora c: hve ess're sp'citiporto tia piesto A e
piesto 1> deve essere lo stesso *he tutti i rai>])orti .i-i costatati
\)rv la es])erienza tia il tipo di fenomeni A e il ti|)o di f.'uomeni H. lai
femuneno del tipo A la causa (fisica) di un fenomeno del ti])o 1>: noi
abbiamo sperimentati pu'sti due ti])i di fenomeni in pu^sto iai)poi'to di -ausa
e V'^feto: ne concludiamo che, un certo A essendo dato, un certo U er ammettere
resistenza di I>? Noi ]))ssiaino ])ure, inve-e F inferire resistenza di un
fenomem) (h'terminato nella sua sijecie o nel su) .uenere, inferire resistenza
di pialche fn)nieno che lesta indeterminato nella sua natura. (')s, (hit> il
fenomeno A. n)i possiamo inferirne eia esso deve avere una -ausa, senza
letcu-minare piale sia piasta causa. Ma anche in ouest> 'aso il tenomeno
iiiferit), la causa li A. viene identitcat) ai f(Mi(Uiieni deires])M'ienza
]assata. in \ iiT di cui noi fa noi aiuniettere V esistenza di (pialclie
tenomeno cie sia la causa di A? M.M (omc noi abbiamo costatato ])er
resj)erienza che ogni h'iioiii!'!)! lin una causa Jisicd^ cio \\\ antecedente
4I (Ili esso e i conseguente invariabile, abbiamo egualmente costatato che ogni
tenomein ha una cansa uhfisi('((, cio un:i i(Hi(> e un legame ttecesi^drio
1^ No. perch noi non abbiiiMo mai ( onosciuto una causa nictu/isica, uiui causa
efcicHtc o (i(Hi')'((tri('C: un\ vi ha tn!i(ler clu* se l'esperienza non pu
costatare r esistenza di ([Uesto .r che ])osto al di l delr esjHuienza,
essa ci fa conosceic per i linufl della nostra conoscenza: dalla liniiozionc
del conoscibile n(i couli'.dinnio necessariamente che vi ha (jualche c(>sa
che /" inif((, i -enerali elle si rieerl.a -insfainente il titolo ossibile
di dedurli da luineipii iiiii j-vuerali: ma ei prova la liuiitazion.. della
eonoseeliza sperimentale '? Pereli(> (piesta limitazione tosse peiei
pn.vata. bisomierebbe,)rovare prima elle (piesti .-he per noi sono dei
priueipii ultimi, son.. inveee, nella natura delle cose, (pialelie cosi di
ilerivato ; che vi ha .pialclie cosa,li anterior.' perch noi .'i siamo gi
formato un isarioj e non una semplice sequenza invariabile? Noi ammettiamo che
il nostro s})irito si forma naturalmente (pu'sta nozione della causa: ma
possijimo noi amnu'ttere che questa nozione ha un vahre obbiettivo? Se noi
ammettiamo ci, noi lo ammetttM'cim) senza prova, percli non vi ha altia [)rova
che una de(hizione fonihita sovra un'imluzione antecedente; ora (|uesta })rova
in ({uesto caso im[)ossibile. Noi aiunietteremo (hunpie la verit di scono
che Tnouio ha una temhuiza naturale ad assimilare il m egli ha dotato tutti gli
a essenziale di pro(bizi(me, assimilan(h)li, per (pianto (' possibile, agli
atti prodotti dalla volont umana, secondo la nostra ten(h'nza prinunuliale a
riguardare tutti gli esseri quali si siano come viventi (runa vita analoga alla
nostra, e d'altnmde il pi spesso snix'riore, a causa (h'ila hu'o pi grande
energia abituale.... Questa disposizione fcmdamentale talmente esclusiva,
che ruomo non ha potuto veramente rinunziarvi, che cessan(h> di tener (betro
a (pu^ste ricerche inaccessibili, per restringersi alla determinazione delle
leijiii d(M fenomeni, astrazion fatta dalle loro eunae,,. Tuttavia (pu'sta
teiuh'iiza inevitabili della nostra intelligenza verso una filosofia radicahnente
teoh)gica persiste anc(ua, ( si manifesta tutte le volte che noi
vogliamo [lenetrare, a un titolo (inaliiiKiue, sino alla natura iutiiiia dei
tt'uouu^iii, secondo la disposizione oeuerale eie earatterizza neeessarianente
tutte le nostre speculazioni luiinitive. Allorcli anclie o.:> lo spirito
uuano tenta di oltrepassare i limiti inevitalnli della conoscenza, e.ili ricade
involontariamente di nuovo, tosse a ri.iuardo dei fenomeni meno complicati, nel
cerchio primitivo delle sue al)errazi(mi spmitanee, perch e.ii'li riprende uno
scopo ed un punto di ])artenza necessariaU'ute analo;;hi Questa tendenza
natuiale del nostio pensiero, che costituisce po spesso irito. Perch dun(iue la
nostra temlenza ad amiiettere delle cause eth-ienti, al di l de.uii antecedenti
costanti delP osservazione, non sarebbe anch'essa un semplice fatto subbiettivo
f ]K rch in jucsto caso il fatto stesso della credenza sarebbe una ])rova
sufticiente della validit obbiettiva di qm'sta credenza? vN (). Se
Tosservazione ni. T. III. le/>. 10. . T. IV. l( z. 51. 33 nel nostro
spirito) non ch'rivata dalTesperienza. ma una credenza istintiva,
una necessit priiuordiale ed innata del nostro pensiero. Per ora noi non
i)ossiamo dare la soluzione di (jnesta ditlicolt: direuo soltanto che una
ricerca psicoloi;ica sul T idea di causa elciente deve necessarianuMte supporre
che pu'sta idea couu' tutte le altre di. ori,t;in(^ empirica. Aitriiare
cITessa una necessit x>i'ii^ii'diale del pensiero semi)licemente
affermare ch'essa un fatto ines[>licabile, ci che renderebbe la nostra
ricercji i)i'iva di oi'i'-etto. Noi su])poniamo duncpie che essa pu spiegarsi,
ed (|uesta la quistiime che noi ci projxniiamo: (piai 1' or!L;ine
della noziou' di causa eftciente f rese da circostanze straniere alla natura
delle cause ; un inconveniente senza rimedio: non vi ha mezzo di giungere
a una detinizione pi esatta, e noi non potrennno determinare [uesta circostanza
che legale cause a^di ettetti. Non solo noi non aldiamo idea di questa connessione
; noi non sappiamo nemmeno ci che desideriamo di conoscere, quando ci sforziamo
di concei)irla . 8 :54:-jr) l\'siH'ru'i/n (' incapaci' (li -iiistitcaiv si
sviluppa iiondinu'iio aairi'spcriciza, scroiulo W i--i couosciutt' del nostro
spinto? Questa quistioue uou i' che un easo della iislioue venerale che torma
To-uetto di (pu'sto Sa-'oio: perciic' oltrepassiamo T esperienza? perch vi ba
una metaiisica? Noi abbiamo visto intatti che se lo spi-^ rito umano cerca le
vere cause (h'i fenomeni al di la U'i fenomeni stessi, perch non si
eontenta delle se4iuenze invariabili, ma dtunanda (pialche eosa di pi, ^i-io d
che abbiamo (h'tto nel P' paraorafo sulla ricerca dell'ori-ine dei concetti
lietatisiei in nvuerale. Kssa non ha solamente per noi un interesse storico e
psicoh>.uico (per ispiepire i concetti metafisici die ci presenta la stu'ia,
e !a mrta finir nuiundv da cui essi derivano), ma aiche e sovratutto un
interesse dimimatico. Il carattere illusorio (h'IKidea di eausa eftidente
diverr pi evidente, se uoi se;>prireio il meceanismo di
(pu'st"illusi(me. In altri termini, sar allora pi ciunph'tamente
dimostrato du (pu'sta tendenza. naturale aUo spirito umano, (rimma-inare ddle
cause tali e dei teo-ami tra lueste cause e -li effetti che siano (piah-he (mL
di pi che le stMiuenze invariabili eostatate dalla esperienza, non ha alcun
valore obbiettivo; che (piesta apparenza di mistero v\w il nostro siriti trova
naturalnmnte nelle -eneralizzazioni della seienza. mm '\v^ un semplice
fatto psieolooiro. di una sionitlrazioue puramente subbiettiva ; e che
ille-iiittimo di eonchuUune die la emioseenza speriun'utale
uecessariaimude lindtata, e che T ordine fencmienale, eonoseiuto
dall'esperienza, riposa su (pialdie (sistenza ultrafenomenale, die Pesperienza
mm pu conoscere. I/idea di causa eniciente non . vero. Tunica ra-ione per
cui si amnu'tte la linutazioiu' della conoscenza sperinu'ntale e un'esistenza
iiltrafeuiunenale che la limita ; ma i lisultati a cui saremo pervenuti in
(piesta i)rima [)arte, saranno comi)letiiti (hi (pielli a cui ])ei*verrem( ndhi
secomhi. Nel sistema di A. Comte V origine della meta tisica resta in realt
senza s])i esazione. Per metatisica noi non intendiamo ci(') che intende lo
stesso (Vnite, che, come si sa, la distinii'ue (hilla tilosotia teologica, e la
fa consistere essenzialmente nella realizzazione (h^lle astrazioni. Noi
chiamiamo metafisico o^ni modo di pensare differente radicalmente dal positivo,
cio' dalla tilosotia (leires])erienza: la metatisica ('' duncpie ])ei" noi
il i..Miere, di cui la tilosotia teologica e la tihsotia metatisica di Comte
sono delle specie. Cos, dicendo die Comte non s])iea Torioine della metatisica,
noi non vogliamo dire solamente che ei;li non s])i(*i;a ])erdi il metatisico
realizza le asti'azioni, e che neoli^'e altre forme di tilosotia differenti
dalla teologica e non meno caratteristicamente metatisiche che la realizzazione
delle astrazi(>ni sono dei })unti che noi esaminei*emo pi o]>portunamente
altrove ; ma sovratutto che non spiega (juesto fatto dello spirito umano, che ('
la manifestazione \n\\ colpente (h'ila sua tendenza ad oltrei)assare i
femuneni, e che e^li consideia, al tondo, come la base s (U'ila tilosotia
teohnica die della metatisica. La tilosotia nietafisica non (' t)er Comte che
una moditcazione (h'ila tilosotia teologica: per conseguenza anclT essa ('
s])ieata, in ultima analisi, ]>cr (piesto slancio ])riniordiale dello
vS])irito umam, che costituisce la tilosotia teologica, per cui esso
personifica le forze della natura, assiiiiilan(h)le alla volont umana, e cretle
cos di comprendere le cause (/encrftfrici o cfivicnti dei fenomeni, il hu'e
tanlo exsciziffJe (li pr(P(h(:i(>n('. Cos Tautoi'e riduce talvolta i tn*
stati a due, riunemh) in un concetto unici) la tilosotia. 1) VN I teologica e
la metafisica, e distiiile ciitiaiibe per mi carattere comune, clie contrappone
a (piello della tlosota positiva. Il vero spirito -enerale di oiepizimte non
spiega percli Tnomo, animato dair aiibizione di conoscere il m(f
esscn:i((c di produziotte dei fenoiieni, le cause (jenendricl o ejfirivnfi,
crede di pervenire a (piesta conoscenza, prendendo i)er irrincipio della
spuo-azione dei fenomeni del mondo esterii, sottorinduenza di un'educazione
conveniente, iV attaccarci vivamente alla ricerca delle semplici le.u.i'i dei
fenomeni, astrazion fatta dalle loro m/rsr: ma le (pnstioni pi radicalmente
inaccessibili ai nostri mezzi, la na T. Ili. lez. 40. Littr Della filos. posit.
in Fnanm. di,ilos. yjo.v/7., p. 3.5. Coluto V. IV. loz. 51. tuia intima deoli
esseri, Porioine e il fine di tutti i fenomeni, sono precisamente ione,
perche V esperienza sola che ha potuto fornirci hi misura delle nostre
forze ; e se l'uomo non avesse dapprima cominciato per averne una opinione esa
sviata, esse non avrebbero mai potuto ac(juistare tutto lo sviluppodi cui sono
capaci . Cos secondo Comte Tori-ine della fll(sofla teolo.uiea (N
indivettamente, anche (U'ihi filosofia metafisica in (piesta ambizione
che ha rm)mo, nmi sottinnesso alla disciplina delle positive, di voler
conoscere le cause intime e generatrici, le cause efjhientj, dei fenomeni: eoli
cre(h' di ])ervenire a (luesta conoscenza, assimila luh) le forze della natura
alla vohmt umana: e nmi pu(> rinunziaTH' a (piesf assimilazione, se non
rinunziando alla riceri^a delle cause (eftU'knH), si a (piella delle le--i dei
feiionieni, cioc^ delle uniformit di successione. Ma^la causazione che si
mostra neoli atti volontari (U'IPuomo non (' essa stessa che una semplice
unitcuinita -di se(iuenza; nmi si vede in (piesti atti P azione della causa intima
o emciente: come dumpie pim nascere r illusione che. trasportando (jucsta
seipieiiza di fen(>meiii, che noi chiamiamo azione vohmtaria, in tutto d
(hmiinio della natura, noi comprendiamo cos, non pi le semplici leiii^i o
rapporti costanti di successione dei feiionu^ni, ma ia loro natura intima e le
loro van^e. il loro modo essenziale di produzione? Perch (piesto rapporto
costante di se(nienza che noi vediamo nelP azione volontaria, ci sembra, non un
semplice rapporto costante V. I, Ir/. 1. Vedi pure i liio-ii citjiti nel
])ara;i'af( p^'f*" .cedente, verso In line. i 3S 39 spic^a A. Coni te. K
evich'ute che se, trasteien(h> la nostra attivit volontaiia nelle forze
viamo di conoscere le cause eftcienti o il modo essenziale di proibizione lei
fenomein, se noi ])renbamo natuialmente la volont pei' una causa etticicMite,
quest'eri'ore deve essei'e fondato sulla natura stessa delle (bu* nozioni. che
noi ('OfoinUaio runa con l'altia. L'azione volontaria leve somigliare, pi che
tutte le altre unifoiinit di sequenze che ossci'viamo nei fenomcnj. al ti])o er
cui il mo(h) essenziale di ])roduzione o Tazione (Udla causa etticiente si
distininue dal sem])lice ia])])oito invariabile (b successione, deve trovarsi,
almeno aj)pai-entemente, nelTazione volontaria, t>erch(' l'uomo ])ossa
ca(h'i"e naturalmente nell'errore di cnMlere che la volont e una causa
etticiente, e che nell'azione volontaria vi ha, non un semj)lice rapt)orto
unifoi'ne' di successione, ma un mo(h> essenziale (b pro(bizione dei
fenomeni. i| His()"iia (IniKinc clic l;i volouh'i iilihin i\ii':iilMtM
iiatiUiile col tipo che noi ci formiamo della causa efiiciente: e lo stesso
(h've dirsi, non solo della volont, ma di tutto ci^) che i metaiisici hanno
immaginato per dare una sod(bsfazione al loro biso;no di conoscere le cause
efjieienii. Fra tutte pieste forme sotto cui la metafisica si (' rappresentata
la causa efiiciente, com])resa la nozione che A. Comte e i ])ositivisti si
formano di (piesta causa senza la (piale nozione non potrebbero distin.u'uere
le eanse dai semplici juitecedenti di siMpumze invariabili -. deve esseivi una
nota comune: (' di (piesta che noi cerchiauio di renderci conto. L'ouuetto di
(juesta i)rima pai'te (' dumiue di spie.i;arci (pu'sta t(Mid(Miza naturale del
nostro spirito, che ci spin-v ad imma>inare, ai di l delle cause empiiiche
(condizioni dei fenonunii), delle (-ause e/'/ieirnfi v \u\ modo essenzi(fle di
produzione delle cose, che (pialche cosa di diverso (hilU^ semplici
uniformit di seciuenza che si j)ossono oss(M-vare tra fenomeni. Noi ci
spie-hereio (juesta tendenza, ricontbic(Midola a (|ualche fatto ordinario della
nostra esperienza psicolo.^ica. e pei (piesto fatto inter])reteremo le
differenti forme sotto cui la nozione di causa efiiciente (' apparsa nella
storia del pensiero umano, in altri termini, le dilferenti concezioni
metatsiclie a cui lo sprito umano ( i)ervenuto nella ricerca (h'ile cause
efiicienti. Noi prenderemo ]>er punto (H partenza le nozioni pi abituali e
])i sjxmtanee che lo spirito umano si ('^ formato su (jiieste cause, e
.guardando al hn-o punto di contatto, al carattere comune in cui esse si
somi.;;liano, ridurremo il fatto che si 1 ratta i\\ s])ieo universale , e ^^
trasportare involontariamente il sentimento intimo della propria namra air
universale spiegazione radicale di tutti i fenomeni , certamente quella
che ha creato le prime nozioni metafsiche dello spirito umano, applicato alla
ricerca delle cause. Questa tendenza quella che colpisce pi
immediatamente il pensatore, quando la sua attenzione si rivolge verso
quest'ordine di fatti: cos prima di Comte essa era stata gi segnalata da Hume ,
da Reid e da tanti altri pensatori s ostili che favorevoli alle concezioni
teologiche. Molti osservatori hanno richiamato l'attenzione su questo fatto,
che i selvaggi suppongono un' anima o uno spirito da Storia iHftHraU' dvUa
iclif/ionr . V. S((!/{/i Sdlc facoll alfvc. Sa.u.uio 1 e. II e Sa-.ni(> per
tutto ove vedono un iiiovinu^.nto o (junlelie altro tcnoineno che non possono
spiegare. Cosi g"li autori che pi recentemente lianno fatto un
oggetto del loro studio delle origini della civilt, hanno considerato V
animisnio delle religioni primitive conie una filosofia naturale, grossolana ed
infantile, fondata su questa disposizione dello spirito dell'uomo primitivo.
L'animismo, dic^' Tylor, sviluppandosi in una dottrina d'esseri spirituali,
animanti e controllanti l'universo in tutte le sue parti, non insomma che
una teoria delle cause personali, che si trasforma in una filosofia generale
dell'uomo e della natura. L'uomo primitivo ha modell.ito gli esseri spirituali
sull'idea che s' fatta della sua anima propria, e in secondo luogo egli
si proposto di spiegane i fenomeni naturali, partendo da questo
princii)io SI ingenuo ed infantile che la natura realmente animata in
tutte le sue parti. Se, come dice ilpoeta, colui veramente felice, (^ui
ijotiiit rcrmii coiik^scc-I'c caiissas. (Il (M" ntiwhuno. tcniiiih'. in
iM)rtiiuauMMitc (lui Tylor. s'intende \x\ crcMlen/ii che nmniette elie
l'aninui lina sostanza distinta stretta per poter comi>ren(U're
le rimitivo. e anche per la ]ni parte dei tlosoti antichi . l'anima dell'iunno
e tutti -li altri esseri che si concei>iscono sul ti]M. di essa, non ( una
sostanza s^nrituale (nel senso mod*enti a cui si asse1(). vvv. rraduz. rr:nipano
se non sulla ])ase di (jualche concezione pi spontanea e naturale. Tna foresta,
una momag'na, una fonte, un sasso, ecc. non verranno immediatamente
personihcati: essi saranno prima considerati come un'al)itazione di (jualche
spirito, ovvero avranno qualche altra relazione col culto deg'li s})iriti, e il
culto che primitivamente non viene indirizzato se non allo spirito, finisce
])er riportarsi sullo stesso og'getto TTiateriale. La ])i(4ra che serve di
altare per il sacrifizio, finisce per attirare l'adorazione, che in principio
non rivolta che allo s|)irito o alla divinit a cui si sacritica; le
offerte date al mare per propiziarsi il dio del mare finiscono per considerarsi
come dovute a questo stesso elemento: il fuoco che viene impiegato nel sacrifizio
o le preghiere (hdla litiirii'ia diventano degli 02'2'^*tt' di culto e degli
esseri divini, cos bene che la immagine del dio finisce ])er confond(rsi, nelT
adorazione del credente, col dio stesso di cui 1' immagine. T
malintesi occasionati dal linguaggio avranno pure, come vuole Spencer.
apportato il loro contributo alla massa generale delle concezioni feticiste. K
dunque verisimile che in molti casi la divinizazzione degli oggetti naturali
presupponga il culto di esseri spirituali distinti dalla materia di cui si pu
ammettere con Spencer che la prima id(^a stata quella delT anima delTuomo
. Ci per non impedisce che in altri casi sia potuto av'venire il processo
contrario, cio che il culto di divinit spirituali, separate da ogni oggetto
della natura, si sia svolto da un culto precedente di oggetti naturali, animati
e divinizzati. Il negro della Costa d'oro d agli spiriti feticci il nome
generico di wong: egli dice: un wong abita questa riviera, quest'albero, quest'
amuleto ; ma il pi spesso si contenta di dire: ([uesta riviera, quest' albero,
quest' amuleto un wong. Gli spiriti che risiedono in questi oggetti sono
distinti dagli oggetti stessi e allo stesso tempo si confondono con essi.
Qualche cosa di analogo si osserva nel politeismo classico. Ordinariamente si
dice che esso era una religione naturalista, un culto delle forze della natura,
ma questa nozione non rigorosamente esatta. Poseidon cosi bene
distinto dal mare Anche dei tilosoti clic, come Pljit(Hic.
clistiiiiiiKUio nctt:iiiientc Dio. ci(M' raiiiiiia 7() ( U77 a. si in
seguito fissato in ciuest'oo:getto, ma che l'essere spirituale stato, air
origine, lo stesso og-ge tto naturale personificato, o, a dir meglio, T anima,
la personalit di quest'oggetto, che, distintasi dal corpo (per un'estensione
del dualismo che la dottrina avmista comincia per ammettere nell'uomo),
divenuta di pi in pi in dipendente dal suo inviluppo materiale, e si
concepita d'una maniera sempre pi antropomorfistica . Ci che pu sembrare una
prova della tesi di Spencer, che il punto di partenza delle idee sul
sovrannaturale fu la nozione dello spirito d'un uomo morto, il carattere
completamente antropomorfo degli esseri sovrannaturali. L'uomo dice Tylor,
attribuisce si ordinariamente ai suoi dei la forma umana, le passioni umane, la
natura umana, che noi possiamo a bella prima dichiarare che l'uomo un
antro pomorfita, un antropopatita, e, per completare la serie, un antropofsita.
K uno dei pi forti argomenti della teoria secondo cui la concezione deiranima
umana la sorgente e la origine delle opinioni relative agli spiriti e
alle divinit in generale. Anche le possenti divinit, su cui riposano le
funzioni pi vaste dell'universo, sono modellate sull'anima umana; noi vediamo
che i loro sentimenti e le loro simpatie, il loro carattere e le loro
abitudini, la loro volont e i loro atti, la sostanza di cui sono composti e la
forma che rivestono in mezzo a tutte le loro adattazioni, a tutte le loro
esagerazioni, a tutte le loro modificazioni, si modellano, in una grande
misura, su dei caratteri imprestati allo spirito umano, . Tuttavia il Tylor non
ne conclude, come Spencer, che V. (loblct rAviclln /yi(f('(f ])rio essere una
dualit, una sostanza anima distinta e separata dalla sostanza corpo: questi due
principii della filosofia spiritualista o, pi o-eneralinente, animista
seinhrano e-ualmente primitivi; perch subordinare il primo al secondo?
D'altronde, che si ammetta o no l'ipotesi esclusiva di Spencer, ci non fa
niente alla quistione fondamentale: V idea di Comte, nei suoi tratti pi oei,
orali, resta sempre vera: lo stato primitivo della coitur . nelTun caso e
nell'altro, caratterizzato da (jucsta tciidtmza naturale che ha l'uomo, e clic
allora pu manifestarsi con tutta la sua energia, a spie^-arc i fenomeni della
natura assimilando le loro cause "alia sua prc.prJM attivit. Ne lo Spencer
lo neo-a.Oft'ni atto volontario, e-li dice, per l'uomo primitivo la
])rovn che esiste in lui una sor.uente di forza... Quandi I/osscrvM/ioMr
sriiil.ra vouivvuMiVV ^pu'sf opinioiu^ coiKliaiite. clK' vtMh.,.ll;i
tisic.latna .'iM'lla iK'crolatria due sor^rtMiti lU-llr n-li-i.Mii i
uiialiiH'ti' primitiv' v iiiaiiM-iHlriiti 1' una dall'altra. Srinhra dir in
Clona il cult n dr^rli antenati sia venuto a innestarsi sovra un naturisn.o
anteriine. Fra i INdinesi, si potuto stat.iliic elle il le pi oeeidentali
della Mieronesia. In Siberia, seeondo Castreii. esistevano delle
jiopolazioni ehe veneravano ;l:1 oiuu .ittwii.w ^tv-.. ..V,....,, insieme delle
idee associate. Gli sforzi che suppone per induzione, li rio'uarda come
])rodotti da esseri simili a lui. Col tempo, la concezione dei doppi dei morti,
creduti autori di tutti i canoriamenti, ad eccezione dei pi familiari, si
modifica. Essi divengono meno grossolani, ma alcuni ingrandiscono per divenire
personaggi pi importanti, che tengono in loro potere degli ordini di fenomeni
che, relativamente regolari nel loro corso, sua'geriscono la credenza ad esseri
che sono al tempo stesso troppo pi possenti deiruomo e pi costanti nei loro
modi d azione. In sorta che l'idea di una forza messa in azione da questi
esseri si stacca a poco a poco dall'idea dello spirito di un uomo morto. 2. La
teoria animista, nella sua dop])ia funzione di spiegare i fenomeni della vita e
di fornire al tempo stesso una spiegazione antropomorfistica della natura in
generale; questa teoria, che costituisce, come dice Tylor, la filosofa
grossolana e infantile dei ])opoli primitivi', pure il fondo della
maggior parte delle concezioni metafisiche dello spirito umano in uno stato
avanzato di culturn. Vi hanno, dice Aristoti'ie , tre scienze speculative: la
fisica, la matematica e la teolog-ia. La scienza del sovrasensibile, la
metaempinca, in"" questa divisione delle scienze, si limita dunque
alla Princfni Hi socininfin, v. l\. V^^^' Mei, H. 52 teologia: il concetto di
metafisica (i^el nostro senso) e quello di teologia sono cos per Aristotile
equivalenti. Una tale definizione della metafisica non pu convenire certamente
che alla metafisica quale la comprende Aristotile, ma approssimativamente
della stessa maniera che i pi l'hanno compresa p la comprendono tuttora.
L'oggetto della metafisica sono, secondo Kant, le due idee di Dio e dell'anima:
cos, deducendo queste due idee, egli intende dedurre i principi! fondamentali
della metafisica o, com'egli dice, della dialettica naturale della ragione
umana. Questa nozione della metafisica senza dubbio troppo stretta, e non
potrebbe convenire, e nemmeno rigorosamente, che alla metafisica scolastica dei
suoi tempi. Non meno vero per che la metafisica di tutti i tempi si
riduce sommariamente alle due idee assegnate da Kant, le altre idee
trascendenti, oltre le prime che l'uomo ha concepite (cio Dio e l'anima) non
essendo, nella storia del pen Oltre le idee d Dio e deiraiiirna. vi hanno pure
per Kant le /(/ura. Ma esse, lice Kant, non oltrepassano il fenomeno, o il
mondo sensibile. I^e idee non diventam tritHceialenti, se non in pianto noi
]M>niam l'incondizionato eompletaniente al di fuori del mondo sensibile, e i
nostri eoner'tti hanno un o*i;'li esseri presenti, passati e avvenire . Noi
vediamo che (pii Platone propone, quantunque esprimendolo in una forma meno
precisa che il suo successore Aristotile, l'argomento che conclude alla
necessit di una prima causa motrice per l'impossibilit di una serie infinita di
cause. Anassagora avea pure certamente in vista di evitare questa difficolt,
quando ammetteva che all'orlo ine esistevano tutte le sostanze mescolate
insieme ed in riposo, e rintelligenza mise il Lrijiii A'. SlU (l SiM> a. 55
tutto in moviuento, e inizi il processo della separazione di queste sostanze.
Cosi tra i suoi predecessori Aristotile non attribuisce propriamente di avere
ricercato la causa motrice che ad Anassagora, ed anche ad Empedocle,
evidentemente perch le forze motrici di questo, cio l'odio e l'amore, essendo
dei principii spirituali, o pi propriamente animici (secondo l'animismo
|)rimitivo, cio semimateriali), e dei principii inconvertibili negli elementi
materiali ed egualmente primordiali che essi, erano propri a servire da cause
prime, bench Empedocle stesso non ne avesse fatto quest'uso, non essendosi
proposto il problema di (untare il reo-resso all'infinito nelle cause. In verit
Aristotile pensa che il princi[)io motore potrebbe anche attribuirsi ad altri
filosoti, oltre ad Anassagora e ad Empedocle : ma notcivole che tutti i
suoi predecessori che, secondo Aristotile, hanno ricercato, o a cui pu
attribuirsi di avere ricercato, il principio del movimento. non hanno trovato
(juesto j)rincipio cIk nello spirito o in altri V. Met. ni. 12-14. IV. 2-. \
il.:i. A qiK'lli artrinia del uiovimento, lelemenlo animico convertendosi,
sfu'oudo loro, legli altri elemetti. e questi \'. i liioirlii citati iiolh' Ino
into ])roro H f'ioro di Paniiriiido. li cui ii; ^V^''. , ! H! 11. liio;:o
citato. ^ aniiiiato. couw l'altro dei suoi (lue elementi, (mI e
rt>iisidrrato come l'elemento. ier dir vnM, ii spirituale (Zellcr Filoni,
dei Grn'i). Noi non sappiamo e vi errtuo altre (S). E poi, confutando
Topinione di quelli che fanno dell'anima un'armonia: Inoltre non ]roprio
dell'armonia l liuovere: ma all'anima tutti, per cos dire, attribuiscono
massimamente questo . Cos noi possiamo afT(M-niare, secondo Aristotile, che
quasi tutti i filosofi il) (-Questa |n|M)sizit)iHi iKHi (levo riferirsi
solanieiitc ai llosoti di mi ]arla iiimi('lice deduzione l'Aristotile, ci die
Ri comprende perf^ttam;ori)-; ad Eraclito, .-he vedeva nel fuoco, come Diogene
d\\i>olIonia neiraria. al tempo stesso l'elemeiUo primitivo e il principio
animatore deiruniverso-il fuoco infatti, dice Aristotile su (questa
dottrina, costituito di parti le pi sottili ed assai pi incorporeo
che gli altri ele C. V. 17. C. II. If. (8) C. II. l'i. ~ 60 menti ; si muove
inoltre, e muove in primo luogo le altre cose^ ; ^d Alcraeone, di cui
Aristotile assimila l'opinine a quelle dei filosofi precedenti, perch e^ii
vedeva una prova dell'immortalit dell'anima nell' essere essa sempre in
movimento, come gl'immortali (cio le divinit, i corpi celesti). Naturalmente
Alcmeone deduceva il movimento continuo dellanima da ci che essa la forza
motrice del corpo animato, conformemente al concetto che Aristotile attribuisce
a tutti quelli che aveano fatto dell'anima un principio motore, cio che
impossibile che una cosa ne muova un'altra, se non essa stessa in movimento
; concetto che era una conseguenza assai ovvia del dopjf/'o materialismo^
che la forma [)riiiiitiva deiraniinismo. 11 principio, a cui tendono le
dottrine di tutti (juesti filosofi, che l'anima la causa del movimento
nella materia, sviluppato d'una maniera [)iii rigorosa (pi rigorosa ancora che
nella dottrina di Platone), costituisce il fondamento principale del sistema
metafisico d'Aristotih. I! Dio fV Aristotile essenzialmente il primo {!)
(\ Il 11 I.,i (lottrina li cui pjirhi Aristotile h evidenti'iin'Ute 4iu*lla di
Eraclito, quaiituihpic questi non sia noiuinato, e dica seruplicernonte:
ad alcuni (l'auiiua.) sembra essei*e fuoco. Infatli i[U ^ quistionc dti
tilosnti che identiticano V anima col ])riiei]ii( o i |)rinci])ii di tutte le
cose, ca Eraclito ' il s(d ' Eraclito dice die 1' iinima in un riuss4
continuo: cu che si nmove infatti deve conoscersi da ci che .si muove (seciMido
la massima su indicata dei tisici e l'o[iniono di Eraclito che tutto m
movimento). ri) C. II. 17. (:H) V. e. II. s. 61 motore: questa concezione
fondamentale della sua metafisica non che l'idea dei primi filosofi
greci, e, possiamo dire generalmente, degli stadi primitivi della cultura, che
l'anima ha, essa sola, la capacit di produrre del movimento spontaneo, fatta
servire alla soluzione della difficolt acni d luogo T applicazione del
principio di causalit alla totalit dei fenomeni, per l'impossibilit di
concepire la serie ascendente delle cause d^un effetto dato come illimitata. Il
movimento per i filosofi greci essendo press'a poco l'equivalente di
cangiamento, l'impossibilit di un incatenamento causale in cui ciascuna causa
sia l'efiPetto d'una causa antecedente, si traduce per Aristotile
nell'impossibilit che, nella serie dei movimenti cosmici, ciascun movimento sia
prodotto da un movimento anteriore. Una serie infinita di cause essendo
impossibile, Aristotile ne conclude che necessario, ri:nontan(i.>
continuamente da un movimento a un altro nioviinento anteriore, di fermarsi a
qualche movimento primitivo, che non esso stesso causato da un movimento
anteriore. Egli trova questo movimento primitivo in quello dei corpi celesti:
nella serre fenomenale, questo movimento, secondo lui, che costituisce il
primo anello dell'incatenamento causale, a cui legato, come ultimo
anello, qualsiasi effetto osservabile nella natura. Rimontando, secondo lui, la
serie ascendente delie condizioni di qualsiasi cangiamento che si produce negli
esseri mutabili e terrestri, si arriva in fine, come condizione prima, ai
cangiamenti periodici delTambiente, i quali sono determinati dai movimenti V.
Phjs. 1. Vili. e. V, Mei. 1. II. e. II, DeeoeloX. 111. e. 11. 3, ecc. V. Phys,
1. Vili. VII-IX: il juimo dei movimenti e il movimento di traslazione, e dei
movimenti di traslazioue il primo il circolare (cio quello dei corpi
celesti). 2 circolari dei corpi celesti. Sono (questi cang-iainenti periodici
le condizioni ultime della generazione e della corruzione deg-ji esseri e di
oo-ni altro movimento che si produce sulla terra. (tI stessi esseri animati,
dice Aristotile. io!i producono del movimento spontaneo che in apparenza:
(juesto movimento che sembra spontaneo, preceduto da qualche altro, il
iameiti delTambiente, e quindi ai movimenti dei corpi celesti, come antecedenti
ultimi . Quest'o>('rvnzioTie d'Aristotile certamente notevole in
quello stato primitivo della fisiolotj;-ia: ma tanto vero che le
su^'iiestioni della vita di tutti i .adorni sono pi foni che quelle della
ritles.^ione scientitca, che precisamente questo movimetto spontaneo dell'essere
animato, di cui ha riconosciuto il carattere illusorio, il fatto ch(^ eodi
sceti'lie come principio di una spiedi-azione radicale di tutti i canudamenti
feiomenali, e a questo principio sospende, ])er usare la sua stessa
es|)ressione, il cielo e tutta la natura . i movimenti circolari dei corpi
celesti si producono perch questi sono dej>di esseri animati (;: cosi le
Intellig-enze che animano ((uesti corpi, sono le cause prime di tutti i
movimenti didla natura (H). Queste Intelliii'enze, che sono le cause jndue di
tutti i Ih gf'. et rorr. 1. Il e. X e XI. />>' foctt 1. II. e. }tef. 1.
Xll. t. t'cc. {2\ \ . iH'ta pt'iiultinm. (H) V. /Vm/.s-. i. Vili 11. .'>.
VI. 7. , XII. 2, 8, 1. e. V. Met. 1. /. III. 13, De eoelo 1. II. XII. 4, De
anlm motu VI. ecc. V. e. VII. per una maggiore intelligenza dei tenonieni. I
Neoplatonici e gli Stoici danno espressamente, come Platone ed Aristotile,
l'anima cosmica per la forza motrice della materia ; i primi adottando le
dottrine platoniche ulTanima, i secondi ritornando alle idee dei pi antichi
filosofi , e identificando, commessi, lo spirito con Velemento materiale pi
attivo, ma con un concetto pi rigoroso della causa motrice, che essi ancora non
hanno, d che, fra i predecessori di Aristoule e di PI atonia noi non troviamo
che in Anassagora. Il concetto della divinit come anima del mondo si trova
anche in germe (come quello dell'anima come causa motrice) in questi pi antichi
filosofi che ammettevano delle dottrine teologiche, ed gi maturo in
quelli tra di essi in cui la filosofia teologica prende una forma pi
sistematica, come Diogene d'Apollonia, Eraclito ed Anassagora ; infine, noi
possiamo aggiungere Socrate, il quale concepisce evidentemente il rapporto fra
Dio e il mondo Por iili Stoici V; Stul). Ecl. l. 178 e cfr. ();ereau Saggio sul
sst. filoH. degli Stoici specialiiionte e. 3. pan. . Pei Ncoplatonici v. Simon
Storia della scuola dWlesaandria specialmente t. 1. 1. 2. e. 3. V. sopra pajj^.
Aristotile (De An.) ilice eh Anassagora ora identilca il nous con l'anima e ora
li distingue, in quanto ora seni)ra aceordjire al nous le funzioni dell'anima
in generale, ed ora solamente piella dell'intelligenza. Del resto il nous (V
Anassagora ^ s cliiarameiite immanente nel mondo, che esso si fraziona nei
diversi esseri animati, dei piali costituisce l'anima (V. Fr. Muli, e Arist.
Z>c a/i. 1. I. II. 5): questa dottrina prova anche, come osserva bene
Aristotile (l. e), che Anassagora riguarda il no?/A* come eipiivalente
all'anima In Met. Aristotile paragona Anassagora, rapporto agli altri Jsici, ad
un uomo sobrio tra gente ubbriaca, per aver detto che vi ha nella natura, come
itegli animali^ un intelletto causa del cosmos e di tutto l'ordine. m per
analogia a quello tra l'anirna umana e il corpo umano. L'idea clic Dio v
l'anima del mondo cosi . generale presso ci' I^' l'ani come presso i
Greci: la dottrina della scuci. i e e (Iantina {2), della nijya, della
vanesika , della snkhya teista , e in una parola di tutte quelle che ammettono
la spieorazione teolog'ica,. sia nella forma panteistica, sia nella dualistica.
Naturalmente r anima unirorsale o suprema {Paramtm) la t'orza motrice
deli' universo. la causa mate V. Seiiof. MfMiiornl. l. 1. e 4. il) V.
Colcbnuikr S(nj(ji nida llos. iir(fV IhL. W'aA. tVnic, \y,i^^. Iri-is7. 11M-2(MI.
ecc. (li) V. Colei. (>//. i'it. p. .V2-58 (nota di Pauthicr) e 5H. Coli'bi-.
(>t>. rit pali, "t'^ (nota di Pauthier). V. Colchr. Op. cif, p.
28,84. (>! f: !n stati del monde prini} della ereazione, ehe h stillo oi-,
descritto cos: .Altra v(lta tutte questo inondo era tenebroso .
scojioscinto. n(n siiniticat(. non svelato, vuoto e indiscornilnle. come
>rincipale aut. nota li Pauthier. r IH !.,-V cui si serve Platone (nel luo^o
citato sul principio del paragrafo) per dimostrare l'esistenza d' una divinit,
d'un'aniiiia cosmica. Nella tilosota teologica moderna la funzione di Dio come
principio motore passa in seconda linea, ed ha un'importanza di gran lunga
inferiore a quella di principio delle cause tinali. Oltre che ai progressi
della meccanica, ci si deve evidentemente a questo fatto, che Dio
concepito come troppo separato dal mondo, perch possa muovere la materia come
l'anima muove il proprio corpo. La concezione di Keplero pertanto s naturale
quando si cerca sovratutto nel sistema teologico uua soddisfazione al bisogno
istintivo di conoscere le ca?^.se---che l'universo un tutto armonioso di
cui Dio r anima*, ben lontana dallo spirito generale della
tilosofia teologica moderna: questa concezione seiibrerebbe ai |)i una
degradazione dell' Assoluto, ed infatti incompatibile coi concetti
moderni, risultanti da questo processo di dimnlropomorfizzazioP progressiva
della divinit, (li cui parleremo nel 5'. Di pi il dogma della creazione ha per
effetto chBarte o., e. Considerazioni sai prineipii di vita e sulle nature
plastiche (l)utens. tomo 2.. parte 1., 41): la massima che un ('{}v\m non pu
nnioversi che p(ir l'urto allontana i motori particolari, nui ci porta al primo
motore, perch la materia essendo indifferente in se stessa a ogni movinn^nto, o
al riposo, e possedendo ]ertanto sempre il movimento con tutta la sua forza e
direzione. esso uou ])u esservi stato messo che dall' Autore ste^^so della
materia. 70 no) a parte la pretesa necessit, di cui qui non quistione, di
spiegare l' armonia presUbilita e la finalit delle leo'o del movimento-. Pi
recentemente -anzi e an concetto che si trova g-i in germe in alcuni dei
filosofi citati (notevolmente in Berkeley) -questa dottrina si fondata
sulla teoria rolizionale della causazione, secondo la quale la volont la
sola causa vera, cio efficiente, di cui abbiamo esperienza, le altre cause
conosciute non essendo che semplici antecedenti di sequenze invariabili, e
quindi noi dobbiamo concepire tutte le cause efficienti sul tipo della nostra
volont. E in effetto il solo tondatnento che la dottrina possa avere nella
scienza moderna. Infatti se il movimento volontario una causazioio nello
stesso senso delle causazioni tsiche, cio una semplice sequenza invariabile,
non vi ha motivo di accordare alla volont il ])rivilegio di essere una causa
produttrice di movimento, mentre gli altri agenti non sarebbero capaci che di
trasmetterlo, essendo da una parte un' applicazione inevitabile del principio
della conservazione dell'energia che la volont non pu creare della forza, ma
solo dare una nuova forma alla forza gi preesistente, e da un'altra parte degli
agenti puramente tisici avendo in comune con la volont il l)otere di
trasformare la forza latente in forza visibile, cio m movimento meccanico. Ma
se cos, non vi ha ragione se causa vuol dire antecedente di una sequ'enza
invariabile di vedere in un essere spirituale il solo principio che possa
spiegare l'origine del movimento; poich, ammessa anche la necessit di una causa
prima del movimento, resterebbe a provare che questa causa necessariamente
un principio spirituale, e l'esperienza non potrebbe fornirci alcun argomento
per assegnare questa funzione a un principio spirituale piut^ tosto che ad uno
non spirituale. Per fare ci non Cfr. Mill Saggio sul teismo. Arjioii.cut delhi
causa prima ^ 71 potrebbe darsi che una ragione, cio che lo spirito la
sola causa efficiente, e per conseguenza, tra le causeempiriche del movimento,
esso solo una vera causa, e le altre non sono che semplici antecedenti,
che, per essere seguiti dall'effetto, hanno bisogno dell'intervento d'una vera
causa, cio d'uno spirito. Qui noi vediamoun aspetto di un fatto del pi grande
valore per comprendere la natura intima e portare un giudizio sulla validit
obbiettiva della filosofia teologica, e che mostreremo sotto altri aspetti nel
^ 7'^, cio che la base logica indispensabile di questa filosofia, e in generale
di ogni metafisica, in quanto essa una spiegazione della natura, il
concetto di causa efficiente, distinta dal semplice antecedente di una sequenza
invariabile. L'importanza dell'idea che il principio motore lo spirito, come
fondamento della filosofia teologica, anche nella storia moderna, naturalmente
aumenterebbe, sei concetti di cui parliamo al principio del sS Pi, cio quelli
dell'anima del mondo e degli astri ed altri analoghi, si classassero in questa
filosofia, come sembra pi conforme alle loro affinit reali. K evidente infatti
che gli agenti di cui si tratta in questi concetti sono pi pro]>ri a servire
da cause del movimento che il Dio (h^X teismo moderno, del c|uale sono
destinati a supplire all'insufficienza, come principio esplicativo dei
fenomeni. ^ 3. Oltre a fornire la causa d(4 movimento, la funzione della
divinit, come principio esplicativo, si riduce in sostanza a una spiegazione
teleologica dei fenomeni. Questa seconda funzione nella filosofia moderna ha,
come abbiamo notato, un'importanza di gran lunga superiore alla prima, e alcuni
tra i pi eminenti dei pensatori moderni, e che il pi profondamente hanno
esaminato le basi della filosofia teologica, hanno visto nelle cause finali il
fondamento unico della teologia ~ 72 naturale. Come abbiamo visto nel paragrafo
precedente, questo concetto non , storicamente, esatto: ci che vero
che il punto di vista teologico e quello teleologico sono cosi naturalmente
legati fra di loro, che noi non possiamo concepirli scompagnati l'uno
dall'altro, anche nello stadio primitivo e prescientifico della cultura. Da una
parte, infatti, la sola forma chiara e intelligibile della dottrina delle cause
finali quella che vede in esse dei fini di un essere intelligente, che
concepisce coscientemente un disegno, e lo realizza volontariamente nella
materia l'oscuro concetto di una teleologia mcosciente o immanente di
Aristotile, di Hegel, di Scho[)enauer, ecc. non che un succedaneo, e tira
tutta la sua vis esplicativa dalla sua analogia con quello pi naturale e pi
spontaneo di una finalit co.^ciente e trascendente .-ora tra le diverse specie
della filosofia antropomorfistica la pi naturale di tutte e la pi propria a
realizzare questo concetto di una finalit intelligente e cosciente,
evidentemente la teologica. Da un' altra parte, se si ammette da per tutto
nella natura razione continua di uno spirito, o di spiriti, analoghi al nostro,
e dotati di un intelligenza superiori* alla nostra, si pu non ammettere al
tempo stesso che questi spiriti intel V. jiiesto parnur.. in scibili to. e il
pai-aj^r. csemn'iite. Xon * ditticik' di coinprciKh'rc, aiiclie non
ronsi^lcrando la tilosotia tiMilojiica clic come una scni|>licc spicjja/.ionc
dei fenomeni. iMTch lcli' uonn primitivo la tendenza s))ontanoa del nostro
spirito ad assimilale 1' azione delle cause dei feiHuneiii naturali alle nostre
])ropiisto che all'ilozoisnu (nel senso stretto del termine. ]>ercli(>
alcuni sistemi a cui esso si est5ndc. non sont in realt che dolio forme della
tilosota teolo^iica). Basta la ritl(;ssione che Tilcjzoismo contraddico della
maniera piii assoluta alla distinzione si ovvia dolI'animat o doirinanimato, ci
che ;;li d un ca-attoro ) artificioso. dal fi^jlio di Fonarota ^
(('hjtppolli Interpretaz. pantcist. d P/(itone, pa;^. H'^). 11 l>rof.
Chiapponi non ii^iiora che vVnassagora ha dotto che il Nous ordin tutte
le cose che dovevan(> ossero, e ({uolle cll(^ furono 0 che sono e che
sar;iiino (Fr. (>. e 12 Muli.), e che Aristotile affoi'iua ch'egli ha
crorcato la causa del bene e del bello, e che perci ha ammesso noli' universo
un' intoliiirenza causa del cosuios (idi tutto Fonlino {Met.). Jl ])rof.
Chiapponi 8a j)iir(5 (die Eraclito parla della prudenza (die ioverna il mondo
(Diog. Laert. IX, 1. e Pluf. De Is. et Osir, e. 77); d(d Xq'vqc oomune a tutti
^li esseri (Sesto ade. MiUli. VII 138 il XYOC *^ oomune a tutti or(di(>
tutte v cose non sono che un' obl>icttivaziono della ragiom^): della
bellissima armonia che Dio j>ro(luco jov la niesc(danza dei 4M)ntrari (Pluf.
De an. jrrocreat. e. 27 e Arist. Eth. JVie. Vili. I): ^,ho dice che,
(xuantunepie gli uomini considerino alcuno cose c(>74 due maniere di
spiegare le cose per le cause finali. In un caso partendo dalla considerazione
delle cose che si va air applicazione del concetto delle cause finali, perch
sono le cose stesse che suggeriscono, pi o meno va^amente, con pi o meno forza,
Tidea di un essere, ag-ente con un piano e per uno scopo anche ad uno spirito
non superstizioso ne prevenuto ciecamente in favore rli eerte dottriiip
filosofiche . Nell'altro caso l'esistenza delle cose e il loro modo di essere
non si legano all'idea d'un'azione intelligente, con un piano e per uno scopo,
che d' nn?i maniera puramente arbitraria ; se si applica la spiegazione
teleologica, non che una conseguenza del preconcetto che la natura
fatta o dominata da una causa n da cause intelligenti. Ma questa difPeiiie dei
mali, ojiiii cosa per Dio ^ )o11ji o liiiista iSehol. l^enet. a,! fnd. TV. 4
efr. Ipocrato j^^p^, ^f^j^xYjC c-oiii.' un?jrMlO^:irj'^lC Jl ](M8ant('
che t^' il iriii('iino attivo i\v\h\ natura\ Proclo iti Ttm. ]). : e che
Diogene (V A]M)lonia dice, in uno dei t'iannnenti clic ce ne restano, che m la
sostanza primitiva non fosse intellijiente, essa ncm potrebbe distribuirsi in
modo clic tutto fosse fatto con misura, come la estate e riuverm. il giorno e
la notte, le piogge, i venti rd il buon tempo, e tutte le altre cose che. chi
vorr riflettervi, trover esser costituite della maniera pi bella (Fr. 4 Muli.).
Senza insistere su Anassagora per lui sarebbe invece \n\\ opportuna un'altra
nota su quelli che gli attribuiscono la stessa scoverta che il ('hiai>peMi
attribuisce a Socrate md ci limiteremo a domandare: senei frammento di Diogene
non vi ha una forma dell' ar^. Il tipo della finalit d'iiso o
d'appropriazione la finalit interim degli esseri organizzati interna,
perch lo scopo riposto nell'essere stesso, e non nella sua utilit per mi
altro: essa consiste in questo fatto generale della natura organica
interpretato per un'assimilazione delle opere della natura a quelle
dell'industria umana che ogni organo utile air organismo, e una
moltitudine di organi e di funzioni concorrono a una st(^-ssa azione definitiva,
e tutti insieme a un risultato unico, cio la conservazione delTorganismo stesso
individuale e della sua specie. Gli esempi di questa sorta di finalit (la
struttura dell' occhio, deir orecchio, degli organi del movimento, ecc.) sono i
pi probanti, o che hanno pi aria di esserlo, frn tutti (juelli enumerati nei
trattati di teolot/ia fisica o in altre opere analoghe che cercano di stabilire
sui fatti una o un'altra forma della filosofia teologica ; e possono ridursi,
almeno i pi importanti, a due categorie : rapj)ropriazione di ciascun organo
alla sua funzioni' V la co-operazione funzionale degli organi; e gl'istinti
degli animali (bench in questo secondo caso, r analogia con le opere dell'
industria umana essendo J.iiurt Le eause finali, pai;. 247 MH 77 pi lontana,
altre forme della spiegazione antropomorfstica sembrino pi naturali che la
spiegazione teologica ordinaria). su quest'ordine di fatti che si fonda
il prototipo degli argomenti delle cause finali, cio quello di Socrate.
Ed pure di questa sorta di finalit che V. art. II. Seiiof. Memorab. 1. I.
e. IV. Socrate, per dimostrare l'esi' tenza (leo;li Dei, doinaiida al suo
inte>riocutore {Aristodemo): Ti sembrano pi ainmira)ili quelli che hanno
fatto fvgnvG senRu Kcnso e senza movimento, o queUi che cose animate, dotate
d'intellitrenza e di movimento j Quelli che cose animate, ripose; sempre che
siano fatte, non da una specie d'accidente, ma per conoscenza! Ma delle cose,
ri pijili Socrate, di cui non pu .i^iusto eharti della natura, come la
struttura del sistema solare, parvero pure fornire delle testimonianze pi o
meno i)rol)anti iu a[)poggio di piesta credenza (H). L'altra forma della
finalit di appropriazione, cio l finalit esterna (vale a dire quella in cui una
cosa si considera come iiie/zo per un' altra, come fatta per 1a sua utilit),
non ^n nei fatti stessi un appoggio cos forte come Vifenia.
L"ai>proj>riazione del mondo esterclit' qiu"itc seinhnino opiTc
di tnh* {irtoticc. che:illisMU'li\)erMto di t'jirc csi.iterc leuli punto
jiereli non stippne delle -onosc'enze scientifiche, H8o "^ r espressione
piti fedele di uno dei motivi del teismo, qualt; ert'etti vilmente ha potufo
eoTitrihnire alla sua f(riiiazione. Critica del ffifdizio) V. la HteM'.x
n])er^, pamifii e notev/W. Dio Laert. 1H8, ecc. ;s-"W*'r'^'."Sviife^
sono fatte per Dio stesso, il primo suggerito dall'osservazione degli
stessi fatti (non essendo che 1' esagerazione d'un fatto reale, dopo avergli
impresso la forma comune della spiegazione teleologica, cio aver trasformato il
risultato in uno scopo) ; mentre il secondo implica delle idee troppo
trascendenti per potersene formare una rappresentazione chiara ed ovvia oltre
che sembra in contraddizione con la dottrina della bont infinita di Dio e con
quella della sua infinita perfezione ( in questo caso che particolarmente
applicabile l'obbiezione di Spinoza che, se Dio agisce per un fine, egli
desidera necessariamente qualche cosa di cui privo, e per conseguenza
non perfetto) .Cos l'antropomorfisino, come spiegazione teleologica dei
fenomeni, ha per conseguenza naturale 1' nntropocemt risma. Quest'
antropocentrismo espresso nella forma pi ingenua e pi naturale nel
discorso che Cicerone mette in bocca allo stoico. A vantaggio di chi
stato fatto l'universo? Degli alberi e delle erbe, che sono privi di senso?
Ci evidentemente assurdo. 0 forse delle bestie? Ma non pi
verisimile che gli Dei abbiano lavorato tanto per degli esseri muti e
inintelligenti E chi vorr credere che la terra produca i suoi frut^ti per le
bestie, le quali del resto non sanno n seminare, n arare, n raccogliere questi
frutti, n conservarli?.... Le bestie stesse anzi, furono create ad uso dell'
uomo. E invero a che altro servono le pecore se non a vestire l'uomo con la
loro lana? E la fedele guardia dei cani, l'arte che hanno di accarezzare il
padrone, l'odio degli stranieri, il sottile odorato, la destrezza nella caccia,
che altro significa se non che furono fatti ad uso degli uomini? E a che
altro buono il porco se non ad essere mangiato? l'anima, dice Crisippo,
gli stata data invece di sale? Si per non putrefarsi. E i pesci, e gli
uccelli, da cui ne veng^ono dei piaceri s variati, che sembra che la
Provvidenza sia stata epicurea? Se il teleologista spiega cos resistenza degli
esseri organizzati, cio di quelli che Kant chiama i tini della natura, a pi
forte ragione applicher questa spiegazione alla natura inorganica, la cui
finalit non potrebbe essere che esteriore. N52 frivole e puerili. Secondo
Benianliiio Saint-Pierre, i cani sono cFordinario di due tinte opposte,
Tuna chiara e l'altra scura, affinch in qualunciue luog-o siano nella casa,
essi possano essere visti sui mobili, col colore dei quali si confonderebbero
Le pulci si i>-ettano, da per tutto dove sono, sui colori bianchi.
Quest'istinto stato joro dato affinch possiamo pigliarle pi facilmente.
Questa forma della dottrina delle cause finali nella lilosotia moderna
caduta in disuetudine (quantunque Tvnnt labbia risuscitata, imprimendole il
carattere pietista delia sua Hlosotia pratica, cio dichiarando che lo scopo
ultimo del Creatore non la felicit dell'uomo, ma la uuaalit). Tuttavia
non si pu non riconoscervi, anche nelle sue applica/ioni [)i esa^'erate, uno
sviluppo naturale v log-ico dei [>riucipii di (questa dottrina.
h^nitropocenfrismo non evidentemente che una forma particolare
iMVarftt'opomorfisnio. Attribuendo alle forze costituitive della natura di
agire con intellig-enza e per un., scopo, uoi as>imiliamo il modo d' azione
di (lueste forze al nostro modo dazione umano; e ci facciamo perch questo
che noi .'omprendiamo il pi facilmente, essendoci necessariainente il i^i
faniliare. Perla stessa raa-ione nn\ dnbbiaiio attribuire ad esse, come scopo
ultimo, uno scopo nostro, umano, perch questo che noi siamo abituati a
considerare come interessante ed avente un valore per se stesso, e che noi
comprendiamo il pi facilmente, i)erch un'idea con cui siamo
familiarizzati; cosi all'essere pi elevato noi attribuiamo il fine pi elevato
che l'uomo possa proporsi, cio la felicit o, pi ueueralmente. il bene, delle
creature umane. L'esempio pi colpente della finalit di piano sono i movimenti
dei corpi celesti. Per -li antichi era una prova deir esistenza della divinit
superiore anche a quella dedotta dagli esseri organizzati fatto che sembra i
coitraddizione con le proposizioni citate di Mill e di Kant. Ci
evidentemente perch i fenomeni pi grandiosi della natura sono i pi propri ad
eccitare i sentimenti associati al concetto del divino. Inoltre era un' idea
suggerita naturalmente dalla credenza popolare della divinit degli astri. Noi
abbiamo visto che, secondo Platone, due cose ci fanno credere all' e.sistenza
degli dei: l'uria che l'anima la causa prima del movimento, e
l'altra, Vordint che si osserva nel movimento degli astri e proposizione
accessoria in quante altre cose sono soggette alla potest dell'intelletto, che
dispose il tutto. Poco dojjo l\), ritornando sullo stesso concetto, dice: che
non si potr mai avere vera piet verso gli dei, se non si convinti delle
due cose di cui ha jjarlato, l'anima essere il principio delle cose generate e
ci che regge tutti i corpi, e la dimostrata negli astri intelligenza
degli esseri. Nel Filebo fa domandare da Socrate se si deve dire che
quest'universo retto da una forza irrazionale e che asisce a caso, o
che governato da una mente e una sapienza ordinatrice; e rispondere da
Protarco che confessare che tutto governato da una mente degno
deirasi>efcto del mondo, del sole, della luna, degli astri, e delle loro
rivoluzioni. Poi Socrate dice [) che vi ha nell'universo molto Illimitato,
sufficiente Limite, e una causa non io'nobile ad essi ])resente, che ordina e
dispone gii anni, i tempi deiranno e del giorno, e i mesi, e che si chiama a
buon dritto mente e sapienza. Il simile che in Platone vediamo negli Stoici.
Secondo Cleanto, la nozione della divinit nello spirito umano j>roviene da
quattro cause: il presentimento delle cose future; il terrore che c'incutono i
fulmini, le tempeste, i terremoti, Leygi im7 d. 2X d-e. (I^) FU. 30 e. 84 e
altri avvenimenti straordinari e terribili; le comodit della vita che si
raccolgono in gran copia (argomento delle cause finali nel senso
antropocentrico); e l'ordine e la reo'olarit dei movimenti degli astri, che per
se stessi dimostrano non essere opera del caso, ma e^sservi una mente che li
governa (n. E nel discorso che gli U pronunziare Cicerone, lo stoico dice: Il
senso e l'intelligenza degli astri sono dimostrati dal loro ordine e la loro
costanza. Niente intatti pu muoversi con ordine e con numero senza
intendimento. Ragioni le quali chi ben ponderi, sar ignorante ed empio, se
negher esservi gli Dei 2). Questo concetto campeggia Tn tutto il discorso
dello stoico ; riapparisce, diversamente lumego-iato, nei e. 21, 35, 3S, 56,
61, ecc.; e gi, comiiR-iaiido a parlare dell'esistenza degli dei, egli aveva detto
che ci non ha bisogno di lungo ragionamento, perch che vi ha di rosi evidente,
alzando gli occhi e contemplando le cose celesti, che esservi qualche divinit
di una mente eccellente che regge queste cose-^ Co) Delle idee che ricordano
(juesta prova della divinit si trovano anche nelle antiche religioni pi evolute
-ci che dimostra la continuit tra i concetti della tlosotia teologica popolare
e prescientifica e di quella dei metafisici-, e in una forma anche pi vicina al
concetto moderno, cio in cui l'ordine dei movimenti dei corpi celesti
attribuito, non a delle divinit che sono loro proprie e li animano, ma alla
divinit suprema Presso i Caldei, Belo fissa le stelle, stabilisce a dn.iora del
sole e dei pianeti, afiinch essi conoscano i loro limiti e non possano
allontanarsene. Presso gli Egiziani Osiride che mantiene l'ordine
nell'universo V. CICERONE (vedasi), De Nat. Deor. e che ha tracciato al cielo e
alla terra la via donde essi non si allontanano. Dimmi, o Ahura ! domanda
il Zend-Avesta, chi, se non tu, fa crescere e decrescere la luna? chi ha aperto
le loro vie al sole calle stelle? chi ha fatto la luce benefica e le tenebre? i
mattini, i mesi e le notti? E un inno del Rig Veda dice: che
osservano i corpi celesti nelle loro rivoluzioni, soogiun^e: La natura A
dove agisce liberamente, in ciascuna transizione dallo stato indeterminato allo
stato fsso, crea anche allora spontaneamente delle forme regolari. Questa
reg-olarit apparisce nelle cristallizzazioni d'un ordine elevato Come spieg-are
tutto ci, se non si ammette che esiste una produttivit incosciente, ma
originariamente della stessa natura che l'attivit cosciente, e di cui non
possiamo vedere che il semplice rifiesso nella natura? >. Pi recentemente si
^ anche parlato dell' architettura degli atomi, (juesti sono stati paragonati a
degli oggetti manitatti, e si vista nella supposta regolarit delle loro
forme una prova della creazione della materia. Un altro se^nio di finalit di
piano che si visto negli esseri organizzati , oltre alla sinuietria delle
loro forme, 1" unit di diseg-no in esseri differenti, cio la loro
distribuzione in gruppi, in ciascuno dei quali si n^alizza variamente uno
stesso tipo definito. Questa sembra ad Agassiz una prova dell'esistenza di Dio
superiore anche a (luella della finalit d:icHO dei loro organi. Che degli
esseri aventi degli attributi si diversi, e viventi in circostanze s differenti
si conformino costantemente a dei tipi generali identici; p. e. che tutti gli
animali, in tutte le posizioni geografiche, nella successione di tutte le
epoche geologiche, siano costruiti sui quattro grandi piani di struttura
stabiliti da Cuvier; un risultato, egli dice, che impossibile di
attribuire alle sole forze fisiche, a meno '\e esse non abbiano immaginato
questi V. (irtleno Di' plaritis HippomuttM et Platonis 1. 9. r. 8. in tne.
Inirodtiz. al Saggio d'un sistema della natura. (Scritti filosulti tradotti da
Hiiard). 87 piani, e non l abbiano poi impressi nel inondo materiale come una
forma dentro cui la natura fonderel)be ormai costantemente tutti gli esseri.
Ogni regolarit nei fenomeni, in cui non si vede una conseguenza necessaria
delle leggi meccaniche, dimostra, |>er il teleologista, un disegno e uno
scopo. Come infatti i movimenti disordinati degli elementi della materia, in
cui non vi ha altra regolarit, inerente alla loro natura stessa, che quella
delle leggi del movimento, possono dar luogo a delle successioni regolari che
non potrebbero dedursi da (pieste leggi? p. e. a delle serie circolari e
costanti di avvenimenti, quali le rivoluzioni planetarie, o i fenomeni
evolutivi della materia organizzata, in cui si vede l'essere nella sua maturit
riprodurre il germe da cui e* incominciato il suo sviluppo, e la stessa serie
regolare di stati ripetersi di generazione in generazione? (Jueste regolarit
nella successione dei fenomeni non (essendo una conseguenza, necessaria delle
leggi dell urto e del movimento, le sole che siano essenziali alla materia, o
deve ammettersi che siano semplici effetti dell'azzardo, o che una mente
ordinatrice dirige i movimenti della materia, preordinandoli a questo scopo.
Cos il teleolo^iista divide tutte le azioni della natura in due campi:
l'uno il dominio del meccanismo, e l'altro delle cause finali. Questo
mondo, dice Platone, nato dal concorso della mente e della necessit. Vi
hanno due specie di cause, 1* una necessaria e l'altra divina: le cause prime
sono quelle che producono con intelligenza il buono e il bello (cio quelle
della specie divina); quelle che sono mosse necessariamente da altre cose e
muovono necessariamente altre cose, sono delle cause seconde, dei mezzi di cui
Ajrassiz Della speeie e della idassifieaz, in zoologia. Dio si serve per
realizzare, per (luanto possibile. TIdea deirottirno. Kant oppone
continuamente il meccanismo eia finalit come le due sole forme possibili in cui
noi possiamo rappresentarci il modo di produzione delle cose. Vi hanno delle
cose la cui produzione possibile secondo lei>'^i puramente meccaniche;
ma altre produzioni della natura non sono j)ossibili, almeno per noi, secondo
leii'fi'i puramente meccaniche. Per queste yal(% almeno subhiettivamente, oltre
al meccanismo della nriturM. determinato dalle sole leg'gi del movimento,
un'altra spcn-ie di causalit, cio (|Uella delle cause tinnii, relativamente alle
quali le leg'gi delle forze motrici non sarebbero che delle cause intermediarie
. La tinalit d'una cosa (cio la sua produzione per delle cause finali) e la
contingenza di questa cosa sono due concetti che si implicano reciprocamente:
da una parte il concetto di una cosa di cui ci rappresentiamo V esistenza o la
forma come possibile sotto la condizione di un fine, inscparal)ile dal
concetto della contingenza delia ) ; e da un' altra parte il concetto della
finalit della natura nelle sue produzioni un concetto necessario al
giudizio umao. che si applica a tutto ci che vi ha di coiitingcuite nelle leggi
particolari della natura, cio che non pu dednrsi dalle sue leggi gene rali (che
sono quelle della materia e del movimento) . Secondo Lachelier, la nostra
credenza nel corso uniforme della natiirn implica due princiini: luello delle
cause (fHcienti e , 'f parsi nello stesso ordine, perch l' insieme delle
direzioni e delle velocit dei loro movimenti sia tale da riprodurre a punto
designalo le stesse combinazioni. se noi abbiamo confidenza nella stabilit
dell' ordine del mondo, perch sappiano gi che esso l'interesse
supremo della natura, e che le cause di cui sembra il risultato necessario non
sono che i mezzi saggiamente concertati per istabilirlo. E Janet dice.
L'esistenza stessa delle leggi nella natura yi^gU parla qui evidentemente delle
leggi altre che quelle del movimento) un fatto di finalit. Noi possiamo
infatti concepire che i fenomeni potrebbero prodursi in modo da non permettere
alcuna previsione certa per l'avvenire, e non vi ha alcuna ragione perch essi
non si producano cos, se si suppongono all'origine degli elementi puramente
materiali, in cui non preesisterebbe alcun principio iV ordine e d' armonia. Il
solo fatto dell' esistenza d'un ordine qualun(jue attesca l'esistenza dun'altra
causa che la causa meccanica, poich questa indifferente a produrre alcuna
combinazione regolare. Se nondimeno tali combinazioni esistono, e sono esistite
da tempi infiniti, dunque che la materia stata diretta o si
diretta da se stessa, nei suoi movimenti, in vista di produrre (luesti sistemi,
queste combinazioni e. questi piani da cui risulta l' ordine del mondo: ci che
equivale a dire che la materia ha obbedito a un'altra causa che la causa
meccanica. Quest'opposizione tra il meccanismo e le cause finali
suggerita naturalmente dall'azione umana, che il tipo della finalit e il
fatto d'esperienza da cui ne venuta l'idea: danna parte il mondo
esteriore con le sue leggi indii)endenti dalla volont uma\ia, da un'altra
i)arte l'uomo, che non [1) Del fondamento dslV induzione. .Taiiot Le cause
finali). 1 pu a^'ire su di esso che iniziando nuove serie di movimenti, che una
volta incominciati, si continuano e si trasuieitono secondo le loro le^'g'i
fatali. Quest'opposizione corrisponde pure a qu(]la del necessario e del
contingente: il necessario in contraddizione col volontario, e le
tendenze istintive del nostro spirito, da cui si orifrinano i concetti
metafisici, ci conducono a identeficare il necessario col meccanico, e il non
necessario, 0 il contingente, col volontario. Infatti, come vedremo pi
chiaramente^ nel se!no. ua il lil)ero arbitrio. Xo v\ ha dubbio che jiiando il
teleolo^ista oppone il meccanismo alla tnalit. l'idea che la parola m(H*canismo
su^'^erisce immediatameurc al suo spirito non sia il meccanismo di Democrito e
di Cartesio, quello del movimento trasmesso per l'urto: dei ). E il matematico
Cotes nella prefazione alla II edizione dei Principii di Newton, ponendo la
gravit come una propriet primitiva della materia, aggiunge una fili|q)ica
contro i materialisti, che fanno tutto nascere per necessit, mentre il sistema
di Newton fa tutto provenire dalla volont del Creatore, e osserva che le leggi
della natura offrono numerosi indizi del disegno pi saggio, ma nessuna traccia
di necessit (8). A. Comte ha notato giustamente che la filosofia teologica,
anche neirinfanzia Prine. delle eouose. XVI. Lettere tra Clarke e Leibnitz.
Seconda Replica di Clarke, I. (8) V. jH^ei Stor. del material, t. 1. parte 8.
e. 8. 92 dello spirito umano, pur costituendo una spiegazione universale dei
fenomeni, non si applicava ai fenomeni pi fafamiliari, i quali sono stati
sempre riguardati come sogo-etti a leirs'i naturali, invece di essere
attribuiti aliavolont arbitraria degli agenti soprannaturali. Quando il
filosofo teologico moderno divide i fenomeni in necessari Q> contingenti, e
spiega tutto per le cause finali, tranne i feno meni necessari, egli fa
precisamente come il suo antenato selvaggio o barbaro, perch le successioni di
fenomeni che ci sembrano necessarie, sono appunto (pielle che ci sono ^' pin
familiari {2). Quando il Pelle-Uossa non comprende, osserva un autore che ha
studiato i costumi di queste popolazioni, dice che uno spirito. Il
uon cosi che fa pure il metafisico incivilito V notiamo che il
comprensibile, come il necessario, non per noi che ci che ci // pia
familiare. La differenza tra il selvaggio e il metafisico incivilito che
il primo spiega immediatamente per l'azione degli spiriti i fenomeni
particolari: il secondo ammette ordinariamente che i fenomenti ubbidiscono a
delle leggi costanti, ma quando non comprende (pieste leggi, o, ci che lo
stesso, quando esse non gli sembrano necessarie (perch non si tratta delle
successioni di fenomeni che ci sono le pili familiari), egli fa conie il
selvaggio, le spiega per l'azione di uno spirito, che produce nella natura dei
fenomeni eh' egli giudica al di sopra delle forze della natura stessa. 1/
intenzione dello spirito per lo pi ostile, secondo il selvaggio; secondo
il metafisico incivilito, benevola: di pi la spiegazione teleologica del
secondo non ordinariamente cosi chimerica come Corso di fhts. /tosit. ed.
i. voi 4. ]>. 491. V. e. 4. N (ioblct d'Alviella L'idea di Dio ecc. p. OS,
\'. cap. 4. 93 quella del primo. Tale la costituzione della natura e pi
ancora quella dello spirito umano, che, purch cerchi in questa direzione, egli
non potr mancare di trovare nelle leggi stesse dei fenomeni i segni d'un piano
intelligente: egli li vedr sia in quf^sto fatto sorprendente, che le leggi
della natura contengono spesso dei rapporti metrici i pi semplici e i pi
regolari (p. e. l'eguaglianza, la proporzionalit, la ragione inversa al
quadrato, ecc.), e sembrano tali da rendere i fenomeniil pi fadlmente
intelligibili ; sia in altre circostanze proprie ad alcune di queste leggi che
gli suggeriranno pure, vivamente o debolmente, l'idea di uno scopo odi una
coordinazione interessante per se stessa e voluta ; sia infine nel fatto stesso
che sono delle leggi, perch la leo'ire implica un ordine e una reoolarit, e
questi sono contingenti, cio non sono una conseguenza necessaria dell'essenza
stessa dei fenomeni non si pu infatti concepire che i fenomeni avrebbero potuto
foruare un chaos, pi chaotico di quello che alcun mitologo abbia nai immaginato,
cio senz'alcun ordine, senz'alcuna legge senz'alcuna uniformit nelle loro
sequenze e nelle loro coesistenze? dunque. ne concluder il teler^logista,
quest'ordine e questa regolarit non possono spiegarsi che per una Mente
ordinatrice e regolatrice. Malgrado l'opposizione s naturale tra il meccanismo
e la finalit, la tendenza a spiegare teleologicamente tutto ci che non
necessario, sviluppata con conseguenza, non pu non oltrepassare il limite fra
questi due dominii in cui i teleologisti dividono ordinariamente le azioni
della natura. E ovvia infatti la riflessione che le stesse leggi del movimento,
anche di quello derivante dall' impulsione, non sono nemmeno esse necessarie,
bench l'impulsione stessa sia necessaria-per essere tali esse dovrebbero essere
una suggestione dell'esperienza pi familiare, e non, come sono state in 94 95
realt, liolle scoperte scientifich: ne segue che la spiegazione teleologica
deve applicarsi anche a (queste leggi. D'altronde solo il necessario nel
senso stretto, vale a dire ci il cui contrario aftatto inconcepibile,
che assolutamente in contraddizione col volontario: ora ({Uesta necessit
nel senso stretto non pu trovarsi inai nelle verit esistenziali, e tutte le
leggi della natura sono delle verit esistenziali. Per conseguenza, non VI I;
legge della natura a cui la spiegazione teleologica non sia a[)plical)ile. Cosi
molti filosofi moderni hanno spiegato |)er le cause finali inche le leggi della
nieccniica. Secondo Malebranche Dio scelse jueste l(?ggi perch sono le pi
semplici cio, conni abbiamo accennato, contcmgono i rapporti metrici pi
semplici, e soo le [)i proprie a produrre, con mezzi i |)i uiitormi, nn
iinimnisa variet di fenomeni Avendo risol ut di produrre per le vie ])i
semplici (juesta variet intinita di crf^ature ciu noi ammiriamo. Dio ha voluto
che i ror[)i si muovessero in linea retta, perch questa lijoa la pi
sem}>Iice ^>. E prevedendo il loro urto, ha stabilito la leg'ge generale
della comunicazione dei mo\ imenti: e (jueste due leggi naturali, che sono le
pi sem[)Iici di tutte, bastano, i primi movimenti essendo saggiamente
distribuiti, per produrre il mondo (juale n*i lo vediamo (o). Dio segue sempre,
nelT esecuzione dei suoi disegni, le vie pi semplici, perch sono le pi sagge e
quelle che l'onorano di pi. La contingenza f^ ) . il Saji^rio 1. (8)
Malebruiitlu' Jiieerva dclhi ver* Se/narim. XV. (Risp. alla 4. prova). 1. U.
paitt 2. v. 4.. Concersaz, svila meta/. , ecc. iHalehranelic Jhdit. erht. ^,
Kle, della cer. Schinrhn, (R8p. alla 4. i>rc)va). Sehiarim, VI, :^, parte 2.
e. >. Concers. untila meta/. IX. X e XI, ecc,^ delle leggi del movimento e
la loro dipendenza dal principio delle cause finali era una delle tesi favorite
di Leibnitz e della sua scuola. Il pensiero di Leibnitz su ci pu riassumersi
con queste parole dell'autore stesso: La saggezza su])rema di Dio gli ha
fatto scegliere sovratutto le leggi del movimento le meglio aggiustate e le pi
convenienti alle ragioni astratte o metafisiche... Ed sorprendente che
per la sola considerazione delle cause efficienti o della materia non si
potrebbe rendere ragione di (jueste leggi del movimento, scoverte al nostro
tempo, e di cui una parte stata scoverta da me stesso. Perch io ho
trovato che vi bisogna ricorrere alle cause finali, e che queste leggi non
dipendono dal i)rincipio della necessit, come le verit logiche, aritmetiche e
geometriche, ma dal pruciph (iella convenienza, cio della scelta della
saggezza. Ed una delle i)i efficaci e delle pi sensibili prove dell'
esistenza d Dio per (luelli che possono aj)i)ro fondi re queste cose. Leibnitz
pretendeva anche che dal solo concetto della materia si dedurrebbero delle
leggi del movimento differenti dalle reali , e che esse produrrebbero gli
effetti pi assurdi e pi irregolari, e sarebbero assolutamente contrarie alla formazione
di un sistema . Fra le rettole generali che non sono assolutamente
necessarie, Dio scelse quelle che sono pi naturali, di cui i)i facile di
rendere ragione, e che servono pure il pi fall) Prne. della nai. e della ijraz.
n. 11. V. anche TeiMlieeu Prefazione, Sayyi sulla bont di Dio ere. parte S. n.
S4r-:^r>(), Esame del W Malebraiielie, eee. V. Lettera sulla quistioiie se
l'essenza del eorin eoiisistc iieiresteiiHionc (Duteiis). Leibnitz a Fontenelle
{Lettere e opaseoli di Leibnitz ed. da Foucher de Careil, 154. p. 227) e Pise,
di mrtafis. {iVuove le^ tere e opnsc. ed. da V. de C.). cilmeiite a rendere
ragione di altre cose. E ci che senza dubbio il pi bello e che vale il
meglio . I.e vie di Dio, egli aggiunge, ripetendo il concetto di Malebranche,
che uno degli argomenti preferiti dai teleologisti, sono le pi semplici;
perch il saggio fa in modo, il pi che si pu, che i mezzi siano pure jini in
qualche maniera, cio desiderabili, non solo per ci che essi, ma ancora per ci
che essi mno (l). Ma Tapplicazione pi notevole del principio delle cause finali
in fisica il concetto di una economia di forze e di tempo che la natura
prenderebbe per regola nella produzione dei fenomeni. Tolomeo avea dato come
spiegazione del fatto che i raggi della luce ci giungono in linea retta, che
essi passano da un punto ad un altro per la via pi breve, e per conseguenza nel
minor tempo possibile; con (luesto principio erano state spiegate pure dagli
antichi le leggi della riflessione della luce ; Fermat lo generalizz, estendendolo
a quelle della refrazione. Leibnitz spiegava queste leggi, e tutte le legai
dell'ottica in generale, per un principio analogo, cio che la luce segue sempre
la via pi facile {la via pia facile era definita quella in cui il prodotto
della via percorsa per la resistenza dell'ambiente un minimum) : questa
spiegazione fa vedere, secondo lui, Futilit delle cause finali, perch mostra
che dalla considerazione di esse possono ricavarsi certe verit arcane e di gran
momento, che sarebbe difficile di ricavare dalle cause efficienti, la natura
dei raggi della luce non essendoci cosi conosciuta da poter rendere ragione per
le cause efficienti delle leggi che essi osservano nella riflessione e refra
Saggi nulla bont di Dio ecc. $. 208. De unico opl., catoptr,, dioptr. prine.
Duteus . Il zione. Questa legge di economia fu elevata da Maupertuis a legge
fondamentale della meccanica, formulandola nel suo principio della minore
azione, in cui egli vedeva Tunica prova delTesistenza di Dio, fondata
sull'ordine della natura. la che sia possibile, che noi scopriamo (jueste leggi
generali, secondo cui il movimento si distribuisce, si produce o si estingue.
Non solo questo principio corrisponde all'idea ch(i noi abbiamo dell'Essere
supremo, in -ueiiza, delle legnai dei movimento, anzi la e^-^'e ])Li
universale della natura che eonoseiamo distintamente ; e^ lo considera
anch'eoli come una vc^rit fondata sulle cause finali (I)La sj)ie^azione
teleologica delle le-ione sono, dice Leibnitz. di due sorta: le une sono
as8olutanu^,nte necessarie; tali sono (juelle la cui necessit lo (o). Meditdz. erist., 7. u. IS.
Meditaz. erist,, 5. V. Siuiiiio sairintead. ani. speeiabiiente >. e. IV. ^. t. 'i dei fenomeni naturali gli sembrano rivestite
-ed perci che esse sono riguardate come contingenti e come arbitrarie
sollecita lo spirito umano a cercare una spiegazione qualsiasi, che possa
attenuare in (|ualche modo (juesto nistero: e dove pu trovare un tipo per una
tale s[)iegazione, se non in se stesso, dacch fuori di se, cio nella natura,
tutto gli seml)ra incomprensibile e misterioso'-^ Il fatto stesso che vi hanno
delle leiiiii nella natura, cio che i fenomeni si svolgono con un corso
uniforme. sembra aiirdresso cinti!ii:('nte ed arbitrario, perch
rincom|)rensibilir delle singole uniformit particolari rende pure
incompi-ensibile la legge generale d' uniformit che esse costituiscono: cos la
lea'a'e implicando, come abbiann notato, un ordine e una regolarit, t|U(\sto
fatto stesso entra naturalmente nel dominio della spiegazione teleologica.
Berkeley dice: I fenomeni, nella loro regolarit, sono un lingtiaggio per cui
l'autore della natura si i-ivela a noi. Questa stessa regolarit dei Menomimi
impedisce alla j)iii parte degli uomini di riconoscere la causa libera di
(jut^sti fenomeni. Essi sono pronti a pi-oclamare rintervento (T un essere
superiore, dacch Tordine della natuta pai-e sospeso, e non pensano che . (H) V.
. VII. i:^.:^. e v> Ki. " 'UHI portanti della dottrina delle cause
finali baster per mostrarti che essa ha eostiluito una spieg-azione, nel senso
stretto, amvei'Hcde della natura. Questa spie^'azione, unita a rjuella di cui
abbiamo parlato nel parao-ratb precedente, forma l'insieme di ci che possiamo
chiamare la sph'iiazione teologica doi fenomeni. E in questa che dobbiamo riconoscere
la vera base di o^-ni forma della iilosofa teoloo-ica, poich certo che lo
spirito umano non ha mai concepito delle cause, poste fuori del campo
delTosservazionJ, che i)er servire da spieo-azione desi su (jualche uniformit
che l'esperienza stessa ha costatat;^ tra i fatti. Chiamiamo invece a^trori
(pielle che non si fondano su qualche principio stabilito induttivamente, ma su
[)retesi le,i>-ami lodici fra le ide(% che non sarebbero il risnltato di una
o-cMieralizzazione di leo-ami costatati tra i fatti, ma sarel)bero intrinseci
alle idee stesse; sia che (pieste prove prendano j)er punto di partenza qualche
dato dell'osservazione, sia che deducano r esistenza di Dio da semplici
concetti, iidipendentemente da qualsiasi dato empirico. una conseg-uenza
dei principii della teoria della conoscenza esposti nel Sa^'o'io 1 che tutte le
prove di questo o-^nere sono necessariamente sofistiche: noi abbiamo visto
infatti, da una parte, che non vi ha alcuna deduzione possibile, che sia altra
cosa che un'applicazione a casi particolari di una proposizione gcMierale
stabilita da un' induzione precedente; e da un'altra parte, che un iiiudizio a
priori, cio una verit che deve ammettersi come evidente^ per se stessa, non pu
avere per oggetto l'esistenza delle cose n i loro le'ami reali di sequenza o di
coe't sistenza, ma solo dei rapporti che lo spirito stabilisce comparandole fra
di loro, cio le loro somig'lian/e e le loro differenze. Cosi non vi ha alcun
leaane infrinseco fra le idee (cio non risultante da una o'cneralizzazione
dell'osservazione) su cui |)ossiamo fondarci \n^r passare dall'esistenza d.'una
cosa a quella di un'altra, o per istabiliiv d'una maniera qualsiasi l'esistenza
di qualche cosa: questa, come oo'iii altra verit sul reale, se non un
dato immediato dell'osservazione, non [ui stabilirsi che induttivanumte, e
oi>-ni pretesa prova non induttiva non pu (^.ssere che un poralo,iMS'no.
L'iuduzrone non solamente l'unico ])rocesso legittimo per concludere una
proposizione vera, ma aiudie l'unico proc(^sso naturale per cui il nostro
spirito conclude una proposizione ijualsiasi, ch'essa sia certa o ipotetica o
anche assolutamente erronea. Generalmenle le pretese dimostrazioni a priori
dell'esistenza di ((ualche cosa o di (jualche leu'o-e del n^ale noli sono clie dei
sofismi artifiriali, incapaci picr se stessi di detcMMiiinare una convintone,
(piantunciue possano sembrare convincenti a chi convinto u'i, per altri
motivi, di ci che essi pretendono dimostrare. E vero per che nel determinare le
nostre credenze ao-isce. accanto alla induzione loo-ica, un processo
incosciente di assimilazione di tutti i tatti e di tutte le idee che possiamo
formarci sn di essi ai fatti e alle hh'e che ci sono pi familiari -roo-o-etto
di questo Sa-oio appunto di mostrare come tutti i concetti metafisici
risultano da quest' attivit incosciente ed extra-logica della nostra
intelli.i>'enza -. Ora i risultati di questo pr..c(^sso incoscio di
assimilazione, che soli si rivelano alla coscienza, e. s'impon-ono naturalmente
come delle verit evidenti per se stesse, cio a priori: vi hanno, per
consei4-uenza, dei sofismi, che non sono artiftntfi, ma naturali, e che
potrebbero costituire o-U cl(nn(mti di una dimostrazione a priori
sull'esistente, che sarebbe un mo 104 tivo reale di crcdoiiza, .spec-ialineiite
sul terrouo che il campo propri') di (|U('.sti solisiiii, cio (vuoilo
della metafisica. Ma la metafisica istintiva dello spirito umano Cloe la
hlosoHa teolou'ica, (; in i^'enerale, o-(5iuM-almente la i)roposizione
ri^-uardata come un risultato (h^lTesperienza, e r aromento esposto come
un'induzione, basata sull'anaIoM*ande parte di quest' ordine, presenta
(]ueste precedente, stato anche ammesso da al'/aii d(M pi eminejui
e dei pi critici fra i mod(M-ni, che hanno sottoj)Osto a un esame severo le
basi del teismo, e hanno respinto come di niun valore tutti i^li altri
aru'onu^aiti per provare 1' esistenza della divinit. L'argonumto delle cause
finali, secondo questi filosofi, non concluile, e costituisce la base unica
della teologia naturale, llume nei suoi Dudoijhi snl(( re/if/ioite tnfundc fa
dire a Filoiu' (che rappresenta le idee dell" autore, e rifiuta conu.
assolutamente vane le altre prove dil' esistenza di Dio): La belt e i rap)orti
Ielle cause finali ci colpiscono con una forza si irresistibile, che tutte le
obbiezioni paiono (e io credo che lo sono effettivamente) delle pure
cavillazioni e dei veri sofisiiii L'Essere divino si scopre e si manifesta
nell' inesplicabile nu'ccanismo S(({j!/irt sul frisino, l fturlr. Arf/outrnlo
dei su/ ni di piujio indurii. [2) VnvXv \. e raiinnirabilc struttura della
natura. Un oo-^c^tto, un disi-no. unMntonziono colpisce da per tutto il
pensatore pi'u'rossolano e pi disattento; ed alcun uomo non p trehbe darsi ad
assurdi sistemi sino al punto da rigettare (luest'idea in oom tempo: La natura
non fa niente iarano K evidente che le opere della natura hanno una torte
analo-ia con le produzioni dell'arte; e secondo tutte le reiiole della saiia
loo-ica, dacch noi ar-'omentiamo su (jueste materie, dobbiamo inferire che le
loro cause ha^mo pure un'analo.u'ia proporzionale Kant, che riduce a tre
le prove della rao-ione teorica p;'r dimostrare resistenza di Dio, cio
TontolouMca, la cosmoloo-ira e la Hsico-teolo-ica, dopo aver dimostrato l'
assohita iipossibilit delle altre due, dice della flsico-teoloo-ica (cio
(|U.dla delle cause Hnali): k la pi antica, la'pi chiara e la pi coiit'onne
alla rao'ione um.uii. Vivifica lo studio della natura, della stessa maniera che
tira la sua e-^istmiza di ([Uesto studio, e up riceve delle forze nuove. Le
conoscenze naturali, che essa estende, elevano la fed' in un autore supremo
siuo a una persuasione irresistibile. Sarebbe dunque' non solo privarci di una
cousolazioue, ma anche tentare l'impossibile, il pretendere di toii'liere (|ualch(^
cosa all'autorit di (pie sta prova ci). Kant distinii'ue la teolo.o-ia
trascendentale e la teologia naturale: la prima stal)ilisce un essere
primitivo, ma scMiza determinarlo come essere intellig-ente, ed fondata
suii'li aro-omenti oiitoloo-ico e cosmoloo'ieo; solo la seconda stabilisce
un'intelli-'enza suprema, e fra le prove della ragione teorica, non ha altra
base che lart' TuttJivii sectnilo Filoii.' P ar.-oiiiouto non t-oiirliulc elle
con pro\m\>ilitM. V. la stessa o]M'i-a sulla line. Crii, (it'llo n((/. /mni.
I>i verso la tino. ^mmeas^m 109 lOS fatto. in effetti un risultato
inevitabile di questo processo incosciente di assimilazione di cui sopra
abbiamo parlato, che noi dobbiano ricondurre oo-ii causa che fa incominciare un
movimento alla volont, che l'antecedente pi familiare dei movimenti che
incominciano, e non semplicemente si trasmettono. In questo caso, come in
(piello delle cause finali, la proposizione che risulta da (juest'assimilazione
incosciente, ci sembra evidente intrinsecamente, e pu quindi ri^'uardarsi come
una vcu-it a priori: ma essa pu esporsi pure sotto forma di argomento induttivo
o anaiouico, T assimilazione di cui si tratta essendo, nnclie in sit di
un'oriijine del inoximento, dando cos'i luo^'O all'arii-omento della causa
j)rima. -ata dai filosofi o-reci e che conclude a un primo motore, pu
riguardarsi come un raionamento naturale, e come l'espressione di un motivo
reale della filosofia teologica. L'altra, supponendo la dottrina della
creazione, non pu essere un motivo della teologia naturale, perch questa
la filosofia istintiva dello spirito umano, e una filosofia ha per iscopo la
spiegazione dei fenomeni; ora una spiegazione suppone che il fatto per cui si
spiega sia pi intelligibile che quello che si tratta di spiegare; per
conseguenza un mistero. (|ual la creazione, non potrebbe servire di base
a una s])iegazione, e quindi nemmeno a una filosofia: d' altronde un
fatto incontestabile che la dottrina della creazione non fu all'origine che un
dogma religioso, e solo in seguito si cerc di appoggiarla su argomenti
razionali. Cosi, se rifiet Vedi, per xiitista seconda ragione. Kant Dialett.
traxcfndenl. 1. 2. e. 2. sez. 2. Terza opposiz, delle id. tntseendcitt. Cfr.
Ken(nivier Nnoca Momidologia, o. parte. H8 e 1). i tiamo inoltre che fra le
prove dcill'esistenza di Dio quelle delle cause finali e della causa prima sono
le s^le che s' incontrino a tutte le epoche e pr(\sso (juasi tutti i filosofi
che hanno seguito il sistema teologico, le altre non essendo che particolari a
certe epoche e a certuni di (|uesti filosofi; noi giungiamo a questo risultato
non inatteso: che i ragionamenti naturali [)er provare l'esistenza della
divinit non sono altra cosa, sotto un altro aspetto, che le due funzioni della
divinit, come principio esplicativo dei fenomeni, di cui al)biamo i)arlato nei
due paragrafi precedenti. Le prove di un'ipotesi, in effetto, non ])otrebbero
essere altra cosa chi* i fatti di cui (|uest'ipotesi serve a dare una
spiegazione, provare un'ipotesi per i fatti e potrebbe esservi altra provaV e
s[)iegare i fatti i)er l'ipotesi non essendo che due lati d'una stessa
operazione mentale, che si possono distinguere per astrazioiu^ nu^itre in realt
sono indivisibili. Sembrer strano che mentre le prove realmente convincenti
deir esistenza della divinit sono induttive o analc>giche, consistendo
essenzialmente in un' assimilazione delle cause dei fenonu'ni della natura alla
volont umana e alla sua catisazione ; a queste prove naturali i metafsici
abbiano s s|)esso preferito dei sofismi artificiali [)retesi dimostrativi, ma
privi in rc^alt della minima forza probante, come sono in generale i
ragionamenti a priori, (juando si tratta della dimostrazione del reale. Questo
fatto si spiega anzitutto |)er due cause generali: 1" (j)uesta forma di
metafisica che noi chiameremo filosofia apriorista, e di cui parleremo nel
capitolo VI. Essa eleva a tipo unico di certezza la certezza matematica o, come
si dice anche, metafisica, cio intuitiva o dimostrativa, non lasciando alle
verit induttive che una semplice probabilit. L' esistenza di Dio, che non pu
essere una semplice verit probabile, deve essere dunque dimostrata -2^ La
filosofa teologica, per questo 112 processo di,lisantro,.oii.orti'///>azione
progressiva, di cm parleremo nel para-rato seguente, g'iiinge a. conciati di
Dio essere p.-rfettissiino (cio intinito in ciascuno dei suoi attributi) e
creatore della materia. Ora gli arg-on.enti naturati deir esistenza di Dio (cio
.,uelli delle cause Hi.ali e .lei primo motore) non potrebbero provare ne l'uno
n raltro di luesti due concetti. Cosi agli aro-omenti naturali saranno
preferiti dei sofismi artiiical. che avranno l'aria di provare anche qu-,sti:
fra essi i pi accetti saranno dei ra-ionainenti a priori, i-erche dei sofismi
induttivi non potrebbero simulare una conclusione rigorosa come fanno
necessaria nenti^ i deduttiviCon lu^ste cause generali concorrono delle cause
i)articolari: sono delle suggestioni dei concetti .Iella filosofia teologica,
che determinano la scelta di certi generi d" ar..-onmi,ti, che ottengono
la preferenza sugli altri, non perch.-'. abbiano una maggiore forza probante,
ma perch s' incontrano della maniera pi ovvia al punto di vista .lei sistema,
di cui sono cosi le conseguenze, invece di essere le ragioni su cui esso
fondato. Ci potr essere chiarito da un esame dei due argomenti a priori pi
importanti, cio rontologico ed il cosmologico. L'ont.>logicoun argomento che
pretende (Zmos meno, i: Non vi ha aJcuna cosa di cui mni vi sia una ra;_:'ion
sufficiente. ci( una ra^ioio che determini perch la co: dev perei a\ t're u H'
e."^>o s >u u a sia cosi o non altrimenti. Cosi ruuiverso na ra.iion
sufficiente, cio die deternini i;i cosi e. non altrimenti. Ma (juesta ra;Li'ion
fticiente d necessario, ma contin;:'ente (infatti >i pu concepire che esso
])olrebbe es.serc dilfereite da quello che ); e. da un'altra parte tato
presente del mond( abbia la sua raiiione nelb stato pi-ecedmte, e onesto in n
altro ancora, e cos di seguito, rimontando sempre 11 dall'effetto fenomenale
alla causa feiiomenah'. si potr andare allMnlnito. m)n si trover mai una
rai:ione i he non abbia l)isou'no di lU'altra rautvMS, t. II. i. II. p.e:.
i:2). Sn^ij/i snd hnHi d />!( :>S. (>s (Foik'Imt de ('jo'oii Uilmilz,
Dcsiut l'ics f Spi sii-raz. sit Sjti iior.ii i(o:.ti. ]>. 21;")). ('((
116 117 Come si vede, rar*;'oinento eosiiologico diverso e indipendente
(in (|iiello della causa prima. (Questo si foitda suirimj)ossibilit logica
d'nna serie intiiita di eause; ma i'ar^oneiito eo.smolo^ieo non snppone, beneh
Kant io affermi V. Dialett. traHccnfL I. *J. e. o. sez. .) che una serie
infinita di cause im[)Ossil)i]e, coicludendo da ci la necesisit di una
causa prima. Leibnitz, esponendo Tar^omento, suppone quasi senpre che la serie
delle cause fenomenali j)un essere infinita. Clai'ke, che fa uso pure di una
forma del T argomento cosmolog-ico. respinge una serie infinita di cause cone
assurda, ma ci non perch sia intiiita (poich uia successione infinita non ,
egli dico, coitradio. vu\t.:\, (nte): ma da (juesto principio non pu
conchnlersi che il mondo stesso, cio l'insieme di tutti gli avvenimenti, devo
avere una causa. Che ogni cosa, e non solamente ogni ((rrnimento. abbia una
ragione che la determiii e possa spiegarla, non vero che se si ammette il
teismo e la i)ossibilit di dimostrare l'esistvnza di Dio assolutamente a priori
(cio per rargomento ontologico). solanu'nte allora che ogni cosa in
geupralf avr una ragion sufHciente, cio che determina perch essa cos
piuttosto che altrimenti, o, come dice Clarice, per cui essa esiste piuttosto
che non esiste; perch solamente allora. noii solo ogni avvenimento avr una
causa (in un avvenimento anteriore). ma avr anche una causa la serie intera
degli avvenimenti (compreso il loro subtratum permanente), e (juesta stessa
causa avr, come dice Clarke, una caum intcriore (cio la /?cvpssif ((ssolnta,
che nessun materialista ha mai pensato di attribuire al mondo stesso). Tuttavia
la r/.s* probante dell" argomento cosmologico non sta sohimente in una
est(Misione illegittima del principio di causalit e in un soti>ma di
confusione tra il i>rinciiMO stesso e (|uesta .Mia estensione illegittima
che Leibnitz ha formulata col svu princii)io di ragion sufficiente^ . l>ench
non si abbia alcun diritto di pretendere che le inclinazioni del nostro
si)irito diano k'ggv alle cose stesse. non vi ha dubldo che, se le cose si
conformassero al sistema dei metafisici che ammettono il principio di ragion
sufficiente e rargomento cosmologico che ne 1" applicazione, rak' a
dire resistenza di una eausa prima e una ragione capace di spiegare (piest*
esistenza stessa; ci non sarebbe pi soddisfacente ]er la nostra intelligenza
che una successione infinita di avvenimenti senza una causa esteriore \n causa
interiore la lasceremo ai metafisici). Nel primo caso tutto sarebbe spiegato,
mentre nel secondo caso vi ha necessariamente (jualche cosa ns che rosta s(Mi/a
s|)ii\ii'a/^i>"ne.. e io e l e Mi l chi a ma c cnllocaziovi prhhitivi'.
81 potrebbe, ])(*r conscuiKMiza. essere tentati di vendere, con Kant, neirarii'oniento
esniolouieo, non un .>einj>liee sofsna, ma un raijoamenfu naturale : ma l
(lrve il ravattere artilieiale dell'ai-.i^oniento il) V. Ctn'iftf fh'lin
)((r>( l>'nih'il. Ir'n. >soint .-oiK-iirr i!r;irio 0 niridcn
ihI>oi!>jI>!' (1('1!:i niuiniu". li cui iioi si piiT i.n\
;nUi.-tt/\:i. (i;L; mi;i lfli;i r;iiii]H)sizinni MtVcniin r
i";ilii-; 1( uv'j^-.i. {halrll. IrasrrmhHf. I. '_'. e. li. scz. 2. (Jinnhf
uftpoy/iziom). i}n\ iMi \'r;i del s'.lni rciiiin ;i J1M':ifisirn ii:f;i!-Ml4>tT;:*ibo
osscir che uua c'T!o (le |u-n}>(si/.ioi>i (Iclir ;i!lr' i i'' ;Mit
in(Jiiic I'omI nio i|ua U!i |Ui!Hij>;o ti cojicIihIc Trsscrc ;is:*o
hitMUKMitc lcccssjo'io e loud.-ito >ul ju-incnuo ; in 1/ l'oi-niulnrlt: u-i
jU'n no, 111 p'r se ste n'erinnn. cnle in coni i-nbli/ione con >e sto.
Ile culi nllennn iur {Uulctl. /rffsmnlfjif. 1. J. llo s|nrito scolastio le
rm-'^onicnto ont>!i:i;i IO 1 esselH' IS-.0 liitni nenie n' !icliis> Ini
primo. HSW 119 si tnos tra della maniera, pi palpabile, piamb) si tratta li
provare che Tesscu-e assoluta in^nt e iuc essano e Dio. etoe un ess ere dotato
d'intelli.u-e]./?! (^ di volont. Se biso"ue)-obbe pro\ nre clic Dio
un ;scrc ns>oliitnment' neee-sano: mn -io e he pi-o\ a jucsto i'
nppnnto rnr-nu':it ont.ui. C^uest' osservnzi om' li Knnt i' senza
dubbio liiustn. p'rcho che un essere In Mli e ]uiu: K^. dovreblu l'nr
vedere e Voler dire nllr.i -o.-n isleizn mn Ncritn n'ce>snrin
un>er hv 1 ( nr'j.'tHiUMrn eosnio 1 o 'J. ICO he r esistenza li l.)i o
e poti* bile faro che 1' ara:onicnrA'i' l'osse eon\ !n'-'llte. l:il'. ci ehe
nui K (>\iib'nte che se rari;^ m(d;"i-o mm ' che T ni-.^o nneiito
onldo.uico sviato, e (U'si) '. una seinpnc' iinu) vazione tbdh spirin
>eola stici) . -io*' un puro s tmhnudc, ma H titleinle. pudo n)n i>no
-ssere un \v v^^Wi' an(dr"^so. e ra'j.M>H(' 1) Tra una sem]di-e
inn\ le 1 ;l pili lortc >ro\ ns larenio iiHMizine li luni.ata la
("lnrk' iTrnlL .h-ll' r^isl. r .tnln svilupi drilli iillr(>. (li
l>i' !>iciito "iiui-.' i.iipi\u'*'it;i nil(.'^iM): e->a si \
r>\ a '^i; 1. ed ' unn d,i Sii rh':tiio ni le 1. J/-joni 1 ni! ;ln JU'
o\n SI > mdinle he In l-v e a\'ere u, li ;ill libili i lidio spirilo, prem
tsi un a-iiomcnto (die e pu> s'm altri, non e puutp'rienza con1'riii; nii'c
die lallo spiriOi hrare jd jdaiisildh' li Innli ino adi assimilazi)n' inco!^dcn
na turale bd n>stro s)nri (o. S' noi lomamlianu pr(dH lo siurit*
]>rovenir i' la ca:ir>:! > re s'm pre [MU ec. in-r -mseoiu-nza
r's>eiv primiivo levuram(Mite artiteiali. Kaut pu affermare eu' esso
un rao'ionamento naturale, percli emv iit'll; cmiism.
l)i>>^iert'lb' . /'/. e. U.i. La srLMUMla ra^iojie una f'oi-nia
s(>ttile e, jm-i ilir eos. impalpabile drl piiiu-ipi' Im 1" csscic non
in. venire lai niente {'Ih' era ra>>it>nia Ir-ii antielii Fi-^ici -n'ci.
e sLtni1eava vhv. u realta, nirnt' na^cr ne prrisre nel
lM/>//''/^f/*Vvw///r/ />///tr / veii in iicnrral'). I/applirin, non
>ai'eldc nn >ciMplicc imhi senso, ma mi'apcrta cont radilizionc: ma si
rvvit di ailennair in inahdie modo il mistero della ci'eazion( nna
/ttt/trri/taziour deli" essere e delie p'i-tezioni del reatore; i-osi
l'essere, in empre pii eceelleiite iUdV ettossibile. Ma quest' accordo,
(jtiest' armonia perfetta, della, moralit con la felicit noi non lassiamo
concepirla come un risultato delle semplici leggi del mondo sensibib-. ma essa
supi)one, (duoo per noi, una causa iitelligente e morale della natura, che
preordini Funiverso a ([uesto scopo. Cos 1' esistenza di Dio uu postulato
della ragion pura pratica. Poich un dovere ^'2'2 i2a por noi li lavorare
alla realizza/ione del .sovrano bene, una necessit, che (lei"i\a da
(questo dovere, di supporre la possibilit di inest( sovrano hcMie, il (piale,
non essendo possibile ehe alla coinli/icne delTesistenza di Dio, le^a
insepai'abihnente al dovere la suj)posizione di porzione, tra la virt e la
t'elieit una proposizione che nvar(\ Kant d, al fondo. |ueroposizioiu'
come una cr(o ( 1 1 vere, porterebbe imnauliatamente con s('' la credenza della
possibilit manda assai naturale: (juale possa essere lo scopo di (piesta strana
inversione loo-ica, che d come un rauioiK^ dell'esistenza di Dio ci che non ('
stMto mai rii:uardat(^, e inni polrebl )( essere l'iii'iiardato altrimenti, h
he come una conse^iu^e.za di l.' pensieri ~ d l valore d(d dovere da ([Ualcin^
cosa il cui varie ri vare i lore sembri pi evidente intrinsecamente e | nn
im*oiites tabile, cio(' la felicit. Kant ])(msa, al fondo, dir ])oich(> il
doverv' ci (' incontestabile, esso dato come un che di un valore b^A ess
ere accompau'nato dalia \. \\\ [>iirlr m (li [licslo S;i.u,Li H. 124
L*rMleuza del suo accordo con la fclifit, perch, se uou fosfse cos, il suo
valore non ci sembrerei be incontestabile. Cos rai-ii'oinent^ di Kant ion
rhc nun variante del vecchio ar^onn'nto dei teoloiri. che la leuiife inorale
suppone un le'oniento die im[)lica (sia che si dica o si sottintenda) che 1'
obl)liii'azione morale dipernle dal premio e dalla [)Uii/ione dis|)osti da
(pitvsto legislatore I). Tuttavia lo sco|)o di Kant non tanto di dare un
fondamento airobbli^azione morale, quanto di realizzare ["ideale il'un
ordine morale nel mondo. A questo punto di vista, il suo argomento, quantunque
privo di qualsiasi valore lou'ico, ne ha senza dubbici uno psicologico
evidente, essendo 1' espressiom* di uno dei motivi i-eali che contribuis**ono a
mant(mere la credenza air esistenza della divinit, nella parte mialiorc^ del
*ienere uiiano, quantun(pn' lu'ssuno abbia mai j)ensato. prima di Kant, a
vedervi una [)rova di ici, le nliioni inferiori, come osserva Tylor , essendo
separate dalla morale, e solo i popoli progrediti concependo la divinit come
autrice d' un ordine morale nell' universo. Kant, i)er accordare al suo
ar.i;oment( morale una forza probante che nea all' ar^iomento fisico-teologico,
non ha che una ra^^ione decisiva: che solo il primo, e non il secondo, pu
})rovare la perfezione assoluta della divinit (l'onnipotenza, ronniscienza, la
bont infinita, ecc.) (2;. M.'i ei un'altra j)rova che esso non pu essere
la vera base della teologia rwiturale: ])oich questi concetti non ai)pariscono
che ad un certo ^'rado dello sviluppo delle idee sulla divinit, di cui non si
pu rompere la continuit coi irradi inferiori. Infine noi dobbiamo osservare
sull'aro omento di Kant che, quand'anche esso fosse nafaraU'. non
contraddirebbe .'dia l)ro|)Osizione che noi abbiamo cercato di stabilire in
questo para^Tafo, cio che le sole basi razionali della filosoHa teologica sono
la [)rova delle cause finali e quella del primo motore: che cosa esso
infatti se nmi un caso della prima di queste due prove, applicata a un ipotetico
ordine morale, invece che alTordine, sino ad un certo punto reale, del mondo
tisico? Perch noi dobbiamo preferire l* idea di un Dio autore della proporzione
fra la moralit e la felicit alla dottrina buddista del Karma, secondo cui
questa proporzione il risultato spontaneo deiriucatenamento fatale delle
cause e deoli effetti, se non in virt di quest'argomento (abbia 'fvlor,
Crilzzdz. /irimif.. aradossastica la dottrina budtica, perch eom{)rendia]no dir
la j)rop'edi'em mo (*h(; la constatazione pni*a e sein|)lice (hn tatti. Ci a
cui si dovono in i:ran |)arte le pi'o\i; sofisticlh ilell 'esistenza di Dio,
cio 1* incaj)acit (hdle prove naturali .'1 dimostrarlo come Ti^sscre dssnhif n
o /// fin il dalla rai^ione. anzi spes-^o in antaii'onismo e in
contraddizione con econdo (.'ousi mono in un tatto permanente, sempro presente
uidla coscienza, e che consiste a percepire al tem[)0 stesso: W tiito (eh'e;;li
chiama anche relativo, contingente, ecc.), Yinfinittf (che chiama anche
assoluto, necessario. ecc.) \. ^I;i\-.M filli r. Lk srienzd ilrlln /r/ifjionr.
1 y e il rajporto tra i due (cio che il finito ha per causa e pe4substratum V
iiifnifo). I nostri ontolooisti (secondo i (piali. non solo noi conosciamo Dio
immediatamente, ma lo vediamo), invece die deir/////y///o j)reterivano parbii'e
AAV ('ifii ro'JoH dista, dalla uni versali! i della ere denza non si conclude
immediatamente cln^ essa xcra. ma (die naturale ed istintiva: ci
prova, continua l'ar.2^omento, che ess;b necessariamente vera, perch
un'aftermazione immediata d(dla coscienza non pu mettersi in dubbio, ma deve
ammettersi come lUia verit assi(matica. I. 'altra forma della (butrina
una conseuuen'/a de.uii ai\i:'onH'nti a priori. Alcuni di ati (li tutti, cio
rontoloa'ico e il cosmi)loul concetto che l'essenza dell' anima consiste nel
pensiero i2), cercando dcdle idee che [)ossano essere un patrimonio ori^-inario
dello spirito, Je trova naturalmente nelle verit evidenti per se stesse o
pretese tali. La dottrina (h^ll'intuizione razionale ha [)er oriori ili
generale, ammettendo una percezione immediata del Vero stes.so obbiettivo o
delle verit in Dio (P^) la dottrina di Cousin della partecipazione a una
Jiagione un4 V. Apft. ai (Uff). G. v> fi. noti! ultiuiji. V. Appenri. alla
partr t. e. 2. \S !. i^\ (^fr. Samio L e. '. ^ 7. versale non differisce che
verbalmente da quella della visione in Dio .Nell'ipotesi di questa percezione
d'un oggetto che col soggetto percepente in un rapporto invariabile, il
pi semplice di ammettere che essa permanente, tanto pi che la
trasformazione delLargomento cosmologico in verit intuitiva arriva naturalmente
alla formula che la percezione del contingente, o del suo sinonimo il finito,
implica quella del necessario, 0 del suo sinonimo V infinito. 5. Il risultato
dei paragrafi precedenti, cio che la base della filosofia teologica in un
processo induttivo, che consiste essenzialmente ad assimilare le cause dei
fenomeni e il loro modo d'azione all'uomo e all'attivit umana, pu essere
dissimulato da un processo in certa guisa contrario, a cui si confermano, nella
loro evoluzione, i concetti teologici, che consiste in ci, che pio e il suo
modo d'azione si vanno disassimilando progressivamente dall'uomo e l'azione
umana, e pu essere chiamato ([Uindi, come stato chiamato infatti,
adisantropomorfizzazione della divinit. Questo processo d
disantropomorfizzazione progressiva pu considerarsi sovratutto sotto due
aspetti. L' uno ci mostra una differenziazione crescente tra il sovrannaturale
e il naturale. Al principio gli esseri soprannaturali sono degli agenti fisici:
quantunque si sottraggono ordinariamente ai nostri sensi, essi possono
apparirci, quando loro piace, e mostrarsi per ci che essi sono, cio come
persone visibili e tangibili. La persona, il sustrato fisico dello spirito, si
va mano mano smaterializzando, e finisce per diventare una sostanza spirituale,
cio un quid inaccessibile ai sensi e all'immaginazione. Una trasformazione
analoga avviene nello spirito stesso, cio nelle qualit mentali degli agenti
soprannaturali: queste diventano sempre di pi in pi sovraumane, e finiscono
anche per perdere questa condizione di ogni coscienza empirica, 9 Hi) anzi pi
'uardano come j)erfezioni \i\ ven^-ono conferiti in un i'rado vsempre pi
eccellente, sino al pi alto cbe sia |)0ssibile di concepire. Cos dano che non
sarebbe il risultato della scelta e della deliberazione, e cIh' non sarebbe
lUMiiineiio tonnato da Dio, perch eterno come Dio stesso, piuttosto che 1'
opera della ragione, noi vedremmo quella d' un istinto o di un accidente fortunato
; e che il volere un processo, ed quindi evidentemente impossibile
di concepire un atto di volere eterno, perch una serie di cangiamenti non pu
concepirsi come eterna. Alle inconcepibilit di una coscienza che non consiste
in atti successivi la teologia cristiana aggiunge l'altra pi patente di una
durata che non si compone d' istanti successivi. In Dio, dicono i teologi, non
vi ha ne passato n futuro, ina un eterno presente. Nella sua durata o, pi
propriamente, nella sua eternit^ non si deve concepire alcuna successione:
essa indivisibile, infinita e sempre presente tutta intera {tota sinuU).
E un presente immobile, indivisibile ed infinito, un istante che racchiude
tutta l'eternit. Noi abbiamo qui evidentemente la contrad-dizione nella sua forma
pi aperta, V attribuzione allo stesso soggetto di due attributi opposti, il
massimo ed il minimo, la durata infinita e l'esistenza che si esaurisce in un
istante indivisibile.. L'altro elemento della teologia t rascende/ntale, cio
l'esaltc^zione di tutti gli attributi divini sino all'infinito, talmente
caratteristico nella forma pi evoluta della filosofia teologica, ch'esso viene
considerato ordinariamente dai metafisici moderni come ci che vi ha di
])ro])rio e di essenziale nel concetto della divinit. Secondo i filosofi
teologici Dio si definisce V essere perfettissimo^ o anche V infinito o V
assoluto. Dopo aver formato, dice Locke , per la considerazione di ci che
Snyyio HuWhatnd. nm., 1. 2. '. 2S. :. proviamo in noi stessi, le idee
d'esistenza, e di durata, di conoscenza, di potenza, di |)iacere, di felicit e
di molte altre (|ualit ( potenze che i)i vantaggioso di avere che di non
avere, (piando vogliamo formare l'idea pi conveniente dell' essere supremo che
ci possibile d' immaginare, noi estendiamo ciascuna di (pieste idee per
mezzo di quella clui abbiamo dell' infinito, e cono'iuuii'endo tutte (Uiest(^
idee insic^nui, ci formiamo la nostra idea complt^ssa di Dio. Tale
elfettivamente il processo per cui la teologia trasc-endentah' giunge a! suo
concetto della divinit: la stoffa per cpiest' idea j)resa in noi st(vssi
(antroj)onorfismo): il lavoro della teolou'ia trascendentale consiste a
soj)prinHM-e certe (pialit della natura umana, che servita da tipo
primitivo, conservando quelle che pia rantaggioso di arerc chr di non
arere, ed esttnnlendo ciascuna di (piestc per nu'zzo dell'idea dell'infinito,
cio facendo della potenza la i)0tenza infinita (onnii)otenza), della conoscenza
la coimscenza infinita (onniscienza), della saggezza la sagg(v.za iifinita, o,
come si dice pi ordinariamente. assoluta, ecc. Tra i nisteri della teologia
(piclli che passano ])er dottriU' filosofiche (essendo troppo intinamente
leo'ati al concetto moderno della divinit per non essere accettati aiu-he dal
deismo), sono dovuti in gran j)arte a (|uesto processo. Noi indicheremo:
l" TI dogma della creazione^ dal niente. K un' applicazione dell' idea
dell'infinito alla causalit. Se Dio non avesse creato anche la materia, le cose
non sarebbero prodotte interamente da lui, e ((uindi la sua causalit non
sarel)l)e assoluta, illimitata. 2" (Quello della ubiquit o onnipresenza di
Dio. Dio presente in ogni cosa, perch opera tutto in tutto, e vi
presente tutto intero, perch semplice. Egli essendo infinito, mentre il
mondo limitato, presente anche nello spazio fuori del mondo. La
presenza simultanea in nolte cose (conseguenza del .-^'atsf _-watij*.i!ib^
affis.--% j*i .-S*. JK principio preteso assiomatico che iiicnite pu agire dove
non ) gi un mistero per se stessa: 1' onnipresenza moltiplica questo
mistero, e vi ag'giuiig'e quello dell' infinito attuale. 3'^ La semplicit di
Dio (il pi straordinario dei misteri della teologia razionale). Dio
semplice, perch spirito la semplicit che. si attribuisce allo spirito
serve a spiegare la sua incorruttibilit e immortalit . Ma Dio non
solamente semplice come l'anima: la sua semplicit assoluta o infinita.
Dalla sua essenza, dicono i teologi, d(we escludersi ogni composizione; la sua
semplicit non ammette composizione: di materia e forma, di sostanza e
accidenti, di genere e differenza, di essenza ed essere. Dio fa tutto con un
fiat unico, vuole tutto con un atto di volont unico, conosce tutto con un atto
intellettuale unico, ecc. In lui non vi ha moltii)licit d'idee distinte: egli
pensa tutte le cose con un'idea unica, che l'idea di se stesso ; con
questa senza, conoscer anche tutti i modi ii eui (juesta essenza
partecipabile, e (|uindi tutte le cose, che ne sono, in vario modo, delle
partecipazioni. Quest'idea con cui Dio intende s e le altre cose, non si
distingue dalla sua stessa essenza: in Dio gli attributi non si distinguono
dalla sostanza n fra di loro; in lui il conoscere, il volere, l'operare, ecc.
sono la stessa cosa, e ciascuno di questi atti la stessa cosa che il suo
essere. Come si vede sovratutto da Ibi semplicit, questo processo di
esaltazione di tutti gli attributi di Dio sino all' infinito ha pure per
risultato (|uesto tratto caratteristico dei concetti metafisici, che 1'
assoluta irrappresentabilit. Tuttavia esso non raggiunge questo risultato che
in alcune delle sue aj)plicazioni: 1' onniscienza, l'onnipotenza, la creazione
stessa non oltrepassano la nostra facolt di concepire, uenza ultiinri il
i)rincipio posto da Aristotile ; una serie infinita di cause ed d' effetti non
iuplicando in sostanza altra difficolt loo-ica che quella implicata in una
serie reale infinita, e (piindi anche in una durata infinita del mondo nel
passato. Ma non meno evidente che questa conseguenza ci mette in presenzn
di una difficolt analoga a (juella che Aristotile risolve col suo concetto
dell'inniiutabilit divina: se la durntn infinita del mondo impossibile
perch implica una successione reale infinita, non sar anche impossibile, per la
stessa ragione, la durata infinita di Dio? Cos, come il concetto di Dio come
causa prima, cio come primo motore, non imo evitare la difficolt di una serie
infinita di cause e d'efPetti, che nella supposizione die in Dio stesso non vi
sono cause ed effetti, per conseguenza, avvenimenti, e che egli esente
dal cangiamento ; della stessa maniera il concetto di Dio come creatore non pu
evitare la difficolt di una durata infinita del mondo nel passato, che nella
supposizione che iu Dio stesso non vi ha durata, che la sua esistenza non
y una serie di momenti, e ch'egli esente assoluta mente dal tempo e
dalla successione. Le quistioni a cui rispondono questi concetti della teologia
trascendentale, non sono, secondo noi, fittizie; sono delle difficolt reali, a
cui lo spirito umano non pu evitare di cercare una soluzione, e che ai)partengono
all' argomento della 2^^ parte di (piesto Saggio. Cos, (piaituncjue le
soluzioni delia teologia trascendentale abl)iano il difetto evidente di evitare
delle inconcepibilit con altre inconce})il)ilit, talvolta pi ])al])abili, essa
, per questa parte, una vera filosofia, in (pianto risponde a dei j)roblemi
reali, dati nella natura stessa della nostra intelligenza, e le sue
contraddizioni, per (pianto egualmente manifeste, non sono gratuite come i
misteri della teologia dommatica. Aggiungiamo ehe essa anche, senq)re per
([uesta parte, una vera metafisica, perch la pseudo-idea dell'infinito attuale
(quindi aiu'ora i problemi a cui d luogo quest'idea e le soluzioni di (|uesti
problemi) il risultato inevitabile d'un'llusione naturale, (piella che ci
si)inge ad obl)iettivare le nostre sensazioni, e il carattere essenziale dei
concetti metafisici, nel senso proprio della parola, di essere uno
sviluppo dell-: illusioni naturali del nostro spirito. Il concetto che
Dio V infinito o l" assoluto, non essendo evidentenente che quello
che alla divinit si deve attribuire ogni ])err'ezioiu5 ed escluderne
ognimperfezione, spinto alle sue ultime conseguenze logiche (ed anche
illogiche), l' idea filosofica, cio moderna e pi evoluta, della divinit
costituita in sostanza da questi tre elementi: I'^ l'idea data dalla teologia
naturale, (piale ipotesi destinata alla spiegazione dei fenomeni, e
precisamente del movimento e della finalit; 2" quella che Dio la
causa prima; Fra trli nttrilmti dclhi diviiiitri clic si riattaccMiio
alTeleiiieiito della teolooia naturale
(quautiiii(Wf*ia!WiBasEBEaasE:raaBfeaara5^Eff uo e o^ il concetto che abbiamo
detto, che a Dio si deve attribuire ogni perfezione ed escluderne
oo-n'imperfezione. Non difficile di dimostrare che questo concetto,
spinto sino all'idea trascendentale dell' assoluto o V infinito, pu fondarsi
meno ancora che quello di Dio causa prima e gli altributi divini che vi si
riattaccano, sui principii essenziali della filosofia teologica, se questa si
considera come una spiegazione del mondo, basata su un processo induttivo, e
consistente ad assiniilare le cause dei fenomeni naturali alla nostra attivit.
Questa dimostrazione stata fatta da Hume e da Kant, e dopo di loro da
Stuart-Mill, che ha sviluppato logMcamente un sistema di teismo fondato
unicamente sulle prove induttive. A dir vero questi filosofi considerano come
base unica della teologia naturale l'argomento delle cause finali ; ma la
considerazione di Dio come causa del movimento non modificherebbe certamente il
risultato della loro critica. (,)uesto che dalle taiiioiitr ii naturai'
airuoino che il !iiiM)t(*i>ino), possiamo fare rii-iitrarc aiicie l'unit. Se
il iiioiiotoisiuo. dico Mill, pu essere preso pel rapprestMitaute del teismo
l'una maniera astratta, mm ^ tanto ]>ereli esso t* il cenere di teisnjt elie
prolessa^.jo le razze ]iii incivilite della sj.ecie umana, niseono il ;over!io
dell' universe a degli esseri sovrannaturali, sono incompatibili cos bene con
la permanenza di ([uesto governo a traverso una serie e(ntinua d'aiiteeedenti
naturali secondo leggi fisse, che con la relazione di dipendenza mutua clic
unisce ciascuna di queste serie a tutte le altre, vale a dire inconq)atibili
coi due risultati pii generali della scienza. {Samiio sui teismo, 1. parte, //
teismo, C'r.Knit Crii, della ntf/. /nwa. Dialett. trascead. Uh. 2. cap. S. sez.
VI). Tuttavia allo stabilimento del monte8mo ha dovuto anche contribuire il
processo jier cui spieghiamo in seguito il concetto dell'assoluto: ma e un
punto su cui crediamo iuutih; d'insistere. 141 prove su cui fondata la
teologia naturale non risulta n il concetto della creazione (causalit infinita
di Dio) n quello, in generale, deirinfinit degli attributi divini. La prova
fisico-teologica potrebbe dimostrare tutto al pi un architetto del mondo, di
cui la potenza sarebbe limitata dalla natura della materia che egli lavora, ma
non un creatore del mondo, all' idea del quale tutto sottomesso.
evidente che 1' argomento del primo motore non aggiungerebbe niente su di ci
alla forza dell' argomento fisico-teologico. In quanto all' infinit degli
attributi divini in generale, impossibile di concluderla partendo dal
mondo, perch per ispiegare un effetto si deve assegnare una causa
proporzionata, in altri termini non si deve attribuire a questa causa niente di
pi di quanto richiede V effetto: ora il mondo non ci mostra che degli effetti
limitati, imperfetti ; non si ha dunque alcuna ragione di concluderne una causa
infinita, assolutamente perfetta. Dall'ordine, dalla finalit e dalla grandezza
che troviamo nel mondo possiamo concluderne una causa saggia, buona, possente,
ecc., ma non infinitamente saggia, infinitamente buona, in-finitamente
possente, ecc. Per affermare che il mondo suppone un Dio dotato di questi
ultimi attributi, cio un essere infinito, perfettissimo, come suo autore,
bisognerebbe che noi conoscessimo che questo mondo il pi grande*, di
tutti gli effetti possibili, in altri termini che esso il pi perfetto di
tutti i mondi possibili. Ci importerebbe che noi avessimo comparato questo
mondo con tutti i mondi possibili, e per conseguenza che conoscessimo tutti
questi mondi possibili, cio che Kant Dialett. traseendent. l. 2. e. 3. sez. 6.
Cfr. Mill Samrio sul teismo, 2. parte Gli attributi, e 1. parte Argom. della
causa prima. u: o avessimo J' oniiiscieiiza. La verit di queste ol)])iezioiii
di Hiiiiie e di Kant contro la creazione e 1' inli nit degli attributi
divini stata riconosciuta anche dai filosofi spiritualisti : essi ne
hanno concluso che le prove induttive sono insutihcienti per dimostrare la
divinit, e che la dimostrazioiu' deve essere completata per altri argomenti
(iiuesti sarel)l)ero gli argomenti a priori ; noi abbiamo visto (;i) che la
teologia naturale non pu fondarsi su (piesto genere di prove). La dottrina delP
infinit degli attril)uti di Dio non solo non risulta dnll'osservazione del
mondo, ma anche incompatibile coi suoi dati pi evidenti. P^ssn lia dato
luooo al problema insoliil)ile di conciliare l'esistenza del male con la bont e
la })Otenza infinite del Creatore. Ha Dio la volont d'impcnlire il male, senza
averne il })otere? egli dunque non onnipotente. Ha il [)otere senza
averne la volont? dun(jue manca di bont. Gli sforzi che si sono fatti per
risolvere questo problema, non implicano solamente, diceMill, un'assoluta
contraddizione al imnto di vista intellettuale, essi ci offrono con eccesso lo
spettacolo rivoltante d'una difesa gesuitica di mostruosit morali . Tutti gli
argomenti degli a])ologisti delle perfezioni infinite di Dio si riducono in sostanza
o a sacrificare 1' onnipotenza per salvare la bont infinita, 0 a sacrificare la
bont infinita per salvare l'onnipotenza. Ora si suppongono delle possibilit e
delle im Huinc Sayyio 11. o, Dittloy/ii $nUa relig. ndturale \ \n\vU^,e Kant
Crit. della ray. pura Dialctt. trascend. 1. 2. e. S. sex. (>. e 7. e Orit.
della ray. pratira ijarte, L, 1. 2. e. 2. VII. \. .laiict Le cause ptuti, p;i^.
144-14;"), Paragr. 4. Saggio sul teismo, 2. parte. Gli attributi. Vedi
aiiclu' Arili il sarove della filosofia teologica, 144 145 escluso anzi
dalla principale di queste prove, cio quella delle cause finali. Lo stesso
Paley, in ammirazione d'innanzi alla struttura sapiente dell' occhio, non pu
impedirsi di farsi questa domanda naturale: Perch l'inventore di questa
meravioliosa macchina (che onnipotente) non ha dato agli animali la
facolt di vedere senza impieg'are. questa complicazione di mezzi V E un punto
su cui ha insistito particolarmente il xMill. Non (\ egli dice, andare tro[)po
lungi dire che ogni indicazione di piano nel cosmos una prova contro
Tonnipotenza dell'essere che ha concepito il piano. In effetto, che s'intende
per piano? L'invenzione: Tadattazione di mezzi ad un fine. Ma la necessit d'
essere abile, d'impiegare dei mezzi, una conseguenza della limitazione
della potenza. Perch ricorrere a dei mezzi quando per ottenere lo scopo non si
ha che a parlare?.... Quale saggezza si trover nella scelta dei mezzi, quando i
mezzi non hanno altra efficacia che quella che tengono dalla volont di quello
che li impiega, e quando la sua volont avrebbe potuto dotare altri mezzi della
stessa efficacia?.... Dunque le prove della teologia naturale implicano
nettamente che l'autore del cosmos, quando ha fatto la sua opera, subiva una
limitazione, ch'egli era obbligato di piegarsi a delle condizioni indipendenti
dalla sua volont, e di giungere ai suoi fini per delle disposizioni che queste
condizioni comportavano >. In verit potrebbe dirsi contro il ragionamento di
Mill che lo scopo del Creatore non era l'utilit, il risultato, dell' opera, ma
1' opera stessa ; che il bene dell' universo, l'oggetto ricercato nella
creazione, non sono i fini a cui le cose sono adattate, ma 1' adattamento
stesso, cio delle cose in cui vi ha della finalit, che manifestano Paloy
Teolor/ia naturale) Saggio snl teismo, 2. i>arte. un piano, una
coordinazione ingegnosa di mezzi ad un fine. Dio, secondo questo punto di
vistM. avrebbe fatto l'arte per l'arte; san bbe la spiegazione estetica della
creazione; Dio, come dice Eraclito, giocherebbe creando il mondo. Ma
(evidente che 1' umanit, presa in massa, non accetterebbe una tale spiegazione:
essa non i)otrebbe vedervi che un' ironia verso la creazione e verso il
creatore. Se 1' accettasse, alla difficolt evitata ne subentrerebbe un'altra,
perch un Dio, per cui la creazione ' non fosse che un giuoco, l'uomo non lo
troverebbe ne saggio n adorabile, e non lo chiamerebbe che per un'altra
contraddizione V essere perfettissimo. Fra tutti gli attributi infiniti della
divinit, oltre all'eternit (che, almeno in (juanto eternit ab ante, una
conseguenza logica del concetto di causa prima), non ve ne ha forse che un
altro che possa riattaccarsi alle ragioni della filosofia teologica, cio la
saggezza assoluta (in cui possiamo comprendere anche ronniscienza). Essa non
richiesta da una s[)iegazione teleologica del mondo, ma una condizione
perch questa spiegazione sia conjpleta ed esauriente, poich chiaro che
non ])otrebbe essere tale che nella suj)iosizione che i nuv/zi impiegati siano
assolatamente i pi idonei ad ottenere gli scopi. L'attributo di cui possiamo
renderci conto il meno di tutti, al punto di vista della teologia
naturale, l'onnipotenza: per vedere che quest'attributo non pu avere
alcun rapporto con una spiegazione qualsiasi dei fenomeni (e quindi alcuna base
filosofica), basta di riflettere che ad una causa supposta, perch la
supposizione abbia un valore esplicativo qualunque, bisogna attribuire dei modi
d' azione definiti, quelli che noi comprendiamo, e che per conseguenza possono
farci comprendere il perch dei fenomeni che si tratta di spiegare. Ora
evidentemente noi non possiano comprendere un modo d' azione di cui non ab10
bituno esperienza o che non imniaginiamo sui tipo di ci di cui abbiamo
esperienza: cosi ad nna causa personale noi non possiamo attribuire (per
ispiegare i fenomeni) che razione motrice, mentre la teologia trascendentale le
aitribuisce indistintamente tutti i modi d'azione concepibili ed anche
inconcepibili. Se nelle prove su cui fondata la teologia naturale non
troviamo alcuna base per l'infinit degli attributi divini, invano che
ricorreromiiio, per supplire a questo difetto, alle altre prove della divinitc
che, senza essere dei motivi reali della filosofa teologica, sono tuttavia
qnalche cosa di pi che semplici sofismi artificiali. L'aro-omento della causa
prima, quand'anche se ne concludesse la creazione dal niente, non potrebbe
servire di base alTonnipotenza perch una potenza che produce degli effetti che
nessuna causa naturale potrebbe produrre, non necessariamente una potenza
illimitata ; meno ancora UT onniscienza, alla bont infinita, ecc., che non
hanno il minimo rapporto con la capacit di prodarre anchv3 la materia.
L'argomento cosmologico pu riguardarsi come un argomento iialiirale, sinch
conclude all'esistenza di un essere necessario, quantunque per dimostrare che
quest'essere necessario un essere personale, uon possa servirsi che di
sofismi artificiali. Si potrebbe per conseguenza credere di trovare un
fondamento naturale all'idea di essere infinito o assoluto, se quest'idea avesse
qualche legame con quella di essere necessario. Ma non possiamo ammettere la
possibilit di alcun legame simile, poich in tal caso l' essere infinito sarebbe
dimostrabile a priori (poich un essere necessario quello la cui esistenza
potrebbe dimostrarsi a priori) , mentre noi sappiamo che non vi ha alcuna V. ^
L la nota a 118. Cfr. 113. dimostrazione a priori dell'esistente. Kant
afferma, vero, che il passaggio dall' idea di essere necessario a quella
di essere infinito naturale al nostro spirito, (juantunque non vi sia fra
le due idee alcun legame reale: ma in questo caso la proposizione Vessere
necessario h un essere infinito dovrebbe sembrarci evidente per se stessa
(perch ipiesto il carattere dei sofismi naturali), mentre gli autori
stessi che hanno impiegato r argomento cosmologico non hanno preteso che e^^sa
sia tale, ma hanno cercato di dimostrarla. Tutte le altre prove della divinit,
oltre le indicate, non essendo che dei sofismi interamente artificiali, noi
giungiamo duniungere anche Kant, secondo cui l'idea deire??.s realissimut (cio
dell' essere che racchiude oo*ni realt, ooui perfezione). (juantiuKiue ci sia
impossibile di dimostrarne il valore obbiettivo, data nella costitu/.ione
stessa del nostro spirito, come un prodotto spontaneo delle legM^i della
ra^'ione, derivante necessariamente dalla sua t'orma e indipendente da oo*ni
esperienza. Ma il tatto prova che l'idea dell'essere infinito cio, in termini
meno astratti, di Dio come dotato di perfezioni intinite luno- di essere
un'idea innata, o una di (luelle a cui lo spirito umano portato
naturalmente e, per dir cos, di primo acchito. non che il termine di
arrivo di un lun^o pro^Tesso, i cui ^radi sono seg-nati nella storia relio'iosa
dell'umanit, e che consistito in un'esaltazione continua del concetto del
divino, che andando da una sublimit a un'altra pi sublime, e accumulando
suj)erlativi su superlativi, non ha trovato inhne un punto di fermata, che
perch sarebbe assolutamente impossibile all'immaoinazione umana di oltrepassarlo.
Anche (juando il su[)erlativo influito apparisce nell'evoluzione delle idee
reli die gradatnm-n-e d:d livello del qro^Holmio (per usare la parola ricevuta)
antropomoriismo dei popoli primitivi, come basta a provarlo la contraddizione
tra ((uesti attributi e qtu^lh che eo-li ci mostra in azione nei miti che lo
riguardano. Nel dualismo persiano abbiamo Ormuzd, // H(jnore onrmcimU,
quantun(iue egli non sia il primo principio, e la limitazione della sua potenza
per una potenza anta-onista sia il tratto caratteristico di questo sistema
teolo-ieo; e un antico inno vedico attribuisce 1' onnivegii-enza e V
onnipresenza a Varuna, che non che unTdelle divinit che hanno acquistato
un posto i)iu elevato tra o-H esseri sovrumani degli antichi Arii dell'India
(li. Presso i Greci l'eternit o almeno l'immortalit-che verisimilmente il
primo degli attributi V Ahix-Miiller Ln scntzn dello reliulone, IV. Cfr.
Gol>let d'Alviella IM'ien d Pio wr. *li esseri organizzati. e nel resto
della natura nei suoi rapporti con essi, T uomo pu dunque concluderne un
creatore, che ab)ia per iscopo l'esistenza e la durata i)er un certo tempo di
(juesti esseri, ma non che questo creatore sia buono; perci dovrebbe
attril)uirgli j)er iscopo, non la loro semplice esistenza, ma la loro felicit o
la loro virt o qualsiasi altro oggetto, se ve ne ha, in cui gli uomini hanno
fatto consistere il bene. E vero certamente che una conse o-uenza
naturale dell'amore istintivo della vita che l'uomo consideri la propria
esistenza e quella dei suoi Suf/i/i snlti re/if/ionc. La iiatn-a. simili come
un bene per se stessa. Ma non ugualmente certo ch'egli consideri come
tale anche l'esistenza d(M bruti ^ci che sarebbe necessario perch l' idea di un
creatiu-e buono potesse essere suggerita dalla finalit degli esseri organizzati).
(,)uest'esistenza, piuttosto, deve sembrare alla pi parte degli uomini, non
solo senza valore, ma odiosa e miserabile, niente essendo pi naturale che 1'
illusione di giudicare un modo di esistenza felice o infelice secondo che esso
sarebbe per noi stessi un oggetto di desiderio o di avversione.
Un'osservazioiui che non poteva sfuggire ai )rimi filosofi teoloo'ic-i la cui
attenzione si fiss sui segni di i)iano negli esseri organizzati, che una
parte di questo piano destinata alla lotta e alla distruzione reciproca.
La sapienza della natura nel!" organizzazione d'un animale che lo rende
pro])rio al regin\e carnivoro, non meno ammirabile che in ipiella dell'
occhio o dell' orecchio o di (lualsiasi altro degli esempi favoriti dei teleologisti.
.Se o-rintestini d'un animale, dice Cuvier, sono organizzati hi maniera da non
digerire che della carne e della carne recente, bisogna pure che le sue
urnscelle siano costruite per divorare una preda ; le su(> zampe per
prtmderla e Incerarla: i suoi denti per tagliarla e dividerla; il sistema
intero dei suoi organi del movimento per cacciarla e raggiungerla: i suoi
organi dei sensi per vederla da lontano ; bisogna anche che la natura abbia
posto nel suo cervello l'istinto necessario per saper nascondersi e tcMulere
delle pieghe alle sue vittinie Sotto iiueste condizioni generali ne esistono di
particolari relative alla grandezza, alla specie, al soggiorno della preda, per
cui l'animale disposto ; e da ciascuna di (pieste condizioni particolari
risultano delle modificazioni di dettaglio nelle forme che derivano dalle
condizioni generali (l). Cuvier continua mostrando gli ^l)h^xalU' ricolnz.
tirila super/. (h'I f/Ioho. ( Pi-iiicipio ilcllji ileteniiiuazioiM delle ossa
fossili dv quadriiiuMli). adattaniemi infiniti in tutte le parti
dell'organismo, che sono richiesti da queste condizioni del regime carnivoro.
Non sarebbe una delle applicazioni meno forti dell' arg-omento
fisico-teolog'ico: ma (lual lo scopo di tutto ci se non di fare
dell'animale un predone^ feroce e sang-uinario? L'idea del padre che nei
cieli non , evidentemente, sugg-erita dallo spettacolo della natura
organizzata: non sarebbe chiamato uu padr.), senza aggiungere dei termini della
pi profonda riprovazione,un uomo che armasse i suoi figli gli uni contro gli
altri, ordinando loro di farsi una guerra senza piet, e mettendolo come
condizione alla loro esistenza. Se dall'organizzazione degli esseri animati si
volesse concludere, non solo un piano intelligente, ma anche un'intenzione
benevola. sembra che dovrebbe giungersi al concetto che tuttavia non si trova
in alcun sistema teologico, ne popolare n filosofico di un creatore e una
provvidenza differenti per ciascuna specie differen-te : il dio del gatto non
potrebbe esserci quello del topo, il dio del lupo quello dell'agnello, ecc. L'
antropocentrismo, cio il considerare che fa Tu .ino s stesso come il fine della
creazione, lungi di potere spiegare 1' idea della bont del creatore, ha bisogno
invece di esserne spiegato, perch un punto di vista che. evidentemente,
non potrebbe nascere dalla semplice osservazione dei fenomeni. Il Miil (i),
quantunque non ammetta che l'unico o principale scopo del creatore abbia potuto
essere la felicit dell'uomo e degli altri esseri viventi, pensa non per tanto
che un indizio delle sue intenzioni benevole pare essere fornito dal fatto che
il i)iacere sembra il risultato del giuoco normale del meccanismo, mentre
la pena nasce naturalmente dall'intervento di qualche oggetto esteriore nel
giuoco del meccanismo, e Sdf/uio ani teismo, (ili jittrilmti. 155 sembra
essere, in ciascun caso particolare, l'effetto d'un accidente. Ci mostrerebbe
che l'autore del meccanismo ha voluto il piacere delle sue creature, mentre la
pena non entrerebbe nel suo piano, ma sarebbe un risultato fortuito prodotto
senza mezzi im|)iegati appositamente e senza intenzione. Ma contro questa
conclusione vi ha un'obbiezione assai ovvia (che del resto non sfuggita
allo stesso Mill), cio che il piacere e la sofferenza stessi sono dei mezzi in
vista dello scopo unico che ci sia possibile di attribuire alla natura, la
conservazione dell'individuo e della specie. E evidente infatti che se il
piacere non fosse legato alle azioni che tendono a conservare l'organismo, ma a
quelle che tendono a distruggerlo, siccome una legge naturale degli
esseri senzienti di cercare il jjiacere e di fuggire la sofferenza, essi
cercherebl)ero sistematicamente, n.on gli stati che tendono a conservarli, nia
quelli che teiulono a distruggerli, e, per conseguenza, la loro specie non
potrebbe sussistere, (^uest' obbiezione, vero, suppone che questa legge
per cui gli esseri senzienti cercano il i)iacere e fuggono la sofferenza, sia
un fatto necessario e indipendente dalla volont del creatore, mentre invece
potrebbe ammettersi che anch' essa un caso di finalit, un adattamento per
cui i Mill inaici! pure altri fatti c-lio sun; V'uWt. che il creatore ha voluto
il piacere dvUv creature, cioi': che press(chc tutte le cose danne del
]uacer',' l'una specie o d'un'altra; che il semplice eser;r;ilili pensare
ad esso eome ]iaeevole. una sola e stessa eosa. E desiiaeere ehe vi si
le.ua. ' un'impossibilit tsi considera come tale, malgrado il suo empirismo e
la su!i avversione alle verit necessarie. stato sociale e a una vittoria della
coltura sugl'impulsi primitivi della natura umana. Il regno della giustizia
liei mondo esigerebbe che la sorte che tocca a ciascuno fosse la conseguenza
morale delle sue azioni: ci che si verifica completamente nel sistema di
Platone, in cui il carattere buono o cattivo di ciascun essere, il posto che
gli assegnato nel mondo, e tutti gli eventi che gli apporta la fortuna^
sono, in ciascuna delle vite che attraversa. la conseguenza delle sue vite
anteriori ; e in parte nella religione cristiana, in cui le ingiustizie di
(juesio mondo saranno compensate nell'altro, ma senza che il creatore possa es
;ere giustificato da una responsabilit che rende vana ogni altra
giustificazione, cio la distribuzione ineguale della virt e del vizio in
(piesta vita. Il fatto stesso che i filosofi teologici, per realizzare il regno
della giustizia, trovano necessario di fare intervenire un'altra o altre vite,
prova che essi non lo ve(h)no realizzato in (juesta, e che la loro idea della
giustizia divina non venuta dall'esperienza. Le ])asi induttive della
filosofia teologica non danno diin(|ue alcun fondamento n alla bont n agli
altri attributi morali della divinit. Vi ha appena bisogno di aggiungere che
(juc^sto fondamento non potrebbe trovarsi nemmeno sia nel concetto della causa
prima sia in (juello dell'essere necessario concluso dall' argomento
cosmologico. Noi possiamo quindi concludere che, considerando la flosotia
teologica come semplice sistema teorico, cio destinato a una maggiore
intelligibilit dei fenomeni, non solo noi non possiamo spiegarci il concetto
che Dio l'infinito, cio che possiede tutte le perfezioni, o, come dice
Locke, tutte le qualit che pi rantaggioso di avere che di non av^rc, ad
un grado infinito, ma nemmeno quello che egli possiede queste qualit ad un
grado qualunque, salvo la potenza e l'intelligenza. necessario dunque di
considerare (jualche 158 altro lato della tiosofia teologica, senza di che
questi concetti resterebbero incouprensibili. Nessuno potrebbe pretendere che
la tlosoiia teologica, almeno nelle sue forme popolari che, del resto, hanno
influito, pi o meno largamente, anche su quelle dei pensatori pi indipendenti
-non sia che un puro prodotto delle facolt razionali dell'uomo, cio una
dottrina rivolta unicamente a soddisfare V intelligenza, e che si comprende
pienamente come una manifestazione delle tendenze metafsiche del nostro
spirito. evidente ch(* un'interpretazione dei fenomeni, fondata su queste
tendenze, deve essere il sustrato delle religioni anche pi infantili perch i
sentimenti e le pratiche relativi agli esseri soprannaturali suppongono gi la
credenza ad esseri soprannaturali, ed impossibile di non riconoscere in
questa credenza, (jiiahimiue ipotesi si faccia sulle sue origini, uno dei casi
defila tendenza generale dell'uomo, manifesta in tutta la storia del pensiero,
ad assimilare a s stesso le forze della natura, e a trovare in
(juest'assimilazione una spiegazione radicale dei f nomeni. Ma non meno
evidente che questi sentimenti e queste pratiche, una volta nati, dovevano
necessariamente reagire sulle idee da cui si originavano, dando alle misteriose
forze della natura, gi personificate, dei caratteri meno appropriati alla loro
funzione di cause esplicative dei fenomeni, che a quelle di arbitri del destino
umano e di esseri con cui l'uomo era posto in relazioni analoghe a quelle coi
suoi simili, e che cercava di propiziarsi con mezzi egualmente analoghi.
Non difficile di comprendere come, in conseguenza di questo lato
emozionale e pratico dei suoi rapporti con le potenze sovrannaturali, l' uomo
finisca per attribuire ad esse, fra le qualit umane, quelle, e quelle sole,
che pi vantaggioso di avere che di non avere, cio eh' egli
org^oglioso di possedere e che loda nei suoi simili. ir39 ovvio
d'innnaginare le due cause che hanno contribuito sovratutto, se non unicamente,
a questo risultato. L'una l'idea, di cui nessuna pi naturale al
punto di vista antropomorfistico, che la lode, cos efficace per rendersi amici
gli uomini, non lo sar meno per propiziarsi gli Dei. L' altra, V inclinazione*,
innata a credere vero ci che si desidera. Sicconu^ le qualit che noi lodiaino
sono, in generale, quelle che ci sono utili, sono esse che l'uomo desidera nei
suoi dei, e che finisce quindi per loro attribuire. Queste stesse cause
spiegherebbero pure il concetto dell'essere infinito o |)erfettissimo, cio 1'
ingrandimento sino all'infinito di queste (jualit lodevoli che sono state
attribuite alla divinit? E ci che parecchi hanno inclinato a pensare, o che
potrebbe dednrsi da ci che altri hanno pensato. S. Girolamo chiama fatili
adulatores quelli che attribuiscono a Dio l'onniscienza ; e, per non citare che
i pi autorevoli, cos, cio per l'adulazione della divinit, che Mill spiega
l'attributo dell'onnipotenza , e Hume non sarebbe alieno dall 'ammettere questa
stessa spiegazione per tutti gii attributi infiniti in generale. Da un' altra
parte Kant sostiene, e, sembra, non senza ragione, che un autore lei mondo,
(lotato d' a/na sovrana perfezione, non potrebbe essere dimostrato da nessuno
degli argonu^nti teorici, ma solo dal suo argomento morale che prova Dio ])er
la necessit di una causa che metta in armonia la felicit con la virt .Questa
causa, egli dice, deve essere onnisciente, a fine di penetrare nelle mie pi
secrete intenzioni in tutti i casi possibili e in tutti i tempi; onnipotente a
fine di far toccare alla ma condotta le conseguenze che merita ; e Comment. hi
Habac. cay. I. Suf/glo sul teismo, Conclusione. (8) Dialoyhi shUk relig,
naturale, \nivtv XI.cos pure onnipresente, etema, ecc.. Siceoiiu; la i)rova
morale di Kant non , come abbiamo notato, ehe la tendenza a credere vero ci che
desideriamo messa sotto forma d'argomento, cosi, seg'uendo il suo j.ensiero, si
-iuni;eRd)bo naturalmente alia conclusione clie V orio'ine'del concetto
deirintinit degli attributi di Dio deve cercarsi precisamente in questa
tendenza. Ma e evidente che, anche unendo queste due spieg'azioni 1' una air
altra, non si avrel)be ancora una spieoazione sod disfacente, perch si
escluderebbero senza ragione altri fattori che possono reclamare giustamente la
loro parte nel risultato. Non vi ha, si pu dire, alcun elemento, in questo
rapporto ideale cl)e lega l'uomo coi suoi dei, che non lo s[)inga ad esaltare
semi)re di pi learabile della potenza a cui si sente sottomesso; il terrore
inspirate da questa potenza, misteriosa in se stessa altrettanto che nei suoi
liniti; lamore, la venerazione, Tanunirazione; tutti i sentinuMiti che entrano
in (luesto complesso che chiamiamo il sentimento religioso; coopereranno con la
speranza di propiziarseli rendendo loro gli onori pi sul limi e il timore di
offenderli formandosene un concetto non abbastanza elevato, e col desiderio che
i suoi sovrani e protettori siano tali da poter dargli tutto ci a cui egli
aspira, da una caccia abbondante alla giustizia assoluta nell'universo. Il
risultato tinaie sar necessariamente, come abbiamo osservato, che tutti gli
attributi della divinit saranno elevati sino al grado massimo che sia possibile
di concepire, cio sino airinfinito o all'assoluto. Gli stessi attributi che per
se stessi uon sarebbero una perfezione e un'eccellenza, lo divengono per ci
solo che sono attributi della divinit: Crii, della rmj. /uut. 1. iarto. 1.
L>. e. 2. VII. quindi devono essere innalzati come gli altri al grado
supremo, cio devono essere concepiti anch' essi come infiniti ed assoluti. Cos
la semplicit, essendo un attributo di Dio (oltre che il distintivo dello
spirito, che pi nobile della materia), deve essere necessariamente una
perfezione: i)er conseguenza anche la semplicit di Dio infinita o assoluta
(con tutti i non sensi che, come abbiamo visto, implica (juesto concetto). A
questo punto il filosofo prender rutti questi attributi infiniti "'li
ven:ono trasmessi dal teologo, e ne estrarr la sua formula pretenziosa che
Dio l'infinito o l'assoluto. la sola parte che spetta al filosofo
in questa (daborazione dell'idea dell'assoluto. Se per metafisiccf intendiamo
le dottrine che derivano dalle illusioni naturali o sofismi a priori ddii
wostra intelligenza (ci che solo ci permette di riunire in un' idea unica dei
fatti aventi in comune dei caratteri definiti e risultanti da uno stesso
processo dello spirito umano), il concetto dell'assoluto, nel senso in cui io
prendiamo qui, non , bisogna confessarlo, un concetto metafisico. Ma se non
lo in se stesso, lo certamente in una sua applicazione, con cui si
cerca di attenuare il mistero, che, in conseguenza di questo concetto stesso,
ha inviluppato il rapporto tra Dio e il mondo. Dio, dicono i filosofi teologici
moderni, l'omnitudo realitatis: egli possiede al pi alto grado tutta la
realt e tutte le perfezioni di tutte le co^e, e 1' essere e le perfezioni delle
creature non sono che delle i^ar^ecipazioni limitate dell'essere e delle
perfezioni infinite del creatore. Cosi tutte le cose preesistono in un certo
modo in Dio, perch ogni perfezione di qualsiasi creatura preesiste ed
contenuta in Dio, quantunque non nella sua realt difettiva, ma eminentemente.
Eia dottrina espressa nei celebri versi di Dante: Nel suo profondo vidi (die
s'iuterua. Legato con amore in un volume, Ci che per l'universo 8 squaderna. 11
1(^2 Storieameiite, ({uesta dottrina il risultato di uno dei tentativi
dello spirito eclettico, ripetuti nella storia della filosofia, d' innestare la
dottrina j)latonica delle hktv. nel sistema teolo'ieo. 1/ ovtoj^ ov, il
iravTcXcr ov di Platone, cio le Idee, in rui si riassumeva la realt di tutti
li'li esseri fenomenali, e che erano ri"ente da cui il concetto di causa
efficiente e le sue diverse applicazioni, e noi ])ossiamo per conseguenza
riguardarlo a buon dritto come un vero concetto metafisico. La sua applicazione
alla creazione dal niente certamente una delle meno naturali e delle meno
intellio-ibili che sia possibile di fariKi: ma ci importa che noi possiamo
considerare questa dottrina come metafisica a un doppio punto di vista, vale a
dire in quanto deriva dalle il/ Cfr. v^ t.. l;i nota a \nv^. IV.K lusioni
naturali del nostro spirito, e in (guanto una di quelle idee o pretese
idee trascendenti che caratterizzano la metafisica, cio che noi dichiariamo
nettamente inconcepibili, ma che il metafisico pretende che si possono pensare,
(quantunque non si possano iin.mcuf filare. ^ (). La distinzione [)iii ovvia
tra i diversi sistemi teolo^'ici (almeno tra quelli che ammettono, d'una
maniera pi o meno ri^'orosa, il j)rincit)ro dell* unit di Dio) (juella
del (lualisno e del panteisito. Questi due ti[)i generali della filosofia
teolog'ica (i)ervenuta al li'rado di dottriiia scientifica), alla loro volta,
presentano ciascuno una distinzione. ion meno importante, cio ndo stesso, V
ordine, le cause finali, non avrebbero, in (juest' ij)otesi, una spieg'azione
altrettanto soddisfacente che l origine del movimento. In effetto la
spiegazione teleologica non ha per tipo l'attivit che noi esercitiamo sul
nostro proprio corpo, ma quella che esercitiamo sul mondo esteriore: l'artefice
non pu essere la sua opera, il demiurgo del mondo deve essere distinto e
separato dal mondo stesso. E ci che si verifica nella dottrina dei filosofi
antichi dell' anima nel mondo: essa spiega i movimenti spontanei dell'universo,
facendo di (juesto un tutto vivente e animato; e spiega pure il suo ordine o la
sua finalit, facendo della sua anima un essere distinto ed esistente per se
stesso, che ag'isce sul suo corpo come noi agiamo sui corpi esteriori. Questa
dualit di un'anima e di un corpo dell'universo esiste anche nei sistemi
panteisti : la differenza che, mentre nei sistemi dualisti l'anima e il
corpo sono coeterni, nei sistemi panteisti il corpo proceduto dalT anima,
questa essendo identificata con l'elemento materiale primitivo, da cui tutti
gli altri (costituenti il corpo del mondo) si fanno nascere per una
trasformazione successiva. Questo panteismo fondato cos su due concetti,
che la scienza e la filosofia moderna hanno abbandonati, ma i pi familiari
all'antichit: la materialit dell'anima, che la forma primitiva dell'
animismo ; e la convertibilit reciproca degli elementi materiali, riguardati
come delle forme diverse rivestite successivamente da una stessa sostanza. Per
questa estensione all'universo dei concetti sull'uomo, che costituisce 1'
essenza della filosofa teologica, l'anima divina del mondo riguardata
anch'essa come materiale; tra i diversi elementi materiali, essa
identificata con quello che sembra il pi attivo di tutti, e di questo si fa lo
stato originale di tutta la materia, in modo che sia al tempo stesso il
materiale con cui il mondo stato costruito e il principio demiurgico che
lo ha costruito. Le osservazioni precedenti si applicano della maniera pi
esatta alla filosofia teologica dei Greci. Noi abbiamo il tipo del dualismo
antico nei sistemi di Anassagora, di Platone e di Aristotile: nel vn 2^ abbiamo
gi osservato che in questi sistemi, come in tutti gli altri, Dio l'anima
del mondo, cio un principio il cui ra])porto con l' universo assimilato a
quello dell' anima umana col corpo umano. Lo stoicismo e i sistemi affini ci
danno il tipo del panteismo antico. Il mondo, dicono gli Stoici, un
essere vivente di cui Dio l'anima . Dio la Mente dell' universo , la
Provvidenza che governa il mondo , il VO'JC o il X^og che penetra ogni cosa ,
ed il principio motore e ordinatore del tutto (o). Il mondo somiglia all'
uomo, e la Philod. De /fietaf. e. 11. Seuccji Nat. qu, prol., IH. Philod. De pletat,, v. 11,
Dioj,'. VII. 138. Diogene
VII. 138, Cleanth. Hymn. in Jov. v. 12-13 M., wa-. V. 2. pao. 0.5 e 3. pa-'. 84. Provvidenza airaniina
umana. Neil' uomo, T anima un soffio ealdo, diffuso in tutto l' or,
(IsdciM) ////>/>. et PIat, Piar. III. 1, Phit. Piar. S. vw. i'A) Diog-,
Vi IHS. AthoiiJijLJ. e. (') V. St)b. /. I. ;5JH, Neiiies. Xaf. hom. p. 1()4 (Ed. Math.). ecc.
Cfr. ^S 2. pai. 65 e 5i). (7) V. Otjereau Sist. filos. (let/li Stoici ]. 68 v
72. (K) Diujii. Vii. 156, Plut. Piar.
ph. 1. I. VII. 17. I 'i grande anno, da un altro riassorbinn^ito nel fuoco, e
cosi di seguito all' infinito, in modo che V eternit si compone di
un'alternanza, sempre riproducentesi, di due stati successivi, V uno ii cui non
esiste che Dio solo, e l'altro in cui, oltre a Dio, esiste un mondo, cio un
corpo di cui Dio l'anima (l). La parte razionale dell'anima umana non ,
come 1(5 altre cose, una trasformazione della sostanza di Dio, ma una ])arte
della sua pura essenza, una scintilla del fuoco divino. (^uantunciue per gli
Stoici Dio non sia propriamente che l'anima del mondo, essi chiamano Dio anche
il mondo stesso, cio il tutto costituito dall' anima e dal corjo. Questa
deificazione degli oggetti stessi per una estensione del carattere divino
attribuito originariamente allo spirito che li anima, non ha niente di
sor})rendente, e si osserva anche nelle religioni popolari. cosi p. e.
che gl'Indiani dell'America del Nord adorano il cielo, quantunque il vero
oggetto della loro adorazione non sia, almeno originariamente, il cielo stesso,
ma V Oki, cio la divinit o il demone, che risiede nel cielo (8). Lo stesso
dualismo che negli Stoici, e fondato suo'ii stessi concetti, troviamo negli
antichi fisici che hanno costruito una nn^tafisica teologica in forma
|)anteistica. Il [)rincipio da cui essi i)artono che 1' anima
cosmica disila stessa natura che l'anima umana, ed costituita, come
questa, dall'elemento materiale pi sot-, da cui tutti gli altri provengono per
una condensazione progressiva. Sembrano credere, dice Aristotile, che il fuoco
o l'aria siano animati, perch il tutto deve essere della stessa natura che le
i)arti 4). Ci vuol dire V. OiifH-ejiu j). TiS (* 6r)-7(). Eiisch. Pvep. ec. XV. 15. 5.
(Mcaiith. /rymn. in Joc. v. 4. M., Sencra A>.. 66, 12. Epict. Diss.. I. 14,
6. ei^-. (8) V. Tyh)r di', prim.. cap. XVI. Cfr. t^S 1. p. 47. De un. 1. 1. V. 21 '-SK9K 168 che,
secoiulo essi, l'anima non potrebbe trovarsi nelle parti, cio neiili esseri
viventi, se non si trovasse pure nel tutto, da cui la ricevono, come ne
ricevono jili altri elementi che li costituiscono. Cos Aristotile continua
alludendo alla loro oj)inione che g*li esseri divengono animati ])vv
comprendersi in loro (jualche cosa del r TTcfy'.syov, cio delPambiente, o
dell'atmosfera. Secondo Dioo(Mu d'Apollonia, una |)rova che 1' intelligenza
ap])artiene al primo j)rinci))i() di tutt(i le cose, cio all'aria, che
gli animali vivono per il respiro, da cui proviene ad essi 1" anima e
Tintelligenza. L' aria, per lui, ci fhe il fuoco per gli Stoici, la
sostanza primordiale di cui le cose sono state fatte, jier la sua
trasformazione parziale negli altri elementi della materia, e la })otenza
demiurgica che le Im fatte. Nel nunido attuale, (juest'aria intelligente regge
e governa tutte le cose, penetrando dapertutto, in modo che non vi ha alcuna
cosa che non ne ])artecipi (8): la sua intelligenza spiega perch tutto nel
mondo avvenga con misura, |). e. le, stagioni, e ogni cosa vi sia ordinata
della maniera pi bella che sia possibile. L'anima di tutti gli animali
aria: per essa che vivono e sentono, e da essa ricevono la loro
intelligcMiza. T/ aria per Diogene d' A})ollonia -come i)er tutti i fisici che
ammettono un solo ])rincipio il nome che essi danno a questo i)rinci[)io -ha
due significati distinti: quando egli dice che tutto aria, (|uesta parola
designa la sostanza comune di tuttci le cose, che egli identifica, come gli
altri fisici unizzanti, con T elemento primitivo, ri (MV. Platone Fiirho 2!
n-'M) h. (21 Fr. r>. Mullach. (H) /V. (i. Mullacli. Fr. 4. . (.">)
Fr. /. I. 58. ',"li costruisce tutto il resto '2) nella sua fisica
l'aria e il fuoco non sono due elementi distinti, come nella tisica posteriore,
ma un solo e stesso elemento . Per quest'anima biso^-na intendere il principio
animico, cio la sostanza che la sorerente della vita e il sustrato della
coscienza, tanto nell' uomo e negli esseri animati in generale, (|uanto nel
mondo, considerato anch'esso come un'essere animato (8). La nostra anima
IMul. Pine. IV. li. NMiirs. Xat. hom. v. 2. p. '2S. Tcixlorrto t. IV. pnu. ^he
attenuare che Eraclito lia parlato li niraninia oco in-ima (/>r (ui. 1. I.
e. H. 10-11, in eni dice er Eraclito l'anima ^ fuoco): secondo ([uesti luoghi
infatti Eraclit) lia identiticato i' anima col i>rimo i)rincii>io (iot^
con tutto il fuoco esistente nell'universo), imn ha detto Bemidicemente ch'essa
^ forniata della sostanza cli'egli rijuarda della stessa essenza che quella
dell'universo , ne una particella staccata dal tutto : la ragione ci
viene dall' atmosfera, da cui la prendiamo per la respirazione (8). L'anima
deg'li esseri viventi essendo fuoco, e il fuoco esteriore essendo l'anima
cosmica, fuoco ed anima sono per P>ficlito dei termini equivalenti, e per
descrivere la conversione reciproca degii elementi, dice: le anime si
trasformano in acqua, e 1' acqua in terra; dalla terra viene l'acqua, e
dairaccjua l'anima. L'equivalenza tra fuoco ed anima si vede pure
nelTespressione la regione del brillante Giove (per denotare il mezzod,
la regione della luce), e nella proposizione che 'artenere evidentemente che ad
Eraclito, (.'he ({uesti ha ammesso un' anima cosmica e V ha identiticato col
fuoco LyOV (cio l'atmosfera) e dotato di j"a.;ione. Plut. Plae. IV. 3. Xemes. Xai
. hom. e. 2. j). 2S. Teodor. t. 4. p. S22. Plut. De /s. 7). Sesto 3fath.
VII. l. e. Vili. 2SJ). Teolor. 1.
e. le proi>osizioni di Eraclito sull'identit fra .^di Dei e .uli
uomini (v. Mullach Fr. iVl e auiiotaz.) e sul cammino delle anime nella via
verso l'alto e ) Fr. 50 M. 172 17H i si serve altrove per l'anima umana,
dicendo che questa va volando per il corpo come il fulmine per le nubi) . Per
questa diffusione'dell'anima nell'universo e la sua distinzione dall' universo
stesso. Eraclito pu dire che tutto pieno di anime e di dei . una pluralit
d' ipostasi divine non essendo incompatil>ile, come vediamo in tutte le
dottrine antiche, con l' unit dell'anima cosmica (H). Fr. 71 M. Bisojiiia
(M>iit'n>itiii-c le in-(p(>si/ienetrando da per tutti, jx-reh
l'cdemento iin sottile e pii vedo 'e: cos esso ei per e ni si jicncrano
tutte le cose oenerate. e in una ]arola la causa (Platone Cratilo \V1 d-ti:>
a). Secondo le comezimii semimaterialiste sull'anima di [uasi tutti i tilos(tl
antichi, l'anima cosmica non potrebbe a-ire sulla materia (he ier contiguit e
per impulsione, come un corpi su altri corpi. Il Zeler (Fios. dei Greci 1.
voi.. 4. ed.. pa,n. 591) d inopportunamente questo luogo del Cratilo come una
prova della dottrina di Eraclito che il fiUKo ' l'essenza universale e la
sostnnza di tutte le eose: invece esso evidentemente un'altra
testimonianza in favore del dualismo di iiuesto tilosofo. il fuoco di eui (ini
si trjitta essendo una sostanza particolare. rLiuarilata come il princi]>ii
attivo e foiniatore ilell' uni verso. Diog. 1\. 7 e Arist. De part. aniiud. l. l. e. V. (Didot
227). (S) Alcuni esi)ositori dei tilosot di cui
abbiamo parlato, cerato e [)ersonale. Et>li vede ]}ic(*. faine v
saziet ecc. \. jmt ([lU'sta )r(>iM>sizi(iie Aipenl. e. 1. vN r>.
1. XX XIX. (^ui per Dio iioii si pu iiiteiideie clic il mondo st'sso. o
piuttosto la sostanza n(lo. clic rivestendo ontinuanK'nte t'oruie contrarie,
resta semine identica a se stesmh). In altro e((uivoco che pu dar Iuo'o a umi
tale interpretazione e quello occasionato dall'ainluLiiiit dei termine fuoco e
siuJMiimi (diMiotanti ora la materia comune li tutte le cose e ora questa forma
particolare della mat'ria clic Israelite ideiititea con la divinit). 11 Z(dler
cade [iialclie V(dta in quest'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality
thesis], p. e. interpn-tandi il Fr. 4S Mullacli (Clii imo nascondersi . dice
Kra(dito. dal fuoco attrilmisce T onni\ eo^cnza non pu ess4'i- ;1 scambi
incessanti tra le parti di (pu'sto fuoco e jjli altri elementi didla materia.
pere li Kijudito non potreldx' parlare dedla sua permanenza. come noi parliamo.
malgrado dejsli .scami materiali analoulii. dcdla permanenza l)ero una tale
identitieazi(ue: ma si tratta evidentemente di semplici traslati. ( lie nessuno
oserebl)e di prendere strettamente alla lettera, l*. e. Kra(dito (diiama Zeus
il TTOAeji.O^ (l;j ouerra). cio qu(^sta (q>poriizione mutua d(dle cose,
(questo passai;iiio continuo da un contrario all'altro, che secondo lui
la legiic universale^ e fondamentale della natura (V. Append. e. 1. ^ .>.).
3Ia chiaro che il ^OASjJwOC qui desijiiia, non la lo (he noi
attermiamo appunto ( lu^ il panteisim di Eraclito (^ di ([nasi tutti i
pant(dsti anti(dii mni differisce dal t(dsmo, (die per(di Dio
identificato con la forma primordiale della materia. di cui tutte le altre sono
(bdle trasf(rniazi(uii. Framm. 2. Mullach. 76 rere una concezione non lueno
naturale, anzi pi forse, che la concozio.u. dualista, che oppone l'anima del
mondo al mondo stesso come una sostanza .list.nta e separata. Non strano
tuttavia che la concezione dominante ia stata la secon.la, la dualit che essa
introduce nelluniverso, presentandosi, della maniera pili ovvia, come una
conseo-uenza della dualit analoga che la teoria animista ammette nell'uomo e
neoli altri esseri viventi, e onesta teoria essendo i'accon.pa-namento quasi
invariabile della filosofia teologica. E verisimile che lo s.esso Xenofane non
si sarebbe allontanato dal punto di vista ordinario, se le basi del suo sistema
fossero state unicamente quelle della filosofia teologica. Il dualismo in
questo filosofo sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale della scuola
eleatica, di cui fu l'iniziatore, cio I-unit e l'immutabilit della sostanza. Da
per tutto dove rivoloe i suoi sguardi, Xenofane vede risolversi tutte cose in
una sola e stessa essenza, sempre identica a se stessa (l). Una delle
applicazioni pi ovvie di questo principio, che, sviluppato in tutto il suo rigore
conduceva alla negazione della realt della molUphct e del cau-i amento, era la
soppressione della differenza fra il cosciente e il non cosciente, la sostanza
unica che circola in tutti gli esseri non potendo passare dall'uno all'altro di
questi due stati senza il cangiamento pi radicale nella sua essenza. Il monismo
di Xenotane non nasce dunque al punto di vista della spiegazione teoloo-ica:
ci tanto vero che nei suoi successori ritroviamo lo stesso monismo, ma
senz'alcuna mescolanza d'idee teologiche . Gli stessi tipi di panteismo e di
dualismo che troviamo nella filosofia greca, ritroviamo pure in sostanza Sesti!
Eiripirieo Pyirh. 1. 224. Cfr. Appena, e. 1 ^ 6. nella filosofia indiana.
Dio in generale, pei filosofi indiani come pei filosofi greci. V anima
del inondo ; e il priiicii)io materiale, anche secondo i primi, eterno e
primitivo come il principio spirituale, sia che questo s'identifichi con la
forma primordiale della materia (sistemi panteisti), sia che si facciano dello
spirito e della materia due esistenze distinte ed egualmente primordiali
(sistemi dualisti). Nel mnkhya t(!ista (sistema di Patandjnli) si amiimttti
uiranima sui)rema, Dio, coeterno al principio materiale (Prakriti), ed
ordinatore del mondo {!). Il iii/ai/a e il cuii^eaika ammettono l'eternit deir
anima e degli atomi: quella il principio motore e ordinatore degli
elementi materiali. Questi sistemi rappresentano il dualismo, e corrispondono,
tra i sistemi greci, a quelli di Anassagora, di Platone (^ di Aristotile : il
panteismo, corrisfiondente ai sistemi degli Stoici e dei finici loro
j)redecessori, rappresentato dal sistema vedantino, che la tlo.sota
ortodossa de"rindiani. ScH-ondo i Vedaiitini, Dio al tempo stesso la
causa efficiente e la causa materiale dell' universo : nella loro
cosmo^ii'onia, come in quella dei filosofi teolog'ici greci per cui il
principio divino, cio s{)irituale, non originariamente distinto dal
principio materiale, le cose vengono per una trasformazione di sostanza, non
per una ereazione assoluta, dalla sostanza divina . Dio , rispetto all'
universo, come un vasellaio V. 2. p. r)fi.()7. V. C()le>r. Filoa, deffV fnd.
tviid. trMiic di Pauthirnliiti vasi sono fatti. P>rahnia ha prodotto il
mondo })er una trast'onnazione di una parte del suo essere, simile a (|ueila
elie subisce il latte per cano-iarsi in latte ea^-liato, e l'acqua per
cangiarsi in ghiaccio . Alla dissoluzione del mondo ali elementi rientrano Tuno
nell'altro neirordiiu' inverso a (juello in cui al principio sono usciti l'uno
dalTaltro (per la volont di 15rahnia), tiiudi tutto sia riassorbito nella causa
suprema e infinitamente sottile, che l'rahma. l'anima universale {i).
^>uesto movimento alternativo, per cui lrahma emette da se il mondo e poi lo
fa rientrare nella sua propi-ia sostanza. lon ha cominciamento ne fine: la ndo
(la //o//r to il I (Nih'l)!-. I. 2SS. Koniuiiul Sftftii 'li fi/os. ituf. in
I^rr. philos. l. .'). p. hi7 e. CoJt'H'ookr p. 17s. (o) KrjiiiHiul in ffcr.
fthif. t. 5. p. ('oI'l>rook(' p. ISO. V. Colrlnnuk 1. H7. 17s. VMK 2SS. (51 I\'iiiiaini in Nrr. phil. t.
fi. p. 171. 179 l'espressione esatta della loro propria dottrina nella
proposizione dei Vedantini, secondo cui le anime individuali, rapporto all'
anima universale, sono conu^ delle scintille che escono da un braciere e vi
rientrano . Senza dubbio il sistema vedantino , in un senso, un monismo riko p.
1S()-1S2. \\\\\-2m. (.2) V. r. 1. v\ S. 180 vedere altra cosa che dei prodotti
naturali di uno stadio inferiore della coltura. I due primi invece devono
considerarsi come le condizioni t^'enerali di ogni filosofa teologica che abbia
di mira sovratutto la spiegazione dei fenomeni. La distinzione e opposizione
tra Dio e il mondo, come abbiamo notato, oltre ad essere una conseguenza logica
della teoria animista, l'idea pi naturale al })unto di vista teleologico,
che assimila il rapporto fra Dio e il mondo a piello fra un artefice e la sua
opera. L' eternit e primitivit, della materia il presupposto ili
qualsiasi spiegazione che la filosotia teologica possa dare dei fenomeni, poich
essa non potri^bbe consistere in altro che in un'assimilazione delTattivit
produttrice dei fenomeni all'attivit umana, e (jiiesta suppone una materia
preesistente, su cui possa esercitarsi movcMidola o altrimenti modifcamlola.
Nel paragrafo precedente abbiamo i^i osservato che la creazione della materia
non pu concludersi dalie prove reali del teismo, corrispondenti alle du(^
funzioni della divinit come principio esplicativo (Un fenonuMii, cio come causa
motrice e ordinatrice. Da tutto ci seguirebbe poich i principii su cui si fonda
il panteismo antico sono leo-ati, come abbiamo detto, a uno stadio inferiore
della cultura che la forma naturale Iella filosofa tipologica, appro[)riata a
tutti i gradi dello sviluppo dello spirito umano, sarebbe un dualismo conie
quello che Sluart-Mill deduce dalle prove del teismo, cio un sistema che
ammetterebbe due princi[)ii coeterni ed egualmente primitivi, Dio e la materia.
Tuttavia la filosofia teoloirica moderna non si conforma (juasi mai a (|uesto
tipo. Dualisti e panteisti, meno (jualche eccezione isolata, sono d'accordo sul
principio che non vi ha altro essere primitivo che Dio (concepito come
immateriale), e che la materia ne deriva. I dualisti, (juando rigettano il
dogma della creazione, non negano perci la creazione e,r nihilo, ma solanu^ite
la creazione nel tempo. I panteisti negano la creazione ex nitilo, ma, ad
eccezione del solo Spinoza che, come i panteisti antichi, fa dello spirito e
della materia du(^ attributi, egualmente primitivi, delTessere divino non
nea-ano che la materia deriva da Dio, cercano solamente un altro liodo di
derivazione. Senza dubbio il concetto della derivazione della materia da
Dio |)i proprio a unrt si)iegazione teologica assolutamente universale
che luello della materia ceterna a Dio ed egualmente primitiva. Quest' ultimo
non compatibile con una tale spiegazione che a due condizioni: 1' una,
che si ammetta che il cosmos. il mondo ordinato, ha avuto un cominciamento: e
1" altra che si tolga alla materia qualsiasi attivit, e si faccia di Dio
l'agente universale, come nel sistema delle cause occasionali, in cui,
<|uando un corpo ne urta un altro, Dio che, all'occasione deir urto,
produce il movimento del corpo urtato. Al
contrario il concetto che la materia deriva da Dio rende possibile un'
applicazione universale della spiegazione teologica, anche ammettendo, come
facevano molti filosofi antichi b(', iiciiiineiio per un nionieiito, dare
riliusione di avere una spieazione reale, cio che renda veramente pi
comprensibile il fatto si)iei>-ato. Per ei l)isoi:iuM*(^bl)e ciie la
produzione della mat(5ria non tosse, come
nel tatto, assolutamente iin*on])reiisibile. Noi non dobbiamo dun(|U('
esitare ad affermare clie il concetto della derivazione della materia da Dio
non hapotuto esser nato al punto di vista della spieuazoin. dei fenomeni, e che
i motivi della filosofia teolot>-ica, come filosofia, cio come
interpretazione razionale d(n fatti, non potrebbero rendere conto della sua
oriii'ine. Ci evidente |)er la dottrina
della creazione e.r ii/iilo. Essa all'origine non stata stabilita a titolo di dottrina
filosofica, ma di doirma. di -Liiar(^ la credenza su arii'omenti razionali, ma
questi non sono tali da |)oter essere riguardati conn* dei motivi reali della
credenza stessa. Il solo che dobbiamo pr(md(M'e in consid(M*azione (lUello che conclude alla necessit di
un'origine delTuniverso per Timpossibilit logica di una durata infiiita nel
passato. Ma, come abbiamo visto, questa im]>ossibilit log'ica non evitata che sostituendovene un altra pi
evidente, cio l'idea inintelligMbile che la durata infinita di Dio non una durata, ma un eterno presente, un istante
indivisibile. Il motivo reale della dottrina della creazione e.j' niliUo lo
abbiamo indicato nel ])arag'rafo precedente:
Tapplicazione alla efficienza causale della divinit del conc(tto
dell'infinito o dell'assoluto (:^), concetto che, conn^. abbiamo spiegato, non
V ^^ t. paj-. Ulil. M r Isa deriva dalFelemento filosofico della teologia
naturale, ma dal suo elemento |)uramente religioso, cio emozionale e pratico.
Il j)anteismo moderno nasce ordinariamente per oj)posizi(nie alla dottrina
della creazione e,r' vihUo, Si detto che
la base del panteismo il in'inci|)io che
dal niente niente si fa. In verit questo j)rincii>io non i)u essere la base
del panteismo in generale, poich |>er concluderne il panteismo piuttosto che
il duulismo, occorre evidentemente tma seconda j)remessa: il princiino, che i panteisti antichi
igicn-axano e che Spinoza non ammette, ma che
annnesso dalla parte dei panteisti moderni, che la materia non un essere primitivo, na deriva da Dio.
Negando la dottrina della creazione e.r iHiiln (ci che in sostanza il significato del principio che dal niente
niente si fa), ma ammettendo con essa che la materia deriva da Dio. alla
incomprensibilit della creazione c.r iihilo il panteismo moderno non i)u che
soslitnire altre incomprensibilit. La foriiula geneiale in cui |mi riassumersi
(juesto panteismo, fondato sulla negazione della creazione r.r nhilo e al tempo
stesso suU'aflermazione che la materia deriva da Dio, che Dio (concepito come immateriale) la sostanza unica, e le cose non ne sono che
dei modi di essere. Il rappoi-to tra Dio e le cose, pi-.conseguenza, sarebbe
(juello fra la sostanza e i suoi modi di essere: cos Dio, ci-eando le cose, non
creerebbe delle sostanze (conn nella dottrina della creazione (^.r fihilo), ma
farebbe euKu-gere dalla sua sostanza dei modi di essere di (piesta sostanza
stessa. \\\ osti che uli accidenti. cio i modi di essere. Il ^i'ilive im-onveniente
di (juesta dottrina di realizzare ci che
mm secondo essa che un'astrazione. Dio
in questa forma di panteismo non l)u essere che osianza delle cose. essa ne fa
necessariamente un indeterminato reale, un' astrazione realizzata. 1/ esenijMo
|iii illustre di (juesto tipo di pnnteismo
il sistema di (Giordano lirum. Dio. seciuido il J)runo, la sostanza unica o, com'egli lo chiamn. 1
[Jno. che ci che resta di costante in
tutti i cangiamenti dell'universo, e ci che \'i ha d'identico in tutti i:!i
esscjri differenti. Tutto ci che noi \'ediamo di differente lU'U'Ii o*^\U'etti
non . ei:li dice. ch.e un diverso volto di una nuMlesima sostanza, \'olto
labile, mobile e corruttibile di un immobile, |)erseverante eil eterno essere.
L' [''no il punto di coincidenza di
tutte le opp(Ksizioni: india sua essenza semplicissima s'identificano tutte le
contrariet e tutte le difterenze delle cose. Esso in un modo 185 implicito tutto ci che le cose
sono in un modo esjdicito: tutto ci che nell'universo esiste^ disperso e distinto, unitamente e indifferentemente nellTno ;
Dio tutto, ma tutto in lui il medesimo, senza differenza e senza
distinzione. Dio indifferentcMnente
materia, torma, anima, ecc., ma senza essere per se stesso u materia u forma u
anima, ecc.: (\'1 la radice comune della
sostanza sjurituale e della cor|)orale, dcdla formai e dcdla materia, (h-c.. e
le contiene iiulistintamente. come lo spazio le fiiiiire che lo circoscrivom
('2), E evidente che (jUcsto Dio non che
l'astrazione suprema considerata come la su[)reina realt. LTno il fondo immobile (^ da jx^r tutto identico,
alla cui su])erlicie si disei>-nano tutti i canuiamenti e tutte le
difterenze de^'li esseri: Bruno b conc(?pisce dumjue come un indeterminato, di
cui tutti (juesti cnnuiamenti e tutte (jueste differenze sono delle
determinazioni variabili e divergenti. Quest' indeterminato. separatamente
dalle sue determinazioni. non potreb)e esserci per noi che un' astrazione
mentale: ea"li ne fa un essere; reale ed una j)ersona. identilicaiidolo
con 1' int(dliu-enza suprema {V intcUetto che e fftttn) (o). e dandoi>'!i
tutti adi attributi che la filosofia teolo^dca nu)derna attri))uisce alla
divinit. Mn non vi ha forse sistema panteista in cui (piesta realizzazione di
una semplice astrazione sia cosi evidente come in (juello del tlosofo siciliano
Vincenzo Miceli. Il Miceli riiJ'uarda come sostanza del mondo la prima persona
della Trinit, eh" e. V. /fr la musa, ftruiri/tio rf innt 4 e 2S(). (H) V.
Del jiiiiic, ('(Ufsa ri mio. '1. dialoiio. |a,u. -')>). 18(j seeaiiientc
considerata. Il reale una t'orza sempre
attiva, un essere vivente (ens rtvun), la cui essenza consisre in una continua
mutazione di stato . In essobiso,i-na distint>uere due elennniti, o
piuttosto due iati, l'uno estrins(H*o, che
(jueilo ciie percepiscono i sensi, e l'altro intrinseco, die non accessibile che all'intelligenza. 1/
intrinseco Dio stesso, cio la sostanza,
l'estrinseco il mondo, cio i modi di essere. La distinzione tra l'intrinseco e
l'estrinseco, tra Dio e il mondo, eipiivale a (|uella tra il costante e il
variabile. Di -na imma,i>"inare che neir F'.ssere vivo vi siano . e Di
(Jioviimii Fraonn. di filos. tnievliana ih'IIm rivistsi i-itata, spcf'ialrncnt'
f:'na distin^'uere l'intrinseco e l'estrinseco: nell'estrinseco t\ssa sem])re diversa, nel!' intrinseco sempre la stessa (1 ). Si potrebbero
le.ii''ere delle pagine intere di Miceli o d(M suol discepoli senza pensare
ch(*. l'intrinseco e V estrinseco, la sostanza e i modi di essere, siano
jualche cosa di pi che d^^^ili elementi puramente concettuali ch(5 per
astrazione si disting'uono nell'Essere vivo. Ma ad un tratto s'inconti'ano
d(ille proj)osizioni come i\\w,sta: che la Forza infinita (cio la
sostaiza) il Padre della pc^rpetua novit
(cio del mondo) e della Sapienza infinita o del Figlio (che generato, ci si dice, dalla semplice Forza
intinita, separatamente dalla perpetua novit). ()\i\ non i>n essm'vi dul)bio
che i due elementi non siano distinti realnuuite, ma soltanto concettualmente.
Che si tratti di una distinzione reale e non di una semplice astrazione
mentale, evidente d' altronde juando
all'elemento intrinseco o sostanziale vengono attril)uite limmutabilit, la
siMiiplicit, l'infinit, la perfezione assoluta, la necessit, ed in una parola
tutti gli attributi che, secondo la filosofia teologica moderna, costituiscono
il concetto di Dio. Ci non pu avere per iscopo che di identificare
quest'elenuMito con la divinit, e di distiniiuere da essa V (demento
accideitale ed estrinseco. Se si ammette ch(^ Dio la sostanza si per produrre il mondo. n
si annicbilato ne ha ceduto al mondo una
parte della sua sostanza; ch'egli non ha perduto, malgrado ((uesta
modifcazione, la sua iumutabilit e la sua semplicit; e che ci (' i)erch la
sostanza divina, (juantunque unica e semplicissima, esiste simultaneamente in
i>ria sostanza. Le diverse creature non sono (he Dio stesso, variamente
limitato. Cosi le propriet degli esseri finiti non sono che le proi)riet stesse
della sostanza infinita, cio la Potenza, rintelligenza e 1" Amore
(costituenti le tre persone della Trinit), illimitate in Dio, limitate nelle
creature. Ogni forza, (pialunque sia,
una parteci]>azione della potenza di Dio, un'espansione del Padre, un
dono ch'egli fa di se stesso. Ogn" intelligenza, ogni forma, a qualunque
stato e a (jualunque grado di limitazione si conce])isca, una partecipazione dell' intelligenza, della
forma divina, un' espansione del Figlio, un dono eh' egli fa di se stesso. Ogni
vita, sotto ((ualunque modo esista e si manifesti, una partecii)azione della vita divina, un'e
189 spansione dello Spirito, un dono eh' egli fa di se stesso . Gli esseri
partecipano pure alT unit divina, allo stesso grado in cui partecipano alla
sostanza divina e alle sue propriet. Non una mediocre gioia per r intelligenza di
scoj)rire cos, non solo il suggello del Creatore, ma lui stesso nella sua
opera, di contemplare Dio, secondo tutto ci ch'egli , al seno dell'universo in
cui si esj)an(le incessantemente, di ritrovarlo, in un certo senso, tutto
int(M*o in ciascuim degli esstn-i realizzati dalla sua onnipotenza. Ma,
i)artecipandosi alle creature, la sostanza divina non prova alcun cangiamento,
non si divide e non perde la sua unit assoluta. La stessa sostanza, lo stesso
essere^, sussiste simultaneamente a due stati diversi., l'uno illimitato e
l'altro limitato: indi' uno di ([uesti stati
Dio, nell' altro le creature (S). Cos, (juantunque la creazione non
importi alcuna produzione d'essere o di sostanza, la quale in s impossibile, gli esseri creati sono
essenzialmente separati da Dio, e la natura di Dio essenzialmente differente da ([uella della
creatura, bench la sostanza della creatura non sia radicalmente che la sostanza
di Dio . Sarebbe incomprensibile come delle idee s oscure e s poco naturali
abbiano potuto essere preferite a quella si ovvia dell'anima del mondo dei
filosofi antichi, se noi sup[)onessimo che gli autori che le hanno messo
innanzi non cercavano, senz'altra preoccupazione, che la spiegazione pi
soddisfacente dei fenomeni. e non tenessimo conto dell'infiuenza della
tradizione e dell'autorit anche sugli spiriti che se ne sono in parte eman
Abbozzo (Vuna iilosofi(t, t. 1. pai^. .S8S. Ibid. 3-U). Ibid. KM), 112, 33S.
occ. Ibid. 106 e 112. ' ! cipati. (McstMiitiuenza ha fatto si clie il principio
contenuto nella dottrina della creazione e.r UHo, die Dio il solo essere i)riinitivo e la materia
deriva da Dio, continuasse ad ammettersi come un presupposto che non era da
mettere in quistione, anche dopo che la forma tradizionale in cui era dato
(piesto principio, cio la dottrina stessa della creazione e.v iiihilo, veniva
rio-ettata. Supposti al tempo stesso questi due principii, che Dio la causa e la soro-ente unica di tutte le
cose, e che una produzione di sostanze
impossil)ile, se si ammettono di pi i co.icetti della tilosolia
teologica moderna, incomi)atil)ili con la forma antica del panteismo, della
immaterialit di Dio e della sua immutabilit e semplicit, si ha come conse-iienza
che Dio (considerato come immateriale),
la sostanza unica, e che le cose non hanno alcuna sostanzialit: (|Ueste
allora non possono riguardarsi che come dei modi di essere della sostanza
divina. Hn' osservazione che non forse
da ne:-ligere che molti dei panteisti moderni
(quali .u'ii autor? die ci hanno servito di esempio) sono stati dei preti o dei
frati, nutriti di dommatismo teolo-'ico, che ha dato la prima pieoa al loro
si)irito. Avremmo cosi poca rai:'ione di soriu-enderci che il panteismo di
(4i(rdano Bruno o di Miceli o di LanuMinais non sia che una trasformazione
della dottrina della creazione c.r??/fHn, clic di trovare strano che il dopna
della rom^ustanziazonf di Lutero non sia che una leg'--iuesta dottrina er se stessa indipendente da (pialsiasi forma
Iella filosofia teologica: ma, se si unisce alla filosofia teologica, essa
conduce logicamente al panteismo. perch in un sistema pluralista, ammessa
(jiiesta, dottrima, 1' azione \. [lU'Sto sli'ssu cMpil. yV 15. 192 reciproca
tra le cose diventa incomprensibile. Questa incomprensibilit dell' azione
reciproca tra sostanze distinte in un sistema panpsichista ha dato litogo a due
soluzioni della dilHcolt: Tuna, fondata sul dog-ma della creazione, V armonia prestabilita di Leibnitz soluzione
evidentemente^, illusoria, perch non fa che sostituire a un mistero un altro
mistero non nnmo inintellio-ibile ; l'altra, puramente razionalista, il monismo, che assorbe tutti uli spiriti
individuali in uno spirito unico, in modo che le a/ioni apparentemente
trascendi^nti di (|U(;^ti spiriti individuali gli uni sugli altri non siano in
realt che delle azioni immanenti dello spirito universale. In alcuni sistemi
panpsichisti il monismo indipendente
dalla tilosolia tecdogica, conie in quello di Schopenauer: in altri legato con questa lilosofa, e diviene, per
conseguenza, panteismo. Un sistema panpsichista e al tempo sXq^^o panteista, in
cui il monismf), per confessione dello stesso autore, ha per iscopo di
s|)ieg'are l'azione reciproca degli esseri,
quello di Hartmann. Come, domanda Hartmann, la volont dell'individuo pu
ag'i re sulle volont degli atomi cerebrali? come pu essere in istato di
comunicare e d'entrare in conflitto direttamente con le volont d'altri
individui psichici? La possibilit di questi rapporti, di questi conflitti non
si comprende, egli dice, che vedendo nei diversi esseri individuali altrettante
funzioni differenti di un solo e stesso essere, e sovratutto di un essere
incosciente. La sostanza Comune, che loro serve di radice metafisica, permette
il commercio delle volont individuali; sul fondo comune d'una sostanza
incosciente le funzioni distinte trovano il legame necessario alla loro azione
reciproca, e nel tempo stesso un terreno conveniente per isviluppare le loro
coscienze V. questo stesso capit. 10, 170, distinte. Un dualismo serio sopprime la causalit
reciproca degl'individui, la quale un
fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le sostituisce la
concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armonia prestabilita La
causalit, intesa nel senso dell'influsso fisico, conduce necessariamente
aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza unica e
assoluta. Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra
cosa che una semplice pluralit di funzioni nel seno dell' essere che ne il principio. Ammettiamo che quest'essere non
sia identico, e che la diversit delle funzioni riposi sulla diversit delle
sostanze; non vi sarebbero pi allora tra gl'individui delle relazioni reali, e
intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei pi grandi meriti del gran
Leibnitz stato di riconoscere francamente,
espressamente, la verit di questa proposizione, malgrado le conseguenze mortali
pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette la pluralit delle
sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non potrebbero avere
finestre per cui possa penetrare in esse almeno qiiest'intusso ideale di cui
parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste sostanze
indipendenti le ufl-e dalle altre, che non hanno niente di comune fra di loro,
possano essere riunite da un legame metafisico qualunque. Ciascuna di esse
dovrebbe piuttosto rappresentare per se stessa un mondo isolato. Per supporre
un legame metafisico, capace d' assicurare il commercio di queste sostanze,
bisognerebbe spiegare prima, ci non
facile, qual rapporto reale unisce la sostanza nuova, che formerebbe
questo legame, alle altre so. Vedere in questa comunicazione una funzione
Filos. delVineose. t. 2. e. HI. traci, frane, pa.ij. 47-48. md. t. 2. e. Vili.
238. 13 reciproca tra le cose diventa incomprensibile. Questa incoili
prensibilit dell' azione reciproca tra sostanze distinte in un sistema
panpsichista ha dato htogo a due soluzioni della difHcolt^: Tuna, fondata sul
dog-ma della creazione, V armona
prestabilita di Leibnitz soluzione evidentemente illusoria, perch non fa che
sostituire a un mistero un altro mistero non nnmo inintellio'ibile ; l'altra,
puramente razionalista, il monismo, che
assorbe tutti gli spiriti individuali in uno spirito unico, in modo che le
azioni api)arentemente trascendenti di (iU(;>ti spiriti individuali gli uni
sugli altri non siano in realt che delle azioni immanenti dello spirito
universale. In alcuni sistemi j)anpsichisti il mon'mno indipendente dalla tilosotia teologica, come
in quello di Schopenauer: in altri
leg'ato con questa lilosofa, e diviene, per conseguenza, panteismo. Un
sistema panpskhista e al tempo sQ^ho panteista, in cui il monismi), per
confessione dello stesso autore, ha per iscopo di spieg-are l'azione reciproca
degli esseri, quello di Hartmann. Come,
domanda Hartmann, la volont dell'individuo pu ag'ire sulle volont degli atomi
cerebrali V come pu essere in istato di comunicare e d'entrare in conflitto
direttamente con le volont d'altri individui psichici? La possibilit di questi
rapporti, di questi confiitri non si comprende, egli dice, che vedendo nei
diversi esseri individuali altrettante funzioni differenti di un solo e stesso
essere, e sovratutto di un essere incosciente. La sostanza eomune, che loro
serve di radice metafisica, permette il commercio delle volont individuali; sul
fondo comune d'una sostanza incosciente le funzioni distinte trovano il legame
necessario alla loro azione reciproca, e nel tempo stesso un terreno
conveniente per isviluppare le loro coscienze V. questo stesso eapit. W', 170.
193 distinte. Un dualismo serio sopprime
la causalit reciproca degl'individui, la quale
un fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le
sostituisce la concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armonia
prestabilita La causalit, intesa nel senso delfisico, conduce necessariamente
aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza un'Ica e
assoluta. Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra
cosa che una sempluralit di funzioni nel seno dell' essere che ne il principio. Ammettiamo che quest'essere non
sia identico, e che la diversit delle funzioni riposi sulla diversit delle
sostanze; non vi sarebbero pi allora tra gl'individui delle relazioni reali, e
intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei pi grandi meriti del gran
Leibnitz stato di riconoscere
francamente, espressamente, la verit di questa proposizione, malgrado le
conseguenze mortali pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette
la pluralit delle sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non
potrebbero avere finestre per cui possa penetrare in esse almeno quest'influsso
ideale di cui parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste
sostanze indipendenti le ufl 111-22): la derivazioni' stessa di tutte le Idee dallTno
n(n e clic un'a])plicazione del principio clie le Idee jd paiticohui derivam
sempre dalle pili i^euerali, l'Uno o il IJcue essendo esso stesso un'Idea, che
non ditterisce dalle alti' che pereli ^ la ]>i generale. e tutte le altre ne
sono dei casi o Ielle forme particolari. Ma mentre la dottrina clic tutte le
Ideo derivano ii esplicita (y. cap. VII. vN 1-A), non ijossiann invece
attribuiriili la dottrina he le Il'r^ ile li atteiulersi lai n'>platniici,
in'apaci li entrare nel ver> spiritj lue che ne frainter partit> pr. i
Mini-etti pi essenziali. P'r ess;re 'oen'nti alla l)r) inter])r(dazioiK', ldle
llee. i n'oi>latvuto riu,uardarc anclu? l'iin o il Hene come un peusier>.
Invece li ci"> essi l) veva essere pr>vata per loro lai fatt>
stess il 15ene proluce le Ide'. Infatti >in pensiero non ' mai riguardati
come la causa produttrice, nel senso stretto, li altri pensieri (evidenteiuente
perch ii)i non osserviann unii fra i iK'usieri una seiuenza iuvariabile. tale
che un) sia c>stantement' se^uit> la un altro). 199 trovarla tanto pi
naturale, che era la sola che si prestasse alla loro opera di sincretismo,
permettendo di fare rientrare la dottrina platonica nelle tradizioni perenni
relia-iose e filosofiche, dell' umanit. Data V interpretazione teistica della
dottrina delle Idee, la derivazione platonica di tutte W cose dalle Idee
diventava naturalmente, nel sistema neoplatonico, una derivazione di tutte le
cose dalla divinit. A dir vero Platone, nell'nltima forma della sua filosofia,
fa della materia un principio distinto e cosi primitivo che le Idee stesse, e
non riconduce a queste che le sole /-o/'m^Mlelle cose (l). Ma i neoplatonici
non potevano non riconoscere che la dottrina intera di Platone suppone che si
riconducano alle Idee non le sole forme delle cose, ma le cose stesse nella
loro totalit l'orina o materia). Se nell'ultima forma della sua filosofia
Platone a-uiunov alle Idee la Tnateria come un principio distinto e
indi])endente da (isse questo concetto noi nasce al punto di vista del suo
'proprio sistema, ma ha per iscopo, conie vedremo, di fondere questo sistema
con ciucilo dei Pita-orici (.)). D'altronde, anche dopo V introduzione di
(piesto concetto le Idee sono ancora rio-uardate come la sor-ente unica d'o-ni
realt, la materia facendosi consistere^ nello spazio, e identificandosi col non
cv^sere . Un' altra considerazione che non biso-na tralasciare che la riduzione della materia a un principio
distinto e indipendente dalle Idee era tropppo connessa col si-mhcato reale
della dottrina primitiva delle Idee, per poter V. Supid. C, II. B. V. Supi^lem. V. II.
B. plem. C. II. B, cMrt.' W^-im. V. Suipl^n. C.
II. H. 2(X) 201 essere iiantenuta nell' interpretazione teistica. Essa
supponeva infatti una distinzione reale, e non soltanto logica, tra la forma e
la materia: distinzione che era un caso del realii^mo platonico, in cui le
astrazioni erano considerate come deo-li esseri esistenti per se stessi. Se i
neoplatonici, per essere fedeli alla dottrina delle Idee, come essi la
interpretavano, volevano derivare da Dio le foruK' delle cose in -enerale
comprese (luelle che non hno nvnto cominciamento, o ordinario della parola, cio
eticiente; le Idee sono cause in un altro senso, cio, non in quanto producono
le cose, ma in quanto ne costituiscono 1' elemento veramente reale, a cui si
deve il loro essere e la loro essenza. Ma quando le Idee diventano
trascendenti, come nell'interpretazione neoplatonica, esse non possono essere
che delle cause produttrici delle cose: allora, se tutte le cose sono prodotte
dalle Idee, non si comprende pi come l'Anima possa essere anch'essa una causa
produttrice. Plotino cerca di risolvere questa difrtcolt, intercalando fra le
Idee e le cose l' Anima, come ])rodotta dalle prime (cio dal Nous) e producente
le seconde : cos le Irlee sono ancora le cause delle cose, ma delle cause
remote, la cui efficienza non ginnoe alle cose che per l'intermediario
dell'Anima. Anche o-o-i o'I'interpreti trascendentalisti delle Idee
]>latoniche fanno dell'Anima del mondo nn entit intermediaria, ammettendo
che per mezzo di essa, e non
direttamente, che le Idee agiscono sul mondo, e formano le cose a loro
immagina. il concetto di Plotino, al di
fuori del (piale non ne resterebbe che un altro nell'interpretazione
trascendentalista : togliere all'Anima ogni efficienza reale (nel senso
metafsico), e ridurre la sua causazione a una semplice sequenza invariabile. vS
7. La base della filosofia teologica, come d' ogni altra ipotesi metafisica
sulle cause, V idea di causa V. cap.
VII. ^ 7. pa-. U8-145 o Supplciu. I). 202 208 efficieiftc. Una causa efficiente
si distin^^'ue, come abbiamo visto, dal semplice antecedente di una sequenza
invariabile, per (juesti caratteri: 1" In una causache non che una semplice sequenza inv^nriabile il
legame tra la causi e 1' effetto ci sembra pi o meno misterioso, in modo che
noi crediamo che il nostro bisoo-no di conoscere il jerch resti ancora
insoddisfatto : in una causazione efficiente, al contrario, la causa deve darci
una spieo-azione radicale, soddisfacente, dell'effetto, in modo che non resti
uii hio^o alla domaida: perch V 2 In una semplice sequenza invariabile la
ca[)acit della causa a produrre l'effetto noi non che come un dato
dell'esperienza, mentre in una causazione che creiliamo (efficiente essa ci
sembra evidente per se stessa, in uodo che noi siamo disposti a credere che
potremmo conoscerla indipendentemente dalT es[)erienza, e per il semplice
confronto dell' idea della causa e di (piella dell'effetto. :3'> Nelle
causazioni efficienti tra la causa e l'effetto deve esservi un leg-ame
necessario, nuMitre nelle semplici seciuenze invariabili (juesto leoame ci
sembra conting-enre e quasi arbitrario. (,)uesti caratteri distintivi della
causa efficiente credendo di riconoscerli nella nostra volont, come causa dei
nostri propri movimenti e delle modiche, per mezzo di essi, produciamo nel
mondo esteriore , ne segue che, vedendo nei fenomeni della natura degli effetti
di volont pi o meno analoghe alla nostra, noi crediamo di scoprire le cause
efficienti di (|uesti fenomeni. Ci spiega la possibilit della filosofia
teologica, malgrado 1' insufficienza delle prove su cui essa fondata, e le prove negative che V insieme
dell'esperienza oppone alle ipotesi di questo genere. Che il motivo reale della
filosofa teologica sia il bisogno di conoscere il perch, le cause efficienti
dei fenomeni (e non le sole condizioni empiriche che determinano la loro
apparizione), evidente sovratutto nella
filosofia moderna. E facile infatti di mostrare che, al punto di vista del
])ensiero moderno, le prove su cui essa si basa non ])otrebbero essere
conckulenti che nella supposizione che 1' idea di causa efficiente ha un valore
obbiettivo e che la spiei>'azione volizionale dei fV'nomeni una spiegazione j)er le cause efficienti. E
ci che farcino in questo j)aragrafo specialmente; ])er la ])rova delle cause
finali (in cui i j)i acuti tra i ])ensamoderni hanno visto la vera base della
filosofia teologica (r), rinviando a ci che abbiamo de,tto su (juella del primo
liotore sulla fine del 2" paragrafo. Senza i)retendere di esaurire 1'
argoineito, ci liuiiteremo alle considerazioni pi im|)ortanti, che mi sembrano
le seguenti: l'^^ Vi hanno certamente pochi pensatori nello stato presente
della coltura, che, non ammettano, quahuniue siano del resto le loro idee filosofiche,
questo postulato necessario di ogni ricerca scientifica e che non d'altronde che il riassunto di tutta
l'esperienza umana: che il corso della natura
uniforme, che tutti i fenomeni devono essere riattaccati a degli
antecedenti naturali, a cui sono legati secondo leggi di sequenza invariabile,
costatate dall'osservazione. Cosi una spiegazione metafisica dei fenomeni, cio
per delle cause trascendenti, non potrebbe oggi tener luogo della loro
spiegazione fisica, cio per delle cause fenomenali, ma solo aggiungersi a
questa, do})o che essa com|)leta: io
voglio dire che un filosofo pu credere necessario di fare appello infine, per
una spiegazione radicale delle V. cap. 1. ^ 3-5. V. piestu ciiit. 22. V. ^:?.
1). 7S 0 t. \). 105-1117. tr-J cose, a deg'li agenti iperfisici, ma eg-li sa
che il loro intervento non deve interrompere la continuit delTincatenamento
delle cause naturali, e che ogni fenomeno non (leve essere spiegato
immediatamente che per altri fenomeni. P. e. Vanimiiita, che spiega i fenomeni
della vita per un'azione incosciente dell'anima, o 1' ilozoista, che spiegn
tutti i movimenti della materia per gli stati psichici delle molecole, sa che
una tale spiegazione non esime dalTobbligo di assegnare a ciascun fatto
biologico o a ciascun movimento delle condizioni fsiche determinate, e
troverebbe assurdo di contentarsene per rendere conto del singolo fenomeno,
quantunque 1' insieme dei fenomeni, secondo lui, non possa comprendersi che per
essa. Similmente Videalista, che spiega il mond;) delT esperienza ])er Fattivit
del pensiero, non pretender che la sua sjiegazione possa sostituire. in tutto o
in parte, il determinismo scientifico dei fenomeni : come Kant, egli non far
appello all'attivit del pensiero che per rendere conto dei legami pi generali dei
fenomeni; o se, come Hegel, ne dedurr tutti i fatti generali della natura ed
anche i fenomeni storici pi importanti, egli sapr almeno che la sua costruzione
logica non deve escludere il metodo ordinario, che deduce i fatti dai loro
antecedenti. Cosi pure il realista dialettico , che spiega il mondo dei
fenomeni realizzando le astrazioni e introducendo fra esse un incatenamento
logico continuo, non penser che la sua spiegazione metafisica renda inutile o
invalidi la spiegazione scientifica, che rende conto dei fenomeni per le loro
condizioni fenomenali: come Spinoza, egli ammetter due ordini di cause: V
incatenamento delle cause fsiche, per cui ogni fenomeno legato a un altro fenomeno precedente secondo
una legge di sequenza invali) V. cap. VII riabile; e quello delle cause
metafsiche, al di fuori del tempo e della successione, e che non altra cosa che l'incatenamento logico delle
astrazioni realizzate. E il simile che far il filosofo teologico, che non vorr
mettersi in contraddizione con le esigenze del pensiero moderno: eali non vedr
mai in un fenonuMio che un effetto delle leggi inviolabili che governano il
corso dei fenomeni, e non applicher la spiegazione teologica che a ({uesto
corso considerato nel suo insienui e alle sue leggi generali per cui la scienza
spiega i singoli fenomeni. Ma cos essendo,
evidente che qualsiasi ipotesi metafsica, avente per oggetto una
s[)iegazione causale delle cose, non pu avere altra base che 1' idea di causa
effciente. Perch infatti il nu'tafisico immaginer delle cause metaempiriche,
s'egli conviene che ogni fenomeno particolare deve spiegarsi per delle causo
naturali, cio empiriche? Semplicemente perch trova che queste non sono delle
cause efficienti. L'esperienza non gli presenta che dei semplici antecedenti,
che egli vede costantemente seguiti dall'effetto, ma senza comprendere perch ne
siano seguiti ; la cui capacit a produrre quest' effetto egli non pu ammettere
che come un dato dell'osservazione; e che non gli sembrano avere con esso che
un legame contingente ed arbitrario. Egli invece aspira a conoscere delle cause
che diano una soddisfazione coijipleta al suo bisogno di spiegazione, la cui
capacit a produrre l'effetto gli senbri evidente intrinsecamente, e che abbiano
con esso un legame necessario ; in una parola delle cause efficienti, e non dei
semplici antecedenti di sequenze invariabili. Supponiamo dunque che egli non
ammetta il principio che i fenomeni devono avere delle cause efficienti ; in
altri termini che egli comprenda che V idea di causa efficiente non ha alcun
valore obbiettivo, e che causa vuol dire semplicemente: Pantecedente in una
sequenza invariabile. Allora non vi sar pi alcuna raioue che lo autorizzi ad
oltrepassare r esperienza. Una causa infatti, quando ^ oggetto d'inferenza e
non d'osservazione diretta, non Tanirnettiamo, evidentemente, che per ispiegare
i suoi effetti. Ora la parola spiegazione ha due significati, corrispondenti ai
due significati della parola causa; in un senso spiegare un fatto assegnare le sue cause efficienti ; in un
altro senso assegnare gli antecedenti a cui esso segue cont'onnernente alle
leggi di sequenza invariabile tra i fatti. Se non vi hanno cause efficienti, r
unica spiegazione dei fenomeni sar dunque la spiegazione nel secondo senso. Noi
spiegheremo, per conseguenza, un fenomeno, assegnandogli degli antececon cui
esso legato da rapporti di sequenza
invariabile; (luesti antecedenti li spiegheremo egualmente, assegnando loro
degli antecedenti ulteriori, con cui essi sono legati da rapporti della stessa
natura: e cos di seguito air intnito, perch un antecedente deve essere seinpre
spiegato da antecedenti ulteriori. Ora nella nostra spiegazione, nel nostro
regresso dai fenomeni ai loro antecedenti e da (juesti ad altri antecedenti
ulteriori, noi non incontreremo mai un agente iperfisico: spiegare infatti per
noi non che rendere conto di un fenomeno
pei suoi antecedenti conformemente alle leggi di sequ(;nza invariabile tra i
fenomeni, e (luesti antecedenti sono sempre delle cause naturali perch, come
abbiamo detto, lo stesso metafisico conviene che un intervento di agenti
iperfisici non deve mai interrompere la continuit dell'incatenamento delle
cause natui-ali . Noi non potremmo adunque ammettere un agente iperfisico che
se (juestaspiegazione non fosse per noi soddisfacente. Ma per non esserlo,
spiegare dovrebbe significare per noi, non semplicemente: assegnare gii
antecedenti dei fenomeni conformemente alle leggi di sequenza invariabile
costatate dall'osservazione; ma ^ 207 anche: assegnare un perch a queste leggi stesse,
scoprire degl'intermediari esplicativi che facciano comprendere perch tali
antecedenti siano seguiti invariabilmente da tali conseguenti. Ci dire in altri termini che causa dovrebbe
significare per noi una causa efficiente, e non semplicemente un antecedente in
una sequenza invariabile. Tuttavia gli agenti iperfisici della spiegazione
volizionale hanno un vantaggio su (pielli delle altre spiefondata
sull'analogia, l'analogia stessa, indipendentemente dal principio di causalit
efficiente, una raper concludere
l'esistenza di tali agenti. Ma cpiesta ragione, fondata sulla se^niplice
analogia e indipendente dal principio di causalit efficiente, non ])Otrebbe
costituire una prova sufficiente: essa non j)otrebl)e elevarsi all'altezza di
una vera [)rova che supponendo che i fenomeni devono avere delle cause
efficienti, e che la volont l'unica
causa efficiente possibile dei fenomeni che si tratta di spiegare. E ci che
mostreremo per l'argomento delle cause finali, che la prova fondata sull'analogia, su cui si
basa principalmente la filosofia teologica. Noi supporremo prima che il
teleologista ammetta che, qualunque sia la spiegazione ultima delle cose, ogni
fenomeno non deve spiegarsi innnediatamente che per delle cause naturali, che
Dio non agisce mai miraGolosamente, e che non vi ha alcuna eccezione alle leggi
generali che governano il corso dei fenomeni, quantunciue questo dipenda, in
tutto o in parte, da una volont superiore. Per vedere che, in questa
supf)osizione, l'argomento delle cause finali non potrebbe costituire una vera
prova senza il principio di causalit efficiente, basta di confrontare le opere
della natura con quelle dell'uomo, dalla cui analogia con le prime il
teleologista conclude che anche queste devono avere per causa un autore
intelligente e agente per uno scopo. Alla vista di un orologio, di un edifzio,
ecc., noi concludiamo che sono 1' opera di un autore intelligente, noi
sappiamo, in virt del principio di causalit nel senso positivo, che ogni
fenomeno deve avere delle condizioni che ne sono gli antecedenti secondo leggi
di sequenza invariabile. La sola condizione, il solo antecedente, che
res[>erienza ci mostra legato con tali effetti, l'azione di ui essere intelligente, cio
dell'uomo. Cos, se noi non ammettessimo che la causa dell'orologio, della casa,
ecc. mi uomo, siccome noi non possiamo,
in virt c\(AV esperienza, assegnarne altre cause, la produzione dell'orologio,
della casa, ecc. resterebbero inesplicate, noi non le avremmo sottoposte alln
\eo'lm ipotesi, delle condizioni o antecedenti fisici, con cui sono legate da
leggi invariabili di seiiuenza; a questi antecedenti noi dobbiamo assegnare
altri antecedenti egualmente fisici, e cosi di seguito nThHiito, senza che noi
potessimo, in questo regresso da antecedenti ad antecedenti ulteriori,
incontrare mai una causa intelligente, che non potrebbe essere che un agente
iperfisico. Se causa vuol dire semplicemente l'antecedente dato il quale un
fenomeno invariabilmente si produce, noi abbiamo dunque soddisfatto il nostro
bisogno di causalit senza assegnare altre cause se non fisiche: l'ipotesi di un
autore intelligente non sarebbe necessaria come nel caso delle opere dell'uomo,
perch nn'ipotesi non tale che quando
senza di essa vi sarebbe un hiatus nell'incatenamento delle cause e degli
effetti, in altri termini quando senza di essa non potremmo ricondurre i
fenomeni alia legge universale della causalit. Ammesso, ci che supponiamo per
ora che il teleologista ci accordi, che i fenomeni hanno sempre delle
condizioni naturali a cui sono legati da leggi di sequenza invariabile, noi
immagineremo che queste condizioni naturali dei fenomeni in cui egli vede la
manifestazione di un disegno intelligente p. e. di quelli deirorganizzazione)
siano state gi assegnate completamente. Allora sono possibili due ipotesi.
T/una che, dopo aver asse^^nato queste condizioni naturali, noi non vedremmo
pi, nel meccanismo per cui si producono questi fenomeni, niente che potesse
suggerirci l'idea di un disegno e di un'azione per uno s.^opo: ci che accadrebbe, p. e., pei fenomeni
dell" organizzazione, se noi ammettiamo la teoria di Darwin. L'altra che,
dopo aver assegnato queste condizioni naturali, noi traveremmo che il modo di
produzione di qut^sti fenomeni ancora
tale da poter essere considerato come una disposizione di mezzi per raggiunger?
uno scopo Questo accadrebbe pei fenomeni dell'organizzazione, se noi trovassimo
che l'appropriazione degli organismi alle condizioni della loro esistenza un fatto primitivo del mondo vivente, cio che
non pu essere riguardato come la conseguenza di altri fatti. Lo stesso potrebbe
accadere ancora, se trovassimo che essa
un risultato di fatti pi primitivi, cio naturalmente: che 1' universo
tsico governato da certe date leggi; che
esso costituito da certi dati elementi;
che questi elementi all'inizio cio a un certo momento della durata passata del
mondo da cui prenderemmo le mosse per ispiegare il suo stato presente avevano
una certa distribuzione nello spazio, ed erano animati da certe date forze.
Infatti il complesso propriazione degli organismi, cio di queste date leggi del
mondo fisico, di questi dati elementi che lo costituiscono, di questa loro
distribuzione nello spazio e di queste forze da cui erano animati al momento
iniziale, potrebbe essere tale da suggerire l'idea di una combinazione di mezzi
per raggiungere il risultato. Fra le ipotesi possibili sulle condizioni
naturali dei fenomeni biologici e deg-li altri su cui si fonda l'argomento
-delle cause finali, sceglieremo la pi favorevole a quest'argomento, cio la
seconda, e ragioneremo su di essa. In quest' ipotesi i dati ultimi da cui ..i
dedurrebbero questi fenomeni sarebbero, o semplicemente le leggi della natura
(come nel caso che l'appropriazione degli org-anismi fosse un fatto primitivo
del mondo vivente), 0 le leggi della natura e inoltre l'esistenza delle
sostanze "elementari date che costituiscono l'universo, con le loro
propriet statiche (le loro propriet dinamiche essendo comprese tra le leggi
della natura), e la loro distribuzione nello spazio e le forze da cui erano
animate al momento iniziale. Ammettiamo che causa vuol dire semplicemente:
l'antecedente in una sequenza invariabile. Dei dati che abbiamo indicato alcuni
sono necessariamente senza causa: le sostanze elementari con le loro propriet
statiche (perch noi supponiamo che il teleologista ci accordi che l'uniformit
del corso della natura non soffre assolutamente alcuna eccezione). La
distribuzione di (pKiste sostanze nello spazio nel momento che noi consideriamo
come iniziale pu essere spiegata, ma supponendo una certa distribuzione di esse
nello spazio a un altro momento iniziale pi lontano; questa non pu essere
spiegata che ugualmente, e COSI di seguito air infinito; sicch anche la
distribuzione iniziare delle sostanze elementari nello spazio necessariamente, in ultima analisi, un fatto
ultimo di uoii M pu assegnare una causa. Le leggi della natura sono delle
sequenze costanti tra fenomeni: esse potrebbero avere una causa, perch possiamo
supporre che queste sequenze non siano immediate, ma tra gli antecedenti e i
conseguenti s'interpongano delle azioni sconosciute, che siano cosi le cause
delle sequenze stesse. Le forze da cui g-li elementi erano animati al momento
iniziale potrebbero pure attribuirsi a un agente o a degli agenti sconosciuti,
purch il modo d' azione di quest'agente o di questi agenti si accordi col
determinismo che lega questo stato dell'universo agli stati i)recedenti. Noi
possiamo supporre dunque che certe leggidella natura (p. e. quelle della natura
organizzata, nel caso che ra[)propriazione degli organismi sia un fatto
primitivo del inondo vivente), o tutte le leggi della natura indistintamente e
anche le forze da cui all' inizio gli elementi costitutivi dell'universo erano
animati, siano degli effetti di una causa iperfisica intelligente, che se ne
serve come di mezzi per realizzare i fenomeni dell'organizzazione e tutti gli
altri in cui il teleologista vede la traccia di un disegno e di uno scopo. Ma
questa supposizione, ammesso che la causa non
che l'antecedente di una sequenza invariabile, non [)0trebbe pretendere
tutto al pi che a una semplice verosimiglianza. La base dei nostri ragionamenti
per cui concludiamo l'esistenza di qualche causa, il principio che ogni fenomeno deve avere una
causa. Quando dall'esistenza di un fatto inferiamo l'esistenza d' un altro
fatto come sua causa, noi non ci fondiamo solamente sulle esperienze
particolari che ci hanno mostrato che il primo fatto costantemente ha avuto per
causa il secondo, ma anche sull'insieme dell'esperienza, che ci prova, da una
parte, che ad ogni fenomeno dobbiamo assegnare una causa, e, da un' altra
parte, che non vi ha altra causa o combinazione di cause, tranne il secondo
fatto, che sia capace di avere il primo per effetto. Essendo certi di queste
due premesse, cio che bisogna supporre una causa per rendere conto del primo
fatto, e che il secondo fatto l'unica
causa che possa renderne conto, noi ne tiriamo la conclusione necessaria che il
secondo fatto esiste a titolo di causa del primo. Ma se la prima mmm mmk
"'rr '.-8 di queste due premesse ci viene a mancare, vale a dire se noi
non siamo obbligati a supporre una causa per rendere conto del primo fatto,
l'inferenza por cui stabiliamo l'esistenza del secondo fatto none pi una
conclusione necessaria: quest' inferenza non pu duique avere che un grado
minore di evidenza, ci che vuol dire che non abbiamo la prova completa,
rigorosa, dell' esistenza del secondo fatto. Ora ci che avviene precisamente nel nostro caso.
Come abbiamo detto, ammesso che i fenomeni non devono spiegarsi immediatamente
che per delle cause naturali, noi non possiamo supporre un autore intelligente
e agente; per uno scopo che come causa delle leggi della natura e delle forze
da cui all'inizio gli elementi erano animati. Evidentemente qui la prima delle
due premesse ci viene a mancare, perch niente ci forza a supporre una causa n
per le une n per le altre. Il principio di causalitr esige che i fenomeni
abbiano delle ^ause, ma non che le abbiano anche le leggi dei fenomeni. In
quanto alle forze che animavano gli elementi allo stato dell'universo
considerato come iniziale, esse sono gi state sottomesse alla legge universale
della causalit, assegnando loro, come agli altri fenomeni, una causa naturale
(vale a lo stato precedente dell'universo, che alla sua volta ha la sua causa
naturale nello stato ad esso precedente, e cosi di seguito all'infinito,
perch ci che esige il corso uniforme dei
fenomeni). Qualunque sia dunque l'analogia tra i fenomeni della natura e i
prodotti o le azioni di un essere intelligente, e qualunque sia la forza dell'
argomento fondato su quest' analogia ; supposto che i fenomeni devono sempre
spiegarsi immediatamente per delle cause naturali, quest' argomento non potr
mai raggiungere il valore d'una vera prova, perch la prova vera, completa, dell'
esistenza d'una causa che, se essa non
si ammette, impossibile di sottoporre i
fenomeni alla legge universale della causalita, ci che noi abbiamo gi fatto,
contentandoci delle sole cause naturali. Ci per non vero che se causa vuol dire unicamente: l' antecedente
di una sequenza invariabile. Ma supponiamo invece che per soddisfare
all'esigenza del principio di causalit noi dobbiamo assegnare ai fenomeni, non
solo degli ant(cedenti a cui essi seguono invariabilmente, ma ancora delle
cause efficienti: allora 1' argomento delle cause finali acquista un altro
valore, e noi comprendiamo come il teleologista possa trovarlo decisivo. Egli
infattti potr dire: Assegnando ai fenomeni le loro cause naturali, noi non
abbiamo fatto che sostituire dei misteri ad altri misteri ; i fenomeni dell'
organizzazione e gli altri che ci mostrano le a])parenze d'un disegno, cosi
bene che le leggi e gli antecedenti da cui li abbiamo dedotti, restano in
sostanza inesplicati, e domandano ancora un perch, una causa reale. Questa causa
deve essere di tal natura che possa spiegare realmente, radicalmente,
l'eftetto; la sua capacit a produrre l'effetto deve essere evidente
intrinsecamente; e deve avere con esso un legame necessario. Ora la natura,
anche dopo che noi sappiamo che i suoi fenomeni si producono secondo delle
regole uniformi, non cessa di esibirci (ielle apparenze di disegno il
teleologista ignora o pretende di avere confutato le teorie che, come quella di
Darwin, fanno svanire completamente queste apparenze. Ma l'unica causa che
possa far comprendere realmente degli effetti in cui si vedono delle apparenze
di disegno, la cui cai)acit a produrre questi effetti sia evidente
intrinsecamente, e che abbia con essi un legame necessario, una causa intelligente. Dunque la causa reale,
immediata o mediata, di tutti i fenomeni della natura o di quelli di essi in
cui si vedono pi spiccatamente le tracce d'un piano, necessariamente una causa intelligente. Per
negare questa conclusione, bisogna non ammettere o che i fenomeni hanno delle
cause efficienti l'lllWlililil Mi" (e non semplicemente de^li antecedenti
a cui seguone invariabilmente), o che una causa intellig-eiite la sola causa etficiente possibile di effetti
in cui si vedono delle tracce di piano. La priua di queste due cose non si
pu;') mettere in dubbio, perch sarebbe dubitare del principio stesso di
causalit (le vere cause essendo le cause efficienti) La seconda nemmeno,
perch', la causa efficiente una causa il
cui legame con l'effetto si vede per il semplice^ ])aragone delle idee, e noi
vediamo, paragonando col pensiero delle cause non intelligenti, (lualunque esse
siano, e degli effetti in cui si manifestano i segni di un piano, che non vi ha
tra questi e quelle alcun legame possibile. L'argomento delle cause finali dun(|ue cos una dimostrazione rigorosa, e che
Reid abbia avuto ragione, o no di considerarlo come una verit a priori, esso ha
almeno questi due caratteri delle verit a priori, la necessit e l'evidenza in-,
che il pi alto grado di evidenza che si
possa desiderare. Forse si penser che alPargomento delle cause finali non deve
domandarsi niente di pi che questa semplice probabilit che esso ha senza il
principio di causalit efficiente; che
cos che in sostanza stato sempre
considerato; e che la pretesa che esso concluda con certezza assoluta non che un'esagerazione di alcuni metafisici. Ma
il concetto di un agente iperfisico qual
quello a cui si conclude con l'argomento delle cause finali, di tal natura che esso non potrebbe
stabilirsi che su prove d'una certezza assoluta, e che non ha pi alcuna
credibilit se queste prove sono semplicemente probabili. Ci perch una semplice probabilit sarebbe
sopraffatta dalle probabilit contrarie che l'insieme dell'esperienza oppone
all'ipotesi di un ag-ente simile. Se noi ammettiamo che l'argomento delle cause
non ha altro valore che quello che gli resta supposto che la causa non che 1' antecedente di una sequenza
invariabile e che tutti i fenomeni devono si)iegarsi immediatamente ])er delle cause
naturali, la conclusione di quest' argomento non si fonda pi n sull'esigemza di
sottomettere i fenomeni alla legge di causalit nel senso positivo n su quella
di spiegarli per le cause efficienti; non le rimane dunque che la forza
(juest'argomento analogico, cio che l'esperienza avendoci mostrato che una
causa intelligente ha per effetti delle cose in cui troviamo un
ai>'ii'iustamento di mezzi ad un fine, altre cose in cui noi vediamo
qualche> cosa di simile a un tale ag'g'iustamento devono attribuirsi a una
causa simile. Ma (|uest'argomento analogico ha di fronte a s una moltitudine di
argon(Miti simili che costituisce un fascio formidabile di prove contrarie. Per
un'induzione tirata dalTanaloaia tra certi fenomeni della natura e quelli che
hanno per causa gli spiriti intelligenti dell'esperienza, il teleologista
suppone uno spirito: che non congiunto
ad un corpo, e i cui stati non dipendono da cause somatiche; i cui ])ensieri
non sono preceduti da percezioni dei sensi e modellati su (jueste; le cui conoscenze
non derivano (lall'esjericnza; i legami tra le cui idee non sono fornati dalle
leggi di associazione per cui spi(ghiamoi legami sinili negli spiriti
conosciuti; che agisce inmediatameute sul mondo esteriore, e non, come gli
s{)iriti conosciuti, per mezzo dei movinenti di un corj)o organico, eseguiti,
alla loro volta, mediante un meccanismo a])propriato, seiza del (piale
sarebbero imj)ossibili; che produce gli atti esterni appropriati alle sue
volizioni, senza che questa appropriazione sia, come negli ageriti intelligenti
conosciuti, risultato dell'esercizio e dell'abitudine; ecc. Ciascuna di queste
supposizioni contraddetta da un*
induzione fondata su un'esperienza pi costante che quella su cui si fonda
l'induzione del teleologista. Se la conclusione del teleologista si fondasse
sul ])rincipio di causalit efficiente, nel modo in cui abbiamo detto, le 216
prove eoiitiarie costituite dalla improl abilitc, di ciascuna di queste
supposizioni e delle altre simili che avremmo potuto aii^i'i ungere, dovrebbero
cedere alla forza di una dimostrazione a[>odittica. In generale, questa
improbabilit consiste in ci, che si suppone che dei fatti, analoghi a certi
fatti dell'esperienza che noi sappiamo essere prodotti costantemente da certe
cause, o non hanno causa o hanno delle cause diffcM'enti. Ora non vi ha alcun
principio assiomatico che ci forzi ad ammettere che gli stessi fatti devono
avere sempre le stesse cause, come l'assioma di causalit ci forza ad ammettere
che gli stessi fatti de\ono avere sempre gli stessi effetti (l'esperienza
mostrandoci che degli effetti identici possono essere dovuti a cause
differenti). Al contrario la conclusione del teleologista si fondere))be sopra
uu principio assiomatico (rci che noi possiamo considerare come causa tanto
(juella della scienza positiva (juanto (juiflla del metafisico; ma ci che n
fosse un antecedente di una sequenza invariabile n avesse i caratteri della
causa efficiente, san^bbe troppo dittbrme dal nostro concetto naturale della
causalit, per poter essere considerato come una causa. 2*^ Un carattere
generale per cui gli agenti supposti dalla metafisica difieriscono dagli
agcniti supposti dalla scienza, che il
modo d'azione che si attribuisce ad essi, non
stato, come, in tutti i casi, quello che si attribuisce a questi,
costatato gi negli agenti dell' osservazione. La loro capacit di agire nel modo
in cui si suppone che agiscano, non ha dunque alcuna prova basata
sull'esperienza: essa non si ammette che per la sua evidenza intrinseca, ci
che lo stesso che dire che tali agenti
sono considerati come cause efficienti. La verit di quest' osservazione si vede
della Gap. IV. V. sptM'ialinonte ^ 11. maniera pi chiara negli agenti della
filosofia volizionale, e sovratutto in quelli della filosofia teologica.
Spiegando i fenomeni della natura per una volont, il metafisico deve
preconoscere che la causa da lui assegnata ha la capacit di produrre gli
effetti ch'egli vuole spiegare per essa: ma che questo genere di cfiusa, cio la
volont, abbia realmente la capacit di produrre questo genere di effetti che le
si attribuisce, impossibile di
costatarlo negli agenti volontari delFesperienza, quantunque debba ammettersi
necessariamente come qualche cosa di preconosciuto. Il metafisico suppone: r
Che la volont possa produrre radicalmente il movimento, cio esserne la causa
totale, e farlo nascere dal niente ~ su
questa supposizione che fondato r
ariiomento deir esistenza di Dio come principio motore . Questo potere, lungi
di potersi costatare negli agenti volontari conosciuti, si sa che impossibile che loro appartenga, perch
sarebbe contrrio alla legge della conservazione dell' energia. 2^ Che la
volont, come semplice fatto psichico, possa produrre degli effetti nel mondo
fisico. Anche questo potere non stato
costatato negli agenti volontari conosciuti: in essi la volizione, come tutti
gii altri fatti psichici, deve essere accompagnata da concomitanti fisici, e
questi, se noa sono la causa totale, come vogliono alcuni psicologi, dei
fenomeni fisici che seguono alla volizione, ne sono o possono esserne una
concausa, senza il cui concorso questi fenomeni non si produi-rebbero. 3'^ Che
la volont per se stessa sia una causa sufficiente della sua realizzazione, cio
che per il solo fatto della volizione, e senza bisogno dell'azione d'un
meccanismo appropriato e di altre condizioni, possano prodursi degli atti
esterni conformi alla volizione stessa. Ma negli agenti volontari conosciuti,
la volont, per quanto ne sappiamo, non produce mai immediatamente gii atti
voluti. Ci che la volont produce immediatamente
un atto autoraatico (reccilazione di certi centri nervosi) che non ha
alcuna conformit con l'azione voluta: se (piesta si produce, perch quest'atto automatico trascina al suo seauito
una serie di altri atti automatici, in un meccanismo che esiste e funziona
indipendentemente dalla volont, e a cui essa non ha fatto che dare il primo
impulso, senza volerlo e senza saperlo. Che 1' effetto volizione sia un'azione
conforme ad essa, non dipende dunque dalla volizione stessa, ma dal meccanismo
: se questo non esistesse o fosse distrutto o alterato, la conformit tra la
volizione e l'azione non esi o cesserebbe di esistere. Intanto il filosofo
volizionale amnette, come una cosa che va da s, che la volizione, negli agenti
volontari che egli suppone, deve avere per effetto un'azione conforme alla
volizione stessa : ci, negli agenti volontari conosciuti, lungi di sembrare
necessario, pu considerarsi invece come una coincidenza felice, perch, se in
essi non si trovasse il meccanismo appropriato che la natura ha aggiunto
provvidenzialmente alla volont, questa potrebbe produrre degli effetti nel
mondo fisico, ma questi effetti non sarebbero le azioni volute. Se il filosofo
volizionale prendesse per principio di non attribuire ai suoi agenti volontari
ipotetici che quelle capacit di. produrre determinati effetti che sono state
costatate negli agenti volontari conosciuti, egli non potrebbe ammettere che le
loro volizioni devono avere nel mondo fisico degli effetti conformi alle
volizioni stesse, che se in questi aa-enti si verificassero le condizioni, che
negli agenti conosciuti sono necessarie perch esista la conformit le volizioni
e gli atti esterni che esse producono. Alle condizioni fisiche di cui abbiamo
parlato (cio l'esistenza di apparecchi organici appropriati), dobbiamo
aggiungere naturalmente anche le psichiche. Negli agenti volontari conosciuti,
la possibilit di eseguire le azioni ordinate dalla volont il risultato di un adattamento progressivo
dell'individuo, che esig-e dei tentativi ripetuti e la fissazione dei successi
ottenuti per mezzo dell' abitudine.
certo infatti che abbiamo imparato ad eseguire anche le azioni che ora
ci sem brano le pi naturali (e che perci saremmo tentati dicredere che non
abbiano bisog'no di essere state apprese), come abbiamo imparato a scrivere, a
nuotare, a suonare uno strumento, ecc.
un'osservazione che non abbiamo creduto inutile di fare, poich, come
notammo, perch lo assimila prontamente a
queste nostre azioni che ci sembrano le pi naturali, che il filosofo
volizionaie trova non meno naturale il modo d'azione dei suoi agenti ipotetici.
Cosi, tutte le condizioni indicate mancando negli agenti supposti dalla
filosofia volizionale, questa, supponendo che la loro volontr ha per se stessa
il potere di realizzarsi, cio di produrre de"ii effetti conformi alle sue
volizioni, attribuisce a questi agenti un modo d'azione che non stato costatato negli agenti conosciuti, non
meno che quando suppone che la loro volont pu produrre radicalmente del
movimento, o che, come semplice fatto })sichico, pu essere causa di effetti
fisici. Ora il filosofo volizionale deve preconoscere, come abbiamo detto, che
la volont capace di produrre questi
effetti ch'egli attribuisce alle sue volont ipotetiche, perch nessuno
immaginerebbe una causa per ispiegare degli effetti dati, s'egli non sapesse gi
che questo genere di causa capace di
produrre questo genere di effetti. Su che si fonda dunque questa preconoscenza
del filosofo volizionale che la volont
capace di produrre radicalmente del movimento, eh' essa pu, come
semplice fatto psichico, produrre degli effetti fisici, e che basta per s sola
a determinare degli atti esterni conformi alle sue volizioni ; se queste
capacit della volont di produrre tali effetti non sono state costatate I 1 1
negli agenti volontari conosciuti V Certamente questa preconoscenza si fonda
sulle esperienze del modo di aziono di questi stessi agenti volontari
conosciuti, perch queste esperienze, prima di essere esaminate al lume della
scienza e della riflessione psicologica, suggeriscono la conclusione che la volont,
anche negli agenti conosciuti, ha queste capacit di produrre gli effetti
indicati, che il filosofo volizionale le attribuisce nei suoi agenti ipotetici.
Ma dacch si riconosce che i fatti d(bitamente interpretati non autorizzano
((uesta conclusione, la supposizione che la volont realmente una causa propria a produrre tali
effetti, quantuncjue continui ad ammettersi come qualche cosa di
prcn-onosciuto, viene a mancare di ogni ])as(^ induttiva; e allora su qnal ragione
si fonda il filosofo volizionale per ammetterla? Egli l'ammette; come una verit
che non ha bisogno di prova, })er la sua evidente intrinseca. E infatti le
nostre esperienze familiari del modo di azione de'li aulenti volontari non solo
ci suggeriscono queste conclusioni: che la volont pu dare un cominciamento
assoluto al movitnento, clie pu. couie semplice fatto psichico, determinare dei
cangiamenti fisici, e che proj)ria, per
se stessa, a produrre delle azioni esterne conformi alle volute; ma ce le suggeriscono
d'una maniera automatica, in modo che ciascuna di esse ci sembra una verit
evidente per se stessa. Cos, che la volont abbia realmente la capacit di
produrre gli effetti indicati, una
proposizione cIc^ non si ha alcun dritto di ammettere, sr si respinge, come
criterio della verit, questa ap[)arente evidenza intrinseca delle proposizioni
che non sono che delle suggestioni della nostra esperienza pi familiare,
grossolanamentte interpretata. Se invece si ammette, come fa la filosofia
voprodurre questi effetti, non lo si pu che fondandosi sull'evidenza intrinseca
della proposizione. Ma una causa la cui capacit a produrre l'effetto evidente intrinsecamente, una causa efficiente, perch noi sappiamo che questo uno dei caratteri che distinguono la
causa efficiente dal semplice antecedente di una sequenza invariabile. Per
conseguenza dire che la capacit della volont di produrre questi effetti sembra
evidente intrinsecamente e che si ammette perch sembra evidente
intrinsecamente, lo stesso che dire che la
volont si considera come la causa efficiente di questi effetti, e che si
annnette che essa capace di produrli
perch se ne considera come causa efficiente Ora
certo che se non si ammettesse che la volont capace di produrre questi effetti, non si
supporrebbero delle volont ipotetiche che li proilucono realmente
nell'universo. Ne che la filosofia teologica e le altre forme della filosofia
volizionale mancherebbero di base, se la volont non si considerasse come causa
efficiente . 3 Vi hanno, dice Hume, in questa piccola parte dell'universo che
noi conosciamo, quattro principii d'ordine cio di finalit, di appropriazione di
mezzi ad un fine): riutelligcnza, 1' istinto, la generazione e la vegetazione.
L'esperienza ri mostra che tutti (juesti principii sono cause di effetti simili
(cio di oggetti o di fenomeni in cui vediamo dell'ordine o della finalit) seco
noscessimo l'universo in tutta la sua estensione e in tutta la sua variet,
scopriremmo forse altre cause di tali effetti -. Sarebbe duniiue un'induzione
altrettanto fondata di riguardare uno o un altro di essi come causa generale
dell' ordine o della finalit nelT universo, e il teleologista non potrebbe
giustificare la sua parzialit quando ne preferisce uno agli altri, spiegando il
cosmos per l'intelligenza piuttosto che per l'istinto o per la generazione o
per la v^egetazioi.e. C'fr. cap. IV. \S. ! Huiiie Dialoghi sulht religione
naturale, parte VII. 229 Di questi quattro principii d' ordine di cui parla
Hume, ne metteremo due da parte, cio la generazione e la vegetazione: essendo
le cause osservabili dei pi importanti tra i fenomeni che vuole spiegare il
teleologista, esse non potrebbero fornirgli una spiegazione, perch egli cerca
per questi tViiomeni altre cause, da a''iuno*ere alle osservabili. Noi ci
limiteremo dunque a domandare al teleologista perch ci che egli chiama la
finalit deve spiegarsi per l'intelligenza piuttosto che per r istinto. L'
argomento teleologico un ragionamento
fondato sull'analogia: le opere della natura, si dice, somigliano a quelle
dell' intelligenza ; dunque la causa dei fenomeni naturali un'intelligenza. Ma con un ragionamento
simile potrebbe dirsi: le opere della natura somigliano a quelle dell'istinto-,
dunque la causa dei fenomeni naturali un
istinto (risiedente nella natura stessa o in qualche forza animale esteriore
alla natura). Sembra anche ch( il secondo ragionamento sarebbe pi concludente
del primo: esso si fondendbe infatti sovra un'analogia pi grande, le azioni
della natura essendo uniformi, fatali e non imparate come quelle dell'istinto.
Ma dice il tebiologista: noi non possiamo spiegare la finalit per 1' istinto,
perch sarebbe spiegare 1' oscuro per il j)i oscuro. I fenomeni della natura in
cui vediamo della finalit, esiggono una spiegazione perch per se stessi sono
incomprensibili: cos essi non potrebbero spiegarsi che per qualche cosa che
possa comprendersi da se stessa. Ora tale . solamente l'azione
dell'intelligenza. L'azione istintiva, lungi di potere spiegare la
finalit, essa stessa uno dei casi di
finalit che si tratta di spiegare. Questo caso non ha bisogno di essere
spiegato meno degli altri, perch non
meno degli altri incomprensibile: esso
anzi il i)i imcon)prensibile di tutti, perch il pi sorprendente (gli atti dell'istinto
essendo i fenomeni che somigliano di pi agli atti dell'intelligenza, e ci che
ci sorprende nella finalit della natura essendo che delle cause non
intelli"enti producano de^li effetti che noi non possiamo comprendere che
come prodotti da cause intellio-enti). Ma in che consiste
quest'incomprensibilit dell'istinto, per cui il teleologista rifiuta di vedere
in esso una spiegazione della finalit? Forse in ci che noi non conosciamo bene
il processo per cui si compie r azione istintiva? Evidentemente no, perch noi
non al>l)iamo alcuna ragione^ per ammettere che i fenomeni tlevono essere
prodotti dalle cause il cui modo d'azione ci
pi conosciuto anzich da (|uelle il cui modo d*azione ci meno conosciuto, (quando d' altronde
conosci;! mo eg'ualmente l'esistenza di (|ueste cause e il loro iegaiiK
costante con gli e+Tctti che si tratta di spiegare. Il telc()loi>-ista trova
dunciue P azione istintiva incomprensihile perch non vi ha in essa n previsione
dello scopo n scelta cosciente dei mezzi che lo realizzano, ed egli non
comj)rende un'azione^ indirizzata ad un fine che (juaiido vi ha coscienza di
(juesto fine e dei nnv.zi impiegati per raggiungerlo, in una parola (|uando
(juest'azione prodotta dall'i
ntellig-^niza. Cosi il ragionamento del teleolog'ista si riduce in sostanza a
(juesto: .Jaiict Lr rausc fiindi pajr. 12."): Pr(M:isaiiu>nt(* perch liK'sti atti
istintivi della natura umana soiu) analoghi ai tenonu'ui della natura in
ienoralc li artire i>er ispiegare ili altri: perch sare.be allora spiejuare
ohsca'ifrn per ohsenrnn , Viil. r>l():
Vi Ila in effetto nella natura tre modi di azione, il meccanismo, 1'
istinto e il pensiero. Di questi tre modi due solamente ci sono conosciuti
d'una maniera distinta: il nieccanismo e rintellij::enza. L' istinto ci che vi ha di pi oscuro, di \n\i inesplicato
l'istinto essenzialmente una qualit
occulta : scej^lierlo per far anismo, noi estenr1istica, perch se (juesto
principio vitale o ([uesti princi[)ii vitali, che, oltre airanima, si ammettono
risiedere nelForoanismo e viviticarlo, vendono dotati di coscienza, nou evidentemente che i)er assimilare le
operazicuii di (jucsti priici])ii alle nostre prol)rie azioni coscienti,
volontarie. Fra (juesf altra tVn-nni dell'aninsmo e la prima, cio Tauiuiisiuo
nel senso stretto, vi ha (pu'sta dilterenza lilevante, che in (juclla V agente
che serve da priucij>io di spiegazione
ipotetico, mentre in (juesta ip(>tetica solauu'ute l'azione che irli si attribuisce.
Nonvim(Mit(), e comunicando al corpo il moviuiento proprio. Platone, dando una
forma rigorosa a (piesto concetto, attri)uisce all'anima un movimento
spcnitaneo ci che costituisce la essenza stessa di otenza di muovei'c se
stessa, e ])roduce tutti i movimenti vitali dando loro Piiiipulso col proprio
movimento . Ma ranimismo assunu* pi proj)rianu'nte il carattere sul sist. tilosof. (lenii Stoici, e. IV. V.
liCiiioinc, // rittflisiHO v Panimismo di Stdhly pai;. 195 e seguenti. I #1
tutti i fenor.imi della vita, (^ l pioduce con intelligenza e vohmt,
(piantumiue non ne abbia coscienza. I movimenti del corpo devono avi^-e una
causa spirituale, pei'che la causa del movimento non pu essere che immateriale
e infatti la materia e incapace di movimento spontaneo; di pi, i movimenti
vitali manifestamh) una meravigliosa appropriazi(me di mezzi a tini
determinati, (luesta causa deve essere, n(ui solo spirituale, ma anche
intelligente. ^)ra Tanima e il solo agente conosciuto in cui si ritrovino
(jucsti caratteri: dun(pu' la causa di tutti i movimenti vitali e Tanima,
(luella stessa che il soggetto (h'ila
nostra ragione e la causa dei nostri movimenti volontari. (\>si Taniina che, come fa muovere i muscoli
volontari, ta pun^ respirare i polmoni, battere il cuore, circolare il sangue,
seceriuM'e il fegato, digerire lo stomaco; separa (hl sangue gli umori corrotti
e li rigetta al di fuori; fa succedere il sonno alla veglia, il riposo al
movimento. E essa clic si costruisce il proprio corpo, e dopo uscito dal seno
materno, lo c(mserva, lo sviluppa, lo n^staura continuamente con tutti gii atti
che compcmgono la nutrizione, lo cura e lo guarisce nelle malattie. essa, in una parola, clu' governa e compie
tutte le funzioni delPorgauismo, producendo con la vohmt tutti i movimenti
delle sue parti, ([uelli che si c(msiderano come automatici n(m meno cie
ciuelli che si chiamano volontari. Quando abbiamo detto che Tanima produce i
fem>meni della vita c(ui intelligenza e vohmt, si deve dare a (pu^stt^
parole tutta Testensione di cui sono suscettibili: roggetto (Wlla vcdont
deiranima sono gli scopi ultimi a cui le funzioni della vita sembrano
indirizzate, ch> di realizzare la forma elle costituisce il piano speciale
delPorganismo, e dopo la Ibrmazione di (|uest' organismo, di conservarlo e
pres(4-varlo dalla corruzione e dalla nunte; i nu^zzi che la natura sembra
adoperare in vista di (luesti scopi, s(mo Toner deirintelli-enza e (WlPartilzio
sapiente deiranima. 90 91 Per conseo Renza Stalli attribuisce airaiiiina una
conoscenza naturale rione attribuendo un' anima all' uovo stesso, e
conformandosi all'avviso del poeta: Spiritu,^ intus alit, totanpie infnsa per
art Ufi Me uh af/itat mole ni. Borelli in un luogo della sua celebre opera De
moiu animalinm assunu^ a provare che
])ossibile che il moto del cuore sia prodotto da una facolt animale
conoscitiva. Egli induce che 1' anima conoscitiva il principio dei movimenti del cuore dall'
accelerazione e rallentamento della circolaziiuie per gii aifetti dell'animo:
l'una e l' altra variazione della pulsazione
prodotta, egli dice, dall'apprensione e dalla persuasione che sono
facolt dell'anima conoscitiva; dunciue il movimento A cuore prodotto da una facolt senziente ed
appetente, e non da un' ignota necessit. 1'ra i tisiologi eminenti che
indipendentemente da Stahl hanno anm-sso delle idee analoghe alle sue, dobbiamo
anche ricordare HoffLeibnitz i>arla di alcuni settatori di Van lle:m>nt e
di alcuni peripatetici, fra cui (liulio Scaligero, che ammettt'vani che l'animu
si fahbrica il i>roprio cor])o (V. Leibnitz Coiddenizioni sul prhieipil di
vita v shIIc nuture plastiche, ed. Dutens t. 11 parte 1 43). Sono dei
])n'cursoni pi diretti dell'animismo di Stahl. il 92 93 iiiaun, che ainiietteva
mi fluido vitalt^ diffuso in tutto l'or^auisiuo, e attribuiva a tutte le
i)articole di ([uesto fluido un'idea determinata deirori;anisnO intero, seeondo
la ro])riet e un'azione che api)arteii alla ]>otenza e all'inteHijicnza
j)iii elev.ata (v. Hevue scientit([ue, anne 7. ikijl. ()4). K un
antroi)onu)rtsmo sottile, come; si vede della maniera i>ii evidente nella
dottrina di C'udworth, che assimila il modo di azione della sua ntura phtstiea
aj^li atti conformi a uno scopo che noi eseiiiiiamo automaticamente in forza
dell' a])itudine, e alle azioni istintive. Tali dottrine devono distinjiuersi
senza dubbio dallo animisnu) (anche nel senso lato), ma non pu dirsi che siano
con esso s;etta l'opinione che questa avvenni senza provvidenza, e dichiara
clie nelle parti materiali non ha ti'ovato alcuna i'a,ropria dottrina da
(piella di Stahl, ])erch essa non si)iega le funzioni della vita per l'anima
l'azionale e i suoi attributi, cio la conoscenza e la volont, ma per l'anima
sensitiva e gli attributi di S-1870. 1890-1898, 1987-1944, 1984-1981).
2()57-20(>l. 2087. 218() e nota, 2138, 2147, 2150-2158, ^178-2175, 2184,
2208-2210, ecc. Ph'u'oI. 1098-1100, 1801-1810. 1818-1850. 18(>;)-. . . 1.
1985-1944. 1957. 1984-19Si;. 2054. 2057-20ai. 2)88, 2098-2094, 218() nota.
2188. 2158. 2188-2184, 2208. occ. La Io,ij;o del sentimento fondamentale (cio
dell'anima sensitiva) di attegjiiarsi
nel modo pii jj^radevcde o meno penoso che j;li
possibile (V. Pshol. 472, 474. 1090. 1985-1980. 2081. ecc.) Atteggiarsi
nel modo ]iii !;radevenoso e ])ei' il sentimento fondamenta le prodnrre nel
cor]>o ili stati che ili riescono i ])ii gradevoli o i meno penosi, perche
il vin-\m fa parte d(d sentimento fondamentale, vi contennto. il sentito, cio il corpo, non
esistendo che nel sentimento, e il senziente e il sentito, l'anima e il corpo,
essendo i dne ])oli opiM)sti, ma indivisil^ili. di nn'esistenza nnica. che appnnto il sentimento (V. il mio stndio snlla
Dottrina di Rosmini sfircsscHZd dvlln materia). Paii-o. 407. 417. 1888, 1893.
1985-1944, 2130 nota, 2158. ecc. -li il 95 coscienza (U^lle azioni vitali
dell'anima t^i spieli i fenonuMii vitali a una azione istintiva dell'anima, di
cui non ab)iamo coscienza : in virt dell'istinto l'anima fabbrica il suo corpo
come l'ape fa l'arnia e l'uccello il suo nido. Ma l'istinto di Gioberti somiin
si sottra j;i()no alla coscienza intellettiva. V. Pr(t(do.i.a v. II. pai--. 82.
Ivi pa.n-. 20. 4) V. i luoj!.lii citati e cfr. il
i)ai-a,i'r. 17 di o a AVuiidt, clie si ])rofessj! aj)e:taiii(Mite animista,
(luaiitumjuc non consideri Panima come una sostanza, come tacevano ^i!,]i
animisti antichi. T^'oi;a]iizzazione fsica, dice V/nndt, una creazione dello sj)irito, aliieno in (jua.nto
essa si conforma a (iei lini. Solo la supposizione che Io s\'ilnppo psicliico
lui ereato il cor])o rende comprensibile il fatto della finalit di tutti i
fenomoni della vita. Ecco (]u:d il
fondamento (b' (jucsta lnalit: nna parte dei fenomeni (h-lla vita, le azioni
volontarie coscienti, emanano immediatainente da motivi diretti verso uno
scopo; l'altra part{', pi consiieSH'oh(/i(( fsiolof/icd c'.\]. XXL 2, cai.
XXIV. 2. Contpcndio di psico/o(jia vS li. 10, ^S 1J>. 5 a, ecc.) V. llcvuo
scioiit. ser. L t. VIL H07. V. Jjft materia hrnta e la materia cicente, \nig.
10(5, , 127, lU). 17L 17(). (8) Ivi p. 79. 132. 98 n za e (li libero arbitrio
si adattato a una funzione particolare,
lavorando anelie per ^H altri, e chiedendo che, in cambio, anche gli altri
lavorino per lui . 11 naturalista americano Cope spiega l'evoluzione organica
pei' una forza di crescenza determinata a propairarsi in tale o tal altro senso
dal desiderio o Timmaginazione deiranimale. L'intelligenza, egli dice, l'origine del meglio, mentre la selezione
naturale (di Darwin) il tribunale a cui
sono sottoiiessi tutti i risultati ottenuti per la forza di crescenza .
Sectondo il ])rof. Vignoli tutte le funzioni della vita sono accompagnate e
determinate da un'attivitn psichica: la stessa facolt psichica che opera n(\gli
atti coscienti dell'uomo e degli animali, opera pure, in una forma inontiineo e
conscio dei suoi oigani ;p)pr(>})iiaio ;dle condizioni successive della sua
esistezi; e queste modiiicazioni riappariscono per (eredit nei (iiscentU'iiti,
e si listano nella specie. Di l questo meraviglioso adattamente degli oiganismi
ai loro bisogni e rihisione a cui esso d luogo di cause timili pi'ecoucepite (^
pi'cstahilite ciie ])re^iedettero alla creazione degli organismi stessi. !1
carattere teleologico (' inlU'gabile in tutti i fenomeni degli esseri
organizzati; ma esso si s])iega \n^v la volont e l'intelligenza di questi
esseri stessi, V non per una volont e un'intelligenza sopramon(hnie. V.
Lriiffi' fomlameutulv (ic/l'infellif/cnza nel ir(/no animah', specialmente i
cnpit. Ili VI llartin;niii T' ti(pp> lontaiu da una spieo-azione
naturalistica dei Ibnonicni per poterlo (M,n.in-endcre tra i llosotl di cui i'
4Ustionc nel Kisto. Noi abbiamo parlato (y,^ )) del SUO sistema come di una
torma della tlosofa te(doll'Ineoseiente coiiipremlo iamo parlato , di cui
parlereno. nasce naturalmente sul terreno della spiegazione animista.
L'incosciente di Hartmann non che
l'istinto, interpretato come il risultato di un atto razionale, di cui l'aronte
non ha coscienza: h l'azione dell'istinto o di alcun diedi analogo che egli
vede in tutti i fatti di cui ciuistionc
nella feuomenohf/in delVineosekiHc. Quest'atto razionale da cui, secondo lui.
risulta l'istinto, pare necessariamente all'autore un atto incosciente, perch
tale lo dimostra l'esperienza (supposto che esso si dia realmente) nei pretesi
fatti istintivi dello spirito umano, e perch sarebbe tro)po strano
d'interiu'etare le azioni istintive degli animali o delle piante attribuendo
loro una ragione esplicita e cosciente, superiore, come supporrebbero i suoi
eftetti, alla ragione stessa dell'uomo. Quest'atto gli sembra inoltre, non solo
incosciente per l'individuo, ma assolutamente incosciente, perch, se non f(sse
cosi, dovrebbe appartenere ad un'altra coscienza, e quindi non sarebe un atte
dell'individuo stesso, ci che importereblu un'azione divetta di uno spirito su
di un altro (vale a dire iin'intluenza unmedidta, non per l'intermediario di
manifestazioni esteriori e sensibili), che l'autore trova inconcepibile e che
sarebe effettivamente un vero mistero- il motivo per cui Leibnitz ha negato
l'azicme reale di una monade su di un'altra . (V. Filos. dell'lncosc. voi. IL e
Vili traduz. frane, 223-224). Questa ragione incosciente deve essere di i^ii
intuitiva e non discorsiva, perch essa agisce d'una maniera istantanea, non
esita, ed indipendente dall'esperienza.
Essa deve avere inoltre la saggezza assiduta, perch l'istinto (a quanto dicono
i toleologisti) di vedere anche in esse
delle forme dell' animismo e della spiegazione antropomortistica. Tale ciuella di Hering, die per ispiegare il tatto
die sembra il pi caratteristico e forse il pi fondamentale della materia
vivente, cio l'eredit, aunnette nella materia organica una memoria incosciente,
sulla (piale basata la forza
riproduttiva di cui dotato l'essere
vivente. Haeckel aderisce all'ipotesi di Hering: tutte le molecole organiche, o
pi propriamente tutte le plasiidde, possiedono secondo lui della memoria ;
(piest'attivit manca alle altre molecole, ed
(luesta propriet che distingue l'organismo vivente dai corpi inorganici
privi di vita. Noi siamo convinti, egli
dice, che, infallibile, e sceglie sempre i mezzi i pi appropriati allo scopo.
C%,n ci abbiamo gi fatto un bm.ii tratto di via i)er avvicinarci agli
attriluiti della divinit: il resto una
conseguenza necessaria dell'elevazione dell'Licosciente a principio di una
spiegazione universale del mondo. L' incosciente deve avere l'onniscien7.a,
perch la sua intelligenza deve abbracciare tutte le connessioni dei fenomeni
che costituiscono l'ordine e lo svilui>po dell'universo; la sua unit
(monoteismo e panteismo) risulta dalla connessi(me di tutti i fenomeni e dalla
suindicata impossibilit che uno spirito agisca su di un altro. (V. Fil.
dell'incosc. trad. frane, 200-201 e e. VIIL i)ag. 238). Ma quest'ingrandimento
iperbolico dell'intelligenza incosciente non pu dissimularci la sua umile
origine: essa non che l'istinto animale,
interpretato come ragione. una ragione
istintiva come il X^O^ di Stalli -che l'autore ha dimenticato di contare fra i
precursori del suo concetto dell'incosciente. Quest'incoscieiite-la cui
applicazione immediata , non doblamo dimenticarlo, una spiegazione animista dei
fenomeni biologici non al fondo che \o
stesso XYOC di Stahl, elevato a i)rincipio di spiegazione generale di tutti i
feimmeni, e deitcato per l'esaltazione all'intinito dei suoi attributi, onde
servire alla spiegazione teleologica radicale e universale della vita e del
mondo. 102 senza l'ipotesi di ima mcnioiia iiicoscicMitc della materia vivente,
le pi iiii^xn-taiiti fmizioui della vita sono insomma inespliea>ili. La
capacita osa sulla funzione della mcMuoria incosciente, la cui attivit Ila un
valore intinitautente ])iii,irande che (piella della me ioria cosciente Preyer vuol estesa questa memoria incosciente
a tutta la inateiia, perch nei cor])i viventi la materia non ])u possediMe
altre forze che nli atti automatici dei centri nervosi interiori, ammettono una
coscienza o delle coscienze distinte dalla upsfra^ cio dalla cerebrale, di cui
sarebbero sede i centri del midollo spinale ed anche i gangli del sistema del
gran simpatico. Un'altra estensione del dominio della coscienza, che deve
evidentemente comprendersi nella stessa classe che i concetti precedenti, la dottrina deiranimazione delle piante.
Essa d'altnmde, quantunciue Stahl si sia
riiutato di ammetterla, una conseguenza iiievitabile del sistema animista. Cos
per l'anima delle ^jiante non si spiegano solanuMite i teTioTueni della vita
vegetale che somigliano ai movimenti degli animali ordinaria inclite
considerati come coscienti, (p. e. i fenomeni di locomozione spontanea delle
spore delle alghe e di altre piante interiori o (piello della sensitiva elle
ripiega le sue foglie, spaventata, come
dice Hartmann, dal passo del viaggiatore), ma anche quelli i cui analoghi negli
animali stessi s riguardano d'ordinario come puiaiiKMite tisiologici. Secondo
un autore il grano di frumento sogna del suo tiore futuro (cio si rappresenta
precedentemente la forma ch^ col suo sviluppo tende a realizzare) ; secomh) un altro 2)er piacere agi' insetti o per sottrarre il
prezioso germe alla raj^acit degli uccelli che il tore o i frutti si ornano dei
colori Lotze Psicologia fisiologica trad. frane, 124. 105 X^i seducenti ; un
terzo afferma che la foglia che muovendosi sul proprio i)icciuolo si orienta in
modo da fruire il meglio possibile della diretta azione dei raggi luminosi,
compFe un atto intelligente ; un altro che le piante rampicanti cercano degli
appoggi, sene accorgono (piando li hanno trovati, e scelgono ipielli che loro
convengono di pili, con la sicurezza infallibile deiristinto, che umi ragione intuitiva ed incosciente. E in
una parola, in tutti i fenomeni della vita vegetale che si vede un carattere
teleologico, e per conseguenza un'attivit psichica che ne il principio. Gli autori moderni che
ammettono (pieste dottrine, possono contare fra i loro precursori Plinio,
Platone, Democrito, Empedocle, Anassagora, e insino all'autore del
Manava-Dharma-Sastra. Il risultato ultimo a cui giunge (piesta estensione, al di
l dei limiti consueti, del dominio della coscienza, di attribuire un'attivit psichica agli
elementi stessi degli oro-anisnu, s animali che vegetali. Huet attribuisce ad
ogni V. Delboeuf La materia bruta e la materia riccntc, pao-. 178. V. Faii
Priucipii di psicologia, v. E e. IV. (8) HartiiKiiin Filosofia
(Iciritcoscirntc, tviul. frane, voi. lE pjiLi.. 1)9-100 . Natnrahncntc tra lo,
credenze dei pupoli ininiitivi o imu-o proorediti troviamo anelie (inolia
deiraniniaziono e, por dir eos, di^Vnmarnzzazionc dello i>iante. Nnnioroso sono le lejjj-endo clic
attribniseono a eorti nomini la laeolt di eonii)rondoro il Imcruaooic, dello
piante, e reeiproeamente. Il trattato d'agneoltnra d'Ibn-al-Awam eonsiolia
d'intinn^riro oli al]eri elio non vogliono prodnrro dei IVntti. Si devo
batterli le-germonte, dicendo loro che si ta-lieranno so continnano a non
frnttaro. Cos pnre, presso gli Slavi "li Boemia, si gridava la sera agli
albori del giardino: Germogliato, albori, germogliato, se no vi Hcorticlier .
(Goblet d'Alviella L'idea di Dio secondo Vantropologia e la storia, 56).
molecola ore chiamarsi la ronif(f mefafi^ica md senso stretto nelle dottrine^
di Hartmann e di Gioberti, clie ve(h)no nell'istinto un'intelligenza intuitiva
edincosdente. Una dottrina meno apertamente nu-tafisica, ma piii conforme
ancora alh^ tendenze spontanee del nostro spirito su cui i concetti metatisici
sono fondati, (^ (piella che vede nell'istinto (piesta intelligenza stessa di
cui ai>biamo coscienza e che osserviamo in noi stessi e negli altri uomini.
Questa dottrina e stata sostenuta dal Rorario, da Montaigne, (hi Giorgio Leroy,
ecc.: noi la riassumeremo nella fonila che le ha dato Erasmo Darwin. L'istinto,
(piesta pretesa facolt cieca, innata e necessaria, non i che una (pialit occulta
come (pie Ile degli scolastici: le azhmi degli animali, adattate evidentemente
a dei lini determinati, sono troppo somiglianti alle azioni vohmtarie e
intelligcmti dell' uomo, per poter essere P elf etto di un principio
ditferente. Se per istinto s'intende il principio di certe azioni (h\gli uomini
e degli animali, che non sono state diivtte (hii loro appetiti, nmi ajiprese
per esperienza, non de(h)rte da osservazione o (hi tradizi(me, l'istinto non
esisti': le azioni degli animali, che si attribuiscono a (piesta pretesa forza
(h'I' istinto, scmo tatte invece c(m uno scopo che essi si prop(mg(mo
coscientemente, (piello di provvedere ai loro bisogni, o a (iiielli delle
pi'ole, o agrinteressi della cmiiunit, e i mezzi che essi mettono in opera per
(piesti scopi, e che uguagliano spesso (pialmnpie sforzo (all'ingegno e del
sapere nmano, sono, come negli atti dell'mmio, il frutto dell'osservazione e
del raziocinio. Ci che vi ha (rinnato nell'animaie la sua costituzione per cui certe cose gii
riescono piacevoli e certe altre dolorose, e rimpulso (die lo spinge verso le
une, cio il desiderio, e clic lo allontana (hille altre, ciot^ l'avversione : r
esperienza gii scopre (piali azioni sono proprie a procurargli delle sensazioni
gradevoli o ad evitargli delle sensazioni moleste, r mediante ripetuti sforzi e
108 tentativi, iinpiim ad eseguire (lueste azioui. Alcune di queste azioni sono
state apprese dal feto prinui della nascita: di (luelle che non sono il
risultato della sua propria esperienza e del suo proprio raziocinio, alcune
sono iuseli altri animali della sua specie. Molte nozioni e arti, comuni ora a
tutta una specie, furono un tempo delle acipiisizioni nuove e delle seoverte
individuali, apprese dai contemporanei e poi tiasmesse per tradizicme dair una
all' altra generazione, anche mediante una sorta di lin^ua"*''' P *"
in Clen.en:'.a Kover, ehe vede nell' istinto una loj^iea de-li animali, meno attiva elie rl,r xi vwimu l'istinto e la sua. superiorit
a certi n-uan.i sull'inti'llisfnza . Xou
sembrer forse arriseliiata la supposizione elle tale ha dovuto essere, nel suo
eoiieetto fondamentale, la interpi-tazione dej.li atti istintivi debili animali
nei tempi prescieiititiei: infatti il se!va.u-io e l'uomo primitivo iji-nora,
iKua-i... S. il c-aue lu.a rii...a.lo. ! j..n H.-n^/./.a. s.hm.u.I.. il
(!a,ncia.alc; se la sci:,i.ua resta ni.ita. i-'V pi-rizia. see..n.l.. i ue-a-i.
imre'a sa .'he se,.arlas... si fai-.a.l.e lavorare. Il l'ellel{.ssa li non
esita nella scelta degli organi, ed eseguisce destramente tutti i movimenti
necessari alla soddisfazione dei suoi bisogni; e discernendo con una sorta
d'intuizimie iai)ida se un oggetto
proprio o no a conservare la sua costituzione, se si armonizza con essa
o la contraria, ricerca senza ingannarsi ci che r tavorevole, e, fugge ci(^ che
Vi nocevole. cos che si sx3egano tutte
le azioni degli animali e dei bambini.
agli Stoici che allude Virgilio quando, in ammirazione (hivanti ai
lavori delle api, ricorda i flosoti che hanno (h'tto esse (i]>ih(s parfem
dritae men/;,v opinione ch'egli considera cvidentenumte come la sola che sia
capace di spiegare le loro azimii. Questa interpretazione (h'gli atti istintivi
degli animali ha pure crede pure che gli animali lianuo fra loro le stesse
relazioni che 'li uomini. Gli abitanti di 15orn(M) sostengono clie le tigri
hanno un sultano e una corte. Secondo il viaggiatore Crevaux, i PelliKosse s'
immaginano che le bestie lianno i loro stregoni
((ioblet d'Alviella, L'idea d Dio ecc., 55). Physica 11. Vili, 6. V. a.
i)er ([uesta spiegazione dello istinto nei pi antichi pensatori greci, i versi
di Epicarmo in Diogene Laerzio, 111, 16. V. Ogerean, Il sistema filosofico
de(jli Storici, 84 e 174-17H. G(^orgichc. l. IV. Ili inspirato Plutarco nel
dialogo che ha x)er titolo: rratio' naVui raiione idi. Fa anche la sua parte
all'intelligenza, nella spiegazione dell'istinto, il c(mci4t() -moderno secondo
cui gli atti istintivi degli animaii sono delle azioni al princii)io
intelligenti, che tiniscono, in forza dell'abitudine, per trasformarsi in automatiche,
e si trasmettono cos i)er eredit organica. Potrebbe domandarsi se il fatto elio
la dottrina che spiega sos tiiiii gl'istinti, trova, malgrado delle ditticolt
che s(nnbrano insormontabili , un'accoglienza s larga i)i'esso i tlos(ti
contempoianei, non sia dovuto anch'esso, in parte, a (juesta tendcniza del
nostro spirito ad assimilare, i)iii che (' possibile, tutte le azicmi della
natura alle nostre proprie azi(mi volontarie e intelligenti. -.^xt 3L'
ilozoismo. 12. Se l'ilozoismo s'intc^ide nel senso lato in cui preso ordinariamente, cio(' come una dottrina
che unisce alla materia un principio psichico, non vi ha una divisione netta
fra esso e la filosofia teologica. Quando troviamo la dottrina dell'anima del
mondo nei filosofi greci, p. e. in Erastito, in Platone, negli Stoici o nei
Neoplatonici, o anche in alcuni padri della Chiesa, come Teoflo e Taziano, che
pensavano che il Santo Spirito dif V.
Darwin. Origine delle s/jeeie, Def/Pi.^dinfi, e ci'r. il mio Saggio L 1;arto
IV, e. III. V. Lauge Storia del materialismo^ voi. II, parte I, e. II. 136
coscienza a un grado qualunque non avrebbe potuto iiscire.--In ogni essere
s'incontra una facolt analoga a quella che costituisce lo spirito dell' uomo, e
di cui lo spirito umano la pi alta
manifestazione. Schopenauer chiamava questa facolt col nome di volont-, noi la
designiamo con quello di sentimento. La coscienza ne l'attributo essenziale. Come non vi ha che
iina specie di movimento, cos non vi ha che una specie di sentimento; le
differenze sono semplicemente delle differenze di grado. Ogni cosa nel mondo,
sino all'atomo, per^s un soggetto, per
gli altri un oggetto. Scio penetro al fondo del pi rudimentario degli esseri,
se io riesco a sentire come esso sente, esso non mi apparisce che come me, come
volere, coscienza, libert. Se io lo considero al contrario dal di fuori, se io
contemplo me stesso dal punto di vista d'un osservatore straniero, tvitto neir
essere movimento, necessit, puro
effetto' di rapporti con lo spazio e con un passato incommensurabile di
forza .
Ciascun essere una monade di cui
l'essenza intima di natura
esclusivamente spirituale (appercezione e volont), di cui il corpo una materia in movimento, un composto
meccanico, che deve la sua forma, la sua grandezza, all'azione del principio
spirituale, al quale associato . Noire
ammette una finalit nella natura: egli vede in ogni essere una causa finale,
una forma che ciascun essere ricerca laboriosamente a traverso delle
trasformazioni senza fine, la realizzazione d'una idea di cui esso solo
racchiude il secreto, bench questo secreto sfugga d'oralla sua conoscenza
distinta. Il mondo gh apparisce pure come un essere, come un vasto me. Cosi in
Noir r ilozoismo, quale lo abbiamo visto nella pi parte degli esempii
precedenti, si avvicina di pi ai concetti animisti e teologici . 1) Pensiero
monistico. ) V. Nolen II monismo in AUmwjna, nello Meme philosophique, In
madama Eoyer l' ilozoismo legato alla
concezione particolare ch'essa si forma della natura degli atomi. L'atomo non ,
come si ammette ordinariamente, una sostanza solida, dura, inerte e puramente
passiva; esso perfettamente fluido,
elastico e dotato di una forza espansiva, che, se non incontrasse ostacolo,
farebbe occupare a un sol atomo tutto lo spazio. L'universo assolutamente pieno, non vi ha vuoto fra un
atomo e un altro: in virt della loro forza di espansione, che li fa lottare per
appropriarsi ciascuno la pi gran parte di spazio che gli possibile, gli atomi si limitano mutuamente
per dei contatti assoluti, esercitano una pressione gli uni sugli altri, e si
muovono reciprocamente, respingendosi gli uni con gli altri. Tale la sorgente di tutta l'energia motrice
spiegata nell'universo . Gli elementi ultimi della materia sono dunque attivi,
automotori: oltre alla tendenza ina diffondersi, a diluirsi nello spazio, alla
forza indefinitamente espansiva, di cui li dota, l'autrice attribuisce ad essi
la propriet di muoversi da se stessi, automaticamente, nel senso della minore
resistenza , e spiega anche le decomposizioni e ricomposizioni chimiche per
l'azione automatica degli elementi tendente a realizzare le combinazioni in cui
essi trovano pi. Ora l'attivit, il movimento spontaneo degli elementi della
materia suppone in essi una vita, un'anima, una coscienza. Degli elementi
solidi, inerti e puramente passivi, come quelli dell'atomismo ordinario,
esigono l'intervento d'una forza esteriore, d'un La costituzione del mondo, v.
sovratutto Introduzione cap. 14 e 15, e parte I cap. 4, 7, 8. V. Introdnz. cap.
, IH, parte I e. 5, 6, 7, 8, ecc. V. pa, 128, 130, 132, 305, 608, 10, 17, ecc.
V. Parte III, e. 40. voc, che loro distribuisca il movimento e la vita .
L'atomo automotore e vivente basta a se stesso, e pu da se solo spiegare il
mondo per le sue attivit dinamiche ; ma bisogna anche attribuirgli delle
attivit psichiche. Se gli atomi non fossero delle individualit coscienti, essi
non avrebbero alcun motivo di muoversi e di agire: si pu sostenere che ogni
forza ha uno scopo pi o meno vagamente cosciente. Lo scopo delle forze atomiche di occupare il pi grande spazio possibile, di
estendervisi all'esclusione di tutte le altre forze. Ciascun atomo un me vivente, cosciente della sua esistenza,
e cosciente delle azioni e reazioni spontanee ch'egli esercita, avente la
sensazione passiva, pi o meno intensa, dei limiti vfiriabili che risultano per
lui dalle pressioni di tutti i suoi vicini, e dei moch'egli compie difendendo
contro di loro la sua parte di spazio. L'atomo, non solo sente, ma anche vuole,
secondo dei motivi percepiti, che determinano i suoi movimenti (quando dunque
l'autrice parla delle azioni automatiche degli atomi, ci non vuol dire che esse
sono incoscienti o involontarie, ma che non sono precedute da deliberazione e
da scelta, e si producono fatalmente): la volont e la forza sono i due attributi
dell'entit sostanziale. L'autrice attribuisce anche agli atomi: le sensazioni
dei loro contatti e delle variazioni di pressione dei loro piani (gli atomi
hanno la forma di poliedri) e quelle degli ostacoli che limitano la loro
espansione , la percezione del mondo esteriore Introdtzhnc, ]>a, parte I,
cap. 5. 6, 7. V. Prefazione. V. il cap. V (li questo Saggio. s
rMateWdttMiubiatgB -TP-? 141 diali Clie un elemento abbia affinit per un altro,
eie vuol dire che lo desidera ; se si separa da quello con cui unito per entrare in un'altra combinazione, e
perch questa per lui pi attraente. Il
demiurgo dell'universo l' inteli
ig-euza; non un'intelligenza sopramondana, ma quella degli elementi della
materia e le altre pi complesse che risultano dalle fusioni d. queste
intelligenze elementari. L'universo non e sottomesso a leggi fatali, perch noi
non possiamo negare che vi ha in noi il lil)ero arbitrio, e questo dobbiamo
estenderlo agli elementi di noi stessi e di tutto l' uni verso. Questi elementi
al principio erano Ithcr,, cio vivevano indipendenti, ed erravano a capriccio o
piuttosto all'azzardo. Ma nei loro incontri la loro sensibilit fu
impressionata, e applicarono la loro intelligenza e la loro libert a fuggire
gli urti disaggradevoli e a ricercare gl'incontri aggradevoli: ebbero dei
desideri e dei timori^ delle simpatie e delle antipatie, degli amori e deo-li
odi: acqaistarono delle ahitmlmi, e queste Hono ci de chiaMiamo le loro leggi.
Inoltre all'individualismo primitivo succedeva lo stato di societ-, gh elementi
si associarono in gruppi rti pi in pi stabili, facendo ciascuno il sacrifizio
d'una parte della propria libert, ma compensato da una pi grande resistenza e
una pi grande indipendenza dell' insienie; queste riunioni eram, il prodotto
della libert e dell'iute hgenza e si formavano in vista del bene della comunit.
Cosi uacquero le molecole organiche, e poi per la loro as^l) V. La mutrria
hnita e la materia ricente, v -11. lli 1' 170-171. Ir, i>ii}; 21 ag. Iti*)
172. ^51 142 sociazione i corpi organizzati. Queste ultime associazioni ebbero
per base il principio della divisione del lavoro: ciascun membro della comunit
concentr le sue attitudini su una funzione determinata, che esercit a vantaggio
di tutti, domandando che in cambio gli altri compissero per lui le funzioni
ch'egli abbandonava . Come si vede, l' ilozoismo di Delboeuf un antropomorfismo nel senso stretto, che
attribuisce agli elementi della materia le stesse qualit psichiche che
osserviamo 0 crediamo di osservare in noi stessi e negli altri uomini. Noi
faremo infine menzione di Roisel, in cui si pu osservare una curiosa fusione
del materialismo atomistico moderno coi concetti tradizionali della filosofia
teologica. Egli chiamagli atomi (in opposizione alle cose composte e derivate)
essere assoluto, l'infinito, la causa prima, l'essere necessario: l'onnipotenza
e l'onniscienza sono egualmente dei predicati dell'atomo. L'onnipotenza iii potenza virtuale infinita degli atomi: che tutte le attivit le quali si manifesfano
nei composti particolari costituiti dagli atomi, esistono in potenza nell'atomo
stesso. L'onniscienza, la conoscenza
infinita che ha l'atomo: che gli atomi
sono al tempo stesso i materiali, gli operai e gli architetti dell' universo.
L' atomo non rifiette, non ragiona, la sua conoscenza immediata o istintiva: s'egli ragionasse,
sarebbe soggetto all'errore. La conoscenza nell'atomo non prodotta dalla presenza d'un oggetto
esteriore: essa esiste in lui senza cause anteriori o esteriori a se stessa,
come l'estensione e la potenza, con cui essa
in una correlazione perfetta, di tal sorta che la potenza non agisce
senza la conoscenza, n la conoscenza senza la potenza, e l'una e l'altra non
agiscono che in conformit delle leggi eterne, che fanno egaalmente parte degli
attributi della causa. La conoscenza illimitata dell'atomo d la ragione
generale di tutti gl'istinti particolari L'istinto esiste nell'animale, nel
vegetale, nel minerale stesso. La gravitazione, l'affinit chimica, la coesione,
ecc. sono delle attivit istintive degli elementi materiali. L'apparizione, la
conservazione, lo sviluppo e la riproduzione dei vegetali non si compiono che
per degli atti istintivi: sono gli elementi costitutivi della pianta che
possiedono questi istinti, e fanno tutto ci che bisogna. Negli animali e nelle
piante si trova cosi una scienza innata delle condizioni della loro esistenza.
L'istinto presiedendo all'origine di tutti i movimenti, quelli anche che, per
conseguenza della mobilit dei corpi, paiono non avere per causa che una forza
cieca, hanno tuttavia nell'azione che li produce una causa essenzialmente
razionale. Niente non si muove all'azzardo neiruniverso, e l'istinto che
rappresenta la conoscenza e l'attivit delle cause prime negli esseri
contingenti, il principio di tutte le
loro evoluzioni (l. U, 1. 178-17A. Cfr. imragr. H. Roisel La sostanza, v.
specialiiiiuentc 11 parte e, li, e e. VII. u^xt. ITT. Il panpsichismo. 15.
DilFilozoisiiio che artVrnia V unione indissolul)ile (Iella materia e dello
sprito, noi ])assianio ad nn aliio tipo di metafisica, aitine ma essenzialmente
distinto, che nel suo concetto ^-enerale non ha un nome stallito, e che noi
chiameremo punimchhmo. Questo sisteua atterma che la materia non esiste, ma che
tutto spirito: che ci che ci a])])arisce
come mondo materiale non e in se stesso che un mondo di esseri psichici; che
non vi hanno in realt particole di materia e movimenti, ma in luo^o di essi
spiriti e fenomeni psichici. Biso:na distinguere duiupu^ il jxinpxichismo, da
una parte, dalVihtzoismo, e dall'altra, di\\V it^^dUtiiio e dal fcnonenir^mo.
11 pan])sichista non ammette seiplicemente, come l'ilozoista, che lo
s]urito dn i)er tutto; uia che non vi ha
clic lo spirito, e tutto il reale si risolve in esso. Da un'altra i)arte
e>li non ammette che tutto il reale si risolve nello sjurito, perch cred(^
come il femmienista e r idealista subbiettivo, che i;li oggetti materiali non
esistono che in (pianto li percepiamo, o, c(une P idealista obbiettivo, che
sono delle rappresentazioni di uno spirito universale; ma percht', lascian(h) a
(luesti oggetti un'esistenza indiiM-iidente dal soggetto conoscente, egli
atteruia che non s(Mio materiali che in api)arenza, mentre ii realt non sono
che spirito. 11 panpsichismo ha un posto assai largo nella metatsica moderna,
sovra rutto nel peiiodo pi recente, per la cresciuta coscienza delle ditticolt
del realismo ordinai'io: esso v ammesso Leibnitz, Schopenaner, Maine de 13iran,
Rosmini, Gioberti (nella seconda foruia (Mia sua filosofia), Lotze, Wundt,
Hartmann (che pino cimserva alla m iteria una certa obbiettivit), Clifford,
Wallace, Taim-, Uenouvier, ecc. Molti (h sistemi a cui si suole applicale il
nome un po' vago di din^nni^fl non s(uio iu verit clic ixiap^ic///s'//: noi
vedremo (piai (^ il punto di contatto vile il dinamismo propriauuMite detto ha
voi i)anpsichisiuo. Il panpsiclnsmo e anzitutto una soluzi(nie del ])roblema
del nunub) esteri(ne. Alla (piistione: che cosa (^ la materia? dopo che (^
stata riconosciuta la subbiettidi tutte le sue (pialit. non si pm) ris])oudere
alti'o, si vuol dire (pialche cosa di pensabile, se non che essa spirito. Ci ' perch noi non possiamo
concepir.' alti'a cosa che la materia e lo spirito: la mat(Ma. cio la cosa
estesa, colorata, resistente, ecc.; e lo spiiito, cio un complesso di
sensazioni, di sentimenti, di volizioni e inuna parola di fenomeni psichici. Ne
segue che, do]M) che si riccmosciuto che
l'estensione, il colore, la resistenza e tutti gli altri attributi che
costituiscono il nostro c(mcetto della materia, non esistono che relativamente
al soggetto senziente, lum resta altra cosa che lo spinto, che si possa
cimsiderare cernie cosa in s, cio a cni si possa attribuire uiresistenza
assoluta, indipiMidente dal soggetto senziente. In altre parole, se niente del
nostro d(^-lla materia cio di queste apparizi(nii che noi chiamiamo c(upi
appartiem alla materia in se, la materia in se stessa, se noi l'ammettiamo e
voformarc(nu^ un (Muicetto, non pi essere che cm che noi possiamo unicamente
carte (luesto Saggio, in cui parleremo (h'ile dottrine sul nnuido esteriore.
Tuttavia noi (h)bbiamo dirne (pialche cosa anche in (piesta parte, perch esso d
pure una risposta alla (luistione delle cause (^tficienti, essendo
evidentemente 10 14H UT aiK-lresso mia t'orma (k-iraiitroponioitisiiio, cio
un'assiliilazione (li tutte le forzi* della natura air attivit arisce come
estensione impenetiabile, colorata, ecc., ma anche la tbrza, cio l'attivit
uotrice. la causa etticiente (h'I movinu'Uto. Jn un senso lato, si ha ragione
di chiamare la (h)ttrina delle monadi un dinamismo, percln^' ancTessa
sostantitica la foiza, (juantumiue non vi v(Mbi, come i riiK-. ed. 1). t. II.
]. II. 1:U .nifi i:"2 su, vvv. n non c(msiste ueirestensito: al principio
passivo il principio attivo. Cosi la sostanza ccuiHuea costituita (hi due elementi: la materia pruna
o nuda, che l'autore riconduce alla poivnzu pa^fiinf, e la tbrza o pofenzd
uttivn primitiva, ch'e, /v i/>-'f ^^v^'' ed. Dut. t. II, p. I. 20, Elespons. ad Stahl. ohserr. wd
XXI. 7. Comment. de an. hrator. I V. ecc. (S) De prwa phil. emead. Dut. II. I.
20, Cohuh. de an. hrnfor 1V, Lett, se lU'Ss. del eorpo eonsiste neWesteus. Dut.
II. L 2852S(;. rA'tt. a Fomher. Dut. IL L 2S7, Lett. sai earfesian. Dut. IL L 2HS, De i/)!i(( ^f^fl *>*'''^' ^''' ^^
^**^' ^^' ^'^*^'' Teodie. Prefaz. ed. Jnc(iues 10-20. Es. dei prine. di
.}falehr Dut. II. 1. 20S. /i.V>/.s^ r/r/ rf/////f'/-. t oiu-uo 1710. II.
('omm. de aa. hrator. l V. Mt. al y>. lioncet 1007. Dut. IL L 202, Lett sai eartes.
Dut. IL 1. 20S. Lett. al,>. Prs liosses U tei.br. 1700. Dut. II. l. 200. 20
sett. 1712. Dut. IL l. S02 -i. 10 ao. 171.0. Dut. II. L:n4. M ipsa aat. sire
dt^ ri ius. 11. 12, Ammadr. eirea Theor. Med. Stahl. IH.
ecc. -7" r^ U8 149 (leiitali e variabili (Iciruiia, eoiiie le ttrano
Hesistenza di sostanze incor])oiee, spirituali (-J-). Ci perch oltre (die le leggi del movimento
manifestano una finalit e non possono attiibuirsi che alla scelta della
Saggezza suprema il fatto stesso del movimento non si spiega immediatamente,
cio non rimontando alla causa generale della natura, che per le aninu', per le
mcuiadi. T^a forza, il [)rinci])io attivo della sostanza cor])orea, ranima o la monade (H): essa la l'spois. nd Stilili, ohsi'rc. \u\ XXI, 8 t. tJiist. ad
Hofmann 27 sctt. h\S)\). Kjiist. nd lU'rliHjhnii cil. Eni ni. \). iul . ^V. S.
HidViit. tnn. 1. 1. e. 1. cil. .Ijh-ciucs t. l. p. 25, Hepl. a Bdjjle sul sist.
delVunn. ft^stah. Dut. II. 1. S4, A's. del prine. di Malchr. Dut. 11. I.
208-201). hJinst. ud JIoffnHuui 27 sett. imm. Aittutdc. t'ircjt Theor. Mcd.
Stuhl. 111. Dut. II. II. 182. J^cspoHS. ad Sfa hi ohsercc ini XXI. S, ) Teod. Prefaz. . De ipsa nat. sire de ri ins. 1 i
12, Uespons ad Sfhal. ohserr. ad XXI. '^. ori-. 'I sorgente del movimento e
delF azione in generale . Per provare l'esistenza dell'anima, come sostanza distinta
dalla materia, air argomento che i fatti psichici non potrebbero essere
modificazioni della sostanza materiale, Leibnitz preferisce quest'altro: che la
materia puramente passiva, e per
conseguenza il movimento e il pensiero, che sono delle azioni, de^'ono venire
da (lualche altra cosa. Il movimento prova che (jueste anime o monadi sono
contenute in ogni parte della materia, perch esso non pu essere dovuto che a un
principio attivo, e (luesto deve essere un soggetto percepente. 1 principii del
moto essemh diffusi (hi per tutto nella materia, per conseguenza anche le anime
sono diffuse (hi per tutto nella materia . Spesso Leibnitz presenta il suo
sistema come se esso fosse un ilozoismo piuttosto che un panpsichismo. Noi
abbiamo visto infatti che la sostanza corporea
composta deUa materia e della forza, e che la forza l'anima o la monade, Leilmitz ci rappresenta
duuipie le mcmadi come se esse costituissero n. l)f i/jsa )H(t. sii' e de ri
ins. 12. Li'tt. a
Jfoiifitort A nnv. 1715, III. Epist . (id Vuijner. 4 i^iu*;. 1710. 11, Connn.
de an. rutor. V. K/)ist. ad Vfifjner. 4 gin.i;. 1710, II. (H| Connn. de nn. hrutor. VI, Vili. (7)
Siat. uoco ilelln tud. e della eo)nnnienz. delle sosf. Dut. II, I, 51. (81 AV.
dei prine. di Mulehr. Dut. II. I. 208 20J). Letf. a Moitmort 4 nov. 1715. III. hJpist. ad
Vaf/iter. 4 ;uj;. 1710. I II, (^omin. de an. hrufor. I IX, Jjett. al p. Des
Bosaes. 14 t'cbbr. 170(>. Dut. II. I. 200. 1 sctt. 1700. ad 25 v ad 20. De
ipsa iiat, sire de ri itts. 11-12. J'spons. ad Stahl. obserc. ad XXI. ^ \,
Teod. Prefaz. ed. Jacq. II. 10-20. eie. (0)
Risp. a Bai/le sai sist. deWann. prentab. Dut. II. I. 88 atetici^ interpret^ite
in un senso che le riabiliti, essemh), secondo lui, le forze i)rimitive delle
sostanze cori)oree ;2). Quaiitunciue non tutte le volte in cui le mona^:^. A^*
'/''' prine. di Maletrr. Dut. II. I. 20S.
h)jist. ad Tf/r/ //. Dut. II. I. 20(. De ipsa nat. sire de ri ins. 11-12, Anintadc. eirea
Theor. Med. Stahl. Dut.
II. IL i:H2. Besp. ad Stahl. obserr. ad XXI. ^. Dut. II. II. 154. X. S. salV int. iun . 1. II. e.
XXI, ^ I, Teod. Brefaz. ed. Jacq. ]. 10-20, ecc. Sist. nuoro della nat. e della
eoin. delle sost. Dut. II. I. 50, Ks. dei prinv. di Maletn'. Dut. II. I. 20S.
Leti, a Montmort \ u^>vciub. 1715. III. Leti, al p. Bonret 1007. Dut. ILI.
2(>2. Leti, snl eartesian. 1H05. Dut. ILI. 20S. ecc. ('^) P. e. nella
Monadol. I. 04-05. Epist. al p. Des Bosses 10 a-. 1715. Dut. IL I.:^1L Lt'tia
Montnort 4 iiov. 1715. III. 152 153 tutto il nioiido (lei corpi, percli la
materia, secondo Leibnitz, oranizzata in
tutte le sue parti, e anche quella che crediamo inorv. 171."). III. A/>/.s/.
ad Vmjner. 1 .iiiu.u. 1710, II, Connn. de tnt. brutor. I \. Dr ipsit ttal. sice de vi ins. 11, Jsp. ad
Stohl. oharrv. ad XXI. 7. {'M MoHndol. U. 1?S. IH. Diit. 11. I. 22, ibid, 50.
Diit. 2, A7k^ nuoto di'lln Hfif. e dvllit conim. dvlle sost. Dut. II. I. 50 e
5:S, Ji'rpL n lidfli' sui sisf. dvlPiiriH. prcst. Dut. 11. I. SS. h))ist. ad
VaUur. \ -.ilio. 1710. II. De ipsa nat. sire de vi ins. 11-12, Hesp. ad Stiild.
ohsere. ad XXI. 7. Teod. Prefnz. Jacci. 1!) 20 (cfr. De ijsa H(l, si ve de ci ins. ^), ecc. materiale di cui ciascuna monade la forma o Pentelechia fosse un corpo
organico aggiunto a (piesta monade, importerebbe il concetto assurdo, che impossibile di attribuire a Leibnitz
((luantmnpie ([uesto sembrerebbe il senso di certi luoghi) , che ad ogni
monade, cio ad ogni elemento ultimo della materia, sottoposto un corpo organico, \'al(^ a dire
altra mat(Ma, risolubile in altre monadi o altri elementi ultimi, a ciascuno
dei (piali sottoposto un altro corpo
organico, risolubile come sopra^ e cos di seguito. 8*^ L'anima o mornuU
dominante del corpo organico non ])otr(d)be essere considerata (hi Leibnitz
come la forza inerente alla materia. Fra l'anima e il corpo nel sistema di
Lei])nitz non vi ha azione recipi-oca, ma armonia prestabilita: l'anima agisce
dalla sua parte, e il corpo (hdla sua.
(piest'attivit inerente al cori)o e indipendente thill'anima che
l'entelechia deve si)iegare: le entelechie, (piali principii attivi dei corpi,
non possono essere dunque le anime, coim^ opposte ai corpi oiganici (per
esempio il principio attivo del corpo umam non ])u vi ha al fomh) del suo
pensiero ((piantumpie egli professi la dottrina che non vi hanno elementi
ultimi della massa, percht^ il continuo non pm) constare di punii) h)jist. ad
Vaf/ner. 1 oiu;^. 1710. IV. Dut. II. 1. 227. fJpist. al p. Des-Bosses H marzo 170!). Dut. II. I. 2H'^, Leti, a Dangieourt 11 sett. 171H.
I. iAi rA ti V v]w iu\ ;;ni monade, eoi risjxnide un elemento nelF essenza
visiile, e vhv il movimento di (piesto
prodotto dalTattivit di ({nello. Cos e>*li attiibnisec^ ad o^ni
j)unto della matanieo risulta dal eoneorso di tutte le entiltehie
eorrispondenti ai diversi punti di (juesto eorpo. Senza dul)l)io la
proposiziinie che i corpi sono eomi)psti della mat(nia ])rima e delle monadi
come torz(e o enttdeeliie, presa sti'ettamente alla lettera, in contraddizione con la d(ttrina stessa
delle luonadi, percli(' sembra considerare la materia prima come uiTaltra
realt, mentre secondo (pu^sta dottrina tutto il ridale si risolve nelle monadi.
K (nidente che dei due elementi che Leibnitz distinguile nella sostanza
coiporea, e essere, nel senso ri^(n*oso, una tbrza, cio una causa epceuie (nel
nostro senso) del movimento della materia. I movimenti dei corpi, cie si
pretendono sj)ie. Dt's-lJosst's 17 iiiaizo 170H D. 11, 1. 2(il>. 155
semplicemente armonia prest^ibilita. E anche (piesto evidente: ma Cii') non togliti che assimilanih)
al movimento umano o animale il movimento .^ponUineo della materia inanimata ik
vedremo in seguito come e perche' Leibnitz ammetta (piesta spanta neiti)vv la
supI)osizione di uno stbrzo cosciente, di uiFattivit psichica, come antecedente
anche di (piesto movimento, eli trovi in (luest/assimilazione (pialche cosa
come una spiei-azio ne del fenomeno
(nel senso ordinario e non scientihco della parola spiegazione) , e ve(bi, per
conseguenza, in (piest'antecedente supi)osto (pialche cosa c(mie una causa
eniciente, perche^ la causa eniciente (' un antecedente che spief/a un
fenomeno, e non semi)licemente a cui (piesto seue invariabilmente. Altre volte
la dualit fra la entelechia o forza (^ la materia prima prende in Leibnitz un'
altia forma. K il reale in se ste8*o, la stessa monade, che viene ri;uar(hita
come composta di una materia prima e di una entelechia, (piesta essendo ancora
il sinonimo di forza o potenza attiva, e (piella di potenza puramente i)assiva.
Per comprendere (luesta (h)ttrina di Leibnitz,
necessario tener conto di eerte sfumature, di certe (\sitazioni nel
concetto della monade, che sono la forma in cui si manifesta, in (piesto
sistema, una contrad(bzione secondo noi inerente alla essenza stessa del
i)anpsichisnu). Il panpsichismo (^ una risposta alla (piisti(me: in che consistono (' perch(^ il nostro spirito ha una
rii)u.i'iianza (piasi V. capit. I. vS 8. 156 invincibile ad ammettere che i
corpi non sono, secondo la profonda analisi di Stnart-Mill, che delle
sensazioni attuali (> povssibili; ma in virt della tendenza naturale (che
spiega secondo noi tutti i concetti meta tsici) ad assimilare tutte le nostre
idee a cpielle che ci sono le pi abituali, noi cerchiamo di sostituire al
concetto distrutto (h'iia coi^a qualche altro concetto soni^i;'liante, che
conservi agli oggetti un' esistenza per se, indipendente dalle nostre
sensazioni. Le monadi di Leil)nitz, la Volont di Schotenauer e tutti gli altri
concetti analoghi dei inetatisici anzi in generale tutti i ccmcetti
trascendenti della cosa in s non sono lumpie che dei succe(la nei del concetto
primitivo della cosa, del corpo ; tale
il loro scopo e la loro funzicme: cos la cre che deve fare se conseguente, perch il presupposto del suo
sistema clu^ non vi ha altro
(rintelligibile e di certo che il fatto psichico ; insieme alle essenze
sinrituali si disegua anche allora innau/i alla sua immaginazioiu' (]ualche
cosa conuMin corpo che fa da snhstratnm ; al suo pensiei'() cosciente e
(MUifessato se ne unisce un altro a met incosciente e juui (MUifessato, che lo
mette in contraddizione secreta con se vSt(\sso, ma senza di cui la sua
ii>otesi gli sembrerel)be meno soddisfacente. Ma non tutti i panpsichisti
amnu^tono il concetto rigoroso defilo si)irito, che non vede in esso che la
serie (U-i fatti dell' esjxMienza interna, e non gli d che gli attributi che
conveng(mo a (piesti tatti: un esempio
M. de Hiraii, che attribuisce risolutamente alle monadi la posizioiu'
nello s])azio. L evi(Uuitenu'nte un vestigio del (pialche cosa coin un corpo
che t da substratum. Fra i due casi estremi, del paupsichista conseguente in
cui il (lualche cosa come un corpo resta un pensiero sul)cosciente e non
contessato che non imprime iiente di s nelle (h)ttrine eh' egli apertanuuite
professa, e di (pu'llo in cui esso giunge a una (h>ttrina costante e precisa
c>?e afferma dello spirito (h\gli attributi che non convengono che alla
materia, vi hanno dei gradi intermediari che sarc^bbe dittcile di definire
: in uno di (pu'sti che si trova
Leibnitz, come si vedr confrontan(h) talune delle sue proposizioni con talune
altie. In alcuni luoghi noi troviamo in Leibnitz una
de^"f^a'JilWJlL'iiiWiailMI'iiWlUi'^li 15S tenninazioiu' n^^'orosji dell;
iiioiuult* comi' pura essenza spirituale.
Niente altro eonoseo, e^li diee, nelle monadi 8e non percezioni ed
appetiti . Non solo la moditieazione della monade consiste unicamente nella
percezione ed appetito, ma le monadi stesse non sono altio che i)ercezioni ed
appetiti. Le monadi non smio in un luoj;-o: non lianno sito tra di loro; non vi
ha tra di esse alcuna o distanza spaziale, e dire che sono con.ulobate in un
punto o . fh's /iossrs 21) uia.;;. e Ki,i;iu;. 1712. VA'r. Bisfj. alla:-*. He fili
ca /.s7. al p. Des liosses:M) api'. 17(ll>. Dut. li. I. 2S5. Ucspons. ad
Stahl. obncrc. ad XXI. ! (raiiiuu) \\/.s'/. al p. DcH JtofiscH 15 tVll.. 1712.
Dut. II. I. 2t5. Hi jriumu 1712. Dut. 21)9. 24 \j^vnn. 171S. Dut. Sl>4.
h'pisf. al ft. Drs liosses 15
t"('l>r., 21> uia.u.. U> uiuji.. 20 sett. 10
ott. 1712 (DtU. II. I. 2H4-2i>5. 2M7, 2i>S 201). SOS) e altrove. Kpisf.
al />. /Mv fiosscs 1sr , i veri nioi della unluni , (U^';ii (domi di s/.s7.
al /;. I>es linsses^'l.^
lua-. 17U). Dut. II. I. SIO. ecc. Mona dal. '^. (y) MoHtdol. S. ((>) JSisl. della tuff, e della eoumtt. delle
sosl. Dut. IL L 5S. (7) flnd. Kf)ist. al />. Des /iosses 11 marzo 170(>
(Dut. IL I. 2)S). IH ott. 1700, 11) niaizo 1700. SO apr. 1700 (Dut. 2S5;. Leti,
a Dany'H'oarf 11 sott. 171(5. 1. ecc. (0) Moaadol. 2. Leti, a Arnfddd 2;i
lujirzo lUMO (Dut. ILI. 4(). JiYisl. al p. Des liosses SI lu.ul. f.DiU. IL L
2S7). 2J> uiao. 1712, 20 uia-. 171() (Dut. Sii*). e divisibile, esso un composto , come dice Fautore, nna
collezione o un ammasso di pjirti airinfinito e il composto suppone deoli
elementi ultiiin' che lo comjmnoano e lutamente semplici, cio senza parti: ):
ci evidentemente perch, il corpo essendo
divisibile alPinfinito, se esso composto
di (^lei.enti ultimi indivisibili, supposto che la fJfHst. al n. Ih's liosfu's
11 marzo 17(H) (I)iit. 2i\l (^ 31 lii-l. 170J> (I),it. 2S7) e 20 sett. 1712
(Dut. 308). Prlm^, della nat. e della (jraz. 1. S^t, nuoto della e della eoman.
delle sosf. Dut. IL L 50, 58 e 55, JCpisf. al p. Bosses W marzo 170J) v 81
liiol. i7out. IL I. 50 e 58. MonadoL {) (Dut. IL L 28), Prhie. della nat. e
gruz. 8. L)jist. al p. Des
Bosses U febbr. 170H (Dut. IL I. IH utt. 17(M; (Dut. 27(), 81 lu-l. 1709 (Dut.
287), 20 sett (DiU. 808), ecc. 2H8), nat. Desinili'sost. della 2(>(>). 1712 materia sia
assolutaiiu'iite continua, (luesti devono essere in numero intinito. Ma ((uesto
m.^ionamcnti) supponiche il continuo non sia un semplice fencnucno subbiettivo.
ma risulti dalla Ju\ta-posizione delle monadi. A dir vero Leibnitz non accetta
fra le sue dottrine coufeax((ie il concetto che il continuo risulta dalla
juxta-])osizione delie monadi (piesto concetto a cui tende da o.^ni parte la
dottrina che il corpo un
a.i:.-.ui'ei;ato sta in (dio lie che la ijnma.i;ini come alcun cIm' di simile,
chiamandola, un punto ntcfffjisictt o di ssf(in:((. Nelle lettere al j)adre
Desl>osses, iu cui vediamo successivamente tutti,uli aspetti sotto cui
Leibnitz concepisce le iionali, (pn^ste, in relaziara fonate ripetutamente a
dei punti (8), anzi, nella strana i[K)tesi sti. e Ejist. (d l. Des Bosses 81
Iii.-l. 170l Diit. II. L 2S7, Leti, a Danijieourt 11 sctt. 171. 1. /SV.s7.
nuoto della nat. e della eotnnnie. delle sosl. Dut. IL L 58. (8) V. h))ist. al
p. Des Dosses 21 lii-. 1707 (Dut. IL I.
2S0). 1() marzo 1701), 80 apr. 1700 (Dut. 2S5), 15 fobbr. 1712 (Dut. 2i)t
;tante e risolutaiuenti' coifessata coiie (juella che il corpo un auureuato di monadi. Ma evidente che quantuni\\\v j)rotessi
esplicitamente la dottrina contraria,
cos dei riassunti del suo
sistema, che fa il centro d' una sostanza composta, ciycaihftn da una massa c(m])osta di un'
infinit ttrina pi"evalent(^ di Cai-tesio secon(h) cui la matei'ia condiste
neirestensioiu'. Quest'ar.iionuuito mette in luce una ditticolt i-eale della
(h)ttiina (T una materia continua e periettainente uniforme, e noi
(h>hl>iamo vedervi uno (h'i veli motivi (h'ila monadoh^uia, perclu* una
concezione trascendente della cosa ni se delia materia, ({ual e la (h)ttrina di
Leihnitz. i)resu])iM)ne la ne,iazi(nie (U'I rcalisiifif n((fnn(l(\ e (piesta
una critica delle due ipotesi opposte che jx^ssono farsi sulla materia dopo che
si (' sop]>ressa V obbiettivit (h'Ue (pialit sec(ui(hirie, cio (|uella di
una materia continua e jieifettamente uniforme, e r altra di corpuscoli
sepai'ati da uno sjiazio vuoto. La dittcolt di cui si tratta (' T impossibilit
di concepii'e il (li V. /'>>/.s7. al,). Di's lios: IIIM-. Idi; \ iiat. e I Icll; rjiz movimento in una
massa c(uitinua e i)erfettamente omoiamento in 1 'Ile cose che ci e he (' nel
composto non ])u venire che darinoredienti sem])lici, e se le monadi fossero
senza (pialit, non ])otrebbero distin.uuersi runa dalTaltra, perche non
differisc(mo nemmeiK per la (juaiitit, e ])er coliseli U( iiza, il pieno
essendo supposto. ciascun luo.i;o non riceverebbe semi)re lu 1 movimento che T
e(piivaleiite di CIO ( he aveva ])]'ima, e uno stato di cose san bl] )e
indiscernibile dair altro i:3). Leibnitz imma-ina evideiit(Mneiite che nelle
diverse ])arti deirestensi(me esistono delle monadi differenti (differenti per
i loro stati intrrni), che (piente monadi scambiano la loro ])osiziom', e che
nel im>vinieiito della materia le stesse posizioni sono occui)ate Sulla
iuconccpibilit del moviiiiciito in nnn liatcria con\\\v suUr impossibilit
logiche tinua ed iiinforiiH', e in .liciicr delle (lue ipotesi oi.postc (U'I
realismo naturale. Iella eoutiuuit Iella K't aifitra sire ia^'ifn V.^. (S)
Moiunio. \K B ](U succt'ssivanu'iitt' da monadi (littVivnti. La i)osizioui^
delle iiiiiaosizione implicitamente ammessa nei ra.i;ionamenti precech'Uti, cio
che le monadi hanno relazioni locali ed esistono m^llo spazio. Forse non vi lia
anclie 05. 165 di pieste lettere alle
cose continuate o ripetute come il numero alle cose nunuM'ate: vale a dire,
1sf((n:(( sepicc, ijKinfiUinv non ahhid tir sv csfrusionCj lui iondimeno
poi^izi(>ni\ che i f(>nii(>n(%
l'estensione essendo la simultanea continua ripetizione della posizione, come
diciamo che la lineji pro(h)tta dallo
scoirere del punto . Ap])resso l'autore ne.iL^'her enei\i;i cani ente che le
iionadi abbiano ])osizione : l'idea, venuta i)er un istante a inaila, sar res])inta
nuovamente n(*;i,ii strati subcos(*ienti del suo pensiero. La dottrina che la
monach' costituita di entelechia e di
materia prima che si trova anch'essa nell'epistohirio al ])adre Des-Hosses si
le|>a evidentemente alla ]H'oposizione ultimamente citata. La materia
])rima, dice rautore, la i)otenza
passiva ])rimitiva^> il principio della r/'s Joases -1 lui;li(> 1707 D.
II. I. 2Sn. V. n. 2 ]K ir)S. (S) ('tv. Leti, al p. Dcs-Iiosscs 15 fcbUr. 1712:
latteria piiiuina ^ la ('(nidizionc doircsti^isioue 0 della resistenza. Ep. al
1. Des-Hosses 11 marzo 1701) I). II. 1. 2r)S. prile allo stesso tempo ad altre
monadi. 1/ enteleeliia della uionade il
suo contenuto interno o puranuuite l)sieliieo, eiuisiderato eoiue t'orza, come
causa del luovimento. Secondo (piesta conceziiuie della monade, che avvicina il
suo sistema alT ilozoismo, Leibnitz pu trov^ire ueir attivit psicliica delle
monadi una ('((i(s(( cffivvii\ nel senso stretto, del liovinu'nto, percli
(juesto non pili un sciu})lice fenomeno
subbiettivo, ma si risolve nei caniiiamenti io dell' estensione e della
resistropriet della monade, considerata come sempliee serie di junrezioni e di
apietiti. ehe il fondamento del fenomeno
materia. Sn ci l'iintore non ei d elio r indicazione otenza ])assiva delle
monadi. (Oft. omn. Dnt.
II. I. ]>. o()2. Cfr. p. 22S. Epist. ad Vaiiiiernm 4 -inuno 171(1 IV in
tne). Sieeereeziparist'on> come un mondo di
OiiH'ctti estesi e dotati delle altre prlica a lavle sul sist. leli'arm.
i>restab.. D. II. i. 1. 88, oefr. Billin^cr Dilueidation. pliilosoi>li.
v\ 245 eilato in I). IL ]>. 1. ): e sieeonn\ d'altra parte, rieomlnce l'uno
all' altro i trer cni non hanno lei r'ale. clu; una percezione confusa. Noi
]Mssiamo inoltre sii]porre ehe, velend) n'lla limitazione Ielle monadi (pi,
'i-li r.iiuar st'ss tenijK il rohir h-lla limitazion' di cjiscuna m>nale (p
un'altra forma) come il fomlann-nto di'lla l)ealit, ci>' leira])parire li
'ssa. iinttsto lei suo fenomem, in uno 0
in un altr> i>unto lello si>azi>. 11 ])unto dello spazi
eorrisi)mh'nte a una mona li vista seeonl) cui essa si rai>i>r'senta 1*
uni vers>. (Sist . nm>vo U'ila nat. e Iella e>m. Ielle s>st. I).
ILI. 5:'>. \U^\A. a Bayle sul sist. hdl'arm. ])r5st. D. IL 1. x:\). O-iii
mnml' infatti ha la rappresuitazi)ne lnal>l. 58-51). Princ. U'ila nat. '
h'ila -raz.:^ ' 12. L H57, 'pr'sentazion' sia leformata in nn sens) o in un
altr>, eh' p. '. essa ha una ]M'r''zini' pii confusa h'ile 1()S vlv il
m:n*ti iii \iciiH'. il imiito di vista li una uiouinlc a un uuiiu'Uto nuuuento. -he le rai>presentano una o
un'altra pr>spcttiva b'IT univers>. Seconb> juesto cnc'tto.
|uanosizimc. la realt clic -orrisiMUHb' a incsta immilline che essa aniiia le siu' ]n'r''zi(uii in
mob> cln' runivci'so e rai>]>reseutato a un imnto li vista litier'ntc.
Allora lire ch' essa T' una forza. ci' ' la -ausa b'I pro]rio movim'nt> >
bd punto bdla materia cH' le -orrisjMMKle, si^nit'h'i* -lu' [u'sto
can:Liiameut) (bdle su' p'rc'ZMii ' sp>ntanM>. h' lovut> JiUa sua pr>i>ria attivit.
Cos la spi'fj.azi>n* antr)ponintistica bd m>viment> prende un' altra
t'orma, la sda -lu' >ia l>;iica in un ]Knii>sichismo riju*oso. ' lu'.
uiK' \ 'li'm, e iK'rtV'ttanK'utt' c)ut')rme alle ' dottrine li Lciluiitz. 1H9
luzione del problema del mondo esteriore, ma anclie una teotia sulle cause, una
spie che avviene in un punto della materia essendo la manit'estaziime
fenomenale di ci clic avviene nella monade di cui (jiiesto punto (* il punto di
vista. Leibnitz ammette duiKpie che le posizi(mi susseonenti ijercorse da
ciascun punto della materia sono determinate dalle posizi(mi che (luesto i)unto
ha i)rece(b'ntemente ])ercorse e (bilia le.ii-.i-'e interna che re,i;ola la
serie (U'ile sue i^osizioni successive, cio' il suo movimento (Il C'osi il mo
Niente u>n acale in un corpusc)lK lic' Leibnitz. n'mnu'n por l'urto dei corpi circ>stanti,
ch' mm sc-na la {> he ^ o-i interno, e che ne p>ssa turbare Tonline Nni
vi ha ri, n'll' a).parenze. E ci) ' si
v'ro che // wonnivHto d //na/siasi /jnulo rhr si possa prendere nel mondo. si
fa in ana linea d' una natura determinata, e/te questo punto ha preso una volta
per tutte, e ehe niente non (jli far mai laseiare. VA v pudb) che io crMb ptr
dire di pili precis) e di pi 'hiar per leoli spiriti oeometrii. piaiituiKiue
lueste sorte U linee ltrepassin intinitamente luelb' che uno spirit> fnit)
pu> c)m]renlere . neirentelechia,
a-giunoi' l'autore, di -ni piesto punt)
il punt li vista, eh.' si tr)va prpriamente la s]Mnitaneit: rentilMdiia 'sprinu' la cuiva prestabilita
stessa, li s)rta -lu' in iuest sens nient' vi ha di vidento a su ri, se
dovessimo ammetterla come un fatto, non [)oti-ebbc essere \vv noi che un
liistei'o inesplicabile. Ora una seijuenza che ci send)ra incomprensibile, noi
non possiamo considerarla come, causazione vera, cio etticiente (se si tratta
sichismo, a meno che m)n vootremmo vedere in (juesta prova un motivo reale
della teoria delle monadi, u considerare (pu'.sta t(M)ria c(nne una
si>iegazione antroponKU-tistk'a d(d movimento. Ma siccome e evi(h'nte che
rautore hi considera come tale , noi (h)bbiamo ammettere ch'(^gii ha avuto
uiraltra raghme. indipemhMite dalla teoria (hdle monadi e dalle sue
conseguenze, per riguardare il movimento come spontaneo, e non vedere nell'urto
una causa sutticieute, perfettamente esplicativa, (h'I fenomeno. Xi fenomeni che
lo spirito umano trova i pi propri a servire da si)iegazione universale delle
cose, si ventica spesso (pu-sto ap])arente para(h>sso (che noi spiegher(^mo
nel cap. IV), er rurto-che, com abbiamo notato,
uno di tali feinnuen rio che vi vediamo sovratutto di misteri(so la conservazione inih'tnita del movimento
impresso, questo lato della legge (Finerzia (die ta che il movimento una volta
Hc(nninciato, lu^r assenza di cause esteriori ritardanti, deve continuare per
un tempo inlinito e con la stessa velocit. L' incinnpnmsibilit di (piesto fatto
(la (piale, secondo noi, non che un
fenonuMio psicologic(, che V. ia-. 14J)-151. h % 1*^non ])n)va alcui mistero
rel nel fatiti stesso) si 8i)ieoa facilmente per la sua conti addizione con le
sni'a continuamente . (^lesta 1*
ojMnionc^ di Leilenitz, salvo che per lui la ris insiffi n della sua virt di
a.t;ire. Ci che prova resistenza di quella r/.s' insifd nei corpi, sovratutto la piopriet che essi hanno di
conservare il movimento ricevuto. lu . /V.s/>V).v.sr.s' li) a.ii. 1715 Dut.
IL L 'Mi. Ih' fH-inia, plil. ntwiuL D. IL I. 20. (H) A/>. (Hi lofmmni 27
sett, lHi)H D IL L 2t;(l. da^li Ulti (Iri (Mri)i . 1) Questa forza,
ai^i::iiiuo;e Fautore, analoga airaninia
deroso, una forza, eio una eausa cjficicHfc del movimento, perch un movimento
che si pi"etende un effetto delTattivit u essere causa che delle sue
proprie moditicazi(mi. per conse^ueuza, nel concetto riu'orosamente
spiritnalista della monad(% che dei suoi pro])ri stati interni, percezioni o
appetiti. Cos noi abbiamo accennato in una notti precedente che la proposizione
che la miMiadt' caus;i del nnyvimento.
del trasporto da un punto a un altro dello spazio del punto disila materia che
le corrispcmde, non pu avere che un sii;nifi cato, ])erfettamente coerente in
un pan)sichismo i'i;;-oroso, cio che essa can.u'ia, per virt propria, le sue
percezioni in modo da rappresentarsi V universo a un altro ])unto di vista. Il
concetto antropomortsti'o della causa, nel sistema di Leibnitz, ci si mne
u-eneiale dei fenonu'ui tisici, ma a quella de^ii stati interni dv\U' monadi,
dei fenoneni psichici che le costituiscono. PotrebK' seubiai-e clu^ in un
sistema che neua la realt della materia, e non ammette altro di reale che il
fatto psichico, non vi sia pi luo^o a parlare di spier i/fstt Hfff. sirr de ri
hs. II. fhiiL 11-1*2. 175 reali senio dei fatti ])sichici dottrina che non ])u
essere che una risposta alla (piistione del nunido esterioi-e essi si sono *^\\
assimilati ])er ci stesso ai fatti umani: allora, (lualundue sia il fatto che
si ])renda come tipo (h'ila causazicme, facendolo servire da spie.uazione
univei'sale di tutti i fatti, esso sar necessariamente' un fatto umano: sicch
parrebbe che non vi sia motivo d \ edere nella scelta di un fatto i>iuttosto
che di un altio mia conseiiuenza unto di vista: una rappresentazione del
moiulo, che can;i;ia secondo i canii'iamenti del mondo stesso e (pu'lli del
punto resentazioni dello stesso universo,
questa la iara supporre la s])ieiazione ])r(M*edente deirarmonia
i)restabilita combinando le lei^iii tlei cani>'iamenti delFuniverso con
(pu*lle dei can^uiamenti del punto di vista delle monadi. Ma i cangiamenti
delle rap))resentazioni V. Comm. de an. hrutor. XII. \'. Mintali.
ri()-;")7. ()S . 77. l*rhH'. de/la tnil. e della (jraz. *>, 12, li.
/'s/toiis. ini Sfa/ti. ohscrruf. u\ Wi. 2, Lettera a Duiif/eourt 11 sett.
17115. lupi, a liat/fr sul sisf. delV arm. prestafl. I). II. 1. S{\.
J/is'jjo>:/a alla I\ rrplea di Clarke 1)1, ecc.). (S) J*isf>. alla I V
replica di Clarhe ili. Lett. a Dafjineoart. 11 sett. 17PJ. 1. ecc. V. lepl. a
Tiajjle sul sisf. dell'arm . prestah. e^ Safjf/i sulla bont di />io ecc. ^
iOA. licemente s])ontanei, ma aiu-lie, in nn senso, volontari: la momnle uno speccliio delPuniverso, ma uno specchio
viveide, cio dotato di attivit. Il prim-ipio interno dei cangiamenti della
monaercezione ad un' altra, V aj)petito:
dalle j)ercezioni del momento precedente la monaejisiero), jKM-ch una volta cIh'
le j)ei*iei;azione si ciistin^u** da (pu'lle ])roj)rie dei sistemi idealisti, percli
la paite ])i"incipale
ass(\i>-nata alla volont. L'ultima ])arola Iella ])jij;'. 88 (lii
citato u p. UJII in iiotji. Ci pvv non )Mtrcblc jq]>licarsi strcttjinientc
clic alh' monadi inferiori. \'. ci clic diremo in seiuito). Priie. ile Ila ani.
e il ella ijraz. S. Moiitd. 11-15 . Priie. tiella naf. e dilla f/raz. 2-'A,
Risj. alla I y repl. ili (Harhe \V>, Ciunnenf. ifean. hrulia'. XII. Kpist. al p. Des-Iiosses
2'A n^x 17l;>. Animadr. einta 'Ilieor. MI. Stitll. JII. J*espots. ad Slahl.
ahsercat. ad XXI. 1-2. Liti, a
Datifieourt 11 sett. 171(>, ecc. (8) V. Prine. della aat. r ili'lla
f/raz.:?. .1 2 17S filosofia (li Lcilmitz, come di olizionale de^li stati
interni delle monadi f per cui la line ni avverimento del prime vi ha un
avveninuMitno in uno dei due moiuli, siano coiue la tiaduzione, in un
linunaiiiiio ,uenza, (piando la monade passa da uno stato ad un altro, ci('>
che definisce i due stati e la loi'o differenza, V che la monade nel ])rimo
stato si rai>pr(^^enta l'universo a un punto di vista, nel secondo stato se
lo rappresenta a un altro punto di vista. Ma il ])unto d\ vista di una monade,
a un momento (hito, coirispeuide al punto dello spazio occupato,
in(piestomom(*nto, dal punt( materiale che (^ il fenomeno di (piesta nu)nad(i.
hun(pie la posizione del punto materiale, a un tal momento, V. Moiijid. 11.
l'(, 2J>, L*riuc. Iella iiat. Iella
;;raz. \ e 5. V. IM'inc. Iella nat. e libila ercezioni. La cosa in s del
fenomeno movimento hi siosizione nello
s[)azio (({nella della sua luaierin prima). L'altra elie coriisponde al
paiipsiciismo rigoroso che l'altia
faccia della teoria, cio che la monade
causa del movimento in pianto la
causa roont((ri(( lei caiijiiiaim'nto lei su)i stati interni, che Vin se del movimt'uto. K pi'st> il solo si
-hiaro e lo, s' essa f)sse scompagnata lai su) inviluj)po rapj)r'sentativ) '
sensihile, ci) eh' la causa dei nujvimenti lei ()rj)i che noi redianto^ lei
fenontcni, l) sforzo, Toscura v)lont,
Ielle imniadi, che sono i i>rinci[)ii animatoli li piesti e)rpi. ^ 17. I sistilo
esteriore, ma aiudie una teoria sulle cause, una spie^^azione antropom)rtsti*a
h fenomeni fisici. La ])r)va pi evilente li piest) fatto la lottrina li Maine h' I^iran, che, nlo
piesto fil)sofo noi ahhiaiiio neiratt) v)lontari>, ei) nel fatto di
esperi^nza cln* l'atto li vol)nt, 'onu* eausa,
seiiiit lai m>vim*nt) ld orp), m)!!^' eff'tt, la per''Zoiie immediata
ld legame ausale: nuMitre ^ii altri fatti non -i mostraiu) die le -onuiunzioni
> le seluenze uniformi 1m f'n)m'ni, ' in pu'sto fatt> sol) s la
volont per n>i il sol) tip) die
ahhiamo jier 'om'epire la eausa ettici'nte, e n)i l)hl)iamo ])ercilont.
]Kn"ente ])orta il nome di volont. A>/// I(( rcdr itclla fovzn c//c fu
crescere e rajetare Ut pi(i(t, e crisiaizzare i miner(te: che (iriije Vnijo
c(il((uf(fi(> rerso il nord: neUi c(tmmo:ioie che prova iftKOtdo (lite ueini
etero/, nuinifesfiintesi Hotfo fornuf di attrazione o di rexpnlsione, di
conhinaziitne o di decowposi:i i femuneiii, m arriviamo alla cosa in s(l).
Spinoza dice che, se fosse dotata di coscienza, la pietra, (piando
uirimpulsione la fa volare attraverso lo spazio, 'l'ederebbe volare .
misimtikai^*^^-'^if:.vt ^ ^. i-;;."-^'.i;'KSJa ]S4 ri,iu;n(l. Ilud. voi. II. p. r>b) e 501.
185 rono verso ;li abissi la caparbiet c(ni cui la calamita persiste a
ritornare verso il polo nord ; lo slancio del ferro quando vola verso (piesta
calamita; l'intensit con cui i poli tendcmo a riunirsi neUa corrente elettrica,
e che una resistenza non fa che accrescere, come per hi vivacit (h'i desideri
umani; noi vedremo ancora il cristallo formarsi no, si uniscono o si se])arano;
intine noi sentiremo direttamente ])er noi stessi (juanto un fai'dello, di cui
il nostro corpo impedisce la tendenza verso la liassa terrestre, fa pressione e
si a]>pogi^ia con insistenza sulh* nostre spalle, s(*guendo cos la sua unica
aspirazione: (pian(h) noi avremo attentamente meditato tutto ci, non ci coster
[)iii un i;i'ande sforzo (rimma:ran(U' distanza (hdla nostra propria natura,
(luesta cosa che, in noi, ricerca il suo scopo rischiarandosi della conoscenza,
ma che (]ui, nelle pi [)allide delle sue manifestazioni, non ha che delle
tendenze cieche, sorde, unilaterati e invariabili; per conseguenza, come il
chiarore delTaurora mattinale porta il nome di luce solare ugualmente che gli
splendidi raggi del mezzod cos (juesta cosa, essendo (hi \wv tutto identica,
(k^ve j)ortare (jui, come l, il nome di volont, perch(' (pu\sto mmie designa
l'essenza intima di ogni cosa in (piesto mondo, la sostanza unica d'ogni
fenomeno. La tendenza piincipale della volont, negli esseri dotati di
conoscenza. Ihd., voi. I, p. VM). ISH , in ();;in iii(li\ i^liio, la propria
coiiscrvazioiu', v \v toriie sotto cui questa ttMideiiza apparisce, si
riassumono a rercare ed a inseguire, o a-etto fra .;1 og^'etti; a questo punto
di vista le azimii, i movimenti di (pu'sto corpo non ^ii sono altrimenti
conosciuti che i can;L-etti si i)resentano al seguito di cause, di eccitazioni
o di motivi. Ma non potrebbe comprendere rintluenza dv motivi (esteriori) pi che conosciamo immediatamente che deve
spiegarci ci che non conosciamo che mediatanu'nte, e non al contrario.
Comprendiamo noi meglio forse il movimento della palla provocata da un urto,
che il nostro proprio movinu^nto 18i) provocato chi un motivo? Altri possono crederlo:
io affermo che il c(Hitrario .
Kvi(lentement(, (piando raut(ne dice che noi troviamo neiresperienza delle
nostre j)rojn'ie azioni volontarie lesole causazioni che comj)rendiamo e di cui
ccuiosciamo l'essenza e il meccanismo intimo, mentre le (causazioni
delTesperienza esterna sono per se stesse incomprensibili, e lo l'estei'ebbeio
s(^ non fossero s])iegate i)er mezzo delle i)rime, egli nffeiina, sotto
un'altra forma. In (h)ttrina stessa di M. de Hiran, una causazione che si
comj)rend(^ e che ])U(') s})iegare le altre clic non si comprend(nu), o di cui
conosciamo l'essenza e il njcccanisiio intimo, significan(h> uv \)\h w meno
che una causazione efticiente, come ci che noi diciamo una semplice se(]uenza
invariabile significa ])recisamente una causazione che ])er se stessa non si
comj)rende, e che lia Insogno (noi ci'cdiamo) d'un intxMinedijirio
es])licativo. La stessa riduzione delle forze del mondo fisico all'attivit
esteriore dello s})irito, che abbiamo trovata in Leibnitz. in M. de Biian e in
Scho])enauei', la ritioviamo })ure nei pan})sichisti posteriori. Uno di (|uesti
('* Rosiiini. Egli fa consistere la cosa in s(' del coipo in un essere
spirituale, che chiama il prinripio ((prjHtrco ; ma:i diflerenza degli altri
])an])sicliisti, vuol conciliare .vc>/sv7//'o, cio(' in un altro essei'c
spirituale, come l'oggetto o, come dice l'autore, il teiinine, di una sua
])ercezi(nH* ])ei*manente (HeithHnilo fomlaueninle). Ogni coij)o non (' (hnnpie
che il jx'icepito del su( ])rinci])io sensitivo ; esso non esiste che mdla
])ei'cezione e per la ])ercezioiH' di (juesto piincijno sensitivo, e non (' che
il contenuto di (pn*sta peicezione } . Voi. 1. p. 202. Voi. II. 1. N 190 ma
essn ( inTiiuiucntc, e priri aiicic il corpo r perTiiaiieiite. Il principio
sensitivo di un corpo non e soltanto il so;;vtto pci'cipicntc in cni il coipc
incsistc come suo percepito, ma anclie
il principio animatore di ttrina tutti o, e lo C(mse>ue fatalmente, perch
non lil>ero. ().ini fcuza istintiva; l'entelechia psicdiica opera i)er
istinto, (piando solo sensibile, e
(h)r]ne la coscienza. La vita e Pistinto essen(k> azioni ordinate e
teleol(ja.ii. >-7. Protoloijla ed. Napoli t. Il lH-2(), 17:^. U7. 2lj^^.
r>2. l:^ li)4 meno senza si^staiizM, o noi dohhijniio jniiniettcc che vi si
nasroiidc tuttavia una vita spirituale. L'idealismo non lia mai j)otuto tare
trionfare la ])ii)nai[>otesi: il mondo esteriore ha per se stesso trop[>a
l'ealt pei* essere mai riuuardato eonie una puia creazione della nostra im ma.
il inazione: noi siamo dumpu' ohhliuati di eeicare la l'a^^ione della sua
esistenza peinianente in un principio s])irituale clie lo vivilica e che solo
pu essei'c riguardato conu' un esseie indipemlente. K evidente che (piando
Tautore dice che un essei-e inerre (h>tato di forze, e che non ha per
caratteri che rimpiMietrabilit e T estensione,
incomprensihile, che la iH)stra intelli.uenza n conce])irsi c(une la
reale (ci(> che, come vedremo inaila 2-' parte di ([uesto Sanzio, jx'ifetta mente vero) ; e che, come dice
Fautore nel secoinh) tratto citato, non si pu('> comprendere il suo modo
(Tazione. ma solamente ([ue]|(> (h'ilo spirito. I/[>j>osizione tra la
materia, [)rincipio inerte, morto, e lo spirito. principio attivo e
vivificatore, ci dice abbastanza che (pu'sto modo (Taziime dello spirito, che
solo comprendiamo (e che per con sequenza cU've spieiare tutti ^li altii modi
d'azione ch'Ila natura), sovratutto il
nod( (h'ila sua azione esteiiore, come principio (h'ila nostra propiia foiza e
di tutte le forze cosmiche. Questo fatto, chv il i)anpsicliismo non (' solo una
dottrina sulla cosa in s della materia, ma anche una s])ie^Uazione
antioponM)rtistica dei fenomeni tisici, si ])U(^ osservare facilmente in tutti
;ii altii autori che ammet IhiiL e. Ili vS l. '.laMWii 195 tono ([uesto sistcMua,
altn^tanto che nei filosofi precech'uti: in Wundt che, come M. de Hiran, vech*
nell'azione volontaria il tii)o d'ogni causalit e rorier cui il lato interno,
l'in s, (h'I movimento (h'i coij)i
(pialche cosa (b' analog(> alla sensazione muscolare che accompa,ina
i nostii propri niovinuMiti: (H'c. In tutte le foiine del sistema noi vediamo
tutti i moviuH'nti della natura assimilati pi o meno al movimento volontario.
Evich'iitemente (piesto scopo r()]>ri(' azioni volontaiic. ed e trasmessa da
esse a de.nli onLietti esteriori in movimento (Wnndt hJlrin. d /tsirolof/ia
fisioOf/i(u e. 20 v^ 1 sul ]>rinei]MoL V. la stessa o]>era e. 24 v> ^.
(S) V. la stessa oix'ra cap. XX J. 2. V. Xnoia J[oiHHolo(/ia XIII. 'tuttavia
Henonnier non vede nel ra])|M)rto tra la volizione erjinte un'azione esterna
(Ibid. nota 2. Anelie Ivcnouvier trova roT jn'r due vie ditferenti, una volta
pei* i sensi esterni, e uiTaltra pei* la coscienza; la coscienza ci d la
i-ealt. i sensi cstei'ui il fciunttenOj cio l'apparenza, di la lealt ri[M)tesi di Scho[)enauer ; o il pndlcUt
sichico che si d come ra.uione esplicativa nuMio che ci sembra intelligibile
pei se stesso. Ora rappresentarsi i corpi in movimeito come viventi, animati, assimilare pi o meno il loro movinu'uto al
moviun'Uto volontario; e tra i movinu-nti che non possiauo spieiare per
l'urto, (puvsto il solo che -enere
antropomorfismo non si riconduce alla formula di A. Comte: la tendenza dello
spirito umano, che quest'autore pone all'origine della filosofia teologica, o
anche, in generale, della filosofia netatsica, non potrebbe, rigorosamente,
rendere ragione di questa forma di filosofia a cui noi alludiamo; tuttavia essa
ha il rapporto pi intimo con la tendenza di cui parla A. Comte, perch, in
(juesta filosofia, ancora suir attivit
umana che viene modellata la spieo-azione universale dei fenomeni. Questa
filosofia Vi(lealismo: beninteso che noi
dobbiamo dare a questa parola idealismo un certo senso definito, perch non in tutte le dottrine a cui suol darsi questo
nome, che si pu riconoscere una manifestazione di (|uesta tendenza a spiegare i
fenomeni, assimilando alla nostra attivit umana il loro modo essenziale di
produzione. Noi intenderemo dunque per idealismo una dottrina in cui la natura
viene spiegata per V attivit immanente del pensiero, cio per 1' attivit dello
spirito, non sul proprio corpo o sul mondo esteriore, ma sulle proprie 199
rappresentazioni. Cosi ([uantun(|ue ordinariamente siano chiamati idealisti,
]). e., tanto Fichte, quanto J. Stuart. Mill o A. Bain, invece, iul senso ])i
ristretto che noi diamo qui alla parola idealismo, questa denominazione
conviene al primo, m\\ non pu coivenire ai due altri. Poich quantunque tanto il
primo (pianto i due altri neo'hino la realt del mondo esteriore, e risolvano la
natura nel sistema delle no>tre percezioni, pure vi ha fra di essi una gran
differenza, ed che il ])rimo si)ieg-a
questo sistema di percezioni, ((uesta natura, considerandola come la creazione
e l'opera di noi stessi, come il prodotto dell'attivit s))ontanea del me, del
nostro ])en siero, e perci noi lo ehiamiamo un idealistit: mentre i due altri
considerano (piesto sistema di j)ercezioni come dato, non come prodotto da noi,
dalla nostra attivit pensante, e perci noi non li chiamiamo idcaltsti. Il tipo
della metafisica idealista, in (piesto senso, bisoo-na cercarlo nel movimento
filosofico tedesco, che va da Kant sino ad Hegel: i rappresentanti di questo
movimento filosofico, sia che Tacciano del mondo esteriore un fenomeno
subbiettivo (idealismo subbiettivo: Kant e Fichte), sia che ammettano la realt
iXvX nnmdo esteriore, ma risolvendo le cose in pensieri (idealismo obbiettivo:
Schelling ed Heg-el), tutti ammettono egualmente che il mondo, fenomenale
secondo gli uni, reale secondo gli altri,
una j)roduzione delT attivit del pensiero. Se si (love stare
jdl'etiiuolonia, aiiclie l'idealisiiio saicMte un ]>anpsiclnsni() (nieno
tutta.viji quella forma leiridcalisino die ainiiiette l'esistenza di qiialehe
eosji iinli]eiMlreseiitazione, eoiiie p. e. il eritieisiiio in pianto aninu'tr'
l'esistenza reale della eosa in se). E ei natnralnuMit' * vero non sla idea200
15. Kant , come abbiamo detto, un idealista subbiettivo: le cose che noi
chiamiamo esteriori non esistono lisnio. iiin jnulii' nel scuso ]>ii lurido
che viene (bit( ordiiiarijiiiiente a questa parola: |>. e., Berkeley.
Stuart-Mill. Haiii sarebler() aneli' essi j>aii]si iKini>sieliisnio
(piella forma di UH'tatsiea. il eui carattere essenziale ^ di vedere nella
materia un tiMuuucno, la cui cosa in se (^ spirito. 11 ]anpsicliismo nasce
dalla quistione: onlc a luesto fenomeno (h'ila nostra percezione che noi
cliisiniiamo materia i Tuttavia, oltre che alla ricerca della cosa in se,
questi) sistema pure le.uato a roprio
corpo. Perci noi abdamo considerato il panpsichismo. in pianto esso lejiato alla quistione delle cause ettcienti,
come una manifestazione della mastra teiHh'Uza ad elevane l'attivit volontaria
che si esrio corpo t sul mondo esteriore, a tipo della produzione u nejiare con
Fichte il monlo esteriore. ]ui> ammettere con Kant lette cose in s
s-onosciut . \mh -m Heporre che essi siano delle impressioni in noi o delle V
Aliai l. IL e. Ili, iMMidam. della distinz. di tutti gli ogj^etti in tVMiom. e
noum. Cfr. Sc>lio alPantb. dei cH,cetti ritiessi, verso la line. 202
apparenze delle cose in 8 .sconosciute: la forma comprende l'ordine o i
rapporti reciproci in cui ci vengono presentati questi dati dei sensi, questi
materiali della conoscenza. Questa formd delTog-getto della nostra conoscenza
non dovnita all' azione in noi delle
cose esteriori sconosciute, dei noumeni, ma si trova preparata nel nostro
spirito stesso, e g'ii ing-enita, niente
potendo essere oggetto della nostra conoscenza, senza ric(;vere qu(;sta forma.
La forma cosi un elemcMito puramente
soggettivo; il modo det(M*minato dalla
natura delle nostre facolt conoscitive, in cui le cose devono essere da noi
rappresentate. La forma l'elemento
comune o permanente della nostra conoscenza ; la materia r elemento variabile: ci che vi ha di a
priori nella nostra conoscenza ap})artiene alla forma, ci che vi ha di a
posteriori alla mat(iria. Nella nostra conoscenza, e (juindi anche negli
oggetti di questa conoscenza, vi ha un duplice elemento formale: vi hanno le
forimi dell' intuizione sensibile e le forme del pensiero. Le forme
dell'intuizione sensibile, che Kant chiama anche intuizioni pure, sono lo
spazio e il tempo. Se gli oggetti sensibili sono (stesi, se ogni oggetto o
fenomeno esteriore in un certo luogo, ci perch lo spazio una forma della nostra sensibilit, e noi non
possiamo perci percepire altrimenti i fenomeni che nello spazio. Se tutti gli
avvenimenti, comparati fra di loro, sono o simultanei o successivi, se ogni
fenomeno occu{)a una posizione nel tempo, in una parola se vi ha nelle cose che
noi conosciamo un prima e un poi, una successione e una durata, ci e pure perch
il tempo una forma della nostra
intuizione sensibile, e noi non possiamo conoscere niente, n noi stessi n le
altre cose, senza rivestirlo di questa forma. La successione, il prima e il
poi, V ordini* dei fenomeni, non dunque
nelle cose stesse, non che subbiettivo:
indi 2m {)endentemente dallo spirito che conosce, non vi ha alcuna successione,
alcuna simultaneit, alcun ordine nei fenomeni stessi. Questa dottrina sul
tempo della pi grande importanza nel
sistema kantiano, perch senza questa subbiettivit del tempo le forme del
pensiero, di cui ora passeremo a parlare, non potrebbero ajplicarsi ai
fenomeni, ai dati della sensibilit. L' applicazione delle forme del pensiero ai
fenomeni consiste essenzialmente nel determinare a priori i loro rapporti nel
tempo (e col tempo) (l. Che il tempo una
forma dell' intuizione sensibile duiKiue
la ragione perch i fenomeni appariscono nel tempo: ma la ragione per cui essi
ci appariscono nel tempo in certi rapporti reciproci determinati, deve
cercarsi, non nelle forme della sensibilit, ma nelle forme del pensiero o dell'
intendimento. Per esempio, perch vi ha questa uniformit generale nella
successione dei fenomeni, che noi chiamiamo legge della causalit? Questa
qustione ha una suprema importanza pcir Kant, perch le ricerche scettiche di
Hume sulla causalit furono lo stimolo pi energico delle ricerche dell'autore
del criticismo, furono esse, com'egli dice, che lo risveu'iiarono dal suo sonno
dogmatico. A questa ((uistone Kant risponde: se vi ha una higge di causalit,
cio una uniformit di sequenza nei fenonumi, ci non gi perch vi ha nelle cose stesse un nexus o
una forza secreta da cui derivano le congiunzioni costanti che noi osserviamo
nei fenomeni: ci che potrebbero essere le cose in se stesse ci assolutamente sconosciuto, e la loro
esistenza stessa non che problematica.
Questa ragione della uniformit di sequenza dei fenomeni V. SclieiiiJit. (lei
concetti iiitoll. imri e Dcduz. dt'i colie. intcU. iuri v> 24 e 2.") II
ediz. n t I ^ K 204 Kant non la trova nelle cose stesse, ma in noi, nel nostro
pensiero: la causalit si trova, e non si pu non trovarsi, negli oggetti
conosciuti, perch una forma dell'
intendimento del soggetto conoscente. Ugualmente se negli og'getti conosciuti
vi hanno delle sostanze e degli accidenti, cio delle cose che perdurano nel
cangiamento incessante delle loro modificazioni, ci perch la sostanza e l'accidente sono delle
forme del nostro intendimento, secondo le quali soltanto noi possiamo avere
delle conoscenze. Della stessa maniera, se vi ha negli oggelti dell'esperienza
una reiprocit di azione, se le cose conosciute agiscono e reagiscono mutuamente
fra di loro, ci perch la reciprocit di
azione una forma del nostro intendimento.
La necessit e la contingenza, l'unit e la pluralit, ecc., sono pure delle forme
del nostro intendimento: esse si trovano negli oggetti conosciuti, perch noi
siamo forzati dalla natura della nostra facolt conoscitiva di rappresentarci
gli oggetti sotto queste forme. Le forme dell' intendimento risiedono
originariamente nel pensiero stesso: nel loro })rincipio esse sono dunque dei
concetti intellettuali puri, cio indipendenti dall' esperienza e anteriori all'
esperienza. Questi concetti intellettuali puri, cio la causa e 1' effetto, la
sostanza e l'accidente, la reciprocit d'azione, l'unit, la pluralit, ecc., Kant
li chiama categorie. Se questi concetti puri dell' intendimento si trovano
realizzati nel mondo della nostra esperienza, ci perch noi non possiamo altrimenti conoscere
le cose, avere un' esperienza, che secondo queste forme del nostro pensiero.
Ora si comprende facilmente che, lo spazio e il tempo essendo le forme della
nostra sensibilit, gli og-getti sensibili o i fenomeni debbano necessariamente
apparirci nello spazio e nel tempo: ma come noi ritroviamo nei fenomeni stessi,
cio negli oggetti dell'esperienza, le forme del nostro pensiero? I fenomeni
sono per se stessi dei dati dei nostri sensi: come senzienti, noi siamo
semplicemente passivi. Ma come dati dei sensi, i fenomeni sono isolati gli uni
dagli altri, senza rapporti reciproci: i rapporti reciproci o la congiunzione
dei fenomeni, non un dato dei sensi, cio
della nostra receptivit, ma un [)rodotto della nostra attivit, e la nostra attivit,
quali soggetti conoscenti, consiste nel pensiero o nell'intendimento. L'ordine
dei fenomeni, il modo della loro congiunzione,
cos il risultato delle forme del nostro ])ensiero. (,)uesta congiunzione
dei fenonuMii, per cui essi hanno dei rapporti reciproci, Kant la chiama col
nome di sintesi, per indicare che questi rapporti recii)roci, quest'ordine dei
fenomeni, sono un prodotto della nostra attivit. E il pensiero stesso che
costruisce il mondo dcH'esixn'ienza coi materiali che gli vengono offerti dalla
sensazione : i sensi non danno che i materiali isolati e, per dir cos'i,
dispersi, ma la forma, l'ordine d(ii fenomeni,
il prodotto e l'opera del nostro pensiero. L'attivit intellettuale, come
facolt che effettua la sintesi, cio che produce le congiunzioni o l'ordine dei
fenomeni, una attivit che sfugge alla
nostra coscienza, e Kant la chiama immaginazione produttiva: egli la chiama
i)roduttiva per distinguerla dalla facolt i)er cui avviene la riproduzione dei
fenomeni; l'immaginazione [jroduttiva ci presenta originariamente i fenomeni,
in un ordine determinato; l'imnaginazione riproduttiva ci rappresenta questi
fenomeni, dopo che essi ci sono stati gi presentati. Cos 1' immaginazione
riproduttiva non ha importanza per ispiegare la sintesi o i legami dei fenomeni
nell'esperienza; ma essi sono spiegati dalla immaginazione produttiva.
L'immaginazione produttiva effettua A PRIORI la sintesi dei fenomeni, e in
questa funzione essa si conforma a delle regole A PRIORI, che sono i concetti
]mri dell'intendimento o LE CATEGORIE GRICE STRAWSON. ^TVnwgsftff aiii
ia'iijy-T II 20(; 207 L'iimnag'iiiazione produttiva costruisce il inondo
dell'esperieiiza, eoi materiali dati dai sensi e nelle forme dell'intuizione
sensibile: ma i rapporti e i legami che essa introduce tra i fenomeni,
dipendono dai concetti puri dell'intendimento. La sensibilit, dice Kant, d
delle forme, e l'intendimento, delle regole. Cosi lo intendimento, sono i suoi concetti puri,
che danno delle leo-o'i ai fenomeni: i concetti intellettuali puri, le categorie,
si ritrovano nell'esperienza, perch sono esse che determinano il modo in cui si
presentano i fenomeni nell'esperienza. Le regole, se sono obbiettive, si
chiamano leggi. Quantun(|ue noi aj^prendiamo molte leggi pell'esperienza,
queste leggi non sono tuttavia che delle determinazioni particolari di leggi
ancora superiori, fra cui le pi elevate a cui tutte le altre sono sottomosse
procedono A PRIORI dall'intendimento stesso, e non sono imprestate
dall'esperienza, ma al contrario danno ai fenomeni la loro legittimit, e
devono, per questa ragione stessa, rendere l'esjX'rienza possibile. Lo
intendimento non dunque semplicemente
una facolt di farsi delle regole. comparando dei fenomeni; esso la legislazione pella natura. L'ordine, la
regolarit dei fenomeni, ci che noi chiamiamo natura, dunque la nostra opera propria: noi non ve la
troveremmo, se non vi fosse prima stata messa da noi, dalla natura del nostro
spirito. Le leggi pi universali dei fenomeni p. e., la legge della causalit
sono per conseguenza, secondo il criticismo, conosciute A PRIORI. Vi hanno cos
delle conoscenze reali A PRIORI giudizi sintetici A PRIORI, cio indipendenti
dall'esperienza, e anteriori all'esperienza. L'origine dei giudizi sintetici A
PRIORI si trova nelle fornie AiiMlit. ('randioso creato dalla nostra
intelli^-enza: i concetti intellettuali puri, le categorie, sono come le regole
estetiche che il poeta si propone di osservare, o piuttosto come il disegno
dell'opera che, nella mente del poeta, precede l'opera reale, e lo guida
costantemente nella composizione del suo poema. Ecco la quistione di Kant ;
Come le sensazioni, che sono le lettere o le sillabe di cui il cosmos, questo
poema del nostro spirito, composto,
potrebbero formarlo, per il loro concorso spontaneo, senza l'azione
dell'intelligenza? Questa quistione
sotto un'altra forma la nota quistione della filosofia teologica: Come
dei caratteri tipografici, gettati a caso, avrebbero potuto formare l'Eneide?
(li L'idea di considerare l'idealismo kantiano come una specie di antropomorfismo
sollever forse un'obbiezione : se la natura viene concepita come un complesso
di tenomeni, cio di semplici percezioni attuali o possi ' bili, queste non
esistendo fuori del nostro spirito, la natura stessa sar allora un fatto
subbiettivo, e per conseguenza un fatto umano. Spiegare la natura per il
pensiero sar cosi spiegare un fatto umano per un altro fatto umano; mentre
l'essenza dell'antropomorfismo consiste nell'assimilare ai fatti umani quelli
che non hanno V. Kousseau Enilio, 1. IV. 211 con essi una somiglianza reale.
Quest'obbiezione non potr essere completamente risoluta che in seguito: noi
mostreremo che la metafisica ha la tendenza a ricondurre ai fatti pi familiari
della nostra esperienza quelli che sono meno familiari. Ogni concezione
antropomorfistica delle cose si conforma a questa tendenza, perch, tra tutti i
fatti della nostra esperienza, la nostra propria attivit necessariamente quello che ci pi familiare. La nostra attivit interna, il
pensiero, per noi altrettanto familiare
che la nostra attivit sulle cose esteriori: ci fa comprendere perch l'idealista
spiega le leggi o l'ordine con cui si presentano le nostre percezioni sensibili
per la nostra attivit pensante. Che i fenomeni si presentino secondo delle
leggi e un ordine determinato pu essere anch'esso un fatto familiare della
nostra esperienza ; ma noi abbiamo l'abitudine di considerare queste leggi e
quest'ordine al punto di vista del realismo, come leggi ed ordine di un mondo
di realt obbiettive. Se dal%punto di vista del realismo si passa al punto di
vista opposto, che considera le cose come dipendenti dai nostri sensi e non
esistenti al di fuori dello spirito, allora queste leggi e quest'ordine dei
fenomeni, per quanto possano essere abituali nella nostra esperienza, vengono
rappresentati tuttavia sotto un aspetto che non ci per niente familiare. Cosi se noi spieghiamo
queste leggi e quest'ordine dei fenomeni (considerati come un semplice sistema
di percezioni) per la nostra attivit pensante, noi ci conformiamo alla tendenza
della metafisica, che di spiegare per i
fatti che sono a noi familiari quelli che non lo sono. E questa
spiegazione essenzialmente calcata sul
tipo dell'antropomorfismo, perch il fatto familiare che ci serve a spiegare gli
altri fatti, una forma della nostra
attivit umana. Kant ci mostra questa tendenza a ricondurre tutti 212 218 i
fatti a quelli che ci sono i pi familiari, non solo in quanto egli spie-a le
le-gi dei fenomeni per l'attivit del pensiero, ma ancora in quanto e-li cerca
di s])iegarle per le forme di quesfattivit del pensiero che ci sono pi
familiari. Se le categorie non sono, com'egli pretende, le forme ingenite e
necessarie del nostro pensiero es^e sono certamente i concetti e le funzioni pi
familiari della nostra intelligenza: le forme genenili del giudizio, a cui egli
riconduce le categorie, se non sono"^ in realt le forme essenziali
dell'attivit interna giudicatrice, sono almeno le forme generali della
espressione verbale del giudizio, e per conseguenza dei fatti mentali estremamente
familiari, pi familian forse che le forme stesse del giudizio, perch
l'osservazione delle parole ci pi
abituale che quella dei pensieri (l. Noi dobbiamo intnedomandjirci sel'ipotesi
metafisica di ivdut non si lega alla ricerca delle cause efficienti. Noi qui
tocchiamo ad una contraddizione del criticismo, da cui impossibile di liberare questo sistema.
L'azione, la causalit, non e per Kant che una categoria, una forma del nostro
pensiero, a cui noi possiamo attribuire un valore obbiettivo, ma nei limiti dell'esperienza
o del mondo fenomenale, per la ragione che ([uesta forma e una delle condizioni
anticipate della possibilit di una esperienza (lualsiasi. Al di fuori del
fenomeno e dell'esperienza, le categorie non possono pi avere alcun valore
obbiettivo. Ma un fatto incontestabile
che Kant attribuisce un'azione o un'efficienza all'intendimento e alle
categorie nella formazione del mondo dei fenomeni o dell'esperienza. Ora
quest'attivit o efficienza dell'intendimento e delle categorie un fenoine (^fr. il Sajij;. 1. np. L pjn;;r.
tS. V. Amil. 1. 1. r. 11. P^tra-r. 14. 15. 2i, 2i\ (11 oA.). ec di questa forma
familiare di azione umana, che abbiamo chiamato l'attivit logica. Alla
spiegazione idealista del mondo, nei sistemi dell'/dealismo obbiettivo (Schelling
ed Hegel), legata la realizzazione delle
astra/.ioni, cio dei concetti o dei termini generali. Il metorlo o la forma con
cui si sviluppa la conoscenza filosofica della natura, che la stessa cosa che il metodo o la forma con
cui si sviluppa quest'attivit originaria del pensiero di cui la natura il prodotto, essendo un metodo puramente
deduttivo, e la deduzioiu volgendo per sua natura su nozioni astratte, su
principii generali, ne segue che queste idee creatrici, queste nozioni, che
sono le fila di cui, per dir cosi, la natura
tessuta, non sono che delle idee astratte, delle nozioni generali. Ora
essendovi identit tra Tessere e il pensiero, tra la conoscenza e l'oggetto
conosciuto, le nozioni astratte e generali si identificano perci con degli
esseri astratti e generali, con delle entit alla scolastica, e cos ridealismo
obbiettivo al tempo stesso un realismo,
nel senso ehe (|uest'uUim?i parola ha nella filosofia del medio evo. La natura
sensibile, adunquvi, per l'idealismo obbiettivo, la manifestazione fenomenale di un sistema di
nozioni astratte e generali, di cui ciascuna s'identifica col suo oggetto del
pari astratto e generale, cio con una forma, un tipo, una qualit, un fatto
generale, e le quali sono tutte legate l'una all'altra da un filo logico continuo,
in modo che queste nozioni si concepiscano in un ordine tale, che le
antecedenti siano sempre le premesse logiche di quelle che immediatamente le
seguono, e le conseguenti siano sempre le conseguenze logiche di quelle che
immediatamente le precedono. Nel pensiero del filosofo, che ripensa queste idee
creatrici, vi ha tra queste idee un rapporto di anteriorit e di posteriorit
che al tempo stesso logico e
cronologico: ma nel pensiero del pensatore eterno, nell'atto eterno del
pensiero di cui la natura la creazione,
o come dice Schelling, la espressione obbiettiva, il rapporto di anteriorit e
posteriorit fra le idee non pu essere cronologico, ma logico soltanto. Questa
forma dell' idealismo possiamo noi considerarla come un:i risposta alla grande
quistione della metafisica, quella delle cause efticienti V Pare a prima vista
che si debba rispondere di no. La filosofia, dice Schelling, oltrepassa, come
le matematiche, il punto di vista dell'incatenamento causale: un fenomeno non
vieut spiegato trovandone la causa in un altr.i fenomeno, ma trovando il
principio donde derivano tutti i fenomeni. E in verit una causa essendo un
avvenimento che precede un altro avvenimento, sarebbe un errore il dire, nel
senso stretto, che la filosofia di cui parla Schelling, si propone In ricerca
delle cause. Le idee non sono le cause efficienti dei fenomeni, ma piuttosto la
loro essenza; le idee sono la realt assoluta, di cui il mondo sensibile in un certo molo l'apparenza. Le idre non
sono nemmeno cause, nel senso stretto, di altre idee, essen-lovi fra loro una
successione logica, ma non cronologica. Questa filosofia contempla le cose sub
specie aetendtatis: agl'individui, ai fenomeni transitorii, sostituisce le
specie, le^ forme generali, le leggi eterne dell'esistenza, astrazioni che essa
realizza al tempo stesso che trasforma le cose in pensieri. P^ssa proietta il
mondo sensibile in una regione libera da tutte le forme della sensibilit, in
una regione extra spaziale ed extra temporale, in modo che le cose perdono, per
questa proiezione, questa sorta di dimensione che si chiama il tempo. Come il
mondo delle Idee un'immagine, al di
fuori del tempo, del mondo dei fenomeni, cos l'incatenamento delle Idee un'immagine, al di fuori del tempo,
dell'incatenamento dei fenomeni. Il nexus delle idee un nexus causale; ma la successione
cronologica soppressa e non resta che la
successione logica. Le considerazioni che precedono, bene di notarlo, non rendono conto che d' una
maniera incompleta, e per cos dire, a met, dei grandi sistemi idealisti
tedeschi succeduti al kantismo. Vi ha in questa filosofa un principio
fondamentale ch' per se stesso indipendente dalla spiegazione idealista del
mondo: la identificazione della ratio
essendi con la ratio cognoscendij cio della derivazione ontologica delle cose
con la derivazione logica delle conoscenze nella dimostrazione. Questo
principio pu legarsi facilmente con l'idealistno, come effettivamente avvenuto nella filosofia tedesca ; ma esso
costituisce anche, insieme alla realizzazione dei termini generali che e con
esso strettamente connessa, la base su cui si fondano i sistemi di Platone, di
Spinoza e di altri filosofi che non sono affatto idealisti, nel senso che noi
diamo alla parola idealismo Tcio una spiegazione del mondo per l'attivit
immanente del pensiero). In un altro capitolo studieremo nella sua generalit
questa forma di metafisica caratterizzata dalla realizzazione dei termini
generali e dalla identificazione del principium essendi col principium cognO'
scendi^ cio la studieremo per se stessa, indipendentemente dalla sua alleanza
con Videalismo. Noi vedremo che il punto di vista di questa forma di metafsica
non ha per se stesso niente di comune con 1' antropomorfismo, quantunque
anch'esso sia legato, ma d'un'altra maniera, alla ricerca delle cause
efficienti. Allora la metafisica di Schelling e di Hegel ci apparir sotto un
altro aspetto. Il principio di questi sistemi
l'identit del pensiero e dell'essere : noi qui li abbiamo veduti dal
lato del pensiero, allora li vedremo dal lato dell'essere. Noi abbiamo passato
in rivista le forme generali, sotto cui l'antropomorfismo si manifestato nella spiegazione della natura.
Questa tendenza ad assimilare il modo di produzione di tutti i fenomeni alla nostra
propria attivit, sembra cos caratteristica dello stato metafisico del pensiero
umano, che noi potremmo concludere, applicando alla metafsica stessa ci che un
metafisico, Schopenauer, dice di se: Dai tempi pi antichi si considerato l'uomo come un microcosmo. Io ho
rovesciato la proposizione, e mostrato che
il mondo che un macrantropo .
Quest'attivit dell'uomo, a cui viene assimilato il modo di produzione di tutti
i fenomeni, la sua attivit psichica:
nella pii parte dei sistemi antropomorfisti la forma esterna di quest'attivit,
cio l'azione volontaria; nell'idealismo la sua forma interna, cio il pensiero.
Noi vedremo in seguito perch crediamo di spiegare i fenomeni assimilando il
modo della loro produzione a un modo dell'attivit dell'uomo, e perch
questo una forma della sua attivit
psichica. .'i xt. e, // concetto di causalit dell'antropomorfismo ^ 21. Vi che
prova d iiianiera a non lasciar luoi(' efficienti e di comprendere, come dice
Comte, il modi) essen:i(ile di produzione di (piesti fenomeni, una teoria psicoloer la riflessione .he
tacciamo sulle operazumi del n.>stro spirito. Sic.-ome of-ni potenza ha
rapp..rto all'azi.)!!.-, e n.)n vi hanm., io credo, '1^' ''^=i '^'^7AM .li .-ui
abbiamo l'idea, n,mre e miion-re, ve.lia.uo .h....l.' du.-i.n.) lueste azi.mi.
In quanto al pensuMO, i,..,rt)i n..n ce ne danno alcuu'idea, .' non ne (cio
.l.'11'..sservazion.' i^it,eri.)r.") .'he noi l'al>biamo. Noi non
abbiamo nemmeno per mezzo del .'orpo, al.un'i.lea.lel .'inninciament. .h'I
m.>viment.> Noi n.m abbiamo l'i .Ica .lei .ominciament.> del
n>ovimento .'h. per mezzo della riH.'ssi.me .-h.' fa.-.'iamo su,lueU.>
che avviene in noi stessi .pian.lo v.'.liamo per,'sperienza .h.' volen.lo
sempli.ementc mu.)V.'re .h-lle parti del nostr.> .orpo .he eran.> prima
iu rijMyso . noi possiamo mu..verle. Sicch mi sembra .1..' 1.' op.-razi.nn dei
.'orpi che noi osserviamo per mezzo .l.'i sensi non,i .lann. .-he un'idea molto
in.pertetta, em.>lto ..scura .h'ila p.,tenza attiva; poich' i ..orpi non
p..t.ebber.. tbrnir.i dcun'i.lea in se stessi della potenza di .-omin.'iar.'
una azi..ne, sia pensier.., sia moviniento.
In questo lm>-o l'autore sembra las.iare ai corpi .pialche sorta ixia
con lo spirito, eio nelle entelechie (die sono le potenze attive delle monadi):
percli la materia non denota propriamente che la potenza passiva. Altrove dice:
Nell'ordine della conoscenza come nell'ordine della realt le (*08P
spiritnali sono anteriori alle materiali, perch noi percepiamo pi interiormente
Panima, che ci intima, che il corpo,
come lianno osservato Platone e Descartes. La forza, voi dite, noi n (he
sarebhe cos, se noi non avessimo un'anima, e non la conoscessimo. E altrove: in noi stessi che troviamo le semenze d ci
che apprendiamo, cio le idee e le verit eterne che ne nascono ; e non sorprendente se, avendo la coscienza di noi
stessi, e trovando in noi l'essere, l'unit, la sostanza, Wizione, noi
ld>iamo l'idea di tutte queste cose .
In Berkeley la dottrina ha ^h la sua torma moderna : eensiero, io so ikmi
solamente che ([uesto effetto ha bisogni) di uua causa, ma eziandio che io sono
, \u 5 (DelVnppercezloie immediata). (S) (Distinz, tra i fatti psieol. e
fsiol). T. S, p. 334 (Aota sa certi passi di Malebranche e di Boss net). MiU
Filos. di Hamilton traci, frane. pa'ae universale: ma la teoria volizionale
dall'osservazione di un sol caso, che potrebbe essere semplicemente
eccezionale, pretende inferire l'universalit della legge. F. e. Hamilton citato
du Mill Filos. ili HaHlton, trail. fraiu*. p. 352 in u(>ta. ('oiisiu. pur
faccmlo adesioni' alla dottrina di Biran suirorij^inc dcdla nozione di forzji o
causa cttcicntc, trova nondimeno che essa non pu spiegare runiversalit e
necessit del principi. Senza dubbio.
e.Lili di. (I*rcfaz. al r. 4 ilelle
o]>er' di Biran. ). Ora la teoria voliziouale, non potendo giustificare l'universalit
del principio delle cause efficienti, non pu nemmeno giustificare l'obbiettivit
di questa nozione. Ci una conseguenza
dell'osservazione precedente. Noi abbiamo osservato che se vi ha una differenza
obbiettiva tra la causa efficiente e il semplice antecedente di una sequenza
invariabile, e che, ammettendo il valore reale della nozione di causa
efficiente, bisogna, dapertutto dove noi non vediamo che sequenze uniformi di
fenomeni, supporre, oltre questi fenomeni stessi, delle cause efficienti come
intermediari esplicativi. Ora ci suppone l'applicazione universale del
principio delle cause efficienti. Se noi ci limitiamo a non ammettere altre
cause efficienti che quelle di cui costatiamo l'esistenza })er l'osservazione,
senza supporne anche l dove non possiamo costatarle per l'osservazione stessa,
allora la causa efficiente non differisce che psicologicamente dal semplice
antecedente di una sequenza invariabile. Accordiamo alla teoria volizionale che
la volont la causa efficiente dei nostri
movimenti, perch tra essa e il suo effetto vi ha un legame naturale e
necessario, mentre nelle ordinarie uniformit di se(|uenza non vi ha tra
l'antecedente e il conseguente alcun l'agame simile. Se il rapporto di
causazione efficiente che esperimentiamo nel movimento volontario, differivsce
dai rapporti di causazione che osserviamo nelle ordinarie uniformit di
se(|uenza, al punto di vista obbiettivo e non al semplice punto di vista
psicologico (cio solo per la differente iujpressione che l'uno e gli altri producono
sulla nostra intelligenza), ci in quanto
noi consideriamo la volont come una spiegazione sufficiente dei nostri
movimenti, senza supporre niente di altro, mentre, per {spiegare le uniformit
ordinarie di sequenza, noi ammettiamo il bisogno dell'intervento di un'altra
cosa, vale a dire di un intermediario esplicativo. Ma se noi non ci crediamo
autorizzati a supporre questi in246 termediari esplicativi l dove no\ non
costatiamo che delle semplici uniformit di sequenze, se noi non ammettiamo
altre cause efficienti che le nostre volizioni che producono i nostri
uovimenti, allora, chiamando la nostra volont una causa efficiente e le altre
cause semplici antecedenti di sequenze invariabili, noi non denotiamo, per
questa differenza di denominazione, una differenza obbiettiva tra le cose, ma
solo una differenza psicologica tra le nostre idee. Per conseguenza, la teoria
volizionale, non potendo giustificare la estensione della nozione di causa
efficiente, dall'atto volontario, in cui noi ne abbiamo l'esperienza, agli
altri fatti della natura, non riesce a dare un valore obbiettivo a questa
nozione, non pu stabilire, in altri termini, sopra una base solida che la
differenza tra una causa efficiente, quale
la volont, e un semplice antecedente di sequenza invariabile, quali sono
le altre cause delTesperienza,
obbiettiva o ontologica, e non semplicemente subbiettiva 0 psicologica.
Cosi ci che vi ha di certo nella teoria volizionale e teorie affini sul
principio di causalit non che un fatto
psicologico: cio che vi ha una classe di sequenze uniformi che producono sulla
nostra intelligenza un'impressione particolare; che in ([ueste sequenze noi
possiamo chiamare gli antecedenti cause efficienti (perch vi troviamo i
caratteri che, al punto di vista subbiettivOj distinguono una causazione
efficiente dalle ordinarie uniformit di sequenza): e che nella nostra propria
attivit noi troviamo gli esempi di tali sequenze e di tali cause. Possiamo noi
contentarci di costatare questo fatto psicologico, considerandolo come un fatto
isolato, come un fatto ultimo e inesplicabile della nostra intelligenza?
Evidentemente no: noi dobbiamo procedere pi oltre; costatato il fatto, noi
dobbiamo cercarne la ragione. A. Comte, che, come la teoria volizionale della
cau247 sazione, trova nella volont umana il tipo su cui noi ci formiamo
naturalmente la concezione di tutte le forze 0 cause efficienti della natura,
non risolve la nostra quistione: perch noi consideriamo la volont come una
causa efficiente e non come un semplice antecedente invariabile? Ecco che cosa
troviamo su ci nel Corso di filosofia positiva:
Quantunque si sia giustamente segnalato, dopo lo slancio speciale del
genio filosofico, la difficolt fondamentale di conoscere se stesso, non bisogna
tuttavia attaccare un senso troppo assoluto a quest'osservazione generale, che
non pu essere che relativa ad uno stato gi molto avanzato della ragione umana.
Lo spirito umano ha dovuto in effetto pervenire a un grado notevole di
raffinamento nelle sue meditazioni abituali prima di potere sorprendersi dei
suoi propri! atti, riflettendo su se stesso un'attivit speculativa che il mondo
esteriore doveva dapprima s esclusivamente provocare. Se da una parte l'uomo si
riguarda necessariamente all'origine come il centro di tutto, egli allora da un'altra parte non meno
inevitabilmente disposto ad erigersi pure a tipo universale. Egli non potrebbe
concepire altra spiegazione primitiva a qualsiasi fenomeno che di assimilarlo,
per quanto sia possibile, ai suoi propri atti, i soli di cui egli possa mai
credere di comprendere il modo essenziale di produzione, per la sensazione
naturale che li accompagna direttamente. Niente di pi giusto di questa
osservazione di Comte, che necessario
che l'uomo sia pervenuto ad un grado avanzato di coltura, perch esso possa
sorprendersi dei suoi propri atti, e farne quindi l'oggetto della sua attivit
speculativa. Questa incapacit primitiva dell'uomo di sorprendersi dei suoi
propri atti e questa disposizione primitiva ad erigersi a tipo universale non
sono che due aspetti d'uno stesso fenomeno: se l'uomo primitivo credesse di
vedere un mistero nella sua propria attivit, egli non la eleverebbe a spiega
248 zioiie iiniversak* delle cose. Ma qui sta appunto la quistione. Perch
l'uomo vede naturalmente nei propri atti dei fenomeni perfettamente naturali,
che non hanno bisogno di essere spiegati, e che possono servire di
spieg-azioiic inii versale degii altri fenomeni? Ci avviene, dice Comte, per la
sensazione naturale che li accompagna cUrHtainevtc: in altri termini, (se ben
comprendiamo) perch dei propri atti, che si conoscono per la coscienza, si ha o
si crede di avere una conoscenza pi diretta e imniediata che delle cose
esteriori, che si conoscono per vri nru.uii dei sensi. Sforzandomi di
comprendere il pensiero dell'autore, io non trovo che questo senso alle sue
parole: T uomo sapendo di conoscere i suoi pro]n-i atti il pi direttamente
possibile, crede perci di conoscerli intinamente nella loro natura (nei loro
modo essenziale di produzione), pi intimamente almeno che i ftMomeni esteriori,
di cui sa di aver una conoscenza pi indiretta. Vi sarebbe molto da dire
(ammesso che sia questo il pensiero dell'autore) intorno al legame che Comic
stabilisce tra questi due fatti: il sapere di conoscere una cosa direttamente,
e l'illudersi di conoscere Vessenza di questa cosa. Ma accordando anche all'
autore che il primo fatto sia una ragione sutlrtciente del secondo, resta
semfre che il suo ragionamento manca di base, perch non aunnissibile che l'uomo primitivo, l'uomo
naturale, creda di conoscere i suoi propri atti d'una ili K nello stesso senso
elie seminano pure doversi eonil.ren.lere queste i>:irole di colore oseuro
di MiU: Primitivaniente la tiiidenza o T
istinto d(\uli uomini di assimilare
tutte le azi. la vera ragione del fatto, ma [Ui parla da discejiolo di A.
C'omte. 249 maniera pi diretta e immediata che le cose esteriori. Il filosofo
pu credere cosi, non l'uomo della natura. Il filosofo, per cui l'oggetto
diretto della percezione sensibile non
la cosa in se, ma una rappresentazione pi o meno fedele, pi o meno
ingannevole, di questa cosa, pu ammettere che la coscienza sia una conoscenza
pi diretta che la percezione sensibile: ma l'uomo della natura identifica le
sue sensazioni con gli oggetti; egli crede che i suoi sensi colgano direttamente
e immediatamente le cose stesse; gli oggetti familiari che lo circondano, che
s' imprimono fortemente sui suoi sensi, e che egli pu guardare e toccare a suo
agio, non possono essere da lui considerati come oggetti di una conoscenza
nuMio diretta e meno intima che i suoi propri atti, visti alla luce debole e
incerta della coscienza. Noi non faremo altre considerazioni a questo proposito
: solo osserveremo che la soluzione, che A. Comte d alla nostra quistione,
suppone che vi sia nelle cose un'essenza occulta, un modo essenziale di
produzione inaccessibile airesperienza, in altri termini, suppone la realt
delle cause efficienti. Noi abbiamo gi visto che questo filosofo non pu se non
gratuitamente ammettere la realt di questa nozione, perch non avendo noi avuto
mai, secondo la sua stessa dottrina, esperienza di una causa efficiente, ma
solo di antecedente costanti dei fenomeni,
impossibile dare una prova dell'esistenza delle cause efficienti. Sicch
la nozione di cause efficienti sconosciute essendo altrettanto subbiettiva ero
s])inti 1' uno verso 1' altro, perclic si servirebbero reciprocamente di
riparo, in modo che le loro superfcie situate di rimpetto non sarebbero \nh
colpite nella dirczi>ne della linea che le congiungerebbe, e perci gli
ettetti degli urti ricevuti in enso contrario non essendo neutralizzati, questi
s]ingerebbero i due atonii l'uno verso l'altro. II Secchi suipone che ogni
molecola jionderabile un centro 4li moto
permanente, che mette in agitazione la massa illimitata di etere da cui circ(ndata. e la conforma in maniera che la
densit minima al centro valena: se non vi ha attorm. dei corpi u.l niluogo
etereo sempre di pi in pi denso secondo la distanza, e perci causa
dell'attrazione, ciascun corpo sforzandiii(>/.a, Opcrn. m. Car. H la sola di
cui ahuanH delle ith'e chiare e (Ustnte. o in altri termini, la sola che ci sia
intellioihile. (-osi nelle l^eijiii f/enent/i della comuncdzione dei
ntoriuetili, (2 parte, n. IH) dicc^: Se
non si vuol raiionare dei corpi ro propriet che sulle idee chiare che noi ne
possiamo avere, non si attribuir mai alla mati'ria altra forza o altra azione
che [uella che essa trae dal suo movimento. E \w\ e. S. ]>arte 2 derienza
che dimostri chiaramente il movimento d'attrazione. Cos mu bisogna fermarsi ad
altra comunicazione del movimento che a quella che si fa ]er impulsione, poich
questa nuniiera certa e iucontestabile.
e vi ha dvAV oscurit nelle altre che si potrebbero immaj;inaie. Ma quando si
potesse anclie dimostrare 262 Come i meccanisti del nostro tempo vogliono
bandite dalla fisica le forze, a cui i non meccanisti attribuiscono le cause
dei movimenti (di (luelli almeno che non sono prodotti da un'impulsione
osservabile), cosi i cartesiani e gli altri avversari della scolastica facevano
la o'uerra alle qualit occulte. Le qualit occulte d' allora, come le forze
d'oggi, erano le cause sconosciute dei fenomeni, e gli scolastici le
ammettevano in virt dello stesso principio per cui i fisici moderni ammettono
le forze e i filosofi l'Inconoscibile, cio in virt del principio che i fenomeni
devono avere delle cause efficienti : siccome l'esperienza non ci d delle cause
di questa natura, se ne conclude, non che esse non esistono,,na che noi non
possiamo conoscerle. Se i cartesiani e o-li alili avversari della scolastica
credevano che la ^pieoazione meccanica dei fenomeni eliminava le qualit
occulte, che essi pensavano che
l'impulsione e una causa efficiente, e che era inutile di supporre delle cause
efficienti sconosciute, quando si aveva gi una causa efficiente conosciuta. Non
si aveva da scieghere che tra l'impulsione e le qualit occulte, fra la causa
efficiente conoscibile e le cause efficienti inconoscibili: l'alternativa
sembrava inevitabile, e 1 cartesiani respmo-evano, come abbiamo detto,
l'attrazione newtoniana perch essi vi vedevano un ritorno alle qualit occulte
o-i bandite della filosofia peripatetica. che vi Im nelle cose puia.uente
covi.orali altri v.in.-.i.n lei,vi.neuto ehe l'incontro dei eorv.i. ou M
potrebbe rajr.onevol-,ente ricettare qeto ; si .leve anche fer.narvisi
preferibilmente ad ogni altro, poieh esso,> il pi chiaro e il pin
evidente...... Se l'impnlsiono non ^ per Mal-'hranche che una cansa oecaswnale
(eio^ un semplice anteeede.ite invariabile). ^ tuttavia tra tutte le cause
occasionali a cui li etfetti della natura potrebbero attribuirsi, quella ehe pi
somiglia ad uua causa et^cwnte. 263 Quest'alternativa s'impose allo stesso
Newton: era evidente secondo lui che la legge della gravit non dava la cfiusa
del fenomeno, ma solo gli effetti di (juesta causa; semplicemente egli non
decdeva se questa causa fosse l'impulsione di una materia sottile o qualche
forza immateriale di una natura sconosciuta.
Io ho spiegato sin qui, egli dice nei Principu, i fenomeni celesti e
quelli del mare per la forza della gravitazione, ma non ho assegnato in alcuna
parte la causa di questa gravitazione. Questa forza viene da qualche causa che
penetra sino ai centri dei sole e dei pianeti, senza diminuzione della sua
attivit, essa agisce non secondo la quantit delle superficie delle particole su
cui agisce, come fanno le cause meccaniche, ma secondo la quantit della materia
solida, e la sua azione si estende da tutte le parti sino alle distanze pi
grandi, descrescendo sempre in ragione duplicata delle distanze... Io non ho
ancora potuto inferire dai fenomeni la ragione di queste propriet della gravit,
e non immagino ipotesi . E w^W Ottica:
Io non ricerco qui a quale causa efficiente siano dovute queste attrazioni.
Quella che io chiamo attrazione pu essere prodotta per impulso o per qualche
altro mezzo a noi sconosciuto. Per questa parola attrazione qui non intendo
indicare se non una qualche forza per cui i corpi tendono l'uno verso l'altro,
qualunque sia d'altronde la causa a cui questa forza debba attribuirsi . E
nella III lettera a Bentley: Non si pu
comprendere come una materia bruta e inanimata possa, senza l'intervento di
qualche altra cosa non materiale, agire so|)ra un' altra materia e modificarla,
senza essere in contatto con essa. Questo intanto quello che bisognerebbe supporre, se si am
Prln. matem. della fi los. natur. Seolio ^rener. vorso hi liue. Ottiea Qiiest.
28. 264 mettesse che la gravit inerente
ed essenziale alla materia come voleva Epicuro. Era questo uno dei motivi che
io aveva per pregarvi di non attribuirmi l'opinione della g-ravita innata.
Pretendere che la gravit sia innata, inerente ed essenziale alla materia, di
guisa che un corpo agisca sopra un altro a distanza, a traverso il vuoto, senza
1' interposizione di qualche cosa, per il cui mezzo l'azione e la forza possano
essere trasmesse dall'uno all'altro, ni pare un'assurdit s grande, che essa non
pu, io credo, cadere nello spirito di alcun uomo che abbia qualche competenza
in filosofa. La gravit deve venire da un agente che operi costantemente secondo
certe leggi ; ma se questo agente sia materiale o immateriale, io lasciai nella
mia opera ai lettori il considerarlo. v> f). Quando nella scuola di Newton
si cominci ad ammettere che la gravit
una propriet primitiva ed essenziale delia materia, si poneva non
pertanto una differenza tra (juesta propriet e quella di dare e di ricevere
rinquilsione: quest'ultima propriet sembrava appartenere necessariamente alla
materia, mentre la prima era evidentemente dovuta all'arbitrio del Creatore. Il
matematico Cotes, nella prefazione della II edizione dei Principii di Newton,
ammetteva la gravit come una forza fondamentale di ogni materia: ma egli
opiKieva il sistema newtoniano, che fa derivare le leggi della natura dalla
volont e libert di Dio, al sistema dei materialisti che fanno tutto nascere per
necessit e niente per la volont del Creatore. Non la necessit che egli vede nelle leggi delia
natura, ma bens le prove del disegno pi saggio. 1/ idea di una causa efficiente
distinta dai fenomeni osservati non dunque
abbandonata dai newtoniani che ammettono il peso come pro])riet essenziale
della materia; semplicemente a una spiegazione meccanica si sostituisce una
spiega 265 zione antropomorfstica. Anche Newton non comprenderebbe l'azione a
distanza, se invece di una materia bruta
e inanimata si trattasse di una materia vivente ed animata? Quando Locke
scrisse il Saggio sull'intendimento umano, egli ammetteva la teoria meccanica
in tutta }a sua estenzione: cos nel 1. 2, e. 8, par. 11 alla quistione:
qual la ma-nera onde i corpi producono
in noi le idee? rispondeva: evidente
che per impulsione, perch (juesta la sola maniera in cui noi possiamo concepire
che i corpi possano agirei. In seguito egli abbracci la dottrina di Newton, ma
non abbandon il principio che l'impulsione
la sola maniera d'agire dei corpi che sia concepibile. Nella risposta
alla II letteradel vescovo di Worcester (col (juale agitava la quistione : se
la materia pu pensare), egli dice: * Io confesso che io ho detto {nel Saggio
nalV intendi m. umano) che il corpo opera per impulsione, e non altrimenti. Cos
era il mio sentimento quando lo scrissi, e ancora presentemente io non potrei
concepire un'altra maniera di agire. Ma poi io sono stato convinto dal libro
incomjmrabile del giudizioso sig. Newton che vi ha troppa presunzione a voler
limitare la potenza di Dio per le nostre concezioni limitate. La gravitazione
della materia verso la materia per delle vie che mi sono inconcepibili non solo una dimostrazione che Dio pu, quando
gli piace, mettere nei corpi delle [)otenze e maniere d^'agire che sono al
disopra di ci che pu essere derivato dalla nostra idea del corpo, o spiegato
per ci che noi conosciamo della materia; ma
ancora una ])rova incontestabile ch'egli lo ha fatto eiHettivamente .
Quantunque l'opinione di Locke sia che noi non possiamo in generale scoprire
alcuna connessione tra i fenomeni, n comprendere come le cause producano i loro
effetti, tuttavia egli pensa che vi ha molta differenza a (juesto 266 riguardo
tra la produzione del movimento per T impulsione e altre azioni dei corpi,
quali la loro mutua attrazione o la maniera in cui essi producono in noi delle
sensazioni. Noi non possiamo affatto comprendere come i corpi siano capaci di
esercitare queste ultime azioni; ma iioi
possiamo comprendere molto bene che la grossezza, la figura e il movimento d'un
corpo producano del cangiamento nella grossezza, nella figura e nel movimento
d'un altro corpo. Che le parti di un corpo siano divise in conseguenza
dell'intrusione di un altro corpo, e che un corpo sia trasferito dal riposo al
movimento per l'impulsione d'un altro corpo, queste cose ed altre simili ci
paiono avere qualche legame Tuna con l'altra
. A Leibnitz la pretesa virt attrattiva dei newtoniani sembra un rinnovellamento delle chimere gi
bandite Noi disapproviamo, egli dice,
il metodo di quelli che suppongono, come facevano gi gli scolastici, delle
qualit irragionevoli, cio a dire delle qualit primitive che non hanno alcuna
ragione naturale, spiegabile per la natura del soggetto a cui questa qualit
deve convenire. Noi accordiamo e sosteniamo con essi (coi newtoniani), che i
grandi globi del nostro sistema sono attrattivi fra di loro; ma siccome
sosteniamo che ci non pu accadere che d'una maniera spiegabile, cio a dire per
un'impulsione dei corpi pi sottili, non possiamo ammettere che
l'attrazione una propriet primitiva
essenziale alla materia, come questi signori lo pretendono. Non vi ha secondo
Leibnitz altra causa intelligibile di un fenomeno fisico che l'impulsione: ^ Io
non voglio, dice nelle sue Osservazioni contro Stahl, sovvertire le eccellenti
dottrine dei moderni filosofi, per cui si
o'iu L. 4, e. XI. par. 13. Opera Dut., t. 2, p. I, p. . Leti, a
Boin-ijuit J ag. stamente stabilito che niente si fa nei corpi che non consti
di ragioni meccaniche, cio intelligibili )^. E nella risposta alle osservazioni
di Stahl: Tutto nella natura deve farsi meccanicamente, e la ragione di ci che tutto deve farsi nei corpi in modo che
sia possibile di spiegarlo distintamente per la loro natura, cio per la
grandezza, la figura e le leggi del movimento. Al cominciamento delle
osservazioni contro Stahl egli stabilisce che la teoria meccanica una conseguenza del principio di ragion
sufficiente. Uno dei principii del
ragionamento ( cosi che questo scritto comincia) che non vi ha niente senza ragione, cio che
non vi ha alcuna verit della quale chi intende perfettamente la cosa non possa
dare la ragione una conseguenza di
questo principio che ogni affezione delle cose, e tutto ci che avviene in esse,
pu derivarsi dalla natura e dallo stato delle cose stesse ; e, in ispecie, che
tutto ci che avviene nella materia nasce dallo stato precedente della materia
per le leggi dei cangiamenti. Ed ci che
vogliono o devono volere quelli che dicono che tutto nei corpi pu spiegarsi
meccanicamente. Supponiamo che alcuno ponga nella materia una certa virt di
attrazione primitiva o misteriosa (ppr^TOv), egli peccher contro questo gran
principio del ragionamento. Confesser infatti non potersi spiegare, neppure da
un onnisciente, come avvenga che la materia attragga altra materia, e questa a
preferenza di quella. E in realt egli ricorrer tacitamente al miracolo; 1'
attrazione infitti in questo caso non si potrebbe spiegare altrimenti se non
supponendo che Dio stesso, al disopra della natura della cosa, per una
provvidenza particolare fa che la materia che deve essere attratta tenda verso
un'altra materia. Ma se la spiegazione deve ricavarsi d'una maniera
intelligibile dalla natura stessa della cosa, essa si deriver da ci che si
concepisce in questa distintaT I 268 mente, cos uella materia dalla figura e
dal moto in essa esistente; e allora si vedr che l'attrazione apparente
non altro in realt che una occulta
impulsione . Un'attrazione non derivante
dall'impulsione non pu essere secondo Leibnitz che o un miracolo o una qualit
occulta. Alcuni credono che il miracolo non
che una eccezione delle le^'ori g-enerali che Dio ha stabilite
arbitrariamente ; ma non tutto ci che avviene per leggi generali si fa senza
miracolo. Il carattere dei miracoli elle non si potrebbero spiegare per la natura
delle cose create. E perch se Dio facesse una legge che portasse che i corpi si
attirassero gli uni gli altri, non ne potrebbe ottenere l'esecuzione che per
dei miracoli perpetui. Cosi non basta per evitare i miracoli che Dio faccia una
certa legge, s'egli non d alle creature una natura capace d'eseguire i suoi
ordini: come se alcuno dicesse che Dio
hn ordinato alla luna di descrivere liberamente nell'aria o nell'etere un
cerchio intorno ai globo della terra, senza che vi sia n angelo n intelligenza
che la governi, ne orbe solido che la porti, n turbine o orbe liquido che la
trascini, ne peso, magnetismo o altra causa spiegabile meccanica nenie che
l'impedisca d'allontanarsi dalla terra e d'andarsene per la tangente del
cerchio. Negare che quello fosse un miracolo sarebbe ricorrere alle qualit
occulte, assolutamente inesplicabili e screditate oggi con molta ragione. Lo stesso sarebbe se qualcuno dicesse che Dio
ha dato ai corpi delle gravit naturali e primitive, per cui ciascuno tende al
centro del suo globo, senza essere 11) V. omnia cl. Dutens, t. 2, p. 1, pa-.
101 (Hisp, alle ohbiez. di'lVaut. del Uh. della eoriose. di se stesso), pa-. 77
(Leti. alVaut. drlla storia delle opere del sapienti ecc.;, iaj^. 167 (Risposta
alla 4 Heplu-Ai di Clarice, nel vS 48). '>: ci che costituisce la superiorit
della teoria meccanica su questa dottrina
che quella ci d le cause efficienti dei fenomeni, mentre questa non ci
darebbe che i semplici antecedenti di cui i fenomeni sarebbero un seguito
costante. Tuttavia, quantunque Leibnitz dica espressamente che una causa
meccanica una causa efficiente, e la
sola causa efficiente che vi sia nel modo fisico , si potrebbe ragionevolmente
dubitare s'egli d veramente a questa parola il senso in cui noi la prendiamo. E
infatti secondo la sua dottrina dell'armonia prestabilita, tra una causa
esterna finita e un cangiamento che ne segue in un'altra cosa distinta, non vi
ha che una semplice coincidenza, e non un vero rapporto di causalit, ciascun
essere sviluppando spontaneamente dal proprio fondo tutte le sue modificazioni.
Sembra dunque che vi sia qui una contraddizione in Leibnitz: ma essa si spiega,
se noi ricordiamo che l'armonia prestabilita, nel sistema di questo filosofo, ,
come abbiamo detto, una conseoueiiza del suo panpsichismo, e che il
pani)sichismo un'ipotesi destinata a
risolvere, non il problema della causa efficiente, ma quello della cosa in s.
Quando Leibnitz cerca nella natura esteriore le cause efficienti, egli trova
nella causa meccanica una causa efficiente: ma quando egli cerca la cosa in s
corrispondente al fenomeno materia e trova che questa non che spirito, allora gli sembra impossibile
che un essere agisca sopra un altro essere, e arriva alla dottrina dell'armonia
prestabilita. Il seguito di questo scritto rischiarer d'una nianiera pi
completa questa difficolt del sistema leibnitziano. 271 Nella polemica che ebbe
luogo tra Leibnitz e Clarke, uno dei soggetti di controversia fu naturalmente
l'attrazione. La prima cosa che noi incontriamo di notevole per questo riguardo
nelle Repliche di Clarke, lo stesso
pensiero di Cotes, che il materialismo
direttamente combattuto dai prlnc2)ii matematici della filosofia ( il
titolo dell'opera fondamentale di Newton). Allorch io ho detto, ( cosi che
Clarke spiega una sua affermazione antecedente) che i principii matematici
della filosofia sono contrari a quelli dei materialisti, io ho voluto dire che
mentre i materialisti suppongono che la struttura dell'universo pu essere stata
prodotta dai soli principii meccanici della materia e del movimento, della
necessit e della fatalit, i principii matematici della filosofia fanno vedere
al contrario che lo stato delle cose (la costituzione del sole e dei pianeti)
non ha potuto essere prodotto che da una causa intelligente e libera .
All'obbiezione di Leibnitz, che l'attrazione sarebbe un miracolo perpetuo, ecco
cosa risponde Clarke: Se un corpo ne
attirasse un altro, senza l'intervento d'alcun mezzo, sarebbe, non un miracolo,
ma una contraddizione, perch sarebbe supporre che una cosa agisce dove non
. Gli
affatto irragionevole di chiamare l'attrazione un miracolo, e di dire
che un termine che non deve entrare
nella filosofia, quantunque noi (i newtoniani) abbiali) K5ipistji alla IV
replica di Clarke, ii, 92. 124. AuimjKivorsiotu's circa assertioiies aliquas
Stahlii Dutcis t. II p. IJ p. l:S2e p. l:U, Uespoiisiouei^ jkI Staliliaiias
observatioiics ad XXI (n. 1), Mimadol. ii. 79, ecc. Replici t^ (U Clarke, 1.
Quando si attribuisce la necessit alle cause meccaniche, e le altre leg^i della
natura, riuali la gravit, si fanno invece riposare sulla semplice libert del
(Creatore, ci eipiivale ad att'ermarc che le cause meemniche s(no delle cause
efticienti, e che le altre non sonc^ che de.a;li antecedenti di seiiuenze
invariabili. Infatti il carattere della causa efficiente t"^ questo
lejiame necessario che si ammette tra essa e l'ettetto. liepl. 4 di Clarke. ino
si spesso dichiarato, d'una maniera distinta e formale, elle, servendoci di
questo termine, non pretendiamo esprimere la causa che fa che l corpi tendono V
ano verso Valtro^ ma solamente l'ettetto di questa causa, o il fenonono stesso
e le le^g'i o le pro])orzioni secondo cui i corpi tendono l'uno verso l'altro,
(piali si scoprono per l'esperienza, qualunque ne possa essere la causa . Se noi diciamo che il sole attira la terra, a
traverso d'uno spazio vuoto, cio che la terra e il sole tendono l'uno verso
l'altro (qualunque ne possa essere la causa) con una forza che in rao-ioi clrottn delle loro masse o delle
loro o-raudezze e densit |)rese insieme, e in rag'ione inversa del quadrato
della loro distanza; e che lo spazio che
tra questi due corpi vuoto, cio
che non vi ha niente che resista sensibilmente al movimento dei corpi che lo
traversano; tutto ci non che un fenomeno
o un fatto attuale scoverto per l'esjx'rienza. E vero senzn dubbio che (piesto
fenomeno ion prodotto senza mezzo, cio
senza una causa capace; di produrre tal effetto. I filosofi possono duncjue
ricercare (piesta causa, e cercare di scoprirla, se ci loro [)ossibile, sia che sia laeccanica o non
meccanica. (Qui l'autore sembra ammettere la possibilit d nna causa naturale e
conoscibile non meccanica). Ma se essi non possono scoprire questa causa, ne
segue che V effetto stesso o il ftuiomeno scoverto per l'esperienza che tutto ci che si vuol dire per le parole
attrazione e gravitazione ne segue, io dico, che questo fenomeno sia meno certo
e meno incontestabile? Una qualit evidente deve essere chiamata occulta, perch
la causa immediata ne forse occulta^ o
noi st^ta ancora scoiarla f Quando un
corpo si muove in un cerchio, senza allontanarsi per la tangente, vi ha
c(*rtamente qualche cos che ne lo Ht'ijl. .> (// Carke, llO-lU). ~ t
impedisce: ma se in qualche caso non
possbile di spiegare meccanicamente la causa di quest'eftetto, o se essa
non e ancora stata scoverta, ne segue che il fenomeno sia falso? Questa sarebbe
una maniera di ragionare assai singolare. (Qui invece l'autore pare che
suppong-a che la causa dell'attrazione o
meccanica, e in (questo caso potr in seg^uito essere scoverta, o
non meccanica, e in quest'altro, caso
rester sempre una causa occulta). 4. Se in Inghilterra, andandosi al di l del
pensiero di Newton, la gv^yiiii innata, inerente ed essenziale alla materia
divenne ben presto una dottrina, incontestata, questa dottrina invece sollev
delle proteste continue tra i matematici e fisici del continente. Hu\ ghens
trova assurdo il principio dell'attrazione newtoniana, e dice: Le cause di
tutti gli effetti naturali devono concepirsi meccanicamente (per rationes
mechanicas), se non vogliamo abbandonare ogni speranza di comi)rendere qualche
cosa nei fenomeni fisici . Bernouilli chiama la supposizione di una facolt
attrattiva rivoltante per gli spiriti
abituati a non ricevere in fisica che dei priucipii incontestabili ed evidenti,
e adotta la teoria cartesiana dei vortici, modificandola. Eulero nella Lettera
68 ad una principessa d' Alemagna scrive: Poich
certo che considerando due corpi qualunque l'uno attirato verso l'altro, si domanda la causa
di questa tendenza mutua: su ci che i
sentimenti sono molto divisi. I filosofi inglesi sostengono che una propriet essenziale di tutti i corpi
d'attirarsi mutuamente, che come una
tendenza naturale che tutti i corpi hanno gli uni j)er gli altri, in virt di
cui i corpi si sforzano di avvicinarsi mutua Ucpl. o di Clarkr, . Travtatus de
In mine. 18 mente, oome se fossero dotati di qualche seiitimf^fff^ o desiderio.
Altri filosoft ri^j^-uardano questo sentimeuto come assurdo e contrario ai
principii di una filosofi^ ragionevole. Gli uni dicono che la terra che attira i corpi per una forza che
le appartiene in virt della sxia natura; gli altri dicono che l'etere o altra materia sottile e invisibile
che spinsTe i corpi in iasso, di sorta che l'eifetto nondimeno lo stesso nell'uiio e Taliru caso.
L'ultimo sentimento piace di pi a quelli che amai'^ 'lei principii chiari nella
filosofia, poich non vedono come due corpi lontani limo dall'altro possono agire
l'uno sull'altro, a meno che non vi sia qualche cosa tra loro >. Supponiamo
che avanti la creazione del mondo Dio non avesse creato che due corpi lontani
ruuo dall'altro, che non esistesse fuori di loro assolutamente niente, e che
questi corpi fossero in riposo ; sarebbe possibile che l'uno si avvicinasse
all'altro, o che avessero una tendenza ad avvicinarsi? come Vuno sentirebbe V
altro da lontano f come potrebbe avere un desiderio d' avvicinarsene? Sono
delle idee che rivoltano: ma dacch si suppone che lo spazio fra i corpi riempito d'una materia sottile, si comprende
subito che se questa materia pu agire sui corpi spingtmdoli, l'effetto sarebbe
lo stesso come se essi si attirassero mutuame*nte * . Cos Eulero non concepisce
che due possibilit sulle cause dell'attrazione: o il meccanismo o
l'antropomorfisno: se non si vuole l'uno, si deve accettare l'altro. E che
queste sono quasi esclusivamente le due forme immediate sotto cui lo spiritto
umano concepisce le cause efficienti. Io pre^-o il lettore di confrontare
questo luogo d'Eulero con gii ultimi che ho citati di Leibnitz e con rjuelli di
Secchi e Saigey che citer appresso, oltre quelli degl' ilozoisti, gi citati nel
2^ capitolo, articolo 3^' . Oltre queste due supposizioni sulle cause
dell'attrazione, quella della impulsione d'un miluogo, ch'egli adotta , e
quella della materia dotata di sentimento e di desiderio (alla quale si
potrebbe fors'anche aggiungere quella di Dio che spinge immediatamente i corpi
gli uni verso gli altri) , Eulero non concepisce che una terza supposizione:
cio che la causa dell'attrazione sia una forza inconoscibile ed
inintelligibile, una qualit occidta.
Sembra pi ragionevole, segue egli a (l^ K puro sotto r uiiH o l'altra di
queste duo tonno cho i ssa servirsi per attirare a st"^ i cor])i o
c;iusarvi il peso ; ancora meno sco[rono qualche cosa tra il sole o la terra,
di cui si possa credere che il sole si serva per attirare la terra. 8e si
vedesse un carro seguire i cavalli senza che vi fossero attaccati, e non vi si
vedesse n corda no altra cosa propria a mantenere qualche comuuicazicuie tra il
carro e i cavalli, non si direbbe che il carro fosse tirato dai cavalli: si
sarebbe piuttosto portato a credere che il carro fosso spinto da qualche,
forza, quantunciue non se ne vedesse niente, a monoch non fosse il giuoco di
qualche strega. Tuttavia i signori Inglesi non abbandonano il loro sentimento .
V. nella stossa lettera il tratto che precode l'ultimo itato 276 scrivere,
d'attribuire rattrazione dei corpi a un'azione che l'etere vi esercita,
(juantunijue la maniera ci sia sconosciuta, che di ricorrere a una (jualit
inintelligibile. Gli antichi filosofi si sono contentati di spiegare i fenomeni
del mondo per questa sorta di qualit ch'essi hanno chiamate occulte, dicendo
[). e. che l'oppio fa dormire per una qualit occulta che lo rende proprio a
conciliare il sonno: era dire niente del tutto, o piuttosto era voler
nascondere la propria ignoranza; si dovrebbe dunque pure riguardare come una
(jualit occulta l'attrazione, in (|uanto la si d per una propriet essenziale
dei corpi . D'Alembert trova esorbitante l'affermazioie di Cotes che la
gravit cos essenziale alla materia come
l'impenetrabilit e l'estensione: se l'attrazione una legge primitiva, essa non pu, egli dice,
avere per causa che la volont di un essere sovrano J). Le leggi del movimento
sono di verit necessaria ; ma le leggi del peso sono contingenti, e dipendono
dalla volont del Creatore; supposto per che la gravit non possa spiegarsi per V
impulsione. Quest'azione a distanza tra due corpi e la ragione secondo cui
avviene sono egualmente incom})rensibili (8). Vi haino due sorte di . La
niassina che ogni azione deve essere a contatto, non che il principio i)er cui
si pretende dimostrarla che .stessa do, ma hanno qualche ripugnanza a dire che
un corpo la causa del movimento di un
altro corpo collocato a qualche distanza da esso, a meno che non vi sia fra
questi due corpi un legame stabilito con l'aiuto di qualche mezzo... Questa
distinzione fra il movuento prodotto dall'urto e gli altri fenomeni della
natura si fonda in gran parte sulla confusione delle cause efficienti e
fisiche. DugaldStewart non ammette che l'urto sia una causa efficiente, perch
secondo la dottrina della scuola scozzese la natura non ci presenta mai una
vera connessione causale; 279 ma perch eg^li suppone che il rapporto di
contiguit deve trovarsi nell' azione delle cause efficienti o metafisiche ?
Siccome la nozione che egli si fa di cause metafisiche e oltrepassanti
l'esperienza non pu avere in definitiva la sua base che nell'esperienza, noi
abbiamo il dritto di ammettere,che ci
perch egli si forma la concezione delle cause metafisiche dei fenomeni
fisici sul tipo dell'azione meccanica piuttosto che su quello di qualsiasi
altra azione fisica. Hamilton, 1' altro eminente rappresentante della scuola
del senso comune, dice: Una azione a distanza pu bene esserci imposta come
fatto, ma la sua possibilit non resta perci meno inconcepibile. Galluppi pensa
che la comunicazione del movimento per l'impulsione una verit necessaria e a priori, di cui egli
pretende di dare la dimostrazione. Ma che cosa dobbiamo pensare, si domanda,
dell'attrazione? In questa i corpi non operano gli uni sugli altri per impulso.
Intendendo per attrazione il moto naturale di un corpo verso di un altro,
l'attrazione un fatto primitivo di cui
ignoriamo la causa E continua citando, e naturalmente approvandolo, un tratto
di d'Alembert, in cui questi vuol mostrare che non potrebbe scoprirsi a priori
alcuna ragione per cui un corpo tosto che non
sostenuto sia obbligato a discendere. Rosmini dice: Niente mi prova la necessit di ammettere
attrazione fra corpi distanti, e m'induce a negarla la ripugnanza che mi par
giacere nel suo concetto . Nei filosofi ultimamente citati il principio
che la base della teoria meccanica, cio
che Timpulsione una causa efficiente del
movimento e la sola tra le Saggio filos., t. VI, par. IM). VI, 93. Psicologia .
azioni fisiche che sia intelligibile, non si trova, per dir cosi, che d'una
maniera incosciente; ma esso espresso
della maniera pi esplicita in queste parole che Cuvier scrive nella sua Storia
del progresso delle scienze naturali : Una volta usciti dai fenomeni dell'urto,
noi non abbiamo pi idea netta dei rapporti di causa e di effetto. Tutto si
riduce a raccogliere dei tatti particolari e a ricercare delle pro[)Osizioni
generali che ne abbraccino il pi gran numero possibile. E in ci che consistono
tutte le teorie tisiche, e a (jualunque generalit sia stata portata ciascuna di
esse, si trop[)o lungi ancora dal ricondurle
alle leggi dell'urto, che sole potrebbero cangiarle in vere spiegazioni . ^ 5.
I meccanisti del nostro tempo non dichiarano meno nettamente dei meccanisti
antichi che il vero motivo della loro dottrina e di assegnare le cause
produttrici dei movimenti che le leggi generali a cui la scienza riconduce i
fenomeni fisici lasciano nel mistero, e di spiegare cosi queste leggi generali
che senza di ci resterebbero incomprensibili. Ascoltiamo il p. Secchi: I fisici
ora cercano di conoscere la causa della gravit, quantuu(iue la nessuna necessit
di conoscerla e la grande difficolt d assegnarne un origine ragionevole l.
distolsero sino a poco tem[)o fa da queste speculazioni . lY'r noi
assurdo (salvo sempre come si
detto il caso d'intervento degli enti spirituali) che il moto nella
materia bruta abbia altra origine che dal moto. Noi rigettiamo quei principii
detti forze ^ che non sono n spirito n materia, dei quali non stata mai })rovata l'esistenza: essi ci
sembrano mere astrazioni realizzate. Noi cerehertmio di ridurre tutti i
fenomeni a mero scambio e comunicazione di moto e assumeremo questo scambio
come un fatto primitivo la cui spiegazione sta nella Unit (fr/r forze fs,, 8
odiz., 1. IV, e. 4. 281 natura della materia . Ai critici che gli obbiettano che
la comunicazione del moto anche a contatto
un fatto pure misterioso, egli risponde: Noi lo riceviamo come un fatto,
e a questo come pi i facile a comprendersi cerchiamo ridur l'altro che dicesi
da essi fatto a distanza . La spiegazione meccanica dei fenomeni fisici pu solo
permettere secondo il p. Secchi di fare a meno di (juesti agenti oscuri e
metafsici che si chiamano forze. Parlando della coesione, dice: Quel legame pertanto o formato da forze astratte operanti a vera
distanza ovvero dall'azione d un mezzo. Le prime sono per noi inconcepibili
perch la piccolezza delle distanze non toglie l'essere loro assurde e perci
resta la seconda (o).
(L'alternativa inevitabile: o il
meccanismo o le /brze). Uno studio pi
profondo delle propriet della materia ha mostrato che le forze che
costituiscono i corpi e danno loro una forma determinata e dcons comunemente
attrazioni molecolari non dipendono da legami materiali posti fra le parti
costituenti ne da principii astratti la cui azione a distanza assurda, ma che devono considerarsi
semplicemente come effetto dei movimenti di cui sono dotate le masse elementari
e dell'influenza del mezzo in cui sono distribuite . La sua esistenza (dell'etere) ci ha suggerito
congetture sulla struttura interna dei corpi per fare a meio delle forze
astratte aunnesse finora per ispiegare i fenomeni della coesione dei corpi:
queste, lo prevediamo, incontreranno grande opposizione da ])arte di quelli che
seguaci delle vecchie scuole pretendono che nei corjn vi sia alcuna cosa di pi
che materia e moto, e credono grcive errore raif (MC. 1 odiz.. e. 1. par. 2. l^tiif . I. i. e.
l. (8) rtiil Vii'., 15 (mIz.. 1. L
e. o. Kliz. '^. V. 2. ]). S71, Conclusione. '"^^ 282 283 negare le forze,
che essi poi non sanno dirci in che consistano. Come per ispiegare certi fatti,
invece della causa occulta detta lorrore del vuoto che era una /'or.a ai suoi
tempi, noi ammettiamo la pressione atmosferica, cosi presentemente mediante
l'etere crediamo potersi spiegare loti di (luei fenomeni che vengono attribuiti
a cause egualmente occulte . La teoria
atomica e indipendente dalla teoria delle forze che determinano runione di
questi atomi, perch restar pu ad arbitrio di ciascuno l'immaginare o che essi
siano determinati al moto da cause occulte e potenze intrinseche, ovvero che
tutte le loro unioni si compiano per l'azione estrin^eca di un mezzo in
movimento. Il fornirli dt forze astratte
certamente la cosa pi comoda, ma in pi luoghi abbiamo veduto la
complicazione che porta un tale sistema, e l'infinito numero di forze che
bisogna ammettere. Per dir poco, quasi
mestieri applicare aquesti atomi una certa intelligenza per arrivare a sapere
se debbano agire o no; e qualche cosa che li avvisi che sta presente il
soggetto su cui esercitare 1 azione! Questa forza poi che cosa ? Come non si
esaurisce mai? Come che stando essa
sempre in attivit e disposta ad agire su tutti i corpi, quando gliesene
presentano due insieme, sull'uno agisce e sull'altro no .^ Ha essa intelligenza
da scegliere? Potremmo di leggieri moltii>licare queste domande sicuri d non
averne risposta, e perci inutilmente, quindi sar miglior partito cercare di
svolgere il concetto delle forze supponendole derivate dal moto di cui animata la materia . \i luoghi citati
dell'opera di Secchi se ne potrebbero ao-giungere molti altri ; ma ci
contenteremo di un solo, in cui l'autore ritorna sulla supposizione
dell'animazione della materia, considerandola come la sola causa immaginabile
(se pur non vogliasi ricorrere all'azione diretta di Dio o a quella di altri
enti spirituali separati) capace di spiegare le azioni fisiche che non possono
o non vogliono ricondursi alla comunicazione del movimento per l'impulsione.
Abbiamo gi detto altre volte che una forza attrattiva in istretto senso, cio
come principio attivo risedente nelle molecole e operante a traverso un vuoto
assoluto, a noi riesce inconcepibile, perci tale azione dovrebbe esercitarsi
dai corpi a distanza, il che assurdo e
l'esser le distanze grandi o piccole non muta la difficolt. Se poi guardiamo la
cosa in concreto, dovremmo ammettere nelle medesime molecole e nel medesimo
tempo forze attrattive e ripulsive, e operanti con certa scelta, le quali da
positive verso un corpo diventino negative verso un altro, e spesso verso lo
stesso corpo a diverse distanze, o a mutate temperature, o per la presenza di
un altro corpo; dei quali effetti piena
la tisica e la chimica. Cosi dovrebbero moltiplicarsi questi principii nei
singoli atomi in modo prodigioso, e dotarsi di una certa facolt di sapere
quando occorra attrarre o respingere e a tale o tal altra distanza e in certa
direzione ! Queste sono cose inconcepibili e assurde: e d'altra parte
l'esperienza mostra che a mano a mano che si conosce la vera causa dei fenomeni
tali supposte tendenze svaniscono ogni d pi
. Noi insistiamo su quesra opposizione tra la teoria meccanica e la
dottrina delle forze^ opposizione che, nella fisica moderna, corrisponde, come
abbiamo notato, alla lotta dei filosofi ineccanisti, all'epoca del rinascimento
della filosofia, contro le qualit occulte degli ultimi scolastici, e a quella
degli avversari di Newton contro (li 1 te elevato sulTitlea d'inerzia cndla sin
dalla sua base. Che saiir dunque se dalla rinciiio che ^ in C/Sse. esse hanm
duiuiu( un'iniziativa propria, esse hanno delle vevoli, dei matrimoni telici e
Ielle unioni discordi, delle sojde inimicizie^ e delle lotte ! Ecco ijl'idilli e i dranimi ehe ci presenta
la cliinjica, se noi allog^jiamo nelle molecole^ un ]>rinci])io re}>ulsivo
e un principio attrattivo, come si alloi. 141). Cosa (' la forzii nel volume Balfour-Stenrart (^onnerrnzionr
delVe enfia, di risolvere mai d'una maniera completa il problema l'uni verso .
E come da una parte si abbraccia la teoria meccanica per eliminare le cause
occulte dei fenomeni fisici cio le forze, cos dall'altra parte si abbracciano
le forze, perch una spiegazione meccanica dei fenomeni si ritiene impossibile.
Hirn, avversario della teoria meccanica e difensore delle forze considerate
come entit reali distinte dai fenomeni, divide gli scienziati moderni ili due
campi opposti. Noi possiamo, egli dice, ricondurre ;i due proposizioni
antagoniste l'enunziato della quistione (sulla natura delle forze fsiche in
tutta la sua nettezza. 1.'^ Il movimento della materia non pu nascere ehe da un
movimento anteriore d'un'altra parte di materia, e che per contatto immediato
di materia a materia. 2." Il movimento della materia non nasce mai
direttamente e per contatto immediato. Esso si deve sempre all'azione d'un
elemento specificamente distinto dalla materia, che quest' elemento ne sia
d'altronde separabile o no. Queste due affermazioni s opposte dividono e
divideranno ancora gli scienziati in due campi ; la prima ha oggi per s 1'
immensa maggioranza. Si creduto fare una
semplificazione e un progresso considerevoli sostituendo alla forza, essere
mistico e incomprensibile, si dice, il movimento della materia... {2> Questa
pretesa della teoria meccanica di sostituirsi alle forze, di eliminarle perch
rese inutili da essa, per noi la prova
pi concludente del fatto che l'impulsione
ritenuta, secondo questa teoria (ed anche, in un certo senso, secondo
gli avversari di questa teoria), una causa efit I/uitlt delle forze fsiche in Hec.
seleni., scr. 1. t. 6. (*J) I.n no:, ili forza mila sciet^a moiL, Kev. scii'iit.,
str.:s. t. 10, p. i:^i. 287 ciente del movimento, una causa che capace di spiegare i suoi effetti, di farne
comprendere la ragion sufficiente, e non che
semplicemente un antecedente a cui questi effetti seguono d' una maniera
invariabile. Infatti, se noi supponiamo che i fenomeni fisici sono dovuti alle
forze, cio a cause sconosciute inaccessibili all'esperienza, ci avviene perch
noi crediamo che, oltre le cause fisiche di questi fenomeni, cio oltre gli
antecedenti delle sequenze invariabili che ci presenta l'esperienza, vi hanno
delle cause efficienti di questi fenomeni, alle quali l'esperienza non pu
attingere; e se noi crediamo che queste cause efficienti dei fenomeni sono
altra .cosa che le loro condizioni empiriche a cui essi seguono invariabilmente, perch noi non troviamo alcuna connessione,
alcun legame necessario e intelligibile fra queste condizioni e i fenomeni che
loro seguono, in una parola perch le leggi generali a cui la scienza riconduce
i fenomeni fisici, ci sembrano incomprensibili. Per conseguenza una spiegazione
di questi fenomeni che pretende di rendere inutile la supposizione delle forze
e di sostituirle, una spiegazione che
pretende di far conoscere le cause efficienti, di scoprire la connessione o il
legame necessario tra i fenomeni, di dare la ragion sufficiente delle leggi
dell' esperienza, che senza di essa (cio di questa spiegazione) resterebbero
incomprensibili. Per altro i meccanisti contemporanei dichiarano, non meno
esplicitamente dei loro predecessori, che questo il presupposto della loro dottrina, cio che
l'impulsione un fatto dhe si comprende
da se stesso, mentre ogni altra azione fisica
inconiprensibile ed anche assurda a meno che non si riconduca
all'impulsione. Per mostrare ci, ai tratti riportati del p. Secchi ne
aggiungeremo qualche altro di altri autori. Challis dice: Quando un corpo messo in movimento senza l contatto apparente
ne pressione d'un altro corpo, si pu tosto concludere che il corpo che pressa,
(luantun(jue invisibile, esiste, a meno d'essere disposti ad ammettere che vi
hanno delle operazioni fisiche che sono e saranno incomprensibili per noi .
Moigno: Ci che certo che i corpi non si attirano... Se
l'attrazione esistesse, sarebbe un miracolo perpetuo (cio un fatto superiore
alla nostra ragione, incomprensibile) . Baltour-Stewart: T/ ipotesi di azione a distanza pu essere
fatta i)er rendere conto di qualche cosa ; ma
impossibile (come Newton l'indicava, or
lung'O tempo, nella sua celebre lettera a Bentley) per qualcuno che lia
in materia filosofica una facolt di pensare competente di ammettere un istante la possibilit di una
tal azione (3.. Naville: la
comunicazione del movimento per via d'iupulsione o di contatto la sola che ci sia intelligibile perch essa
si deduce dall'idea stessa della materia di cui l'essenza d'occupare l'estensione Taine (trattando la quistione se ogni fatto o
leo-co ha la sua ragione esplicativa): Probabilmente tuul i cang-iamenti fisici
si riducono a dei movimenti che hanno per condizioni altri movimenti. Se questa
riduzione fosse vera, tutti i problemi concernenti un corpo effettivo
(|ualunque sarebbero problemi di meccanica, e tutto negli oggetti reali avrebbe
la sua ragion d'essere (vale a dire potrebbe spiegarsi). N razione a distanza
ha cessato di sembrare assurda anche a quelli che non pretendono del resto
ricondurre tutti i fenomeni fisici all'impulsione: baster di citare Phil.
unu/., 4 sei-., voi. . ]. 47. Disserti/, suiressenzii della materia. {'^)
Ij'unicerso inrisibile, ^ ediz.. p. 100. Orig. lellafis. inod. in Her.
srienUf.^ 2 ser., t. 8, p. 1081. (.5) Taine, 1/ 7ttflliyenza, Il parte, iib. 4,
e.:^, par.:^, H. Spencer, che dice
positivamente inconcepibile la concezione che la materia agisce sulla
materia a traverso lo spazio assolutamente vuoto , e Du Bois-Reymond, che nel
suo celebre discorso al congresso scientifico di Lipsia ha affermato che la
concezione di forze agenti a distanza a traverso il vuoto in so inintelligibile e anche contraddittoria
. 6. Fra le affermazioni contenute nei tratti degli autori che abbiano citati,
ve ne ha una che importante di
esaminare, perch potrebbe spargere qualche dubbio sul fatto che abbiamo voluto
costatare, cio che il motivo per cui si ritiene indispensabile di ricondurre
all'impulsione tutti i fenomeni fisici, a meno di credere che questi sono e
saranno per sempre inintelligibili, che
l'impulsione la sola fra le condizioni
generali del movimento, che sia considerata come una causa efficiente.
L'affermazione di cui parliamo che
nell'azione a distanza vi ha un'impossibilit intrinseca, che essa inconcepibile, assurda e contraddittoria.
Come abbiamo detto, quest'impossibilit intrinseca dell'azione a distanza
si preteso dimostrarla, ponendo come
premessa il principio che una cosa non pu agire dove non . Ma questa
dimostrazione, come tutte le pretese dimostrazioni di una cosa di fatto, di cui
la sola esperienza pu stabilire la verit o la falsit, non pu essere che o un
sofisma fondato sull'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] o
una petizione di principio. In fatto quando si dice che una cosa non pu agire
dove non , di che sorta d'azioni s'intende parlare? La parola azione ha due
sensi differenti: vi hanno delle azioni immanenti, p. e. io mi muovo, e delle
azioni transeunti, p. e. io muovo un corpo differente da me. Se si tratta di
azioni immanenti, certo che Primi
principii, paragr. 18. V. H e 532-533. re che se per azione a distanza non
s'intende una semplice sequenza invariabile, ma s' intende invece che il corpo
agente a distanza sia la causa efficiente del cangiamento determinato nelT
altro corpo distante, allora 1' azione a distanza potrebbe benissimo essere
considerata come una nozione contraddittoria, cio composta di elementi in-,
compatibili: infatti ci sarebbe impossibile di rappresentarci un caso concreto
di un rapporto di causazione tra fenomeni fisici, in cui della causa potesse
dirsi al tempo stesso che essa distante
dall'effetto e che una causa efficiente
0 produttrice di quest' effetto. Ma in questo senso dire che l'azione a
distanza una nozione contraddittoria
sarebbe semplicemente enunziare il fatto che noi abbiamo voluto costatare, cio
che lo spirito umano non pu considerare come causa efficiente un corpo agente a
distanza, ma solo un corpo agente a contatto
d'una maniera meccanica. Passiamo ora al vocabolo assurdo. Assurdo in primo luogo ci che contraddittorio: nui in secondo luogo assurdo anche ci che, senza essere contraddittorio in
se stesso, in contradddizione con
qualche verit assiomatica. Cosi i geometri dicono di aver dimostrato una
proposizione per 1' assurdo, quando essi hanno mostrato che, facendo una
supposizione contraria alla proposizione, si cade in contraddizione con qualche
assioma: in verit nelle dimostrazioni per l'assurdo basta per mostrare r
assurdit di una supposizione di far vedere che essa in contraddizione con un teorema gi
dimostrato, ma siccome non si potrebbe negare una proposizione dimostrata senza
contraddire agli assiomi che sono le premesse ultime di ogni dimostrazione,
cosi 1' assurdit consiste in ogni caso ad essere in contraddizione con qualche
assioma. Per sostenere dunque che l'azione a distanza assurda, bisogner ammettere (per non tornare
sul caso, di cui abbiamo gi parlato, in cui l'as>^Ke~*fe--?'*" 294
surdit consista in una contraddizione intrinseca) che l'azione a distanza in contraddizione con una verit assiomatica.
E in fatto quelli che dichiarano assurda l'azione a distanza ammettono come
verit assiomatica, cio evidente per se stessa, che ogni azione deve essere a
contatto. Ma questa pretesa verit assiomatica non che r espressione della tendenza naturale del
nostro spirito a ricondurre ed assimilare tutti i fenomeni fisici all'azione
meccanica; e cos quest'assurdit che si trova neir azione a distanza non al fondo che un' altra manifestazione del
fatto che noi cerchiamo di mettere in evidenza, cio che T impulsione la sola tra le azioni fsiche che sia
naturalmente considerata come causa efficiente, e quindi pure come il solo
intermediario esplicativo possibile che possa rendere ragione di tutte le
altre. Se la nozione di causa efficiente ha un valore obbiettivo, cio, come
abbiamo altra volta spiegato, se questa tendenza psicologica a spiegare le
sequenze regolari tra fenomeni di cui non consideriamo 1' antecedente come una
causa efficiente, per quelle di cui consideriamo r antecedeute come causa
efficiente, ha un valore logico e noi dobbiamo seguirla, allora bisog^na
ammettere che il principio del meccanismo
una verit assiomatica, che una vera azione a distanza realmente assurda. Se al contrario la nozione
di causa efficiente non ha un valore obbiettivo, se tra una causa efficiente e
un semplice antecedente di una sequenza invariabile non vi ha una differenza
reale ma solo psicologica, allora la pretesa evidenza a priori del principio
del meccanismo un sofisma a priori^ e la
pretesa assurdit dell'azione a distanza una conseguenza di questo sofisma. Il
nostro oggetto non per ora di risolvere
questa quistione, ma solo di trovare un dato necessario per questa soluzione,
vale a dire qual il carattere generale,
che distingue le sequenze uniformi in cui consideriamo l'an 295 tecedente come
causa efficiente, da quelle in cui non lo consideriamo come causa
efficiente. solamente dopo aver compreso
questo carattere generale che potr vedersi se la tendenza del nostro spirito ad
assimilare e ricondurre le sequenze del secondo genere a quelle del primo ha un
valore logico, o s(i soltanto un
fenomeno psicologico, da cui necessario
di tenersi in guardia per evitare di scambiare le leggi subbiettive del nostro
pensiero con le leggi obbiettive della natura reale. Passando infine alla
parola ianio chiamato inconcepibilit relativa. Hanilton dice che noi non
j)ossiamo concepire la possibilit di una cosa, [uando non possiamo concepire la
cosa come il conseguenti, di una causa. Tutte le verit ultime della scienza,
tutti i l'atti ultimi, sono per Hamilton inconce})ibili in questo senso, che
perci sembra a IMill una perversione completa del significato della parcda: noi
non lassiamo concepire la loro possibilit, ({uantunpie siamo obbligati ad
ammetterli come fatti, ]>erch non possiamo concepirli come una conseguenza
di ([ualche causa. Ma questo che a Mill sembra un terzo senso
deirinconcei)ibilit ci pare identico al econdo senso, a ci che ablviamo
chiamato inconcepibilit relativa. Cos quando Hamilton dice ehe la possibilit dell'azione a distanza ijiconcepibile, quantunque essa ]K)ssa
esserci imyiosta come un fatto , egli vuol dire certamente che noi non possiamo
concepire l'azione a distanza come la conseguenza di qualche causa, cio che non
vi ha alcuna causa ejfcicnte immaginabile a cui V azione a distanza possa
venire attriuita come un effetto. Ma dicendo cos Hamilton non si allontana dal
secondo senso della parola inconcepibile. L'inconcepibilit relativa dell'azione
a distanza e l'assenza di una ^'^J Si potrebbe non pertanto cercare di
giustificare la pretensione deli' inconcepibilit anche relativa ad erigersi a
criterio del vero e del falso per la ragione che una necessit del pensiero
corrispondente a un' inconcepibilit rappresenta, in ultima analisi, il
risultato dell'esperienza: con questa
ragione che Spencer ha preteso giustificare il criterio dell' inconcepibilit
della negativa, che per lui l'unico
criterio della verit. Ma bisogna, dice ottimamente Bain, tener conto pure d
questa circostanza, che, in ragione dei limiti della nostra esperienza, la
forza del legame non rappresenta la ripetizione reale dei fatti, a meno che noi
non fossimo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le volte che si
producono. Ci che il pi familiare per la
natura pu non essere ci che il pi
fajiiliare per noi. Noi non consideriamo sempre l'universo dall'alto di un
punto di vista centrale e dominante . Per vedere che ci che il pi familiare per la natura pu non essere
ci che il pi familiare per noi, basta
confrontare il gran numero di fenomeni d' attrazione che conosce la scienza,
col piccolo numer che ne pu conoscere il fanciullo e l'uomo senza cultura.
Questi si riducono quasi unicamente all' attrazione esercitata dall'ambra e dalla
calamitata, fenomeni che si osservano con la pi vvsl curiosit, perch riguardati
d' una natura singolare e causa oticieute che possa farcela coiiipreiulere, uon
sono che due aspetti d'uno stesso fatto. Tutti i fatti inesplicabili, cio di
cui non possiamo ininia binare la causa efficiente, sono relativamente
inconcepi)ili ; (ifiindi tutti i fatti uitimi sono relativamente inconcepibili.
Questo fentuneno psicologico, che ha l'aria di un paradosso, stato ben conosciuto da Bacone, il quale dice
clie le interpretazioni della natura, all'opposto delle anticipazioni delV
esperienza, sembrano strane,
incredibili, malsonanti e come altrettanti articoli di fede. * Lof/ica t. 1.
Appendice, D. assolutamente eccezionale. I fenomeni dell' attrazione
universale, della coesione, dell'affinit chimica, per non parlare degli altri
fenomoni di attrazione dovuti all' elettricit e al magnetismo, non contano per
nulla nelr esperienza dell'uomo che si limita a raccogliere passivamente le
impressioni degli oggetti circostanti. La frequenza di questi fenomeni nella
natura, supposto che essi non possano ricondursi, come vogliono i msccanisti,
all'azione a contatto, non sarebbe inferiore a quella dei fenomeni d'impulsione
e di trazione: tuttavia l'inlluenza di questi ultimi nel determinare le
associazioni delle nostre idee resterebbe sempre estremamente pi grande che
quella dei primi, perch essi sono i soli che ci colpiscono ad ogni momento
nella nostra esperienza giornaliera. Quanto le nostre necessit di pensare e le
nostre inconcepibilit (le relative) potrebbero essere differenti, se noi
fossimo gli spettatori continui delle traslazioni dei grandi corpi
dell'universo e delle piccole molecole, come lo siamo di quelle degli oggetti
familiari che ci stanno d'attorno ! Allora l'inconcepibilit dell'azione a
distanza potrebbe, non solo disparire, ma anche essere sostituita da un'
inconcepibilit contraria, cio avente per oggetto 1' azione a contatto. Se
infati noi ammettiamo le idee della fisica moderna sulla costituzione
molecolare della materia, non vi ha alcuna contiguit reale fra le parti di un
corpo che ci sembra continuo: la contiguit percepita dai nostri sensi non dunque che apparente ; ma allora ogni
contatto tra i corpi potrebbe essere illusorio, e ogni apparente azione a
contatto potrebbe essere in realt, come del resto molti fisici credono, una
azione a distanza. La teoria meccanica
stata sottoposta a una critica fatta coi criteri della filosofia dell'
esperienza nell'opera di Stallo La materia e la fisica moderna: non sar inopportuno
di citare quest' autore, dopo averne citati tanti che in 802 culcano i
principii di questa teoria come verit evidenti e necessarie. La stessa percezione, egli dice, primitiva,
sommaria ed incompleta dei dati dei sensi (che secondo lui ha dato luogo air
ipotesi della solidit assoluta della materia nei suoi elementi costitutivi) ha
fatto nascere quest'altra ipotesi che ogni azione fisica dovuta a un urto. La sola azione mutua tra
icorpi che sia direttamente apprezzabile dalla vista e il tatto, il cangiamento per collisione nel loro stato
di riposo o di movimimento. L'urto
dunque la pi antica e la pi familiare di tutte le azioni osservabili di
un corpo su di un altro. Quando 1' urto si produce tra due solidi moventisi con
prestezze differenti, o (ci che lo
stesso tra un solido in movimento e un altro solido in riposo, l'osservatore
ordinario non vede niente di pi che lo spostamento d'un corpo per l'altro e il
trasporto diretto di movimento. Questo spostamento e questo trasporto sono
supposti immediati, e i corpi sono supposti assolutamente rigidi. Ma quost'
osservazione del fatto tanto grossolana
quanto l'interpretazione ne inesatta.
Uno studio pi attento dei fenomeni mostra che non vi ha alcuno spostamento
immediato; che non vi ha trasporto diretto di movimento; che i corpi non sono
assolutamente rigidi; che l'urto dei solidi, semplice in apparenza, forma tutta
una serie molto complessa di circostanze, comprendente non solo 1' azione e la
reazione diretta, ma pure la compressione e l'espansione alternativa, la
tensione e il rilassamento dei legami di coesione e di cristallizzazione, la
trasformazione dei movimenti rettilinei in movimenti vibratori, dei movimenti
di traslazione in movimenti molecolari, lo spiegamento e 1' assorbimento
dell'energia: in breve, dei cangiamenti, momentanei, se non durevoli, di tutte
o quasi tutte le propriet dei corpi fra i quali l'urto si produce. In presenza
di tutto ci, che domanda la teoria atomo-meccanica, 308 parlando di non
ammettere tra i corpi altra azione mutua che l'urto? Essa domanda che le prime
impressioni rudimentarie e non ragionate del selvaggio senza cultura siano per
sempre la base di ogni scienza possibile . Ma la quistione del valore dell'
inconcepibilit (relativa) come criterio del vero e del falso non , nel caso
dell'azione a distanza come in una gran parte degli altri casi, che un aspetto
della quistione fondamentale se la nozione di causa efficiente abbia o no un
valore obbiettivo. Ci perch 1'
inconcepibilit (relativa) e la corrispondente necessit (pure relativa) di
pensare non sono, nel caso dell'azione a distanza come in una gran parte degli
altri, che uno degli aspetti di questo fenomeno del nostro spirito, di cui il
concetto di causa efficiente l'espressione
astratta. Perch intatti l'azione a distanza
inconcepibile? Noi abbiamo visto che ci
perch non vi ha alcun legame tra l'idea della presenza di un corpo o di
un suo cangiamento e (|uella di un cangiamento nello stato di un altro corpo
distante separato dal primo per un intervallo vuoto; mentre vi ha invece un
legame molto forte fra 1' idea del movimento di un corpo e quella di un altro
corpo che, mettendosi in contatto con esso, lo spinga o lo tiri il (juale
legame se non tale da determinare
un'inseparabilit assoluta tra le due idee e quindi una necessit assoluta di
pensare, basta per a determinare una difficolt a separare le due idee e quindi
una necessit relativa di pensare. Ora dire che non vi ha alcun legame tra
l'idea delPantecedente e quella del suo convegnente equivale a dire che il primo
non considerato 4;ausa efficiente del
secondo; come dire che fra l'idea dell'antecedente e quella del conseguente vi
ha un forte legame che determina una necessit di pensare equivale a dire che
quest' an Stililo. 7j(i tnaterid e la ^fsictt moderna, cai. 11. tecedente considerato causa efficiente. Infatti il
carattere distintivo della causa efficiente (che la differenzia dal semplice
antecedente di una sequenza invariabile)
appunto il leccarne necessario fra la causa e l'effetto, e questo non pu
essere che un legame mentale, perch nel reale stesso, indipendentemente dal
nostro pensiero,, non vi ha necessit ne possibilit, ma solamente realt. CAPO
IV. origine e sviluppo dell'idea di causa efficiente 1.1 principi su cui fondata la filosofia meccanica costituiscono
la prova pi concludente contro la teoria volizionale della causalit. Poich l'
impulsione naturalmente anch' essa
considerata come una causa efficiente, cade og'ni pretesa di considerare la
volont come il fatto unico che ci d la percezione della causa efficiente e
perci come il tipo unico di questo modo di causazione. Se non vi fosse che un
fenomeno unicoy come pretende la teoria volizionale, a cui gli uomini
attribuissero il carattere di causa efficiente, all'opposto di tutte le altre
cause, che verrebbero semplicemente riguardate come gli antecedenti di sequenze
invariabili, non sembrerebbe forse tanto incalzante la quistione: quale sia
questo carattere essenziale che si trova in questa sequenza unica, il cui
antecedente una causa efficiente, e non
si trova nelle altre sequenze, i cui antecedenti non sono cause efficienti. Ma
giacch noi conosciamo pi sequenze di diversa specie in cui si manifesta questo
rapporto di efficienza causale, noi vediamo subito che deve trovarsi egualmente
in tutte queste sequenze una circostanza comune, per cui esse si distinguono
dalle altre sequenze in cui non si manifesta alcun rap20 #::porto di efficienza
causale. Si sar forse contenti di dire che
Una legge della natura, una se(iuenza invariabile tra fenomeni, di cui
Tantecedente considerato causa
efficiente, ci sembra intelligibile ed evidente per se stessa: le altre leggi,
cio le altre se(pienze iuvaria))ili, ci sembrano incomprensibili ed
ines[)licabili, sinch almeno non siano state ricondotte alle prime. Ora la
comprensibilit e l'incomprensibilit non sono anch'esse se non fenomeni mentali:
togliete il soggetto intelligente, e non vi sar pi differenza tra il
comprensibile e l'incomprensibile. III. Noi abbiamo una tendenza a credere che
le sequenze, il cui antecedente
considerato come causa efficiente, sono delle conoscenze puramente
razionali, cio a priori: che questa apriorit sia reale o illusoria, si tratta
sempre d'un carattere subbiettivo, appartenente alle nostre concezioni, e non
alle cose concepite. Cos tutti i caratteri, che l'analisi della nozione di
causa efficiente pu fornirci per distinguere le sequenze invariabili di cui 1'
antecedente consideratocausa efficiente,
dalle altre sequenze invariabili, non consistono che in un'impressione
determinata che le prime fanno sul nostro spirito a differenza delle seconde:
ora non dobbiamo noi ammettere che questa differenza di effetti mentali abbia
un perch nelle sequenze stesse, cio che vi sia una circostanza determinata, che
trovandosi nelle prime, e non trovandosi nelle altre, fa che solo le une a
differenza delle altre, siano proprie a produrre nel nostro spirito tali
effetti determinati? Cerchiamo questa circostanzza comune nei due gn-andi tipi
di efficienza causale che ci presenta la storia del pensiero, vale a dire
l'azione volontaria e la comunicazione del movimento per l'impulsione. Se
astrazion facendo dai caratteri puramente mentali, cio la intelligibilit, la
necessit e l'apriorit, vera 0 supposta, del rapporto tra la causa e l'effetto,
noi cerchiamo in che la volont e l'impulsione, come cause del movimento,
differiscono dalle altre cause, che sono considerate, non come cause
efficienti, ma come semplici condizioni o antecedenti a cui il movimento segue
invariabilmente, noi non troviamo che una circostanza comune per cui le prime
si distinguono dalle altre: la produzione del movimento per la volont o per
l'impulsione sono delle sequenze regolari di fenomeni, in cui non pu scoprirsi
niente di pi che nelle altre sequenze regolari di fenomeni; semplicemente esse
ci sono assai pi 308 familiari che tutte le altre, questa tutta la differenza. Questi modi di
produzione del movimento possono nella natura non avere pi importanza degli
altri, essi possono essere anche dei fenomeni rari ed eccezionali; ma per la
nostra esperienza di tutti i girni essi costituiscono la regola, noi siamo
infinitamente pi abituati ad essi che a tutti gli altri. per questa grande familiarit che l'azione
volontaria e l'azione meccanica ci sembrano intelligibili in se stesse, e tali
da non aver bisogno di spiegazione e da poter servire anzi di spiegazione a
tutti gli altri fenomeni della natura. Una sequenza di fenomeni, che ci molto familiare, ci sembra spiegarsi da se
stessa; noi non ne domandiamo il perch, poich essa sembra portare in se stessa
la sua ragion sufficiente: in quanto alle altre sequenze, noi sentiamo il
bisogno di spiegarle, e come? assimilandole e riconducendole a quelle che ci
sono molto familiari; se quest' assimilazione ci impossibile, esse ci sembrano inesplicabili e
misteriose. Non vi ha forse un fenomeno psicologico pi importante per la teoria
della conoscenza e per la intelligenza della storia del pensiero. Non bisogna
credere che T atto volontario e l' impulsione siano i soli fenomeni
intelligibili e che portano in se stessi la propria spiegazione: tutti i
fenomeni familiari sono tali, solamente non ve n' alcun altro che sia proprio
come i due primi a servire da intermediario esplicativo universale per gli
altri fenomeni. Noi abbiamo visto che delle forme dell'attivit interiore dello
spirito, Assiduitate iiiotidiaua et
oonsuetiiaine ociiloruni assuesciiiit animi: iieque adniirantur, ncque
requirunt rationes earuni rerum quas semper vident. perinde (luasi novitas non
magm quam magnitudo rerum debat ad exquirenda8 cau.sas excitare . Cicero De
Natura deorum. II, come l'attivit costruttrice dell'immaginazione e l'attivit
razionale che lega le conclusioni alle premesse, sembrano anch'esse dei
fenomeni intelligibili, in cui i conseguenti hanno con gli antecedenti una connessione
evidente e naturale, e che l'intelligibilit che troviamo in questi
fenomeni la base di una spiegazione del
mondo (l'idealismo). Or chiaro che tali
azioni interne dello spirito non sono meno familiari che la sua azione esterna
sul mondo dei corpi, e che noi possiamo perci attribuire anche in questi casi
l'intelligibilit del fenomeno alla sua familiarit. In quanto alle azioni
puramente fisiche, ricordiamo che Locke trova la divisione di un corpo per la
intrusione di un altro un fatto cosi intelligibile come l'impulsione: anche qui
la familiarit del fenomeno spiega perfettamente la sua intelligibilit. La
trazione, che tra le azioni fisiche pure
una di quelle che ci sono pi familiari, non ci sembra anch'essa meno
intelligibile dell'impulsione, n meno capace di servire da intermediario
esplicativo. Se potessimo supporre, come dice Eulero , che il sole, per
attirare la terra, si serve di una corda o di alcun altro dei mezzi di cui noi
ci serviamo per tirare, ovvero, come dice Galileo, che ci che obbliga la luna a
seguire la terra che questi due globi
sono legati insieme con una catena o infilzati ad un'asta (ammettendo, come i
primi astronomi, che i movimenti dei corpi celesti siano circolari); certo che queste supposizioni, se esse
fossero possibili, spiegherebbero i fenomeni dell'attrazione d'una maniera non
meno Intelli V. e. Ili ^:^. V. e. Ili ^ 4. Didloghi sui mussini sisteu,
giornata terza, nota 1 n;;ta importante in cui Galileo GALILEI BONAIUTO
(vedasi), precorrendo Xewton, ideutitica al peso dei corpi terrestri
l'attrazione che la terra esercita vei;so la lumi . 310 gihile che l'ipotesi
deirimpulsione di corpuscoli invisibili. La coesione non sarebbe spieg-ata meno
intelligbilmente, se potessimo supporre, come dice il p. Secchi , dei legami
materiali fra le molecole, o se l'atomistica moderna potesse ammettere, come
l'antica, che i corpi solidi sono costituiti di atomi terminanti ad uncini, che
s'intralciano gli uni negli altri; noi comprenderemmo allora perfettamente
perch, spostando alcuna delle parti costitutive di un solido, tutte le altre
devono seguirla. Lo stesso sarebbe se potessimo annnettere che questo
solido realmente continuo, e non
costituito di molecole separate, come vuole la fsica moderna; anche allora
cesserebbe di essere un mistero perch tutte le altre parti costitutive del
corpo siano obbligate a seguire quelle, che qualche forza esteriore, ad esse
applicata, ha per effetto immediato di muovere. La coesione non un mistero che nell'ipotesi delle molecole
separate; essa perfettamente
intelligibile in quella della continuit assoluta: perch? perch una simile
azione esercitata tra masse separate non
per noi un fatto familiare, mentre
un fatto familiarissimo, esercitata tra le parti di una massa
continua. perci che il meccanista sente
il bisogno di spiegare la coesione tra le particole che costituiscono un corpo
sensibile, ma non sente alcun bisogno di spiegare la coesione tra le parti che
costituiscono un atomo: egli considera quest'ultima come un fatto perfettamente
intelligibile e che si spiega da se stesso, perch tali ci sembrano i fenomeni
che ci sono molto familiari, e la coesione tra le parti di un continuo uno di questi fenomeni. Notiamo che il
mistero che la teoria della costituzione molecolare dei corpi introduce nella
coesione, si estende necessariamente anche alle due altre azioni tisiche che
per l'intelligibilit abbiamo parago V. e. Ili v^ 5. 811 nate all'impulsione,
cio la trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro, per il
rapporto che questi fenomeni hanno con la coesione Oltre la coesione tra le
parti dell'atomo, vi ha un altro fenomeno indipendente dairimi)ulsione che
l'antica hlosota meccanista ammette come primitivo, cio come intelligibile per
s stesso, e non aveste bisogno di spiegazione: , lo abbiamo gi detto, il peso ,
fenomeno che forniva ad Epicuro la spiegazione dell'origine prima del
movimento. Che un corpo debba cadere all'ingi, (piando non vi ha niente che lo
trattenga, un fenomeno dei pi familiari,
e perci sem])rava ai meccanist greci una cosa perfettamente naturale e che si
com[)rende da (Pulite (lice: ., i farti
pi s^i;i natnnili iiiveee d'essere attrilmiti alhi volont arbitraria le-li
a-vuti soprainaturali. L'illustre A. Smith lia p. e. molto telireineiite
(sscrvato, liei suoi sao-.-i llosoliei. elu^ non si trovava, il. aleuu tempo
lu' iu aleuu paese, iiu dio per il i^^so. K eos in -^uere, anche a ri-'uardo
dei so.i^'-etti pili complicati, verso tutti i l'encuueui assa^ eleiueutari e
assai familiari ierche la i>ertetta invariabilit delle loro relazioni
ettettive abbia dovuto sempre cmte conclude da questo fatto che il -erme dcnuMitare della tlosoiia
positiva certamente cos primitivo al
ton(h) che ([uello della tib)s. Questa tendenza spontanea dell'intelligenza,
continua Mill, a spiegarsi tutti i casi di causazione assimilandoli agli atti
d'agenti volontari simili all'uomo, costituisce la filosofia istintiva dello
spirito umano nella sua prima fase, prima che si sia familiarizzato con le
successioni invariahili tra i fenomeni esteriori ; e anche dopo, le suggestioni della vita di tutti i giorni
essendo pi forti che quelle della riflessione scientifica, la filosofia
instintiva originale tismssi^^a^mem 315 conserva il suo terreno sotto i
rampolli ottenuti dalla coltura, e li impedisce costantemente di radicarsi
profondamente nel suolo. di questo
substratum che si alimenta la teoria che io combatto (cio la teoria secondo la
quale la produzione d'un avvenimento per
causa di una volizione porta con s la sua spiegazione, nuMitre l'azione della
materia sulla materia esige qualche cosa di pi per essere spiegata, e non concepibile che supponendo l'intervento di
una volont tra la causa apparente e il suo effetto apparente). La sua forza non
risiede negli argomenti, ma nella sua alleanza con una tendenza tenace
dell'infanzia dello spirito umano (l). Lo non so se articolarmente all'
infanzia dello spirito umano, e manchi, o vada indeholendosi, nella sua
maturit. I progressi della coltura possono avere i)er risul .X' .VI'"
Bacone aveva anch'egli insistito su questa apparente intelligibilit dai fatti
familiari e la tendenza a spietato di neutralizzare questa tendenza nei suoi
effetti, ma la tendenza stessa, malgrado tutto, persiste e persister sempre in
tutta la sua forza, essendo un fatto naturale e inevitabile dello spirito
umano. Un filosofo pu ben segnalare questo fatto come un'illusione naturale;
egli non pu sottrarre il suo spirito a quest'impulso istintivo, quantunque
possa riconoscere che sarebbe un errore il seguirlo, come, per usare il paragone
di Kant, l'astronomo stesso non ])u imi)edire che la luna gli sembri pi grande
al suo levarsi, bench egli non sia punto ingannato da quest'apparenza Vi ha
un'altra affermazione di Mill che noi non possiamo aujmettere iu tutta la sua
generalit: che l'atto volontario viene
preso spontaneamente come tipo unico della causazi(Mie in generale. Se Comte
pensava cos (quantunque anch'egli, come abbiamo visto, fosse costretto ad
ammettere delle eccezioni alla sua regola)
perch egli ignorava l'origine della spiegazione rolieionale dei
fenomeni, vale a dire questa tendenza naturale del nostro spirito a spiegare i
fenomeni che non ci sono familiari, assimilandoli a quelli che lo sono. Ma Mill
che conosceva assai bene questo fatto psicologico, non avreb)e dovuto ripetere
Comte; tanto pi che egli afferma, contro la teoria volizionale della causalit,
che delle successioni j)uramente fisiche e materiali, se esse sono divenute
familiari al nostro spirito, vengono anch'esse considerate come perfettamente
naturali, e lungi d'aver bisogno di spiegazione, servono alla spiegazione delle
altre, e anche alla spiegazione ultima delle cose in generale. I Greci
potevano, egli dice, nell'assimilazione di fatti tsici ad altri fatti tsici
trovare la specie di soddisfazione mentale che produce ci che noi chiamiamo una
spiegazione, soddisfazione che, secondo i fautori della teoria v(dizionale, noi
non potremmo procurarci ora che rapportando i fenomeni a una volont. L'umido,
l'aria o i numeri (Talete, Anassimene, i Pitagorici) avevano sulla loro
intelligenza assolutamente la stessa virt di loro rendere intelligibile quello
che, senza di ci, era per loro inconcepibile, e davano la stessa soddisfazione
ai bisogni della loro facolt pensante. Quantunque questi esempi
hlntM6twiij.>->.>..,. ..^.^,^, ^,^ i gare tutti gli altri fatti
assimilandoli ad essi ; e non questo il
minore dei suoi titoli per esser nominato il non ci sembrino bene scelti (perch
l'umido o l'aria erano considerati come il sustrato permanente delle cose e non
come la ragion sufficiente, o la causa efficiente, degli avvenimenti, e in
quanto ai numeri pitagorici, non si vede in che essi potessero essere utili
alla intelligenza dei fenomeni) ci non toglie nondimeno che la proposizione,
che essi servono ad appoggiare, non sia perfettamente vera. Il Mill va anche
sino a considerare come un fatto accidentale e individuale, e non come un fatto
necessario e generale dello s[)irito umano, (questa capacit che si trova neir
azione volontaria a spiegare i fenomeni che possono esserle assimilati e a
fjirceli parere pi intelligibili. Dopo aver parlato di Leibnitz, il quale lungi di ammettere che la volont sia la sola
specie di causa avente l'evidenza interna della sua efficacia, e ch'essa sia il
legame reale tra gli antecedenti e i conseguenti tsici, voleva qualche
antecedente tsico, naturalmente e per se efficiente, per servire di legame tra
la volizione stessa e i suoi eftetti , e dei cartesiani, a cui sembrava
inconcepibile l'azione dello spirito sulla materia, e che lu-etendevano che
fosse inqjossibile che un fatto materiale e un fatto mentale potessero essere
causa l'uno dell'altro, conclude: L'inconcepibile o il concepibile una circostanza tutta accidentale, e che
dipende interamente dalle esperienze e dalle abitudini di pensare degli uomini:
degl'individui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, essere
incapaci di concepire una data cosa qualunque, e divenire in seguito capaci di
concepire molte cose, per quanto inconcepibili avessero potuto sembrare
dai>prima; e gli stessi fatti che per una persona determinano nel suo
s]>irito ci che concepibile o no,
determinano jmre quali sono nella natura le sequenze che gli parranno s
naturali e idausibili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza erci
da poter fornire gl'intermediari esplicativi alle altre sequenze). Non vi ha
regola di decidere fra una teoria di questo genere e un'altra ; ciascun teorico
facendo appello ai suoi sentimenti subbiettivi ; ciascuno elevando 318 padre
della filosofa empirista. Quando (gli uomini) incontrano dei fatti rari, essi
vogliono, egli dice, asseti leg^o (leiriutelli^oiiza umana e della natura la
successione particolare di fenomeni che ili sembra pi concepibile e pi naturale
delle altre, solo percll^ u a;ire dove non . e della pretesa assurdit
dell'azione a distanza, che imped allo stesso Newton di ammettere la pravit
come una ju'opriet essenziale della materia, dice: 11 fatto dell'azione a
contatto pareva naturale e affatto
semplice a Newton, perch era familiare alla sua immatrinazione, mentre l'altro
per la ragione contraria "li semlu-ava tropjM assurdo per essere ammesso.
Noi siamo familiarizzati con l'uno e l'altro fatto: noi li trovijimo eguabnente
inesplicabili, ma egualmente facili ;i credore . {Lofjica, l. V. e. '. paragr.
8. Cfr. il mio S(if/f/io i." 548-."i41M. Sonc altre affermazitmi che
non possiamo jimmettere senza fare delle riserve. La concepibilit o la
inconceinbilit di determinate proposizioni, r apparente intelligibilit o
inintelligibilit di determinate successioni di fenomeni, non sono relative a
certe epoche o a certi individui, ma accom]>agnano costantemente lo spirito
umano in tutti i tempi e in tutte le condizioni. Dato il inmto di vista da cui,
in ntatto, ma 319 lutamente spiegarli ; ed essi credono riuscirvi rapportandoli
e assimilandoli ai fatti pi comuni ; quanto a questi fatti s comuni, essi non
sono affatto curiosi di conoscerne le cause, ma le ammettono puramente e
semplicemente, riguardandoli come altrettanti punti accordati e convenuti Noi
crediamo anche che niente non ha pi nociuto alla filosofia che questa
disposizione naturale che fa che le cose frequenti e familiari non hanno il
potere di svegliare e di fissare l'attenzione degli uomini, e eh' essi le
riguardano con)e di passaggio, poco curiosi di conoscerne le cause, di sorta
che vi ha molto meno spesso bisogno di eccitarli ad istruirsi di ci che essi
ignorano che a fissare la loro attenzione sulle cose conosciute (Ij. E altrove, dopo avere stabilito che il
queste nuove sequenze non cesseranno mai di sembrargli strane e incomprensibili
in se stesse e tali da esser nec(Nssario, per cer cui la scienza spiega la
caduta dei corpi pesanti, sar sempre meno familiare che la caduta del corpo
ju-imitiva: essa parr sempre; > {Dei principii e delle origini). Tra i
tilosoti contemporanei il fatto psicologico di cui parliamo stato esposto ottimatiiente anche da Clifford
( V. Lo scopo e ffli strimcnti -del lavoro scientifico in Rev. seicnt. 2. ser.
t. 8. ]). 518-51})). Oomandandosi che cosa sia spiegare un fatto, l'autore
comincia per presentare come esempio di spiega/Jone quella della legge
dell'accrescimento della pressione dei gaz proporzionalmente alla diminuzione
del volume mediante l'ipotesi che un gaz si compone d'un numeri enorme di
[)iccole molecole sempre in movimento e ui-tantisi fra di loro, (si mostra in
questa spiegazi(me che il numero degli urti d'una folla di molecole di (lucsto
genere contro le pareti del vaso in cui sono contenute, varierchbc esattamente
coiu'. si vede variare la pressio21.^-.' .^,_k.' JJ"B'X:..iJX^5^ ~ 322
Dopo il gh dett la nozione di causa efficiente ci sembra perfettamente
spiegata, e non quindi senza ne). I
fatti per cui quella le^ii^" viene spiegata sono dei fenomeni ben
familiari e della nostra esperienza giornaliera. un fatto )en noto e familiare quello d^in
corpo che urta in una supertcie e poi riml)alza: noi sappiamo per la nostra
esperienza giornaliera che quando la distanza
met minore, non bisogna al eorjK) che un tempo met minore per ritornare.
Al contrario la proj>orzione rigorosa tra la ])ressione e la densit per noi un fatto relativamente strjino e poco
familia-e. La spiegazione lu-esenta il fatto sconosciuto e poco familiare come
composto di ci che conosciuto e
familiare: e tale h, mi sembra, il vero Benso (Iella parola spiegazione .
Non sempre necessario che un f(^nonieno
sia spiegabile. Perch un fenomeno sia
suscettibile di s]>iegazione, esso deve decomporsi in elementi pi semplici
che ci siano gi familiari. Ora in primo luogo il fenomeno pu esso stesso essere
semplice, e per conseguenza indecomponi)ile; e in secondo luogo esso pu
decomporsi in elementi che siano per noi cos poco familiari e cos poco
maneggiabili che il fenomeno primitivo. una spiegazione del movimento della
luna il dire che un corpo che cade, ma
che va s i)resto ed e s lontano che cade dall'altro lato della terra, facendone
il giro invece di arrivarvi, e clic ([uesto movimento continua senza cessa. Ma
non una spiegazione il dire che un corpo
cade in virti della gravitazione. Ci vuol dire che il movimento del corpo pu
decomi)orsi nei movimenti di ciascuna delle sue molecole verso ciascuna delle
molecole della terra, con un' accelerazione in ragione inversa del quadrato
delle distanze tra loro. Ma quest'attrazione tra due molecole sar sempre, mi
sembra, meno familiare della caduta del corpo primitivo, onde all'ordine e alla
genesi delle idee, non ne , come mostreremo nel cap. 7, che una conseguenza
indiretta. Quando Stallo considera come due conseguenze d'una stessa
supposizione il principici di Spinoza die 1' ordine e la connessione delie idee
corrisiM)ndono all'ordine e alla connessione delle cose (principio che realmente il fondamento di tutta una tendenza
filosofica e non del solo sistema spinozista), e la tendenza a spiegare i fatti
poco familiari e nuovamente acquisiti alla n(stra conoscenza, assimilandoli ai
pi familiari e \m\ anticamente conosciuti, egli scam])ia una vaga anah)gin con
una identit reale. Nel princijjio di Spinoza si tratta d'un ordine logico,
d'un'an al seguito del quale accade invariabilmente e che si volirarmente la
sua causa: e di l si conclude teriorit e d'una posteriorit logica tra le idee
(l'ordine clie vi ha tra le premesse e le conclusioni), e si sui)pone che
questo stesso ordine, questa stessa anteriorit e ple; (piesta circostanza che
le parole designano originariamente delle cose o almeno deposizioni
ingannevoli (quelle che l'autore chiama
errori strutturali dell' intellig(mza). Anche noi ammettiamo che tutte le
nozioni metafisiche non sono che uno sviluppo di certi errori strutturali
dell'intelligenza: ma questi secondo noi sono dei fenomeni connaturati allo
spirito umano, dei fatti permanenti, necessari, istintivi, degli errori che
tutti aiu 326 alla necessit di rimontare pi alto, sino alle essenze e alla
costituzione intima delle cose, per trovare la mettianio o siamo inclinati ad
anunettere come delle verit evidenti per se stesse. un fatto istintivo t^uest'obbiettivazione
spontanea delle nostre sensazioni, cpiesta eostruzione di un mondo materiale
indipendente da^j^li esseri senzienti, formato di oggetti aventi grandezza,
forma, colore e tutti gli tiltri attributi che non appartengono se non alle
sensazioni stesso, mondo di cui nondimeno tutti gli uomini ammettono o hanno la
pi forte tendenza ad ammettere la realt come una verit evidente per se
stessa. un fatto istintivo ([uesta
tendenza ad assimilare le sequenze tra i fenomeni che non ci sono familiari a
q^i^^^ 1^ sono; ed ammesso o si ha una
forte tendenza ad ammettere come una verit evidente per se stessa che una delle
prime sequenze si spiega e si comprende quando
assimilata a qualcuna delle seconde e che invece inesplicibile e incomprensibile tutte le
volte che quest' assimilazione non
possibile. da questi ed altri
simili errori ammessi come verit evidenti per se stesse, da questi ed altri
simili fatti istintivi (che noi d'altronde cercheremo (li dedurre dalle leggi
generali dello spirito) che deriva tutta la metafisica ; solo cos che noi possiamo vedere in essa una
fase necessaria della evoluzione naturale del pensiero umano. Noi sentiamo
quanto sarebbe artificiale una teoria che vedesse in questo prodotto naturale
dello sviluppo del pensiero, al cui punto di partenza si trovano le illusioni
naturali di cui abbiamo parlato, una semplice conseguenza di certe opinioni
fallaci sulla funzione dei termini generali. Daltronde sarebbe impossibile di
ricondurre, se non d'una maniera troppo forzata, tutti i sistemi e tutte le
nozioni della metafisica alla supposizione
che vi ha una corrispondenza fissa tra i concetti e la loro filiazione
da una parte, e le cose e la loro dipendenza mutua dall'altra. Su questa supposizione propriamente non fondato che il sistema di Hegel e gli altri
sistemi congeneri, cio quelli che realizzano le nozioni astratte e generali, e
introducono fra di esse un incatenamento logico continuo, in modo che la genesi
o lo sviluppo della conoscenza s' identifica con la genesi o lo sviluppo delle
cose stesse. Ma siccome Stallo stato 327
causa vera, la causa che non solamente
seguita dall'effetto, ma che lo produce.
E altrove ^o unico di ntanea e popolare.
come (luando analizzando il concetto di ittateria, ch'egli riduce, come
si sa, a sensazioni e imssibiiit di sensazioni, egli pretende che nell'idea
volgare e naturale dei corpi non vi sia altro che questo. Mill certamente il pi grande rappresentante
dell'empirismo dopo Hunie: questi mette in confiitto i risultati della
rifiessione filosofica con le credenze naturali, e giunge cios allo scetticismo
; il primo nega la differenza fra gli uni e le altre. Per salvarsi dallo
scetticismo, non )8ogna negare questa difterenza, ma spiegare l'origine delle
ultime, ci che mostrer al tempo stesso che esse non lianno alcun valore
obbiettivo. IftaMflMiMtegaeKiifa-M! 329 3. Qualunque la filosofia oggi
predominante releghi esclusivamente le cause efficienti nella regione
dell'inconoscibile, e faccia cosi dell'efficienza causale ossia del rapporto
tra la causa efficiente e il suo effetto qualche cosa che differisce ^o^o
.(^e/zere da qualsiasi rapporto causale conosciuto cio da qualsiasi sequenza
tra fenomeni (ed perci che l'efficienza
causale pu sembrare un legame misterioso e indefinibile)'^ ci non pertanto un
po' di riflessione render evidente che, bench lo spirito umano, a un certo
grado dello sviluppo della nozione di efficienza causale, pervenga naturalmente
a non ammettere se non delle cause efficienti assolutamente metaempiriche, vale
a dire tali che l'esperienza non potrebbe esibirne alcun esempio ne alcun tipo,
pure la nozione stessa di queste cause metaempiriche non pu avere la sua base e
la sua radice che nelle idee delle causazioni empiriche e fenomenali che noi
conosciamo. Noi abbiamo gi osservato che la dottrina positivista sulle cause
efficienti, secondo la quale queste sarebbero reali, ma inaccessibili alla
nostra conoscenza, logicamente priva di
base e contraria ai principi fondamentali della filosofia dell'esperienza: se
l'esperienza non ci presenta ehe delle semplici sequenze invariabili, se non vi
ha alcun caso in cui noi possiamo osservare la efficienza causale o, come dice
Comte, il modo essenziale di produzione dei fenomeni, che cosa prover che,
oltre agli antecedenti delle sequenze invariabili che noi osserviamo, vi hanno
ancora delle cause efficienti V che vi ha un' efficienza causale, un modo essenziale
di produzione, distinto da una semplice sequenza invariabile di fenomeni,
che il solo rapporto causale di cui noi
abbiamo potuto costatare l'esistenza V E donde avrebbe potuto venirci la
nozione di efficienza causale o di modo essenziale di produzione distinto dal
semplree rapporto di sequenza invariabile, e quella di causa efficiente
distinta dal semplice antecedente di una tale sequenza, se non vi ha nella
nostra esperienza alcun rapporto di sequenza che ci abbia dato l'impressiono di
un'efficienza causale, alcun antecedente che ci abbia dato l'impressione di una
causa efficiente? Questa dottrina adunque lascia la nozione di causa efficiente
ing'iustificata e ingiustificabile al punto di vista ontologico, inesplicata e
inesplicabile al punto di vista psicologico, ed essa non sembra ammissibile,
che sinch si rig-uarda questa nozione come una cosa si naturale che non occorre
discuterne il valore o ricercarne l'origine ; il difficile di comprendere la necessit di una tale
discussione e di una tale ricerca, ma, compresala una volta, diviene evidente
che l'idea di causa efficiente (qualunque sia il suo valore obbiettivo) non pu
avere la sua sorgente che nell'esperienza, a meno di supporre che in questo
caso particolare lo spirito proceda eccezionalmente per un cammino diverso da
quello che egli seg-ue neir acquisizione di tutte le sue altre idee. Ne segue
che qualsiasi causa efficiente netaempirica lo spirito umano concepisca,
conoscibile o inconoscibile, per quanto si suppong-a differente dalle cause efficienti
empiriche, deve in ultima analisi modellarsi sul tipo di queste, perch la
nozione di causa efficiente non ne
orig-inariamente che una g-eneralizzazione, e j)erci i caratteri che
definiscono la nozione g-enerale di causa efficiente (caratteri che devono
ritrovarsi in tutte le forme e applicazioni particolari di essa, anche le pi
lontane dalla sua origine) non possono essere altra cosa che i caratteri comuni
alle nozioni di queste cause efficienti empiriche particolari da cui essa stata dedotta. Ora una causa efficiente
empirica non essendo che l'antecedente di una sequenza molto familiare, per
conseguenza sono le particolarit proprie alle idee delle sequenze molto
familiari che costituiscono i caratteri essenziali per cui l'idea di causa
efficiente si definisce, 331 o per cui una eausa efficiente si distingue da un
semplice antecedente di una sequenza invariabile. La prima particolarit , come
abbiamo detto, che le sequenze familiari sembrano perfettamente naturali e
comprensibili per se stesse, in altri termini che i loro antecedenti sembrano
spiegare (nel senso popolare della parola spiegazione) i loro conseguenti, o
esserne la ragion sufficiente, mentre al contrario le sequenze non familiari
sembrano strane e incomprensibili, e pare che vi sia bisogno per comprenderle
dell'intervento di un intermediario esplicativo, per cui esse possano venire
ricondotte e assimilate ad alcuna delle sequenze pi familiari. Cos il primo
carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo effetto, che distingue una
causa efficiente da un semplice antecedente di una sequenza invariabile, che la causa efficiente non si limita a esser
seguita costantemente dall'effetto, ma spiega quest'effetto o ne la ragion sufficiente, ed anche capace di servire da intermediario
esplicativo di quelle sequenze invariabili il cui antecedente non una causa efficiente, cio non spiega il suo
conseguente o non ne la ragion
sufficiente, ma ha con questo un semplice rapporto di congiunzione senza
connessioneUn altro carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo
effetto la necessit: non solo noi
sappiamo che la causa seguita dall'
effetto, ma sentiamo che essa deve esserne seguita. La necessit, come abbiamo notato,
non propriamente che una modalit dei
nostri giudizii, e non che per una sorta
di metafora che si trasporta alle cose stesse: noi diciamo un fatto necessario,
come diciamo una cosa bella o un'azione buona ; questi attributi sono relativi
al soggetto percepente e giudicante, e non avrebbero significato senza questa
relazione. Attribuendoli alle cose stesse, noi vogliamo dire semplicemente che
l'impressione del soggetto percepente e giudicante non arbitraria e ac 332 cidentale, ina che
essa costante, e che noi ci attendiamo
naturalmente da tali cose che esse devono produrre tali impressioni. Cosi il
legame necessario tra la causa e l'effetto si riduce al sentimento di necessit
che accompagna il nostro pensiero, quando noi giudichiamo che tal causa sar
seguita da tale effetto. Questa necessit, che noi sentiamo nel nostro pensiero
e che trasportiamo nelle cose stesse che ne sono l'oggetto, consiste, come
abbiamo detto, in uno stretto legame fra le nostre idee, che pu giungere sino
al punto da rendere queste idee affatto inseparabili, quando diciamo che la
necessit assoluta: nel nostro caso in
verit la necessit non assoluta, cio tale
che il contrario sia assolutamente impensabile, ma il pi alto grado di necessit che possa
trovarsi in un legame tra idee formato dall' esperienza per le leggi dell'
associazione. evidente che questo grado
di necessit deve accompagnare quelli che sono stati formati dalle sequenze pi
familiari. Noi abbiamo visto che le sequenze familiari producono delle
associazioni si forti tra le nostre idee, ehe il nostro pensiero non pu se non
con difficolt dare al fenomeno conseg'uente un antecedente diverso
dall'abituale: cosi che noi pensiamo, o
siamo naturalmente inclinati a pensare, che
necessario (e i filosofi hanno spesso dichiarato che una verit necessaria) che il movimento della
materia inanimata deve essere causato da un movimento anteriore di un' altra
materia a contatto, che la causa che fa cominciare un movimento nella materia
non pu essere che lo spirito, che 1' appropriazione di mezzi ad un fine non pu
essere che l'opera di un' intelligenza, ecc. Se la ripetizione frequente delle
esperienze pu avere la conseguenza di rendere inconcepibile il conseguente
senza l' antecedente familiare e di far sembrare necessario che esso si produca
al seguito di questo solo antecedente, a pi forte ragione potr avere quella di
333 rendere inconcepibile l'antecedente senza il conseguente familiare, e far
sembrare necessario che questo si produca al seguito di quello, poich gli
stessi effetti possono essere determinati da cause differenti, ma le stesse
cause determinano sempre gli stessi effetti. Alla necessit del rapporto tra la
causa efficiente e il suo effetto legato
un altro carattere, cio che questo rapporto sembra una conoscenza razionale,
indinpendente dall'esperienza, in una parola una conoscenza a priori. Si sa in
eft'etto che la pi parte dei filosofi vedono nella necessit di una proposizione
la prova che questa proposizione non un
risultato dell'esperienza, ma una conoscenza a priori ci che, come mostreremo
altrove, non un semplice pregiudizio
filosofico, ma una credenza naturale.Questo carattere dell'apriorit,
dell'evidenza razionale, sembra talmente proprio al nexus tra lac.iusa
efficiente e il suo effetto, che Hume e i filosofi scoz^josi hanno negato la
possibilit di conoscere le causefficieenti, perche indipendentcmiente dall'
esperienza, cio a priori, non si potrebbe prevedere che una data causa sar
seguita da un dato effetto. Ora il proprio delle sequenze familiari che esse sembrano conoscibili a priori, per
la loro evidenza intrinseca e indipendentemente dall'esperienza. Lo stesso Hume
dice: Quando si tratta di avvenimenti coi quali ci siamo familiarizzati sin
dalla nostra nascita.... noi siamo inclinati a crederci capaci di scoprire
questi effetti per il semplice uso della ragione, senza invocare il soccorso
dell' esperienza. Noi ci facciamo anche illusione sino a credere che, (quando
non facessimo che comparire a questo mondo all'ora che , noi potremmo pertanto
giudicare, al primo colpo, che una palla essendo spinta contro un' altra, la
metterebbe in movimento, e pronunciare su ci con certezza, senz' aver bisogno
d'attendere l'avvenimento. '1) E in effetto, nel Saggio 4. nBRWMMPMPIM")
834 cap. 3. abbiamo citati parecchi autori, i quali pensano la comunicazione
del movimento da un corpo ad un altro per mezzo dell'impulsione una verit a prioche si pu conoscere, come
dice Hume, per il semplice uso della
ragione, senza invocare il soccorso dell'esperienza. I sostenitori della teoria
volizionale della causazione ammettono pure che noi abbiamo immediatamente la
coscienza del potere della nostra volont a mettere in movimento le nostre
membra , e i loro avversari, come Hume e Mill , mostrano contro di essi che
questo potere si conosce come tutti gli altri fatti per l'esperienza, e non
anteriormente ad essa, come suppone la dottrina che la volont una causa efficiente.il Mill conviene
tuttavia che una credenza naturale
all'uomo che esso si conosce indipendentemente
dall'osservazione e che noi ne abbiamo direttamente coscienza come vuole la
teoria volizionale. E ciascuno, io credo, potr osservare in se stesso che veramente cosi, cio che ci sembra che la
prima volta che abbiamo voluto, avremmo potuto prevedere, anteriormente all'
esperienza, che le nostre membra avrebbero eseguito l'azione voluta, come ci
sembra che la prima volta che abbiamo visto un corpo urtarne un altro, avremmo
potuto prevedere, anteriormente all'esperienza, che il corpo urtato si sarebbe
messo in movimento. Lo stesso che dell'impulsione e del movimento volontario pu
dirsi di tutte le sequenze molto familiari: tutte quelle che hanno
un'importanza qualsiasi al punto di vista filosofico, hanno trovato dei
filosofi che, conformandosi alla tendenza spontanea del nostro spirito, hanno
negato 1' origine empirica delle proposi V. cap. 2. $ 21. Hume Saggio, Mill
Log, 1. 8. e. 5. J 9 e Filos di Hainilton e. 16. Mill Filos. di Hamilton e. 16.
trad. frauc. 351. 335 zioni corrispondenti. Cosi secondo la scuola scozzese e
altri filosofi una verit a priori, e non
una generalizzazione dell'esperienza, il principio su cui fondato l'argomento teleologico (cio che,
come abbiamo detto sopra, l'appropriazione di mezzi ad un fine non pu essere
che l'opera d'un'intelligenza, o, come dice Reid, che i segni evidenti
dell'intelligenza e del disegno nell'effetto provano un disegno e
un'intelligenza nella causa). Ci che implica che una verit a priori, e non una
generalizzazione dell'esperienza, che l'essere intelligente ha il potere di
coordinare, nel suo pensiero, dei mezzi ad un fine, e di effettuare nella
rc^alt questa coordinazione. Keid Saggi sulle facolt intellett. Sjijrjrio H. v.
6, Gnlluppi Saggio filos. t. 5. par. 61, ecc. In UH scuso, vero che una se considerato come una causa
efficiente non pu essere una scovcrta scientifica: le conoscenze di iiuest'
ordine sono anteriori alla scienza, e fanno parte del patrinuinio comune di
o.i^ni intellij;enza umana; la loro evidenza ^ una luce che illnwina ogni uomo
che cieue in questo modo. 11 poeta dice: felice chi pu conoscere le cause delle
cose ! ma non: chi pu conoscere le leggi secondo cui le cause sono legate agli
effetti. La capacit;\ di una data causa a produrre un dato effetto si
presuppone conu' meni ne seguiranno. 11 vero carattere distintivo del metodo
sperimentale che per esso le leggi di
causazione non sono un assioma, come per il metodo aprioristico e metafisico,
ma il problema che la scienza si propone di risolvere, per la sola osservazione
e senza alcuna anticipazione sull'esperienza. 337 g-ano tutti i fenomeni
assimilandoli agli atti della nostra volont, n quegli altri che vedono in
questi atti sttvssi runico tipo che abbiamo per formarci l'idea di causa
efficiente. N l'attivit interiore dello spirito sembra meno misteriosa
dell'azione dello spirito sul corpo a quelli stessi che vedono in questa
attivit l'esempio pi perspicuo di una efficienza causale, o di una connessione
tra fenomeni che (lualche cosa di pi che
una semplice congiunzione: cos il Galluppi non cessa di ripetere che il come
della nostra attivit interna un mistero,
che noi ignoriamo come si ])roducano (luesti atti dello spirito, ai \\va\\ non
pertanto egli ricorre costantemente per mostrare contro di Ilume che noi
abbiamo la conoscenza diretta di cause efficienti e di una connessione tra
fenomeni che non una simuplice
conu-innzione. Tutine (|uegli stessi tlosoti, che eonsiderano V impulsione come
una causa efficiente, e come la sola causa efficiente concepibile del movimento
(almeno tra le azioni puramente fisiche). dichiarano che il conu della
comunicazione del movimento nella collisione tra due corpi anch'esso un mistero, e che l'impulsione cos incomprensibile che (lualsiasi altro
fenomeno. Locke, p. e., dice: Uig'uardo alla co.niinicazione del movimento, per
cui un corpo perde altrettanto movimento che un altro ne ri^.yve noi non
concepiamo altra cosa per ci che un movimento che passa da un corpo ad un altro
corpo, il che , io credo, cos oscuro e cos inconcepibile che la maniera in cui
il nostro spirito mette in movimento o ferma il nostro corpo per il pensiero
>>..... E d Alembert domanda: Abbiamo forse un'idea i)i netta V. t. 1,
par. 105. t. 2, par. 77. t. 5. par. 1 t. t7. .ar. 2S. 00 3:]H -^ della virt per
la -uirebbe alla volizione; e noi ])ossiamo concepire o che la volont sia
soltanto la causa remota del movimento del corpo, agendo su questa terza cosa
la (juale, do])o aver subita quest'azione, agisca essa stessa sul cori)o e sia
la causa prossima del movimento nel qual caso sarebbe l'azione di questa terza
cosa, e non la volizione, la causa efficiente del movimento ; ovvero che la volont
concorra essa (l) k'Irn, (li f/os. XVII. 339 stessa direttamente alla
produzione del movimento, ma ' vi sia pure simultaneamente bisogno, perche esso
sia prodotto, del concorso di questa terza cosa nel (|ual caso la volont non
sarebbe nemmeno la causa efficiente del movimento, perch la causa deve
contenere tutto ciche sufficiente per
produrre l' effetto. L'affermare che un fenonunio la causa efficiente di un altro fenomeno e al
tempo stesso che noi non comprendiamo come il secondo fenomeno si |)roduca al
seguito del primo, cosi contraddittorio
come l'affermare che la sequenza tra due fenomeni si comprende da se stessa
senza bisogno d'un intermediario esplicativo, e al tempo stesso che l'uno di
questi due fenomeni non la causa
efficiente dell' altro. Conu^ esempio di (juesta seconda specie di
contraddizione ricordiamo la dottrina di Leibnitz sulla comunicazione del
movimento per rim[)ulsione: mentre egli trova la sequenza tra l'impulsione e il
movimento perfettamente naturale e intelligibile in se stessa, egli nega allo
stesso tem])o qualsiasi azione reale di un corpo su di un altro, e annnette che
il corpo che ha ricevuto l'impulso si muove per l'energia j)ropria a lui innata
(^ non perch la forza gli sia stata comunicata dal corpo impellente, .|uest'apparente
comunicazione del movimento non essendo che l'effetto di un'armonia
i)restabilita. Leibnitz non meno
incoerente, quando, dopo aver negato allo spirito l'efficacia di produrre i
movimenti d(d corpo, eleva non pertanto nel suo sistema l'azione volontaria a
si)iegazione universale delle cose, la dottrina delle monadi fondandosi
sull'idea che non vi ha altro principio attivo, altra forza motrice, che
l'anima, ed essendo (piindi una forma della spiegazione volizionale,
altrettanto che la dottrina dell'armonia prestabilita, che fa dell'azione della
divinit l'intermediario esplicativo di tutti i fenomeni. E evidente che sotto
questo riguardo nel sistema delle cause Bmsji 340 occasionali vi ha la stessa
contradrlizioiie che in ({uello deirarnionia prestabilita. E questa
contraddizione esiste al fondo nelle dottrine di tutti i filosofi che, mentre
dichiarano che l'azione della volont , come o^^iii altra forma delTazione
reci[)roca tra lo spirito e il corpo, il {)i incomprensibile dei fenomeni, se
n( servono al temj)o stesso come di spieo-azione di tutte le altro azioni della
natura. Tutte queste contraddizioni dei sistemi tilosofici non sono che le
manifestazioni di una sorta di antinomia della intellig'enza umana, per cui le
s(Mjuenz(^ che ci sono le pi familiari, ci si mostrano al tempo stesso sotto
due aspetti contrari, come le i)iii intelli\ii'ibili di tutte e come le pi
misteriose. E uno dei pi strani e nondiiiKnio d( |)i costanti fenomeni dello
spirito umano, che la scienza, mentre fa comprendere (juei fatti che nei
periodo prescienti fico sembrano i pi sorpremb^iti e incompr(Misibili, rende al
contrario sorprcMidenti e incomprensibili (quelli che nel periodo
prescientifico sia nella storia della specie che deirindividuo sembrano i j)i
naturali ed intelligibili. Noi conosciamo si bene, dice d" Aleml)ert, le
cause dell'arcobaleno, e i^'noriamo ])erch una pietra cade! Gli ecclissi, i
terretnoti, la folerch familiari, diventano incomprensibili per o-ji 8i)irivi
che hanno ricevuto grinsegnament della scienza. In verit (juesti fatti non
])erdono interamente, nel i)eriodo scientifico, la loro intelligil)ilit
i)rimitiva, le su''iamento materiale che ha luou'o nei centri nervosi e nei
ni'rvi motori mentre essi sono in funzione: ma si suj)j);me che esso consista
in un movinuMito nolecolare. Se dunijue la volont produce diretramentc (|ualche
movimento, esso non certamente il
movinn'nto voluto Ielle membra, ma un altro movimento che uou ha con (picsto
alcuna somiiilianza, ci oc un movimento molecolare in (jualche parte della
corteccia cerebrale: ora evidente, che
la volont non potrebbe sp/(\(/ar(' l'eft'etto |)iii mediato e pi lon tano. cio
il movimento delle membra che essa concepisce e vuole, se non in ijuanto essa
potesse spiegare lo effetto prossimo e immediato, cio il movimento molecolare
cht' essa non concepisce n vuole. In questa catena di tcMiomeni successivi, che
va dalla \olizione al movimento voluto, non vi ha un legame tra i due anelli
estremi, se non in (pianto gli anelli intermediari sono legati fra di loro
e> con l'uno e l'altro di questi estremi. Non si pu passare da un estremo
all' altro senza fare tutti i passi intermediari: se vi ha un sol passo che noi
non possiamo fare, non vi iia |)assaggio i)ossibile dal punto di ])artenza al
j)unto di arrivo ; se il filo della spiegazione
interrotto in un s;.l punto, non vi ha pi legame tra il primo
antecedente e il conseguente ultimo, l'uno di (juesti due fatti non pu
sj)iegare l'altro. ( )ra vi ha certamente un passo die noi non possi* no fare,
vi ha almeno un punto in cui il filo della sj)iegazione interrotto. Ammettiamo i)ure che, dato il
primo effetto tisico della volizione, cio questo cangiamento che essa
immediatanu^nte produce n(^i centri motori del cervello, tutti gli altri
fi*nomeni seguenti, sino al movimento finale delle membra, si comj)rendano
perfettamente. Ammettere ci supi)orre
primo che tutti i fenomeni puranu^ite fisici dell' azione nervosa e>
muscolare si producano meccanicancitc (ogni nziom^ tsica irriduttibile
all'azione movcnca essendo, come abbiamo visto, icotjtrPs/bile); e secondo che
le leggi secondo cui avviene l'azione meccanica, cio le leggi d(d movimen to,
non abl)iano niente d' incom[rensibile. Di jUeste due supj)Osizioni la prima
non potre])l)e provarsi, e la seconda mosti-eremo j)i gi ciie non vera. Ma noi ammettei-emo un istante queste
supposizioni, p(M mostrare la difficolt sj)eciale che c'impedisee di
comprendere l'azione volontaria. (yJiiesta difficolt consiste sovratutto ned
passaggio dalla volizione al suo effetto fisico innnediato: ci die sembra il pi
ine )mprensibih'. neir azione volontaiia
come si produca, al seu'uito dcdla volizione, (piesto cangiamento fisico
che 1' origine di tutti gli altri ; come,
avendo noi concepito e voluto un certo moviunmto, l'effigi to sia, non (piesto
movimento, ma un altro differente, che noi non abbiamo voluto n concepito.
IhiiiH' ;i,Li('l;i nuiuediatinucutc non sono i in'nil)ri stessi che devono
essci'c mossi, ma lei muscoli, lei ncix'i. dcjili spiriti animali, foi'sc artc^
del coi'[)o clic ci eravamo immediatamroposti tenza che presiedei alla totalit
di er una ((scienza intima. ' misteriosa e inintellijibilc all'ultimo ])unto?
I/anima vu(dc un certo jivvenimento: tosto se ne produce un altro atHatto
diiVercMite, e sconosciuto a noi stessi clie vojuliann. {Siujiji(t \ 1 1 parte 1). :m Ecco dunque
come il niovinieuto volontario, che ci sembra il pi evidente e naturale dei
fenomeni, sinch noi lo oniardiamo, per dir cosi, in blocco, ci diviene strano e
incomprtrJisibile se noi cerchiamo di analizzarlo. su (intesta rto tra lo spinto e il
c^n-pt in se stosso incomprensibile) si
fondava principalmente ]r;'r dimostrare che la volont non Tuia ra.iion
sufficiente del luovimento. Ascoltiamo Malebranche: Mi pare certi che la v>but de.iili sjdriti
non ' capace di muovere il lu i)iccdo c(rp( eh" vi sia al mondo:
poich evidente che non vi ha le.ixame
necessari. tra la volont che noi adiano. per esemii(. di muover.' il nostro
])raccio e il iuvimento del nostro braccio P^^i'^'^"' ^'*>"^' l^''
tremmo noi muovere il nostro l>raecio ^ IVr muoverlo biso-iia avere dejili
spiriti animali, inviaii p^^r eerti nervi verso eerti musetdi per .i-imlarli e
racciKviari: i> 'r.-li eosi che il
brai-eio cha vi attaccato si muove, o.
secondo il sentinuuiti di alcuni altri . non si sa ancora come vih si fa. E noi
vediamo che de.i^li uomini che non sanno solamente s' essi hanm de.iili
spiriti. dei nervi e dei musccdi. muovono le loro braccia, e le mu(vono anche
con pi destre/.z;i e facilit di quelli che sanno il me-iio r;niat>mia. K ia
sidamente ci che bisogiia fare p.'.r muovere uuo deUe sue dita per mezzo degli
spiriti animali. {Nir. della cerila, 1. (>. ]), il, e.:^) .Similmente Bayle
diee: Noi siaur tutti c;>uviuti che U!ii chiave mm p >fcr;'bb:^ sn'vifci
p':' ni-ut al aprire un forziere, s* noi
ignorassimo ct>m >isojrna impiegarla, e nondimeno noi ci tguriamo che la
nostra auim i la eausa emeiente del
movimento delle iu>stre braccia, quatumpie essa non sai>pia ne dove sono
i nervi che devno servire a questo movimento. n> dove bisogna i)reudere gli
spiriti animali che devono scorrere in (luesti nervi {Risposta alle quistioni
rVan provbieiale, eap. 140). Arnauld, che solitamente ammette con Malebranche V
impossi347 La sequenza tra la volizione e il movimento ci sembra naturale ed
evidente, sinch ci limitiamo a rapportare immediatamente i due fatti l'utio
all'altro, senza tener conto dei fatti intermediarii: ma ci sembra strano e
incomprensibile, quando U nostro |)ensiero sostituisce alla semplice sequenza
primitiva una serie complessa di azioni, intercalando dei nuovi termini,
sconosciuti nel ])eriodo prescientitco, o in una parola (piando il fenomeno,
che prima appariva semplice, viene decomposto nei fenomeni elementari da cui
esso risulta. Il semplice fenomeno }>rimitivamente conosciuto, cio la
sequenza immediata tra la volont e il movimento, sembra naturale e
perfe.ttametite comprensibile, perch ci
familiare: il fenomeno decomposto dalla scienza sembra strano e
incomprc^nsil)ile, perch i fenomeni parziali in cui esso si risolvo non ci sono
familiari. La spie,i>'azione scientiHca del fenomeno non niente del tutto una s/)fecj(uio)e, nel senso
popolare o metafisico della parola; mentre qu(sta riduce ci che non familiare a ci che lo , la scienza al
contrario riduce ci che familiare a ci
che n(n lo (l). >ilit d'un'azione
reale dello spirito sul corpo e del corpo sullo sidrito. mette talora in dubbio
la dottrina ihe />/o hhi ha dato alVaniiia nostra la virta reale di
detvrniaare il corso drf/li spiriti verso i maseoli delle parti del nostro
eorpo che noi lof/liamo tnuocere.
(Qualora ci si jjoti^sse dimostrare, non pi>trebb(^ farsi se non per
la ragione che l'anima m)stra non sa punto ci che bisogna fare per muovere il
nostro Ina -ci ]>er mezzo d;ina fare pei mettr' in movimento le sue
membra, i^ssa vu(l muoverle, cioi' se
noi volessinn e conce])issimo le azi(Mii intermediarie che s*interiongono tra
la volizione e il nn)vimento tinah\ Tazioiu' Vilontaria non si trovereJde cos
sorprendente e iiu'omprensibilc tv. nota antecedente): perch i perch allora
([ueste azioni intermcfliarie sarebbero assimilate alla s(unplice se1.;miio
supi>st.. clic la volont T' rcalnHM.tc nnu arnera c\w a-i l'online
d'avan/are la causa lei ni.>vinnMito
che ta passare un Ti-eno da una sta/ione ad un'altra -ma scnqu-e una causa. Ma
il fenH.eno potrel..e invntaria. inten'ssante si lo spirito ^^i='i''''^' *^'^*'
ipresi: pu darsi che il fenomeno psichic. volizione sia ess.> la causa dei
fenomeni Usici c\w rostantemente lo sc.ouim. o faccia almeno parte di [uestn
causu; n.a pu larsi invece clu' la causa sufliciente dell'ai)parizione di ero
le inc.mprensi>ilit cmiiini a tutte le azioni tsiclH'. la siiccesHuie hd
fMiMueni fisici sseiuh. cosi iiisplicahih' in iuest> caso come in tutti -li
altri; e vi sarebbe inoltre la incomprensibilit particolare al caso,
deirapimrizu.mdi certi iVimmeiii psichici al se-uito li c'rti fem.meni Hsici.
Cos la inc.mprensi)ilit particolare lell'azii.ne v(d>ntaria si risdverebbe
nella incomprensibilit di cui assiamo a parlare nel testo, cio in ciuella
dell'azione del corpo siilb. spiriti (inveoo che elh) s]irito sul corpassare
per il i-a^'imiamento da un fenomeno all'altro. I due fenomeni si producono
insiem(^ ma non sap])iamo perch: noi io-noriamo assolutamente juale sia il
leo'anie tra il fatto fisico e il fatto di coscienza di cui il primo il concomitantt^ costante, non possiamo
scoprire tra di essi alcuna connessione necessaria. . 'I\vnlall ci pr'senta [ui
un ulivo esemiu> bdla nostra teinleiiza a credere che la (MUinessione tra la
causa ch' c. l'V' poter con>scersi a iri)ri, inlipenerienza. Di \nn e-li l a
[uesta cii>sceiiza a pri>ri il 'aratt*r' ])i determiiiat li una lMluzione
l!Lj,ica: n)i veani esteriori dei nostri sensi sino ai movimenti appropriati
con cui l'or^-anismo risponde a iiiesta stimolazione, (che sono i due termini
tra cui si svol"azione tsica di (luesti fenomeni, la pi comi)leta di cui
un fenomeno tsico sia suscettibile, mostrando che la loro ])roduzione conforme a quella dei movimenti delle masse
osservabili con cui noi siamo familiarizzati. 'Sin non vi ha ncccanismn che
possa renderci pi concepibile la comparsa di (piesto epifenomeno che
accompag'na il movimento moliH-olare del cervello e dei nervi, cio il
sentimento (^ il pensiero (l. Tutte le spiegazioni dei metatsici delTazione
mutua tra lo spirito e il corpo si riducono alle ipotesi delle cause
occasionali e deirarmonia prestabilita: (pusste spiegazioni volgono in una
sorta di circolo vizioso, poich come intermediario esplicativo per far
com[)rendere il fenomeno si servono di un caso del fenomeno stesso, che
dichiarano in se incomprensibile .
Fiii.i;isim. vi'r:i. visitmKlolsi -A d deiitn), clic dei im'ZZ clic, si
spiuuono oli mii c(Hi -li nitri, e non nini .li clic sic-niv min
i>crcczinne. (Monndoloiin. I h-noineiii .h'il'nzionc imitiin trn lo spirito
"e il corpo non si prescntnvnuo ni filosofi -reci con j-li stessi
cnratteri di niisfero e (rinconcepihilitn. con f ;reci facciano difetti
1siclic. el la ]nrte che [uesti orjiani
ju'endono nei fenomeni, interponendosi tra r azione del mondo esteriore e lo
spirito, e trn (luesto e la reazione sul mondo esteriore, che rende sovrntutto
incompi-ensibili i rapiorti frn lo spirito e la materia.
J^'incoini>rensilnlitn comincia n sentirsi, e delle spieazioni c-omincinno
nd immnu;innrsi. (piando si lii
incominciato a formnrsi er esempio di ]Mmevn.no che i muscoli sono come dez;li
nnimali che i>ercepisciore a cui stanno nttnccnti, ieoare come mezzi i
rifletta, per esempio, suirinfluenza della volont sul cor.^o delle nostre idee.
Quest' influenza ci sembra dapprima, in ragione della sua familiarit, un fatto
perfettamente naturale e che non ha bisogno di spiegazione, egualmente che V
efficacia della volont per determinare i nostri movimenti: ma avviene per la
prima come i>er la seconda ; cio basta di riflettere alla sua limitazione,
perch il meccanismo e le leggi secondo cui (pu^st'influenza si esercita
diventino un problema, e noi cessiamo di trovarla cosi naturale e
comprensibilecome essa ci sembrava. Perch abbiamo noi meno autorit sui nostri
sentimenti e sulle nostre pas. sioni, che non ne abbiamo sulle nostre idee,
sebbene questa stessa sia reacchiusa in limiti strettissimi? Qual la ragione primitiva di ((uestc differenti
limitazioni? Perch quest'impero che abbiamo su noi non lo stesso in ogni tempo? perch pi grande in un uomo sano che in un uomo
malato, a digiune che dopo un gran pasto? T/effetto non di])ende qui, domanda
Hume, da un meccanismo secreto, da una struttura nascosta, sia nello s|)irito,
sia nel corpo?. Saji.iiio 7. \mi'\v Possiamo noi forse sperare che la scoperta
del meccahismo e delle leggi fondamentali che governano la successione dei
fenomeni interni, eliminer V incomprensibilit della loro produzione? Al
contrario, anche qui avviene lo stesso che per i fenomeni della nostra attivit
esteriore: ogni progresso delle conoscenze in questo senso, lungi di diminuire
T incomprensibilit, non tende che ad accrescerla. Il pi gran passo che si sia
fatto verso la sottomissione dei fenomeni psichici a delle leggi cos precise come
quelle che governano la successione dei fenomeni esteriori, certamente l'applicazione universale ai fatti
dello spirito delle leggi dell'associazione. Ora queste leggi sono lungi di
semb-arci cosi naturali e perfettamente comprensibili come i fenomeni familiari
di cui esse danno la spiegazione, come ricordarsi, ragionare, volere. Questi ci
sembrano dei fatti che si comprendono da ^ e che non hanno bisogno di essere
spiegati; lo psicologo che li analizza, riducendoli alle leggi
dell'associazione, ci sembra che spieghi il chiaro per l' oscuro. Stabilire una
connessione evidente fra certe proposizioni e certe altre noi troviamo che un fatto pi naturale che la forza che unisce
un'idea ad un'altra in ragione della loro somiglianza o della loro opposizione
o della contiguit in cui si sono trovate nella nostra esperienza passata. Noi
troviamo anche perfettamente naturale che, avendo sete, vogliamo fare i
movimenti che occorrono per prendere una bevanda e portarla alle nostre labbra:
quando il filosofo associazionista ci spiega che ci avviene perch le leggi
dell'associazione hanno stabilito delle coesioni definite tra certi sentimenti
e certe azioni o le idee di queste azioni, noi troviamo che i i)rincipii su cui
si fonda questa spiegazione sono meno comprensibili del fatto che si tratta di
spiegare. Per provare che le leggi dell'associazione ci sembrano in certo modo
arbitrarie, e certamente non cos naturali che i fenonini familiari alla cui
spieo-azione veno-ono applicate, basterebbe l'ultimo capitolo del 2. libro del
Saggio suW mtendlmeuto di Locke: in
certe bizzarrie e stravaganze dello spirito, che paragona alla folla, in certe
unioni fortuite di idee che per se
stesse non hanno assolutamciute alcuna connessione naturale, o, come ancora le
chiama, in certe combinazioni d'idee mal fondate e contrarie alla natura, che
eoli vede il prodotto delle leg-oi dell'associazione. Ciascuno del resto avr
potuto osservare che qujindo nel discorso ordinario si parla dell'associazione
delle idee, quasi sempre a proposito di
(|ueste unioni bizzarre e irreg-olari. Lo psicologo, riconducendo alle leggi
dell'associazione le connessioni i)i naturali tra i nostri pensieri, riconduce
ci che pi familiare a ci che meno familiare, e per conseguenza ci che ci
sembra perfettamente naturale e comprensibile a ci che ci sembra strano o
almeno nu'no com]n-ensibile. Forse si dubiter del* valore della teoria
associazionista come spiegazione universale dei fatti dello spirito, e io
inclino a credere che questo dubbio non sarebbe senza fondamento: ma ci non ha
importanza per la nostra tesi generale. Ammettiamo che la psicologia finir per
riconoscere l'esistenza di altri principii della 3onnessione tra i fenomeni
interni, cos primitivi che (pielli ammessi dalla teoria associazionista:
(|ualunque siano i principii elementari a cui l'analisi ridurr le operazioni
del nostro spirito, noi saremo sempre meno familiarizzati con gli elementi che
coi loro risultati pi ordinari, e le leggi precise dei fatti psichici,
qualunque esse siano, appunto perch saranno delle scoverte della scienza e non
dei dati della nostra esperienza familiare, parranno necessariamente meno
comprensibili in se stesse che le generalizzazioni empiriche che noi facciamo
spontaneamente sui pi familiari di questi fatti. Che dire quando i fenomeni
psichici si considerano, non pi in se stessi, ma nelle loro condizioni
materiali V Allora le associazioni tra le idee devono spiegarsi per le
associazioni tra le azioni nervose che sono i correlativi costanti delle idee,
e per le leggi della correlazione tra (jueste e quelle: ohscunun per obscurits
f In realt le operazioni della psiche consistono in una serie di fatti fisici,
intercalati da fatti di coscienza: sia che si aiinnetta S. Passiamo ai fenomei puramente fisici. Noi
ab])iamo visto perch alcuni tra i pi familiari di questi fenomeni diventino
incomprensibili. Abbiamo osservato che la caduta dei gravi cessa di essere
comprensibile dopo la concezione degli antipodi, e pi ancora dopo la teoria
dell'attrazione universale: abbiamo osservato pure che la coesione tra le parti
costitutive di un solido diviene un mistero dopo la dottrina dei fisici della
costituzione molecolare dei corpi, e che questo mistero si estende
necessariamente ad altre azioni fisiche che presuppongono la coesione, quali la
trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro. In questi
casi evidente che il fatto, che
immediata358 mente sembra comprensibilissimo, perch familiare, acquista un
aspetto misterioso, dopo che si
sottomesso a uno studio scientifico, perch viene ricondotto ad altri
fatti che non sono familiari. Ci resta a parlare di quello tra i fenomeni
tisici che ritenuto il i)i
intelligibile, e al quale perci si
cercato di ricondurre tutti gli altri, vale a dire del movimento
prodotto dairimpulsione, per mostrare che questo non fa eccezione alla regola,
e che anch'esso perde, esaminato alla luce della scienza, la sua intelligibilit
primitiva. I fenomeni familiari del movimento meccanico sembrano perfettamente
comprensibili in se stessi, sinch non si pensa alle precise leggi quantitative
a cui essi sono sottoposti: la
conoscenza li queste leggi che li rende misteriosi, e fa sentire il bisogno d
una spiegazione. La legge suprema che domina questi fenomeni, cio Tinvariabilit
(piantitativa della forza, il principio che la forza non si distrugge n si
crea, non una suggestione delle nostre
esperienze familiari, ma il portato di una lunga riflessione scientifica. Ne
segue che essa ci sembra misteriosa, e che tutti i fenonu^ni in cui essa trova
la sua applicazione, ci appariscono come effetti di cause sconosciute. Perch
nella collisione di due corpi l'uno acquista la stessa quantit di forza che
l'altro perde? e perch esso ritiene la forza ricevuta, in modo che, se non
fosse sottoposto all'azione di altri corpi, continuer(ibbe indefinitamente a
muoversi con la stessa energia? Evidentemente l'uno e l'altro di questi fatti
non possono essere di quelli che sembrano portare in se stessi la propria
spiegazione: perci bisognerebbe che dei rapporti quantitativi cosi precisi come
quelli che essi contengono, potessero essere delle generalizzazioni spontanee
immediatamente suggerite dalle nostre osservazioni pi familiari. Il secondo di
questi ffitti 359 anzi, lungi di essere una suggestione delle nostre
osservazioni pi familiari, loro
apparentemente contrario, perch noi vediamo ogni corpo in movimento perdere
gradualmente la sua velocit, e fermarsi infine da se stesso. Cos se i fenomeni
del movimento meccanico sono familiari, le loro leggi non lo sono. Ci basta
perch questi fenomeni, che senibrano i pi intelligibili di tutti, abbiano
nondimeno anch'essi la loro parte di incomprensibilit. Le considerazioni
precedenti ci fanno comprendere perch la nozione della /b;'.2^^ nel senso
trascendente della parola, di quest'agente misterioso, il cui dominio
sembrerebbe non dover oltrepassare le azioni fisiche che non ci sono familiari
(quali sono quelle a distanza), si sia nondimeno introdotta anche nei fenomeni
familiari dell'azione meccanica. Esse ci fanno comprendere pure perch dei
filosofi, die hanno il pi energicamente sostenuto la necessit di ricondurre
tutti i fenomeni fisici all'azione meccanica, come la sola intelligibile, quali
Cartesio, Malebranche, Leibnitz, hanno sentito tuttavia il bisogno di
sovrapporre, per dir cosi, alla loro spiegazione meccanica un cappelletto
metafisico, ci che essi non avrebbero fatto, sei principii della teoria
meccanica fossero loro sembrati perfettamente comprensibili i)er se stessi.
Queste parole di Leibnitz: Tutto si fa meccanicamente nella natura, ma i
])rincipii del meccanismo derivano da una sorgente superiore par.>le che
potrebbero servire di emblema a tutto un pi^riodo della storia della metafisica
moderna sono l'espressione di questo doppio aspetto, Tuno intelligibile e
l'altro misterioso, che i fenomeni del movimento meccanico presentano
alternativamente al nostro pensiero. La contraddizione che noi abbiamo
segnalata in Leibnitz, il quale, mentre riconosce nell'impulsione tutti i
caratteri deWa causa efficiente, nega al tempo stesso 1' azione reale tra il
corpo urtante e il m) corj)0 urtato, non dipende semplicemente da una disparit
tra i risultati ottenuti nelle speculazioni sulla cosa in se della materia i
teoria delle monadi) e quelli ottenuti a un altro punto di vista, cio nella
considerazione pura e semplice dell'incatenamento causale dei fenomeni. La
contraddizione sori*'eva gi sul terreno stesso della ricerca delle cause.
Mentre da un lato la produzione del movimento per V im})ulsione sembrava a
Leibnitz perfettamente intelligibile in se stessa (ci che un' altra ^espressione per dire che
l'impulsione la atffsa efficmite del
movimento), da un altro lato la considerazione delle leiiii'i del movimento
i>li faceva sentire il bisog'no di spiegarle, e di ricorrere perci a delle
cause metaempiriche del fenomeno. Cos la teoria delle monadi e quella connessa
dell' armonia prestabilita, quantunque nate al punto di vista della ricerca
della com in .sr, venivano a proposito per risolvere un problema nato al punto
di vista della ricerca delle cause efficeifi. fornendo delle cause pi
iiitellig-ibili, e quindi, per dir cos, pi effiriefi . che l'impulsione stessa,
la cui intellig'ibilit e, quindi, la cui cfficieiza^ si era trovata equivoca.
Concludiamo. Noi al)biamo stabilito il principio che i fenomeni familiari ci
sembrano comprendersi |)erfettamente da se stessi, mentre tutti gli altri ci
sembrano incomprensibili, a meno che non possiamo spiegarli, riconducendoli ai
primi. Ora questo priiu-ipio poteva sembrare in contraddizione col fatto che i fenomeni
stessi pi familiari, al fondo, ci sembrano anch' essi incomprensibili. Noi
abbiamo spieg'ata quest' apparente contraddizione, mostrando che (fuesti
fenomeni, intellig'ibili sinch noi li consideriamo al punto di vista volgare,
secondo le prime nozioni attinte nella nostra vita ili tutti i giorni,
diventano misteriosi alla riflessione scientifica che ce li fa vedere sotto un
aspetto nuovo -ed insolito. La riflessione scientifica produce l'effetto di m\
togliere a questi fenomeni la loro intellig'ibilit, per di cos, natia, sia
mostrando che il loro modo reale di produzione e le veri leg'g'i da cui
dipendono e-i sono ancora sconosciuti, sia, circostanza j)i importnnte,
facendoci conoscere (juesto modo di {produzione e (jueste leg'g*i, che,
sicconu'. non ci sono familiari, ci a[)pariscono perci incomprensibili d). La
scienza riconduce cos il familiare A iu'sti (bic motivi si rapjMH'tsnio
lircttaiiH'iitc alla cousiilcrazioiic h'ITiiicatciiaiiKMito causale dei
f('iu)UH'U: ma il terzo dipende dall' introduzione di certe ipotesi
metafisiche, le enza relazione, ])er la loro origine, con la arenze fenonu'nali
(come pei (\sempio n(d sistema leibnitziam d(dle monadi), allora si di(liiaia
implicitamente (du* tutto ci( (die mn con(>sciamo d(drincatenaniento caiisal(^
dei fenomeni n(ui che ap])arenza. i
lemnucni slessi jum essendo (die apparenze. e (die il modo reale d(dla
ju'oduziom: 4l(dle c(KS(^ si cela, airesperieuza. e si juii an( he ^iun.u,('re.
cou Jjcihnitz. a nejiai'c ([iialsiasi azione l'eale ti'a le cose. La concezione
metafisica d(dl(> s])irito come una sostanzff (coucezume nidi])endeute s
dalla ricerca dejle ntHsc effcivuH (he da ([lulla d(dla rosa iti si-, e di cui
a suo luo;;() spieu;h(M-emi) rori;in(,'j ha lud dominio dei f"a,tti
psi(diici lo stesso effetto c]r^ in ([indio d(ii fatti fisi(d l'idea della
rostf in si', distinta dai fenonn',ui, vale a diro essa accresci^
rinintelli^ihilit della loro ju-oduzioue. K (;vi'leute v\n'. il pr(d)Iema della
conn(^ssione tra il tisico (^ il mentale 61 C(nnplica di nuove (liffic(dt.
(lop(> (die la dottrina (hdla so_ stanza anima ha scisso l'uomo in due
(esseri, v, per dir cos, indile uomini, distinti. Allora, pei' escmi)io. il
i>otere dell' essere ai'ia362 al non familiare, o spiegando il fenomeno
familiare e ridiu-endolo ad altri fenomeni non familiari, o mostrandoci che le
leggi che reggono il fenomeno non sono familiari, quantunque il fenomeno lo
sia. Di questa maniera r apparente contraddizione al i)rincipio si risolve in
una vera conferma del principio stesso ; e possiamo ammettere come stabilito
che la ('ompremiblit o IncomprenHbilit di un fatto sono dei fenomeni
psicologici che dipendono dalla familkint o non fcunillnrlt di questo fatto ( l
). 9. Le considerazioni ]>recedenti ci offrono un dato inqjortante perla
soluzione della quistione: quale sia il valore obbiettivo di questa tendenza
naturale del nostro spirito a ricondurre i fenomeni che non ci sono iiienU' pi
iiiconipiviisibilt'. luni fosso por altro, por im'jq)plio}iziono dol iriiioipio
v\\v stabiliamo noi tosto. ]>oroln', (lualiiiuiuc siano i nostri (lo*;nii
lilosotici o rolidu/iono nooessariamonto
soonosoiuto od inconq>ronsibilo. talo ossondo l'agonto ohe li produce. o al
di l dolh condizicmi ompiriolio doi fononu'ui, e fors'anoho in luouo di osso,
stanno, come cause di questi lenomoni, la natura o lo pnqu'icit Tti una cosa
inosco.uitabile. chiaro che ci devo
intondortii della conqu-onsibilit e inoompreusibilit in un corto senso. La
]anda coniprcHdcrc ha due sensi. coiiispondenti a quelli cln . al soj^uito di
Mill, abbiamo distinto u-li altri fenomeni, ma a questo fatto quale esso ci
apparisve. secoiulo la nozione illusoria del periodo prescientifico. Noi non
assimiliamo i fenomeni ad un fatto reale, ma ad una nozione puramente
subbiettiva ed illusoria di (|Uesto fatto: non vi ha in realt assimilazione di
certi fatti delTesperienza ad altri fatti dell'esperienza, ma il risultato a
cui perveniamo manca di qualsiasi base induttiva. Ci si comprender meg'lio con
un esempio: quando Aristotile spie^ra per il Nous Tori'ine del movimento, o
juando ensiero ( la volont come causa di movimento spontaneo; ora la scienza ci
mostra che (piesta nozione falsa nel
mondo dell'esperienza, la volont non potendo creare della forza, ma solo manifestare
al di fuori quella che preesisteva i>'i latente neiroraanismo; l'azione
volontaria fleiruomo e de^*li animati, a cui la spiegazione volizionale
assimibi la produzione del movimento nelruniverso. non (lunijue l'azione volontaria (jual essa realmente, ma l'azione volontaria (jnal essa
a[)parisce all'uomo })rima d'aver ricevuto le lezioni della scienza. In
generale, noi possiamo estendere quest'osservazione^ a tutte le forme dcdla
spiegazione volizionale: quando il metafisico sj)iega, cio cerca di rendere pi
intelligibili, tutti i fenomeni della natura, assimilandoli all'azione
vob^ntaria. nel tempo stesso che eg'li dichiara che questa, quab noi la
conosciamo nel mondo dell'esperienza, il
pi incomprensibile dei fenonunii,
evidente che egli deve modellare (juest'azione volontaria metaem% pirica
sulla nozione prescientifca, e non su (|uella scientifica, dell'azione
volontaria empirica, poich nella sua
nozione scientifica che quest' azione diviene incomprensibile, e perci, nel
secondo caso, eg'li spiegherebbe il mistero per un mistero pi graiule. Quando
Hartmann, per ispieg'are il mistero del movimento volontario questo fatto,
secondo lui, sorprendente che, per muovere, per esempio, il dito, indispensabile, come mezzo d'esecuzione, 1'
azione della volont sulb radici dei nervi motori corrispondenti, mentre noi non
conosciamo u queste radici u i punti del cervello in cui si trovano ammette che
la volont cosciente, per esempio di muovere il dito, d nascita alla volont
incosciente di muovere le radici dei nervi motori che derealizzare il movimento,
accompagnata dall'idea incosciente del posto che queste radici occupano nel
cervello ; egli suppone che 1' atto di volont dell'Incosciente realizza
immediata mente il movimento che esso vuole, che tra (juest'atto di volont e
(juesto movimento non s'interpone una serie di azioni intermediarie
automatiche, non pensate ne volute, come tra il nostro proprio atto di volont e
il movimento che noi vogliamo. Senza questa su]) posizione, egli avrebbe
bisog'no d' uu altro incosciente per ispiegare la conformit tra la volizione
incosciente immaginata e il movinuuito delle radici dei nervi nu)tori che l'oggetto di questa volizione. Ma facendo
questa supposizione, qual il tipo su cui
Hartmann modella l'azione volontaria dell'Incosciente? la nostra propria azione volontaria cosciente
secondo la sua nozione prescientifca e volgare. Egli trova in se stessa
incomprensibile la nostra azione volontaria cosciente nella sua nozione
scientifica, la quale mostra che il rapporto tra la volizione e il movimento
voluta Hartmaii. FU. (k'IvlncoHeirnte non
ininiecliato, che la volizione non
per se stessa e inmiediataniente la causa sufUciente del movimento
voluto. L'azione volontaria dell'Incosciente gli sembra al contrario
|)erfettamente comprensibile per se stessa, perch egli l'immagina sul tipo
della nostra azione volontaria secondo la nozione primitiva che noi
naturalmente ce ne formiamo, la volont non essendo per se stessa causa
immediata e sufficiente del movimento voluto che secondo questa nozione di cui
la scienza ha mostrato il carattere illusorio. Perch la spiegazione volizionale
dei fenomeni sia una sjjegazioie nel senso popolare o metafisico di questa
parola che questa volont metaempirica che deve spiegare i fatti dell'esperienza
si chiami Incosciente o le si dia un altro nome qualunque, che essa si ponga
nell'anima del mondo o nell'anima dell'atomo
necessario che all'azione di questa volont si attribuiscano dei
caratteri che la nozione volgare afferma, ma che la nozione scientifica nega,
dell'azione della volont che noi conosciamo. Il metafisico che ammette la
teoria volizionale come una spiegazione della natura, deve supporre: 1.'* che
la volont metaempirica sia causa di movimento spontaneo, cio che essa basti a
produrre dal niente il movimento, mentre la scienza c'insegna che la volont
empirica non pu creare della forza, ma solo dare un'altra forma alla forza gi
preesistente; 2." che la v^olont metaempirica sia per se stessa causa
immediata e sufficiente delle azioni volute, mentre la scienza c'insegna che,
perch la volizione empirica sia seguita dal movimento voluto, indispensabile l' interposizione tra i due
fatti di una serie numerosa di azioni intermediarie, e perci il concorso di un
meccanismo appropriato; o.'* che la volont metaempirica, nella sua qualit di
semplice fatto spirituale, determini dei cangiamenti nel mondo fisico, mentre
la scienza e' insegna che la volizione empirica. -1 come fatto spirituale, non
essendo che un lato del fenomeno reale, il quale al tempo stesso psichico e fisico, noi non
abbiamo il dritto di attribuire una causazione (|ualunque nel mondo dei corpi
al semplice fenomeno psichico della volont scompagnato dai suoi concomitanti
fisici. Noi vediamo (jui come un'ipotesi metafisica o metaempirica differisca
da un'ipotesi fisica o empirica: l'ipotesi fisica pi arrischiata non
attribuisce all'agente supposto altro modo di agire che quello che l'esperienza
ha gi costatato negli agenti conosciuti sul cui ti p^ esso viene concepito.
L'ipotesi dell'etere sembra generalmente arrischiata ai logici. Le propriet di
questa sostanza ipotetica differiscono dalle propriet delle sostanze
conosciute, ma l'azione a lei attribuita per la spiegazione dei fenomeni, gli
effetti ch'essa supposta produrre, non
sono che dei casi di leggi di causazione gi costatate. L'azione motrice
attribuita a questa materia imponderabile si conforma rigorosamente alle leg'gi
del movimento gi verificate nella materia ponderabile di cui abbiamo
l'esperienza. A una causa ipotetica non si attribuisce mai la capacit di
produrre un effetto determinato, se (|uesta capacit di una tale causa di
produrre un tale effetto non
sperimentalmente dimostrata. La causazione che si suppone deve essere un
caso di una legge di causazione gi costatata; il rapporto fra la causa supposta
e 1' effetto che le si attribuisce deve essere identico ai rapporti verificati
tra la classe corrispondente di cause e la classe corrispondente di effetti. Ma
quali casi conosce il metafisico nel mondo dell' esperienza, nei (juali egli
sia sicuro che si verifichino quei rapporti di causazione ch'egli suppone tra
le sue cause ipotetiche e gli effetti che loro attribuisce? Dov' tra i fenomeni
della esperienza una volizione di cui egli possa affermare ch'essa sia
originalmente produttrice di movimento ; ch'essa sia causa nna(i8 mediata (U)\]
a propria realizzazione, senza riiitervcuro di un apparecchio oruanieo
appropriato, felieenente apprestato dalla natura: intine ch'essa basti, in
quanto sen{)lice fatto spirituale, a produrre dei cangiamenti nel mondo
corporeo V Donde sa egli dunque che la causa ipotetica capace di produrre l'effetto che le
attribuisce? Questa capacit della causa a i)rodurre l'effetto non potrebbe
invocare alcuna [)rova sperimentale in suo appoggio; il metatisico l'ammette
come una cosa affatto naturale ed evidente per se stessa. Ci perch la nozione volgare e abituale sotto cui
ci rappresentiamo le nostre azioni volontarie sup|)one nella volont empirica il
potere che il metafisico immagina nella volont metaem|)irica: la no/ione
scientifica ha corretto su questo punto la nozione volgare; ci non pertanto il
modo di causazione che (luesta attribuisce alla volont non cessa di sembrare
una cosa affatto naturale ed evidente per se stessa, anche do[)o che si riconosciuto che (|uesto modo di causazione
non il reale; le suggestioni della vita
di Qiiostn corrisiioiMh'iizn tra In volizione e l'iitto reale, die ci sembra
y\\\ fatto si naturale. rin'en(hn*ci rimo im]ulso, (^ di})ende quindi dalla
struttura appropriata, di t[uesto nuu-canismo: ora non potremmo jioi al posto
di questa struttura, che arriva a un risultato eonf (^vi?'egare il suo effetto,
al legame necessario tra questa causa e questo effetto, alla evidenza
intrinseca o conoscibilit a priori di questo legame. Noi abbiamo visto pure che
questi caratteri che distinguono un rapporto di causazione nel senso metafisico
da un semplice rapporto di causazione nel senso fisico^ si desumono dalle
differenze psicologiche per cui la nozione di una secjuenza che ci faniiliare si distingue dalla nozione di una
sequenza che non lo . Nella prima forma dell' idea di causa efficiente la
somiglianza tra una causazione efficietrte o metafsica e una sequenza molto
familiare doppia: non solo il legame tra la causa metafisica e il
suo effetto che somiglia, per i caratteri indicati, al legame tra i fenomeni
costituenti una sequenza molto familiare, ma la stessa causa metafisica concepita a somiglianza dell'antecedente di
alcuna di queste sequenze. Invece nella seconda forma dell'idea di causa
efficiente, cessa la somiglianza specifica tra questa causa e l'antecedente di
una determinata sequenza familiare, ma resta la somiglianza,' nei caratteri
indicati, del legname tra la causa e r effetto ; sicch ci che distingue allora
una causazione metafisica dalle semplici sequenze invariabili della
scienza, solamente che, mentre (jueste
ultime non si ammettono che forzati, per dir cosi, dall'esperienza, e sembrano
in se stesse incomprensibili ed arbitrarle, invece, nelle causazioni
metafsiche, il legame tra la causa e l'effetto deve essere perfettamente
comprensibile, necessario ed evidente intrinsecamente o conoscibile a priori.
Per esporre d' una maniera conveniente ci che si rapporta al soggetto di questa
seconda forma dell'idea di causazione efficiente, necessario anzitutto di formarci un'idea pi
precisa del processo mentale per cui l'uomo perviene naturalmente e quasi
irresistibilmente ad ammettere questo principio generale che ogni fatto deve
avelie una causa efficiente. Noi non possiamo ammettere, come abl)iamo detto,
che questo priucipio, esprima esso una verit o una semplice illusione, sia lur
idea innata, una necessit primitiva e inesplicabile del nostro pensiero, e
perci dobbiamo cercarne l'origine nell'esperienza, quantunque in questo caso,
come in tutti gli altri in cui si tratta di connessioni psichiche tanto intime
e fibituali che sembrano affatto naturali e non degne di attirare la curiosit
del pensatore, noi non ci dissimuliamo che far sentire il bisogno di una tale
ricerca ci sembra anche pi difficile che il dimostrare la verit del risultato
ottenuto. Una volta riconosciuta la necessit che lo spirito abbia attinto
questo principio dall'esperienza, la sua origine non pu dar luogo ad alcun
dubbio: le sole cause efficienti dell'esperienza essendo gli antecedenti delle
sequenze pi familiari, evidente che la
base empirica, induttiva, del principio generale che ogni fatto deve avere una
causa efficiente non pu trovarsi che in queste sequenze le pi familiari. La
immensa maggioranza dei fenomeni della nostra esperienza giornaliera si
riducono a dei casi di queste sequenze familiari, a cui sono propri i caratteri
psicologici indicati che distinguono un rapporto di efficienza causale da una
semplice sequenza uniforme: in altri termini, nei casi pi numerosi della nostra
esperienza quotidiana, in cui noi possiamo assegnare la causa di un fenomeno,
questa causa non soltanto un antecedente
costantemente seguito da un certo conseguente, ma un antecedente che ha col suo
conseguente quel legame mentale che dipende dalla familiarit della sequenza;
vale a dire la causa, oltre di esser costantemente seguita dall'effetto, lo
spiega, e il rapporto tra la causa e l'effetto ci sembra necessario ed
intrinsecamente evidente. Di l, per quest'impulsione che ci spinge
costantemente ad assimilare, a generalizzare, impulsione che costituisce la
base stessa dell'intelligenza, e di cui la forza cresce in ragione della
ripetizione delle esperienze conformi, accade che noi ci attendiamo con
sicurezza in tutti i casi ci che abbiamo visto nei casi pi frequenti della
nostra esperienza, cio che crediamo che ogni fenomeno deve avere, non
semplicemente un antecedente legato col conseguente da un rapporto di sequenza
uniforme, ma un antecedente che sia una causa efficiente, vale a dire una causa
che spieghi l'effetto, e che abbia con esso un rapporto necessario ed
intrinsecamente evidente. Il principio della causa efficiente dunque il risultato di una sorta di
ragionamento industivo, e il processo per cui lo spirito uniano vi perviene sostanzialmente identico a (luello per cui
esso perviene a qualsiasi altra nozione generale. :Ma non bisogna credere che
questo regionanumto, in virt del quale noi crediamo che ogni fenomeno deve
avere una causa efficiente, si faccia con rifiessione e con coscienza: in
questo caso la iostra ricerca attuale non avrebbe alcuna ragione di essere,
perch ciascuno saprebbe allora, senza bisogno d'intraprendere perci una ricerca
psicologica, per quali motivi egli ammette che oani fenomeno ha una causa
efficiente. Il ragionamento di cui parliamo
un inferenza incosciente; e in ci l'orgine del i)rincipio di causa
efficiente non ha niente di eccezionale, i)erch tutte le verit o pretese verit
assiomatiche, cio che si ammettono come evidenti per se stesse, non sono in
realt che delle conclusioni di inferenze incoscienti. -Noi prendiamo ({ui per
accordato (e crediamo di averlo dimostrato nel 1" Saggio) che gli assiomi,
le verit pretese intuitive, sono dei risultati dell'esperienza, delle
conclusioni induttive: ora evidente che,
se l'inferenza di cui un assioma la
conclusione fosse cosciente, met degli psicologi non crederebbero che non vi ha
in questo caso alcuna inferenza, e che l'assioma si conosce indipendentemente
dall' esperienza e d' una maniera intuitiva. Il significato della parola
incosciente, nel senso in cui noi l' adoperiamo, non ha 374 niente di mistico:
un'inferenza incosciente vuol dire che le premessse della inferenza non si
trovano attualmente nella nostra coscienza, na solo la conclusione: le premesse
sono le esperienze passate, ma queste agiscono a nostra insaputa nel
determinare il risultato, cio la nostra credenza all'assioma. Quando nella
dimostrazione di un teorema facciamo 1' applicazione di un assioma (ci che
avviene in tutti i passi che fa il ragionamento i, sia che noi facciamo esplicitamente
menzione dell'assioma, sia che senza pensare al principio generale, noi ci
comportiamo praticamente come se lo prendessimo per regola, l'operazione
mentale consiste nell' assimilazione del caso i)resente ai casi conosciuti
nella nostra esperienza anteriore. Il caso presente , per esempio,
l'eguaglianza di A con B e di B con C: noi assimiliamo questo caso a tutti i
casi della nostra esperienza anteriore in cui abbiamo costatato che
l'eguaglianza di due grandezze con una terza era associata con l'eo-uaolianza
delle due grandezze fra di loro, e cos ammettiamo anche in questo caso la
esistenza della stesta associazione, cio crediamo che A uguale a C. Facendo (juesta interenza, noi
non pensiamo attualmente a questi casi della nostra esperienza passata a cui il
caso presente viene assimilato; nondimeno sono essi i motivi o ^11 antecedenti
della nostra credenza che ^ essendo ecuiale a />, e li a C, A deve essere
pure eguale a C. Queste esperienze passate agiscono, per dir cos, da lontano,
nel determinare la nostra credenza (facendo astrazione d(4le modificazioni
permanenti che esse hanno potuto apportare nell'organo dell' intelligeza) ;
esse la determinano senz'aver bisogno di venire rappresentate attualmente nel
nostro pensiero, e noi non sappiamo niente della loro azione, se non in quanto
abbiamo ricevuto g' insegnamenti della psicologia. Non soltanto negli assiomi che si pu trovare
l'esempio d'inferenze, le cui premesse sono attualmente assenti dal nostro pensiero:
nella maggior parte delle inferenze che noi facciamo abitualmente il caso
presente rapidamente assimilato ai casi
della nostra esperienza passata, senza che questi casi siano attualmente
rappresentati. Le esperienze passate determinano anche allora, per una specie
di azione a distanza, il corso attuale dei nostri pensieri; ma noi non diremmo
in tutti questi casi che vi ha un'inferenza incosciente, perch se abbiano il
bisogno di addurre i motivi che giustificano la nostra credenza, noi possiamo
il pi spesso facilmente trovarli, cio riprodurre attualmente nel nostro
pensiero queste esperienze passate, che sulle prime aveano determinato il
nostro giudizio, agendo da lontano e d'una maniera latente. Vi sono per dei
casi in cui non potremmo spiegare i motivi della nostra afTermazion^', quantunque
questa ci s'imponga con la pi grande forza e con Tevidenza pi completa: in
questi casi, in cui ordinariamente diciamo che sappiamo la cosa j>er
intuizione (servendoci dello stesso termine con cui lo psicologo apriorista
denota le pretese verit evidenti per se stesse di cui egli non vuole ammettere
l'origine sperimentale), vi ha un'inferenza incosciente nello stretto senso
della parola. Quando si tratta di verit o pretese verit assiomatiche, oltre la
difficol di rintracciare gli antecedenti dell'inferenza, vi ha un altro
ostacolo che e' impedisce di far penetrare questi antecedenti nella coscienza,
ossia di rendere l'inferenza cosciente:
che noi non sentiamo alcun bisogno di cercare i motivi che giustificano
la nostra aft'ermazione. In questi casi la, fre(|U(Miza delle esperienze ha
costituito fra le nostre idee quel h'i^'ame strettissimo che d al giudizio la
forma della neccs.sitd (quantunque non una necessit assoluta). Ora (juando la
coesione tra le nostre idee giunge a (luesto grado, la Cfr. Spencer Fsieol. t.
2, 2J)8, 800, 805. 80(i, ccc, oih -consciiueuza , come StuartMill Tha ben
sog'iialato, che noi aTiiniettiaino la verit dell' affennazioiie anche
nelTasseiza di prove (e talvolta in presenza di prove contrarie), la coesione
stessa fra le idee essendo per noi una prova sufficiente. Perci, siccome noi
non sentiamo il bisogno di giustificare la nostra credenza, 1' evidenza e la
necessit con cui ci s'impone sembrandoci una prova sufficiente della sua verit,
noi non ne cerchiamo le prove sperimentali, riteniamo anzi ogni prova di
(juesta natura inutile, e ci manca quindi il motivo ordinario di portare alla
luce della coscienza gli antecedenti della nostra convinzione, cssia di rendere
l'inferenza cosciente. Cosi il sentimento di necessit che accompagna una proposizione,
e che non dipende che da un'associazione molto intima tra le nostre idee,
facendoci sembrare questa proposizione intrinsecamente evidente, ha per effetto
di farla riguardare come indipendente dall'esperienza, e quindi come anteriore
a questa, a priora, quantunque essa non sia che vuV infe'euza incosciente dalle
esperienze passate. perci che le
sequenze molto familiari, V idea delle quali, per la frequenza delle
esperienze, accompagnata dal sentimento
della necessit, ci sembrano evidenti per se stesse ed a priori ; ed perci pure che ci sembra tale il principio
che ogni fenomeno deve avere una eausa efficiente . Forse si creder di poter
evitare la necessit di ricorrere alla nozione d'inferenza incosciente per
rendere conto dell' origine dei princi])ii cos detti evidenti per se stessi,
ammettendo che la proposizione genenerale sia stata stabilita coscientemente in
un'e})oca della nostra vita intellettuale tro|)|)0 primitiva perch noi possiamo
ricordarla, e che da allora si sia impressa fortemente nella nostra memoria,
sicrh quando noi ora facciamo, ili ('tv. SiH/f/io 1, {-. [. \> Is. per
esempio, l'applicazione d'un assioma in una dimostrazione geometrica, non
occorra supporre altro che una deduzione dalla proposizione generale,
l'operazione logica di (juesta maniera essendo cosciente s nell' uno che neir
altro dei due momenti che essa percorre. Ma contro questa supposizione vi ha
j)rima di tutto da obbiettare che, quand' anche fosse vero che nel
ragionamento, qual esso si conq)ie ordinarianu*nle, noi impieghiamo
coscientemente, es[)licitamente, rassioma come proposizione generale,
bisognereb)e, per ispiegare la convinzione attuale della verit dell'assioma,
nell' assenza della rapi)resentazione delle prove su cui esso fondato, o anche lell'obblio di (jiieste
])rove, ammettere senqre che le esperienze passate agiscono a nostra insaputa
per deteriinare questo risultato. V ha di pi ;
falso che nel ragionamento, (|ual esso si produce nella sua forma
ordinaria e naturale, ^i faccia coscientemente o esplicitamente uso della
|)roposizione generale: come sosteneva giustamente Locke, e conie ciascuno pu
facilmente verificare, osservando il corso naturah dei suoi pensieri nella
dimostrazione di un teorema di geometria, noi andiamo inunediatamente dal dato
all'inferito, per esempio, dall'eguaglianza di .1 con /> e di B con C a
quella di A con C\ senza passare ])er la j)remessa generale, ])er esemj>io,
che due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra di loro; [)remessa che,
se il geometra menziona, non perch essa
costituisca un anello nel concatenamento jiaturale dei suoi pensieri, ma per
controllare questo concatenamento, per verificare se esso si prodotto regolarmente, sottomettendo ai
canoni della logica cosciente ciascun ])asso del ragionamento che in realt non
si compie che per una logica incosciente. Ogni inferenza, al fondo, come
insegna Stuart-Mill. e come abbiamo mostrato nel Saggio 1, fondandoci sulla
natura stessa del pensiero, un'inferenza
dal particolare // 878 al particolare: la proposizione generale, (luantunque
utile per assicurarsi se 1' inferenza sia rigorosa, non indispensabile, n fa parte del processo
naturale del ragionamento; diciamo di pi, il suo intervento non moditca
essenzialmente questo processo, l'inferenza, come atto mentale, non cessando di
essere dal particolare al particolare, bench, nella sua esposizione verbale,
rivesta la forma di un'induzione seguita da un sillogismo. Cosi essendo, evidende che l'inferenza non pu essere che
incosciente, quando i particolari che costituiscono le premesse del
ragionamento sono attualmente assenti dalla coscienza La nozione ({^inferenza
incosciente, quale noi r intendiamo, coincide in parte con quella di
associazione inseparabile degli psicologi inglesi. Nei casi pi spiccati, cio
tutte le volte in cui l'inferenza si fa talmente a nostra insaputa che il
filosofo stesso a prima oiunta crede che si tratti di una conoscenza intuitiva
e non d'un risultato dell'esperienza, l'inferenza incosciente costituisce ni'
associazione inseparahile (facendo per suir inseparabilit (juelle riserve di
cui abbiamo detto nel Saggio 1): in questi casi, come abbiamo osservato, il sentimento della necessit che accompagna
il giudizio, dipendente dalla coesione fortissima tra le idee, che la causa principale dell' illusione che ci fa
riguardare questo giudizio conie a priori. Dall'altro canto, la pi parte delle
associazioni inseparabili sono delle vere inferenze incoscienti. In questi casi
non bisogna attribuire il legame tra le idee al solo principio della contiguit,
ma nella produzione dell'associazione vi ha un'azione combinata di questo
principio e di quello della somiglianza. Quando noi, per esempio, ci attendiamo
dopo l'urto il movimento del corpo urtato, l'associazione tra le due idee talmente forte, che potrebbe fornire un
esempio di quella che gli associazionisti chiamano inseparabile^ (visto che il
concetto cV inseparabilit, come abbiamo 379 _ mostrato nel Saggio 1, non pu
essere che relativo, non essendovi associazioni letteralmente inseparabili \ In
questo caso anche applicabile la nozione
d'inferenza incosciente. Non sarebbe renderci esattamente conto
dell'associazione tra le due idee il dire che l'una richiama l'altra, con la
quale stata in contiguit nella nostra
esperienza; non essendovi identit tra la presente rappresentazione del
movimento del corpo urtato e le idee dei movimenti dei corpi urtati nella
nostra esperienza passata. Noi proporzioniamo a un di presso il momimento che
ci attendiamo alla massa del corpo urtato e alla massa e alla velocit del corpo
urtante: questa circostanza non potrebbe essere spiegata dal solo principio
della contiguit. La vera descrizione dell'associazione in questo caso che l'idea (la sensazione o la
rappresentazione) attuale dell'urto suscita in noi un'idea simile alle idee che
si sono trovcTte in contiguit con le idee simili ad essa, in modo che il
rapporto attualmente rappresentato tra l'urto e il movimento del corpo urtato
si assimili ai rapporti analoghi dell'esperienza passata. Ora questo essenzialmente lo stesso processo che,
portato alla luce della coscienza, si chiama un'inferenza. Il proprio delle
inferenze incoscienti , come nota il Wundt, che esse si producono con la pi
grande sicurezza e in tutti gli uomini con una unifornn't completa. Esse
sembrano tenere pi alla fisiologia che alla psicologia, l'uniformit e la
fatalit con cui questi atti si compiono, facendone rassomigliare la produzione
a quella dei fenomeni fisici. Questa uniformit e irresistibilit con cui
sogliono prodursi le inferenze incoscienti, spiegano perch la metafisica, la
quale appunto il risultato di inferenze
di (juesto genere, sia un fenomeno naturale, permanente e (juasi inevitabile
dello spirito umano. Vi ha una somiglianza gi notata da Kant fra le illusioni
naturali dei sensi che sono anch'esse il risultato di un processo d'inferenza
incosciente e questa illusione naturale delTintelligenza, cio la metafisica, se
si considera nella base comune su cui si elevano tutti i sistemi: che Tillusione non cessa di subirsi, anche
dopo che Terroneit ne stata
riconosciuta. LMncoscienza dei processi mentali che costituiscono il punto di
partenza della metafisica, spiega pure questo fatto (di cui vedremo in se^-uito
dei notevoli esempi), che sj)esso un metafisico, non avendo chiaramente
coscienza dei motivi reali della sua convinzione, d come prove uniche delle sue
ipotesi dei sofismi artificiali, che evidentemente non possono sembrare
probanti che a chi disposto o'i, per
altre ragioni, ad ammettere la verit della tesi che si tratta d provare. Noi ci
attenderemmo, per esem[io, che un'ipotesi, destinata a soddisfare il bisogno
che ha il nostro spirito di cauHe efficieti, dovrebbe essere stabilita cercando
di dimostrare che essa la sola che possa
introdurre nelle cose queste connessioni vecessarie, inteUlgibHi, hit rh
cecamente eriilefi. che noi supponiamo tra le cause efficienti e i loro
eftVtti. Tali sono, come mostreremo, le ipotesi di Platone e di Hegel: ma ne
l'uno ne l'altro mostrano di aver coscienza di (|uesto fatto, che la base e la
radice dei loro sistemi il concetto di
causazione efficiente, coi caratteri determinati che distinguono (piesta da una
causazione ordinaria. Oggi che la dottrina di Platone non ha per noi che un
interesse storico, potendo senza alcuna preoccupazione giudicare il valore
degli argomenti su cui egli la fondava, abbiamo motivo di sor])reiiderci come
una si alta intelligenza abbia potuto ammetrere dei paradossi tanto strani su
delle prove altrettanto deboli. Ma la sorpresa cessa se pensiamo che (jiiesta
dottrina, piuttosto che una conclusione di queste prove, il risultato d'un processo d'inferenza, in
])arte almeno se non in tutto, incosciente. Riflettendo 381 a questa
incoscienza dei processi mentali da cui risultano i concetti metafisici, e nel
tempo stesso a questa verit logica che l'inferenza dal particolare al particolare, ci rendiamo
anche perfettamente conto della difficolt di trovare nella storia della
filosofia una definizione precisa di certi principii, che sono tuttavia i pi
essenziali e fondamentali per ogni metafisica, (jual appunto quello delle cause
efiicienti. llume stesso trova la nozione di efficienza causale cosi
indefinibile che dice: noi non sappiamo
nemmeno ci che desideriamo di conoscere quando ci sforziamo di concepirla (l).
Il fatto che il metafisico, per fare
un'applicazione normale di questo principio, cio conforme alle esigenze
naturali del nostro spirito, non ha bisogno di averlo mai formulato nettamente;
egli non ha nemmeno bisogno di averlo mai formulato come proposizione generale,
come il geometra, per fare una buona dimostrazione, non ha bisogno di aver mai
formulati gli assiomi che si trovano in testa degli Elementi di Euclide.
Nell'applicazione del principio di causalit efficiente, come in quella di un
assioma matematico, non vi ha (considerando ci che indispensabile air operazione) che
un'assimilazione incosciente di tutti i casi che attualmente si presentano, ai
casi dell'esperienza passata che costituirebbero la base induttiva del
principio generale, se si desse all'operazione la forma cosciente e riflessa
della logica. Per quanto spetta al principio di causalit efficiente, si tratta
dell'assimilazione, talvolta alquantovaga, ma sempre la pi ii'rande possibile
che sia permessa dalle particolari condizioni intellettuali dell'epoca e
dell'individuo, di tutti i casi che si offrono airintelligenza, ai casi
sperimentati di sequenze molto familiari, perch sono queste che costituirebbero
la base induttiva Huiiu' DelVidea di potere o legame neeessario, li ]art*^ del
principio, se esso fosse stabilito per un'operazione loo-ica cosciente e
riflessa. S'intende che questi casi dell'esperienza passf^ta non sono presenti
al pensiero, ne necessario aver
coscienza deirassirajlazione: semplicemente l'intellig-enza prova una
soddisfazione pi grande, come se fosse inondata da una luce magg-iore,
concependo le cose in ({uel modo, che pi le assimila a queste esperienze che
costituiscono la base dell inferenza incosciente. Non sorprendente, anzi necessario, che l'operazione nu^ntale del
metafisico sia pi o meno incosciente : ci
perch quest'operazione, quantunque conforme alle tendenze naturali
dell'intellig-enza, non adempie le condizioni di un'inferenza legittima;
difetto che diverebbe chiaro se l'inferenza si rendesse perfettamente
cosciente, nel qual caso non vi sarebbe pi metafisica. Questo appunto l'oggetto del presente Saggio:
rischiarare della luce della coscienza questa logica, o piuttosto questa
sofistica, naturale incosciente, di cui le concezioni della metafisica sono il
risultato. Ci che per noi ha un doppio interesse: prima di comprendere il come,
le leggi della produzione di quest'ordine di fenomeni, s importanti tanto per
lo psicologo che per lo storico-, e poi di poter giudicare il valore delle
inferenze incoscienti della metafisica, dopo averle trasformate in inferenze
coscienti, alla stregua della logica ordinaria, e vedere cos se le concezioni a
cui esse conducono, hanno un fondamento reale o pure ne mancano. 11. Il
principio che ogni fatto deve avere una causa efficiente dunque il simbolo verbale di una regola a cui
lo spirito si conforma in quest'operazione irriflessa di assimilare, pi che pu,
tutti i casi che si oftVono nuovamente alla sua attenzione, ai casi pi
frequenti della sua esperienza passata, in cui ha visto i fenomeni di cui ha
conosciuto il modo di produzione, non solo seguire un antecedente determinato,
ma un antecedente tra il quale e il fenomeno che lo segue vi stata questa connessione mentale costituita
dalla familiarit della sequenza, che noi indichiamo coi termini: capacit della
causa a spiegare l'effetto (o intelligibilit del nesso tra la causa e
l'efl'etto), necessit di questo nesso, sua evidenza intrinseca ~ della stessa
maniera che il principio che ogni fenomeno deve avere una causa fsica, cioun
antecedente determinato, il simbolo
verbale di una regola a cui lo spirito si conforma nella sua operazione
abitualmente pure irriflessa, quantunque la coscienza non abbia difficolt a
rendersene conto, di. assimilare tutti i casi che si offrono nuovamente alla
sua attenzione, ai casi della sua esperienza passata, pi numerosi che quelli di
cui sopra, e non mai contradetti da osservazioni contrarie, in cui ha
conosciuto i fenomeni seguire costantemente degli antecedenti determinati. Da
una parte e dall'altra, la base dell'operazione
ugualmente nell'esperienza, l'inferenza
ugualmente dal particolare al particolare, ed essa si tira con un'eguale
spontaneit, senza averne attualmente la coscienza. Non })isogna per supporre
che il principio della causalit efficiente e quello della causalit fisica o
semplice sequenza invariabile siano dall'origine dueprincipii distinti:
all'origine lo spirito non concepisce altre cause che efficienti; la nozione
della uniformit nelle sequenze dei fenomeni, distinta da quella di un nexus di
efficienza causale fra di essi, non che
un prodotto della cultura scientifica.
la scienza che mostra, contro le nostre prime aspettative, l'esistenza
tra i fenomeni di legami di causazione che non
efficiente, Epicuro si mostra s poco capace di concepire una causa che
non sia efficiente, che, non potendo trovare una causa efficiente della
deviazione degli atomi dalla verticale nella loro caduta nel vuoto, deviazione
che u'iudica indispensabile per rendere conto dei fenomeni, egli l'attribuisce
puramente e semplicemente all'azzardo: egli:w4 non erede eh. .ia sotto.nessa a
qualche legge a qualhe ^Vuifonnit, una uniforn,it nella sequenza degh avveni
enti, che non fosse stata al ten.po stesso xvna cau. io tk-iento, non avendo
per lui alcun valore per telliKenza dei fenon.eni. Anche '^"uahuc^U
nozione che lo spirito si torn.a spontaneamente della cau sifone . cos
esclusivan^ente quella della causaz.one eftd^ e che Con.te, per indicare che
noi non conoscuvn.o 'e:^; efficienti/ma solo quelle che la scuola scozIL chiama
cause tisiche, bandisce la Pa-l non
vuol parlare che di leggi dei fenon.en, E no, ^h ; ..o "i visto, trattando
dei nuotivi della teoria .^clX che i tsici non sogliono riserbare il non.e d.
cau.a c/(,rt.in(. 1 11 officiente,
rifiutandosi che aUimpulsione, cio alla causa cfficeme, H uiicarlo aoli altri
antecedenti dei movimenti della ma ' ; ' .o^sono,.s.er/c/e.-. Platone la
raccontare tso;rate i el Fedone che, ardendo nellasua giovinezza del de^i le o
i conoscere le cause per cui i fenomeni si produno erava di soddisfarlo con lo
studio della stona deU. T n ma che
so4dis.x il e siderio innato di conoscere Ze cause? ma quale ueiu ore:
la scienza gli mostra gli antececleuti a cu, i fenonieni se-uono costantemente,
ma non le cau^e erji Si questi fenomeni-, di pi quei fenomem stessi, dt euf o.
credeva di conoscere gi le cause etficienti o " h o stesso, di comprenderli perfettamente, gheh
Phaeiio V^l (' s^j^. 885 presenta sotto un nuovo aspetto che ^^lieli fa
sombraro incomprensibili. Invece delle cause efficienti che si attendeva a
trovare da per tutto, non trova da per tutto che semplici antecedenti di
sequenze invariabili. Un'altra prova dalla nostra affermazione che la nozione
di una uniformit nelle sequenze dei fenomeni non che un'acquisizione della coltura, e non,
come il principio di causalit efficiente, un prodotto delle tendenze spontanee
e cieche dello spirito, la abbiamo in (luesto fatto, che vi hanno dei filosofi
aprioristi, come per esempio Galluppi , che, mentre dichiarano il principio di
causalit efficiente uia verit necessaria e a priori, ammettono invece che il
principio della costanza delle lei:\a'i della natura, cio, al fondo, della
causalit che la scuola scozzese chiama tsica,
una verit contingente e sperimentale. Noi sappiamo infatti che il nostro
spirito non ha alcuna disposizione a negare l'origine sperimentale di quelle
nozioni che Bacone chiama Interpretazioni della natura, ma solo di (pielle che
egli chiama anticipazioni della natura, cio di queste induzioni spontaneamente
formate, di cui lo si)irito gi
equipaggiato ({uando comincia a rivolgere la sua attenzione riflessa sui
fenomeni, e che portato ad estendere
ciecamente a tutto ci che egli incontra.
facile di coinprendere perch le sole cause che noi ci attendiamo all'
origine siano le efficienti; che, oltre
che le seijuenze familiari, le quali, come abbiamo visto, formano la base
induttiva del principio di causalit efficiente, sono di gran lunga i pi
frequenti tra i casi di causazione della nostra esperienza, queste causazioni
sono .ancora le prime conosciute, le sole che noi conosciamo sino ad una certa
epoca del nostro sviluppo intellettuale; la frequenza con cui i fenomeni
relativi ci colpiscono e la facilit di j)erce V. JSa(/(/io filosof. 1. 1. e. 4,
1. t. e. s. ]Kirji:^r. ss. 25 38H pirne Ih eounessionc dando loro
infallibilmente il primo liio^'o nell'ordine sueces.sivo in cui le varie
le^'g'i di caiusazione vengono conosciute (T. Prendiamo quest'occasione per
osservare quanto sia inevitabile che le nostre esperienze determinino in noi la
credenza dell'applicabilit universale del principio di causabilit effdente.
Essa si deve, come abbiamo detto, alla frequenza dei casi di causazione
efficiente (cio di uniformit di sequenza, aventi, in rapporto alla nostra
conoscenza, questi caratteri psicoloo'iei |)articolari risultanti dalla
familiarit dei fenomeni) che abbiamo conosciuti nella nostra esperienza,
frequenza che assai pi grande che quella
dei casi di causazione non efficledo. Ora notiamo che, per farci una giusta
idea di questa frequenza comparativa, noi dobbiamo tener conto, oltre che
dell'epoca presente della nostra vita, di . in ^erme. ne.^li animali superiori.
Cos per esempio quella ad assimilare tutte le causjrzioni a [uelle che ci sono
j>i familiari, che comprenile i processi di formazioni' di tutti i sistemi
relativi alle cause ethcienti. dai pii naturali e facili ad intendere, quali
l'antropcMnortismo orossolano o la spiegazione meccanica universale dei
fenomeni tisici, ai pi astrusi e artiliciosi, (inali la dottrina delle Idee di
Platone o piella di lle.ocl. \(i non discuteremo sulla probabilit deiropinione
emessa da Comte che lili animali superi i selva,;.iii ad imna animati da
essenze spirituali o vitali, ha tors^ un esenq)ic in un fatterello che iMdei
osservare una volta: il mio cane, animale bene svilui>[ato e molto
sensitive, stava sdraiato sul terreno durante una calda e trauipiilla -iornata:
ma poco lun-i da esso una lieve brezzolina faceva muovere un ombrello aperto,
al ipiale il cune non avrebbe certo badato, se rescnza di lualclie (estraneo
algente vivo, e che nessun estraneo aveva liritto ludl'altro lo stesso ]>rinci])i. cio che
rjinima la s(da causa proi neirinferenza sottinteso, neirun caso e nelTiiltro,
quest'altro princi[>io. c1jssa spiegarsi mat a [uesto punto ld nostro lavoro.
Il cane inetufisico di Darwin non *ra capace li fan* \spli sup})ost lalla sua
>n(dusi>nc. e Darwin ha rauione li dichiaran (die il ragi>nam'nt>
na fatt> Jn un molo ineonsa]>evole; ma noi abbiamo gi visto du' le
c>n(dusiuii bdla metafsica risultano la inf'r'nze in li bdnire l'utniio utt
nnhtHtlr nu'fttfsiro, s' egli intende ierci" attril>uir^ all'
intelligenza bdl' uoim una fa-(dt speciale: la fac>lt in e tu fi sica
pu"> an(die rintracdarsi neirintelligenza d(d )rutK iM>tendo essa
definirsi: la tacdt li fan^ inc>scientemente Ielle inferMize MHiforim^mente
a MU'te regde. he smio naturali e nnifoi'mi per tutti, ma h' innlimen> son> contrarie alla
I);!:ica 389 sica o semplice uniformit di sequejiza non siano all'orig'ine due
principii distinti, na non vi sia primitivamente che un'idea unica della
causazione, vi ha neirevoluzione dei concetti filosofici una differenziazione
o-raduale di quest'idea primitiva, che arriva infine a un completo distacco fra
la nozione di causazione efficiente e quella di uniformit di sequenza, per cui
ogni uniformit di sequenza cessa di essere una causazione efficiente, e ogni
causazione efficiente cessa di essere unauniformitdiseciuenza. Ci avviene per
le modificazioni proo-ressive che da un canto la scienza, e dall'altro la metafisica,
apportano all'idea originale di causazione. Dal suo canto, la scienza scopre
sempre di pi, contrariamente alle prime aspettative dello spirito, dei rapporti
di causazione che non efficiente, e
mostra infine i fenomeni che ci avevano dato l'idea di causazione efficiente,
sotto un aspetto nuovo che non ci fa sembrare pi i loro rapporti di sequenza
come delle causazioni efficienti; sicch il risultato ultimo che tra i fenomeni non si trovano mai dei
rapporti di causazione efficiente. Dal suo canto, la metafisica disfenontcuzza,
se mi lecito di dir cosi,
])rogressivamente le cause efficieifi. Per questo processo essa arriva infine a
concepire delle cause che non sono sottoposte alla condizione del tempo, e tra
cui e gli effetti non pu esservi (juindi un vero rapporto di sequenza uniforme:
il processo va anche s lungi che, come vedremo in seguito, alla sequenza
cronologica tra la causa e l'effetto si sostituisce una senplice anteriorit e
posteriorit logica, o, come si dice, di natura. E mentre in quella, che abbiamo
chiamato la prima forma dell'idea di causazione efficiente, la causa
metafisica, se non un fenomeno, almeno modellata sulle cause fenomenali;
nella seconda forma invece, il nexus
causale semplicemente che viene modellato sulle causazioni fenomenali
(s'intende, sulle pi familiari), male Bsasss 390 cause ultrafenomenali che e si
suppongono, non hanno pi, come vedremo, la minima anoloo-ia coi fenomeni. Noi
possiamo dunque enunciare l'ultima fase a cui arriva naturalmente la
differenzazione progressiva tra causazione efficiente e uniformit di sequenza,
della maniera che segue: tra gli antecedenti delle sequenze invariabili dei
fenomeni e i loro conseguenti non si trova mai una connessione tale che la
causa spieghi V effetto^ e che si veda la necessit e la evidenza intrinseca del
rapporto tra la causa e T effetto ; e dall'altra parte le cause efficienti^ cio
le supposte cause che possono spiegare gli efl'etti, e tra le quali e gli
effetti si immagina un legame necessario ed intrinsecamente evidente, non sono
mai deg-li antecedenti fenomenali n somigliano ad alcun ogg-etto fenomenale. Ma
questo completo distacco delle due nozioii della causazione, risultante da una
lunga evoluzione del pensiero, non deve far dimenticare che esse derivano da
uno stesso tronco, e che la loro base originale comune nelle sequenze i)i familiari della nostra
esperienza. All'origine non vi era che un'idea unica di causazione, che riuniva
in s i caratteri ora divisi tra le due idee di causazione fisica o uniformitf
di sequenza e di causazione efficiente o metafisica: la causa primitiva era
un'antecedente fenomenale, come la causa nel senso di Mill e delle scienze
positive, ma al tempo stesso poteva spiegare l'effetto e aveva con esso un
rapporto necessario ed evidente intrinsecamente, come le cause ultrafenomenali
dei metafisici. Entrando a parlare i)articolarmente dei concetti che si
rapportano alla seconda forma della nozione di causalii efficiente, dobbiamo
cominciare per la dottrina che ammette, al di l delle seciuenze uniformi tra i
fenonuMii, delle cause efficienti sconosciute e inconoscibili. E in'effetto,
dopo che si riconosciuta limpossibilit
di soddisfare il bisogno che ha l'intelligenza di cause efficienti,
conformemente alla tendenza spontanea dello spirito di assimilare tutti i
fenomeai a quelli che ci sono i pi familiari, la forma pi naturale che prende
la nostra credenza nell'esistenza di queste cause, di relegarle nella regione
dell'inconoscibile. Quantunque l'ipotesi di cause efficienti conoscibili possa
coesistere con quella di cause efficienti inconoscibili, in altri termini,
quantunque sia possibile di supporre che, mentre alcuni fenomeni sono
spiegabili i)er cause efficienti fenomenali o concepite sul tipo di queste,
altri fenomeni invece sono inesplicabili e dovuti a cause efficienti
metaempiriche e inconoscibili ; la forma pi coerenti^ che prende la
supposizione di cause efficienti inconoscibili
la dottrina, prevalente nella filosofia contemporanea, SSb! 31)2 che non
ci u ci sar inai possibile in alcun caso
di asseonare la causa efficiente di un sol fenomeno, e che tutti^ i fenomeni
sono dovuti a cause efttcienti che non cadono n potranno mai cadere sotto le
prese della nostra conoscenza. La dottrina non si limita ad ammettere che,
nelle condizioni attuali delle conoscenze umane, le caiiU efficienti dei
fenomeni sono sconosciute, ma essa aWriiia che, per la natura stessa della
nostra conoscenza, (jueste cause sarann( sempre sconosciute, e che, quand'anche
la scienza pervenisse, in un lontano avvenire, a dan^ di tutti i fenomeni la
sola spie^-azione a cui essa pu* aspirare, cio a conoscere le leo^-i primitive
della loro successione, e a mostrare in dettaolio come ciascun fenomeno accade
in conformitcY di (|ueste leggi, anche allora noi jo-uorerennno le cause
produttrici dei fenomeni, (iueste leo-i primitive a cui tutti i fenomeni
potranno ricondursi non potendo far conosce che gli antecedenti di sequenze
invarial)ili e incondizionali, ma non mai le vere cause, cio le cause
efficienti. E questo il credo della pi parte dei filosofi e de-li scienziati
contemporanei, che in un congresso scientifico
stato formulato col celebre motto: [giwmmus et giiorabimm. Il
>rincipio su cui si basa la dottrina delle cause efficienti inconoscibili che una causa fisica, l'antecedente di una
sequenza invariabile tra fenomeni, non
mai una vera causa cio efficiente, e ci perch la causa, se seguita costantemente daireffetto, non pu per
si>Pqaio[^\\e\ senso popolare e metafsico della parola spiegazione) e non vi
ha tra la causa e l'effetto un legame 7ieces.s-or/o n evidente intrinsecamente.
Di l se ne inferisce che i fenomeni hanno delle cause efficienti
ultrafenomenali inconoscibili. K evidente che il presupposto di questo
ragionamento che ogni fenomeno deve
avere una causa efficiente cio una causa che possa spiegare l'effetto e tra la
quale e l'effetto vi sia un legame necessario 398 ed intrinsecanente evidente e
non semplicemente una causa fisica, cio un semplic(^. antecedente a cui il
fenomeno segue invariabilmente. La dottrina ammette perci che la chiusa
efficiente di ciascun fenomeno, quantumiuc^ sia sconosciuta, tale per che, se essa fosse conosciuta,
spiegherebbe l'effetto, e si vedrebbe che essa ha con l'effetto un legame
necessario (m intrinsecamente evidente. E cos che''(iaesta dottrina si rapporta
a ciucila che ai)biamo chiamato la seconda forma della nozicme di causazione
etlficiente: non sono infatti le cause supposte che vengono foggiate sul tipo
delle cause pi familiari, na il nexus
che si suppone tra (iueste cause e i loro effetti che viene foggiato sul tipo
del nexus dc^Ui^ causazioni pi familiari. ^ L'attermazione che noi non
conosciamo le cause efficienti dei fenomeni o, come dice Comte, il loro modo
essenziale di produzione, legata con un'
altra, cio che noi non conosciamo l'essenza o la natura intiiia delle cose. L'
essenza o la natura intima delle cose e riouardata come un che di sconosciuto
in esse che, se noi lo conoscessimo, ci spiegherebbe tutti i fenomeni che esse
ci presentano. Si snpi)one che se la successione deali avvenimenti non ci
mostra tra loro questa connessio'iie necessaria, intelligibile, intrinsicamente
evidente, che noi immaginiamo dover esistere tra le cause e oli effetti, perch noi non conosciamo delle cose che
alcune propriet e avvenimenti staccati; mentre se conoscessimo la realt d'una
maniera ade(|Uata, noi potremmo indovinare, dalla seiiplice vista della
costituzione o natura delle cose, la loro maniera di agire e di patire in tutte
le differenti circostanze, e allora noi sapremmo, non solamente che. ma perch a
certe cause sea-uirebbero certi eftetti, e le successioni costanti degli 1)
CiV. Mill. Fios. (li Hamilton tiad. fniiic. p. 1:5. -as 394 avvenimenti non
sarebbero pi incomjirensibili, come sono attualmente per la limitazione delle
nostre conoscenze. Cosi questa proposizione che noi non conosciamo l'essenza
delle cose, non che un'espressione
diversa, ma al fondo equivalente, dell'altra proposizione che noi non
conosciamo le cause efficienti dei fenomeni. Si ammette, vero, che sono tutte le propriet delle cose
che derivano dalla loro essenza, e che potrebbero esserne spieo-ate: ma le
propriet dei corpi sono, sovratutto nella scienza moderna, le potenze che essi
hanno di esercitare qualche azione sovra altri corpi, o di subire qualche passione
da parte di altri corpi. Per consequenza, la principale supposizione, implicata
nella proposizione che noi non conosciamo l'essenza delle cose, che le maniere di agire e di patire dei
corpi, cio al fondo tutte le legg-i di causazione, attualmente per noi
inesplicabili, noi potremmo spiegarle, se potessimo conoscere queste supposte
propriet sconosciute che costituiscono l'essenza dei corpi '1). La nostra
pretesa ignoranza dell'essenza delle cose non essendo dunc^ue altro, al fondo,
che la nostra [)retesa ignoranza delle cause efficienti, ne segue che, se 1'
idea di causa efficiente non ha valore obbiettivo, e se, quindi, spiegare un
fatto vuol dire seniplicemente mostrare come esso si conforma alle leggi
generali delle sequenze dei fenomeni, e non assegnargli delle cause che abbiano
con l'effetto una connessione necesHarla e che ci sembri comprensibile e
intrinsecamente evidente; noi dobbiamo affermare che conoscieamo, o almeno che
siamo capaci di conoscere, l'essenza delle cose, perch l'essenza d'una cosa non
pu essere altro che l'insieme dei suoi attributi, e tranne il mistero che ci
sembra trovare nelle leggi dei fenomeni, niente ci indica che al di l degli
attributi conoscibili di ciascuna cosa, ve Cfr. Apj). al e. t). ne hanno altri
pi fondamentali da cui essi derivano, e che sarainio per sempre
inconoscibili. vero per che quando si
dice che noi non conosciamo l'essenza delle cose, questa proposizione implica,
oltre la pretesa ignoranza in cui siamo delle, cause efficienti o del modo
reale di produzione dei fenomeni, la mancanza di una vera realt in quegli
attributi delle cose che noi conosciamo. La dottrina della inconoscibilit della
essenza delle cose, o, come si dice in altri termini, della relativit della
nostra conoscenza, viene presa in due sensi: alcuni di quelli che sostengono
questa dottrina la prendono semplicemente nel senso che si rapporta alla
pretesa inconoscibilit delle cause efficienti ; altri la intendono in un senso
pi comprensivo, ammettendo, non solo che noi non conosciamo le cause
efficienti, ma ancora che tutto ci che noi conosciamo delle cose non che relativo al nostro modo di percepirle, e
che qualsiasi attributo delle cose in se stesse ci assolutamente sconosciuto. Noi possiamo
aggiungere infine che oltre alla impossibilit di conoscere le cause efficienti
e alla relativit delle nostre percezioni, vi ha anche un terzo fondamento della
dottrina delTinconoscibile: che lo
spirito umano, quando vuol formarsi una concezione coerente delle cose, sembra
incontrare certe alternative di proposizioni contraddittorie, di cui 1' una o
l'altra dovrebbe essere vera, ma di cui non si pu ammettere n runa n l'altra,
essendo egualmente, come si dice, inconcepibili. Le sorgenti della dottrina
dell'inconoscibile sono quelle stesse della metafsica in generale; dapertutto l
dove la metafisica dogmatica trova un essere metaempirico con attributi
determinati, l'agnosticismo contemporaneo trova invece l'Inconoscibile. I tre
fondamenti della dottrina dell'inconoscibile, corrispondenti alle tre sorgenti principali
della metafisica (almeno nel senso 89() pi stretto di questa parola), non
possono essere trattati che in parte distinte di questo Saggio: dei due ultimi
partiremo nella 2^' parte perch, come Kant ha compreso perfettaiieate, la
quistione delle antinomie dipende da quella della cosa in sh ; in questa non
possiamo occuparci che del primo, cio quello che si riferisce all'idea di causa
efficiente. E if\(/are l'effetto, e tra la (juale e l'effetto vi sia. \\u
(^ii'ame evidente per se stesso. Siccome questi intermediari csj)licativi.
c[ueste cause efficienti, non ci sono mai mostrate dalla scienza, egli ne
conclude la limitazione ch^Ila nostra Incolta conoscitiva e 1' esisteiza di
qualche cosa al di l dei limiti del conoscibile. E chinro cos che ruio dei
fondaiuciiii della teoria dell'inconoscibile , anche in Spencer, il princi|)io
di causalit efficiente. ^ 4. Ora (jual
la solidit di ([uesto fondamento? Sarebbe
iiiutih' di dimostrare contro i teorici dell'inconoscibile che il principio di
causalit efficiente non pu essere provato dall' esperienza, perch ci che essi ammettono implicitamente, quando
affermano che nessuna causazione dell'c^sperienza, nessuna sequenza tra
fenomeni, una causazione efficiente.
Forse si dir che se questo principio non pu esso stesso stabilirsi
induttivamente, pu forse dedursi da qualche principio pi generale, capace di
essere stabilito induttivamente. Ma il princi[)io di causazione essendo la legge
pi universale debile sequenze tra i fatti, (piesto principio pi generale
dovrebbe essere una uniformit che abbracciasse, insieme alle sequenze, tutti
gli altri rapporti trai fatti. Sar dunque il ])rincipio che ogni rapporto
costante tra i fatti fcononosciuto nella sua natura reale) deve essere 401
intelligibile, necessario ed evidente intrinsecamente, (come quello tra la
causa e l'effetto j. E nel fatto, come vedremo nell'Appendice al capitolo
seguente, ([uesto il presupposto
generale implicitamente ammesso dalla metafsica. Ora anche questo principio j)i
generale, di cui quello di causalit efficiente non sarebbe che un caso, impossibile, secondo il teorico
dell'inconoscibile, di provarlo per V esperienza, perch quando egli afferma che
non conosciamo Vessenza delle cose, egli suppone che la conoscenza di questa
essenza sarebbe la sola che potrebbe spiegare^ non solo le sequenze costanti,
ma tutti i rapporti costanti tra i fatti dell' esperienza (per esempio la
coesistenza uniforme delle propriet nelle diff'erenti classi delle cose). Egli
ammette quindi che tutti i rapporti costanti dell' esperienza (tranne forse
quelli che formano l'oggetto delle matematiche pure), e non le sole causazioni,
sono egualmente misteriosi, e non ci mostrano questi veri legami, analoghi a
quello di causazione efficiente, e supi)OSti dal priiKMpio generale di cui
quello di causazione efficiente non sarebbe che un caso. Il principio di
causazione efficiente, 0 quello pi generale da cui si dedurrebbe, il teorico
dell'inconoscibile non pu dunque annnetterlo che per la sua evidenza
intrinseca; ci vuol dire che egli deve riguardarlo come una verit a jrnori.
]Ma, come abbiamo mostrato sul Saggio 1. , tutte le nostre conoscenze si
dividono in due campi: le une sono esistenziali^ cio affermano che le cose
esistono, che esistono cosi o cos, che esistono in tale o tal altro ordine di
secjuenza o coesistenza, ecc.; le altre non stal)iliscono niente
sull'esistenza, sulla realt, ma affermano solamente che degli oggetti, reali o
possibili, paragonati fra di loro, hanno certi rapporti di somiglianza o di
differenza (di V. s[K'cialiiicntc ca[). '^. 28 402 cui il caso pi notevole reg'iiaglianza o ineguag-lianza detiuita tra
le grandezze/; di queste due classi di conoscenze, le seconde possono essere a
priori^ ma le prime sono sempre a j)osferiori. Ora evidente che il principio di causalit
(efficiente o non efficiente) deve essere aggregato alla prima classe di
conoscenze, alle esistenziali : ammettere dun(|ue che non derivi
dall'esperienza sarebbe ammettere che esso
un fatto eccezionale e inesplicabile (inesplicabile nel solo senso
legittimo che pu avere questa j>arola, che deve applicarsi nei casi in cui
un fatto non pu ricondursi a leggi generali, tanto pi se, come nel nostro
caso, in contraddizione con esse), oltre
che sarebbe andare incontro al l'altra difticok evidente della dottrina delle
conoscenze a priori, tutte le volte che essa si estende a delle proposizioni
oistenziali, di ammettere una coincidenza inconuM-ensibile tra il pensiero e la
realt, che non stata formata dalla
impressione della realt stessa. V. Sa.iinio 1. e.:\. v^ rioi"i o jnetese
tali: queste, per esenijiio un assioma matematico, si veritieanM uel mondo
deiresperienza. e possono essere ([uindi confermate da (piesta: quello non ])u
doinandare alcuna conferma alla ^realt, j)ereh non si realizza che nel mondo
metampirico del metatisico Noi a))l>iamo dette nel test si esclude Torini
iiu' induttiva del principio di eauvsalit ettciente. deve ammettersi come
evidente intrinsecanieuto, cio per se stesso. Ci perch esso viene riguardato
generalmente come un assioma, ed ammesso implicitamente come tale (cio eouic
evidente j)er se stto contr rajrioL-lt li tili p.-.);) >iziu!ii. V. Sa (f II
lo l. e. 1). v> 15. 404 espriiiioiio che la sicurezza che accompagna le
operazioni della nostra intelligenza, la fede che noi abbiamo nelle nostre
facolt conoscitive, il dritto, che ci affermiamo, di attenderci che le nostre
funzioni mentali, normalmente compiute, non ci condurrano all'errore, ma alla
verit. Ma quando facciamo un' affermazione sulle cose stesse, quando abbiamo o
crediamo di avere una conoscenza, ci non pu essere che un risultato delT
impressione delle cose stesse, cio dell" esperienza, salvo la sola
eccezione che abbiamo indicata, cio le semplici intuizioni delle somiglianze e
delle differenze. Ne segue che, il principio di causazione efficiente non
potendo nm mettersi come una verit evidente per se stessa n come dedotto da
qualche altra verit evidente per se stessa perch tali verit sarebbero delle
conoscenze a priori, e queste non concernono mai l'esistenza; e dall'altra
parte non potendo essere provato dall'esperienza perch non vi ha altra prova
che un' induzione, o una deduzione tirata da un princijio generale stal)ilito
da un'induzione precedente ; il |)rincipio di causazione efticiente non ha una
i)ase possibile su cui fondarsi, e non possiamo attribuirgli alcun valon^
obbiettivo. Il teorico deirinconoscibile dir che il criterio della verit non pu
essere al postutto che V evidenza, e che noi dobbiamo ammettere il principio di
causazione efficiente perch esso ci forza a riconoscerlo per la sua evidenza
stessa (qualunque sia d' altronde la sua base e la sua origini'), senza cercare
delle prove, come ammettiamo, senza cercare delle prove, i postulati di cui
sopra, implicati in ogni atto della nostra intelligenza. E nel fatto
l'argomento, preteso perentorio, della scuola intuitiva, per giustificare le
credeize iatumli del f/enere umano. Il principio dell'inconcepibilit della
negativa di Spencer non ne che un' altra
forma, e non contiene di nuovo che un'esagerazione. Le cr(;denz(^ naturali del,
405 genere umano, o piuttosto le proposizioni che i metafsici vi sostituiscono,
non hanno mai per s l'inconcepibilit della negativa ; questa non si trova mai
nelle proposizioni sull'esistenza, e non
propria che degli assiomi matematici e di altre proposizioni simili, di
cui nessuno ha contestato o contester mai la verit. Questo criterio dunque inapplicabile nei casi in cui vi
avrebbe bisogno dell'applicazione d un criterio. Fatta dunque deduzione dell'
esagerazione contenuta nel principio di Spencer (cio l'elevazione ad assoluta
necessit del pensiero di ci che non che
una tendenza naturale del pensiero), non resta, per giustificare l'idea di
causazione efficiente e tutte le altre induzioni incoscienti che si trovano
alla base di ogni concetto metafsico, che l' argomento dell'evidenza, quale noi
sopra 1' abbiamo formulato. ra quest'argomento non concludente, sovratutto per due ragioni: 1.
L'esistenza di ci che Bacone chiama o'VidoIa trihns, cio le illusioni naturali
dello spirito umano. Queste s'impongono talvolta cos universalmente e con una
forza tale da meritare pi che qualsiasi altra affermazione il nome di credenze
latamU del (jenere urnavo e o-iuiioono a un tal grado di evidenza, che se non
va sino all' inconcepibilit della negativa richiesta da Spencer (che, come
abbiamo detto, non si trova mai nelle proposizioni sull'esistenza), non certo minore che quello del principio di
causazione efficiente o di qualsiasi altro su cui sono fondati i concetti
metafsici. L'esempio migliore la
credenza che il colore, il sapore e le altre qualit sensibili sono delle
propriet obbiettive dei corpi stessi, e non delle semplici sensazioni nostre,
come ammette il teorico dell'inconoscibile, e in generale ogni spirito
coltivato. G' klola tribus sono generalmente delle affermazioni che hanno
l'aria di darci delle conoscenze, e delle conoscenze sdr esistenza; per
conseguenza essi non possono risultare che dall'esperienza. Cos essi devono 406
407 spargere un legittimo sospetto sulla validit, come criterio, dell' evidenza
intrinseca d'una proposizione, quando questa volge, com'essi, sull'esistenza,
ed anche perci, com' essi, un risultato
dell'associazione delle idee e dell' esperienza. Ma questo sospetto non pu estend(5rsi
alle due altre categorie di affermazioni di cui ammettiamo la verit
indipendentemente dall'esperienza, cio i postulati di cai sopra, implicati in
ogni esercizio dell' intelligenza (e che, come abbiamo detto, non costituiscono
per se stessi delle conoscenze), e le conoscenze intuitive delle somiglianze e
delle differenze. E ci tanto perch gl'idola tribus non si trovano che in
un'altra categoria di proposizioni, aventi un'origine e un contenuto
differenti, quanto perch ogni dubbio su queste due categorie ci assolutamente impossibile. 2. L'evidenza
intrinseca d'una proposizione, se questa non
una semplice intuizione di somiglianza o di differenza nel (jual caso
ammettiamo che l'evidenza intrinseca un
criterio della verit, e non possiamo non ammetterlo, la negativa, in tal caso,
essendo realmente inconcepibile non pu essere che un risullato dell'esperienza,
per consegnenza di un'inferenza, le cui ]remesse si trovano nell'esperienza
j)assata, quantunque attualmente non ne abbiamo coscienza. In una parola, una
proposizione sull'esistenza, che ci sembra evidente per se stessa, non in realt che un'inferenza incosciente. Ma
se cos, non vi ha alcuna ragione perch
non dobbiamo sottomettere una tale inferenza ai criteri di tutte le altre
inferenze, cio esaminare, secondo i canoni della logica, se essa stata ben tirata, se le sue premesse la
giustiiicano, in una parola se si conforma ai tipo di un'inferenza legittima.
Ma allora l'evidenza intrinseca finisce di essere un criterio, e la prova della
verit sta nell'esperienza. Ci mostra come il criterio dell'evidenza intrinseca
non solamente insufficiente, ma #,
m necessariamente fallace. Infatti,
quando che s'invoca questo criterio?
Quando la proposizione non si pu provare per l'esperienza. Ma una proposizione
che deriva dell'esperienza quali sono tutte le proposizioni sull'esistenza,
alla cui categoria appartengono tutte quelle di cui quistione nelle controversie filosofche e
intanto non si pu provare per Tesperienza stessa, necessariamente un'inferenza illegittima,
un'induzione che le sue premesse possono spiegare come fatto psicologico, ma
senza poterla giustificare come conclusione logica. Questa considerazione
generale trova la conferma ])iii evidente nell'esame dei fatti particolari.
L'inferenza per cui concludiamo il principio di causalit efficiente (come
qualsiasi altro tra quelli presupposti, esplicitamente o implicitamente, dal
metafisico) non pu farci illusione che sinch la facciamo incoscientemente,
accettandone il risultato come nna verit evidente per se stessa. Per
distruggere l'incanto, basta elevarla alla luce della coscienza : allora non ci
resta che la sorpresa come l'attivit cieca del nostro spirito, con
un'imitazione cos imperfetta dei nostri processi logici coscienti, possa
produrre un'evidenza, a cui giungono raramente i pi rigorosi di questi
processi. . 6. Il punto di partenza dell'inferenza sono, come abbiamo detto, le
causazioni efficienti sperimentate, cio le sequenze molto familiari tra
fenomeni che noi abbiamo conosciute nell' esperienza passata. Siccon)e in
queste causazioni, le cui esperienze si sono organicamente fissate nel soggetto
pensante, la causa ha sj>ie(/ato l'effetto e si trovato tra la causa v l'effetto un legame
necessario e di un'evidenza intrinseca, il teorico dell'inconoscibile ne
inferisce incoscientemente che ogni fenomeno
dovuto a una causa che. ])otrebbe spiegare l'effetto, (cio dare
all'intelligenza questa soddisfazione particolare che si trova in ci che
diciamo una spiegazione^ nel senso 408 po{)olare o metali^ico) e tra cui e
Peffetto potrebbe trovarsi un legame iecessario e di un'evidenza intrinseca.
Tali cause non essendo da noi conosciute, eg'li ne conclude che esse non sono
dei fenomeni, che sono ultrafeoinonali, sovrasensibili, inconoscibili, tali
i)er, che, se noi jiotessimo conoscerle, esse ci apiegherehhe'O \ loro ettetti,
e troveremmo tra esse e g'ii effetti un legame ecessario e li un'evidenza
intrinseca. Oi'a, evidente che la teoria
dell'inconoscibile, per quanto si riferisce alle cause ethcienti, o, come dice
Conite. al modo essenziale di produzione dei fenomeni, non ha alcuna base
reale. In effetti, primo, la base induttiva dell'inferenza incosciente che
conclude all'esistenza di cause efficienti,
stata distrutta dalla scienza ; poich ((uesta, ciniie abbiamo visto, ci
presenta sotto un nuovo aspetto (piesto sequenze che, nel periodo
j^rescientifico, ci sembrano perfettamente comprensibili per se stesse,
necessarie, intrinsecamente evidenti (in una parola causazioni elilicienti)
solo perch sono familiari, e cosi risulta che, se le altre sequenze sono
misteriose, queste non sono meno, anzi pi, misteriose delle altre e i lorc>
antecedcmti non possono, pi che (juelli deliealtre, essere riguardati come
cause efficienti. E i teorici dell" inconoscibile non sostengono meno,
anzi pi fortenuMite degli altri tlosofi, che le stesse sequenze pi familiari
sono incomprensibili, e che i loro antecedenti non possono essere riguardati
come cause efficienti. Ma, secondo, quand'anche la scienza non avesse distrutto
la base induttiva del principio di causalit efficiente, cio quand'anche gli
antecedenti delle sequenze juolto familiari potessero ancora riguardarsi (dopo
la riflessione scientifica) come cause efficienti, cio come cause capaci di
spiegare i loro offV'tti. e aventi con questi eft'etti un ra])porto iiec.f'ssario
ed intrinsecannMite evidente, siccome (piesf attitudine d di ([uesta totalit
essendo costituita dai casi dai (|uali si inferisce, al contrario
nell'inferenza da cui risulta la teoria delle cause efficienti inconoscibili, e
in generale tutte le teorie le quali suppongono per tutti i fenomeni delle
cause ultrafenomenali, i casi a cui s'inferisce sono, non una parte, ma la
totalit dei casi compresi nella proposizione generale deirinduzione, poich
rinferenza si estende a tutto ci che esiste in generale, e quindi anche ai
fatti stessi che costituiscono il punto di partenza dell* inferenza. P. e. i
movimenti volontari degli uomini (^ degli animali si trovano tra i casi che
sono, per dir cos, i dat^ dell'inferenza, con la quale si conclude
all'esistenza di altre cause efficienti, distinte dalla volont degli uomini e
degli animali. Ora quei movimenti stessi che, in quanto dati dell'inferenza,
avevano per cause efficienti la volont umana o animale, compariscono pure tra i
casi conclusi, come aventi delle cause efficienti inconoscibili, o in generale
ultrafenomenali. Tale incoerenza x,on ha niente di sorprendente, se si riflette
ebe Hnferenza consiste in una cieca assimilazione di tutto ci' che si offre
nuovamente alla nostra intelh.-enza, a certe impressioni della nostra
esperienza passata, le quali sono assenti dalla nostra coscienza. Quando i
t^nomeni stessi che produssero queste ipressioni si nprescntano alla nostra
intelligenza, siccome l impressione non
pi la stessa, apparendoci essi sotto il nuovo aspetto in cui li mostra
la riflessione scientifica, devono sottoporsi anch' essi a questo processo d'
assi.nilazione incosciente, adattandosi al tipo generale che una teoria imprime
ai fenomeni per l' effetto di questo processo. Cos i nostri propri movimenti
volontari della nostra esistenza passata, che contribuirono pi che (yualsiasi
altro fenomeno a darci 1' idea di causazione ethciente, xion saranno ora
attribuiti alla efficienza della nostra volont, ne essa ne (pialsiasi altro
fenomeno dell esperienza producendo pi sulla nostra intelligenza unpressione di
causa efficiente, ma a quella di una volont uietaempirica, di una forza
inconoscibile, ecc., ques i essendo i tipi di causazione che ora ci permettono
di assimilare i fenomeni alle nostre esperienze passate, con la impressione
mentale che esse ci produssero, da cui ci
venuta l'idea di causazione ethciente. ^ 7 Che concluderemo noi sulla
dottrina della relativit della nostra conoscenza? Una conclusione dehnitiva
sarebbe prematura prima di avere scandagliato tutte le b.xsi su cui essa si
fonda: ma mettendoci a un punto di vista semplicemente obbiettivo (vale a dire
facendo astrazione della difficolt che i dati dei nostri sensi non sono delle
cose in se ma delle semplici sensazioni relative al soggetto percipiente), noi
abbiamo gi dei motivi sufficienti per affermare il valore assoluto della
conoscenza e rintelligibilit assoluta dei fenomeni. Se la nozione di causa
efficiente non ha un valore ob415 biettivo, se perci la causa non che T antecedente di una sequenza
invariabile, evidente che non abbiamo
alcun motivo di affermare che non conosciamo il modo reale o, come dice, Comte,
essenziale di produzione dei fenomeni. Conoscere il modo reale di produzione di
un fenomeno conoscere le cause di
(|uesto fenomeno, cio ancora conoscere, poich non vi sono altre cause, che
esso seguito a un certo fenomeno
antecedente o a certi fenomeni antecedenti secondo una legge o certi leggi di
sequenza invariabile tra i fenomeni; ma i teorici dell'inconoscibile ammettono
che noi conosciamo o jjossiamo conoscere questi antecedenti fenomenali e queste
leggi di sequenza invariabile tra i fenomeni; dun(i|ue noi conosciamo o
possiamo conoscere il modo reale o essenziale di produzione dei fenomeni. A ci
si risponder senza dubbio che, malgrado tutto, il corso della natura non ce-ssa
n^, cesser di essere incomprensibile: che non vi ha tra i fenomeni tisici una
causazione che non sia un mistero, e che la produzione della sensazione e del
pensiero al seguito di antecedenti fisici, (qualunque essi siano, un mistero anche pi oscuro. Ma noi sappiamo
che ci vuol dire semplicemente che non vi ha tra i fenomeni fisici una
causazione che sia per noi un fatto perfettamente familiare, e che la
produzione della sensazione e del pensiero al seguito di certe condizioni
fisiche un fatto che per noi il meno familiare di tutti, il pi
lontano da quelli che ci sono familiari. Il ministero, r incomprensibilit delle
leggi della natura, non che un fenomeno
psicologico privo di qualsiasi importanza obbiettiva, il comprensibile e 1'
incomprensibile, non essendo, come abbiamo visto, che sinomini del familiare e
del non familiare. Vi ha un'incomprensibilit che ha un'imi)ortanza
obbiettiva: (juando un fenomeno resta
isolato, quando non pu ricondursi a delle leggi generali. Allora il l'enomeno
non essendo stato sottomesso a qualche leg-ge di causazione fisica cio (li
sequenza invariabile, non stato
sottomesso al principio di causalit fisica, cio al principio che^ ogni fenomeno
deve avere qualche antecedente a cui esso seo-ue invariabilniente: siccome
questo principio ha un valore obbiettivo, allora l'incomprensibilit ha un
valore obbiettivo. Ma quando l' incomprensibilit si npplica, non a dei fatti
isolati, non sottomessi ancora ali ordine o-enerale della natura, ma alle
leg'g'i stesse, che costiTuiscono quest'ordine, in quanto queste le-o-i non
sono delle causazioni effcienU e non possono ricondursi a delle causazioni
effdenfi, per conseguenza m quanto non si conformano al principio che ogni
fenomeno deve avere una causa efficiente; siccome questo principio non ha che
un sionificato subbiettivo (non esprimendo altra cosa che nn'esigenza
extralogica e impossibile a soddisfare del nostro spirito allora l'
incomprensibilit non ha che un si-niticato subbiettivo. Du-Bois-Reymond (r
autore del famoso Ignoramm et igiiorahimas), dice: Il line d'ogni scienza potrebbe ben essere,
non di comp,endere V essenza delle cose, ma di far comprendere che
(.uest'essenza incomprensibile. Cos la
conclusione finale della matematica
stata, non di trovare la quadratura del circolo, ma di dimostrare
che impossibile di trovarla: della
meccanica, non di realizzare d moto perpetuo, ma di provare che impossibile di realizzarlo. A questa
comparazione di DuBois Reymond se ne potrebbe, contrapporre un" altra pi
giusta e al tempo stesso pi veritiera: Cmne la matematica ha dimostrato che la
quadratura del circolo , non impossibile ai matematici, ma impossibile e assurda
in se stessa; come la meccanica ha provato che il moto perpetuo e, non
irrealizzabile dai meccanici, ma affatto impossibile a realizzarsi; cosi la
teoria della conoscenza mostra, non eie V essenza delle cose inconoscibile, ma che non esiste, o almeno
che non abbiamo alcuno motivo di affermare che esista, luV essenza delle cose,
se per essenza d'una cosa s'intende altro che il complesso delle sue propriet
sensibili, che i sensi ci presentano o che l' intelligenza pu rappresentarsi
sul tipo di ci che essi ci hanno presentato. Se si ammette infatti che al di l
delle ])ropriet sensibili e conoscibili vi ha un'essenza sopranseiisibile e
inconoscibile, perch si suppone che le
prime derivano necessariamente da alcun che di jii fondamentale, che potrebbe
spiegarle, se noi lo conoscessimo .s^;%((?'/c nel senso popolare e metafisico
della parola sjfiegnzione,-^ Ma la spiegazione, in questo senso, implica lidea
di causa efficiente: il fantasma delVessenza svanisce ilunque con quello della
causa efficiente, e non , come questo, che un'illusione naturale del nostro
spirito. La ])i jj|.nni(io illusione '
ipiella rio (ho lo si)irito reclama (lualclie cosa al di l lei h'uaiiii pi
.u.'iier.ili lei leiuuiieiii >r)lti siii)}mhi.i;mio elle la e>iioseeii/.a
b'ile jiciu'ralit [li alte i-elative al le.iiaiue lei feiioiiH'iii iiisntfieisa li iiiist'ritrcniin>
attiniicre. se alcun ostacl> nn interveniss Ne\vtMi sendira nn aver iK)tuto
nis segnarsi a considerare il \ivso coni*', un l'atto idtiino. K.iili non
coin]U'en(l'VJi ch' l:i niat'ria ]M.tess jM'r eonse.i;uMiza ad annnettere P
'sisteuza l'un mezzo, di tal srta -Ih' il ]M's> poti'sse essere assimilata)
all' im]>ulsionne non lui potuto essi're t'ntata. t all)ra il pes nvsta un
tatto dtim>: 'ss> u s' st'sso la
sua 8pi'.!iazi>ne. L'unione dello spirito ' l'l cupo > stata lun-ann'ute
consii-taisi in simile easo. Hisoona coneepire le (lualit mentali e materiali
eiasenna secondo la sua natura pvoiu'ia: le une per i sensi, le altre \h^v la
coseien/a. N(m dohbiami in seguito asimilare e generalizzare il i)i possibile
eiaseuua categoria. Xoi ^eneralizziegazione scientitca dell'unione dello
spirito e del corpo. Ogni spiegazione pi generale, oltre che non necessaria,
impossibilc-Ecco un linguaggio che non ba niente di scientitico: La
sensazione cosciente e un fatto, nella costituzione della nostra natura tisica
e morale, cbe ^ assn bisogna lire: Sino
a riuesto giorno non albiani( saputo come lo spirito e il corpo agiscono l'uno
sull'altro. A parlar propri auuMite, non vi ba niente pi a conoscere in fuori
del tutto cbe si tratta solamente di generalizzare. Vi ba. dice Uume. in
tuttala natura (puvlcbe cosa li pin nisterioso che l'unimie dell'anima e del
corpo: unione per CUI una s noi. quamlo si pu dimostrare, n(n solo cbe tale
supposizione ( ass(lutamente destituita di prove .nia cbe essa un'illusione, e mostrare il nu'ccanismo di
quest'illusu>nt . / 420 g-iare lo stato di riposo o di inovinonto di altri
corpi. La forza allora un teriniue
astratto che indica, non una qualit occulta che sia nel corpo, ma semplicemente
il fatto che il corpo o pu essere la
causa, cio ia condizione, di cang'iamenti in altri cori)i. L'astrazione g-iun^e
al suo maximum, quando si usano certe espressioni, che sembrano fare della
forza un soi>'getto separato, avente un'esistenza |)ro|)ria, come quando
ile, per eui 421 non ])oteva mancarsi di attribuire questa propriet della
materia ad una causa efficiente sconosciuta. Di questa maniera il dominio della
forza divieie universale nella fisica, r intervento di questa causa occulta
ritenendosi necessario, non solo per far comprendere la possibilit dei
fenomeni, non familiari, deirazione a distanza, ma anche di quelli del
movimeuto prodotto dalT urto, che, familiari in se stessi, non lo sono nelle
loro leggi. La forza si considera ora come una qualit occulta della materia,
ora come un che di distinto e separato da essa, che esiste i)er se stesso,
essendo nella materia, secondo la comparazione di Torricelli, come in un vaso,
o anch^^, come immagina Hirn, riempiendo lo spazio intermediario fra i corpi.
Nel primo caso, cio quando se ne fa una c|ualit della materia, la forza
significa senplcemenfe la causa efficiente, metaempirica e sconosciuta, ilei
fenomeni fisici, e non che
uira})plicazione del concetto del r inconosci bile. Nel secondo caso, cio
quando si riguarda come una realt esistente per se stessa, diviene un concetto
metafisico sui generis, all'idea di causa efficiente inconoscibile
aggiungendosi la trasformazione di una (qualit in una sostanza. Nella nozione
della forza noi possiamo vedere, pi chiaramente che in quella di una causa
efficiente incoiioscil)ile, come i concetti metaempirici che sembrano i pi
discosti dairesi)erienza, non sono che delle suggestioni delle nostre
esperienze pi familiari. Infatti in questa nozione Tinfiuenza di tali
esperienze non ha solo il risultato, come ud semplice concetto di causa
occulta, di suggerire l'idea di un rapporto di causazione simile, per i
caratteri subbiettivi, ai pi familiari tra i rapporti di causazione conosciuti
(cio nel quale, come in questi, la eausa
capace di spiegare l'effetto, e vi ha tra la causa e l'effetto un legame
necessario ed evidente intrinsecamente); ma, accanto a questo risultato
generico, ne ha 422 anche un altro specifico.
che la forza e il suo modo d'azione si cerca di assimilarli in qualche
modo a certe classi determinate di fenomeni familiari, ag-o-iung-endo al
concetto generico di causa occulta del movimento certe determinazioni
particolari, o circondandolo di un corteo di certe vaghe e oscure associazioni
(troppo vaghe e oscure per elevarsi al grado di affermazioni coscienti e riflesse),
che ci indicano abbastanza le esperienze che liaiino servito di tipo e a
cui dovuta la suggestione. Queste
esperienze non sono che quelle stesse che hanno servito di base alle npiegazion
\\\V\w(ivsali ]>i ordinarie d^Ua natura. llume ha osservato che un eleiuento
della nozione volgare di forza la
concezione di un??i.si^s animale, e tanti altri dopo di lui (coiie Mill,
Spencer,> Huxley) hanno derivato quest'idea dalle nostre esperienze
subbiettive dello sforzo muscolare . Redtenbacher dice: L'esistenza delle forze
noi la riconosciamo per gli effetti ch'esse producono, e, in particolare, per
il sentimento e la coscienza che noi abbiamo delle nostre proprie forze . Per
mostrare quanto la nozione counuiu di t'orza sia impregnata del nostro proprio
sentimento umano, si potrebbe forse addurre il fatto che, come nota M. de
Birau, per designare questo non so che di sconosciuto, a cui si attribuisce la
produzione dei fenomeni fisici, bisogna impiegare i segni di certe affezioni
dell' anima, come sforzo, tendenza, nisus V. Mill. FiloH di Uaniltou e. IH.
sulhi tiiu'. Spencer Prine. di soeiolofjia 4. paraor. H5!K Huxley ^. *'>^^''
V' - ^-^^ autori ei sem)raiio anche aver ultrepassato il seonc. Non certo ammissibile per esempio rattermazione
di Spencer che Tuomo forzato (li simluileggiare la forza
obbiettiva in funzione di forza subbiettiva. V. Lange Storia del material, voi.
2. p. 2. e. 2. 423 ci in cui questo filosofo vede la prova che (juesta nozione
(di cui naturalmente egli ammette il valore obbiettivo) ha la sua sorgente nelT
intimit stessa del nostro essere agente e pensante . Nella nozione di forza si
manifesta pure la tendenza a ricondurre o assimilare qualsiasi azion^^ tisica
all'azione a contatto, cio all'urto o alla trazione. Hirn, accerrimo avversario
della teoria meccanica, alla quale oppone la dottrina delle Forze, fa non per
tanto per la sua dottrina stessa omaggio al princi[)io dei m(HH*anisti,
che che non ammissibile altra azione se non a
contatto. perci che egli immagina le sue
Forze, ch'egli chiama principe hifer media ri, diffuse nello spazio e se])arate
dalla materia: che ogni azioie
apparentemente a distanza deve, secondo lui, attribuirsi ad un ijuidche sia a
contatto con la materia che subisce quc^st'azione, e questo quid la Forza. Cos egli dice: sia vero il detto di Bacone che tra gli errori o|)|)osti le cause d"
illusione sono pressoch comuni. Questo rapi)orto della nozione dt^lla forza con
(lutaste tendenze spontanee dello spirito, che lo s|)ingono ad assimilare la
produzione di tutti i fenomeni, l'una ai nostri propri atti, e l'altra ai
fenomeni familiari della comunicazione del movimento, stato molto bene, osservato ed espresso da
I)u Hois-Keymond, di cui riferir le parole. ^ cosa strana, vi ha per il iostro
desiderio innato di ricercare le cause una specie di soddisfazione
neirirnmao-ine d'una mano che si disegna involontariamente davanti il nostro
occhio interiore, d'una mano che spinge dolcemente innanzi a se la materia
inerte, o nell'immao-ine di braccia invisibili di polipi, per mezzo di cui le
molecole della materia si stringono, cercano ad attirarsi le une le altre, e
finalmente s'intrecciano in un gomitolo (1 1. Ora, a quali motivi dobbiamo noi
attribuire la separazione della forza dalla materia, la sua elevazione al grado
di soggetto reale, esistente per se stesso? Il motivo lo abbiamo gi visto,
quando la Forza si fa intervenire nelle azioni a distanza: il bisogno di assimilare queste jizioni a
plicazioiie del metodo niateiiiatio(> alla eouoseeiiza del reale, conviene non
di meno che non vi ia altra scienza. rigorosamente i>arlamh. che la
matematica. Le sole matematiche, egli dice, di tutte le scienze umane,
|)rocedono a somiglianza della scienza divina (Uisposfa a tre gravi opposhioui
eoifro il libro De nut. Ital. Slip. II.) L'uomo sa le cose matematiche, ma Dio
solo le cose lsiche {De Antiq, Did. sapietit. Conclusione). (8) Le cose
procedcuio dall'essenza divina come dall'essenza del triangolo segue che i suoi
angoli sono eguali a due retti. {Eth. [). 1. Schol. Prop. 17 e p. 2. Schol
Pro]. 41).) Wallisii Opera .voi. 111. [>. 1()2 Dal punto di vista di
Leibnitz, come osservi M. ercht' la irima
in possesso di segni convenienti per le sue idee, mentre la seconda non
ha trovato ancora questi segni. Si tratterrebbe diinqiu. nelle
inateiint'u-he espresso il tipo della
ragione uni viT-nlo; esse nell'astratto, come binatura nel concreto, ne sono la
|)iii perfetta espressione obbiettiva. La inateiiiatica, dice Novalis, la vera scienza, Tintendiinento realizzato; i
suoi rapporti sono quelli del mondo. La scienza niatematica pura la vita pi alta; la vita degli dei. T niateniatici soli sono
telici, perch il sapere perfetto felicit
perfetta (2. Il Taine ci mostra nelle
scienze >. {l.ii^^int/. />r ^riunii' phil. ^ninuhft. i>i\.
Duteits t. 2. ljute l. i>a,i;. . Se-bellini I^f^ v".'//' .v'". 108
(parte 5); Prine. della flos. 2. j)arte n. 04 p. 170, 4. parte n. ; ecc. Met.
}). 105 ((). ])arte), 108 (parte 5.); Reg. per la direz. dello spir. Reg. 4, t.
XI. p. 217: Prine. della filos. I. parte n. 24 p. 70, II. parte u. 8, p. 128,
ecc. V. Disc, del metodo che essa sa dedotta dai primi principii, in modo che,
per istudiarsi di acquistarla, ci che si chiama propriamente filosofare,
bisog-na cominciare dalla ricerca di questi principii, ed essi devono avere due
condizioni, runa che siano si chiari e s evidenti, che lo spinto umano non
possa dubitare della loro verit allorch si applica con attenzione a
considerarli; l'altra che sia da essi che dipenda la conoscenza delle altre
cose, in modo che essi possano essere conosciuti senza di queste, ma non
reciprocamente (jueste senza di essi-, e dopo ci bisogna cercare di dedurre
talmente da questi principi! la'^conoscenza delle cose che ne dipendono, che
non vi sia niente in tutto il seguito delle deduzioni che si fanno che non sia
chiarissimo . Cosi i mezzi per cui l'intendimento pu elevarsi alla conoscenza,
senza timore d'ingannarsi, sono due: l'intuizione e la deduzione, e non bisogna
ammetterne di pi. L' intuizione delle
cose che sono evidenti per se stesse: di quelle he non lo sono possiamo
tuttavia averne la certezza, purch esse
siano dedotte da principii certi e incontestati per un movimento continuo e non
interrotto del pensiero, con una intuizione distinta di ciascuna cosa (di
ciascun passo del ragionamento). Le prime proposizioni derivate immediatamente
dai principii possono dirsi conosciute sia per deduzione sia per intuizione; i
principii stessi per intuizione; le conseguenze lontane per deduzione .
Tuttavia nella 7^^ delle sue Ueijole per la direzione dello spirito Cartesio
parla anche dell'induzione, ch'egli chiama pure enumerazione sufficiente, come
uno dei mezzi Princ. della filos. Prefaz. (Lotter al tvadiitt.) p. 10 Cousiii.
He(j. per la direz. dello ^pir. Ueg. 8. Cfr. Keg. o, 6. ecc. 445 che conducono
sicuramente alla verit, anzi come il solo oltre alla intuizione. Ma Cartesio
non intende V induzione nel senso nostro, moderno, della parola, cio come la
estensione a tutta una generalit di casi di ci che si osservato in alcuni. L'induzione non \)q:c Cartesio che una specie di deduzione.
Per induzione o enumerazione egli intende iT mezzo di stabilire la certezza di
quelle verit che non derivano immediatamente da principii evidenti per se
stessi, ina a cui si giunge per un lungo seguito di conseguenze, come (piando
si conclude il rapporto tra le grandezze A ed E, dopo aver trovato il rapporto
tra A e B, quello tra B e C, tra C e D e tra D ed E. Tutte le volte che abbiamo
dedotto delle proposizioni immediatamente l'una dall'altra, se la dedu-zione stata evidente, l'operazione si riduce a una
vera intuizione. Ma se deduciamo una
proposizione da altre proposizioni numerose, disgiunte e nmitiple, spesso la
capacit della nostra intelligenza non
tale che possa abbracciarne l'insieme d'una sola vista: in (jiiesto caso
la certezza dell'induzione deve bastare. E cosi che senza potere ad una sola
vista distinguere tutti gli anelli di una lunga catena, se nondimeno abbiamo
visto V incatenamento di tutti questi anelli fra di loro, ci ci i)ei'metter di
dire come il primo congiunto
all'ultimo:^ . Pressoch lo stesso dice nella spiegazione della Keg. 11: quando
la deduzione semplice e chiara, egli
suppone che la si veda per intuizione; ma (luando inulti[>la e inviluppata, in modo che lo
si)irito non possa com})reii derla tutta intera ad un sol colpo, ma bisogna,
affine di concluderne un i>'iiidizio unico, che la menioi'ia conservi i
giudizi portati su ciascuna delle parti (dell' in J^e(j. 7. pa.ir. 2:^8-285.
Keg. 7. \niatibili con la sua spiegazione del nmndo. Il concetto teologico non
i cosi legato al resto del sistema cartesiano ]>er dei legami orgniiici. ma
per quelli puramente artiliciali di una deduzione capziosa. ^'.' 452 (iato come
la ragione del secondo, ci non perch si
tratti di due fatti, la cui relazione essendoci molto familiare, ci sembra
perci necessaria e intelligibile (come avviene nelle spiegazioni della
metafsica istintiva), ma perch si tratta di due fatti, o piuttosto di due
proposizioni, che sono tra di loro nel rapporto logico di principio e di
conseguenza, in modo che sarebbe contraddittorio di non ammettere il secondo,
dopo aver ammesso il primo. L'essenza di questa forma di metafisica, non
dobbiamo dimenticarlo, consiste in questa logica artificiosa, per cui si
pretende di convertire i legami empirici e con^m^ew^?' tra i fatti in legami
razionali e necessari. Perch Cartesio non
contento di avere ricevuto dall'esperienza le leggi della natura, ma
vuole stabilirle a priori? perch non
contento di sapere che i fatti sono cos, ma cerca anche una ragione che
mostri che essi devono essere cos? Cio evidentemente per questa tendenza innata
del nostro spirito, che ci spinge a ricercare il perch, le cause delle cose,
tendenza che non pu essere soddisfatta dalla semplice osservazione dei fenomeni,
la quale ci d non le cause, ma solo gli antecedenti di sequenze
invariabili. un fatto d'esperienza
intima che, se noi riusciamo ad immaginarci che tra questi fenomeni che P
osservazione ci mostra come invariabilmente congiunti, ma non come connessi, vi
sia, d' una maniera qualunque, un legame necessario, cio tale che la ragione
possa, indipendentemente dall' osservazione che li mostra congiunti,
comprendere che essi devono essere congiunti; allora la nostra aspirazione a
conoscere il perch, le cause, , sino ad un certo punto, soddisfatta. Ora noi
non crediamo sufficiente d' aver costatato questo fatto della nostra esperienza
intima: noi vogliamo renderci ragione di questo fatto, comprendere il
determinismo secondo cui esso si produce, sapere quali sono i fatti pi
generali, ic leggi 453 dello spirito, a cui esso pu ricondursi. La prima
difficolt, nelle ricerche psicologiche di quest'ordine, , come abbiamo gi
osservato, di comprendere che vi ha qualche cosa che si deve ricercare: questi
fenomeni della nostra intelligenza, che si producono con una intera spontaneit
e d'una maniera pressoch istintiva, ci sembrano delle cose afPatte naturali e
tali da non aver bisogno di alcuna spiegazione. Ma questa spontaneit e
istintivit del fenomeno per noi una
i)rova che si tratta d'un'inferenza incosciente. In effetto questo fatto che
una ragione a priori, la quale facesse comprendere che i fenomeni devono essere
congiunti cos come l'osservazione ci mostra che soio congiunti, ci darebbe una
risposta alla quistione del perch, delle cause suppone r ammissione implicita
di due principii generali. 1. Che non basta di sapere che i fenomeni sono
invariabilmente congiunti (cio qual sono le leggi gnerali della natura), ma
bisogna anche cercare di sapere perch questi fenomeni sono invariabilmente
congiunti, ci che implica la credenza che la natura delle cose tale che vi ha un perch delle sequenze
invariabili, delle leggi primitive della natura, date dall'osservazione. 2. Che
una ragione a priori, che mostrasse che i fenomeni invariabilmente congiunti
devono necessariamente esserlo, ci darebbe il perch della loro congiunzione: ci
che implica, non solo che la natura delle cose
tale che vi ha un ^perch delle congiunzioni invariabili tra i fenomeni,
ma anche tale che vi ha tra i fenomeni
un legame necessario, che la ragione pu scoprire a priori, e che il perch della loro congiunzione. Queste
supposizioni che noi facciamo implicitamente sulla natura del mondo obbiettivo,
devono essere fondate sovra una base empirica, la quale, se non sufficiente a stabilire logicamente la
validit di queste supposizioni, deve essere almeno sufficiente a ^ spieo-are la
loro origine, la loro presenza nel nostro spirito. In quanto alla prima delle
due supposizioni, noi abbiamo mostrato che questa base empirica deve cercarsi
nelle sequenze pi familiari tra i fenomeni, cio che sono queste sequenze che ci
hanno dato l'idea di causa efficiente, ed
da esse che abbiamo inferito il principio che ogni fenomeno deve avere una
causa tale (e non semplicemente un antecedente a cui esso segue d' una maniera
invariabile). Ma anche per la seconda supposizione la base empirica non pu
cercarsi altrove che in queste sequenze stesse. Infatti, poich un legame
necessario e razionale, puramente logico, introdotto tra i fenomeni, d una
soddisfazione al nostro desiderio di conoscere il perch d questi fenomeni, come
la d, (quantunque ad un grado superiore, 1' assimilazione della produzione di
questi fenomeni alle sequenze familiari che ci hanno dato 1' idea di causa
efficiente, se ne deve concludere che tra queste due forme sotto cui lo spirito
concepisce il perch delle cose, vi ha un'anologia, un fondo comune; che le due
forme di metatsica rappresentate da queste due risposte date alla identica
quistione del perch, si riattaccano, al fondo, a uno stesso processo del nostro
spirito. Il fatto che le soluzioni della metafisica istintiva (che spiega i
fenomeni riconducendoli alle causazioni che ci sono pi familiari) danno una
soddisfazione pi completa, pi evidente, al nostro desiderio di conpscere il
perch, che le soluzioni della metafisica apriorista (che cerca d' introdurre
fra le cause e gli effetti un legame puramente logico), una conseguenza necessaria dell'altro fatto,
che nel secondo caso l' assimilazione dei fenomeni al tipo a cui lo spirito si
sforza di assimilarli (cio a quelli che costituiscono la base empirica
dell'inferenza incosciente), assai pi
imperfetta che nel primo caso. E in effetto, come abbiamo detto nel . 2, questo
presup 455 posto della metafsica apriorista, che vi hanno tra i fatti delle
connessioni necessarie e razionali, non pu essere fondato che sull'esperienza
di qualche cosa come delle connessioni necessarie e razionali trai fatti; cos,
non essendovi niente altro di simile nella nostra esperienza che le congiunzioni
molto familiari fra i fenomeni, nelle
causazioni pi familiari che deve trovarsi la base induttiva di questo
presupposto, e il tipo a cui questa metafisica cerca di assimilare le suo
concezioni sui rapporti tra le cause e gli effetti. Tornando ora a Cartesio,
noi dobbiamo prima di tutto rispondere ad una difficolt. Le considerazioni
precedenti tendono a mostrare che, quando si
persuasi di avere scoperto tra i fenomeni, per mezzo di una ragione a
priori, una connessione necessaria, ci
come avere stabilito tra questi fenomeni una connessione^ di efficienza
causale. Ma i fenomeni successivi che costituiscono una legge della natura
possono, nel sistema cartesiano, considerarsi come cause ed effetti gli uni
degli altri? 0 piuttosto Dio che in
questo sistema la causa unica di tutti i
fenomeni? La dottrina delle cause occasionali di Malebranche e di altri
cartesiani, che nega ogni rapporto di efficienza causale trai fenomeni,
non certamente quella di Cartesio ; ma
non vi ha dubbio che nel suo sistema non vi sia qualche cosa di simile, perch
egli spiega tutto, al fondo, per l'azione di Dio. Ora come conciliare ci col
concetto che Cartesio, sforzandosi di stabilire tra i fenomeni dei legami
necessari e razionali, non intendeva perci che stabilire fra di essi dei legami
di efficienza causale? Questa obbiezione non
che verbale, e nasce da ci che noi diamo al termine causa efficiente un
significato che non assolutamente conforme
all'uso comune di questo termine. Per un rapporto di causalit efficiente \ 456
457 noi intendiamo un rapporto di sequenza tale che tra lo antecedente e il
conseguente lo spirito possa, per esprimerci con le parole di Hume, vedere una
connessione, e non semjlicemente constatare una congiunzione, comprendere
perch^ e non semplicemente sapere che, il conseauente si verfica verificatosi
l'antecedente. Questo carattere appartiene ai rapporti di causazione molto
familiari, e a quelli che la metafsica immagina secondo questo tipo. La
metafisica si distingue dalla scienza positiva, perch questa si contenta della
congiunzione, del chey mentre quella cerca la connessione^ il perch. Tutte le
specie di connessione che la metafisica crede di aver trovate, tutte le
risposte che essa d a questo perch^ cadono per noi sotto, il concetto di
causazione efficiente. Perci noi dobbiamo talvolta applicare questo termine
difformemente dalla sua accezione pi comune: ma noi abbiamo avuto bisogno di un
termine generale per indicare l'oggetto comune della nostra ricerca, e al tempo
stesso il legame comune di parentela che unisce tutta una classe di concezioni
metafisiche, l' identit fondamentale del processo del nostro spirito di cui
esse sono il risultato ; non ne abbiamo trovato uno migliore che quello di
causa efficiente, ma siamo stati costretti a non tenerci strettamente al suo
significato ordinario. Secondo questo, l'antecedente di un fenomeno per essere
chiamato causa efficiente di questo fenomeno, deve esserne V'dite(iedentii
Incondizionate, cio tale che esso basti a produrre l'effetto senza bisogno di
un'altra condizione: ci che nel sistema cartesiano non pu dirsi di alcuna causa
fisica, poich, in esso, perch l'effetto segua la sua causa (fisica), necessaria una condizione. Dio; e sotto
questo aspetto, Dio solo meriterebbe il nome di causa dei fenomeni. L'uso
comune, limitando, cos la nozione di causa efficiente, ha in mira la concezione
pi ordinaria che la metafisica se ne forma, che
quella di un agente supposto, conoscibile o inconoscibile, o di una
qualit secreta supposta negli agenti dell'esperienza, che , o sarebbe se si
conoscesse, l'intermediario esplicativo delle sequenze tra i fenomeni. In
questo senso, t' incondizionalit per produrre l'effetto il carattere essenziale di una causa
efficiente, quello che la distingue dai semplici antecedenti di sequenza
invariabili dati dall' osservazione; poich si suppone che questi non siano gli
antecedenti incondizionali degli effetti, ma che, perch gli effetti ne seguano,
sia necessario anche l'intervento di una condizione, la causa efficiente. Ma
noi avendo assimilato a queste concezioni pi ordinarie della metafisica, di
agenti ipoteci o qualit ipotetiche negli agenti conosciuti, da cui gli effetti
sono o potrebbero essere spiegati e non semplicemente a cui essi seguono
invarifibilmente; avendo assimilato, dico, a queste concezioni quelle che la
metafisica apriorista si forma sulla produzione delle cose, sui rapporti tra le
cause e gli effetti; non possiamo riconoscere perci che un carattere, come
essenziale al rapporto di causazione efficiente, e distinguente questo da
quello di una semplice sequenza invariabile, cio che questo rapporto sia
immaginato sul tipo, pi o meno fedelmente imitato, delle causazioni familiari
da cui ci viene 1' idea di causazione efficiente. Cos, se non si volesse dare
al termine causa efficiente che il significato ordinario, il principio che ogni
effetto ha una causa efficiente (e non semplicemente un antecedente a cui esso
segue invariabilmente), non sarebbe il vero presupposto fondamentale di ogni
speculazione metafisica relativa alla quistione del perch, ma, per potere
riferirvi tutte le speculazioni di quest' ordine, noi dovremmo esprimere questo
presupposto d'una maniera pi generale, per es. cosi: Bisogna assimilare, pi che
sia possibile, le nostre concezioni sulla produzione delle cose, sui rapporti
tra le cause e gli eff'etti, ai rapporti di sequenza pi familiari. Tale al fondo la vera espressione di questa
premessa incosciente, naturale al nostro spirito, da cui egli parte per tirarne
tutti i concetti metafsici relativi alla quistione del perch: il principio ogni
fenomeno ha una causa efficiente nel senso ordinario ne l'applicazione pi ordinaria, ma non ne che un'applicazione particolare. Ora si deve
notare che questa assimilazione alla sequenze familiari, che riesce a fare la
metafisica, non quasi sempre che
approssimativa ed imperfetta: ci non
soltanto perch la connessione che essa riesce a stabilire tra le cause e
gli effetti non sembra mai cosi evidente, cosi naturale, come sembra quella
delle causazioni familiari (o se.mbrava almeno nel periodo prescentifico della
nostra vita intellettuale), ma anche perch la condizione rigorosa che una
causazione efficiente dovrebbe realizzare per essere una causazione, cio quella
di costituire ma sequenza costante e incondizionale, non il pi spesso adempiuta. Per es. nella
metafisica teologica il rapporto tra la causa efficiente e 1 cfi'etto non propriamente una sequenza-^ perci questa
metafisica non dovrebbe, come fa, concepire Dio come esente dal cangiamento e
dai rapporti di tempo. Nel cartesianismo e in altri sistemi aproristi la
causazione efficiente che cerca di stabilirsi tra i fenomeni, una seguenza costante, ma non incondizionale. Nella forma di metafisica di
cui parleremo nel capitolo seguente, la distanza dal tipo anche pi grande: tra la causa efficiente e
l'efietto non vi ha pi un rapporto di sequenza; causa ed effetto non sono nel
tempo, non sono dei fenomeni ; alla sequenza cronologica si sostituisce una
sequenza puramente logica, ideale, una anteriorit e posteriorit di natura . lo
devo ricouoscere un'altra impropriet iiell'uso che ho fatto della parola causa.
Io ho considerato tutte le leggi della natui'u di Cartesio indistintamente come
leggi di causazione, e; o persiste nel suo stato di quiete o di movimento,
sinclic una forza esteriore non lo l'accia cangiare da. questo stato). Ma, non
parlando della prima parte della legge (cio che un corpo in quiete persister
nella quiete) la quale d'altronde non lia alcun importanza al nostro punto di
vista, perch esprimendo un fatto col quale siamo molto familiarizzati, non
sollecita il metalsico apriorista a cercarne la ragione non vi ha alcun motivo
di negare alla seconda parte il nome di legge di causazione, tranne forse
quello che anch' esso un prodotto della
metafisica apriorista di volerla stabilire come implicitamente contenuta nel
principio stesso di causalit. Il movimento
un cangiamento, un cangiamento da un luogo ad un altro: esso ha quindi
una causa, e l'azione d'una forza esteriore non merita pi il nome di causa che
il movimento anteriore del corpo stesso.
certo che noi possiamo distinguere nel movimento di un corpo, li)ero da
ogni intuenza esteriore, un prima e un jjoi: tra questo prima e questo poi vi
ha un rapporto delnito, e questo una
sequenza invariabile e ineondizionale. Per conseguenza il princi[>io
metalsico della causalit effieieiite, del pari che il principio positivo della
causalit tsica o uniformit di sequenza, si applica tanto nel caso del corpo che
si muove jier rimi>uLsione d'un altro (o per (qualsiasi altra azione
esteriore), ([uanto in porto a Dio arbitrario, e cos la libert di Dio, nella
sua azione sul mondo, salva, quantunra
cos distruggere l'opera di Cartesio filosofo: ma la contraddizione tra il
teologo e il filosofo non , se ben si guarda, che apparente. Sia i>urc che
le verit cosi ilette necessarie ([uali lo verit matematiche e, secondo
Cartesio, anche le verit fisiche dipendono dall'arjitrio divino, e non sono per
L'on8C^\i(i7Ai(issoluta niente necessarie: ci non toglie che questa stessa
necessit relativa che loro non si i)u negare l'impossibilit irica.
specialnjente ad una di quelle che soiu>, non dei risultati delle nostre
esperienze f Hit, familiari, ma semplicemente delle acquisizioni della scienza.
Ora una tale necessit basta allo scopo della metafisica apriorista. la quale
non pu aspirare che ad introdurre nelle verit em]>iriche e propriamente in
quelle tra queste verit che non sono i risultati dell'esperienza pi familiare
un grado di necessit uguale a quello che appartiene alle verit che chiamiamo
necessarie V. Princ. della filos., Prefaz., t. 8. 10, 12, 14; Met. t. 1, 178,
194-195; Reg. per la direz dello spir., Keg. fi, ]). 227-228, ecc. (Nell'ultimo
luogo indicato gli oggetti della nostra conoscenza sono distinti in assoluti e
relativi: l'assoluto ci che deve essere
anteriormente conosciuto per i)oter conoscere il relativo, la conosc^enza del
secondo si deduce da quella del primo, ma non reciprocamente; in ([uesta
classazione delle cose la causa
]>osta nella classe delVassolnto. l'efietto in quella del relativo).
V. Principi della filosofia, 79, ibid. 118, ecc. J . Non vi ha dubbio che, considerando il
sistema cartesiano come una spiegazione della natura, il vero principio di
questo sistema non sia il concetto di Dio, 1 aro^omento ontologico. In effetto
mentre la prova a priori di Dio non suppone alcuna verit preconosciuta, tutte
le verit che noi conosciamo sulla natura suppongono la preconoscenza di Dio, e,
come notammo, affinch queste verit siano necessari, e a priori (cloche
sovratutto premeva a Cartesio di stabilire), la preconoscenza di Dio quale
essere necessario e dimostrabile a priori Ci risulta anche dal principio, s
spesso inculcato da Car esio che la conoscenza dell' effetto presuppone que a
della causa, e non reciprocamente la conoscenza della causa quella
dell'effetto. Perch dunque Cartesio d come il primo principio della sua
filosofia, don il concetto di Dio e r argomento ontologico, ma il cogito ergo
sum . Ci indica che la spiegazione della natura, la ricerca del perch, non il solo motivo deUa speculazione cartesiana.
E in effetto, chiaro, dalla maniera in
cui Gar tesio espone i precetti del suo metodo, che vi ha in questo filosofo
un'altra preoccupazione, oltre quella eli rendere intelligibile l'
incatenamerito causale per delle rao-ioni a priori: quella di portare in tutto il sistema detle
conoscenze umane il pi alto grado di evidenza che lo spirito possa concepire.
Tra le verit concernenti il reale l'esistente, la pi evidente, la pi immediata,
e la realt del fatto della coscienza: l'argomento ontoloo-icol'implicazione
dell'esistenza nel concetto di Dio era secondo Cartesio una verit egualmente
evidente e immediata, ma la sua predilezione per questo sottile sofisma non
poteva impedirgli di sentire che la sua evidenza non era cosi luminosa da
poterla presentare V. Medita/., t. l; 1). 318; Ki^p. alle prime obbiez. t. 1.
lu''Jb, Kisp. alle secomlc obbiez. t. 1. 461. 465 alla prima entrata in una
filosofia che si dava per la realizzazione d'un metodo aspirante a conseguire
la j)i alta evidenza che lo spirito possa proporsi per modello. Per conseguenza
Cartesio segue quest'ordine; prende per punto di partenza il fatto della
coscienza che in verit il solo punto da
cui lo s])irito i)ossa partire e fermata la realt del fatto della coscienza e
del me il), si affretta ad andare, per dir cos, all'incontro dell'argomento
ontologico, costruendo altre prove dell'esistenza di Dio che non presuppongono
altra cosa che l' esistenza del pensiero e del me, per fiancheggiarne la prova
a priori, della (|uale gli sembrano avere un'evidenza pi appariscente: e allora
tutte le verit eh' egli andr a dedurre da Dio non solo saranno necessarie e a
j)riori (ci a che sarebbe bastato il solo argomento ortologico), ma riposeranno
sopra una base di un'evidenza non in verit superiore (perch l' argomento
ontologico ha la Il cof/ito erf/0 suni inm r seinpliceiiuiite. ('oiiic talvolta
si (letto . la, costctazioiie delln
iii(lii1)itabilit;i delh realt itivi deircspcrHiiiza interna, sentimenti,
])ensi(M'i, eee., sono i modi di ('ss(M-e et'r. Append. alla I. )>arte eap.
2). V. Ris). alla 2. e alla:i. ohhiez. di llobhes, t. 1. p. 470-175. Princ.
della llos.. n. S, li. (JO ()>ai'te 1). Met. 1. 15S, (h-c. Qnesta secomla
atiermazione non cos indubitaldle come
la realt del tatto della cos(enza: ma
nna di (pieste altermazioni spontanee del nostro s|>iiito. clic
([nantnnine siano, dal pnnto di vista, in cni noi ci ]oniamo. d'una validit
(d)biettiva pin che contestabile, haum nondimeno nn'evidenza sahhirtticd,
che incom])ai'aMlmeiite sni)eri(H-c a
(juclla (-he pu parere di avere nn semj>lice sotisma a.rli1rii della natura
dipendono dalla volont di Dio, ma Dio
non Je ha stabilite che perch l'ordine, la legg-e eterna e necessaria domanda
che sia cos. Di sorta che 1' ordine
eterno, innnutabil(\ necessario, che la
leg'ge ch'eg'li segue inviolabilmente, (i per cui egli ha fatto e conserva
tutte le cose > 1). Dio potrebbe restare inattivo, non ciear( un mondo; ma
se eo:li lo crea, se eu'li ao-isce, egli lo fa secondo certe leggi, che si
concepisce chiarissimamente che eg'li deve seg'uire, supposto che egli voglia
agire* . Le volont, i disegni di Dio, noi possiamo, sino ad un certo punto,
conoscerli a y>m>r/ : cos ALalebranche non rinunzia, quantunque la sua
speculazione si ri\'olga [)referibilmente verso altri soggetti, all'obbiettivo
princi[)ale della metafisica apriorista, che
di dedurre, di costruire a priori, le leggi della natura. La deduzione
di Malebranche costruita sullo stesso
tipo che ((uella di Descartes: si tratta d'introdurre tra i fenomeni dei legami
razionali e necessari^ deducendoli da Dio che
l'Essere necessario^ che non potrebbe senza contraddizione supporsi non
esistente) . Segue dalla no'/.ione di Dio che egli deve agire della maniera pi
degna di lui, pi conforme ai suoi attributi, cio della maniera pi semplice e pi
uniforme: di l le leggi della natura ; cio, in definitiva, le leggi del
movimento), che sono le pi semplici, le pi uniformi ciie sia possibile i corpi
si muovono in linea retta, perch ([uesta linea
la pi sem})lice ; si conserva sempre un'eguale Mvilliiz. rrisf.. 7, n,
IS. r2) h'ic. iklh( rrr., VI Scliiwriin. {'.'A Ific. iU'lhi rn\. Sclnnrini. li.
{\k 207). Jffd. crist. XI, ecc. (0 /.'/>. ih'hi rrr., 1. i. e. 11. quantit
di movimento (dalla stessa i)arte), perch (juesta legge la })i uniforme; ecc. (1; La dottrina di
Malebranche ha molta analogia con (luella di Leibnitz del migliore dei mondi
possibili: Dio non pu mancare di scegliere, fra tutti i possibili, l'opera
cbe la i)i conforme ai suoi attributi, e
che pu esscuxi eseguita coi mezzi pi conformi ai suoi attributi. K in seguito a
questa comparazione di tutti i possibili, e dei seguiti necessari che ne
dipendono, che Dio ha stabilito le leggi del movimento, e impresso alla materia
i primi movimenti, per farno l'opera pi perfetta possibile, e che piu) essere
eseguita per le vie pi semplici e pi uniformi possibili . I^e legg-i della
natura e la natura stessa sono duntjue necessarie non necessarie nella loro
esistenza, i)Och Dio poteva non creare un mondo, ma, nella supposizione che
egli creasse un mondo, egli non poteva crearlo diverso dall' attuale, senza
venir meno agli attributi necessari che costituiscono la natura divina . Questa
necessit una necessit logica: le leaai
della natura sono delle verit necessarie, nel senso che il loro contrario
implicherebbe contraddizione; perch esse sono delle conseguenze necessarie di
una verit necessaria, il cui contrario imj)lica contraddizione (l'esistenza di
Dio con gli attributi inclusi nella sua nozione). Senza dubbio, nella
spiegazione della natura di Malebranche, col processo proprio della metafisica
apriorista'Che tende a stabilire tra i fatti un legame Jofjico concorre quello
della metafisica istintiva -L'he assimila la produzione di tutti i fenomeni
alle causali) V. Hie. d"la rrr., 1. (5. 2 \invU) e. 4. e. Il,
Schiurinicito XV, Courvrsdz. sulla uwfaps. X, 15. Leffgi gencr. della eotnun.
del noriiiH'H., parte 1. o.s.servaz. dopo Tiirt. 14, ecc. V. (JoHversaz. stilla
nelftf. IX, X, XI, Rie. della ver. Selii, in cui hanno provato che,
moltiplicando il secondo per il terzo, e dividendo il prodotto per il primo, si
ottiene per cpaoziente 6; e vedendo ottenersi lo stes-^o numero che senza
l'operazione avevano conosciute essere il proporzionale, ne concludono la bont
dell' operazione i)er trovare in tutti i casi il quarto numero proporzionale.
Ma i matematici sanno in forza della dimostrazione della prop. de>-li
Elementi di Euclide quali numeri sono fra ! 47G eli loro proporzionali, lo
sanno cio dalla natura della proi)orzione e dalla sua propriet secondo cui il
numero che si fa dal primo e dal quarto
eguale al numero che si fa dal secondo e dal terzo; ma con tutto ci essi
non vedono adequatamente la proporzionalit dei numeri dati; se la vedono, essi
non la vedono in forza di (juella proposizione, ma intuiti vament(% j>enza
fare alcuna operazione n ). Altri esempi
di conoscenza intuitiva sono che due e tre sono uguali a cinque, e che, se si
danno due linee parallele ad una terza, queste linee sono anche parallele fra
di loro. La prima forma di conoscenza
sou'ii'etta all' errore ; la seconda e la terza non possono ingannarci.
Le induzioni dell' esperienza sono ricondotte alla forma fallibile, ('
infel/ccfnx e air n fiat ione IV v V. {:\) Hlh. Pars V. \no]K XXV. (4l De
HfelccfHs cmendnt. l. e. (.'i) Eth. Pars II. Vv. , Scli. II. De hifelief.
nitcndnt . . e cos, deducendo sempre V eftetto dalla causa prossima , dall'essenza di Dio, dalla causa prima, che
in definitiva tutta la scienza deve procedere. La vera scienza consiste dunque
a dedarre l'effetto dalla causa, partendo dalla causa prima (che si conosce per
la sua sola essenza, perch l'esistenza di Dio
inclusa nella sua essenza, nel suo concetto); e questa scienza intaitiva, perch, come abbiamo detto, essa
passa dalla conoscenza di una cosa (la causa) alla conoscenza di un'altra cosa
(l'effetto) d'una maniera immediata, cio senza l'intermediario d una
dimostrazione . Queste cm-e, queste cause e questi effetti, sono delle cose
astratte, delle astrazioni realizzate; cosi nel capitolo seguente noi dovremo
tornare su Spinoza, e allora si vedr con pi precisione quale sia l'idea di
questo filosofo i^wW efficienza causale^ ci che
il punto capitale per la comprensione del suo arduo sistema. Per ora
possiamo notare, insieme alla identit generica, una notevole differenza tra
l'idea di Spinoza e quella degli altri filosofi aprioristi di cui abbiamo
})arlato. La tendenza della metafisica apriorista, in generale, di assimilare, nella forma, tutte le
causazioni a (juelle da cui ci viene l'idea di causazione efficiente. La forma
che caratterizza (jueste causazioni, come conoscenze nostre, la necessit e r evidenza intrinseca
(]>ropria delle inferenze incoscienti), i (juali caratteri derivano della
estrema fre(]|uenza delle esperienze a cui queste conoscenze sono dovute. Cos
la filosofa apriorista iu generale intende apportare in tutte le relazioni
causali questa forma di necessit e di evidenza intrinseca, razionale (cio
fondata sui rapporti stessi delle idee e in ltli. Ass. , P(trs II prup. VII, De
intelleetus etnen(taf ione VII, oc(\ De intelleet. emendat. dipendente dall'
esperienza). Ma mentre alcuni filosofi aprioristi, come Descartes, si
contentano di una evidenza di mostrai iva in cui la connessione fra le due idee
(della causa e dell' effetto) che vogliono mettersi in rapporto non si vede
immediatamente, ma vi ha bisogno perci deirintervento di altre idee
intermediarie, altri invece come Spinoza e, al fondo, ;tutti gli altri filosofi
i cui sistemi sono costruiti sullo stesso tipo del suo (cio fondati sulla
realizzazione dei concetti astratti e sulla identificazione del rapporto
ontologico tra la causa e l'effetto col rapporto logico tra il principio e la
conseguenza), domandano un^ evidenza intaitiva ^\ol^ in cui la connessione tra
r idea della causa e quella dell' effetto si veda immediatamente, senza 1"
intervento di altre idee intermediarie chele mettano in rapporto. E chiaro che
questa evidenza intuitiva assimilerebbe di pi che l' evidenza semplicemente
dimostrativa i rapporti causali in cui essa si trovasse, al tipo che si tratta
d'imitare; perch nelle causazioni familiari
immediatamente, intuitivamente, che lo spirito percepisce la convenienza
tra l'idea della causa e quella dell'effetto, la necessit con cui r effetto
procede dalla causa. Quest' apparente evidenza intuitiva, nelle causazioni
familiari, consiste in un legame molto intimo tra le idee, costituito da uu
associazione empirica: Spinoza invece, e i filosofi affini, vogliono ottenere
quest'evidenza intuitiva per un legame puramente logico; cos, per essi,
l'effetto una conseguenza logica della
causa, e una conseguenza, la cui connessione col principio (con la causa),
possa essere dallo spirito percepita immediatamente. E perci che Spinoza
dichiara adequata la sola conoscenza intuitiva, e la mette al di sopra delle
altre forme di conoscenza. Ma ci si comprender d'una maniera pi chiara nel
capitolo seguente. Leihnitz. .erienza, cio a posteriori, o per la ragione e A
PRIORI, cio per le considerazioni della convenienza che le ha fatto scegliere.
Cos le leggi della natu-,..x_(|uelle che non sono assolutamente necessarie,
come sarebbe (questa, che ogni fatto deve avere una ragion determinante, o
anche ([uest'altra, che i corpi non agiscono gli uni sugli altri che |)er impulsione
dipendono dalla scelta della pi perfetta saggezza, e se ne deve rend(n-e
ragione per le cause finali: di ((uesta
maniera che devono spi(\u'arsi le leggi del movimento, a cui le leggi dtil
mondo materiale in sonnna si riducono. La s])iegazione leibnitziana delle leggi
della nntura dunque in primo luogo una
spiegazione teologica e teleologica: ma essa
inoltre una spiegazione r^^^r/om^r/, perch Leibnitz annnette la
possibilit di dedurre a priori (|Ueste leggi dalle considerazioni della convenienza che le ha
fatto scegliere. Le cause finali per Leibnitz non servono soltanto a sjiegare
le cose gi conosciut(iper Tosservazione, ma sono anche un mezzo di scoverta, un
jn-incipio da 481 cui si pu concludere a priori come le cose devono essere:
egli non si limita a dire (argomentando a posteriori) ci fatto della maniera pi conveniente,
dunque li prodotto d'una saggezza
perfetta; ma dice ancora^ (argomentando a priori): ci il prodotto di una saggtzza perfetta, dunque
ci deve essere fatto cos perch cosi il
pi conveniente . Nella spiegazione teleologica di Leibnitz, col processo della
metafisica istintiva concorre il processo della metafisica apriorista. Il
principio fondamentale della filosofa apriorista deve a Leibnitz, possiamo
dirlo, la sua espressione pi classica:
il principio della ragion sufficiente o determinante, secondo il quale
niente accade, senza che vi sia una causa o almeno una ragione determinante,
vale a dire qualche cosa che possa servire a rendere ragione a priori })erch ci
esiste cos piuttosto che di ogni altra maniera
. Questo principio si applica tanto ai fatti particolari quanto alle
verit generali, tanto alle verit contingenti, quanto alle necessarie; cos esso anche espresso sotto (piesta forma pi
generale: non vi ha enunciazione vera di
cui quegli che avesse tutta la conoscenza necessaria per intenderla
perfettamente non potrebbe vedere la raragione. Posto il principio della ragion
sufficiente, la prima quistione che si ha dritto di fare sar: Perch vi ha
qualche cosa piuttosto che niente V . . . . Di pi, supposto che delle cose
devono (l^ V. olti-o i 1. iiul. iiolla iiotM imuMMl. e. nelle diu' soiriKMiti,
.V. .V. 1. 1. e. S. ^ IS. X.
S. 1. 4, it, . ^ l:^, ir^sit. nlhi I Ueplica (li Clarke 1. Dnteiis. ]k 1. ,
ecc. ffisc. ih'lht con /orni, dclht fede eoa la niy. v> 2. Dlse. di meta/. (Lctt. e opusc. pubblic da F. de
Careil), p. 856. Us. dei prine. di Malehv. (od. Diitcns, t. 2. \). 1, 201)), De
Ipsd nat. slce de vi ins. t. (Dut. t. 2, ]). 2, 51), De unleo opt., eatoptr. et
dioplr. pruie. (l)iit. t. 8, p. 146), Teodie. Prefaz. (ed Jaccpies, t, 2, ]).
), Dise, della conform. della fede con la rag. 2, ecc. Saggi sulla bont di Dio,
ecc. 41. (8) Ossercaz. sul Uh. di King, 14. 31 482 esistere, bisooua che si
possa rendere ragione perch esse devono esistere cos e non altrimenti . Alla prima qiiistione: Perch vi ha qualche
cosa? si risponde che la ragione delTesistenza delie cose finite in Dio, e la rag-ione dell' esitenza di Dio
(dell' essere perfettissimo) in lui
stesso, nella sua essenza o nel suo concetto, in cui l'esistenza necessariamente inclusa (l'argomento
ontologico) . Alla seconda quistione: Perch le cose devono esistere cos e non
altrimenti? risponde la teoria del migliore dei mondi possibili. * Segue dalla
perfezione suprema di Dio che, producendo l'universo, egli ha scelto il miglior
piano possibile, dove vi sia la pi grande variet col pi grande ordine: il
terreno, il luogo, il tempo i meglio utilizzati: il pi di effetto prodotto per
le vie pi semplici ; il pi di potenza, il pi di conoscenza, il pi di felicit e
di bont nelle creature, che 1' universo ne poteva ammettere. Perch tutti i
possibili pretendendo all'esistenza nell'intendimento di Dio, a proporzione
delle loro perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve assere il
mondo attuale ii pi perfetto che sia possibile. E senza ci non sarebbe
possibile di rendere ragione perch le cose sono andate cos piuttosto che
altrimenti. Si pu dire che, tosto che Dio ha deliberato di creare qualche cosa,
vi ha una lotta fra tutti i possibili, tutti pretendendo all'esistenza (perch
tutti i possibili non sono compatibili fra loro in uno Pric. delld nat. e della
graz,, 7. Come si vede, hi ([iiistione: Perch vi ha lualche cosa? si riduce
alla piistione: Perch Dio esiste? Questa quistione oltrepassa la ricerca delle
cause efficienti (il perch dell' esistenza della causa prima non potendo essere
la causa efficiente): ma nell'Append. a questo capit. noi vedremo come tale
'ezza. Di pi, secondo i principii di Leibnitz, la distinzione tra verit a
priori e verit a posteriori non II 485 esiste che per la limitazione della
nostra intelligenza: per se stesse, tutte le verit sono conoscibili a priori;
per la stessa intelligenza limitata dell'uonio, non vi ha un limite fisso che
segni sin dove s' estenda la possibilit di conoscere il reale razionalmentp;
perci l'esser poste al di l o al di qua dei limiti della nostra vista
intellettuale non pu apportare nelle cose stesse una differenza obbiettiva,
qual , almeno secondo i metafisici, quella tra il contingente e il necessario.
La stessa distinzione tra verit fondate sul principio di contraddizione e verit
fondate sul principio di ragion sufficiente, svanisce, in ultima analisi,
secondo i presupposti di Leibnitz: il principio di contraddizione il fondamento ultimo, tanto del principio di
ragion sufficiente , quanto delle verit fondate su questo principio. Ci non
segue soltanto dalle considerazioni precedenti sulla dottrina del migliore dei
mondi possibili, ma ancora dalla dottrina ])sicologica di Leibnitz, che ammette
che tutte le verit razionali sono dimostrabili (col metodo sillogistico) , che
non vi hanno altri principii immediati che le verit identiche , e che cos i
principii d' indentit e di contraddizione sone la base unica di tutte le
conoscenze a priori. V'ha chi crede,
vero, che Leibnitz deriva dal principio di contraddizione, non tutte le
verit a priori, ma quelle sole ch'egli chiama necessarie nel senso stretto,
quali le proposizioni della matematica pura: ma questa interpretazione sembrer
una limitazione arbitraria del vero pensiero V. i 1. indicati nella ])rinia
nota. /iJpist. ad R. P. Des Bosscs erfisiche, tanto l'azione di un corpo su di
un altro o tra Tanima e il corpo quanto le azioni immanenti delle monadi e r
azione creatrice della Monade^ suprema, |)erch per tutte vi ha una ragione a
priori che pu spiegare perch ci deve esistere cos e noi altrimenti. 7. Con
Locke la metafisica apriorista volge all'agnosticismo e allo scetticismo. Le
speculazioni di Locke sulla natura della conoscenza, i suoi liniti e i gradi
della certezza, quantunque le sue ricerche sulForigine delle idee, il suo
sensismo, le abbiaio fatto [)assare in seconda linea, costituiscono non |)er
tanto, nel pensiero dell'autore, l'oggetto principale del faggio sul V
intendimento Hnano . Questa teoria della conoscenza fondata sul presupposto della filosofia
apriorista, cio che una conoscenza assoluta, adc^iuata, delle leggi delle cose
sarebbe una conoscenza a priori, che lo s[)irito tirerebbe, non dall'
osservazione dei fatti esteriori, ma dalla contemplazione e la compara/Jone
delle sue [)roprie Gap. 8 e 4. Una cosa si dico che a:;iscc su to e alle cause
fisiche cie Leibnitz d specialmente il nome di cause efficienti. V. Preambolo.
Tsmsv!Ssmm 488 idee. Locke senza dubbio
uno dei promotori della filosofia dell'esperienza: ma se egii inculca il metodo
sperimentale, perch crede che i limiti
stretti, dentro cui circoscritta
Tintelligenza umana, non le permettono di conseguire la conoscenza perfetta,
cio la conoscenza a priori, che sola potrebbe dare al bisogno che ha di
conoscere, una soddisfazione reale. Locke definisce la conoscenza la percezione della convenienza o leo'ame o
della disconvenienza o opposizione tra du(*, idee. Questa convenienza 0
discouvenieiiza pu essere percepita, sia comparando immediatamente le due idee
l'una con l'altra, e allora la conoscenza
intuitiva cosi che lo spirito
vede che il bianco non il nero, che un
cerchio non un triangolo, che tre uguale a due pi uno sia mediante
l'intervenzione di una o pi altre idee, che lo spirito paragona tra di loro e
con quelle di cui vuole scoprire la convenienza o la discorivenienza, e allora
la conoscenza dimostrativa cos lo
spirito, non potondo conoscere l'eguaglianza dei tre angoli di un triangolo a
due retti, intuitivamente^ comparando insieme i tre angoli del triangolo e due
retti, obbligato di servirsi di altri
angoli a cui i tre angoli del triangolo siano eguali, e trovando che questi
sono eguali a due retti, egli conosce perci dimostrativamente che i tre angoli
di un triangolo sono pure eguali a due retti . Ma il fondamento ultimo della
conoscenza sempre Vintuizione^ anche
nella conoscenza dimostrativa, perch, a ciascun grado della deduzione, la
connessione delle idee, la loro convenienza o di sconvenienza, percepita d' una maniera intuitiva . Ecco
dunque i due gradi della nostra conoscenza: Virftiiizione e la dimostrazione.
Ci che non pu rapportarsi all' uno dei due,
fede 1 489 o opinione, e non conoscenza, almeno riguardo a tutte le
verit generali ^1). Quando le idee di cui noi percepiamo la convenienza o la
disconvenienza, sono astratte, la nostra conoscenza universale. Perch ci che conosciuto di questa sorta di idee generali,
sarfi sempre vero di ciascuna cosa particolare, in cui questa essenza, cio
quest'idea astratta, si trova racchiusa; e ci che una volta conosciuto di quest'idee, sar
continuamente ed eternamente vero. Cosi per ci che di tutte le conoscenze generali, nel nostro spirito che noi dobbiamo cercarle
e trovarle unicamente, e non che la
considerazione delle nostre proprie idee che ce le fornisce. Che la conoscenza a priori sia per Locke la
sola conoscenza adequata, quella in cui si ha, per dir cos, la concidenza tra
l'intelligenza e l'intelligibile, lo indica gi questa circostanza, eh' egli non
accorda il nome di conoscenza che alla intuitiva e alla dimostrativa: la
conoscenza sperimentale, induttiva, non
per lui una conoscenza. Locke suppone che vi hanno sempre nelle cose
stesse delle connessioni necessarie e razionali, cio percettibili a priori, sia
che il nostro spirito possa o no averne la percezione attuale. Cos egli
definisce la verit: la denotazione in parole della convenienza o disconvenienza
delle idee, quale essa realmente . Nel
giudizio o l'opinione facolt che ci
stata data per supplire al difetto della vera conoscenza, cio della
conoscenza a priori lo spirito suppone che le idee convengano o disconvengano:
egli non vede la convenienza 0 disconvenienza delle idee, ma presume che vi sia
. L. ecc. L. ecc. L. 4 e. 2 v^ 14. (2^ L. L. Pare da ci che Locke consideri la
convenienza e disconvenienze delle idee cio le loro connessioni e
incompatibilit necessarie e razionali ossia intelligibili a priori come una
propriet obbiettiva delle idee stesse, che esiste sia che noi possiamo scoprirla
o no, della stessa maniera che i rapi)orti fra le g'randezze esistono, sia che
noi le abbiamo misurate o no ; e che ea'li ammetta che questa propriet deve
trovarsi sempre nelle idee, tutte le volte che vi ha una congiunzione costante
o un'incompatibilit tra i fatti che queste idee rappresentano. Questa propriet
noi la percepiamo nella cocoscenza a priori, cio intuitiva o dimostrativa, di
una verit generale; nella conoscenza a posteriori o induttiva non la
percet)iamo, ma siamo ridotti a presumerla. La limitazione della nostra
conoscenza a priori prova la limitazione delle nostre facolt conoscitive nello
stato di mediocrit in cui esse si trovano in questa vita. Tutte le conoscenze
generali sul reale si riducono insomma per Locke a sapere che tali propriet
coesistono costantemente con tali altre propriet in un sog-getto comune, poich
l'idea che noi abbiamo di ciascuna specie di esseri, di ciascuna sostanza, l'idea di un grappo di propriet o di
attributi che coesistono costantemente in uno stesso sog-getto (propriet che
per la massima parte sono le potenze attive e passive delle sostanze, cio la
loro capacit di modificare d' una certa maniera altre sostanze o di esserne
modificate) . Una conoscenza a f)riori delle leggi delle cose sarebbe dunque la
conoscenza di una dipendenza naturale, di una connessione necessaria e
razionale^ fra le propriet coesistenti il cui complesso costitusce la L. 4 e.
12 ^S 10. e. 11 ^^ ^. r(msibilit importa naturalmente per lui, come per tutti i
metafisici, che vi ha l qualche cosa che noi non conosciamo, e che, se la
conoscessimo, ci farebbe comprendere come e perch i fatti sono congiunti. Per
conseguenza Locke ammette la dottrina che noi non conosciamo Vessenza rea^e
delle cose. Egli distingue Vessenza reale e VessenyM nominale. L'essenza
nominale il complesso delle note che
costituiscono il concetto di ciascun genere . L'essenza reale il fondamento delle i)ropriet che
appartengono al genere, il principio da cui esse derivano, in altri termini, ci
che, se fosse conosciuto, spiegherebbe come e perch queste propri(it coesistono
le une con le altre, come e perch sono unite in uno stesso soggetto . Ci che
prova che l'essenza reale delle sostanze none la loro essenza L. 4 e.:? ^ 11,
12. ! l-"). ^'. ^^ -' ^' 9. e. 9 vS
12, e. 10 21, 1. 4 e. 4 ^ 12, e. (> ^ 15. ecc. 492 nominale, ma qualche cosa
di sconosciuto, che noi non vediamo
alcuna connessione tra le loro propriet, non comprendiamo cornee perch queste
propriet coesistono o sono unite in uno stesso sog-g-etto, non possiamo dedurle
a priori dall'essenza nominale, (dal concetto) della sostanza . L dove 1'
essenza nominale e ressenza reale s'identificano (ci che non avviene mai nelle
sostanze, ma soltanto nei modi), come p. e. nelle figure g-eometriche, noi
possiamo dedurre a priori da un piccolo numero di propriet che facciamo entrare
nella definizione o nel concetto della cosa, tutte le altre propriet che ad
essa ai)parteng-ono (21 Ma nella ricerca
che noi facciamo per perfezionare la conoscenza che possiamo avere d $ 9. ecc.
L. 3 e. 3 $ 18, e. 5 14, e. 11 v^ V\, 1. 4 e. 12 $ 8-9, ecc. potrebbe
appendermi; e non che per delle
esperienze che io posso conoscere certamente quali altre qualit coesistono con
quelle della mia idea complessa. . i:
essenza reale (ch'egli chiama ^wvq costituzione reale) di una sostanza, di un
genere di esseri reali, dunque per Locke
un principio sconosciuto, e inconoscibile, dal quale, se lo conoscessimo, noi
potremmo dedurre, per il solo ragionamento, senz'alcun soccorso
dell'esperienza, tutte le propriet che noi conosciamo o possiamo conoscere del
genere . Per le diverse specie dei corpi, l'essenza reale la costituzione interione delle loro parti
insensibili : cos da questa diversa
costituzione che derivano e potrebbero essere dedotte tutte le propriet
osservabili che appartengono ai diversi corpi, le quali consistono quasi
unicamente, come abbiamo detto^ nelle loro potenze attive e j^assive, tra le
quali bisogna pure contare le propriet sensibili (secondarie) che non sono nei
corpi stessi che delle potenze d' impressionare d'una certa maniera i nostri
sensi. Locke oppone questa dottrina a quella degli sco\s.st\ci(\eMe forme
sostanziali: vi ha tra le due dottrine sulle essenze delle sostanze materiali
questa differenza capitale, che mentre, secondo i peripatetici, ciascuna specie
di sostanze ha una natura propria, ed
governata da leggi proprie, irriduttibili alle lei>"ii o-enerali
della materia e del movimento, invece Locke ammette, con la maggior parte dei
filosofi moderni, la teoria meccanica, che spiega le propriet speciali delle
cose per le leggi generali del mondo materiale. Ma se h. 4 e. 12 9. V. oltre il
luojro riportato e quelli citati nelle due note precedeuti, 1. 2 e. 31 ^S
10-11, 1. 3 e. 11 ^S 22-23, 1. 4. e. H. $ 11, 15, e. 12 ^ 12, ecc. L. 2 e. 31 ^
H, 1. 3. e. 3. 17-18, e. > $ 2, e. 6
evidentemente, per Locke, un'applicazione i)articolaie del principio,
generale che le propriet delle cose derivano e potre1bero dedursi dalla loro
essenza reale. Ci e tanto vero che egli non accorda a quest'ipotesi che una
certezza inlV^riore a (piella della dottrina di una essenza reale sconosciuta:
le })roi)riet dei diversi corpi dovendo certamente derivare da qualche
principio sconosciuto, il pi lu'obabile
che questo principio sia la costituzione delle loro parti insensibili
(V. 1. 4 e.:^ 11, ib. IH. ecc.) Il presupposto della dottrina dell' essenza
reale, che vi ha per ciascuna sostanza un principio, dal quale, se fosse
possibile di conoscerlo. potre])bero dedursi tutte le propriet di questa
sostanza, reooe anche, secondo Locke, nell'ipotesi che l'essenza delle diverse
specie di corpi si concepisca in un modo diverso da quello in cui egli stesso
la concepisce (costituzione delle parti insensibili), per esempio nel modo in
cui la concepiscono gli scolastici: anche in questo caso, bisognerebbe
ammettere che tutte le propriet della specie potrebbero dedursi a priori
dall'essenza (1. 2 e. 31 6, 1. 8 e. 19,
1. 4 e. 6. 5, ecc.) 495 ma oltre queste vi hanno le qualit e le potenze che
l'oro ha in comune con gli altri corpi, in altri termini tutte le qualit e
potenze la cui collezione costituisce il genere (la sostanza) corpo o materia.
Questa collezione di propriet suppone, secondo i presupposti di Locke, una
causa della loro unione, qualche cosa che potrebbe spiegare perch le une
coesistono con le altre, un principio, infine, da cui tutte potrebbero dedursi.
Ci che si detto della collezione di
i)ropriei che costituisce, per la nostra conoscenza, la sostanza corpo, deve
dirsi similmente della collezione di propriet che costituisce la sostanza
spirito. Per una conoscenza razionale delle stesse propriet distintive
dell'oro, non basterebbe di conoscere Vessenza reale dell'oro, la costituzione
delle sue parti insensibili, se noi non conoscessimo inoltre il principio, da
cui derivano le qualit e le maniere d' agire e di patire, tanto della materia
quanto dello spirito. Questa conoscenza razionale in civetto supporrebbe che
noi conoscessimo (razionalmente, cio a priori) la connessione tra le propriet
sensibili dell' oro e questa costituzione delle sue parti sensibili: ma perci
dovremmo conoscere (sempre a priori) tutte le maniere di agire e di patire
della materia, e la connessione che vi ha tra i movimenti della materia e le
sensazioni che essi occasionano nello spirito . Ci che sarebbe impossibile^
nella ignoranza del principio, dal quale potrebbero dedursi le potenze e le
operazioni, sia della materia, sia dello spirito. Cosi al di l dell' essenza
reale che possiamo chiamare fisica (la costituzione delle part insensibili dei corpi),
Locke ammette un' essenza reale, che possiamo chiamare metafisica ; T essenza o costituzione interiore
sconosciuta della materia e dello spirito, che naturalmente egli conclude dalla
incomprensibilit L. ecc. delle potenze e operazioni di queste due sostanze , e
che, conformemente alla sua dottrina generale sulla essenza reale, egli deve
concepire come il principio di tutte le loro propriet, la cui conosceuza, se
fosse possibile, trasformerebbe la conoscenza di queste propriet da empirica in
a priori. Qui ci troviamo in presenza di un' altra dottrina trascendente di
Locke, quella della sostanza^ dottrina i cui veri motivi noi siamo ridotti a
congetturare, poich le spiegazioni dell'autore a questo riguardo sono, a mio
credere, assai insufficienti. Locke ammette che, nelle nostre idee delle
sostanze, vi ha, oltre il complesso delle loro propriet o attributi, l'idea
oscura di un quid sconosciuto, in cui queste propriet ineriscono, ed questo quid che egli chiama, nel senso
stretto, la sostanza. Se noi gli domandiamo perch bisogni ammettere questa
entit trascendente, egli risponde che questi attributi noi non potremmo
concepirli senza qualche cosa a cui essi ineriscano; il che significa
semplicemente che vi ha una necessit mentale che ci forza ad ammettere questa
qualche cosa. Ma per far sentire questa necessit mentale a quelli che non
l'avvertono, e ritengono semplicemente che una sostanza il complesso dei suoi attributi (questa
estensione, questa forma, questo colore, ecc.) avrebbe bisognato ([ualche
spiegazione. Tuttavia Locke aggiunge un'altra indicazione: la sostanza non solamente il substratum a cui le qualit
ineriscono, ma anche ci da cui queste
qualit risultano, ci che costituisce il loro legame, che la causa della loro unione o della loro
coesistenza in uno stesso soggetto . Questo ci mostra che la dottrina della
sostanza legata a quella dell' essenza
reale, e che, secondo Locke, la na L. 2
e. 23 ^ 22-28. 1. 8 e. H $ 8. 1. 4 e. 3 ^ 28, ecc. L. 2 i\ 28 5> 1. G. 1. 3
e. (> 21, ecc. tura della sostanza, del substratum sconosciuto delle qualit,
che il principio ultimo da cui queste
derivano e potrebbero dedursi. Vi hanno nondimeno delle ragioni per credere che
la funzione del concetto trascendente della sostanza, in Locke, non sia
unicamente questa, di darci una rappresentazione delle cose tale che si
concepisca come esse possano conformarsi alla condizione che loro impone il
principio della metafisica aprhrsta, alla condizione cio che le loro leggi
siano conoscibili a priori (per un'intelligenza che fosse adequata all'
intelligibile). Per la sostanza dello spirito almeno, non potrebbe dubitarsi
che Locke non obbedisca alla tendenzanaturale che ci spinge ad immaginare un
substratum, un quid permanente, a cui gli stati della coscienza ineriscano,
dopo che abbiamo ammesso la separabilil dello spirito dal corpo (l). In quanto
alla sostanza della materia, r asserzione s spesso ripetuta che noi non
possiamo concepire le qualit tutte sole, senza qualche cosa a cui esse
ineriscano, fa pensare che Locke ha probabilmente intraveduti^ la grande
difficolt del concetto ordinario della materia, difficolt che consiste in
questo, che, dopo aver soppresso le propriet sensibili (secondarie), ci che
resta del corpo l'estensioae secondo irli uni, l'estensione e l'impenetrabilit
secondo gli altri non che un'astrazione,
che impossibile di rappresentarci come
qualche cosa di concreto e di per s esistente, e che forza perci il metafisico
a trascendere l'esperienza, per avere un che di concreto in cui
quest'astrazione possa inesistere. Ma questa
una quistione che appartiene alla parte II. Sin qui dell' agnosticismo
di Locke: passiamo ora al suo scetticismo, che
il lato della sua teoria della conoscenza, su cui egli insiste di pi, e
per cui egli pu considerarsi come il precursore di Hume. V. Appcnd. (Illa 1
parte, e. 2. Dal principio che la conoscenza assolata, adequata, delle
leg"g-i delle cose, la sola che meriti il nome di conoscenza, la conoscenza a priori, cio intuitiva o
dimostrativa, Locke ne conclude che 1' esperienza, l'induzione, non pu dare
delle conoscenze generali che siano certe. In effetto, V evidenza delle
conoscenze induttive inferiore a quella
delle conoscenze a priori: ne segue, se le conosce nze a priori sono le sole adequate,
che la loro certezza la sola adequata, e
che la certezza delle conoscenze induttive non
adequata, non certezza, come
queste conoscenze non sono conoscenze. Il risultato di questo corollario del
principio della metafisica apriorista, associato con la convinzione che le
leggi del reale non possiamo conoscerle che per l'esperienza, l'incertezza iella nostra conoscenza generale
sugli esseri reali. Per mostrare quest'incertezza il ragionamento di Locke sempre lo stesso: perch si possa assicurare
che vi ha tra due fatti un legame costante,
necessario di percepire una connessione a priori, per intuizione o per
dimostrazione, tra le idee di questi fatti; questa connessione non la vediamo
quasi mai; dunque non possiamo quasi mai assicurare che vi ha tra due fatti un
legame costante. Siccome ci che noi conosciamo degli esseri reali si riduce per
Locke, come abbiamo detto, alla coesistenza d'un complesso di propriet o
attributi in uno stesso soggetto, cosi le nostre conoscenze generali sul reale
si riducono a sapere quali altri attributi (qualit o potenze) coesistono o no
costantemente con quelli che costituiscono gi i nostri concetti, o come dice
Locke, le nostre idee complesse, delle cose, vale a dire con quelli ehe entrano
nei significati dei nomi dei generi, e che noi supponiamo trovarsi nelle cose,
quando le chiamiamo con questi nomi. Ora questa parte della scienza umana ,
dice Locke, molto limitata, e si riduce
pressoch a 499 niente. La ragione di ci
che le idee semplici che compongono le nostre idee complesse delle
sostanze, sono di tal natura che esse non portano con s alcun legame visibile e
necessario o alcuna incompatibilit co^ii alcun' altra idea semplice, di cui
vorremmo conoscere la coesistenza con 1' idea complessa che gi abbiamo . In verit alcune poche delle qualit primarie
(dei corpi) hanno una dipendenza necessaria e un visibile legame fra di loro ;
cosi la figura suppone necessariamente 1' estensione, e la recezione o la
comunicazione del movimento per via d'impulsione suppone la solidit. Ma
quantunque vi sia una tale dipendenza tra queste idee, e forse tra alcune
altre, ve ne ha per tanto si poche che abbiano una connessione visibile, che
noi non potremmo scoprire per intuizione ^o per dimostrazione che la
coesistenza di pochissime qualit che si trovano unite nelle sostanze ; di sorta
che per conoscere quali qualit sono racchiuse nelle sostanze, non ci resta che
il semplice soccorso dei sensi Cosi quantunque noi vediamo il color giallo, e
troviamo, per esperienza, il peso, la malleabilit, la fusibilit e la fissit
unite in un pezzo d' oro ; con tutto ci, poich ninna di queste idee non ha
alcuna dipendenza visibile 0 alcun legame necessario con un'altra, noi non
potremmo conoscere certamente che l, dove si trovano quattro di queste idee, la
quinta deve esservi pure, per quanto probabile sia eh' essa vi efl'ettivamente ; perch la pi grande
probabilit non importa mai certezza, senza la quale non pu esservi alcuna vera
conoscenza Ogni oro fisso,
una proposizione di cui non possiamo conoscere certamente la verit Se si
prende la parola oro per L. 4 e. 3 par. 10. L. 4 e. 3 $ 14. una specie
determinata dalla sua essenza nominale; che r essenza nominale sia p. e. V idea
complessa d' un corpo d' un certo colore giallo, malleabile, fusibile e pi
pesante che alcun altro corpo conosciuto^ alcun' altra qualit non pu essere
universalmente affermata 0 negata con certezza dell'oro, se non ci che ha con
questa essenza nominale una connessione o un'incompatibilit che si pu scoprire.
La fissit, p. e., non avendo alcuna connessione necessaria col colore, il peso
o alcun' altra idea semplice che entra nell' idea Complessa che noi abbiamo
dell'oro, o con questa combinazione l'idee prese insieme, impossibile che noi possiamo conoscere
certamente la verit di questa proposizione : Che ogni oro fisso Come non si pu scoprire alcun legame
tra la fissit e il colore, il peso e le altre idee semplici dell'essenza
nominale dell'oro che noi veniamo di proporre ; cos se noi facciamo che la
nostra idea complessa dell' oro sia un corpo giallo, fusibile, duttile, pesante
e fsso, noi saremo nella stessa incertezza riguardo alla sua capacit di essere
disciolto neir acqua regia, e ci per la stessa ragione, perch, per la
considerazione delle idee stesse, noi non possiamo mai affermare o negare con
certezza di un corpo di cui l'idea complessa racchiude il color giallo, un gran
peso, la duttilit, la fusibilit e la fissit, ch'esso pu essere disciolto
nell'acqua regia; e cosi del resto delle sue altre qualit. Io vorrei ben vedere
un'affermazione generale su qualche qualit dell'oro, di cui si possa essere
certamente sicuri che vera. Senza dubbio
mi si replicher subito: ecco una proposizione universale affatto certa, ogni
oro malleabile. A che io rispondo:
Questa , ne convengo, una proposizione certissima, se la malleabilit fa parte
dell'idea complessa che la parola oro significa. Ma tutto ci che si afferma
dell' oro in questo caso, che questo
suono significa 501 un'idea nella quale
racchiusa la malleabilit; specie di verit e di certezza in tutto simile
a quest' affermazione Un centauro un'
animale a quattro piedi. Ma se la malleabilit non fa parte dell'essenza
specifica significata dalla parola oro,
visibile che quest' aftermazione ogni oro malleabile non una proposizione certa; perch che l'idea
complessa dell'oro sia composta di tali altre qualit che vi piacer supporre
nell' oro, la malleabilit non parr dipendere da quest'idea complessa, n
derivare da alcuna idea semplice che vi sia racchiusa Locke distingue le
proposizioni in reali o istruttive e verbali o frivole. Queste ultime sono le
proposizioni che Kant chiam analitiche, cio quelle in cui l'idea deir atributo
era gi compresa nell'idea del soggetto: cosi se per la parola oro s' intende un
corpo giallo, pesante, fusibile, e malleabile, dicendo: ogni oro malleabile., la proposizione sar certa ma
frivola, essa volger semplicemente sul significato del nome, senza estendere
per niente la nostra conoscenza sulle cose. Ma se la malleabilit iion compresa nelr idea sig-nifcata dal nome che
fa da soggetto, se la proposizione ogni oro
malleabeli sintetica, allora la
proposizione reale o istruttiva, ma non certa. Ora
siccome noi non abbiamo che poco o putito conoscenza delle combinazioni
d'idee semplici che esistono insieme nelle sostanze che perii mezzo dei nostri
sensi (i quali non danno certezza che del particolare), noi non potremmo fare
sul loro soggetto alcuna proposizione universale che sia certa, al d l del
termine a cui le loro essenze nominali ci conducono; e siccome queste essenze
nominali non si estendono che a un piccolo numero di verit, pochissimo
importanti, avuto riguardo a quelle che dipendono dalle loro costituzioni
reali, ne segue L. 4 e. (j ^ 8 e 9. che le proposizioni generali che si fanno
sulle sostanze^, sono per la pi parte frivole, se sono certe ; e che se sono
istruttive, sono incerte e di tal natura che noi non possiamo avere alcuna
conoscenza della loro verit reale, qualunque sia il soccorso che delle
osservazioni costanti e 1' analogia possano fornirci per fare delle congetture
. Le idee complesse che i nomi che^ noi
diamo alle specie delle sostanze significano, sono delle collezioni di certe
qualit che noi abbiamo osservate coesistere in un substratum sconosciuto che
chiamiamo sostanza. Ma noi non potremmo conoscere certamente quali altre qualit
coesistono necessariamente con tali conbinazioni ; a meno che non potessimo
scoprire la loro dipendenza naturale, di cui non potremmo portare la conoscenza
molto avanti rispetto alle loro prime qualit. E per tutte le loro seconde
qualit, noi non vi possiamo assolutamente scoprire alcuna connessione, primo
perch non conosciamo le costituzioni reali delle sostanze da cui dipende in
particolare ciascuna seconda qualit ; e secondo perch, supposto che ci ci fosse
conosciuto, non potrebbe servirci per una conoscenza universale, ma solo per
una conoscenza sperimentale, non potendo estendersi con certezza al di l d'un
tale o d'im tal altro esempio, perch il nostro intendimento non potrebbe
scoprire alcuna connessione immaginabile tra una seconda qualit e una modificazione
qualsiasi d' una delle prime qualit. Ecco perch non si possono fare sulle
sostanze che pochissime proposizioni generali che portino con s una certezza
indubitabile* . Io credo per me che fra
tutte le seconde qualit delle sostanze, e fra le potenze che vi si rapportano,
non se ne potrebbero nominare due di cui la coesistenza L. 4 e. Vili, ^ 9. L. 4
e. VI, $ 7. WtiiiflIWIlimii TTIlll'nriliii Iluiniiiililinx.nrinr jti. 503
necessaria o 1' incompatibilit possa essere conosciuta certamente, fuorch nelle
qualit che apjmrtengono allo stesso senso, le quali s'escludono necessariamente
l'una con l'altra. Nessuno, io dico, pu conoscere certamente per il i-olore
che in un certo corpo, qual odore, qual
gusto, qual suono o quali qualit tattili esso ha, n quali alterazioni capace di fare su altri corpi o di ricevere
per loro mezzo. Si pu dire la stessa cosa del suono, del gusto, ecc. Siccome i
nomi generali di cui ci serviamo per designare le sostanze, significano delle
collezioni di idee di questa sorta, non bisogna sorprendersi che noi non
possiamo fare con questi nomi che pochissime proposizioni generali d'una
certezza reale e indubitabile. Ma pertanto, allorch l'idea complessa di qualche
sorta di sostanza contiene qualche idea semplice di cui si pu scoprire la coesistenza
necessaria che tra essa e qualche altra
idea ; sin l si possono fare delle proposizioni universali che si ha dritto di
riguardare come certe: se p. e. alcuno potesse scoprire una connessione
necessaria tra la malleabilit e il colore o il peso dell'oro, o qualche altra
parte dell'idea complessa che designata
da questo nome, egli potrebbe fare con certezza una proposizione universale
sull'oro considerato sotto questo rapporto; e allora la verit reale di questa
proposizione Ogni oro malleabile sarebbe
cos certa come la verit di questa / tre angoli di ogni triangolo rettilineo
sono eguali a due retti . Tutta la
nostra conoscenza generale unicamente
racchiusa nei nostri propri pensieri, e non consiste che nella contemplazione
delle nostre proprie idee astratte. Da per tutto ove noi percepiamo qualche
convenienza 0 qualche disconvenienza fra di esse, noi vi abbiamo una conoscenza
generale ; di sorta che facendo delle L. 4 0. VI $ 10. proposizioni, o unendo
come bisogna i nomi di queste idee, noi possiamo pronunziare delle verit
g*enerali con certezza. Ma perch nelle idee astratte che i nomi generali delle
sostanze significano, quando hanno una significazione distinta e determinata,
non si pu scoprire legame o incompatibilit che con pochissime altre idee; la
certezza delle proposizioni universali che si possono fare sulle sostanze estremamente limitata e difettosa nel ] ri
nei pai punto delle ricerche che facciamo sul loro soggetto ; e fra i nomi
delle sostanze appena ve ne ha un solo (che l'idea che gli si attacca sia ci
che si vorr', di cui possiamo dire generalmente e con certerza che esso
racchiude tale o tal altra qualit che abbia una coesistenza o un'incompatibilit
costante con quest'idea per tutto ove essa si trova il). Ci che pu fornirci
delle proposizioni universali di un'intera certezza sono solamente le idee che
sono unite con la nostra essenza nominale o con alcuna delle sue parti, per dei
leo'ami che si possono scoprire. Ma queste idee sono in s piccolo numero e di
si poca importanza, che noi possiamo riguardare con ragione la nostra
conoscenza generale sulle sostanze (io intendo una conoscenza certa) come
pressoch niente del tutto Infine, per concludere ; cosi che finisce il capitolo
sulla verit e la certezza delle proposizioni universali), le proposizioni
generali, di qualunque specie esse siano, non sono capaci di certezza, che
quando i termini, di cui sono composte, sigmificano delle idee di cui noi
possiamo scoprire la convenienza e la disconvenienza secondo che vie espressa.
E quando noi vediamo che le idee che questi termini significano, convengono o
non convengono, secondo ch'essi sono affermati o negati l'uno dell'altro, allora he noi siamo certi della verit o della
falsit di queste L. 4 e. VI ^> 13. proposizioni. Donde noi possiamo inferire
che una certezza generale non pu mai trovarsi che nelle nostre idee. Se noi r
andiamo a cercare altrove, nelle esperienze o le osservazioni fuori di noi,
allora la nostra conoscenza non si estende al di l degli esempi
particolari. la contemplazione delle
nostre proprie idee astratte che sola pu fornirci una conoscenza generale . Ho
voluto esporre con le parole stesse dell' autore le opinioni di Locke suU'
incertezza delle conoscenze generali che l'uomo pu avere sul mondo reale, perch
questo lato della sua teoria della conoscenza -che non posto, a mio credere, abbastanza in rilievo
nel concetto che il pi ordinariamente si ha della filosofia di Locke ha per noi
quest'importanza, che vi possiamo, per dir cosi, prendere sul fatto (ci che non
sempre si pu, quando si cerca la filiazione delle idee nei sistemi filosofici,
in consequenza del carattere pi o meno incosciente delle inferenze dei
metafisici) il rapporto fra lo scetticismo e il sofisma a priori del nostro
spirito che la base della metafsica
apriorista. Certamente Locke non uno
scettico radicale, come i pirronisti o Hume: lo scettico radicale pretende
mostrare che impossibile allo spirito
umano di formarsi una concenzione coerente delle cose, ch'esso condannato ad invilupparsi da per tutto nella
contraddizione e nel dubbio, e attacca le credenze naturali dell'uomo, come fa
evidentemente Hume, non allo scopo di mostrarne la falsit, e di sostituire ad
esse i risultati della riflessione filosofica ci che non sarebbe pi lo
scetticismo, ma allo scopo di introdurre nello spirito r incertezza e
l'esitazione al soggetto di queste credenze, e quindi di tutto ci che sembra
all'uomo di sapere con pi certezza. Locke non fa cos: ma nondimeno le sue
proposizioni sull'incertezza delle conoscenze L. 4. e. VI lo, IH. generali
sugli esseri reali sono un vero scetticismo, perch esse si estendono a tutto il
reale, involgendo in una comune incertezza tutta la conoscenza generale, e
perci tutte le conoscenze d' inferenza, che V uomo ha e pu avere del reale,
dell'esistente. La fisica, dice Locke, non
una scienza e non suscettibile di
divenirlo: niente di certo, con le facolt che abbiamo, siamo capaci di sapere
dei corpi, e peggio ancora ci troviamo rapporto allo spirito e alle sue
operazioni . Quando Locke attacca la certezza delle proposizioni generali sulle
propriet delle specie particolari dei corpi, le sue conclusioni potrebbero
essere ammesse, sino ad un certo punto, anche dai non scettici: potrebbe
ammettersi, per esempio, che non
assolutamente certo che in un corpo, in cui si trova il color giallo e
il peso dell'oro, la malleabilit, la fusibilit e la capacit di essere disciolto
nell'acqua regia, si devono pure trovare le altre qualit e potenze dell'oro,
non essendo contrario a delle uniformit assolutamente stabilite della natura
che qualche nuovo corpo venga scoperto, simile in tutto all'oro in un gran
numero di propriet, ma differente nelle altre . Ma bisogna o'uardare, non
soltanto alla conclusione di Locke, ma anche al ragionamento per cui la
stabilisce. Se Locke nega che si possa affermare generalmente che col colore,
il peso e le altre propiet costituenti l'essenza nominale dell' oro coesistano
altre propriet non comprese in questa essenza nominale, perch egli non vede alcuna connessione a
priori tra le idee di queste ultime e quelle delle prime. Ma lo stesso
ragionamento invalida tutte le conoscenze generali che l' uomo ha o pu
acquistare sulla natura, le quali sono tutte induttive e a posteriori. Cosi
tutte le conoscenze che si hanno o L. 4 e. 3 ^ 2t, ^ 29, e. H v^ 14, e. 12 ^
10, ecc. Mill Log. potranno aversi delle leggi primitive della natura, quali le
leggi del movimento, la coesione della materia, le leggi dell' azione del corpo
sullo spirito e dello spirito sul corpo, hanno per Locke la stessa incertezza,
per la ragione che sono (o saranno) delle verit induttive, e non a priori . Lo
scetticismo di Locke coestensivo al suo
agnosticismo: quando un rapporto costante tra i fenomeni sembra inconprensibile
(nel senso metafisico), egli nega che si possa assicurare la costanza di questo
rapporto; l'incomprensibilit del modo essenziale e l'incertezza del modo
fenomenale di produzione dei fenomeni, delle loro leggi, vanno sempre insieme,
per Locke; perch la certezza, egualmente che la comprensibilit^ d'una verit
geiii'rale consiste per lui nella sua suscettibilit di essere da noi conosciuta
a priori. Ora l'agnosticismo di Locke non pu al fondo differire, nella sua
estensione, da quello degli altri filosofi che hanno abbracciato lo stesso
sistema, per esempio gli odierni positivisti (questo sistema non essendo
arbitrario, ma fondato sulla natura stessa della nostra intelligenza): tutti i
fenomeni devono 30s sembrare a Locke incomprensibili (nel modo essenziale della
loro produzione], e perci ancora tutte le leggi dei fenomeni incerte.
Locke, vero, fa menzione, come di casi
eccezionali, di alcune verit generali sul reale che noi possiamo conoscere per
la visibile connessione tra le idee, a priori (e di cui per conseguenza possiamo
essere sicuri): a quelle di cui si parla nei passi che abbiamo riportati,
bisogna aggiungere l'impenetrabilit della materia , la capacit dei corpi di
muovere e di esser mossi per mezzo dell'impulsione, la divisione delle loro
parti per conseguenza V. notevolmente 1. 4 e. III. J 29. L. 4, VII, 5. 50S 509
deirintrusioiie di altri corpi , e forse alcune altre simili . Alcune di queste
verit sono di quelle che Locke chiama frivole; tale l'affermazione che la fig'ura suppone r
estensione ; quelle che sono istruttive aflfer J.. 4. HI. 18. Al soi^oetto
della eoinuiiicazione del nioviiiieiito jier l'inipulsioiie Locke sembra
eoiitraddirsi. perdio talvolta ne ]arla come di una veritj a [n-ioii (1. e),
talvolta come di un fatto puramente empire*, e [uinili incomprensibile e
incerto come verit .nenerale (v. 1. 2 e. 28 par. 28-29: l. i e. 8 par. 29).
Quest'apparente contraddizione si spiega per un'osservazione che abbiamo fatto
nel cap. IV: ([uando Locke vede nell'impulsione una verit a priori (e per
conse;uenza conp)rensibile e certa), ei;li juMisa al fatto della nostra
esperienza prescientitica e familiare, senza tener conto della le;e, scoverta
dalla scienza, seconde cui la forza passa dal corpo urtante al corpo urtato; ed
^ (piando pensa a (piesta leinge, che Q*f\ vedo nella comunicazione del movinu'uto
dal corpo urtante al corjK) urtato una verit empirica (e per conseuenza
incom[>ren8bile e incerta). Questo scambio dei risultati deiresi>erienza
pifi familiare per verit a priori non e, iy Locke, la sola estensione
illegittima che egli d al lominio deira])riori. Locke crede che il metodo
dimostrativo e applicabile anche fuori della matematica. Ma su (piesto impiego
illegittimo del metodo a priori, ci che vi ha in lui di preciso si riduce, io
credo, all'atfermazione che la morale
dimostrabile, e alla sua pretesa di provare dimostrativamente
l'evsistenza di Dio. La i>rima di ([ueste due opinioni ^ una delle forme del
concetto della morale assoluta di cui parleremo nella jiarte III: essa non
ap])lica il metodo a priori allji conoscenza del reale, di ci che (ma di ci che deve essere), e non appartiene
a (piella classe E passando dall'esame
delle azioni degli oggetti esteriori a quello degli atti volontari, confuta
l'opinione che la coscienza percepisca il potere o V energia (efficienza
causale) della volont, per la ragione * che V influenza delle volizioni sugli
organi corporali un fatto conosciuto per
esperienza, come tutte le operazioni della natura,e che non si avrebbe mai
potuto prevedere questo fatto nell' energia della sua causa; che noi non potremmo, indipendentemente
dall'esperienza, conoscere i limiti dell'impero della volont sugli organi, e
rendercene ragione; che, se sentissimo il potere primordiale della volont, dovremmo
conoscere per ci stesso il suo effetto immediato (che non il movimento voluto, ma un altro, non
sappiamo quale, di cui il movimento voluto
l'effetto ultimo). Il sentimento dello sforzo che noi facciamo per
vincere una resistenza, non pu darci l'idea di forza o di potere, perch * noi
sappiamo per esperienza ci che risulta da questo sentimento, ma impossibile di saperlo a priori . Infine, noi
non percepiamo nemmeno il potere efficace della volont nell'influenza ch'essa
esercita sul corso delle nostre idee e sulle nostre facolt mentali, perch in
questo, come negli altri avvenimenti naturali,
l'osservazionee l'esperienza sono le sole guide che abbiamo*: per la sola esperienza, p. e., che possiamo
scoprire i limiti dell' impero che 1' anima ha su se stessa, come di (inolio
che essa ha sul corpo, non ragionando n per la contemplazione della
natura delle cause e degli effetti .
Hiiiiio ritinta la ((uaiit di verit a priori anche a qnelle cansa/ioni
familiari da cni ci viene l'idea di cansalit efficiente: nna di [ncste
causazioni . cio il movimento d' una palla per l'urto d'un' altra palla, appunto uno dei suoi esempi favoriti ]>er
mostrare che tutte le relazioni tra le cause e rincipio un' induzione tirata dalle nostre esperienze
sulle connessioni pi familiari tra le cause e j^li effetti. Ora se Hume
riconosce che queste connessioni sono conosciute dalla sola esperienza, come pu
inferire da esse che tutte le connessioni fra le cause (efficienti) e "li
effetti devono essere conoscibili a priori? Ma se si rifletter al reale
]U"ocesso psicoloj^ico dell' inferenza di Hume, si vedr che questa
difficolt non che apparente. Prima di
tutto bisogna fare una distinzione: l'inferenza immediata di Hume e ne
efticiente Qui nd siamo in presenza
Iella grande lifficolt he. c>me abbiamo detto altra v>lta, il ])rincipale )stacol> che impMlisce di
com])rengico per cui nasce e si sviluppa la nozione li causa efficiente. Ma noi
abbiamo gi risolut) questa difficdt: ab)iani) gi si)iegato iu'st) fatto
l>arad)ssastico apparentemente incompatibile con )gni spiegazione empirica
dell'origine della nozione di causalit efficiente che le causazioni stesse, le
inali, secondo n)i, -jstituiscono la base empirica d(^\V inferenza incosciente
per cui ammettianu) il jn-incipic di causalit efficiente, cessano di sembrarci
Ielle causazinii efficienti, e li ventano incomjirensijili c>me tutte le
altre e tali da esigere una causazione reramcnte efficiente conu'
intermediari> esjilicativo (vedi capitd>
questo fatto che si verifica in Hume: come la pi parte lei filosofi
mMl*rni . egli esclude dalla classe Ielle causazi)ni efficienti tutte le
causazioni empiriche (piantuniue la nozi)ne di causazitnie efficiente non ha
potuto venirgli che da alcune di lueste causazini empiriche) : e sicctnne la
forma della necessit e dell'evidenza legame necessario tra la causa e l'
effetto ; e conclude che tutte le volte che noi parliamo di legame tra 1 a
causa e l'effetto, noi non intendiamo altra cosa, oltre la sequenza costante
tra due avvenimenti, che il legam'e tra le idee di questi avvenimenti
costituito da una esperienza uniforme, per cui possiamo predire il secondo air
apparizione del primo ; e che il rapporto che
tra la causa e 1' effetto non pu essere considerato che di queste due
maniere, e noi non ne abbiamo altra idea. Non vi ha dubbio che la conseguenza
logica d queste proposizioni non sia la dottrina che gl'interpreti di cui
parliamo attribuiscono a Hume: ma, come abbiamo detto, Hume professa
costantemente la dottrina contraria, cio che le cause empiriche, quelle che non
sono se non gli antecedenti a cui gli avvenimenti seguono costantemente, non
sono le vere cause produttrici di questi avvenimenti , e che l'efficienza
causale, la connessione tra la causa e l'effetto, quantunque 1' esperienza non
ce ne mostri alcun esempio, qualche cosa
di pi di una semplice congiunzione (sequenza) costante tra due fenomeni. Le
conclusioni del 7 Saggio, che paiono, e a rigor di logica sono, distruttive di
ogni efficienza causale, sono in contraddizione con le premesse stesse su cui
Hume le stabilisce. Nella I parte del Saggio, egli vuol provare che tutte le
idee che l'esperienza pu intrinseca (caratteri della oausazioue efficiente),
oltre che nelle causazioni pi familiari, che ej^li ha escluso dalla classe
delle causazioni efficienti, non si trova (piasi esclusivamente che nelle verit
a priori o che Hume ritiene ancora tali, cos
in questa classe di verit che ej;li colloca le causazioni efficienti
(s'intende nella supposizione che esse potessero diventare oggetti di
conoscenza). Nel 4 Saggio, 1 parte, chiama le cause dell'esperienza pretese
cause. darci della causalit si riducono a quella di una sequenza costante: ora
in questa dimostrazione egli suppone sempre che vi ha tra le vere cause
produttrici e i loro effetti un legame pi intimo che non sia quello di una
semplice sequenza costante (legame che il pensiero potrebbe scoprire a priori
nelle cause stesse, se potesse contemplare le vere cause), quantunque esso sia
inaccessibile air esperienza. invano
che noi giriamo i nostri sguardi sugli oggetti che ci circondano, per
considerarne le operazioni ; noi non siamo perci pi in grado di scoprire questo
potere, questo legame necessario, questa qualit che unisce l'effetto alla
causa, e rende l'una di queste cose il seguito infallibile dell'altra; noi
vediamo ch'esse si seguono, ed tutto ci
che vediamo. La scena dell'universo soggetta a un cangiamento perpetuo; gli
oggetti si seguono in una successione continua ; ma il potere o la forza che
anima la macchina intera, si cela ai nostri sguardi. >^ Questa tesi, che 1'
esperienza non e' istruisce mai del legame che rende inseparabili gli
avvenimenti che si seguono; che il potere che realizza gli effetti, l' energia
da cui essi procedono, non ci mai
manifestata ; che in tutte le operazioni della natura, il modo in cui esse si
compiono incomprensibile e misterioso;
Hume la dimostra, esaminando le azioni degli oggetti esteriori, quelle
dell'anima sul corpo e dell'anima su se stessa, e si riassume cos: Non pare che alcuna operazione corporale in
particolare possa farci concepire la forza agente delle cause, o il rapporto
ch'esse hanno coi loro effetti. Tutto ci che le nostre ricerche pi profonde ci
scoprono su questo punt, sono degli avvenimenti al seguito d' altri
avvenimenti. La stessa difficolt ritorna, quando contempliamo le
operazioni'dell'anima sul corpo: noi osserviamo il movimento al seguito della
volizione ; ma il legame che li unisce, o l'energia che l'anima spiega nella
prdazione deireffetto, ci che non
potremmo ne osservare n com|)rendere. L'impero dell'anima sulle sue proprie
facolt o sulle sue idee non concepibile.
Cos tutto sommato, la natura non ci offre un solo esempio di legame da cui
potessimo prendere 1' idea. Tutti g\ avveniuenti sembrano essere scuciti e
staccati gli tini dagli altri: essi si seguono, in verit, ma senza che
osserviamo il minimo legame fra di loro: noi li vediamc, per dir cos, in
congiunzione, ma non mai in connessione. Ma tutto ci impossibile di metterlo d'accordo con la
conclusione di tutto il Sao'gio: se noi non abbiamo altra idea della
connessione tra la causa e l'effetto che quella di una sequenza costante tra
due avvcMiimenti, e del legame mentale empirico fra questi avvv'iiimenti che ci
permette d'inferire l'uno dall'altro, Ihime dovrebbe vedere anche in
connessione gli avvenimenti che egli non vede che in congiunzione, perch essi
si seguono costantemente, e noi |)ossiamo inferirli gli uni dagli altri; il
potere che realizza gli effetti sarebbe manifesto tutte le volte che noi
abbiamo costatato gli antecedenti a cui questi effetti seguono costantemente ;
sarebbe inutile d'immaginare, per ispiegare questi eff'etti, delle cause
sconosciute o un potere secreto nelle cause conosciute; ne si saprebbe, infine,
perch Hume neghi alle cause dell' esperienza il carattere di cause veramente
produttrici dei loro effetti, per la ragione che da queste cause noi non
potremmo inferire questi effetti a priori, ina soltanto dopo le lezioni dell'
esperienza. Vi hanno dunque in Hume due dottrine distinte sulla causalit, la
dottrina psicologica sull'idea di causalit e la dottrina ontologica sulle
cause: la prima la teoria empirista^ che
riduce l'idea di causalit a quella di sequenza invariabile; la seconda la teoria metafisica^ che ammette delle
cause, tra cui e gli effetti vi ha un legame pi intimo che quello di una
semplice sequenza invariabile. Le due dottrine contraddicono l'una all'altra,
ma Hume mantiene l'una e l'altra. E che egli non intende sacrificare la
dottrina ontologica alla psicologica, si rileva anche dalle parole che seguono
le proposizioni in cui egli stabilisce quest' ultima: Vi ha un esempio pi colpente della nostra
ignoranza e della sorprendente debolezza dell'intendimento umano? Sicuramente
se vi ha tra gli oggetti un rapporto di cui c'importa d'essere istruiti, quello di causa e d' effetto Tuttavia talee
l'imperfezione delle idee che ne abbiamo, che
impossibile di ben definire cosa
causa, senza imprestare questa definizione da qualche cosa di estraneo
al soggetto. Gli oggetti similari sono sempre congiunti a degli oggetti
similari; prima esperienza che ci serve a definire la causa: un oggetto
talmente seguito da un altro oggetto, che tutti gli oggetti simili al primo
siano seguiti da oggetti simili al secondo. La vista d'una causa conduce
l'anima, per il suo passaggio abituale, all'idea dell'effetto ; seconda
esperienza che fornisce una seconda definizione: la causa un oggetto talmente seguito da un altro
oggetto, che la presciza del primo faccia sempre pensare al secondo. Queste
definizioni sono prese tutte e due da circostanze estranee alla natura delle
cause: un inconveniente senza rimedio;
non vi ha mezzo di pervenire a una definizione pi esatta, e noi non potremmo
determinare (juesta circostanza che lega le cause agli effetti. Non solo noi
non abbiamo idea di questa connessione; noi non sappiamo nemmeno ci che desideriamo
di conoscere, quando ci sforziamo di concepirla. Questa contraddizione del
resto, questa perplessit, non deve sorprendere in uno scettico come Hume. Uno
dei caratteri dello scetticismo -e segnatamente di quello di Hume l'opposizione tra le credenze naturali
dell'uomo e i risultati della riflessione scientifica. Lo scettico non prende
partito n per le une n per g^li altri, e nemmeno intende di conciliarli, quando
vi ha contraddizione fra le une e gli altri: cos, nella quistione del mondo
esteriore, Hume ammette la credenza naturale che le cose materiali esistono per
se stesse e sono indipendenti dai nostri sensi, e al tempo stesso la validit
delle obbiezioni dei fenomenisti (o, come sono detti ordinariamente, seguaci di
Berkeley) contro questa credenza. Cos fa pure nelle quistione della causalit:
egli ammette al tempo stesso la credenza naturale delle cause efficienti, e la
vera teoria psicologica suU' idea di causalit, che tende alla distruzione di
questa credenza. Si potrebbe cercare di eliminare questa contraddizione di
Hume, ammettendo che tutto ci che egli dice delle forze secrete produttrici
degli avvenimenti e di un legame tra le cause e gli effetti che qualche cosa di pi di una sequenza costante,
sia, non il suo vero pensiero, ma una concessione che egli fa alle opinioni
dominanti. Ma questo metodo d'interpretazione, che cercherebbe di eliminare le
contraddizioni di Hume, arriverebbe a una radicale trasformazione della sua
tilosofia, in nn senso affatto contrario al concetto tradizionale che se ne ha,
e al senso letterale delle sue proposizioni, su cui questo concetto fondato. Si avrebbe altrettanta ragione di
vedere un semplice accomodamento alle opinioni dominanti, lontano dal vero
pensiero dell'autore, nelle proposizioni di Hume implicanti l'ammissione di un
mondo esteriore indipendente, quanta se ne avrebbe di vederlo in quelle
implicanti l'ammissione di cause efficienti distinte dai semplici antecendenti
costanti dei fenomeni. E se nella quistione del mondo esteriore, si fa di Hume,
non uno scetttico, ma un fnomenista, alla maniera di Stuart Mill e di Bain, non
si dovr, se si vorr essere coerenti, cessare di considerare come scettica la
filosofia di Hume in generale? Questa
l'opinione a cui inclinerebbe Stuart Mill ; ma egli stesso confessa che
sarebbe difficile di provarla d'una maniera decisiva. Io credo per me che si
deve respingere come arbitraria ogn' interpretazione di un sistema filosofico,
che presterebbe all'autore delle dottrine contrarie a quelle che egli
esplicitamente professa. Noi lasceremo dunque a Hume le sue contraddizioni, e
ci terremo all' opinione tradizionale che lo considera come uno scettico. Ma
quest'opinione deve essere riformata nella parte che riguarda i motivi o la
genesi di questo scetticismo. I metafisici hanno visto nello scetticismo di
Hume una conseguenza del suo empirismo: ma gli sviluppi pi recenti
dell'empirismo mostrano che non vi ha fra di esso e lo scetticismo una
connessione naturale. Hume uno scettico,
non perch egli un empirista, ma perch il
suo empirismo si ferma a mezza via. Se, per esempio, egli uno scettico nella quistione del mondo
esteriore, perch non si risolve ad
abbracciare la concezione rigorosamente empirista, il fenomenismo di Mill e di
Bain, che risolve gli oggetti materiali in sensazioni e possibilit di
sensazioni. Cosi ancora, se egli rende sospette tutte le conoscenze d'inferenza
sul reale, non perch rigetti, come gli
rimproverano i metafisici, le pretese verit a priori, ma perch ammette i presupposti
della filosofia apriorista. Per lui, come per i metafisici aprioristi, la vera
conoscenza una conoscenza a priori , ci
che, come sappiamo, una conseguenza del
principio che il legame V. Filos. di Hamilton, o. trad. frane V. fra gli altri
Hegel Introd. alVEnciel., , e Rosmini N, S. sulVorig. delle id., . Le vere scienze , le scienze propriamente dette , sono le
dimostrative, cio le matematiche pure (Saggio sulla filos. accad., verso la
tne). Hfmtm tra le cause efficienti e durranno sempre ^H stessi effetti t
Ei^pnre se vi lianno ne-li a/vor/ della metafisica apriorista. Per Hume, come
per i metatsici aprioristi, la conoscenza adequata e la certezza non si
otterrebbe che per r assimilazione della forma delle conoscenze delle
connessioni dei fenomeni in generale alla forma delle conoscenze delle
connessioni pi familiari. Quest'assimilazione non sarebbe possibile che in tre
ipotesi: 1. Che noi conoscessimo le cause effdenti dei fenomeni, tra cui e i
loro effetti noi vedremmo una connessione a priori. Sarebbe la conoscenza
assoluta, che ci darebbe al tempo stesso la spiegazione completa e la completa
certezza. La prima parte del Saggio, nella quale l'autore, dopo aver mostrato
l'inqossibilit di scoprire A PRIORI il rapporto tra le cause e gli effetti, ne
deduce che le cause efficienti ^ono inconoscibili, ha per oggetto di respingere
questa l^Mpotesi. 2. Che noi conoscessimo a priori la coesistenza di tali
qualit sensibili e tali forze secrete (di tali cause fisiche e tali cause
effidentiy, in altri termini, che noi colon lo stesso dritto eoa cui Hume
dnlita della coesistenza nniforme tra propriet scnsildli simili ne^^li agenti
tsici e forze seeret^ simili. potrelde anclic dubitarsi della relazi(nie
uniforme tra forze secrete simili ed effetti simili. Ma Hume trova indnbitahile
che le stesse forze secrete protlurranno gli stessi effetti, perch egli suppone
che la relazione tra (pieste forze e i loro effetti sarehe conosciuta a priori,
[uirch conoscessimo (Queste forze: e il suo dubbio non si estende che alle
relazioni tra le cause e gli effetti tra cui non vi ha clu* una connessione em
l)irica. 534 iK^cessinio a priori che tali cause fisiche sono capaci d produrre
tali effetti, ma senza conoscere il meccanismo per cui li producono, cio le
cause efficienti. La conoscenza allora non sarebbe assoluta come nella 1'^
ipotesi: rassimilazioue al tipo sarebbe meno completa; ma essa sarebbe ancora
tanta da aversi, non solo la certezza, ma ancora in certo modo una spiegazione
dei fenomeni. QuestMpotesi respinta
nella 2^^ parte del Saggio. 3^ Che si potesse almeno t^mo.sfmre che il corso
della natura uniforme, che l'avvenire
somiglier al passato, il non sperimentato allo sperimentato. In quest'ipotesi,
non avremmo pi una spiegazione dei fenomeni; l'assimilazione al tipo non
raggiungerebbe che lo scopo di elevare il grado di evidenza delle conoscenze
sperimentali, che da induttive diverrebbero dimostrate (l' evidenza delle verit
dimostrate somiglia pi air evidenza tipo^ che
intuitiva, che quella delle verit induttive) Rigettando queste tre
ipotesi, Hume mostra l'impossibilit dell'assimilazione cercata, e quindi
l'incertezza della conoscenza. Da ci che
stato detto di Loche e di Hume, abbiamo il dritto d' inferire che una
delle sorgenti dello scetticismo questo fenomeno dello spirito umano non meno
naturale e costante della metafisica, eh' esso accompagna come il rovescio
accompagna il dritto questa tendenza del
nostro spirito, su cui fondata la
metafisica apriorista, per cui egli si sforza di assimilare la forma delle
conoscenze delle connessioni dei fenomeni in venerale, alla forma delle
conoscenze delle connessioni pi familiari. Questa tendenza ha per risultato di
proporsi (quantunque d una maniera pi o meno incosciente) l'evidenza di queste
ultime conoscenze come tipo unico a cui la certezza di tutte le conoscenze deve
essere misurata. Una delle sorgenti dello scetticismo il sentimento dell' impotenza dello spirito a
realizzare l'assi 535 milazione cercata, della disparit tra la conoscenza e
l'evidenza a cui si perviene e la conoscenza e l'evidenza a cui si aspira. verisimile che non vi sarebbe pessimismo, se
l'uomo non nascesse assurdamente ottimista: il pessimismo risulta dalla
delusione di questa tendenza all'ottimismo innata al nostro spirito. Io non dir
che lo scetticismo risulta parimenti dalla delusione di questa tendenza
naturale, se non innata, al nostro spirito, a cercare un' evidenza superiore a
quella a cui pu pervenire : il parallelismo non sarebbe esatto, perch, se
questo uno dei motivi dello scetticismo,
non il motivo unico. Gli altri motivi li
incontreremo nelle parti seguenti di questo Saggio, poich, come vedremo, le
soro-enti da cui deriva lo scetticismo sono, al fondo, le stesse sorgenti da
cui deriva la uetafsica. Kant fonda tutto Tedifizio della sua Critica sul
principio che l'esperienza non pu dare origine a proposizioni necessarie e
rigorosamente universali. Questo principio comune per altro a quasi tutti i
psicologi che non ammettono la teoria dell'esperienza-, nella parte che nega
l'universalit rigorosa di qualsiasi proposione a posteriori, un prodotto della
metafisica apriorista, derivante dalla stessa sorgente da cui lo scetticismo di
Locke e di Hume sulle conoscenze generali di origine empirica, con cui esso ha
l'analogia pi evidente. per una
conseguenza di questo principio che Kant esio-e che la conoscenza filosofica,
la quale deve stabilire i fondamenti e i primi principii di tutte le
conoscenze, sia una conoscenza a priori, e che egli d perci come tale la
Critica della ragion pura e tutte le altre parti della sua propria filosofia.
Questa preten Cvit. della rag. pura Introd. n. II. Crit. della rag. pura,
Metodologia e. . Per ci che ri 53G sione (li Kant, che la sua filosofa un sistema di conoscenze a priori, , senza
dubbio, infondata; il punto di partenza della Critica sono delle osservazioni
sui giudizi, sui concetti, sulle intuizioni, ecc., cio dei fatti
dell'esperienza interna, e dei fatti g-cnerali, la cui generalizzazione non pu
essere che un processo d'induzione. Ci basta a provare che il metodo che Kant
ha effettivamente seguito non quel
metodo interamente a priori ch'egli ha preteso di seguire; ma per confessare
che i risultati a cui egli perveniva avevano per fondamento l'esperienza e
l'induzione, Kant avrebbe dovuto o rinunziare alla certezza apodittica ch^egli
reclamava per essi, o rinunziare al principio che l'esperienza non pu dare
delle conoscenze generali rigorose, Dei due scopi della metafisica apriorista,
il prima, rio ch( d'introdurre tra i
fatti dei legami razionaU e necessari, e il secondario che di elevare il grado di certezza delle
conoscenze, Kant non pu avere di mira che quest'ultimo, quando egli reclama per
la sua filosofia la qualit di scienza a priori: noi non potremmo attrilmir-li
anche il primo, se non nel caso che egli si proponesse, ci che non fa, di costruire,
a priori, senza niente ammettere come dato, le leggi del soggetto conoscente,
e, in generale, le leggi dei fatti che formano l'ooo-etto delle sue ricerche
filosofiche, come poi fecero i suoi successori a cominciare da Fichte. Tuttavia
vi ha una parte dell'opera filosofica di Kant, in cui evidente anche lo scopo primario della
metafisica apriorista : sono gli FAementi metafisici della scienza della
natura, guesti contengono una fisica i)um, una teoria della materia e del
movimento realmente a priori, in cui non si accetta dall'esperienza che il
concetto della o;nnnla la Ciitira (h'Ua ra-ionc pura. v. anche Prcfaz. alla 1
ediz. verso la mota, e Prefaz. alla 2 (mHz. vorso la tino. materia, come una
estensione mobile ed impenetrabile: Kant vi segue il metodo geometrico,
[)rocedendo per assiomi, definizioni e teoremi con la loro dimostrazione, e vi
deduce a priori, oltre la sua teoria personale sulla costituzione della
materia, il principio della conservazione della massa, il principio d'inerzia e
le altre leggi del moviniento, e sinanche la legge newtoniana dell'attrazione.
^ 12. Fichte, Schelling, Hegel. Tutti sanno clu^ questi filosofi rappresentano
il periodo, per dir cos, acuto della speculazione a priori. Bisogna per
guardarsi -e la stessa osservazione conviene su per gi per tutti i metafisici
aprioristi -dal malinteso di credere che questi filosofi fossero tanto assurdi
da ritenere che per ottenere la scienza essi potessero dispensarsi di
consultare i fatti, e bastasse di contemplare i propri pensieri. Non si tratta,
dice Schelling, di passarsi dell'esperienza, e di costruire la natura con
semplici idee; perch noi non sappiamo niente che per 1' esperienza; ma si
tratta di trasformare le conoscenze sperimentali in un sapere a priori, dandosi
la coscienza della loro necessit razionale a;. Lo stesso press'a poco dice
Hegel: La filosofia ha per punto di partenza l'esperienza, e il suo contenuto
non che quello delle scienze
sperimentali; ma al contenuto di queste scienze essa d la forma che le propria, cio la forma di conoscenza
necessaria ed a priori . Su questi filosofi saremo brevi: noi supporremo * le
loro dottrine conosciute i pochi cenni che noi potremmo darne sarebbero
inintellioibili per quelli che gi non le conoscessero -e ci limiteremo a indicare
il loro rapporto con la sofistica naturale dei nostro spirito. Ci stesso, nel
presente capitolo, non possiamo farlo che fntroduz. alla filoa. della natura.
Introduz. aWeneu'lop. 12. d'una maniera incompleta, e anticipando sul seguente;
la suddivisione della metafisica apriorista, di cui queste dottrine fanno
parte, appartenendo propriamente all'argomento di quest'altro capitolo. La
prima osservazione che ci si presenta su questi sistemi il legame intimo tra la spiegazione idealista
e il metodo a priori. Kant avea dato il suo idealismo per una risposta alla
quistione: Com' possibile la conoscenza a priori? Questa conoscenza possibile, rispondeva Kant, perch il pensiero che d le leggi alle cose. I
limiti della conoscenza a priori erano dunque, secondo Kant, i limiti della
parte che ha il pensiero nella formazione del mondo dei fenomeni; e
l'opposizione tra r a priori e 1' empirico corrispondeva all' opposizione tra
il soggetto e l'oggetto, tra la forma, ingenita al soggetto, e la materia, data
dal di fuori. Nell'idealismo post kantiano, caduto il dualismo del soggetto e r
oggetto, della forma e la materia, cadeva al tempo stesso la separa'.ione dei
due domini della conoscenza empirica e dell'apriori; il dominio della prima era
assorbito in quello della seconda, come l'oggetto era assorbito nel soggetto.
Tutte le leggi del mondo reale noi possiamo leggerle, dice Fichte, nel nostro
proprio pensiero ; la natura non ha mistero si oscuro, piega si nascosta, che
non ci sia dato di penetrarvi, perch le sue leggi le sono imposte dal nostro
pensiero D'altra parte, il carattere particolare dell' idealismo post
kantiano ch'esso fa dell'attivit logica
del pensiero nel senso che abbiamo spiegato, la forza produttice di tutte le
cose: donde segue che spiegare le cose, descrivere il meccanismo della loro
produzione, costruirle a priori. Cosi
l'idealismo e l'a Destinai. delVnono. tiad. fniiic. di Barchou de Penhoen, 2
odiz. !>. . priorismo sono, in questi sistemi, alternativamente prin^ cipio
e conseguenza l'uno dell'altro; perch, come il loro idealismo importa una
costruzione a priori delle cose, cosi la possibilit di una assoluta conoscenza
a priori delle cose importa, conformemente alla spiegazione di Kant dei giudizi
sintetici a priori, un idealismo egualmente assoluto. Se ora ci si domanda se,
volendo spiegare la formazione dei sistemi, bisogna derivare il loro Tdealismo
dal loro apriorismo, o piuttosto il loro apriorismo dal loro idealismo,
risponderemo che non bisogna fare n l'una n l'altra cosa. Tanto l'idealismo,
quanto l'apriorismo, hanno per questi filosofi un valore ciascuno per se
stesso, e non come semplice conseguenza di un principio prestabilito: ci che
basta a provarlo la possibilit di
derivare direttamente tanto l'uno quanto l'altro dalle sorgenti generali dei
concetti metafisici. Ci che caratterizza la filosofia tedesca, dominante da
Fichte ad Hegel, , come disse Cousin, con l'approvazione dello stesso
Schelling, che essa aspira a riprodurre nelle sue concezioni l'ordine stesso
delle cose ; in altri termini che, per questi filosofi, come per Spinoza,
l'ordine (^ la connessione delle idee sono identici all'ordine e la connessione
delle cose. Per definire questa filosofia, alla nota generica della metafisica
apriorista, che la produzione della
conoscenza per un metodo puramente deduttivo, bisogna aggiungere questa nota
differenziale specifica, che lo sviluppo della dimostrazione corrisponde allo
sviluppo stesso dell'essere, che la filiazione logica delle conoscenze
rappresenta la filiazione reale delle cose stesse, che il movimento o il
progresso del pensiero, per cui si produce la conoscenza, la riprodazione del movimento o del progresso
delle cose per cui queste vengono prodotte. Questo metodo espresso assai bene dalla parola co(X) V.
Schelling, Giud. sulla filos. di Coiisin. I. Metodo. ' ' struzione: dimostrare
mici cosa costruirla^ far vedere il modo
in cui essa prodotta, perch il principio
che serve a dimostrarla, il prhicijyruni cognoscendi, al tempo stesso il principio di cui essa
deriva, ci che la fa essere, il prindpiuTi essendl. Il rapporto logico tra
principio e conseguenza identico al
rapporto ontologico tra producente e prodotto, e possiamo dire, tra causa ed
effetto, purch ci s'intenda con la riserva che tra le cause ed effetti, di cui
si tratta, non vi ha una successione cronologica, ma soltanto logica.
Considerando dunque i termini della serie logica che, per questi filosoti,
costituisce il sistema della conoscenza e al tempo stesso dell' essere, come
essenti fra di loro nel rapporto di cause e di effetti ci che, con la riserva
suddetta, abbiamo il dritto di fare, perch essi riguardano evif*'^i*^ff"
'^'.-iii e. ^, e. 5, e. ^Scsto. 2),
Sajigio 7 e. 3, ecc. 543 questo sentimento non accompagna che le verit a priori
o pretese tali). Egli definisce la causa efficiente: una cosa che si suppone
necessariamente legata con l 'effetto; e per appoggiare la proposizione che
nelle ricerche fisiche non si ha mai in vista di scoprire i legami necessari o le cause etficienti dei
fenomeni, cita dei luoghi di parecchi
autori (Barrow, Locke, Hobbes, Bacone), i quali in realt non dicono altro se
non che il rapporto tra le cause e gli efietti
conosciuto per l'esperienza, e non mai a priori, supponendo cosi, come
una cosa evidente per tutti, che il rapporto tra la causa efficiente e l"
efietto deve essere conoscibile a priori. E ci dei resto eh' egli dichiara in
seguito esplicitamente con queste parole:
In effetto, se noi potessimo in alcun caso vedere la maniera in cui la
causa (efficiente) produce il suo effetto, noi saremmo in grado per ci stesso
di dedurre 1' effetto dalla sua causa ragionando a priori GALLUPPI (vedasi) ritiene anch'egli e in ci
non fa che aderire all'opinione quasi universale dei metafisici che la
conoscenza della essenza come la chiam
CICERONE (vedasi) -- delle cose trasformerebbe la conoscenza delle loro
propriet da empirica in a priori. Cos dice:
Una scienza pura, cio interamente a priori, dell' anima impossibile, perch supporrebbe la conoscenza
dell'essenza dell' anima, conoscenza di cui siam privi. Viceversa noi siam
sicuri che ignoriamo l'essenza dell'anima, perch siamo nell'impossibilit di
stabilire sull'anima alcuna proposizione indipendente dall'esperienza . Inoltre egli riguarda l'idea della scienza,
quale 1' aveva concepita Cartesio, come l' ideale della conoscenza perfetta.
L'oggetto della filosofia di spie V.
Elen. della filos. dello spir. ntn., v. 1 e. 1 sez. 2 e nota C. Siffftjio
jloH., t, 5 \n\v. 47. 544 gare l'esistenze, l'esistenze spiegabili sono
l'esistenze condizionali. Queste non possono spiegarsi senza l'esistenza
assoluta. Neil' idea di un condizionale io non trovo r esistenza: il giudizio
che pronunzia sull' esistenza di un condizionale dunque un giudizio sintetico, e per ci
sperimentale. Ponendo 1' assoluto, io pongo l'esistenza, e con (questa prima
esistenza spiego l'esistenze condizionali. Maio non conosco l'essenza
dell'assoluto; non posso perci conoscere a priori l'esistenza dell'assoluto; e
il mio giudizio, che pronunzia sull'esistenza dell'assoluto, pure sintetico: per essere analitico (cio a
priori), io dovrei conoscere l'essenza divina. L'esistenza in generale , in
conseguenza, un dato per me, ed io la conosco a posteriori, non gi a priori. Se
potessi partire dall'assoluto, e far derivare da esso a priori tutte
l'esistenze condizionali, io comprenderei interamente la natura, e la mia
scienza sarebbe perfetta. Noi non giungiamo all'assoluto, se non j)artendo dal
condizionale, e siamo neir impotenza di vedere gli effetti nella loro causa
prima; per tale ignoranza non possiamo comprendere e spiegare perfettaimnite la
natura H geometra possiede una scienza esatta, perch il suo metodo interamente a priori: i suoi giudizi son
tutti analitici, perch egli conosce adequatamente l'essenze degli oggetti su di
cui ragiona Il metodo del filosofo non pu essere affatto lo stesso di quello
del geometro; il primo non pu pronunziare i suoi giudizi sull'esistenza delle
cose, se non vi condotto o
immediatamente o mediatamente dall'esperienza; e in conseguenza noi non
possiamo conoscere alcuna esistenza a priori, come avverrebbe nel caso ci fosse
possibile di dedurre l'esistenze condizionali dall'esistenza assoluta.
Sti(/(/to flon.. t. ') par. 1>H. SERBATI (vedasi) nei sistemi degl'idealisti tedeschi
posteriori a Kant che vede idoleggiato 1'ideale della scienza assoluta. Noi
conosciamo, egli dice, imperfettamente le essenze delle cose, essenze che
costituiscono l'oggetto delle nostre intuizioni; onde accade che non tutto
quello che troviamo poi nelle realit sensibili, e che appartiene alla
cognizione di predicazione (,1), si riscontri nell'essenza, s che una parte di
quest'ultima cognizione ci rimane priva di ragione, giacch ogni ragione sta
nell' essenze Se un primo intelletto la
causa totale di tutti gli enti finiti, quel primo intelletto dee avere in s il
loro essere intelligibile, ossia la loro essenza non imperfetta e vota come
quella dell' intendimento umano, ma adequata e reale anch' essa Chi potesse
vedere queste essenze delle cose, quali
sono in Dio, conoscerebbe pienamente il mondo, senz'aver bisogno d'alcuna
esperienza esteriore e d'organica sensitivit; il che quanto dire lo conoscerebbe, tutto quanto
egli , a priori ; la qual cognizione e costruzione del mondo reale a
priori il fastigio della sapienza, a cui
tende senza posa la mente. Ma la mente umana, per la imperfezione, come
dicevamo, con cui conosce le essenze, l'essere intelligibile del mondo, prende
vie diverse. Ella si propone il problema, e fin qui nulla in lei v'ha di
reprensibile. Ma il filosofo, prima di sapere se e come sia da lui solubile,
facilmente ammette il pregiudizio, che sia solubile, e solubile direttamente:
pregiudizio certamente antifilosofco come tutti gli altri pregiudizi, pur tale
che d un grande titillamento al sao orgoglio. Mettendosi dunque al lavoro per
trovare una soluzione diretta, egli, privo dei materiali a ci necessari,
supplisce colr immaginazione; e cos nacquero quei sistemi A PRIORI VA'v. Teos,
11 i)ro)l. loU'ontolog.. e 1. 85 546 che comparvero in Germania, tanto
allettevoli per la sola forma ^speculativ^a; che anche la sola forma a priori
alletta, bench imbottita d'immagini di nessun valore, perch rende una cotal
traccia di quella sapienza a priori che
propria della Mente suprema . Mamiavi dice: Tutti i giudizi percettivi e sperimentali
vestono la forma sintetica, per la ragione generalissiina che V intimo essere
delle sostanze ci nascosto e si pu
pensare che rimarr sempre tale . La
conoscenza ddV intimo essere delle sostanze convertirebbe dunque i giudizi
attualmente sperimentali e sintetici che noi possiamo fare sulle loro propriet,
in giudizi analitici o a ()riori (secondo Mamiani, come secondo Galkij)})!,
tutti i giudizi a priori sono analitici) .. ^, 14. Infine, noi dobbiamo
segnalare la presenza del principio della metafisica apriorista in alcuni di
questi filosofi contemporanei a cui ordinariamente si estende la designazione
alquanto vaga di positivisti: basteranno i due seguenti, nei quali esso si
mostra con gli svilup]) pi estesi. Teosojrt. li. M. sez. H v. 1 art. 7.
Couipcflio e siiiti'si della propria Filosofia, L. Ft'.rri. (Stiffijio su lift
storia della filos. in Italia al nei'. 10, t. 1 iKi. tOf) (\ altro v('.)
attribuisce a Gioberti la dottrina clic tutti i giudizi sintetici, tanto quelli
a priori quanto quelli a posteriori, sono tali, perch^ l'essenza intima degli
esseri, da cui derivano i loro attributi,
impenetrabile: se la l'onoscessimo, noi ]>otremmo dedurne per analisi
(j^uesti attril)uti, e tutti i giudizi sarebbero analitici. Gioberti, per
(i[uel che 8 saipia. non ha mai esplicitamente formulato (|uest{i dottrina: ma
essa [mtrebbc forse inferirsi da certe proposizioni di ({uesto filosofo,
sovratutto da ci che ei). V. Pr. princ, 147 e 189. () Pr. princ, % 176. (7) V. Pr.
princ, % 190. (8) V. Pr. princ. 74 (cfr.
88) e 18. 550 plice espresBone dei rapporti dei fenomeni: questa forza^ di cui
la persistenza un dato a priori della
coscienza, , secondo lui, la forza iperfenomenale, la realt assoluta di cui
tutti i fenomeni sono la manifestazione . Considerando, come fa Spencer, la
forza come una sostanza (e non come la semplice attitudine che hanno corpi a modificare lo stato di riposo e di
movimento degli altri corpi), la deduzione della legge della persistenza della
forza dal principio che T essere non pu essere creato u annichilato, diviene
meno forzata, non solo, ma la deduzione stessa viene dissimulata, V intervallo
che vi ha tra il principio e la conseguenza svanisce, la conseguenza si
confonde col principio. La forza essendo una realt, anzi la sola realt che
esista veramente, la proposizione che afferma la persistenza della forza
equivale alla proposizione che afferma che la quantit della realt immutabile, che l'essere considerato nella
sua totalit non pu avere n accrescimento ne diminuzione . Di qui si vede che
anche nel sistema di Spencer, come in quello di Cartesio e degli altri
metafisici aprioristi di cui sopra abbiamo parlato, la serie delle deduzioni
riposa sopra una base metafisica, che in lui
la sostantificazione della forza; e si vede inoltre che, come abbiamo
detto, il principio della persistenza della forza quale legge scientifica
relativa ai fenomeni non , in questo sistema, il principio veramente ultimo, ma
una conseguenza del principio ulteriore, che l'essere (la realt assoluta
che il sustrato di tutti i fenomeni) non
pu avere ne cominciamento n fine . Sull'origine delle affermazioni intuitive
che, se Pr, princ, f>0-62. Sufjfji di morale ecc. v. 8. Obbioz. sui primi
ju-inc. e risposte. Conclusione. Cfr. cap. V 8 sulla line e Saggio i e. IX. 551
condo Spencer, costituiscono la base della scienza, troviamo in lui due
dottrine diverse. Nei Primi PriU' cipii egli considera certamente il princijuo
della persistenza della forza come una verit a priori nel senso tradizionale
della parola : invece in altre o[)ere (2^ considera questo e gli altri
principii assiomatici come a priori per l'individuo ma a posteriori per la
specie, cio dovuti all' accuinulaziane e trasmissione organica delle esperienze
avitiche. La differenza tra le due dottrine
senza ini)ortanza per la quistione se il sistema di Spencer sia
costruito sul tipo della filosofia apriorista. L' essenza di questa filosofia
sta nel metodo: essa ha per og-getto, come abbiamo tante volte ripetuto, di
stabilire tra i fenomeni dei legami ufcessari e razionali^ e, per
quest'oggetto, la condizione che il
metodo della scienza sia deduttivo, e che il punto di partenza della deduzione
siano dei princi[)ii ammessi come verit evidenti per se st-^^.-se e necsssarie.
Nel sistema di Spencer, questa condizione e esattamente adempiuta: egli fa
derivare le generalit della scienza da principii assiomatici, che, secondo
lui, impossibile di provare
induttivamente, e non hanno altra prova che la loro evidenza intrinseca; e a
questi principii attribuisce l'inconcepibilit della negativa, che il pii alto grado di necessit che noi
possiamo immaginare. La quistione: come il nostro spirito si trova in possesso
di questi principii? sono essi delle acquisizioni empiriche o delle necessit
primordiali del pensiero V una qui
Saggio 1 e. IX \\. 2 a 505. V. Psicol. % 480, 488, 208, ecc.. e Saggi di
inorale ecc. Obbiez. e Risp. n. 8. 0 e conclusione. Spencer insiste sa
{uest'iinpossibilit in tutte le sue opere, anche in ([nelle in cui spiejia
l'oriiiinc delle conoscenze assioniaiiche per l'eredit delle esperienze. V.
Saggi di mor. ecc., 1. e. stioue che intere5?sa la psicolog-ia, ma non il
metodo filosoteo. In (juaiito al rapporto dell' apriorismo di Spencer con la
ricerca delle cause efficienti, si presenta la stessa difficolt che si a*i presentata per Cartesio, Malebranche e
Leihnitz. Le cause veramente produttrici dei fenomeni non sono, per Spencer,
altri fenomeni, ma delle cause ultrafenomenali sconosciute e inconoscibili. Per
((uesto filosofo vale naturalmente la stessa risposta che per gli altri; i
legami razionali e necessari ch'egli stabilisce tra i fenomeni possono
chiamarsi causazioni efficienti, ma solo nel senso tecnico che noi diamo al
termine, cio in quanto questa forma necessaria e razionale modellata sulla forma delle conoscenze che
per il nostro spirito costituisi'ono (d' una maniera incosciente) il tipo della
causazione efficiente. Se al di l delle cause efficienti fenomenali lo Spencer
ammette altre cause efficienti pi degne di questo titolo, questo fatto, oltre
che una conseguenza della sua teoria sul
mondo esteriore, che ci accorda la conoscenza, non delle cose in s, ma solo dei
loro fenomeni (apparenze), si spiega pure per la natura stessa della soluzione
che la filosofa apriorista d del problema delle cause efficienti. Al b'isogno
del nostro spirito di conoscere le cause, questa filosofia non d che
una.soddisfazione incompleta, direi quasi piuttosto un simulacro di
soddisfazione che una soddisfazione reale: questa non potrebbe ottenersi che
seguendo lo slancio spontaneo del nostro spirito, che costituisce la metafisica
istintiva dell'uomo, e che tende a spiegare tutti i fenomeni, riconducendoli
alle sequenze che ci sono le pi familiari. Solo una tale spiegazione sarebbe
completa, radicale (nel senso metafisico della parola spiegazione): ogni altra
necessariamente lascia ancora nelle cose spiegate deV incomprensibilit ; e a
(juesto fenomeno suhhiettivo si d, lo sappiamo, un valore obbiettivo,
interpretandolo come un limite della conoscenza. Al suo scopo primario, che di stabilire tra i fatti dei rapporti
razionali e necessari, la filosofia apriorista aggiunge, come sappiamo, uno
scopo secondario, quello d'introdurre nel sistema delle conoscenze sul reale
l'videnza matematica, dimostrativa. E ci di cui Spencer ci d un esempio nella
sua dottrina del postulato universale. Questo
che ogni proposizione di cui non possiamo concepire la negativa deve
essere vera: esso implicato in ogni atto
dell'intelligenza, ed per esso che si
o'iustificano le premesse ultime delle nostre conoscenze da cui tutte le altre
dipendono. Lo stesso postulato giustifica pure il legame che riattacca le
conoscenze derivate alle primitive-, sicch l'inconcepibilit della negativa il criterio unico della verit . Per questa
dottrina la filosofa di Spencer
nell'opposizione pi radicale con la filosofia dell'esperienza, la quale
inibisce di ammettere una cosa senza prova, e non riconosce nell'e-videnza
intrinseca (spesso illusoria) d'una proposizione un criterio sufficiente della
sua verit. vero che se si prende
l'inconcepibilit della negativa nel senso stretto, bisoana convenire che noi
siamo forzati ad ammettere la verit delle proposizioni in cui essa si
trova: una fatalit del nostro pensiero,
a cui sarebbe impossibile di sottrarsi. Ma nel senso stretto, rinconcepibilit
della negativa non si trova mai nelle proposizioni concernenti, come diceva
Hume, le cose di fatto, cio l'esistente, la realt: essa non si trova che nelle
proposizioni cos dette analitiche, e in generale nelle affermazioni che non
implicano altro che delle percezioni di somiglianze e di differenze. Ma non
appartiene all'argomento di questo V. PsieoL Analisi generalo, e. . CtV. Mill,
Loij.. l. 2 e. VII. u ^ 'f 554 capitolo di fi^eutere la validit del criterio di
Spencer e i limiti della sua applicabilit : qui dobbiamo soltanto costatare il
fatto che, elevando l'inconcepibilit della negativa a criterio unico della
certezza, lo Spencer fa, come gli altri aprioristi, dell'evidenza matematica
(cio intuitiva o dimostrativa) il tipo unico di ogni evidenza. V. su ci.
Saggio. QuantuiKiiie lo scopo di questo capitolo non sia di fare una rivista
cuerale di tutti i tilosoti che hauuo aiumesso il principio della uietatisica
apriorista, pure io credo di dover fare menzione d'un altro tra i })i illustri
tilosoti contemporanei, rHartiuauii. Egli risolve la realt in due elementi
costitutivi, la Volont e l'Idea. La Volont
releniento illogico, il cui carattere
l'indeterminazione, il libero arbitrio, che talvolta va sino ad
indentiticare con l'azzardo: ma l'iblea
governata, nella sua evoluzione, da una necessit logica, la cui
legge il principio della logica
fornuile, cio il i>rincipio d'identit e di contraddizione. questa necessit logica che determina, a
ciascun momento, la somma delle Idee che l'ormano il cinitenuto della Volont:
ma il come del mondo, a ciascun momento, non
che il contenuto ideale realizzato dalla Volont; il come del mondo e
dumiue, a ciascun momento del processo, determinato da una necessit logica. 11
mondo e nella sua esistenza un atto continuo di Volont ; ma il processi
t(tale . (Ma non evidente che nel primo caso, quand'anche il
corpo urtante non G:illu]i)i, Sauijo filoaofieo. t. H par. i)0. 55S perdesse niente
del suo moto, il corpo urtato si muoverebbe, non spontaneamente, dando a se
stesso, come dice l'autore, il movimento che non ha, ma per l'azione di una
causa esteriore? e che nel secondo caso se il corpo urtante si fermasse senza
che il corpo urtato acquistasse alcun moto, il corpo urtante non si fermerebbe
da se stesso, distrug-gendo, come dice l'autore, il moto che ha, ma sarebbe
fermato da una forza esterna?) Ma il grado maggiore o minore di speciosit di
queste pretese dimostrazioni un punto
secondario: la speciosit dell'argomento non
mai, in alcun caso, il motivo unico che lo fa impiegare. E ci di cui lo
stesso Mill conviene, quando, a proposito degli esempi del suo terzo genere di
sofismi a priori, dice: D'ogni tempo i geometri si sono esposti al rimprovero
di voler provare i fatti pi generali del mondo esteriore per mezzo di
ragionamenti sofistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi.
Ora questa tendenza generale che importa
il pi di spiegare: perch un argomento a priori, quantunque meno convincente, e
spesso patentemente sofistico, si preferisce alla prova empirica, che la sola capace di determinare realmente la
convinzione, e quella che l'ha effettivamente determinata nello stesso autore?
Ci avviene evidentemente perch, mentre la prova empirica mostra semplicemente
che la cosa cosi (che vi ha una tale
uniformit di sequenza), l'argomento a priori sembra inoltre proprio a mostrare
che la cosa deve essere necessariamente cosi, e a rispondere in un certo modo
alla quistione del perch. Se ai fatti
della meccanica che il metodo dimostrativo
stato di preferenza applicato, ci non
soltanto perch, come stato
osservato , 1 matematici trasportano nella trattazione delle matematiche
applicate le abitudini intellettuali contratte nello studio delle matematiche
pure. Bisogna anche tener presente un'altra considerazione, cio che le leggi
fondamentali della meccanica sono, tra le leggi conosciute della natura, le
sole che siano ritenute come primitive, anzi
da esse, secondo la concezione prevalente nella filosofia moderna, che
tutte le altre leggi della natura derivano. Tra le leggi fondamentali della
meccanica, quelle delle azioni a distanza (che, secondo una delle forme della
concezione meccanica del mondo, sono anch'esse delle leggi primitive) sono
state, vero, raramente dimostrate con
ragionamenti a priori: che le numerose ^
discussioni sulla possibilit dell'azione a distanza hanno stabilito la
convinzione generale che queste leggi (supposto che non possano ricondursi ai
fenomeni dell'urto) sono inintelligibili e ribelli a qualsiasi tentativo di
spiegazione. P. e. (la Stewart, Ehm. della fil. dello spir. nni.. voi. H e. 2
sez. 4 ii. 'S. ttmittmuiammmmm imiw iiuiiaieeeaeafcgaBgaa^^j^.: Appendice I. 1.
Noi abbiamo sin (jiii considerato il metodo a priori, in ([Uanto esso ha per
oggetto di dare una si)ieo-azione dei tenonieni, come una delle forme sotto cui
si realizza il concetto di causalit efficiente: ma evidente che questo metodo non si applica
esclusivamente, alle relazioni tra le cause e gli effetti. L'importanza incomparabilmente
superiore di (jnesta classe di relazioni non deve farci perdere di vista che
gli altri rapporti tra i fenomeni sollecitano anch'essi dalla metafisica una
spiegazione. Come lo spirito umano non
pago di aver costatato che tal fenomeno segue invariabilmente tal altro
fenomeno, ma domanda inoltre perch deve seguirlo ; cos esso non e pago di aver
costatato che tal fenomeno accompaf/na invariabilmente talaltro fenomeno, ma
cerca inoltre una ragione che faccia comprendere la necessit di questa
congiunzione invariabile. La spiegazione metafsica, noi lo abbiamo visto al
soggetto delle cause efficienti, presenta due tipi generali che sono due modi
distinti di assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i pi familiari: V
uno la metafsica istintiva dello spirito
umano fa dei ra|)[)orti pi familiari tra i fenomeni l'intermediario esplicativo
di tutti gli altri ; 1' altro cerca invece di spiegare h. relazioni generali
dei fenomeni assimilando la loro fornia^ :5(> 1 562 563 quali oacretti della
conoscenza, a quella che propria delle
|)i familiari tra (jueste relazioni. Sarebbe inutile di considerare a parte il
primo di (|uesti due tipi di spieo-azione nella sua a|>plicazione alle
relazioni distinte dalle causali ; siccome non vi hanno, al di fuori dei
ra[)})orti di se(|uenza, altri rap])0rti tra fenomeni che sembrino capaci di
servire iV intermediario esplicativo universale (conica per esempio i fenomeni
dell' urto e dall'azione volontaria), le spiegazioni della metafsica istintiva
non si riferiscono g-eneral mente che alla ricerca delle cause (^ftcienti. Ma
il secondo tipo di spiegazione metafsica, (juando si a]plica alle relazioni
distinte dalle causali, indipendente
dalla quistione delle cause efficienti, perch esso non cerca che di trasformare
i rapporti generali tra i fenoneni, quahuniue sia la specie di questi rapporti,
da sem})licenente positci e contbgeti in razionali e vvceniiari. Il
presupposto, su cui fondato il metodo a
priori, , come abbiano detto, un' inferenza incosciente, per cui la forna (U^lla
conoscenza di tutti i rapporti gene rali dei fenomeni viene assimihua alla
forma della conoscenza dei pi familiari tra questi rapporti. Come dal g'ran
numero delle nostre esperienze di causazione noi concludiamo ehe tutti \
fenomeni sono sottomessi alla legge di causalit, cosi da ci che le causazioni
pi familiari che noi abbiamo sperimentate per conseg'uenza la parte |)i
considerevole della somma delle nostre esperienze di causazione -si sono
presentate alla nostra coscienza coi caratteri della y?ece.s.9/7^! e
dell'evidenza intrinseca, razionale, noi concludiamo che (piesti caratteri
devono ritrovarsi in tutte le causazioni.
inneo-abile che noi facciamo (juesta conclusione, perch l'uomo ha la
credenza istintiva che ogni fenomeno ha una causa efficiente le non
semi)liceniente un antecedente a cui esso segue invariabilmente), e il
carattere rigorosamente comune a tutte le nozioni che lo spirito umano si fatto della causa efficiente sia che l'abbia
concepita come fenomenale o come ultrafenomenale, come conoscibile o come
inconoscibile, sia che nel concepirla si sia conformato alla sua tendenza pi
spontaiuia, che di elevare a tijio
universale le causazioni pi familiari, o a quella meno spontanea, che di elevare a tipo universale, non queste
stesse causazioni familiari, ma la forma che
loro propria quali oggetti della conoscenza il carattere rigorosamente
comune, dico, a tutte ({ueste nozioni,
che trrv la causa e 1' effetto deve esservi un le^^ame necessario e di
un'evidenza intrinseca, razionale. Ed
ugualmente innegabile che questa credenza apparentemente istintiva deve
essere una g-eneralizzazione di esperienze di causazioni, le (inali ci sono
state date con questi caratteri che costituiscono la nostra nozione di causalit
efficiente: senza di ci, Tidea di causalit efficiente sarebbe inesplicabile al
punto di vista della teoria dell'esperienza. Ora, le nostre esperienze di
causazione non costituiscono soltanto le premesse di quest' induzione, che
tutti i fenomeni sono sottomessi alla leo-o-e della causalit: esse
costituiscono inoltre, unite alle altre esperienze di relazioni uniformi tra i
fenomeni, le premesse di quest'induzione i)i g-enerale, che tutti i fenomeni
sono sottomessi a relazioni uniformi. E, della stessa maniera che da ci che i
fatti pi familiari di causazione per conseguenza, come abbiamo detto, la parte
pi considerevole della somma delle no-stre esperienze di causazione si sono
presentati alla nostra coscienza come necessari e razionalmente evidenti, noi
concludiamo che tutte le causazioni devono essere necessarie e razionalmente
evidenti; da ci che i fatti pi familiari di causazione e tutti gli altri fatti
.egualmente familiari di rapporti uniformi tra i fenomeni si sono presentati
alla nostra coscienza come necessari e raziouanionti evidenti ci ehe un risultato della ripetizione estremamente
frequente delle esperienze di ciascuna specie di uraniente positive (cio
anunesse solo sulla fede dell' esperienza) e contingenti (cio tali che la
suj)posizione del contrario
perfettamente concepibile), quali esse sono per la scienza, in razionali
e necessarie, non i sole lei>-i!i di causazione, ma tutte le leiz'u'i dei
fenomeni in generale; in altri termini che il metodo a priori viene applicato,
egualmente che alle causazioni, a tutte le altre uniformitc della natura. g 2.
Il pi notevole tra i concetti derivati dall' applicazione del principio della
metaiisica apriorista alle uniformit della natura in generale, la suj)posizione che vi ha in ciascuna cosa
(cio in ciascuna specie di cose; un che di fondamentale . wu'rssefza, (h\ cui
tutte le propriet defila cosa derivano e possono dedursi (o almeno potrebbero
dedursi, se qiu^sV essenza fosse da noi conosciuta). Le propriet che
costituiscono ciascun genere di esseri che noi conosciamo, ci sono date. [)er
dir COSI, come scucite e staccate U) une dalle altre. Noi non vediamo j)erch ad
un' estensione iupencHrabih congiunta
l'inerzia, la gravit, ecc., come anche la capacit di ])resentare, in certe
circostanze, i fenomeni della vita, e in certe altre, quelli del sentimento e
del pensiero; noi non vt^liamo pcM'ch alla Hgura esteriore particolare ad un
animale costantementt' unita una certa
orii'anizzazione intcn-iore e delle facolt psichiche determinate. Queste
diverse propriet non hanno le une con le altre una^connessione che ci sembri
necessaria e di un' evidenza intrinseca, razionale. Ma, secondo il presupposto
che i rapporti uniformi dei fenom(Mii devono 5G5 essere necessari e di un'
evidenza razionale . tra le diverse propriet che costituiscono ciascun genere
di esseri dovrebl>e esservi una connessione necessaria e razionale; per
conseguenza, data una i)ro[)riet del genere, o queir insieme di ju'opriet
che sufficiente a distinguere il genere
dagli altri, tutte le altre propriet del genere dovrebb(M'o i)oterne essere
dedotte. Cosi, siccome tra le propriet mostrate dall'esperienza, non troviamo
questa propriet o conq)lesso di propriet distintive, da cui tutte le altre
possano dedursi, ne concludiamo che la propriet o le ])ropriet distintive, da
cui tutte le altre potrebbero dedursi, non sono oggetti della nostra
esperienza: sono (jueste propriet fondamentali sconosciute, le (piali si
sup])one che, se noi le conoscessimo, basterebbero a darci a priori la
conoscenza di tutte le altre, che noi chiamiamo (cio che i metafisici chiamano)
V essenza della cosa. Nel capitolo ch(^ pr(;cede, noi abbiamo considerato la
dottrina, che vi ha per ciascuna sostanza un' essc^nza sconosciuta, dalla
quale, se fosse conosciuta, potremmo dedurre tutte le propriet della sostanza,
come una consege.nza del principio della causalit efficiente, perch la maggior
parte delle jjroprieta delle sostanze sono, come dice Locke, delle potenze di
aa'ire e di patire, e la dottrina su|)pone che la conoscenza delle essenze ci
farebbe comprendere perch tali sostanze siano dotate di tali potenze, in altri
termini come tali cause abbiano una, connessione razionale e necessaria con
tali efletti: ma evidente che, per
essere esatti, noi avremmo dovuto considerare questa dottrina come una
conseguenza, non del principio di causalit efficiente, ma del principio pi
generale che tutte le connessioni uniformi tra i fenomeni devono essere
necessarie e razionali, perch non tutte le propriet che attribuiamo alle cose
si rapportano unicamente al loro modo di agire e di patire. Quando ci si dice
che, se noi 5GH conoscessimo l'essenza della materia, noi comprenderemmo perch
essa inerte, perch grave, ecc., perch capace, in date circostanze, di vivere, di
sentire, di pensare ; siccome questi e altrettali attributi non indicano che le
potenze attive o passive della materia, noi possiamo vedere in (jucsf
afterinazione una semplice conseguenza del principio che gli eff'etti devono
avere con le loro cause una connessione razionale e necessaria. Ma quando Reid
dice che ogni cosa che esiste ha un'essenza, dalla quale, se essa non fosse
superiore alla nostra comprensione, noi potremmo dedurre le sue propriet e gli
attributi della sua natura, noi non possiamo vedere in quest' attermazione
generale che una conseguenza di un principio avente una generalit uguale, cio del
principio cln, tutti i rapj)orti costanti tra i fenomeni devono essere
razionali e necessari. Il concetto deW essenza dei metafisici moderni pu
sembrare a primo aspetto assolutamente opposto a quello dei metafisici antichi:
in efftto, mentre per i primi l'essenza d'una cosa ci che vi ha in essa di j)i occulto e di pi
impenetrabile, per i secondi invece l'essenza era ci che vi avea nella cosa di
[)i notorio, e che costituiva la nozione stessa di questa cosa. Non di meno fra
questi due significati della parola essenza, con le dottrine che essi
implicano, vi ha un legame naturale, e il concetto modcn-no deriva
incontestabilmente dall'antico. Il fondo comune dei due concetti 1' idea (impiegando le espressioni di Hume
sui rapporti tra le cause e gli efftti; che tra le diverse propriet di un
genere non vi ha semj)licemente conf/i unzione ^ ma anche connessione, in modo
che, data l'una, le altre potrebbe esserne dedotte, se questa propriet
primitiva fosse conosciuta. I logici, la pi parte almeno, distinguono, come
tutti sanno, due sorta di definizioni, quelle di nome e 5G7 quelle di cosa. La
definizione nominale, si dice, non fa conoscere che il senso del nome, mentre
la definizione reale fa conoscere la natura stessa della cosa definita. Cosi
l'essenza d' una cosa era, secondo i logici peripatetici, r insieme degli
attributi che costituivano la definizione reale della specie a cui questa cosa
a])parteneva. Io non discuter il valore della distinzione delle definizioni in
nominali e reali; osserver semplicemente ci che non potr, credo, incontrare
opposizione che possono distinguersi due classi di defiiizioni, di cui chiamer
le une comjdete e le altre incomplete. Chianio completa una definizione che
conq)ren(ie tutti gli attributi primitivi, che sono comuni agli oggetti
appartenenti al genere definito; e chiamo incompletii una definizione che
comprende, non tutti questi attributi comuni, ma solo quanti sono sufficienti a
distinguere il genere definito da tutti gli altri. Per attributo priniitivo poi
intendo quello che non la conseguenza di
(lualche altro attributo: per esempio esser terminato da tre linee rette un attributo primitivo del triangolo, ma
avere la somma degli angoli uguali a due retti non un attributo primitivo, perch pu dimostrarsi
che una figura terminata da tre linee rette deve avere questa propriet. La
definizione del triangolo, del cerchio, delTellissi, e, in una parola tutte le
definizioni geometriche, sono complete, perch esauriscono tutti gli attrilmti
])rimitivi comuni agli oggetti appartenenti a ciascun genere definito. Ma la
definizione: l'uomo un animale
ragionevole, una definizione incompleta^
|)erch non comprende tutti gli attributi primitivi comuni agl'individui del
genere umano, ma solo (pianti sono sufficienti a distinguere questo genere da
tutti gli altri. Se alcuno, per conservare la distinzione tradizioiale delle
defiiizioni di nome e di cosa, volesse chiamare ^// casa le complete, e eli
nome le incomplete, io credo che potrebbe farlo r)()S senza iin]>ropri(?tn,
i)erch una detinizione completa ta conoscere la natura o l'essenza della cosa
definita, queste parole nafara o essenzci di una cosa non potendo indicare
altro, ([uando veng'ono prese in un senso non metafisico j ma positivo, che la
totalit deg'li attributi, conosciuti e conosci)ili, di (juesta cosa (i
primitivi). Non tutte le specie sono suscettibili di detinizioni complete^ come
quelle delle figure geometriche. Le specie e i generi deg'li oggetti naturali
per esenj)io l'uomo, V animale, V oro, ecc. possiedono un gran uunero di
attributi tutti egualmente, a quanto sembra, primitivi, e di cui alcuni sono
ancora sconosciuti: si potrebbe fare una collezione di tutti cjuelli che sono
conosciuti, ma questa collezione si chiamerebbe una descrizione e non una
detinizione, [)erch ]>er (h^Hnizione s'intende una breve formula, una
proposizione*, e d' altronde, (|uand'anche si chiaiiasse definizione, non
sarebbe una definizione che spiegherebbe la natur(( o rss^nzcf della cosa,
perch nanclierebbero gli attributi non ancora conosciuti, (o almeno non si
sarebbe mai sicuri che la cosa non lia, oltre gli attributi enunu'rati, degli
attributi sconosciuti i, i quali fanno parte anchessi della natura o essenza
della cosa. Ma i ])eripatetici ammettevano che anche di queste specie e generi,
aventi un gran nunun-o di propriet indipendenti, a (juanto pare a noi, le une
dalle altre, possono darsi delle definizioni, come noi diciamo, coiplete^ cio
delle detinizioni che esauriscono 1' essenza della cosa definita. Tali
definizioni doveaiK essere costituite, come tutte le altre, dal genere prossimo
(a cui la specie definita era subordinata^ e dalla differenza specifica: una
sola difl'erenza doveva bastare, non semplicemente a distinn-uere la cosa
definita da tutte le altre, ma a far conoscere e svilupjare la natura di questa
cosa. Come [)Otevano essi credere che la natura d' una COSI, per esempio
l'uomo, avente un si gran numero di propriet fisiche e mentali, potesse
riassumersi in una formula s breve? che
mentre noi rit(;niamo (juesto gran nuiirero di propriet come tutte egualmente
primitive, i peripatetici credevano invece che di primitive non ve ne potevano
essere se non tantci quante erano necessarie per distinguere la specie: fra
tutte le propriet appartenenti in proprio alla specie definita (cio non comuni
alle altre specie del genere f)rossimo) una sola era, secondo essi, primitiva,
ed era questa che, sotto il nome di differenza specifica, costituiva, unita al
genere prossimo (il (juale anch'esso poteva definirsi jer il genere suj)eriore
e per la differenza propria, una sola), l'essenzM o natura della specie. Le
altre propriet della specie erano derivate; esse fluivano, o emanavano, come
dicevano gli scolastici, dall'essenza, cio dai due attributi compresi nella
definizione, e potevano esserne dedotti. Cos il fondamento della dottrina della
logica peripatetica sulla definizione reale, e, (piindi, sull'essenza, era
(juesto presupi)osto metafisico: che le diverse propriet di ciascun genere di
esseri sono, non semplicenumte in congiunzione, ma anche in connessione, cio
non indipendenti e staccate le une dalle altre, ma tenute insieme per un legame
razionale e necessario . Invece Alili (Lo.i;-. t e. (> p;irai;r. 2, e. 7
pani.i^r. 5), vede nella dottrina ])erii)a,tetica suU' essenza una di ([ueste
illusioni imM>a*;ate dal lin.i;ua,irui,
li cui hi inetalsiea si fertile.
1/ illusicme ((Uisisteva, seconih) lui . a scambiare il significato del nome
per la natura della cosa. Secondo la dottrina di Stuart Mill sui concetti (cio
sui siiiti inehisi nel gruppo. Ma i peril>ateti para-.:^ che. siecome jjli
errori non si distru^-ono die lentamente, cos, bandita la falsa idea (hi
]eripatetici sulle essenze, le sopravvisse non pertanto una sua conseouenza; l'idea sulle essenze dei metatsiei moderni.
Le essenze individuali erano una tnzionr nata dalla falsa idea delle essenze di
classi, e Locke stesso, dopo aver estirpato Tei-rore fondam^Mitale (nn^strando
che le pretese essenze di (dassi erano semplicemente la sio;niticazione dei
h)ro nomi), non pot liberarsi dalla sua e(Mise-uenza, e ammise delle essenze di
oiiiictti individuali, che supixmeva essere le eause delle propriet sensibili
di piesti o.^j^etti. La prima dit^icolt contro la .spieoazicme di Mill che la definizione pei peripatetici non
con]n-endeva tutti -li attributi, che. secondo la dottiina di Mill,
ccstituiscom) la connotazione del mmie: questa spie-azione non rende conte d41a
re-ob, che una sola diilerenza era sufficiente alla delnizione. }Kn-ch. come
tMserva lo stesso Mill (e T, para-. 2 infine, e. S para-. ^) . la connpunto
come essi potevano credere di esaurire, con una s(da differenza, la natura
della specie ; e questo fatto imn pu sie-arsi se non ammettemb come prin571
strazione, e deve esser tale che si possano, per mezzo di essa, conoscere gli
accidenti (cio gli attributi non cipio della dottrina che, per la connessione
necessaria tra le ]>ropriet, l'ima di esse poteva dare tutte le altre. Ma vi
ha una difficolt pili -rave ancora: che
hi dottrina di Mill, in cui s'impernia la spie-azione, secondo la ([uale l'
ai>plicazione di un nome di classe implica V affermazione di un -ruip(>
definito di attri)uti, che soltanto una
parte della totalit de-li attributi comuni alla elasse, non , a mio credere .
che una semplice tinzione. Supponiamo due nuovi individui che ablnamo una
somi-lianza s(do parziale con -li individui -ia conosciuti di una classe, ma
che ne siano differenti l'uno per certi attributi e r altro pin certi Jiltri; e
animettianio che 1' uno v'n-a a-orec. l'altro no. Ci non potr essere che in-rch
-li attributi che 1' uno ha in comune con la classe sono in )iii -ran numero e
di pii -rande importanza che riet. e non iMtevanotrovare niente di simile:
]>erci si contentarono di (piest*' altre essenze che conferiscono alla cosa,
non ci che essa . ma ci che la fa chiamare col suo nome. Sia pure ! Ma perch
essi si erano formata (iU(\sta va-a idea della essenza i , rispimde Mill. perch
essi ammettevano il sistema realista . .secondo cui i oeneri e le s])ecie sono
delle entit distinte da-T individui e ad essi inerenti ; perci essi credevano
(die una cosa e cii lie si dice essere per la sua partecipazione alla natura di
una i-erta 572 inclusi lucila d.etiiizioiie) propri alla cosa (li: la
dimostrazione af. punto il metodo per rendere
noti questi accidenti {2\ per consei^'uenza, [)er riattaccare at>'li
attributi inclusi nella definizione le altre propriet della cosa.
Evidentemente, il tipo su cui Aristotile, come il suo maestro, concepisce T
ideale del metodo scientifico, (juello
della g'eometria. La condizione della scienza tsostioiza u;('H('rjil('. M.\.
]>riiii;i di tutto. \i (l(>tti'iii}i ili ([iiistioiic (Iella (;ss('iiz:i
e [Uclla (M>rrelativa della dci'mizioiic si trovano .;i in Aristotile-, e
questi uer lui ( lie looieameuti^: la sua ]K>lemiea eoutro Platone a]puuto uiui nuerra alle sostanze menerali .
inerenti a.u T i udivi ti ui (V. ea). se^ut'ute). I)'altvoul ^. t). vhv non
vede altro nel realisnu) elu' il jU'otlidto di una ])retesa toiulenza naturale
a realizzare le astrazioni, cio, al tornio, a prendere le ]>arole per eose .
U(u fondata wv sovra lati storiverava a
Platone, le sostanze Li'eiu'rali ihmi potevaiu) avere elie le jjreipriet stesse
dotili esseri iiulividuali s'intende le propriet ^em-rali) . e [uesti non le
aN'evano, se non ])ereb erano loro eomunieate da quelle. Non si vede elunijne
eonu' Mill s]enln peredi alle assenze eraiH date, non tutti .i;li attributi
della (dasse. ma sedo (luesta ]>orzione (die secondo lui costituisce la
connotazieme d(d nome: intanto ])er
ispieuare i). Pbys. IV. IV. . ecc. (2i Jli'f. ! II. llLM. V. I . Pc Ah. 1. I. .
Anni. Post. 1. .il. (21. l. X : ec'getto, e ve ne hanno due per ciascuno: la
definizione, e l'ipotesi, la (juale r
affermazione dell' esistenza reale della cosa conforme alla definizione (8).
Cosi, per i [)rincipii d(f cui, il 7ioto e certo per se stesso d'Aristotile
equivale esattamente al nostro evidente intrinsecamente o evidente per se
stesso: invece l'ipotesi, che afferma l'esistenza di un oo-g'etto reale
conforme alla definizione, non |)u considerarsi come una verit intrinsecamente
evidente. Con tutto ci Aristotile pu dire che la proposizione nota o certa per se stessa, perch essa
enuncia, non una verit d'inferenza, ma una verit immediata, intuitiva, cio
dataci inunediatamente dalla percezione. In quanto alla definizione per se
stessa, cio considerata se[)aratamente diiV ipotesi ^ non vi ha per essa n
certezza n incer h'th. Xie. Vi, ni. : V : VI ; Anal. Posi. eee: V. A,Hd Pr. ;
To,,. I, I (IJ G). m V. Anni. posi. I. VII : 1, X (1 G) (eonf, I, II. I. XI. ());
(12): Afri. II. II. (8-12). tezza d'alcuna specie: essa non che l'espressione d'un concetto, e non una
proposizione (affermazione) d) Osserviamo che per lo scopo della dimostrazione
di stabilire una connessione necessaria e razionale tra gli attributi inclusi
nella definizione e le altre propriet della cosa definita, non occorre che
l'esistenza di questa cosa sia una verit intrinsecamente evidente, ma basta che
siano tali i principii per cui questa connessione viene dimostrata (i principii
da cui). I prin::ipii assiomatici da cui, secondo Aristotile, la dimostrazione
deve precedere, sono, vero, per lui, non
delle intuizioni puramente razionali, come, in generale, per i filosofi
aprioristi moderni, ma dei risultati delPinduzione: ma ci non impedisce che il
metodo preconizzato da Aristotile sia anch'esso un metodo a priori. Noi abbiamo
gi osservato che l)isogna distinguere tra la quistione psicologica: le verit
assiomatiche sono delle necessit primitive del pensiero o dei risultati
dell'esperienzaV e la quistione del metodo: , o no, una condizione della
conoscenza filosofica adequata al suo oggetto che essa sia dedotta da principii
assiomatici, cio dotati di evidenza intrinseca e necessari'^ In Aristotile noi
troviamo un altro esempio del fatto che abbiamo gi incontrato in Spencer, vale
a dire, un metodo a priori (cio che vuol dedurre la conoscenza da principii
intrinsecamente evidenti) proposto come ideale del metodo scientifico, in
unione con una [)sicologia empirista, (cio che spiega per V esperienza la
presenza neir auima di questi principii intrinsecamente evidenti) Anni. Post.
I. II (U); I, X. . V. Anal. Pont. I, XVIIl, li, XV, Anni, Pr. II. XXV, Mh.
A'^iV. VI, ili r^). Di ih un'antitesi tra il proo;res8o logico e il protjresso
cronologico della coiio.sceuza. che Aristotile esprime diceiiclu che kuaaiagii
5(0 Tornando alla teoria dell'essenza, Aristotile concepiva dunque le
definizioni degli esseri reali e la loro funzione nella scienza del reale sul
modello delle definizioni altro (> ci che ^ il pi noto e anteriore ]>er
naturd o assohiiamete e altro ci che il
\n\ noto e anteriore per iol: il pi noto e anteriore per voi essendo il
]>articolarc, il sensibile^ e il pi noto e anteriore per natura essendo al
contrario i princi])ii pi universali. (/b7//. Post., l.ll (5-10) ). Il pi jioto
e anteriore per natura e il })rincipio logico Iella conoscenza ; il }>i noto
e anteriore per o ne e il })rincipio cronologieo. Il }rincipio cronologico
(Iella conoscenza e il ]>articolare e il sensiliile. perch * ojiiii
conoscenza deriva, in ultima analisi. daircs]>erienza: ma il principio
logico della conoscenza ci clie vi ha
tta da principii evidenti ]>(^r se stessi, e questi sono i i)i univeisali.
(^uantunhiettivazione e un'esiu-essione metaforica di i granile notoriet (secondo
l'ordine logico) dei i)rincipii universali
assoluta, eiot> la stessa per tutti e in tutti i casi, mentre
l'anteriorit e la jdi grande notoriet del fatto [)articolare (secondo l'ordine
cronologico) relativa, varia secondo
gl'iiulividui e i casi. In elfetto, se
costante che la conoscenza di alcuni ]>articolari
(indeterminatamente) jireceda quella Udl'universale, jniramente accidentale che i particolari
(dtermin;iti) la cui (^(mo-^iicuiza ha. effettivamente preceduto la
conosertcie, a riattaccare tutti i feuoneni geometrici che t^ssa pu jiresentare
a un solo feunueno fondamentale, riguardato come definizione primitiva. A.
('onte, (^orsit di filos. posi!, lez. -t risulta evidentemente dalle sue
dichiarazioni che per lui, come per gli altri filosofi aprioristi, il valore di
questo metodo consiste principalmente in ci ch'esso fa vedere il perch, la
ragione dei fatti, ne d spiegazione . Egli considera anche gli attributi
inclusi nella definizione come le cause delle propriet della cosa definita (il
medio della dimostrazione la causa, per
Aristotile, e la definizione il ttedlo)\
[)erch essi sono la ragion sufficiente (nel senso leibnitziano della parola)
della presenza di ([Ueste propriet nella cosa . E in questo 1 1 V. AnL Post..
Aristotile identifica continuamente questi due conc caso. V analogia d
jKirticolare che se ne ]ui dedurre. X'^oi ah]iani i segnalati che ci (jffra
Aristotile di traslormazioin di una relazione logica in relazione ontol(gica.
Xotiamo che ({uesta trasformazione non pitreh]>e aver luogo che in una
tilosi>lia clu^ non vede ch(^ ih',1 metodo a pri(H-i. cio tlimostrativo, il
solo metinlo rigorosannuite scientifico:
soltanto quando il met(Ml della scienza (^ il dimostrativo, cio (luamh
la cinn)sce-nza si dedutro giudizio, ma ancora della verit stessa, eia rhc si
rhiama purr nujwne a priori e la causa ludle cose corrisponde alla nujione
nelle verit .V. S. suWintcnd. um. 1. t, e. 17, vS 1.) In eletto solo allora che la verit delU eonse-nenze
dipende da (inedia dei principii ma non reeiproeamente la verit dei prineipii
da (luella delle concernenze,: se invece le pren.esse generali si ammettono
sulla prova dei latti particolari, la verit delle premesse dipende da quella
delle onseonenze altrettanto che la verit delle conseguenze da quella delle
piemesse. Non dobbiamo passare sotto silenzio che non tutti gli attributi della
specie eram ritenuti dai peripatetici derivare dall'essenza, ma solo i iH'opri:
si ammettevano, oltre i propri, degli attributi comuni a tutti gl'individui
della specie che sopraggiuugevano all'essenza, ma ncm ne derivavano, erano gli
aeeidenti ivseparahili. Tanto il proprio quanto l'accidente inseparabile erano
predicati universalmente della specie; ma solo il proprio era predicato
ueeessariameute. Questa necessit della predicaziime del proprio era quella
specie di necessit che si attribuisce alle verit il cui -contrario o si pretende inconcepibile o ripugnante .V
IVrtirio Isag. De Accidente, e cofr. Zabarella Commeu. m Anul. Post. l. 1.
c.ont. 52): era inlatti (Questa necessit che conveniva a un predicato il quale
poteva essere dimostrato del sogiiiBiiTinijujiuiiijMiiiwiijMi,iijiimMi Ora chiara la filiazione del concetto
dell'essenza della metafisica moderna dal concetto dell'essenza della filosofia
peripatetica: mano mano che si disperava di trovare queste definizini luminose,
rischiaranti tutta la getto . Per la dottrina dell'accidente inseparal)ile i
peripatetici si mettevano in contraddizione col concetto del predicabile
accidente (Vaccidente, quale uno dei cimine predicabili, si definiva: quod
inesse ae non inessc cidem pofest, Porfirio Tsufj. De accid., Arist. Top. S. al
tempo stesso che col ])resupposto fondamentale della teoria della detniziime e
dell'essenza. Il motivo ])er ammettere degli attributi generali della specie
che tuttavia non derivavano dall'essenza, era, pare, l'idea che un attributo
derivante dall'essenza non poteva trovarsi che l love si trovava l'essenza
stessa: infatti il proprio si definiva, non solo: un attributo necessario
derivante dall' essenza, uni ancora: un attributo (non essenziale) che conviene
a tntta la specie e ed essa sola. Forse quest'idea era una conseguenza della
tendenza che si ha generalmente ad ammettere che lo stesso eftetto ^ sempre
dovuto alla stessa causa (il V. sofisma a priori di Stuart-Mill), l'essenza,
come abbiamo detto, essendo considerata come causa e le propriet come efictti.
Per mettere d'accordo il principio che uno stesso effetto non pu av(;re che una
sola causa col presupposto della teoria lell'essenza (che vi ha una connessione
necessaria tra tutti gli attributi della specie j, bisogna ammettere che tutti
gli attributi generali della specie. salvo quelli che sono comuni a tutto il
genere, sono proiri della specie: ma si era forzati dall'esperienza ad
ammettere anche degli attributi generali, che, senza essere generici, non erano
nemmeno propri esclusivamente della specie ; di l il concetto ibrido dell'
accidente inseparabile. Del resto la contraddizione tra il concetto
dell'accidente inseparabile e l'esigenza generale della teoria faceva s che la
regola che il proprio doveva convenire esclusivamente alla sola specie era
posta in obblio, e degli attributi che, conformemente a questa regola,
avrebbero dovuto considerarsi come accidenti inseparabili, erano invece
considerati come propri, cio come derivanti dall'essenza (p. e. la sfericit
della luna, dice un perii t I SO natura della cosa, (jiieste difterenze
spociticlio da cui tutte le propriet degli esseri dovevano poter essere
dedotte, le essenze, bench s continuasse ad ainnietterle, si alJontaiiavano dal
campo della conoscenza effettiva, sinch esse cessarono di essere considerate
come roi>-o'etto della definizione, e allora il concetto moderno (il
metafisico) dell'essenza prese il posto del concetto antico . pateticM).
U'i'iv.i sciizjj (lul>lio (1;j11;i iiatuni. dolht Iumm. e )>otr(iblH'
diinostmrsi, str picstji luitiira losst conosciuta. V. Zahan'lla Ih' nn'ido
dcmoHstnii. 1. 1. aral)i!i lovcvaiio essere ^iiulica/i tuto seain)iarsi con la
natura stessa della cosa, cio con la totalit ml>a.i;na sempre la specie, e
vhi\ non considerato comj; un
jh'Opritnn, non introd(>tto
nell'esseuza. ci si risponden'bbe verisimilmente che il ccdore de:;li animali *
una (qualit variabile, instabiN : esso cangila spesso allorch' tutte le altn
qualil s"enere prossimo e la differenza specifica, una sola, ])erch la
dicotoma (divisione del genere in due specie per l'au'o'iunzione di due
differenze mutuamente opposte), che il
metodo di Platone periscoprire le definizioni , non pu dare che una sola
differenza specifica. Ora questa definizione, evidentemente, doveva esaurire la
natura della cosa definita; i)erch il metodo di divisione avea per
oi4'i>'etto di dmoHlrarp le Idee (le specie', nel tentpo stesso che di
dcfrlo. e la dialettica di Platone era, come (j nella di Heg*el, un metodo che
pretendeva di riprodurre, nelTordiiu'. dei concetti, la 4>enesi stessa delle
cose, di ricrearle per il i)ensiero (8). Sicch, scopreulo le definizioni delle
Idee, erano le Idee stesse, quali esse sono in se stesse, che Platone intendeva
avere sco\'erte, e la definizione doveva essere 1' esprc^ssione esatta,
completa, della natura dell'Idea (della Specie). Ma perci era necesssario che i
caratteri esjdicfamerde inclusi nell'essenza fossero supi)Osti racchiudere impicifavcfe
tutti gli altri caratteri della specie:
solo a (|ueb*ri\"an bdla (h'iisca dta dei testi p(^r c)m]U'ovar(^
piesta detinizione della parola: l'inind* ju'incipi) bdb' i)ropri"t
naturali b'ih' cose). Xd M'n)ne (71 ab. Si> c-l. Ulti h) stabilisce [uesta
reoda li met>do. die per cri't l'una -osa biso"'mj juima avt-r Mnos(dut
l'c^ssenza li pu'sta -osa. V. *ap. se^Ui^nte. {'^) V. cap. seguente. -tmtUtm
sta condizione che la dialettica poteva essere, come Timniaginava Platone, una
ricostruzione a priori del mondo delle Idee (cio di questa stessa natura reale
contemplata sub specie aeterntatis). Questo rapporto tra la dialettica di
Platone e la teoria della definizione ch'egli ha in comune con Aristotile, lo
vedremo pi chiaramente nel capitolo seguente. 4. La dottrina
platonicoaristotelica sulla definizione, oltre la connessione necessaria e
intelligibile a priori tra le diverse proj)riet di un genere, suppone di pi
l'anteriorit logica di uno dei caratteri differenziali del genere su tutti gli
altri. Ma vi hanno anche dei casi in cui la prima di queste due suyjposizioni
sta senza l'altra. Ascoltiamo, p. e., Leibnitz: Quando un'idea distinta, e contiene la definizione o le
marche reciproche dell'oggetto, essa potr essere inadequata o incompleta, cio
quando queste marche o questi ingredienti non sono |)ure tutti distintamente
conosciuti, p. e.: l'oro un metallo che
resiste alla coppella e all'acqua forte. Questa
un'idea distinta, perch d delle marche o la definizione dell'oro; ma
non completa, perch la natura della
coppellazione e dell'operazione dell'acqua forte non ci abbastanza conosciuta. Donde segue che
(juando non vi ha che un'idea incompleta, lo stesso soggetto suscettibile di pi definizioni indipendenti
le une dalle altre, di modo che non si potrebbero sempre tirare l'una
dall'altra, u prevedere ch'esse debbono appartenere allo stesso sogg^etto, e
allora la sola esperienza c'insegna ch'esse gli appartengono tutte al tem|)0
stesso. Cosi l'ora potr ancora essere definito il pi pesante dei nostri corpi, o
il pi malleabile, senza parlare di altre definizioni che si potrebbero fare. Ma
non sar che quando gli uomini avranno penetrato pi avanti nella natura delle
cose che si potr vedere perch appartiene al pi pesante dei metalli (o al pi
malleabile) di resistere a queste due prove dei saggiatori . L'autore suppone dunque che quando
l'idea completa (cio quando abbiamo una
conoscenza distinta degli attributi inclusi nella definizione) le diverse
definizioni di cui il soggetto
suscettibile (facendo tante definizioni quanti sono i caratteri
differenziali) si possono tirare l'una dall'altra, e prevedere
indipendentemente dall'esperienza ch'else appartengono tutte allo stesso
soggetto: in altri termini egli suppone, come Platone ed Aristotile, che le
diverse propriet della specie sono necessariamente legate, e che l'una pu dare
tutte le altre; ma non riguarda, come essi, una di queste propriet come
primitiva, e le altre come derivate. Vi ha nella scieiza moderna una notevole
applicazione del concetto che le diverse propriet di un genere hanno una
connessione necessaria e intelligibile a priori, senza la supposizione
dell'anteriorit logica di una propriet sulle altre: la dottrina di Cuvier della correlazione
necessaria fra le parti di un organismo. Questa dottrina si riassume nelle
seguenti parole dell'autore: Ogni essere organizzato forma un insieme, un
sistema unico e chiuso, di cui le parti si corris|)ondono mutuamente e
concorrono alla stesssa azione definitiva per una reazione reciproca. Alcuna di
queste parti non pu cangiare senza che le altre cangino pure, e per conseguenza
ciascuna di esse, presa separatamente, indica e d tutte le altre . In altri
termini, la funzione di ciascuna parte di un organismo cooperando con le
funzioni di tutte le altre, ciascuna parte deve adattarsi a tutte le altre:
donde segue, secondo Cuvier, che una [)*irte qualsiasi e la sua forma pu
indicare, indipendentemente dalPosservazione, quali altre parti devono
coesistere con Y. .y. aulVhU. um. 1. 2. e. 31 ^ P Discorso sulle rivoluzioni della
superficie del iflobo. ^ VV^. essa, e ([ualo deve essere la loro forma, in modo
che ciascuna i)ii essere data da ciascuiraltra, e tutte da una sola. Ci importa
che vi ha fra tutti i caratteri, i quali entrano nella descrizione di una
specie, di un genere, di una famiglia, ecc., in nna ]>arola di tutte le
classi di qualsiasi grado di generalit in cui i naturalisti distribuiscono gli
esseri viventi, una connessione tale che, dato un solo carattere della classe,
tutti gli altri se ne possono dedurre. Il i)rincipio della finalit interiore
degli esseri organizzati, dal quale Cuvier dcM'iva la sua leizae della
correlazione organica, non ha nella sua dottrina una base teologica: se gli
organi sono adattati gli uni agli altri e al regime di vita dell'animale, ci
non perch il Creatore ha voluto che sia
cosi, ma perch ci una condizione
necessaria dell'esistenza dellauiniale, perch se una funzione fosse modificata
d'una maniera incom|)atil)il(* con le altre, l'animale non j)otre!)l)e
esistere. Le leggi delle coesistenze e correlazioni degli organi possono essere
sco[>erte a priori, deducendole dal princi[)io delle condizioni di esistenza
([)rincipio delle cause finali dei metafisici;; ma p(*r l'imperfezione delle
sue conoscenze sull'influenza reciproca delle funzioni e l'uso degli organi, il
naturalista spesso costretto di
abbandonare il metodo razionale, e contentarsi di ({uello Hupplemeifctre
dell'osservazione, che gli fa conoscere che una relazione costante, ma senza farglicne comprendere la
ragione. . Bisoo-na distinguere fra una dottrina che si limita ad ammettere
l'adiUtanento degli organi fra di loro e al moilo di vita dell'animale, e una
dottrina che [>retende che un cangiamento (qualsiasi legli organi renderebbe
l'animale improprio al suo modo di vita, e che resistenza e lo stato di
ciascuna part(^ dell'organismo talmente
legata all'esistenza e allo stato delle altre, che, data,r una . le altre non
potrebbero essere d' una maSf) niera differente senza che vengano meno \i\
condizioni necessarie dell'esistenza dell'animale. Di (jueste due dottrine la
scienza contemporanea accetta la priua, ma respinge la seconda, che ])ai"ten!iono. e che se una delle sue
tunzioni fosse nioditcata l'una nianiera inconipatilule con le moditicazioni
delle altre, !>: In una ]>ar(da la
forma del dente trascina la t'orma del (ondile. aratamenti' per l)ase
d'un'erie:t piaulunque, cos l'uniiliia. r(nm>plata. il condile. il temore e
tutte 1, e sarebbe impossibile che ve ne t'osse pi di uno (4;; che deve esservi
pi di un movimento nel cielo (5i', che il mondo
necessariaiiumte sferico ((ii; ecc.: come esenipi della seconda forma,
quelli in cui spiega perch il cielo si muove da oriente a occidente (7); perch
le stelle sono sferiche; ecc.: In quanto a Noi abbiamo visto ('(mio nella (h)ttrina
di Ciivit^r h^lla eorrehizioiie (leU(i forme la s})ieiiazioue apriorista si
tVmde con la teleologica, l'u fusione di queste due forme di sjueoazioue deve
ammettersi pure nelle coneezioni di Platone e di Aristotele sulla connessione
tra i caratteri delle classi naturali, poich la loro dottrina sulla
definizione, secondo cui le propriet possono dedursi a priori dall'essenza,
deve conciliarsi ctm l'importanza suprema che il i)rincipio d(dle cause tnali
ha nella loro tllosotia conc mezzo di spiegazione. {2i . Su]>plem. i\ Il
[ntagorismo nel Timeo. (:^) De Coel 1. I. II. 2-5 ed. Didot, IH. 7. ('fr.
(ialileo Dialof/h sfii massimi sistemi, giornata >rima. verso il principio. De Coelo De Coelo 1. l. ili. De
Coelo De Coelo De Coelo . Platone,
la sua spiegazione del eosuios , se 8 prende il Timeo alla lettera, una
si)ieo\azione teleolog'ica e teolo^'ica: ma uuardando, pi che alla lettera del
Timeo, ai |)rincipii >-enerali del sistema delle Idee, si vedr chela
teleologia platonica , non trascendente, ma inuiianente, e che essa fa parte,
come un momento subordinato, di una s[)ie^azione essenzialmente apriorista, per
cui r ultima rag-ione delh; cose sta nella necessit, lo(''ica, che fa si che
esse non potrebbero, senza contraddizione . essere altrimenti di come sono. A
tal fine bisoa'na tener presente: 1. Che il Deminrii'o del Timeo un elemento |)uramente rapi)resentativo. il .
il vero essere, l'essere puro e senza restrizione: ma imi.ossil.ile e contraddittorio .-he il vero
essere non sia; Dio dunque uocessariamente i'. Questa forma si trova in S
Bonaventura f/(.er. m^r. ;, i>*'H,e. 3). in Malebranche (v. Mie della ver..
. 4. e. ll.(, in Gioberti (v. Mr. allo si. della filos. Milano 1850 t. 1. paji.
272; e efr. p. . 2Hfi. . e crii altri luoghi delle sue opere iu cui atferma che
.1 indizio VEnte ft analitico Altre
forme della dimostrazione a priori deducono l'esistenza di Dio. non dal suo
concetto o essenza, co me le precedenti, ma dai suoi attributi. I.a pi notevole u.iella di Clarke: il tempo e lo spazio,
l'eternit e l'immensit, sono delle cose necessarie . che fe impossibile di
c.ncepire che non esistano; ma queste cose sono degli astratti, che suppongono
un essere concreto in cui ineriscano come attributi . e questo non pu essere
che Dio; dumpie l'esistenza di Dio
necessaria (V. Tratt. dell'esist. ecc. e. 4, 20-26, Framm. d'um, W.
16.5. ecc.; Allo stesso tipo di dimostrazione a priori, dedotte, come questa di
Clarke. da un'appartenenza di Dio. e non lalla sua essenza (e aventi per
eggetto di stabilire la necessit metafisica dell'esistenza di Dio), possono
ricondursi luella di Rosmini fondata sella necessit dell'essere ideale e la sua
inerenza iu Dio (N. S. sulVorig. delle idee. n. 14.-8 e 1460J. e quella di
Mamiani fondata sulla realt delle verit eterne e la loro inerenza ili Dio. (V.
Uonfe.is. d'vn metaf. v. I, 1. 1. e. 11). l'unica iimnag'iiiabile,
(|uantuu(|iie illusoria, d' un ju-oblema, che si presenta naturalmente, se non
inevitabilnunite, nella moderna, filosofia teologica . Lo stesso KsMit. \'i
naturale (the il cosiuolo^ico. e clnaiiii r oiitti*o . pure dice: f^a ueeessitsi assoluta il vero abisso Iella l'ai^iouc^ iiinaua Non
possiamo difenderei dal ])ensero seguente u^ s(]portarIo. che un cssen* che noi
ci iap})resentianio eonu' il iifi elevat di tutti:j.li esseri p>ssi\>ili
. ri di ine. rimitivo. il quale di sua
natura insolubile. La terra riposa suU'idei'ante. 1' elefante sulla tartaru.Lia:
ma su cdie ripos.-i hi rartarniia i (Mie si eonsiita iimmio stalulito eln' nna
sostanza ultima esiste eoi suoi attrilniti. Mu donde viene elie essa esiste .
eseienza L(> sjurito umano senza
dub)io trojipo grossolano e tr(]>]>o basso jH'i mni adtuarsi prontamente
al ))i grande dei misteri (die r iiivilui>i>aiio . jn'r non ('(mteiitarsi
di porre esattamente il problema senza cercare di risolveido (Filf)x, delV
hwose'inte 3. ])arte. XW (ili ultimi i>rinci])ii. n. \). N(d abbiaim ^i
riterito un luo^o di (ijilluppi, (die aiiiiiiett(^ (die. se noi c(Mioscessinio
l'essenza di Dio. potremnn dedurne, a, prioi'i. la sua esistenza: e un altro di
d'Alemlx^rt. (die vede nella ([uistione d(d iK'reh' deir(\sist(;uza (Ud primo
essere il problema capitale da cui dipendono tutti ujli altri.
A.i;;i;iuii.iianio (he tutti I l^*-' 59; fjSo titolo di dimostrazione a priori^
con cui quest'ariiomento veniva desf>'nato quando il senso della parola a
pi-io ri non era ancora quello attuale, c'indica chiaramente che esso stato, sin dall'inizio, compreso come un
ragionamento che non prova semplicenKMite che Dio esiste, ma fa vedere inoltre
la rag'ione perch e-li scolastici chiamavano a jn-iori la dimostrazione che
provava un fatto per la sua causa (il termine causa essendo usato, come abbiamo
visto, dai peripatetici in un senso lato, in cui poteva comprendersi pure la
rag'ione dell'esistenza d'una cosa, (iuantun(jue questa ra*>'ione noti fosse
una causa jirop ria mente detta). L' anolog'ia della rag'ione a priori per cui
si dimostra l'esistenza di Dio, con la causa,
stata sfiinta ancora pi innanzi nella metafisica mod(M-na, in cui ed (i
ci che prova della maniera [)i palpabile (|ual(* sia il motivo e lo scopo dell'
a rg'o mento ontologico alcuni, e dei [)rincipali, tra i fautori di
(juest'arg'omento affermano netttamente ch(^ la ragione y^y/o/v' dell'esistenza di Dio la cuttHCi di (juesta esistenza. Secondo
Cartesio, si deve domandare di Dio, come d' ogni altra cosa esistente,
qual la causa per cui egii esiste; e Dio
fa in (lualche modo riguardo a se stesso ci che la causa (efficiente riguardo
all'effetto: e quantuncjue egli non emetta quest' affermazione a proposito
dell' argomento ontologico, non pu esservi dubbio ch'egli non abbia di mira i
tilosoli che inii)iej;an(> rar4, t5S, e ffisp. (d/r (^latrtr ohhicz., t. 2
iiag. M-74. r analo^^-ia tra la ragione per cui si dimostra Dio a priori e la causa
efficiente. In effetto, come schiarimento
difesa contro le obbiezioni che gli vengono mosse, dice: che Dio per s come per una causa formale, ma pu
riguardarsi, in un senso analogico, come causa efficiente di se steso, per il
gran rapporto che vi ha tra la causa formale, cio la ragione presa dall'essenza
di Dio, e la causa efficiente (li; che la proposizione che Dio per se come per una causa (e non come: senza
causa) d(^ve intendersi in ([uesto senso, che l'essenza di Dio tale, che
impossibile che egli non esista sempre , e che non ha bisogno, per
esistere, di una causa esteriore ; e che la causa o la ragione per cui egli
esiste da s, e non ha bisogno, per esistere, di una causa esteriore, Viinmenslt della sua essenza (non bisogna
dimenticare che l'argomento ontologico di Cartesio deduce V esistenza di Dio
dal suo concetto o essenza di essere infinito in cui tutte le perfezioni devono
essere comprese ). Spinoza, dando una forma rigida V. l^isp. (llr (,h(t(rtf.
ohbiez.. . puj;. (>2-7l. V. Jiisp. ((Ih' Sci', ohhicz, t. 1. p. . V. Kiap.
(illr Oiutrtr ohbiez., t. 2. p. (>5-l>8. Risp. itili' Sei'. Ohhii'z., t.
1. pajj. 4oS. Cartesio d pure mi altro scliiarinciito alla proposizione che Dio
t' [iT s^ i'oiic per ima causa; voh che la causa per cui Dio ^. e continua
seniir: ma. per fortitcare quest'argomento, ej^li dice appunto (nella stessa
Risposta alle Sec. Obb. t. 1. pa;. 894) che neir idea di un essere sovranamente
possente h contenuta l'esistenza necessaria, e che considerando 1' infinita
potenza di (piest'essere. noi conosciamo cire('Z(Hl). U) V. Infroflx:. allo
studio drlhi fiJos., t. l notti )2, ed. Milano I.S50 )a--. trit-t.^. Cfr. iid.
jkij. 2M!.29(). tJrr. nios. di A, Rosmini. Hnisselle iStS t. 1 ]>a,u.
:^()4-S()r), ecc. 597 un principio realmente anteriore al principio primo del
suo sistema. vero nondimeno che questi
filosofi prendono in un senso troppo realista le loro proprie metafore,
scambiando una vaga analogia con una vera identit : ci mostra quanto sia naturale
di confondere la ragione a priori con la causa efficiente; una confusione simile a quella che facevano
gli aristotelici quando riguardavano l'essenza come la causa efficiente delle
propriet. Sono dei fatti propri a spargere (pialche luce sull'origine dei
sistemi di cui tratteremo nel capitolo seguente, i quali, come vedremo, sono
fondati sulla identificaziou\ nel senso pi rigoroso, del rapporto fra il
principio e la conseguenza e (piello tra la causa e l'effetto. In compenso,
quella specie di vago e inconscio realismo che
nelle proposizioni precedenti, in cui r essenza e la necessit assoluta
sembrano trattate come delle cose anteriori all'esistenza io agli attributi,
nelle proposizioni dei peripatetici), che i)roducono l'esistenza vO gli
attributi), ricever della luce, alla sua volta, dal realismo franco (^ deciso
di (luesti sistemi . (\) Non ]K)ssiani lascijire osto, che il concetto di Dio
racchiude (luello della sua esistenza: ma se
cos, come ben osserva (T(d)erti yTtrod. tomo 1. nota ) ). la voce Do
eiiuivale alla proposiziont^ I)iiu unji dinn^strazione. ma soltanto la
costatazione di questo tatto, che
impossibile di conc(q)ire Dio (di concepirlo d'una maniera chiara) senza
concepire al tem')0 stesso ch'ejili esiste ed esiste necessariamente, e
l'esistenza di Dio da teon^ma diviene assioma. Lo stesso Cartesio costretto qualche volta a convenirne: cos
nelle sue Hajjjioni che provano l'esistenza di Dio ecc. dis})ost(^ d' una
maniera geometrica, vi ha questa domanda:
In quinto luogo io domando che si fermino lungamente^ a contemplare la
natura dell'essere sovranamente perfetto; e tra altre cose che essi considerino
che nelle idee di tutte le altre nature l'esistenza possibile si trova bene
contenuta^ ma che nell'idea di Dio non h solo un'esistenza l)ossil)ilt^ ch(^ si
trova contenuta, ma un'esistenza assolutamente necessaria. (Ci riguardato da C'artesio conu' una verit
assiomatica. V. nelle stesse Kagioni ecc. l'assioma). Perch da ci solo, e senza
alcun ra. De.^-Bosses 17 marzo EpUt.alp. Des-BossesW marzo p. bis 1. 15
assolutamente i parti assolutamente di parti 1). bis n. 3, 1. 2 (Dut. II. I.
46>, Resp. (Dut. II. 1.46), Monadol. 2, Resp. p. 16a bis n. 2 sire insita '
sire de ci insita p. 167 ])is nota, 1. 15 confusa dell'universo il confusa
dell'universo) il p. 169 bis 1. 2 testo una teotia una teoria 1. 2 nota non
semina da ci non segua da ci p. 172 bis 1. 1 mistero rel mistero reale 1. 13
forza richiedente forza risiedente p. bis 1. 12 quella cis insita ({uesta cis
insita 1. 22. una volta entrata/ una
volta entrato note, 1. 1 in nota. Ci per in nota) -Ci per 1. 3 in seguito). in
seguite. p. bis 1. 8-9 hanno sensazione, ma non nel hanno sensazioni, ma non,
nel senso stretto, senso stretto, 1. 12 non, vi ha in esse non vi lia in esse
p. 194 )is . 18 come la reale come reale p. 195 bis n. 4 1. 0-7 interno: (.bid.
nota 27, nota 24, interno (v. ibid. nota 27, noto artic. 4, ecc) 24. artic. l,. ecc.): p. 201 bis 1. 21 da queste conformit da
queste uniformit p. 203 bis 1. 12 i fenomeni appariscono i fenomeni ci
appariscono bis 1. quortult. reffetto: Kant retfetto; Kant p. 214 bis 1. 0 sia
che facciano sia che facciano p. bis 1. 9 connexio recam ronnervio reram p. 230
bis 1. sestult. ha due fatti tra due fatti [). 234 1. Idea filosofia della
niosofia 1. 29-30 necetralizzare neutralizzare p. 272 1. 19 tal ettetto
"" ^al effetto p. 1. 16 e di assegnare di assegnare 1. . distolsero I' distolsero p.
1. 14 L'alternativa inevitabile
L'alternativa, secondo lui. dunque
inevitabile p. n. 1, 1. 6 che sanr che sar p. 291 1. 26 ci tratterebbe si
tratterebbe p. 292 1. 18-19 ma, evidente "la evidente p. 307 1. 1 III Noi abbiamo > Noi
abbiamo p. , nota, 1. 3 non magis nos magis 1. 4 debat d.^beat i p. 311. nota, 1. 0 cosi in
genere cos in generale p. 1. ult. testo
L'attrazine/L'attrazione dall'infanzia/dell'infanzia di questa di filosofia/di
questa filosofia caduta del corpo primitivo/caduta del corpo primitiva
Qualunque la filosofia/Quantunque la filosofia in rjue.^to modo in qwesto mondo
successone/successione possa o lo sappia lo possa e lo sappia Tvndall/Tyndall
dove sembrava allora doveva sembrare allora questa inferenza questa inferenza
p. 384 nota 96 e seg. 96 a e seg. p. l. 4 dalla nostra affermazione della
nostra afi^ermazione p. 390 1. t che e si suppongono che si suppongono p. 407
1. 24 ^6 '^> p. 415 l. 27-28 11 ministero/mistero metaempirico o
metafisico/metaempirico e metafisico Harcllton/Hamilton p. 423 1. sestult. K E
ancora E ancora p. 1. 1 note dei enunciati d'enunciati l'oggetto della scienza
loggetto di questa scienza che ci sono i pi familiari che ci sono le pi
familiari p. n. 1 1. 2 (t. 11 1. 3 Sec. ob)iez. p. 451 1. 15 restando la stessa
p. 453 1. 17 (cio quali sono p. 1. 7 di setpienze invarial)ill p. 4e astrazione
n classificazicme degli oggetti. Ma per qual ragione? Inoltre questi sviluppi
che Mill d alla teoria di Corate ingrandiscono un altro dei punti deboli di
questa teoria, cio la supposizione gratuita che vi stato un periodo, nello sviluppo dello
spirito umano, in cui la realizzazione delle astrazioni era un fatto universale
sorvoliamo sulla stranezza di attribuire agli uomini appena usciti dal
feticismo le nozioni di ature o essenze delle cose e di virt alla scolastica,
che, stando ai dati della storia, non appariscono che con Platone e Aristotile
e i loro discepoli. Stuart Mill fa una enumerazione delle astrazioni a cui i
filosofi hanno attribuito l'obbiettivit; ma questa enumerazione ben lungi dal provare che vi stato un periodo, dopo la cessazione del
feticismo o ad un'altra epoca qualunque, in cui tutti gli uomini, o i filosofi,
hanno considerato generalmente le astrazioni come entit reali. A questa fase
(la metafisica) non pi un Dio che
produce e dirige ciascuna delle diverse operazioni della natura: una potenza o una forza o una qualit occulta,
considerate come esistenze reali inerenti, bench ne siano distinte, ai corpi
concreti nei quali esse risiedono e i quali animano in qualche sorta. In luoiro
delle Driadi presiedenti agli alberi e producenti e regolanti i loro fenomeni,
ciascuna pianta o ciascun animalepossiede allora un' anima vegetativa, la
Spenuxrj i/jv^rj d'Aristotile. A un periodo ulteriore l'anima vegetativa
diviene una Forza plastica, e pi tardi ancora un Principio vitale. Gli oggetti
allora si conducono come fanno II perch
la loro Essenza d'agire cos ovvero in ragione di una virt inerente. Si
rende conto dei fenomeni per le tendenze o le inclinazioni supposte
dell'astrazione Natura, che, bench riguardata come impersonale, rappresentata come agente per una sorta di
motivo e d'una maniera pi o meno analoga a quella degli esseri coscienti.
Aristotile afferma la tendenza della Natura verso il meglio, ci che gli
fornisce la teoria d' un gran numero di fenomeni naturali. L'elevazione
dell'acqua nella pompa attribuita
all'orrore della natura per il vuoto. La caduta dei corpi gravi e 1' ascensione
della fiamma e del fumo sono interpretate come tentativi fatti da ciascuno di
essi per occupare il suo posto naturale. Dalla dottrina che la natura non ha
interruzioni (non habet saltum) si deducono molte conseguenze importanti. In
medicina la forza curativa della Natura (vis medivatrix) fornisce la
spiegazione dei processi riparatori che sono rapportati, dai fisiologi moderni,
ciascuno alle sue operazioni e alle sue leggi particolari .
Nessuno negher, a meno d^ignorare interamente la storia del pensiero,
che in tutta l'antichit e in tutto il medio evo la speculazione stata impregnata dell'errore che consiste a
prendere delle astrazioni per delle realt. Le famose Idee di Platone furono la
generalizzazione e la sistematizzazione di questo errore. Gli Aristotelici lo
perpetuarono. Le essenze, le quiddit, le virt risiedenti nelle cose furono
accettate come una spiegazione bona fide dei fenomeni... L'esistenza reale
delie sostanze universali fu la quistione in litigio nella famosa controversia
della fine del medio evo tra il Nominalismo e il Realismo, controversia che
rappresenta uno dei punti capitali della storia del pensiero, perch la prima lotta di questo per emanci ^. Comte
e il posit, trad. frane, p. 11-12.I 4. 'A A 18 parsi dall'impero delle
astrazioni verbali. I Realisti furono il partito pi forte; ma bench i
Nominalisti avessero per un tempo soccombuto, la dottrina contro di cui essi si
erano ritoltati cadde, dopo un breve intervallo, col resto della filosofa
scolastica. Ma mentre le sostanze universali e le forme sostanziali,
costituenti la specie pi grossolana di astrazioni realizzate, furono pi presto
messe da parte, le essenze, le virt e le qualit occulte loro sopravvissero
lungamente e furono per la prima volta completamente espulse dal dominio
dell'esistenza reale dai cartesiani Anche lungo t^mpo dopo Cartesio si continua
ad immaginare delle entit fittizie, come le chiama felicemente Bentham, per
rendersi conto dei fenomeni pi misteriosi, sovratutto in fisiologia, dove,
nascosti sotto una grande variet despressioni, delle forze o princpii
misteriosi erano o rimpiazzavano la spiegazione dei fenomeni deglesseri
organizzati. Per i filosofi queste finzioni sono semplicemente i nomi astratti
delle classi di fenomeni che loro corrispondono. Alle astrazioni realizzate
enumerate qui dall'autore possiamo aggiungere quelle degli antichi Indiani e
degli hegeliani, indicate in un luogo citato in una nota precedente, e avremo
una lista pressoch completa dei fatti che possono addursi per sostenere la
teoria di Comte e di Mill, che vi ha un periodo nella evoluzione del pensiero
umano, lo stato metafisico, la cui nota caratteristica ed essenziale di elevare le astrazioni al grado di realt.
Ma molti dei concetti indicati dal Mill non hanno alcun titolo per essere
riguardati come astrazioni realizzate. L' anima vegetativa di Aristotile,
egualmente che Mill, Comie e il positivismo, traduzione frane, Log. la sua
anima umana (eccetto il nous) e animale, non
data da lui come una entit reale: l'insieme delle funzioni del corpo
organizzato, la sua forma o la sua energia, e questa, come le altre forme o
essenze delle cose, non per lui una
realt sussistente per s stessa, non si distingue dalla materia realmente, ma
solo c&n^ cettualmente. Le proposizioni dello stesso Aristotile e dei
Peripatetici e le altre proposizioni simili, che attribuiscono alla natura
delle tendenze e delle inclinazioni come ad un essere cosciente, sono, non dico
affiitto innocenti, ma certo meno ree di metafisica di quanto lo suppone
Mill. Non bisognerebbe, dice Naville ,
esagerare 1 portata di questa mitologia, nella quale si deve fare la I^arte
delle forme del linguaggio. L'orrore del vuoto attribuito alla natura, Famore
del riposo attribuito ai corpi, erano delle formule che aggruppavano un gran
numero di fatti reali. Il male era di prendere l'espressione figurata di un
gruppo di fatti per un principio di spiegazione al quale la ricerca si
termava. manifesto, per esempio, che
sinch si considerava l' orrore del vuoto come la spiegazione dell'ascensione
dell'acqua in una pompa, non si dovevano studiare i rapporti del fatto col peso
dell' atmosfera y> . Noi ammettiamo che in queste espressioni vi era spesso
qualche cosa di pi che delle semplici metafore: era il concetto di una finalit
incosciente attribuita alla na Orig. della fisica moderna, Rev. scientif. . Per
mostrare quanto si pu andare lungi in questa via, di attribuire gratuitamente
delle assurdit ai filosofi, metafisici o non metafsici, prendendo strettamente alla
lettera le loro espressioni metaforiche, baster di citare l'esempio di
Max-Miiller, che vede una personificazione della natura nella dottrina di
Darwin della scelta o selezione naturale. V. Nuove Letture sulla scienza del
linguaggio, trad. ital. II voi. p ^ I tura, in cui lo spirito vedeva un
sembiante di spiegazione dei fatti, perch vi trovava una vaga assimilazione
delle operazioni della natura a quelle dell'uomo, conformemente a
quest'illusione naturale che ci spinge a credere che un fatto non spiegato che quando assimilato ai fatti che ci sono i pi
familiari. Ma se ci metafisica, non per realizzazione di astrazioni, perch la pi
parte dei filosofi, egualmente che il volgare, intende per natura il complesso
di tutti gli esseri esistenti o almeno osservabili, e non un'entit astratta, n
se ne fa un'entit astratta quando si personifica, ma semplicemente si umamizza
(in una parola, nelle proposizioni sulla natura indicate dal Mill, non vi ha
del realismo, ma una forma vaga delV antropomorfismo). Semba dunque che il Mill
ha fallito in questo suo tentativo di dare un senso accettabile alla
proposizione del Comte, che il sistema metafisico tende, come gli altri due,
all'unit, e che il suo ultimo termine
consiste a concepire, in luogo delle differenti entit particolari, una
sola grande entit generale, la natura .
Per quanto concerne le sostanze universali, le forme sostanziali, le qualit
occulte, ecc. degli scolastici, noi abbiamo gi fatto le nostre riserve quando
abbiamo discusso la tesi stessa del Comte. Delle riserve simili dobbiamo fare
per l'altra entit, che il Mill considera come la pi importante fra le
astrazioni realizzate dalla metafisica, cio la Forza. A. Comte Corso di filos.
posit, voi I p. 10. Nella Filos. di Hamilton, cap. 16, sulla fine, sembra ridurre
tutto le entit metafisiche, cio tutte le astrazioni realizzate, a quella di
forza. a notare che qui 1' autore spiega
le astrazioni realizzate, ridotte al concetto di Forza, altrimenti ohe nella
Log. lib. V o. 3 } 4 e nello scritto A . Comte e il positivi^ smo. Questa
spiegazione si riassume nella proposizione che la forza una nozione puramente subbiettiva, che un
prodotto La pi parte dei pensatori moderni intendono certamente per
forza qualche cosa di pi che le condizioni osservabili che si trovano in un
corpo, per cui pu modificare lo stato di riposo o di movimento di altri
corpi in questo senso la forza, come le qualit occulte degli scolastici, una
variet della forma della causa efficiente che noi possimo cliiamare
agnosticista : ma pochi riguardano la forza come un essere distinto dalla
materia e sussistente per se stesso, che
il meno che si possa esigere per classificarla fra le astrazioni
realizzate. Cos, fatte queste sottrazioni ed altre simili, ecco press'a poco ci
che ci resta di astrazioni realizzate, fra i concetti che hanno avuto un'
importanza reale nella storia del pensiero: quelle degli antichi Indiani, dei
Platonici, dei veri realisti del medio evo (che erano una minoranza), degli
Hegeliani; di pi le Forze di quei pochi tsici o filosofi che considerano la
forza come separata dalla materia, e il Principio vitale e altre entit
congeneri che molti fisiologi e filosofi consideravano un tempo come le cause
dei fenomeni degli esseri animati (a cui si potrebbe aggiungere anche l'anima,
che, considerata come una sostanza,
certamente della stessa famiglia che il principio vitale). evidente che questi dati non autorizzano la
conclusione che fra il periodo teologico e il periodo positivo ne n'ha uno
intermediario in cui la realizzazione delle astrazioni un fatto generale, e nemmeno quella che nella realizzazione delle astrazioni che
consiste essenzialmente o precipuamente questo stato intermediario della
generalizzazione e dell'astrazione operanti sulla sensazione reale di sforzo
muscolare o nervoso. Questa terza
spiegazione dello stato metafisico sarebbe assai migliore delle altre due, se
fosse realmente possibile di ricondurre tutte le astrazioni realizzate, e
generalmente tutti i concetti metafisici, a quello di Forza questa realizzazione di astrazioni una conseguenza indiretta della tendenza ad
assimilare le azioni della natura alle azioni dell'uomo, che un caso di quella pi generale a ricondurre
tutti i fatti a quelli che ci sono i'pi familiari. In tutti questi casi la vera
sorgente dell'illusione il sofisma a
priori che ci spiega tutte le illusioni della metafisica, cio, enunciandolo
nella forma pi generale, la tendenza a modellare tutt^i le nostre idee sul tipo
di quelle che ci sono le pi familiari, di cui l'effetto pi importante quello studiato nella prima parte del
presente Saggio, vale a dire la nozione di causa efficiente e le sue diverse
applicazioni. ad esso che dobbiamo
ricondurre quella realizzazione di astrazioni in cui si verificano le due
condizioni precedentemente indicate, cio la forma di metafi^tica die pu
definirsi propriamente come un'obbiettivazionedei concetti astratti: hi sola realizzazione di astrazioni che per
noi suscettibile di una spiegazione
generale, alla quale sar consacrato il resto di questo capitolo. Cominciamo per
definire d'una maniera pi chiara questa forma di metafisica. Si sa che alla
quistione: che cosa corrisponda, nella realt, ai nomi generali astratti, che
che essi significhino, si sono date tre soluzioni, elle, prendendo
queste denominazioni dalla filosofa dei medio evo, possiamo chiamare il
realismo, il concettualismo e il nominalismo. Secondo il nominalismo, non solo
non vi Itanno nella realt che oggetti concreti e particolari, ma noi non
abbiamo altre idee che di oggetti concreti e particolari; un nome generale, cio
un nome di classe, iiod significa altro, e non pu altro suggerirci allo
spirito, che le idee degli oggetti particolari e concreti appartenenti alla
classe in quanto ai nomi a8tratti,essi non servono che ad esprimere pi
brevemente la stessa idea che potrebbe essere espressa da una proposizione che
non avesse per termini che dei nomi designanti gli oggetti concreti
corrispondenti. Il concettualismo, che
la dottrina pi diftusa tra i filosofi^ ammette, come il nominalismo, che
non vi hanno nella realt che oggetti concreti e particolari, ma, a differenza
del nominalismo, suppone che, oltre alle rappresentazioni di oggetti concreti e
particolari, noi abbiamo delle rappresentazioni astratte e generali (concetti),
cio in cai sarebbe rappresentato solamente ci che comune a tutti gli individui della classe,
con l'eschisione di tutte le particolarit proprie ai diversi individui. P. e.
oltre all' idea di questo e quel triangolo particolare (reale o immaginario),
noi avremmo, secondo questa dottrina, l'idea astratta e generale di triangolo,
che rappresenterebbe le qualit che possono essere attribuite in comune a tutti
i triangoli, ma senza le particolarit che sono proprie ad uno o ad alcuni, p.
e. le dimensioni, il colore, il posto determinato, l'essere equilatero,
isoscele o scaleno, l'essere rettangolo, ottusangolo o acutangolo, ecc. Una
tale idea si chiama generale, in quanto conviene a tutti gl'individui d'una
classe; astratta in quanto non rappresenta che le qualit comuni a tutti, con Tesclusione
delle particolarit proprie a questi e a quegli altri. Secondo il realismo j
come vi hanno, nella realt, delle cose corrispondenti alle idee concrete e
particolari e di cui queste sono le rappresentazioni, cosi vi hanno pure, nella
realt, delle cose corrispondenti alle idee astratte generali e di cui queste
sono le rappresentazioni, delle Saggio. ir I *' cose che sono a queste idee ci
che la realt all' immagine, al ritratto
1' originale. Vi ha dunque, secondo questo sistema, un triangolo astratto e generale,
di cui l'idea astratta e generale di triangolo
la copia nel nostro spirito; e cos pure un uomo, un animale, un albero,
un essere, astratto e generale, di cui l'idea astratta e generale di uomo, di
animale, di albero, di essere \
facsimile e, per dir cos, il duplicato, nel nostro pensiero; a ogni idea
astratta e generale (ammessa dal concettualismo) corrisponde una cosa astratta
e generale, di cui essa la
rappresentazione o l'immagine. Questo triangolo, quest'uomo, quest'animale,
ecc. astratti e generali non sono delle entit misteriose e inconoscibili (come
la Forza o il Principio vitale) e nemmeno delle personificazioni (come l'Aurora
o la Notte dei miti o gli Eoni degli Gnostici): una cosa astratta e generale
non che l'idea astratta e generale
corrispondente, che s^imprime, per dir cos, nella realt, che si obbiettiva e si
esteriorizza, che passa, se mi lecito di
esprimermi cos, dallo stato debole allo stato forte (trasportando a questo
sistema la distinzione di Spencer tra le sensazioni propriamente dette, cio la
realt del volgare, e le sensazioni riprodotte o rappresentazioni); il concetto
astratto e generale e la cosa astratta e generale hanno lo stesso contenuto, l'
uno nella forma del pensiero, e l'altra in quella della realt. Il triangolo,
l'uomo, l'animale, ecc. astratto e generale non ha, in altri termini, o
piuttosto non , che l'insieme delle qualit comuni a tutti i triangoli, a tutti
gli uomini, a tutti gli animali, senza le particolarit proprie a questi e a
quei triangoli, a questi e a quegli uomini, a questi e a quegli animali. Questo
triangolo, quest'uomo, quest'animale, ecc. astratto e generale uno in se stesso, ma presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi
e senza dividersi, in tutti i triangoli, in tutti gli uomini, in tutti gli
animali indi 30 viduali per questa sua presenza nei diversi individui apparisce
multiplo, mentre in realt non che uno :
se tutti i triangoli, tutti gli uomini, tutti gli animali individuali si
rassomigliano, se sono tutti triangoli, uomini, animali, e li chiamiamo tutti
egualmente con lo stesso nome, perch in
tutti egualmente presente lo stesso
triangolo, lo stesso uomo, lo stesso animale astratto e generale. Una cosa
astratta e generale non , insomma, che un attributo trasformato in sostanza; ma
questa sostanza non altro che
l'attributo stesso considerato come esistente per se stesso, quantunque non mai
isolato, ma sempre in compagnia degli altri attributi che compongono ci che per
noi la sola realt ma che per il
realista un tessuto di cui le realt
astratte formano la trama, cio gli oggetti concreti e individuali. Le cose
astratte e generali non sono dunque un altro mondo, un'altra realt, che si
sovrappone alla realt empirica: sono la stessa realt empirica, cio la realt
concreta, decomposta in elementi astratti, ma di cui ciascuno si considera pure
come una realt, e non come una semplice astrazione mentale. Nei filosofi in cui
1'obbiettivazione dei concetti una vera
filosofa, cio uno sforzo del libero pensiero individuale per darsi una
spiegazione delle cose e non un'ipotesi senz'alcun valore esplicativo, e che
non ha altro fondamento reale che l'autorit e un cieco tradizionalismo, alla
obbiettivazione dei concetti unito un
metodo, che consiste a scoprire questi concetti obbiettivati per un
procedimento A PRIORI e deducendoli gli uni dagli altri, e che noi possiamo
chiamare dialettica prendendo questa parola in un senso pi lato che i suoi
autori, perch cos stato chiamato dai due
rappresentanti pi illustri di questa forma di metafsica, cio Platone ed Hegel,
o PLAGEL e non ARISKANT HEGLATO, e non
KANTOTLE Senza questo metodo, l'obbiettivazioue dei concetti un'ipotesi assolutamente vana; non una spiegazione delle cose che unitamente a
questo metodo. Esso, considerato nei suoi tratti essenziali cio comuni ai
diversi sistemi, e da cui gli altri derivano pu essere descritto brevemente
cos: si comincia per porre A PRIORI un concetto, s'intende, obbiettivato, cio
si stabilisce, per ragioni puramente logiche, vale a dire indipendenti
dall'osservazione, che esiste nella natura la realt corrispoudente a questo
concetto facendo vedere p. e., che la non esistenza di questa realt sarebbe
intrinsecamente impossibile e contraddittoria; da questo concetto primitivo si
deducono altri concetti pure obbiettivati, cio si fa vedere che, data la realt
corrispondente a quello, sono pure date, per una conseguenza necessaria, le
realt corrispondenti a questi; da questi altri concetti se ne deducono, della
stessa maniera, degli altri, e da questi altri altri ancora, e cos di seguito,
sinch si siano scoverti, A PRIORI, per questa deduzione progressiva, tutti i
concetti obbiettivati, cio tutto il reale, perch il reale, in questi sistemi,
si risolve nei concetti obbiettivati ed
da essi costituito. La deduzione di cui si tratta in questi sistemi
non quella che la logica chiama cos, cio
il sillogismo; ma essa pretende di concludere con necessit nel senso stretto
della parola, che Kant definisce l'impossibilit di concepire il contrario GRICE
STRAWSON MY NEIGHBOURS THREE-YEAR OLD IS AN ADULT e senza partire dai dati
dell'osservazione; cos, quantunque si allontani pi o meno dalla deduzione della
logica comune, fra i due processi di ragionamento che questa ammette, cio la
deduzione e rinduzione, la prima che
essa prende per tipo, ed in opposizione
assoluta con la seconda.
È questa differenza fra la loro pretesa
deduzione e la vera deduzione dei logici che è il principale ostacolo per
comprendere questi sistemi e lo scopo a cui essi tendono: per conseguenza, per
dare un'idea approssimativa di questa forma di metafisica, noi prenderemo come
esempio un sistema in cui la deduzione si allontani /il meno che sia possibile,
dalla vera deduzione, cioè da quella dei logici. Nel sistema che ci servirò come esempio e che,
come vedremo a suo luogo, non è una semplice immaginazione, ma una realtà
storica i concetti obbiettivati formano delle coppie, e ciascuna di queste
coppie è ciò che chiamiamo una legge della natura. La legge della natura, p.
e., espressa dalla proposizione Vanimale è mortale – e i pianetti, e gl’angeli,
e dio?, è la coppia dei due concetti obbiettivati 1'Animale astratto e generale
e la Mortalità; la legge della natura espressa dalla proposizione la wateria
gravita, la coppia dei due concetti obbiettivati Materia e Gravitazione; ecc.
Così, se ogni animale è mortale, è perchè l'Animale astratto e generale,
presente SENTE, NON ASSENTE in tutti gli animali, è accoppiato alla Mortalità;
se ogni corpo gravita, è perchè il Corpo
astratto e generale, presente SENTE E NON ASSENTE in tutti i corpi, è
accoppiato alla Gravitazione; ecc. Ora fra queste leggi della natura ve ne ha
di più generali e di più particolari: ciò vuol dire che 1 concetti
obbiettivati, le cui coppie costituiscono queste leggi, sono di gradi
differenti di generalità, e per conseguenza anche di astrattezza. Le leggi più
particolari formano diversi gruppi, di
cui ciascuno si condensa in una legge più generale; le leggi più generali cosi
ottenute formano pure diversi gruppi, di cui ciascuno si condensa in una legge
ancora più generale; e così di seguito, sinché si giunga a una legge suprema
unica, in cui tutte sono riassunte e condensate. Questa legge suprema è un
assioma: essa deve ammettersi, non in virtù d'un'induzione dalle leggi particolari e dai fenomeni da cui queste
possono ricavarsi, ma perchè la sua esistenza è intrinsecamente necessaria e la
sua non esistenza intrinsecamente impossibile e contraddittoria. Dalla legge
suprema, assiomatica GRICE CONVERSATIONAL AXIOM, si deduce un gruppo di leggi
meno generali quantunque le più generali di tutte le altre; da ciascuna di
queste leggi un gruppo di leggi meno
generali ancora ma più generali che le rimanenti; e così di seguito, sinché si
siano scoverte A PRIORI tutte le leggi della natura per una deduzione
progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più
particolari. Ogni legge è, ricordiamolo, unji coppia di entità astratte e
generali: così questa deduzione progressiva consiste a passare continuamente da
una coppia di entità a un gruppo di altre coppie di entità, meno astratte e
meno generali che quella. La coppia primitiva si ammette per la sua evidenza
intrinseca; ciascuna delle altre si ammette in virtù di una deduzione, cioè
come conseffuenza di una coppia precedente che ne è la premessa. In questo
sistema noi possiamo vedere, io credo, più chiaramente che in un altro quale
sia lo scopo e il motivo di questa forma
di metafìsica. Questo scopo e questo motivo è Vassimitazioììs del rapporto
logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa e
Veffetto. Che vuol dire infatti che la
coppia di entità CD può dedursi dalla coppia di entità AB? Che data AB, sarà data perciò CD; che se AB
esiste esisterà pure CD; infine, che l'esistenza di AB trascinerà necessariamente con sé l'esistenza
di CD. Ma ciò è pressoché dire che AB è la causa e CD il suo effetto, poiché
ciò che noi chiamiamo causa ed effetto sono due cose di cui se l'una esiste
esiste anche l'altra, in altre parole, di cui l'esistenza dell'una trascina
necessariamente l'esistenza dell'altra. Per la trasformazione delle leggi in
entità il principio logico, cioè il principium
cognoscendi^ si è trasformato in un principio ontologico, cioè in un
principium essendi, e la deduzione di una proposizione da un'altra proposizione
in una derivazione reale di una cosa da un'altra cosa. Per noi nella realtà non
esistono che fenomeni particolari; una legge della natura non è Ili » che
un'espressione più o meno sommaria di un complesso di questi fenomeni; come
esistenza distinta da questi fenomeni,
una legge non è che una proposizione, o al più un'idea generale. Che data la
legge A la legge più generale che è il principio è data anche la legge B la
legge più particolare che è la conseguenza, in altri termini che se esiste la
legge A, deve esistere anche la legge B, vuol dire semplicemente per noi che se
la proposizione A è vera, deve essere
anche vera la proposizione B Tra la
legge che è il principio e la legge che ne è la conseguenza non vi ha dunque
per noi, che le consideriamo come
proposizioni o come semplici concetti, che un rapporto puramente logico. Ma se
le leggi sono, non più dei semplici concetti o delle proposizioni, ma delle
cose, delle realtà distinte le une dalle altre e dai fenomeni, questo rapporto
logico diviene anche ontologico. Perchè
allora dire che se la legge A è, è anche la legge ò, vorrà dire che se il reale R1 – r1 -- esiste, esiste anche perciò
l'altro reale R2 – r2 --, che di questi due reali il secondo deriva realmente e
son semplicemente che se ne deduce dal primo, e che il primo è il principium
essendi del secondo e non semplicemente che ne è il principium
co(/no8cendi)> Per vedere più
chiaramente che la realizzazione delle astrazioni, cioè, in questo caso,
la trasformazione delle leggi in entità, è la condizione per cui il rapporto
puramente logico tra la legge generale che è la premessa e le leggi particolari
che ne sono le conseguenze, viene trasformato in un rapporto ontologico tra la
causa e i suoi effetti, dobbiamo riflettere che la legge generale e le leggi
particolari che se ne deducono non sono
che due enunciazioni diverse se le leggi non sono che proposizioni o al più due
rappresentazioni diverse se le leggi sono delle idee generali di una sola e
stessa realtà, cioè di un complesso di fenomeni. Questa stessa realtà, questo
stesso complesso di fenomeni, che la legge generale esprime o rappresenta d'una
maniera piii indeterminata, le leggi particolari l'esprimono o rappresentano d'una maniera più
determinata. Così quando si deducono le leggi particolari dalla legge generale
– GRICE REALER AND REALER -- , passando
dal principio alle conseguenze il pensiero non passa da una realtà ad altre
realtà distinte, ma dalla espressione o rappresentazione più indeterminata, più
astratta, di una realtà, a un'altra espressione o rappresentazione meno indeterminata, meno astratta, della
stessa realtà. Il progresso dal più indeterminato al più determinato, dal più
astratto al più concreto, è soltanto nel nostro pensiero: ma se le leggi sono
delle entità, se degli astratti si fanno delle real^i distinte, il progresso
del pensiejo che, nella deduzione delle leggi, passa gradatamente da nno stato
più indeterminato a uno stato più determinato,
da uno stato più astratto a uno stato più concreto, è la
rappresentazione di un progresso identico nella realtà, che passa anch'essa
gradatami nte da uno stato più indeterminato o più astratto le leggi più
generali a uno stato più determinato o più concreto de leggi più particolari.
In altri termini, prima della realizzazione delle astrazioni, il passaggio dal
più astratto al più concreto, cioè dal
principio alla conseguenza, era semplicemente un processo logico; dopo
la realizzazione delle astrazioni diviene anche un processo ontologico, uno
sviluppo, una derivazione reale, un passaggio dal producente al prodotto, dalla
causa all'effetto. Nel seguito mostreremo d'una
maniera più chiara e più completa come la realizzazione degli astratti
sia la condizione necessaria perchè il
rapporto logico tra il principio e la conseguenza nella deduzione venga
identificato al rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Qual è dunque il
motivo per cui si realizzano le astrazioni; nel nostro caso, per cui le leggi
si riguardano come entità? È perchè la produzione reale delle cose, il modo
essenziale di questa produzione, come dice Couite, sia una causazione
efficiente, e non delle semplici sequenze invariabili. In questa forma di
metafìsica, la vera causazione non è l'incatenamento regolare dei fenomeni die
si succedono nel tempo, ma questa deduzione che è al tempo stesso una
derivazione reale, questo passaggio continuo dal principio alla conseguenza,
dal più astratto al più concreto, che ha luogo, al di fuori del tempo, nelle
entità astratte, che sono la vera
realtà in cui si risolvono i fenomeni. Quando il realista trasforma le
astrazioni in realtà per assimilare il rapporto tra il principio e la
conseguenza a quello tra la causa e 1'effetto, egli non intende assimilarlo al
rapporto tra 1'antecedente di una sequenza invariabile e il suo conseguente, ma
a quello tra la causa efficiente e il suo effetto. E infatti il raiv porto di
derivazione tra l'entità principio e le
entità conseguenze nel nostro esempio tra la legge più generale e le leggi più
particolari che se ne deducono ha
tutti i caratteri che distinguono la causazione efficiente da una semplice
sequenza invariabile. Questi sono, come sappiamo: che il legame tra la causa e
1'efìetto sia d'un'evidenza intrinseca; che sia necessario; S*» che la causa
spieghi, d'una maniera radicale,
esauriente, Veffetto, in modo da non lasciare alcun adito ancora alla
domanda: perchè? È evidente che questi caratteri si ritrovano nel legame tra il
principio e la conseguenza nella deduzione, dopo che, per la elevazione dei
principii e delle conseguenze al grado di entità reali, la deduzione è diveuuta
una derivazione reale. Nella deduzione la connessione tra il principio e la
conseguenza è indipendente dall'esperienza,
e si vede, non solo A PRIORI, ma anche immediatamente; di più questa
connessione ha la più alta necessità che noi possiamo immaginare, cioè
l'impossibilità assoluta di concepire il contrario. Per vedere che anche il
terzo carattere si ritrova nella T. derivazione successiva delle entità le une
dalle altre, non si deve dimenticare una circostanza essenziale del metodo con cui esse si deducono, cioè che
1'entità primitiva, da cui tutte le altre vengono gradatamente dedotte, è posta
A PRIORI, per la necessità intrinseca della sua esistenza, o, ciò che è lo
stesso, l'impossibilità intrinseca della sua non esistenza. Questa forma di
metafìsica non è dunque che un'applicazione del concetto di causazione
effìciente, uno sforzo per ritrovare al di là del mondo dei fenomeni o piuttosto in questo
mondo stesso, ma nella sua struttura latente e nel processo latente della sua
auto-produzione quest'incateuamento di vere cause e di veri effetti secondo la
nostra nozione spontanea della causalità, che non si riesce a trovare nei
fenomeni stessi, i quali, come tali, cioè nella loro esteri(>rità, non ci
presentano che degli antecedenti e dei conseguenti di sequenze invariabili. La circostanza
suindicata del metodo che, insieme alla realizzazione delle astrazioni,
costituisce l'essenza di questa forma di metafìsica, cioè che l'entità
primitiva da cui si fanno derivare tutte le altre viene posta A PRIORI, per la
necessità intrinseca della sua esistenza, è un carattere essenziale di questo
metodo e comune ai diversi sistemi Senza di essa il rapporto tra i priucipii e le conseguenze non potrebbe
identificarsi a quello tra le cause e gli effetti. Ciò non è solamente perchè, Dell'assenza di questa condizione, la
spiegazione non sarebbe radicale, esauiien te poiché resterebbe a spiegare il
primo principio per cui le altre cose vengono spiegate; ma anche per un'altra
ragione. L'anteriorità cronologica della causa verso l'effetto è sostituita, in questa metafisica, da una anteriorità di
natura, la quale non è che l'anteriorità logica del principio verso la
conseguenza in un metodo puramente deduttivo, o piuttosto la obbicttivazionc di
essa, conformemente al caratttere generale di questa filosofìa, che consiste a
dare un valore e un'esistenza obbiettivi a ciò che non ha che un valore e
un'esistenza meramente logici. Quest'anteriorità logica dei principii verso le
conseguenze suppone che il principio primo sia stato stabilito A PRIORI; se non
fosse così, il metodo non sarebbe a priori e puramente deduttivo, ma i principii
sarebbero provati dalle loro conseguenze, e in definitiva dai fatti
dell'osservazione di cui esse sono l'espressione astratta; ma allora le
conseguenze avrebbero lo stesso titolo ad essere riguardate come logicamente anteriori ai principii che
questi ad essere riguardati come logicameute anteriori a quelle. Così, nel
sistema che ci serve di esempio, se la legge generalissima da cui tutte le
altre si deducono, non fosse stabilita A PRIORI, per la sua necessità
intrinseca, essa sarebbe una semplice generalizzazione, un'induzione, delle
leggi particolari che se ne deducono; ma allora essa non avrebbe un'anteriorità logica su queste,
perchè essa sarebbe provata da queste come queste sarebbero provate da essa.
Perchè i principii siano logicamente anteriori alle conseguenze, bisogna che la
certezza delle conseguenze presupponga la certezza dei principii, ma (piella
dei principii non presupponga quella delle conseguenze. Perciò il metodo deve
essere puramente deduttivo, e per
conseguenza il primo principio deve essere stabilito A PRIORI, cioè,
come abbiamo detto, per la sua necessità intrinseca. Se il primo principio non
fosse Jstato stabilito A PRIORI, se, quindi, i principii non fossero
logicamente anteriori alle conseguenze, la dipendenza fra la certezza dei
principii e quella della conseguenza sarebbe reciproca; allora non si avrebbe
il dritto di dire che 1'esistenza delle entità GRICE SONS ASSENTE PRESENTE conseguenze
dipende da quella delle entità principii, perchè con la stessa ragione potrebbe
dirsi che l'esistenza delle entità principii dipende da quella delie entità
conseguenze. Il I principio, se non fosse logicamente anteriore alle sue
conseguenze, non sarebbe veramente il loro principimn coffnoscendi^ perchè si
avrebbe altrettanta ragione di
riguardare le conseguenze p. e. le leggi più particolari come il principium
cofynoscew(^?i del loro principio p. e.
della legge più generale. Quindi, in tal caso, l'entità principio non potrebbe essere riguardata come il principium
esfìendi delle entità conseguenze, perchè il principium cssendi, in questa
metafisica, non è che lo stesso
principium coijnoscendi, che ha
acquistato un valore obbiettivo dopo l'obbiettivazione delle astrazioni,
cioè dei principii e delle conseguenze. Ciò è dire, in altre parole, che la
deduzione non sarebbe una derivazione reale, o che il rapporto tra il principio
e la conseguenza non sarebbe identico a quello tra la causa e l'effetto. Lo
scopo dunque a cui tende questa metafisica, cioè 1'assimilazione del rapporto
tra il principio e la conseguenza a
quello tra la causa efficiente e l'effetto, ha per condizione necessaria che il
metodo sia puramente deduttivo, e quindi che il principio primo sia stabilito A
PRIORI, come intrinsecamente evidente e necessario: questa condizione è
altrettanto indispensabile che l'obbieitivazione dei concetti astratti e
l'incatenamento logico continuo fra questi concetti obbiettivati. I rappresentanti più celebri di questa forma di
metafisica non riguardano i concetti obbiettivati come uniti per coppie, come
nel sistema che ci è servito di esempio: così la loro deduzione, il loro metodo
dialettico, si applica, non a delle coppie di concetti obbiettivati di cui
ciascuna è considerata come una legge della natura, ma a dei concetti
obbiettivati isolati, di cui ciascuno rappresenta una forma o una
determinazione costante e generale del reale, per conseguenza, qualche cosa di
simile, anch'esso, a una legge della natura nel sistema che ci è servito di
esempio. Inoltre la deduzione nei loro sistemi si allontana di più che in
questo dalla vera deduzione, cioè da quella della logica ordinaria: basterebbe
già questa dilì'erenza importante che la deduzione va da un semplice concetto ad un altro, e non da una
pro]K)8Ìzione ad un'altra cioè da una coppia di termini ad un'altra come la
deduzione ordinaria. Ciò non pertanto il processo è essenzialmente lo stesso.
Si comincia per porre A PRIORI, per la sua evidenza o necessità intrinseca, un
concetto obbiettivato, da esso se ne deducono degli altri, da questi altri
ancora, e così di seguito; e Tinsieme dei concetti obbiettivati costituisce una serie di termini,
che divengono sempre meno astratti o più concreti, mano mano che si va dal
principio primo verso le conseguenze ultime e infatti le conseguenze, in
qualsiasi deduzione, non potrebbero essere che il principio stesso a uno stato
più determinato o più concreto. Si vede così come anche in questi altri sistemi
la realizzazione delle astrazioni ha per
risultato 1'assimilazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a
quello tra la causa efficiente e 1'effetto, e ne è la condizione necessaria. Se
i concetti che stanno fra di loro nel rapporto di principi i e conseguenze, non
fossero che delle semplici astrazi<mi mentali o dei termini generali di cui
ciascuno esprime una classe di cose o di fenomeni, il loro rapporto non sarebbe
che logico; dedurre l'uno dall'altro
significherebbe semplicemente che, se questo è vero, deve essere vero anche
quello. Il progresso dal jnù indeterminato al più determinato, dal più astratto
al più concreto, avrebbe luogo soltanto nel nostro pensiero, e non nella stessa
realtà, perchè il concetto principio cioè il più astratto e i concetti
conseguenze cioè i meno astratti non rappresenterebbero che gli stessi insiemi di cose o di fenomeni,
l'uno d'una maniera più astratta o piìi indeterminata, gli altri d'una maniera
meno astratta o più detenninata. Ma se i termini che si deducono gli I'uni
dagli altri non sono dei semplici concetti, cioè delle astrazioni mentali, ma
delle realtà, allora dedurre B da A significherà, non semplicemente che se il concetto
A è vero anche il concetto H deve essere
vero, ma che se il reale A esiste anche il reale B deve esistere, che
Tesistenza di A trascina con sé l'esistenza di B, in altri termini, che A è la
condizione di B, lo produce, ne è la causa. Il progresso dal più astratto al
più concreto, dal più indeterminato al più determinato, non avrà luogo soltanto
nel nostro pensiero, ma sarà la realtà stessa che sì metterà, per dir cosi,
in movimento, che passerà gradatamente
da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato, più concreto o più
determinato, in modo che questi stati successivi non cronologicamente, ma
logicamente costituiscano una serie di momenti, in cui il conseguente deriverà
sempre dal suo antecedente, ne sarà un prodotto, un effetto necessario. Non
dimentichiamo che <|ue8t'incatenimento
di cause e di effetti, ottenuto per l'obbiettivazione dei ccmcetti e il
legante logico continuo introdotto fra di loro, è modellato sul tipo della
cansazione efficiente, e non su quello della semplice uniformità <ii
sequenza, perchè il legame tra la causa e l'ettètto è intrinsecamente evidente
e necessario poiché tale è il legame tra il principio e la conseguenza nella
deduzione, e perchè l'effetto è spiegato
d'una maniera radicale ed esauriente poiché si deduce da un principio anch'esso
evidente intrinsecamente e necessario Per dare un'ide^i generale di questa
forma di metafisica, dobbiamo aggiungere che talvolta, invece
dell'obbiettivazìone dei concetti propriamente de ti, si mette in opera un
altro processo analogo, che conduce pure allo stesso risultato, cioè la
trasformazione del rapporto tra il
principio e la conseguonza in un rapporto tra la causa efficiente e l'effetto.
Quest'altro precesso consiste anche esso come l'obbiettivazione dei concetti propriamente detti, nell'accordare
un'esistenza per sé agli attributi, concepiti ciascuuo separatamente dagli
altri che coesistono con esso nei soggetti concreti; ina invece di fare
rappresentare, come quando si obbiettivano
i concetti, ciascun attributo da un tipo unico, presente al tempo stesso
nei diversi individui che ne partecipano, si eleva al grado di realtà
sussistente per se stessa, non questo tipo unico, ma tutto ciò che esso
rappresenta, vale a dire tutto il contingente dell'attributo esistente
nell'universo reale. P. e. l'estensione, come entità astratta sussistente per
se stessa, sarà, non il concetto
obbiettivato di estensione, ma
tutta l'estensione esistente nell'universo, separata dagli altri attributi con
cui coesiste nelle realtà concrete. Noi diremo con più precisione di questa varietà
della nostra forma di metafisica. Qui basterà di accennare che anch'essa unisce
alla realizzazione delle astrazioni il metodo che noi chiamiamo, in senso lato,
dialettico; vale a dire che essa incomincia per porre A PRIORI, come
intrinsecamente evidente e necessaria, un'astrazione primitiva, da questa
deduce altre astrazioni, da queste altre ancora, e così di seguito, in modo che
tutte queste astrazioni formano una serie di termini logicamente successivi, in
cui si passa continuamente dal più astratto al più concreto, mano mano che si
va dal principio primo verso le conseguenze ultime. Anche in questo caso la realizzazione delle astrazioni
ha per iscopo di trasformare il legame logico tra queste astrazioni in un
legame ontologico: mercè questa realizzaziooe, il progresso dal più astratto al
più concreto ha luogo nella realtà stessa e non soltanto nel nostro pensiero, e
dedurre un'astrazione da un'altra non significa seuiplicemente che se un'idea o
una proposizione è vera è anche vera
un'altra idea o un'altra proposizione, ma che se un reale esiste, esiste
anche un altro reale, e che perciò il primo è il priiìCìpium essendi dell'altro
e non soltanto il prìncipmm coiinoscendi, vale a dire lo produce o ne è la
causa. Questa causa è una causa e/Hciente, per le stesse ragioni die abbiamo
indicato precedentemente. Questa identificazione che fa il metafisico realista
tra la semplice ragione logica e la
causa efficiente. ha la sua prima radice nell'analogia che sembra esistere fra
questi due concetti, anche al punto di vista ordinario. La parola «perchè»
significa al tempo stesso la causa di un fatto e la ragione che lo spiega o per
cui dobbiamo ammetterlo. Quest'analogia è al più alto grado quando la ragione
che prova o spiega un fatto consiste a dedurh) da principii evidenti per se stessi e necessari, ciò che
anticamente si chiamava ragione a priori. Ricordiamo un luogo di Leibnitz
precedentemente citato: La ragione è la verità conosciuta di cui il legame con
un'altra meno conosciuta fa dare il nostro assentimento all'ultima. Ma
particolarmente e per eccellenza si chiama ragione, se è la causa non solo del
nostro giudizio, ma ancora della verità stessa,
ciò che si chiama pure rafjione A PRIORI, e la causa nelle cose
corrisponde alla ragione nelle verità. Quest'analogia che il nostro spirito
stabilisce naturalmente tra la ragione e la causa, si mostra tuttora
chiaramente quando la legge secondo cui avviene un fenomeno viene chiamata la
causa del fenomeno senza pensare a sostantificare od oggetificare GRICE le
leggi della natura, come nel sistema che ci è servito di esempio della nostra
forma di metafisica; e, come abbiamo
visto, Aristotile ammette che la vera dimostrazione consiste a dimostrare per
le cause, intendendo per cause tanto la causa efficiente e la finale quanto le
premesse da cui una proposizione si deduce in un ragionamento puramente
deduttivo queste premesse potendo essere sia Vessenza, da cui si deducono
secondo Aristotile le pròprietà, sia una proposizione più generale qualsiasi per cui si dimostra
una proposizione più paiticolare Conformemente a questo significato
aristotelico del termine causa; che confonde la causa propriamente detta con la
ragione A PRIORI, dimostrazione A PRIORI, nel medio evo, equivaleva a
dimostrazione per le cause; e nello stesso senso VICO (vedasi) dice che di
tutte le scienze umane le matematiche unicamente procedono a somiglianza della
scienza divina, perchè esse sole provano dalle cause. Noi abbiamo visto pure
come i Peripalitici hanno sviluppato il concetto aristotelico che gli attributi
essenziali sono le cause dei propri, affermando che l'essenza produce i propri
per emanazione Averroe, che è la causa efficiente dei propri AQUINO (vedasi),
che i propri fluiscono dall'essenza che
è la loro causa Scoto, e alrre proposizioni dello stesso genere; e infine come
la ragione su cui è fondata la prova A PRIORI dell'esistenza di Dio, vale a
dire l'argomento ontologico, sia stata riguardata dagli autori che hanno
proposto quest'argomento, come la causa dell'esistenza di Dio In tutti questi
casi il rapporto tra la ragione e la causa non può oltrepassare la semplice
analogia: ma questa analogia diviene una vera identità, quando la ragione di
una cosa e questa cosa stessa sono considerate IL FILOSOFISMA DI GRICE come due
realtà distinte, mediante l'obbiettivazione GRICE OGGETIFICAZIONE dei concetti
o qualche altro processo simile. Il perchè è evidente: la causa e l'effetto
sono due fatti distinti e separati, e per conseguenza una astrazione ncm può essere riguardata propriamente come App.
Vìvo Risposta a tre gravi spposizioui contro il De antiquissima italorvm sapientia
– Grice: “In fact, better title for
Vico’s Scienza Nuova would be SCEINTIA ANTIQUISSIMA!” , Append. Append. i la
causa d'una cosa, se non quando si suppone che essa ne sia distinta e separata
o piuttosto separabile nella realtiì, e non per una semplice astrazione mentale. La nostra spiegazione
dell'obbiettivazione GRICE OGGETTIFICAZIONE dei concetti che le dà per iscopo
di tiasformare il nesso logico, introdotto fra questi concetti, in un nesso
ontologico, sembra in contraddizione con un fatto, che è tuttavia quella che la
parola realismo suggerisce prima d'ogni altro, vale a dire il realismo
scolastico. Nella filosofia scolastica troviamo l'obbiettivazione GRICE OGGETTIFICAZIONE
dei concetti, ma senza il mettnlo dialettico vale a dire senza il nesso logico
introdottola i concetti obbiettivati GRICE OGGETTIFICATO: essa non può dunque
avere, in questa filosofia, lo scoi)o che le abbiamo asseiTuato II realismo del
medio-evo sarebbe un fatto assolutamente inesplicabile, se fosse l'opera del
pensiero individuale, liberamente e seriamente applicato alla soluzione di un
problema filosofico GRICE ON THE HISTORY OF THE UNIVERSALIA PROBLEM perchè,
senza la dialettica, la realtà degl’universali è un'ipotesi senza scopo e senza
motivo, un mistero più oscuro aggiunto gratuitamente ai misteri, veri o
pretesi, del mondo reale, ohe la metafisica ha per compito di rischiarare: esso
non si comprende che per il carattere tradizionalista e autoritario della
filosofia scolastica. I realisti del medio èva non sono che dei platonici: i
loro universali non sono che le Idee platoniche, ma per dir così, allo stato fossile;
vi manca la vita, lo, sviluppo, questo processo, al tempo stesso logico ed
ontologico, per cui, un concetta obbiettivato OGGETTIFICATO GRICE essendo dato, sono dati progressivamente tutti gli
altri; ciò che manca, del resto^ alle stesse Ide^» platoniche
nell'interpretazione ordinaria, perchè questa, come i realisti del medio evo,
toglie dal platonismo ciò che vi ha in esso di più arduo, ma che gli dà
unicamente un valore e una giustificazione, cioè la dialettica^ Supplem. come
metodo di dediirire i concetti obbiettivati OGGETIFICATO GRICE per trasformare
il loro nesso logico in un nesso ontologico. Gli storici si accordano a vedere
nei realisti scolastici una scuola di platonizzanti; ma per rendere conto
deirorigine di questa fdosoHa, airintìuenza diretta di Platone, per se stesso o
per l'intermediario dei Platonici, bisogna aggiungere Pintiuenza indiretta, non
meno grande, ch'egli esercitò per mezzo di Aristotile. Il realismo si dà come un^interpretazione
d'Aristotile altrettanto che il nominalismo. Scoto, per esempio, come tutti i
filosofi della sua epoca, è un peripatetico: egli ammette la realtà degl’universali
perchè crede di trovarla in Aristotile, e distingue il suo proprio realismo da
quello di Platone, attribuendo a questo, secondo Pinterpretazione anche oggi
più ricevuta, la dottrina della
trascendenza delle Idee^ cioè che esse sono fuori delle cose, ne sono
una duplicazione, mentre gli universali dello stesso Scoto e, secondo lui, di
Aristotile sono nelle cose stesse, ne sono l'elemento costante e generale. Non
vi ha dubbio che Aristotile non si presti a una tale interpretazione,
quantun^pie assai lontana, secondo noi, dal vero significato della sua dottrina
– GRICE: “Who cares? I rather have him say intereseting things than real ones!”:
ciò è tanto vero che, non solo i suoi oppositori del rinascimento ITALIANO
l'hanno Haureau. Filosofìa scolastica. Weber Storia della filosofia. Lange
Storia del materialismo trad. frane, ecc.
P. e. Brucker Hisl. pkil. doctr. de ideis. Degerando Stor. compar. dei
sist. di filos, MORE GRICE TO THE Mill Log. Comte e il posti, trad. frane, Lange Stor. del mater.
irad. frane, ecc. inteso d'una maniera
simile, riguardando le sne sostanze seconde GRICE SOSTANZA SECONDA, cioè le
forme o le specie di PIROT no lo specimen, come realmente distinte dalla
materia e sussistenti per se stesse. Aristotile certamente è un concettualista:
una gran parte della sua Metafisica è una polemica contro i concetti
realizzati, cioè le Idee platoniche, e la distinzione tra la forma o «^(Fo^ e
la materia non ha in lui un valore ontologico, come in Platone, ma semplicemente logico. Le Specie o Idee,
secondo Platone, erano i concetti astratti e generali delle cose, obbiettivati OGGETTIFICATO GRICE, in altri
termini gli attrituiti corrispondenti a questi concetti riguardati come
sostanze, cioè come esistenti per se stessi, quantunque non fuori delle cose
come ammette Pinterpretazione tradizionale, ma nelle cose stesse: ogn'Idea era
una in se stessa, ma era presente al tempo stesso in tutti gli oggetti che
partecipavano all'attributo di cui l'Idea era la sostantificazione o TRASSOSTANTIFICAZIONE.
Inoltre Platone, nell'ultimo periodo della sua speculazione, riduce l'Idea di
una cosa alla sola forma di questa cosa,
astrazion facendo dalla materia, e riguarda la materia senza forma come
un'entità pure esistente per se stessa ma assolutamente distinta dalle Idee;
sicché ciò che noi diciamo il reale, vale a dire l'oggetto CICERONE RES
concreto e particolare, risulta per lui dal concorso di questi due elementi,
realmente distinti cioè esistente ciascuno per se stesso, l'Idea o specie e la
materin. Aristotile conserva la distinzione platonica tra la forma o specie
delle cose e la loro materia: la specie o forma d'una cosa è per lui il
concetto astiatto e generale che si riferisce alla classe a cui questa cosa
appartiene, o piuttosto l'attributo o insieme di attributi corrispondende a
questo concetto, ed em una e la stessa per tutte le cose di una stessa classe;
ma essa, come una e la stessa per tutte le cose d'una classe, e come distinta,
cioè a parte, dalla materia, non aveva che un'esistenza concettuale; non esiste
così nella realtà in cui non vi hanno secondo Aristotile die oggetti concreti e
particolari ma solo nel pensiero, che si forma l'idea astratta della forma o
specie e quella della materia, e se le rappresenta isolatamen-^e l'una
dall'altra. Ma questa distinzione della forma o specie e della mataria,
fondamentale nella sua fìlosotìa, è espressa spesso da Aristotile^ con formule
in cui queste astrazioni sembrano trattate come vere entità, e die piuttosto
che al concettualismo dell'autore sarebbero adattate al reali suu) platonico.
La forma o specie è una sostanza così bene che la cosa concreta e particolare,
che, per distinguerla «la essa, è chiamata la sostanza composta o con la
materia, mentre la forma è una sostanza scevra di materia, Vi hanno tre
sostanze, la forma o specie, la materia, e la terza ciie risulta da amendue,
cioè la cosa concreta e particolare nelle
Crt%/or/e le forme o specie sono chiamate sostanza seconda. La cosa
concreta e particolare è composta della forma o specie e della materia, ed è
divisibile in queste due parti, e perciò è chiamata la sostanza conmposta, il
(Jvyo'Aov. il tutto, la specie insieme con la materia, la forma mescolata alla
materia, ecc. La forma; Met. ecc. Nou
indicliiauio i luogbi, che s'iucontrauo ad ogni passo, iu lui la forma o specie
è chiamata Vovaia, perchè iu essi questa parola, piuttosto ohe sostanza,
significa essenza, vale a dire ciò ohe neUa cosa corrisponde al concetto o detiuizioue di questa cosa
GRICE HYPOUSIA HYPOKHEIMENON SVBSTRATVM CICERONE coined ESSENTIA. SVBSTANTIA
used by ORAZIO (vedasi) Ma questi due significati del termine ovata non sono in
Aristotile distinti, e per conseguenza questo termine implica il primo di essi
anche quando non denota direttamente che il secondo. Met. ecc. Met. e la materia né si generano né periscono, perché
ambedue devono preesistere all'oggetto generato-in altri termini le forme o
specie dagli esseri p. e. dell'uomo, del cavallo, del PIROT sussistono sempre,
così bene che la materia: ciò che diviene o si fa è l'accoppiamente o il
concorso di queste due cose; per esempio non é il rame né la sfera che diviene,
ma questa sfera di rame, la quale si fa dal rame materia preesistente e dalla
sfera specie o forma pure preesistente. La specie o forma e la materia mno
2)rmeìpri, cause ed elementi delle realtà concrete. La prima è superiore alla seconda; é più essere
che questa e le è anteriore di natura. È dal concorso di queste due cause che
sono prodotti gli esseri individuali; in questa produzione Veliìog, è come il
padre e la materia come la madre; la
materia desidera la forma, come la femmina il maschio perché la contiene in
potenza, e tende perciò a riverstirsene in atto. La forma é assimilata a un oggetto
che ne contiene un altro o che sta sopra di esso; la materia a quello che vi è
contenuto o vi sta sotto. L'eldog è uno e lo stesso nei diversi individui di
una specie; il singolare è tale perché
M'sl&o? si unisce la materia, che è diversa nei diversi individui. Tavolta Phys. De Coelo
ecc. Met. eco Met. Phys. ecc. De part.
anim. Met. Phys. De Coelo
Met. De Coelo È il germe della dottrina di S. -m^mmf^'^ ! ir-' Aristotile indica la forma con le stesse
espressioni di cui Platone si era
servito per indicare l'Idea: altro è la fornvd stessa per se stessa e altro la
ftirma mescolata con la materia; altro il cielo stesso vnìe a dire la forma o la specie, e altro
questo cielo, cioè il primo mescolato con la materia. Queste proposizioni e
nianiere di esprimersi di Aristotile tanto più facilmente potevano indurre in
errore i suoi commentatori scolastici, perchè egli preferisce 1'interpretazione
trascendentalista delle Idee platoniche, cioè quella che le riguarda come post^
fuori delle cose; ciò che da qualche verisimiglianza all'opinione che la
dottrina di Aristotile dilferiva da quella di Platone, non perchè in questa
gli universali erano delle realtà,
mentre in quella non erano che dei concetti, ma perchè nell'una erano fuori
delle cose e nell'altra nelle cose stesse, quantunque reali egualmente nell'una
e nell'altra. Ciò che Aristotile conserva, in sostanza, della distinzione
platonica tra 1'eUog, ricondotto alla sola forma, e la materia, è quest'idea,
corrispondente sino ad un certo punto ai dati dell'osservazione, che il reale
può decomporsi in due elementi, concettuali, non reali essi AQUINO (vedasi) che
la materia è il principio d'individuazione. Il problema scolastico, quale sia
il principio d'individuazione, è un
semplice non senso al punto di vista del nominalismo, secondo cui né esiste né
può concepirsi che esista un essere ROMAN SONS GRICE ASSENTE PRESENTE che non
sia individiuile; esso non ha senso che se si ammette che l'essere SONS ROMA
GRICE primitivo è una realtà universale, perchè allora nasce le necessità di
spiegarsi perchè questa realtà si manifesta in una moltiplicità di particolari
GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING also cited by Grice himself in
CONCEPTION OF VALUE. Noi vedremo Supplem. che la dottrina d’AQUINO (vedasi) sul principio
d'individuazione, il cui germe si trova, come abbiamo detto, in Aristotile, non
è ohe la riproduzione di una dottrina dell’ACCADEMIA. De Ooelo. M«^.:'%^ stessi come voleva Platone, che sono d'una
suprema importanza per la concezione del mondo, perchè rappresentano r uno e r
altro ciò che vi ha di stabile nelle cose, e al tempo stesso ciò che vi ha di
logicamente primitivo, cioè che, servendo alla spiegazione del resto, è esso
stesso senza spiegazione. L'uno la materia, che non si distrugge né si crea, ed
è il fondo immutabile in cui s'imprimono successivamente le forme cangianti;
1'altro i tipi generali di queste forme, senza origine e senza fine e
immutabili anch'essi come la materia stessa: tanto la materia, quanto
questi tipi, considerati nei loro
attributi essenziali, cioè che sono sufficienti a definirli, sono dei dati
ultimi dell'esperienza, che noi dobbiamo ammettere senza dimostrazione non vi
ha, dice Aristotile, dimostrazione dell'essenza SONS ROMA GRICE e anche in ciò
si trova in disaccordo con Platone, ma da cui dobbiamo sforzarvi di dedurre
tutto il resto. Per quest'idea la filosofia di Platone GRICE HARDIE’S
MASTERPIECE e di Aristotile è in un'antitesi radicale GRICE HARIDE: “I wonder
how my tutor could philosophise on both” -- con tutte le filosofie anteriori.
Essa prende per punto di partenza l'eternità dell'ordine attuale del mondo nel
senso più largo dell'espressione, cioè l'eternità e stabilità delle specie,
della terra, degli astri, ecc., mentre le filosofie anteriori erano anzitutto delle cosmogonie. Di più essa
ammette che ogni specie GRICE HOMO SAPIENS SAPIENS nome sicentifico del pirot
PIDDOCK PHOLAS DACTYLUS LINNAEUS 1758? The NED has an article as follows-
"Irot, obs. a. I. birot (Cotg.), cf. biddock] 1611 Cotgrave :
'Pirot, the pirot or hag fish; a kind of long shell fish.' 1686 Plot,
Staffordsh., 250: "A sort of solenes (which the Venetians
calt cape longe and the English pirot) • a kind of shell fish deep
bedded in a solid rock." The eventual source of both the texts
quoted appears to be Rondelet's Historia Piscium- 1558 L. Joubert,
transi, Rondelet, Hist. des poiss., ii., 31: "Avios. aoliv, dóvag, örus,
dáxtoios sont mots divers pour une mesme chose ci pourtraite, qu'on nomme en
France couteaux, en Italie cape longe, en Anglois pirot." Everyone knows the
great influence exercised by Rondelet's book on later writers, and already in
1562 in Du Pinet's translation of Pliny's Historia Naturalis (ed. 1581, ii.,
549) we find couteaux masles glossed in the margin by "en Italien cape
longe, en Anglois pirot." Now two questions may be asked. The NED
derives the English pirot from French pirot; but where outside Cotgrave is
French pirot to be found? It is nowhere noted as the name of any
mollusc. In any case I propose to neglect it. On the other hand, is there
anything real behind the pirot given as English by Rondelet? I think it
will be agreed there must be. I have elsewhere shown how numerous
are the misprints made in the transcription of foreign names of fishes, etc.,
in the De Piscibus Marinis and Joubert's translation has sometimes added to the
number. It may be that behind Rondelet's pirot lies obscured a form without r
and nearer to piddock. In
that case the history of piddock would be taken back 300 years before its first
attestation in the NED. H. P. Grice. di esseri è governata da leggi
proprie e speciali, che non derivano dalle forze generali che agiscono in tutta
la materia, mentre le filosofie anteriori tendevano a spiegare tutti i fenomeni
per i soli elementi materiali e le forze costanti da cui questi sono animati.
Ma quest'idea, prima di tutto, non ha un'espressione perfettamente esatta nella
divisione del singolo in due elementi, anche concettuali, forma e materia
perchè 1' sMog di una classe di es
l'Appimdice. Beri, il suo tipo costante e generale, comprende anche la
materia, e questa entra necessariamente nel suo Xóyog e nella sua essenza, cioè
nel suo concetto e nella sua definizione. Inoltre, ciò che è il più importante,
perchè Aristotile, in molte delle sue formule e delle sue proposizioni, tratta
questa distinzione logica come una distinzione reale, e sembra elevare queste
astrazioni al grado di esseri sussistenti per se stessi? L'una e l'altra
circostanza, evidentemente, sono dei resti del realismo di Platone nel
concettualismo del suo discepolo. Per comprendere 1'apparente realismo di
Aristotile bisogna tener sempre presenti sopratutto due fatti: eh'egli è stato
lungamente un platonico, e che nei suoi scritti egli s'indirizza specialmente a
dei platonici. Così, da lina parte, quel concetto eh'egli ritiene in sostanza,
come abbiamo detto sopra, della distinzione platonica tra 1'eUog e la materia,
festa associato alle formule in cui 1'ha ricevuto nella scuola di Platone e a
cui si è lungamente abituato; e da un'altra parte, come ogni novatore, egli
cerca di presentiire i suoi propri concetti sotto quell'aspetto che li faccia
sembrare meno discosti dalle idee e dalle abitudini mentali del pubblico a cui
egli si rivolge. Ecco come il realismo del medio evo deriva da Platone, in gran
parte, pe1l'intermediario di Aristotile. Aristotile ne è, per dir così, il
veicolo, che lo trasmette agli scolastici. Come quei semi, rimasti per Nella
Metafisica, nella sua polemica coniro la dottrina delle Idee, Aristotile parla
come se tanto egli quanto i suoi lettori fossero dei platonici: secondo i modi
con cui dimostriamo che esistono le idee, m secondo l'opinione secondo cui
diciamo esservi le Idee, <(Idee delle
cose di cui non crediamo che ve ne siano >j ecc. ^^oi in questi luoghi
significa i platonici. Met. secoli inattivi nelle piramidi egiziane, si
svilupparono quando furono gettati in un terreno conveniente; così 1 residui
del platonismo, rimasti nel corpo delle dottrine aristoteliche come dei
materiali inerti e non assimilati, germogliarono e riprodussero l'antico
platonismo da cui erano originati, quando, introdotti nella scolastica di
BOLOGNA, PADOVA, SORBONA, VADIS BUE, trovarono le condizioni più favorevoli al
loro sviluppo; cioè la mancanza del senso della realtà e del vero spirito
filosofico, e in compenso lo spirito pedantesco che interpreta sacrificando la
sostanza alla forma, inseparabile da un cieco dogmatismo, e 1'amore del
paradosso che è l'accompagnamento naturale d'una scienza vuota di fatti e arida
d'idee, che consiste in vane controversie, in cui si dibattono eternamente le
stesse quistioni. Il platonismo del medio evo è, non lo dimentichiamo, un
plat(mismo incompleto, in cui manca ciò che dà un valore al sistema delle Idee,
cioè la dialettica del TRIVIO. È il solo che potesse svilupparsi dalle formule
aristoteliche: i residui della dialettica platonica in Aristotile p. e.
l'assimilazione del principio logico alla causa nella sua teoria della
dimostrazione non erano tali da prestarsi ad uno sviluppo analogo. In
conclusione, il realismo scolastico non potrebbe spiegarsi per i principiii
generali per cui noi spieghiamo i concetti metafisici, per la semplice ragione
che esso non è, a parlar propriamejite, una metafisica per ciò dovrebbe essere
anzitutto una vera filosofia, dovrebbe dare una soluzione, o un sembiante di
soluzione, al problema del perchè o a qualche altro dei problemi inevitabili,
per quanto illegittimi, che l'intelligenza umana non può non proporsi, e che
formano il dominio naturale che appartiene alla metafisica. Esso non si spiega
che per ragioni storiche, perchè non è 1'opera della libera ragione, ma del
tradizionalismo. Ma questa spiegazione ci riconduce infine all'origine prima
dei concetti ricevuti per tradizione. Qui la nostra spiegazione^ quella che
vede nelTobbiettivazione dei concetti un mezzo per applicare Videa di causa
efficiente, non ci abbandona, perchè tale è, come vedremo, il motivo e lo scopo
della dottrina platonica. Direttamente la nostra spiegazione non si applica che
ai sistemi in cui Tobbiettivazione dei concetti è unita al metodo dialettico,
ma indirettamente essa spiega anche quelli in cui non vi è unita, perchè le
sopravvivenze, nello sviluppo della cultura umana, non si comprendono che per
le ragioni che ne hanno determinato la prima apparizione, quando non erano dei
semplici organi rudimentari, ma avevano uno scopo e una funzione. E del resto,
parlando generalmente, è deatro questi limiti solamente cioè quando essi
sembrano dare una soluzione ai problemi naturali dello spirito umano che
costituiscono il dominio della metafìsica che noi crediamo che i concetti
metafìsici si possono spiegare per le tendenze naturali della nostra
intelligenza – il filosofìsma A PRIORI. Quando non sono che una modifìcazione o
una mutilazione o combinazione arbitraria di concetti preesistenti, che il
metafìsico senza genio ha imprestati, sfigurandoli, da un vero metafìsico,
cioda un pensatore geniale, per quanto chimerico, questa spiegazione ci
abbandona: essa non può dare ragione dei concetti derivati che solamente in
quanto la dà dei concetti primitivi. Il seguito di questo capitolo avrà per
oggetto i sistemi in cui l'obbiettivazione – Grice: I call my construction
routine subjectification, or objecctification, for that matter!:” -- dei concetti è unita al metodo dialettico nel
senso largo sopra indicato che noi diamo a queste parole -- Grice: Cicero does use objectum, meaning
objection, but what would Davidson and Hintikka know!”: il tipo di metafìsica
in cui concorrono questi due caratteri, potendo esserci utile un termine che lo
indichi brevemente, noi lo chiameremo realismo dialettico. Il rappresentante più illustre del realismo
dialettico è Hegel. Se la realtà degl’universali nim è riguardata
ordinariamente come una delle basi del
sistema di Hegel, è perchè essa è inviluppata nella dottrina, che l'autore
presenta come più fondamentale, dell'identità dell'essere e del pensiero, e
data come una conseguenza di questa. Questo sistema ha due facce, V idealismo e
il realismo che, nel senso in cui qui prendiamo questo termine, non è 1'opposto
di quello. L'abbiamo considerato sotto la prima di queste due facce; qui
lo considereremo sotto la seconda. Gli
elementi del sistema hegeliano sono, come si sa, la dottrina delle idee e la
dialettica. Ricordiamo brevemente in che consistano l'una e Faltra. Il reale è,
secondo Hegel, un seguito di idee, di cui ciascuna è identica al suo oggetto.
Queste idee s<mo astratte e generali, sono, in una parola, dèi concetti –
GRICE CONCEPTUAL ANALYSIS; per conseguenza ciò che esse rappresentano e con cui
s'identificano, sono degli oggetti astratti e generali come esse. Così ciascuna
idea, per esempio quella dell'essere, del divenire, del tempo, del movimento, è
al tempo stesso il concetto astratto e generale dell'essere, del divenire, del
tempo, del movimento, e l'essere, il divenire, il tempo, il movimento astratti
e generali, considerati come esistenti
per se stessi, perchè il pensiero e l'essere penstito sono una sola e stessa
cosa, che si chiama jiensiero in quanto è pensata, ed essere in quanto esiste
nel mondo reale. Hegel ammette dunque, come Platone e i realisti scolastici,
che un termine generale rappresenta una realtà generale, distinta dalle cose
particolari a cui questo termine si applica, e che non è che l'attributo SHAGGY
HAIRY-COATEDNESS comune a queste cose a cui
il termine si applica, sostantifìcato GRICE oggettivato, cioè riguardato
come sussistente per sé stesso. Ciascuna di queste realtà, come le Idee di
Platone e gli Universali degli scolastici, è una in se stessa, ma presente al
tempo stesso in tutti gli oggetti concreti e particolari che partecipano
all'attributo di cui è la sostantificazione o oggettificazione. Hegel differisce
da Platone e dai realisti scolastici, in quanto gli Universali non sono, per
questi, che degli oggetti, mentre per lui sono al tempo stesso degli oggetti e
dei pensieri – GRICE OBBLE OF POTCH, l' oggetto essendo inviluppato nell'idea
che lo pensa, e facendo una cosa sola con quest^idea. La dialettica di Hegel,
cioè il suo metodo di dedurre le idee, va
da un'idea all'idea contraria, e poi a una terza idea che comprende
l'una e l'altra, p. e. dall'essere al non essere, e poi al divenire^ che
comprende nella sua unità tanto l'essere quanto il non essere perchè il
divenire è il passaggio dal non essere all'essere. Tesi,.antitesi e sintesi,
questo è, dice Hegel – Grice: “And Russell laughed about it!:, il ritmo eterni
dell'idea: tutte le idee formano una
serie successiva, in cui si passa sempre dai termini antecedenti ai
termini conseguenti secondo una legge costante, che fa seguire a un'idea l'idea
antitetica e a queste un'altra idea più comprensiva che coMCi7m le due idee
opposte, cioè che contiene l'una e l'altra nella sua unità. La sintesi, cioè
questa terza idea più comprensiva, porta essa stessa un'altra opx)osizione, la
quale chiama alla sua volta un'altra
sintesi, e cosi di seguito, sinché si giunga al teimine ultimo della serie, che
è la sintesi suprema, racchiudendo in se stesso tutti i termini precedenti e
conciliando tutte le opposizioni. Questo passaggio dalla tesi all'antitesi e da
esse alla sintesi non lega solamente tutti i termini successivi della serie
isolatamente considerati; ma lo stesso rapporto vi ha fra le parti, cioè le serie parziali, in cui si divide la serie
intera, e fra le suddivisioni di ciascuna parte, e così di seguito, sicché il
sistema di Hegel è stato paragonato ad un tempio gotico, in cui il tipo
dell'insieme si ritrova in ciascuna delle sue parti. Passando da un'idea
all'idea opposta, e da esse alla terza idea che le comprende amendue, Hegel
intende dedurre la seconda idea dalla luima, e la terza da esse due; vale a dire egli pretende che data
la prima idea, è data la seconda come sua conseguenza necessaria, e date queste
due idee, è data anche la terza, come conseguenza necessaria dell'una e
l'altra. Così, percorrendo la serie successiva delle idee, per questo movimento
regolare che va continuamente dalla tesi all'antitesi e da esse alla sintesi,
si va continuamente dai principii alle
conseguenze, che divengono alla loro volta principii di altre
c<mseguenze, e così di seguito, in modo che tutta la serie forma una catena
logica continua, in cui i termini precedenti sono sempre i principii dei
termini immediatamente susseguenti, e i termini susseguenti le conseguenze dei
termini immediatamente precedenti. Queste idee, non dimentichiamolo, non sono
dei semplici concetti, ma anche delle
cose astratte e generali, che sono gli oggetti di questi concetti. Perciò
passare da un^idea all'idea opposta e da queste all'idea sintetica che le
contiene amendue^ è ancora dedurre da una cosa astratta e generale un'altra
cosa astratta e generale, e da queste una terza che contiene l'una e l'altra;
ciò che vuol dire che data la prima entità, è data anche come sua conseguenza necessaria la seconda, e date la
prima e la seconda, è data anche come loro conseguenza necessaria la terza, in
modo che la catena logica continua delle idee è anche una catena ontologica
continua di realtà, in cui i termini susseguenti derivano sempre dai termini
immediatamente precedenti e i termini precedenti danno origine ai termini
immediatamente susseguenti. La deduzione
di Hegel somiglia ben poco alla vera deduzione, ma ha in comune con essa queste
due condizioni: l'una che il passaggio dal principio alla conseguenza è fondato
sull'identità, per cui la deduzione essendo da un'idea all'idea contraria,
Hegel ammette che i contrarli Bono identici. L'altra che la conseguenza è il
principio stesso a uno stato più concreto, più determinato l'insieme delle
conseguenze che possono dedursi da un principio, colla deduzione ordinaria,
equivalendo al principio stesso, che esse esprimono sotto una forma più
concreta o determinata. Ciò si verifica nel terzo momento del movimento
dialettico, la terza idea, cioè la sintesi, essendo più concreta delle due idee
opposte che essa sintetizza, perchè comprende queste due idee come delle note
o determinazioni proprie. Dalla
combinazione di questi due principii, cioè l'identità delle idee opposte e
l'essere esse contenute nella terza idea, più concreta, che le sindetizza ed è
pure identica con esse, ne segue che i diversi termini successivi della serie,
cioè tutte le idee, non sono che degli stati differenti che attraversa
successivamente uno stesso essere, dei momenti successivi dello sviluppo di un'idea unica. Questo sviluppo è
un passaggio continuo da uno stato più astratto a uno stato più concreto, per
cui l'idea si aggiunge progressivamente delle nuove determinazioni, di cui
ciascuna deriva, logicamente e ontologicamente, da quelle che la precedono. Ciò
che vi ha di più difficile a spiegare nel sistema di Hegel è la forma
particolare della sua deduzione, sovratutto
questo enorme paradosso che un contrario MASTER può dedursi dal suo
contrario SLAVE – GRICE: “The servant is a very Oxonian play”, e l'altro,
legato con esso, e che è effettivamente, come è stato detto, un rovesciamento
completo delle leggi del pensiero, che i contrari sono identici, e che la
contraddizione, per conseguenza, è una legge del pensiero e della realtà GRICE
NEGATION AND PRIVATION. Il motivo determinante di queste dottrine ha dovuto
essere, senza dubbio, l'aver compreso nettamente questo fatto incontrastabile,
che la vera deduzione, quella che è fondata sul semplice principio d'identità,
non è un progi-esso reale dei pensiero, ma semplicemente apparente in termini
logici, non è un'inferenza reale ma solo apparente; mentre ad Hegel era necessario un metodo che, pur es
scudo una deduzione, fosse allo stesso tempo un progresso reale del pensiero,
perchè dove rappresentare un progresso reale nelle cose stesse, una deduzione
che non deduce delle verità nuove, ma si aggira nell'idem per idem, come fa il
sillogisuìo, se essa rappresentasse una sequenza reale nelle cose stesse, non
potendo rappresentare che la sequenza
dello stesso allo stesso, cioè l'immobilità, senza sviluppo alcuno, e quindi
senz'alcuna derivazione reale. Ora la deduzione di Hegel dove rappresentare una
derivazione reale, perchè l'essenza del realismo dialettico è, come cerchiamo
di mostrare, la trasfosmazione del nesso logico in un nesso ontologico, del
rapporto tra priucipio e conseguenza in un rapporto tra causa ed effetto. Abbandonata la logica comune che
prescrive di andare dallo stesso allo stesso, e cercando un metodo nuovo che
andasse invece dal differente al differente, il rapporto di contrarietà è
preferibile per Hegel a qualsiasi altro rapporto di differenza, perchè esso
determina, data un'idea, quale sia l'altra idea che deve seguirla, coni' è
necessario in una deduzione, in cui la premessa deve rappresentare la causa, e la conseguenza l'effetto di questa causa. Dei fatti
psicologici assai ovvii davano, inoltre, qualche speciosità a questo concetto,
che vi ha un passaggio necessario da un'idea all'idea contraria. Non è solo che
la contrarietà è, come la somiglianza, una forza di associazione fondata sul
contenuto stesso delle rappresentazioni e indipendente dall'esperienza; ma
è anche, come abbiamo osservato altrove,
che le idee contrarie, purché s'intenda per idee le nozioni generali, cioè di
classi, si suppongono e si implicano reciprocamente GRICE NEGATION AND
PRIVATION SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE, in modo che è impossibile di avere la
nozione della retta cioè della classe delle linee rette OR OF HEARING A NOISE or
of IT NOT BEING THE CASE THAT SOMEONE IS HEARING A NOISE senza avere pure la
Saggio. nozione della non retta OR OF NOT HEARING A NOISE or of it being the
case that someone is hearing a noise cioè delle liuee che restano fuori della
classe delle rette, la Doziooe del caldo cioè della classe degli oggetti caldi
senza quella del freddo cioè degli oggetti freddi, del sauo senza quella del malato, della luce senza quella
dell'oscurità, of NOISE but not of SILENCE ecc. Ciò è per la ragione evidente
che noi non possiamo esserci formata l'idea di una classe senza distinguere ed
opporre gli oggetti che vi abbiamo inclusi e quelli che ne abbiamo esclusi; ed
anche attualmente non possiamo rappresentarci i primi come formanti una classe,
senza distinguerli e opporli ai secondi,
EGO NON EGO e per conseguenza senza rappresentarci, in un certo modo, anche i
secondi. È ciò che vi ha di vero nella proposizione di Bain che ogni conoscenza
I KNOW SOMOENE IS NOT HEARING A NOISE è relativa, perchè la nozione di una cosa
implica sempre la nozione di una cosa opposta. Da «io che le idee contrarie si
suppongono e si implicano mutuamente,
Hegel ne conclude naturalmente che anche le cose contrarie, cioè le
entità astratte e generali, l'esjsere e il non essere GRICE ON BRADLEY ON NOT
LIGHTING A CIGARETTE WITH A FIVE POUND NOTE, l'unità e la moltiplicità, la luce
e l'oscurità, ecc, si suppongono e si implicano mutuamente: è una conseguenza
necessaria dell'identità dell'essere ^ del pensiero. Un altro fatto che ha potuto suggerire ad Hegel il suo
principio che dato uno degli opposti è dato anche l'altro, è l'implicazione
reciproca dei corretativi, p e. alto e basso, grande e piccolo, agente e
paziente^, padrone e servo, ecc, non
potendo darsi degli oggetti a cui si applichi l'uno dei due termini IMPLICATVRA,
senza darsi anche degli oggetti a cui si applichi l'altro EXPLICATVRA. Ammesso
una volta che un contrario può dedursi dall'altro ciò che certamante è una cosa
ben diversa dai fatti psicologici indicati, e non ha con essi che una vaga Sagorio. uota. Saggio analogìa, Hegel ne
conclude che i contrari sono identici, perchè la deduzione non può fondarsi che
sul principio d'identità. Questo rapporto ambiguo fra i due termini, che è al
tempo stesso d'identità e di differenza
cioè di contrarietà concilia l'esigenza della deduzione, che il passaggio dal
principio alla conseguenza sia giustificato dalFidentità, con l'esigenza
opposta del realismo, che questo passaggio sia un progresso reale del pensiero
e dell'essere, e che perciò la conseguenza differisca dal principio, e non sia
una ripetizione, totale o parziale, del principio stesso. L'altro concetto fondamentale della dialettica hegeliana, cioè
che, dati i due contrari, è dato anche un terzo termine che comprenda Funo e
l'altro, è destinato a soddisfare a questa condizione della deduzione, che la
conseguenza non sia che il principio stesso, divenuto più co»ncreto o più
determinato. Il passaggio al terzo termine ha l'aria di essere giustificato
dall'identità dei due primi, la concezione
dei due contrari come due lati di uno stesso essere, ciò che è supposto
dalla loro identità, richiedendo Tidea di un essere unico di cui entrambi siano
delle note o delle determinazioni, e quindi una terza idea in cui le due idee
contrarie coesistano e siano, per dir così, fuse l'una con l'altra e unificate.
Data questa legge del metodo dialettico, le due idee contrarie indicano la
terza che deve seguirle, come la prima
di esse indica la seconda: è a questa condizione, come abbiamo osservato, che
la seconda può essere riguardata come un eflfetto della prima, e La terza come
un effetto della prima e della seconda. L'assimilazione del principio alla
causa e della conseguenza all'effetto suppone, come abbiamo notato nel
paragrafo precedente, che la conoscenza sia puramente A PRIORI, e quindi che il
principio primo sia stabilito anch'esso per una necessità logica. È ciò che ha
luogo in^ fatti nel «istema di Hegel. Le
due idee priraitive, cioè l'essere e il
dou essere, souo dimostrate per la loro implicazione nmtua Se dato Tessere è dato anche il non essere, e
dato il non essere è dato anche 1'essere come se^ue dalla legge generale della
dialettica che dato l'uno dei due
contrari è dato anche l'altro ciò prova che l'esistenza dell'essere e del non
essere è logicamente necessaiia, o ciò che vale lo stesso, la loro non
esistenza logicamente impossibile. In effetto Pipotesi della non esistenza
dell'uno o dell'altro, dato il legame necessario che esiste tra i due, sarebbe
un'ipotesi che si distruggerebbe essa «tessa. Se non vi fosse l'essere, non vi
sarebbe che il non essere; ciò che è
impossibile perchè dato il non essere è dato anche l'essere. E viceversa, se
non vi fosse il non essere, non vi sarebbe che l'essere; ciò che è pure
impossibile, perchè dato l'essere è dato anche il non essere. Senza l'esistenza
necessaria delle due idee primitive, i principii, in tutto il seguito delle
deduzioni, non ridarebbero logicamente anteriori alle conseguenze. In questo
caso i principii non potrebbero assimilarsi alle cause e le consegiienze agli
effetti, perchè si avrebbe altrettanta ragione di dire che l'esistenza delle
entiti\ conseguenze dipende da quella delle entità principii, che eli dire che
è l'esistenza delle entità principii che dipende da quella delle entità
conseguenze. Il sistema dì Hegel ha, come abbiamo detto, una doppia faccia,
idealismo e realismo. Come idealismo,
esso spiega l'universo, considerandolo come prodotto dall'attivitii logica del
pensiero: sotto quest'a8i)etto è una forma dell'antroporaortìsmo, come
l'abbiamo riguardato. Come realismo^ e più propriamente come realismo
dialettico, esso crede di scoprire ciò che Comte chiama il modo essenziale di
produzione delle cose, identificando il nesso logico tra il principio e la consegueza al nesso ontologico
tra la causa e Teffetto. Guardando il sistema dalla faccia dell'idealismo, il
movimento dialettico delle idee è il progresso del pensiero che deduce come
sarebbe in Euclide il seguito delle proposizioni che s'incatenano le une alle
altre; guardando il sistema dalla faccia del realismo dialettico, il movimento
dialettico delle idee è il progresso delle cose stesse che sono dedotte come
sarebbe in Euclide il seguito delle verità o dei fatti, significati dalle
proposizioni successive che s'incatenano. Hegel non afferma esplicitamente,
come fanno altri realisti dialettici, che il principio logico è identico alla
causa e la conseguenza all'effetto. Il suo predecessore Schelling che è
anch'egli un realista dialettico nega anche quest'identità. Come abbiamo visto in un capitolo precedente,
la filosofia e le matematiche oltrepassano, secondo lui, il punto di vista
dell'incatenamento causale; un fatto non viene spiegato in filosofia trovandone
la causa in un altro fenomeno, ma trovando il principio donde derivano tutti i
fenomeni. Hegel avrebbe aderito a questa proposizione di Schelling; nella
Logica infatti egli non intende per
causalità che una forma particolare di successione tra fenomeni. E certamente,
non si può dire che le entità che, nel realismo dialettico, procedono le une
dalle altre, sono tra di loro delle cause e degli effetti, che usando le parole
causa ed effetto in un senso differente dall'ordinario. La differenza più
saliente è che tra le cause e gli effetti propriamente detti la succesione è
cronologica, mentre tra le cause e gli effetti del realismo dialettico non è
che logica e metafisica ciò che Platone e Spinoza GÌiìxim^no anteriorità e
posteriorità di natura. Un'altra differenza è che la causa e l'effetto
propriamente detti sono due fenomeni distinti e separati, mentre la causa, nel
senso del realismo dialettico, sussiste Lof/iea paragrafi nell'effetto è, eome
dice Spinoza, una causa imwanenie e l'eftetto non è che la causa stessa a cui
si è ag«:iunta una nuova determinazione; perchè in «piesto pro^^iesso reale
delle cose che, secondo il realismo dialettico, corrisponde al progresso
lo;]pco del pensiero, non vi ha, come abbiamo detto, che uno stes-^o e unico
essere, che passa successivamente da uno stato sempre più astratto o più
indeterminato a uno stato sempre più concreto o più determinato. È perciò che
Schelling ed Hegel, per indicare la derivazione
reale delle entità
conseguenze dalle entità principii, al concetto di causalità
preferiscono quello di svihfppoLOGICALLY DEVELOPING SERIES GRICE JOACHIM MUNDER.
Chiamandola sviluppo, essi intendono paragonarla alle fasi successive
deiresistenza di un essere p. e. di un organismo, ma di cui le susseguenti
siano condizionate unicamente dalle precedenti e non anche da condizioni
esterne, come nell'organismo, e vi sia fra queste e quelle un legame
necessario, nel senso sti^tto della
parola, cioè quello che i metafisici immaginano tra la causa efficiente e non
il semplice antecedente in una sequenza
invariabile e il suo eftetto. Ma è evidente che un tale sviluppo, se esso fosse
una successione cronologica, non sarebbe che una forma della causalità. Si
avrebbe dunque lo stesso dritto, giacché la mancanza della successione
cronologica non fa ostacolo, a chiamare una tale derivazione reale una
causazione che a chiamarla uno sviluppo. Se le entità derivate, nei sistemi di Schelling e di Hegel, possano
chiamarsi effetti delle entità da cui derivano, e queste cause di quelle, non
è, al postutto, che una quistione di parole. Dicendo che il realismo dialettico
identifica il principio e la conseguenza alla causa efficiente e all'effetto,
noi vogliamo dire semplicemente che esso spiega la produzione delle cose,
assimilandola, come l'antropomorfismo e
le altre fomie della metafisica – THE CLOUD ‘SIGNIFIES’ – “CLOUD”
“SIGNIFIES”, The fact that he is shaggy
‘signifies’ – ‘Shaggy’ ‘signifies -- quantunque d'una maniera più lontana, a
quelle causazioni della nostra esperienza più familiare. che sono il tipo
dell'idea di causa efficiente. La quistione essenziale è se Schelling ed Hegel
considerino le entità conseguenze come
derivate realmente cioè ontologicamente, e non soltanto dedotte, dalle
entità principii. Ora non vi ha dubbio che essi non le considerino così.
Schelling afferma, in propri termini, che l'assoluto produ<e le idee, e che
le idee jprot^wcowo altre idee cioè quelle che sono logicamente anteriori
quelle altre che si deducono da esse. Ed Hegel e gli hegeliani non parlano
ripetutamente della filiazione delle
idee o anche delle cose corrispondenti le une dalle altre? non dicono che
un'idea viene o esce da un'altra, e che questa apporta o chiama necessariamente
quella; che la Natura procede dalla Logica e lo Spirito dalla Logica e dalla
Natìira, come nella trinità cristiana il Figlio procede dal Padre e lo Spirito
Santo dal Padre e dal Figlio; che la dialettica cioè la legge secondo cui le idee derivano le une dalle altre è la
forza per cui si realizza l'attività
dell'idea; ecc.? Queste
espressioni in verità possono anche significare il punto di vista
dell'idealismo, cioè che i concetti, in cui si risolve la realtà, si seguono e
s'incatenano in virtù del loro legame logico, come le proposizioni d'Euclide e
non le cose significate da queste proposizioni. Ma ciò clh; mostra che uno almeno dei loro significati è l'altro punto
di vista del sistema, cioè il realismo dialettico, è che esse equivalgono per gli
autori alle afìfermazioni che un'idea essendo data, è data per ciò stesso
un'altra idea, che le idee si seguono e s'incatenano in un ordine necessario,
ecc. Le proposizioni d'Euclide non seguono necessariamente alle proposizioni da
cui si deducono; souo le verità o i fatti
significati dalle prime Filosofìa e religione. ctie seguono
nvcessariamente dalle verità o i fatti significati dalle seconde. Così queste
affermazioni hegeliane non possono denotare il progresso del pensiero
«»'«««duce punto di vista dell'idealismo, ma il progresso delle cose che
vengono dedotte punto di vista del realismo dialettico. Ciò che mostra pure che
le espressioni hegeliane significanti una derivazione reale tra le idee
desiguano la sequenza logica della cosa che si deduce dalla co.a da cui si
deduce e non semplicemente il legame psicologico tra i pensieri corrispondenti
a questa sequenza logica è che questa derivazione implica, seconde. He-el e i
suoi, una sorta d'identità di ciò che deriva con ciò da cui deriva. Quando essi
chiamano il seguito e l'incatenamento
delle idee lo sviluppo, o il divenire, o il movimento dell'idea; quando
dicono che un idea passa, o si continua, o si trasforma in un'altra; quando i
diversi gradi del progresso dialettico, a
ciascuno dei quali si produce, com'essi dicono, una nuova idea e una
nuova forma dell'esistenza, sono da essi riguardati come i momeftti d'un'idea
unica; quando affermano che l'essere o l'idea passa continuamente da uno stato più astratto a uno
stato più concreto; essi considerano i diversi termini della serie, come
abbiamo detto sopra, come degli stati successivi che attraversa uno stesso
essere, di cui i precedenti condizionano e determinano necessariamente 1
susseguenti. Ma non sono le proposizioni o i pensieri costituenti una deduzione
o un seguito di deduzioni, sono le veritiv o i fatti che si deducono gli uni
dagli altri, che possono e devono considerarsi come una sola e stessa cosa una
8ola e stessa verità, un solo e stesso fatto, che prima si concepisce in una
forma più astratte e più indeterminata, e poi successivamente in forme sempre
pm concrete o più determinate. È questo passaggio graduale di uno stesso essere
da uno stato più indeterminato a uno stato
più determinato, da uno stato più astratto a uno stato più concreto, che
Hegel chiama uno sviluppo GRICE LOGICALLY DEVELOPING SERIES JOACHIM MAUDER, una
successione di momenti, ecc., e che noi possiamo riguardare come un
incatenainento di cause e di eftìbtti. in quanto i gradi o i momenti posteriori
sono determinati e apportati necessariamente dai gradi o momenti anteriori Del resto che questo sviluppo,
questa successione di momenti, questa filiazione delle idee, e, in una parola,
questa derivazione reale di cui parlano gli hegeliani, non sia, almeno
sovratutto, che la derivazione logica tra la cosa che si deduce e quella da cui
si deduce della quale si fa qualche cosa di obbiettivo, perchè delle cose che
derivano logicamente le une dalle altre si sono
fatte delle realtà obbiettive, e non delle semplici astrazioni mentali è
affermato nelle loro proposizioni che lo sviluppo logico è identico allo
sviluppo ontologico, che il movimento del pensiero corrisponde al movimento
della realtà, che l'incatenamento e l'ordine delle idee rappresentano
l'incatenamento e 1^ordine delle cose, ecc. Taine ha dunque, in sostanza, ben
interpretato Hegel, affermando some
vedremo che il suo sistema è fondato su una certa teoria della causalità, la
quale consiste a riguardare come causa il principio logico e come effetto la
conseguenza. Aderendo a questo concetto di Taine, noi non intendiamo altro
affermare, in ultima analisi, se non che Hegel riguarda i termini o momenti
successivi della serie dialettica come derivanti realmente, e non soltanto logicamente^ gli uni dagli altri, e
che questa derivazione reale è per lui la stessa derivazione logica,
considerata obbiettivamente, cioè che essa consiste in questo che, data
l'esistenza di un termine, è data perciò stesso per necessil'esistenza di un
altro termine, questa necessità essendo una necessità logica. Riguardando, come
Taine, queTmm . r' ru \^ sta dottrina di Hegel per una teoria della causalità,
uoi vogliamo dire semplicemente che essa è un'applicazione del concetto di
causalità efficiente. Essa applica questo concetto, perchè, secondo essa,
l'esistenza di un termine dipende dall'esistenza di un altro termine, e questo
è la condizione data la quale quello esiste e non può non esistere; ciò che,
salvo l'assenza della sequenza nel tempo, è ciò che noi intendiamo per causalità. Di più perchè in questo legame
tra il termine da cui un altro deriva e quest'altro che ne deriva, vi hanno i
caratteri che distinguono una causazione efficiente da una semplice causazione
empirica o sequenza invariabile, vale adire: che l'effetto è spiegato dalla
causa d'una maniera esauriente, cioè senza lasciare adito ancora alla domanda
perehè; che il legame tra la causa e
l'effetto, cioè la capacità che ha la prima di produrre il secondo, e il
secondo di essere prodotto dalla prima, è evidente razionalmente, cioè per il
semplice rapporto delle idee, e non per l'esperienza; e infine che questo
legame è necessario, nel senso più stretto della parola necessità. Questi
risultati sono ottenuti da Hegel, considerando i termini successivi della serie
dialettica, non come semplici astrazioni
mentali, ma come entità aventi un'esistenza propria e realmente distinte le une
dalle altre. La base del sistema di Hegel, come di tutti gli altri sistemi di
realismo dialettico, è dunque questo principio: che la scienza è una deduzione
progressiva, in cui si deducono sempre dei reali da altri reali e non
semplicemente dei concetti o delle proposizioni da altri concetti o altre proposizioni, affinchè il rapporto tra la
premessa e la conseguenza venga assimilato a quello tra la causa e l'effetto.
Se le premesse e le conseguenze non fossero dei reali, l'assimilazione sarebbe
impossibile, perchè la causa e l'effetto sono due fatti reali, distinti e
separati 1'uno dall'altro. La conseguenza
necessaria di questo principio è la realizzazione delle astrazioni.
Infatti questi reali che si deducono gli
uni dagli altri non possono essere che dei concetti obbiettivati, o, parlando
d'una maniera più generale, delle astrazioni realizzate. Ciò è per due ragioni:
II realista dialettico non pretende di poter conoscere A PRIORI e, perciò,
dedurre, tutti i fatti particolari dell'esperienza, vale a dire tutti gli
esseri individuali con le circostanze e gì'incidenti particolari della
loro esistenza. Ciò a cui aspira la
filosofia apriorista, di cui il realismo dialettico non è che una specie, è di
riprodurre il contenuto stesso della scienza empirica, dandogli la forma
dell'apriorità e della necessità. Ora la scienza non conosce che il generale:
essa non determina i fenomeni particolari e le serie accidentali che essi
compongono, ma le leggi di questi fenomeni, cioè le loro sequenze o coesistenze costanti; essa non descrive gli
esseri individuali, ma le forme o i tipi costanti di questi esseri. Così il
realista dialettico, e il filosofo apriorista in generale, anche quando ha
Taudacia di un Hegel, non pretende di conoscere A PRIORI e di dedurre che ciò
che vi ha di costante nella natura, le leggi e le forme generali
dell'esistenza: non sono tntti gli uomini individuali, con tutti i loro caratteri particolari e tutti
gli avvenimenti, anche insignificanti, della loro vita, eh'egli può pretendere
di dedurre e di conoscere A PRIORI, ma l'uomo in generale, cioè i caratteri
costanti del tipo umano; non tutte le cadute particolari di tutti i corpi che
sono caduti nel passato o che cadranno nell'avvenire, ma la caduta dei gravi in
generale, la legge o la determinazione generale
del peso o della gravità. Ciò che deduce il realista dialettico sono
dunque delle proposizioni astratte e generali, di cui ciascuna pone l'esistenza
di una legge o forma o determinazione generale delle cose p. e. dell'essere,
del divenire, della gravità, dell'uomo, ccc. Ad ognuna di que-Toste
proposizioui nou corrispoude, per noi, nella realtà che una classe di oggetti o
di fenomeni individuali, ciascuno coi
suoi caratteri e le sue circostanze determinate: per noi, la realtà che
corrisponde alla proposizione che esiste il peso, sono tutti i gravi che cadono,
che sono caduti e che cadranno; la realtà che corrisponde alla proposizione che
esiste Vuomo, sono tutti gli uomini che vivono, che sono vissuti e che
vivranno; e così di seguito. Ma quando il realista dialettico deduce
Vesistenza dell'uomo o quella del peso,
egli non può intendere, per questa sua deduzione, di porre, cioè di affermare,
il complesso dei singoli uomini e delle singole cadute coi caratteri
particolari e le circostanze determinate con cui esistono, sono esistiti, ed
esisteranno nella realtà. Ciò è perchè il reale ch'egli deduce, cioè di cui
pone o afferma 1'esistenza per la sua deduzione, deve essere Veffetto e la conseguenza necessaria dei principii da
cui lo deduce. Ma 1'esistenza dei singoli uomini e delle singole cadute reali,
coi caratteri e le circostanze particolari della realtà, non è la conseguenza
necessaria, e quindi nemmeno 1'effetto, dei principii da cui deduce l'esistenza
dell'uomo o quella del peso in generale. Egli ammette infatti che i singoli
uomini e le singole cadute, con le
circostanze determinate con cui si sono presentati e si presenteranno
nell'esperienza, è impossibile di dedurli; ciò ch'egli ammette solamente che si
possa dedurre è l'esistenza del tipo e della legge generale, dell'uomo e della
gravità. Vi hanno dunque, secondo il realismo dialettico, due elementi nella
realtà empirica, cioè nella nostra realtà: 1'uno deducibile e perciò necessario
è 1'elemento costante della natura, le
leggi dei fenomeni e le forme generali degli esseri; l'altro non deducibile e
perciò contingente è l^lemento variabile, le particolarità dei fenomeni e degli
oggetti individuali, in cui queste leggi e questo forme si realizzano. L'uno di
questi elementi disgiunto dall'altro non è per noi che un'astrazione, ma il
realista dialettico deve considerarlo come una realtà, perchè ciò che egli deve dedurre è un reale, e
questo non può essere il nostro reale, in cui l'elemento necessario e
deducibile è mescolato con l'elemento non deducibile e contingente, e che
perciò non può essere la conseguenza necessaria dei principii già stabiliti e
non può, quindi, riguardarsene come l'effetto. Questo reale che egli deve
dedurre non può essere dunque che 1'elemento necessario e deducibile, per sé solo, astratto, cioè
disgiunto, dall'altro elemento che l'accompagna nella realtà empirica, e
considerato come esistente per sé in questo stato di strattezza. È infatti
questo elemento astratto che può solo riguardarsi come la conseguenza
necessaria dei principii già posti, e quindi, se è una realtà e se anche essi
sono delle realtà, come effetto di questi principii. Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, i
reali che fauno da principii e quelli che fanno da conseguenze non possono
essere che una sola e stessa realtà, che passa da uno stito più astratto o più
indeterminato a uno stato più concreto o più determinato, perchè, nella
deduzione, le conseguenze non fauno che porre, sotto una forma più concreta o
più determinata, quello stesso che i principii
avevano già posto sotto una forma più astratta o più indeterminata. Ciò
implica che i principii, cieè tutti i reali che, ad un grado qualunque del
processo deduttivo, fanno da premesse, non possono essere delle realtà concrete,
ma astratte, cioè delle astrazioni realizzate. Risultano dunque da ciò che
abbiamo detto due caratteri comuni a tutti i sistemi di realismo dialettico:
1'uno che i reali che esso deduce
progressiva V. per più ampi sviluppi Realizzazione delle astrazioni. mente gli
uni dagli altri, non sono delle realtà concrete, ma delle astrazioni
realizzate^ e l'altro che queste astrazioni realizzate formano una scala di
astrazione decrescente, non essendo che gli stati successivi o, come dice
Hegel, i momenti, di nno stesso e unico essere, che passa gradatamente da
uno stato più astratto o più
indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Noi ritroveremo
questo secondo carattere, così bene che il primo, in tutti gli altri sistemi di
cui parleremo nel seguito. I caratteri del sistema di Hegel, come di qualsiasi
altro sistema di realismo dialettico, possono dividersi in due gruppi: gli uni
sono comuni a tutti i casi di questa forma di metafisica, gli altri particolari a ciascuno dei singoli
casi. Questi ultimi, nel sistema hegeliano, sono le dtie differenze essenziali
di questo sistema, cioè l'idealismo da cui in esso è accompagnato il realismo
dialettco, e la forma speciale della deduzione, che consiste a passare dalla
tesi all'antitesi e poi alla sintesi, ovvero dipendono da queste due differenze
essenziali. I primi sono dati dallo scopo stesso a cui mira il realismo dialettico, cioè
l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra
la causa efficiente e l'effetto. Noi abbiamo già parlato di alcuni di essi,
quali sono, oltre alla realizzazione delle astrazioni e al passaggio graduale
dal più astratto al più concreto, la necessità che la deduzione differiscaa
dalla deduzione ordinaria perchè deve essere un progresso reale del pensiero e delle cose, e che il
primo principio sia stabilito A PRIORI affinchè i principii siano logicamente
anteriori alle conseguenze, e possano quindi considerarsene come delle cause.
Dobbiamo anche parlare di due altri caratteri del sistema hegeliano che sono
pure comuni, come questi, ai diversi sistemi di realismo dialettico, e si
spiegano anch'essi per lo scopo di questa forma di metafìsica. L'uno è l'unità
di metodo, la legge costante che governa i passaggi dalle idee date ad altre
idee, il ritmo immutabile del movimento dialettico, che si compie
uniformemente, nel sistema di Hegel, nei tre momenti della tesi, dell'antitesi
e della sintesi. Lo scopo è evidentemente una identificazione più completa del
rapporto tra le premesse e le conseguenze a quello tra le cause e gli effetti.
Perchè un reale possa considerarsi come la causa efficiente d'un altro reale,
non basta che il primo sia seguito dal secondo per un legame necessario e intrinsicamente
evidente che ha con esso, ma bisogna accora che questa sequenza avvenga secondo
una legge o una uniformità determinata, perchè anche la causazione efficiente è
una causazione, e causazione vuol dire
sequenza invariabile, cioè che avviene secondo una legge o una uniformità
determinata. Questa condizione del metodo dialettico, perchè il nesso logico
tra principio e conseguenza possa trasformarsi in un nesso ontologico fra causa
ed effetto, importa naturalmente la varietà nel tempo stesso che l'unità, vale
a dire la moltiplicità dei passaggi logici nel tempo stesso che una legge uniforme che governi questi passaggi. La
moltiplicità dei passaggi logici si ottiene per la graduazione nella deduzione,
per la esi)licazione solamente graduale e progressiva delle conseguenze
implicate nel primo principio. La legge costante a cui si conformano questi
passaggi logici, è la legge di causazione del mondo delle astrazioni
realizzate, la loro sequenza invariabile, per cui Hegel riguarda il metodo dialettico come la
legge al tempo stesso del pensiero e delle cose. Questa moltiplicifcà dei
passaggi logici e questa legge costante che li governa, le ritroveremo negli
altri sistemi in cui all'obbiettivazione dei concetti è unito il metodo
dialettico, nel senso generale che abbiamo spiegato, cioè il metodo di scopiire
A PRIORI, ileduceDdoli gli uni dagli altri, questi concetti obbiettivati. Uua conseguenza
diretta dell'unità di metodi», e quindi indiretta dell'identiticazione del
principio alla causa e della conseguenza all'effetto, è il monismo lo(jico ed
ontologicoy cbe è anch'esso un carattere comune del realismo dialettico, La
deduzione parte, in tutti i sistemi, da un primo principio unico monismo
logico; ne segue, poiché le conseguenze non sono che i principii stessi a uno stato più
concreto, che tutte le astrazioni realizzate costituiscono gli stati successivi
di un essere unico, che passa continuamente da uno stato più astratto a uno
stato più concreto monismo ontologico. Il monismo logico, di cui l'ontologico è
uua derivazione, risulta dall'uniformità di legge a cui è sottoposto il mondo
delle astrazioni realizzate Essa importa
che fra tutte le astrazioni realizzate
vi ha un rapporto determinato che lega le une con le altre. Così una pluralità
di principii egualmente primitivi e perciò senza legame l'uno con l'altro
sarebbe in contraddizione con questa uniformità di legge. Queste entità di cui
si facessero dei principii egualmente primitivi e senza legame l'uno con
l'altro, dovrebbero essere anch'esse legate fra di loro dal rapporto costante che costituisce la legge
universale. Supponiamo, p. e., che nel sistema di Hegel vi fossero più serie
d'Idee indipendenti fra di loro, e per ciascuna serie un principio proprio senz'alcun
legame coi principii delle altre. Tutti i termini di ciascuna serie, in
quest'ipotesi, e tutte le parti, grandi e piccole, in cui ciascuna serie si
divide, sarebbero fra di loro nel rapporto costante di tesi, antitesi e sintesi, ma non le
diverse serie relativamente le une alle altre, nò i principii distinti che
formano i punti di partenza delle serie distinte. Ciò sarebbe in contraddizione
con la legge universale del mondo ideale, che tutte le idee e tutti i gruppi
d'idee si dispongano in un ordine determinato, secondo il rapporto costante di
una opposizione seguita <la una sintesi. Anche le diverse serie supposte e i principii supposti
di quc^ste serie dovrebbero essere uniti dallo stesso rapportò, ciò che importa
una serie unica e un principio primo unico, e quindi il monismo, non solo
logico, ma anche ontologico. Questo è, come abbiamo detto, un carattere comune
del realismo dialettico, che ritroveremo in tutti i sistemi di cui parleremo in
seguito. Fra tutti i sistemi di realismo
dialettico, quello di Hegel, quantunque ne sia l'esempio più illustre è il meno
proprio ad indicarci chiaramente in che consista l'essenza di questo tipo di
metafisica. Ciò è per diverse ragioni, che noi possiamo ridurre a tre: La
realizzazione degli universali è inviluppata in questo sistema nella dottrina
che le cose sono dei concetti, e presentata come una conseguenza
dell'identità dell'essere e del
pensiero; ciò che non solo dissimula il vero perchè di questa realizzazione, ma
potrt*bbe anche far credere che l'identità dell'essere e del pensiero è
essenziale nel realismo dialettico. La deduzione di Hegel è così difforme dalla
vera deduzione^ che si comprende appena come l'autore abbia potuto considerarla
corno tale. Ciò può avere per risultato di nasconderci che il carattere essenziale del metodo di questa
metafisica è di essere o piuttosto di pretendere di essere una deduzione, vale
a dire ciò che i logici chiamano con questo nome. Inoltre potrebbe farci
credere che l'identità dei contrari e le altre particolarità della dialettica
hegeliana siano dei caratteri essenziali di questo metodo, che noi dobbiamo
attenderci di ritrovare in tutti gli altri sistemi analoghi. Hegel non afferma esplicitamente il
principio fondamentale del suo sistema, cioè l'identità del rapporto logico fra
il principio e la conseguenza col rapporto ontologico fra la causu e l'effetto.
Per queste ragioni saranno per noi più istruttivi gli altri sistemi: quello di
Taine, a cui ora passeremo, sarà forse il più istruttivo di tutti, perchè la
sua deduzione è la deduzione dei logici,
e perchè egli espone della maniera più netta la teoria della causalità
che è la base del realismo dialettico. Non vi ha dubbio che Taine consideri
Vastratto e generale come una realtà sussistente per se stessa. Egli parla
continuamente di cose generali^ che corrispondono alle idee e nomi generali.
Un'idea astratta e generale è ciò che corrisponde, nel nostro pensiero, a una
cosa astratta e generale nella realtà; è
a questa che deve aggiustarsi, è essa che è il suo oggetto. 0 piuttosto,
siccome tutte le nostre idee non sono che immagini di sensazioni, e noi non
abbiamo, a parlar propriamente, idee astratte e generali, sono i nomi generali
che corrispon Inlcllig.: Sin qui non abbiamo considerato che le cose
particolari e la conoscenza che ne prendiamo; ci resta a considerare le cose generali e le idee ohe ne abbiamo.
Perchè vi hanno delle cose generali, cioè delle cose comuni a molti casi o
individui; sono dei caratteri o gruppi di caratteri acqua designa un gruppo di
caratteri che s'incontra sempre lo stesso in un'infinità di liquidi bere
designa un gruppo di caratteri ohe s'incontra sempre lo stesso in un'infinità
d'azioni. È così per le altre parole del dizionario; ciascuna designa un carattere o gruppo di
caratteri che si presenta o può presentarsi in molti casi o individui naturali.
Ecco un nuovo oggetto di conoscenza,
t.ome vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai casi e individui
particolari, così vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai caratteri
generali; si chiamano idee generali. pure la stessa opera, ecc. Nella più parte
di questi luoghi, come nel luogo citato,
le cose generali THE ALTOGETHER DOG THE ONE AT A TIME DOG GRICE sono opposte
agli oggetti individuali. Intelliy., dono alle cose astratte e generali, e le
rappresentano, o, come dice il nostro autore, le sostituiscono, nel nostro
pensiero. Sono questi nomi, non le pretese idee astratte, che ci rendono
presenti le cose generali: un nome
generale p. e. albero o poligono e la cosa astratta e generale
corrispondente formano una coppia^ tale che il primo termine tiri dietro di sé,
faccia apparire, il secondo termine. Se un nome si applica a tutti gl'individui
d'una classe, è perchè designa il carattere astratto HAIRY-COATEDNESS GRICE
presente in tutti questi individui, ed è legato con lui: esso equivale alla
vista, che non possiamo avere, di questo
carattere astratto. Alla presenza dinnanzi a noi di una qualità generale nasce
in noi una tendenza a nominare ed un nome; tutte le volte che la cosa astratta
e generale è presente negli oggetti, il nome è
Inlellig., ecc. Intellig. [nletlig. ecc. Intellig.: Pertanto se esee le
percezioni e rappresentazioni sensibili degl'individui d'una classe lo evocano
il nome, è grazie a ciò che tutte hanno in comune, e nou grazie a ciò che
ciascuna d'esse ha di proprio; pertanto ancora se esso le evoca, è grazie a ciò
che tutte hanno di comune e non grazie a ciò che ciascuna di esse ha di
proprio; per conseguenza in fine esso è
attaccato a ciò che tutte hanno di comune e a ciò solamente. Ora questo qualche
cosa è appunto il carattere astratto, lo stesso in tutti gl'individui della
classe. È dunque a questo carattere, e a questo carattere solo, ohe il nome,
mentalmente inteso o pronunziato, corrisponde; ciò che si esprime dicendo che
il nome designa e significa il carattere. Di quesla maniera il nome equivale
alla vista, esperienza o rappresentazione sensibile, che non abbiamo e non
possiamo avere, del carattere astratto presente in tutti gli individui simili.
Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio. Intellig. presente nel nostro
spirito, tutte le volte che essa è assente, esso è assente; così sostituisce la
sua esperianza o la sua rappresentazione che ci sono impossibili. Noi Intellig.:
Esso il nome corrisponde alla qualità comune e distintiva che costituisce la
classe e che la separa dalle altre, e corrisponde solamente a questa qualità;
tutte le volte ohe essa è presente, esso è presente, tutte le volte che essa è
assente, esso è assente; esso è destato da essa, e non è destato che da essa.
Di questa maniera è il suo rappresentante mentale, e si trova il sostituto
d'una esperienza <5hf ci è interdetta. Esso tiene luogo di quest'esperienza,
fa il suo ufficio, le equivale Artifìcio ammirabile e spontaneo della nostra
natura: noi non possiamo percepire né mantenere isolate nel nostro spirito le
qualità generali, sorta di filoni preziosi che costituiscono l'essenza e fanuo
la classificazione delle cose; e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza
bruta, per apprendere l'ordine e la sirutlur't interiore del mondo, la
strutttura interiore del mondo, perchè esso si compone, come di vari strati, di
astrazioni realizzate più o meno astratte, bisogna che noi le ritiriamo dalla
loro ganga, e le concepiamo a parte. Noi ricorriamo a un sotterfugio, associamo
a ciascuna qualità astratta e generale
un piccolo avvenimento particolare e complesso, un suono, una figura facile a
immaginare e a riprodurre; e rendiamo l'associazione si esatta e si stretta che
ormai la qualità non possa apparire o mancare nelle cose, senza che il nome
apparisca o manchi nel nostro spirito, e reciprocamente. La coppi. i così
formata rassomiglia a questi strumenti di fisica e di chimica che, per un
debole effetto sensibile, uno spoststmento d'aghi, una variazione di tinta,
mettono alla portata dei nostri sensi
delle decomposizioni di sostanze o delle variazioni di correnti poste fuori
della portata dei nostri sensi Similmente, quaado si tratta d'una qualità
generale, di cui non possiamo avere né esperienza né rappresentazione
sensibile, noi sostituiamo un nome alla rappresentazione impossibile Per questa
equivalenza tra il nome e la rappresentazione i caratteri generali delle cose arrivano alla portata della nostra
esperienza, non abbiamo esperienza o percezione delle cose astratte e i^enerali
considerate ciascuna isolatamente; ma esse non esistono al di là di questo
mondo come le Idee di Platone secondo la più parte degl'interpreti. Sono quali
forme viventi mescolate alle cose; costituiscono la porzione uniforme e fìssa
dell'esistenza dispersa e successiva, i
soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi;
come gl'individui e gli avvenimenti, in cui esse esistono, sono delle forme
dell'esistenza, e non differiscono dagl'individui e dagli avvenimenti che
perchè sono delle forme più stabili e più diffuse. Per indicare l'esistenza per
sé delle cose astratte e generali e al tempo stesso la loro inerenza nelle cose
concrete e partirolari, Taine dice, come
Platone, che quelle sono presenti in queste o altre V. oltre i, Intellig. Intellig., luogo che
riporteremo in una nota seguente. Saggi di critica e di Storia, Prefazione: Le
qualità e situazioni generali che fanuo e disfanno le civiltà, e di cui la
nostra vita effimera non è che un fiotto nella loro corrente, ci appariscono
non come formule astratte, ma come forze
viventi mescolate alle cose, da pertutto presenti, sempre Jigenti, vere
divinità del mondo umano, ohe danno la mano al di sotto di esse ad altre
potenze padrone della materia come esse lo sono dello spirito, per formare
tutte insieme il coro invisibile di cui parlano i vecchi poeti, che circola a
traverso le cose, e per cui vive e palpita l'universo eterno. Qui le cose
astratte e generali non sono solamente
sostanti dcate, ma quasi personificate. Intell., luogo che riporteremo in una
nota seguente. Intellig, il luogo che riporteremo nella nota lo stesso luogo
indicato nella nota precedente. espressioni equivalenti; che vi sono incluse o
conte' nate; che ne sono delle porzioni o dei frammen' Intellig. Filos. class,,
Posit. ingl. ecc. Notiamo le espresioni: i caratteri generali sono gli abitanti pili dittnsi della natura e hanno il
più largo posto nella scena dell'essere Intellig. riportato in una nota seg.; i
caratteri comuni sono molto più diffusi nello spazio i>ohe i caratteri che persistono
in un essere particolare Intellig.; questi estratti noi diremo asiratti
presenti in molti punti del tempo e dello spazio; più un carattere è generale e
astratto, più occupa posta, e lega individui
nella natura|»; dei caratteri più generali che universalmente diffusi
sotto svisamenti diversi; nella natura un carattere, è sempre annegato in una
folla d'altri; dei dati goneeali, cioè diffusi in territori esteriori molto
vasti Posit. ingl,; dei dati universali, cioè diffusi su tutto il territorio
del tempo e dello spazio Notiamo pure sotto un'altro punto di vista:
Intelligenza; gli assiomi affermano che
se il primo dato s'incontra in qualche parte e notevolmente nella
natura, il secondo dato non può mancare d'incontrarvisi perchè infatti
un'astrazione realizzata, essendo sussistente per se stessii, non potrebbe
incontrarsi anche fuori della natura In alcuni dei luoghi indicati le cose
astratte e generali non si dicono presenti o assenti – MA SENTI SENTE SONS
REALISSIMVM nelle cose donerete e particorari, ma in altre cose pure
astratte e generali, ma meno delle prime. E in effetto la relazione tra il più
astratto e il meno astratto in cui il primo inerisce, non potrebbe essere
diversa che quella tra l'astratto ed il concreto. Intellig., Posit. ingl., Filos. clas. ecc.
Ripetiamo la stessa osservazione della nota precedente, cioè che nei luoghi
indicati l'autore dice le cose astratte e
generali ineluse o contenute o altre espressioni equivalenti tanto negli
oggetti concreti e particolari quanto in altre cose pure astratte e' ti; che
sono gli elementi, i semplici, i componen<f
, e le cose i composti che ne risultano; ecc. generali ma meno della
prima. Nelle note seguenti ci dispenseremo di ripetere Tosservazione analoga:
basterà di dire ora in generale ohe l'autore si serve, com'è naturale, delle stesse espressioni per
indicare sia la relazione dell'astratto al concreto sia quella del più astratto
al mono astratto di cui il primo si dice ohe è una nota quando si risruardano
come semplici concetti. / filos. class,.: Il tutto è soggetto o sostanza, le
parti sono attributi o qualità. sempre e da per tutto ove si trova, l'attributo
è una qualità, un astratto, una porzione del
soggetto. Questa pietra è pesante, la materia è estesa, questa pianta
vegeta, il sole è brillante; in tutte queste frasi Tattributo è un membro
separato dal soggetto. L'estensione è una porzione del tutto che si chiama
materia; il peso è una porzione del tutto che si chiama pietra; la vegetazione
è una porzione del tutto che si chiama pianta; lo splendore è una porzione del
tutto che si chiama sole. L*Intellig.:
La cifra aritmetica non sostituisce la cosa intera con tutte le sue qualità e
caratteri, ma solamente la sua quantità e il suo numero; sostituisce solamente
qualche cosa dell'oggetti immaginato, cioè a dire un frammento, un estratto: Il
nome generale è astratto HAIRY-COATEDNESS GRICE perchè designa un estratto,
cioè una porzione d'individuo, la quale si ritrova in tutti gl'individui del gruppo esso è generale
percè astratto; convieue a tutta la classe, perchè l'oggetto designato non
essendo che un pezzo, può ritrovarsi in tutti gl'individui della classe. Ecco
una coppia d'una specie nuova la coppia fra il nome SHAGGY e l'astratto
designato HAIRY-COATEDNESS GRICE, poiché il suo secondo tarmine non è un
oirgetto di cui possiamo avere
percezione ed esperienza, cioè a dire un fatto intero e determinato, ma
una porzione di fatto, un frammento ritirato per forza e per arte daltutto
naturale a cui appartiene e senza di cui non potrebbe sussistere fenza di cui
non potrebbe sussistere, perchè le astrazioni realizzate non esistono che nella
natura, per conseguenza, nelle cose concrete. Possiamo noi avere l'esperienza,
percezione Questi elementi non ricevono un'esistenza fittizia daU l'astrazione;
essi esistono per sé stessi, ma nelle cose; ciò vuol dire che ciascun elemento
non esiste solo ma in unione ad altri elementi, insieme ai quali costituisce o
rappresentazione sensibile di questo frammento staccato e isolato? Per ragione
esplicativa s'intende uno o più caratteri del soggetto, inclusi in esso come un
frammento iu un tutto, pivi astratti e
più generali di esso, e che essendo legati èssi stessi all'attributo, legano
l'attributo al soggetto. Ciò torna a dire ohe l'attributo non è legato al
soggetto stesso tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e generali del
soggetto. Un attributo che un soggetto ha comune con un altro soggetto
appartiene a questa porzione del nostro soggetto che si compone di
caratteri presenti in esso e nel secondo
soggetto, cioè a dire comuni all'uno e all'altro, cioè a dire infine generali.
Donde segue pure che appartiene solameute a una porzione del nostro soggetto,
in altri termini a un frammento, a un estratto, a un astratto incluso nel
nostro soggetto. Intellig., Posit. ingl. ecc. Intell.: Del gruppo di caratteri
che costituiscono un corpo terrestre, Newton non ne avea conservato che uno, la
proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva
eliminato il resto. Del gruppo di caratteri che costituiscoro un pianeta egli
non ne avea conservato che uno, la
proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva pure
eliminato il resto. Egli aveva dunque
liberato (degagé) dai
due gruppi una
proprietà asttatta e generale,
più astratta e più generale
che ciascuno di essi,
contenuta in ciascuno
di essi come
una parte iu
un tutto, come un
frammento in un insieme, come un
elemento in una somma. Invece di legare come i suoi predecessori il peso fil
primo gruppo totale, e la tendenza centripeta al secondo gruppo totale, egli
lega il poso e la tendenza centripeta a un elemento che si trova lo stesso nei
due. Per quest'esempio evidente vediamo in che consiste il dato intermediario
che ci fornisce la ragione d'una legge. Essendo dato l'oggetto sottomesso alla legge iiDO dei suoi caratteri, un carattere
compreso nel gruppo iS «lei caratteri che lo costituiscono, un carattere
incluso in esso, più astratto e più generale che esso, in breve un estratto da
estrarre, Se si spiegasse la legge di gravità, si liberprebbe on dégayerait nel
corpo che gravita un carattere più astratto e più generale ancora che la gravitazione.
quest'ultimo carattere esplicativo
avrebbe gli stessi tratti e la stessa situazione che gli altri. Sarebbe dunque
come gli altri una porzione, un elemento, un estratto del precedente, cioè
della proprietà generale dei corpi a cui Newton ha legato la gravitazione, e si
troverebbe come gli altri nel precedente in cui è incluso. Posit. ingl.: Con la
definizione della sfera o di un altro oggetto qualunque si riduce un dato infinitamente complesso a due
elementi. I due attributi che entrano nella definizione sono dunque gli
elementi dell'oggetto definito. Si trasforma il dato sensibile in dati
astratti. Vi ha in fuori della definizione molte maniere di fare riconoscere
l'oggetto. Solameute queste designazioni non sono delle definizioni esse non riducono
la cosa ai suoi fattori, non la ricreano sotto i nostri occhi, non mostrano la sua natura intima e i
suoi elementi irriduttibili,..Vi ha una definizione in ciascuna scienza; ve ne
ha una per ciat^cun oggetto. Noi non la possediamo da per tutto, ma la
cerchiamo da per tutto. Noi fiiamo pervenuti a definire il movimento dei
pianeti per la forza tangenziale e Tattrazione che lo compongono. Noi lavoriamo
a trasformare ciascun gruppo di fenomeni
in alcune leggi, forze o nozioni astratte. Noi ci sforziamo di attingere
in ciascun oggetto gli elementi generatori, come li attingiamo nella sfera. e
in tutti i composti matematici pure Pos. ingl. luoghi citati in note seguenti,
Intellig., ecc. Come gli astratti in generale sono gli elementi delle cose
concrete, così tra gli astratti stessi i più astratti i meno comprensivi sono
gli elementi dei meno astratti i più
comprensivi, iu modo che, decomponendo gli elementi stessi nei loro elementi,
si giunge infine ad elementi primi, indecomponibili. Posit. questi corhposti
ohe si chiamano cose. L'astrazione non fa che considerare ciascun elemento a
parte, cioè solo; sceverandolo dagli altri elementi con cui è unito; essa e
riduzione, che non è che una specie di astrazione ingl. J ir
F//-r////.. Trovate queste coppie d'astratti ohe si cbiaraiano leggi
della Datui*a, noi pratichiamo su loro la stessa operazione che sui fatti cioè
di ridurle ai loro elementi. Quantunque più astratte, esse sono aucora
complesse Esse possono essere decomposte e spiegate. Vi ha luogo per loro come
per i fatti, di cercare gli elementi generatori in cui possono risolversi. e
l'operazione devo continuare sinché si
sia giunti ad elementi assolutamente semplici, cioè tali che la loro
decomposizione sia contradittoria. Vi hanno dunque degli elementi
indecomponibili. Possiamo noi conoscere questi elementi primi? Per mio conto,
io lo penso, e lu ragiene ne è che essendo degli astratti, essi non sono
situati al di fuori dei fatti, ma compresi in essi, in modo che non si ha che a
ritirameli. Ben pili, essendo i
più astratti, cioè i più generali di tutti, non vi hanno fatti che non li
comprendano e da cui non si possa estrarli. Sì limitata che sia la nostra
esperienza, noi possiamo dunque attingerli, ed è secondo quest'osservazione che
i moderni metafisici d'Alemagna hanno tentato le loro grandi costruzioni. Essi
hanno compreso che vi hanno delle nozioni semplici. cioè degli astratti indecomponibili, che le loro combinazioni
generano il resto, e che le regole delle loro unioni o delle lord contrarietà
mutue sono le leggi prime dell'universo. Se qualcuno raccogliesse le tre o
quattro grandi idee a cui mettono capo le nostre scienze, e i tre o quattro
generi d'esistenza ohe riassumono il nostro universo. se in seguito, isolando
gli elementi di questi dati, mostrasse ohe essi
devono combinarsi come sono combinati e non altrimenti; se provasse
infine che non vi hanno altri elementi e che non ve ne possono essere altri,
egli avrebbe abbozzato una metafisica senza usurpare empiéter sulle scienze
positive. pure I filos, class. Prefaz., in cui è ripetuto lo stesso concetto
che nell'ultimo tratto citato aggiungendo ohe tale è l'idea dello natura
esposta da Hegel. Posit. ingl. luogo
citato nella nota seguente, e luoghi citati in una nota seg. di questo
paragrafo e nel paragr., testo. Posit. ingl.: Ogni conoscenza consiste dapprima
a legare o addizionare dei fatti. Ma ciò terminato, una nuova operazione
comincia, la più feconda di tutte e che consiste a decomporre questi dati
complessi in dati semplici. Una facoltà magnifica apparisce. io voglio dire
l'astrazione, che è il potere d'isolare gli elementi dei fatti e di
considerarli a parte. I miei occhi seguono il contorno d'un quadrato, e
l'astrazione ne isola le due proprietà costitutive, l'eguaglianza dei lati e
degli angoli. Le mie dita toccano la superficie d'un cilindro e l'astrazione ne
isola i due elementi generatori, la nozione di rettangolo e la rivoluzione di
questo rettangolo intorno ad uno dei suoi lati
preso come asse Da per tutto altrove è lo stesso. Sempre un fatto o una
serie di fatti può essere risoluto nei suoi componenti. È questa decomposizione
che si reclama allorché si domanda quale è la natura d'un oggetto. Sono questi
componenti che si cercano allorché si vuol penetrare nell'interiore d'un
essere. Sono essi che si designano sotto i nomi di forze, cause cause nel senso
del realismo dialettico, leggi, essenze,
proprietà primitive. Essi non sono un nuovo fatto aggiunto ai primi; ne soao
una porzione, un estratto; sono contenuti essi, non sono altra cosa che i fatti
stessi. Non si passa, scoprendoli, da un dato a un dato dift'erente, ma dallo
stesso allo stesso, dal tutto alla parte, dal composto ai componenti. Non si fa
che vedere la stessa cosa sotto due forme,
prima intera, poi divisa; non si fa che tradurre la stessa idea da una
lingua in una altra, dalla lingua sensibile in lingua astratta. Posit ingl. il
luogo citato nella nota precedente il luogo citato nella nota il luogo che
citeremo nel parag. testo, Intellig., ecc. I fenomeni o oggetti particolari,
essendo composti di elementi astratti, sono delle cose complesse: consistono ad
estrarrCj a ritirare, a staccare, a
separare^ dalle cose questi elementi e le loro coppie che chiamiamo l^ggi
perchè una legge non è, come vedremo, che una coppia di astratti, ad isolarli,
a metterli a parte, a me<terli a nudo, ecc. per la eliminazione o espulsione
o separazione, ecc. degli altri elementi con cui coesistono. Posit, ingl. il
luogo citato nella nota precedente, il luogo citato nella nota, il luogo che citeremo nella nota seguente che citeremo in
una delle note seg.. Intellig, eco. Gli astratti stessi decomponendosi in
elementi più astratti, sono pure complessi
Posit. ingl. il luogo citato nella nota -^o eompostiv. Posti. tngL. il luogo che citeremo
nel paragr.: i meno astratti o meno generali sono pia complessi che i più
astratti o più generati Intellig. Per
conseguenza le cose che noi chiamiamo
reali e le astrazioni in cui osse si risolvono meno le più astratte di tutte
sono dei gruppi o delle riunioni di astratti Intellig. il luogo citato nella
nota, Posit. ingl. luogo che citeremo nella nota seguente, Intellig. un
soggetto distinto, p. e. questo parallelogrammo, o anche il parallelogrammo in
sé, è < una somma o riunione di caratteri >) Intellig. un carattere astratto non si trova che in un caso o individuo particolare
cioè in una compagnia di altri caratteri, ecc. Un fatto è un gruppo fittizio e
un ananasso arbitrario perchè gli elementi, cioè gli astratti, che lo
compongono non sono uniti che accidentalmente Posit. ingl. Un fatto è
ancora Posit. ingl. una sovrapposizione
di leggi perchè una legge è una coppia di astratti, cioè di entità reali, e un
fatto è dovuto al concorso di più leggi.
Intellig. €... separare démiler il tipo reale e costante ohe fa ciascun specie,
ciascun genere, ciascuna famiglia, ciascun ordine, ciascuna classe il tipo si
distingue dalla specie, dal genere, ecc., e li fa per la «uà presenza in tutti
gli individui della specie, del genere, ecc. Intellig. : L'unità di Per
indicare questa operazione, al termine astrazione Taine ne preferisce uno nuovo, castrazione il), perchè il ciascun
mucchio di pietre non è che un carattere generale dell'oggetto, e questo
carattere può essere liberato degagé, ritirato, messo a paite per i processi
ordinari, cioè a dire per mezzo di un nome, e in generale per mezzo di un
segno. Ben più, non ve ne è più facile a mettere a parte, perchè tutti gli
oggetti lo presentano. Inteilig.: Ciascuno di questi limiti, superfìcie, linea o punto, è un carattere del
cori)o, carattere isolato per astrazione, considerato a parte, e di più
generale, cioè comune a molti corpi, o a dir meglio universale; cioè comune a
tutti i corpi. Noi lo stacchiamo e lo notiamo per mezzo di simboli A qnesti
elementi così rappresentati aggiungetene un altro, il movimento; esso s’incontra
pure nella più parte dei corpi che
percepiamo; si può dunque staccamelo. Intellig.: Ecco delle leggi;
ciascuna di esse o<msiste in un? coppia di caratteri generali e astratti che
sono legati. Da un lato questa proprietà d'essere del ferro e d'essere esposto
all'umidità, dall'altro la nascita di questo composto chimico che si chiama
ruggine; da un lato la suprema durezza e dall'altro la proprietà di essere un
cristallo di carbonio puro è visibile
che tutti questi dati sono dei caratteri generali, cioè a dire comuni a un
numero indetìnito d'individui o di casi; che tutti questi dati 8«>no dei
caratteri astratti, cioè degli estratti, considei-ati a parte: l'intermediario
esplicativo cioè la ragione d'una legge si è sempre mostrato a noi come un
carattere o una somma di caratteri inclusi nel primo dato della coppia cioè
della legge, più generali di esso se si
considerano a parte, accessibili alle nostre prese poiché sono compresi in esso,
e separabili da esso per i nostri processi ordinari di isolamento e di
estrazione Una volta che, l'intermediario è separato démclé e rappresentato
nello spirito da un'idea corrispondente, si fa in noi un lavoro intensivo che
si chiama dimostrazione. I filos. class. Prefaz.: Ma allo stesso tempo se ne può concludere contro i
positivisti che le cause npn sono un mondo misterioso e inacessibile. che esse
si riducimo a delle leggi, tipi o qualità dominanti. primo, per l'uno che uè fa
il concettualismo, ha perduto il significato suggerito dalla sua etimologia,
cioè di trai -fuori dagli oggetti qualche cosa che già esisteva in essi. Così
egli chiama lo cose generali degli estratti, ohe possono esaere osservate direttatnente e in
se stesse, che sono racchiuse negli oggetti, che pertanto si può estrarnele,
che le primo avendo la stessa natura delle ultime possono essere come le ultime
separate dégagées per astrazione dai fatti che le contengono, ohe l'assioma
primitivo cioè la coppia di astratti piti generale è compreso in ciascun
avvenimento che esso causa, come la legge del peso è compresa in ciascun
avvenimento che essa produce le cause sono per Taine, come spiegheremo in
seguito, gli aBtratti e le loro coppie. / filos. class.: Io ho tracciato un
triangolo particolare, determinato,
contingente, peribile, A B C, le astrazioni realizzate sono generali,
indeterminate, necessarie, eterne per fermare la mia immaginazione e precisare
le mie idee. Io ho estratto da esso il
triangolo in generale; perciò non ho considerato in esso ohe delle proprietà
comuni a tutti i triangoli e non ho fatto su di esso che delle OO' struzioni
che potrebbero convenire a tutti i triangoli. Analizzando queste proprietà
generali e queste costruzioni generali, io ne ho estratto una verità o rapporto
univerale e necessario l'eguaglianza degli angoli a due retti. Io ho ritirato
il triangolo generale compreso nel
triangolo particolare; ciò ohe è un*astrazione. Io ho ritirato un rapporto
universale e necessario contenuto nelle proprietà generali della costruzione
generale; ciò che è ancora un'astrazione. Posit, ingl,: in questa operazione
l'astrazione, che è evidentemente fruttuosa, invece di andare da un fatto ad un
altro, si va dallo stesso allo stesso; invece di aggiungere un'esperienza a un'esperienza, si mette a
parte qualche porzione della prima» Posit, ingl.: Resta l'induzione, che sembra
il trionfo della pura esperienza. Ed è appunto l'induzione che è il trionfo
dell'astrazione. Quando io scopro per induzione che il freddo causa la rugiada,
o ohe il passaggio dallo stato liquido allo stato solido produce la cristiiUizzazione,
io stabilisco un rapporto tra due
astratti. Nò il freddo, né la rugiada, né il passaggio dallo stato
liquido allo stato solido, né la oristalizzazione non esistono in sé vale a
dire isolatamente. Sono delle porzioni di fenomeni, degli estratti di casi
complessi, degli elementi semplici racchiusi in insiemi più composti. Io ne li
ritiro e li isolo; isolo la rugiada presa in generale da tutte le rugiade
locali. temporanee, particolari, ohe io
posso osservare; isolo il freddo preso in generale da tutti i freddi speciali,
variati, distinti, ohe possono prodursi fra tutte le differenze di tessitura,
tutte le diversità di sostanza, tutte le ineguaglianze di temperatura, tutte le
oomplicazioni di circostanze. Io cougiungo un antecedente astratto con un
conseguente astratto, e li congiungo, come mostra lo stesso Mill, per mezzo di
separazioni, di soppressioni, di
eliminazioni. Io espello dai due gruppi che li contengono tutte le circostanze
adiacenti; distinguo démélej la coppia nell'accerchiamento che 1'offusca;
stacco, per una serie di comparazioni e di esperienze, tutti gli accidenti
parassiti che si sono incollati con essa, e tiniseo così per metterla a nudo.
Io ho l'aria di considerare venti casi differenti, e nel fondo non ne considero che uno solo; ho l'aria di procedere f>er addizione, e
insomma non opero che per sottrazione. Tutti i processi dell'induzione sono
dunque dei mezzi di astrarre, e tutte le opere dell'induzione sono dunque dei
legami di astratti. Intellig.: Tutti questi metodi i metodi induttivi di Mill
hanno ricorso allo stesso artifizio, che è l'eliminazione o Tesolusione dei
caratteri che non sono il carattere
cercato. Sia un carattere conosciuto; esso è accompagnato, seguito e proceduto
da dieci altri. Quale o quali di questi dieci sono legati alla sua presenza, in
modo che la sua presenza basti perché essi siano dati come compagni,
antecedenti e conseguenti \ Tutta la difiìcoltà e tutta la scoverta sono lì.
Per risolvere la difficoltà e per operare la sooverta, bisogna eliminare,
cioè escludere, fra i dieci quelli ohe
non sono legati di questa maniera alla^ua presenza. Ma siccome effettivamente
non si può esoluderli, e ni'lla natura il carattere cercato è sempre annegato
in una folla d'altri, si riuniscono dei casi che, per la loro (laudo a questo
termiue uu siguitìcato pressocliè identico a quelli di porzione o di frammento:
estratto equivale al fondo ad astratto, ma indica che quest'astratto esiste già nelle cose, e
l'astrazione non fa che considerarlo isolatamente. Quando Taine parla di
astrazione, egli non dà a questo termine o ai termini analoghi il significato
ordinario, percliè egli non ammette delle idee astratte diversità, autorizzano
lo spinto a espellere questa folla. Si cercano degl'indizi che ci permettano di
distinguere il carattere cercato e i caratteri
parassiti L'espulsione fatta, non resta d'innanzi a noi che il carattere
cercato a. Intellig. luogo citato nella
nota, Intellig., e Posit. ingl.^luo;^hi citati nella nota.Pt>»i<. ingl.
luogo citato nella nota, Posit. ingl., Mlo8. class. InteUig., Intellig. ecc.
Posit. inni. e Intellig. citati in nota,
Int . e Filos. class. citati nella nota prec), Int., ecc. Intellig. Se
iu questo fascio di caratteri, la cui persistenza fa l'individuo si omettono tutti i tratti
personali, il residuo è la razza, vale a dire un carattere presente in
quest'individuo e in molti altri. Un estratto di questo residuo è la specie,
vale a dire un carattere presente in molte razze. Un estratto di quetto
estratto è il genere, vale a dire un carattere i)re8ente in molte specie; e
così di seguito A questi estratti o residui, presenti in molti punti del tempo e dello spazio, corrispondono in noi
dei pensieri d'una specie distinta e che noi chiamiamo idee generali e
astratte. a. Inietlig., citati, Intellig., citato, Posit., citato, PosH. ingl.
e Intell., citati nella n. penult. e Intell, ecc. né quindi una facoltà di
astrarre, ma semplicemente, come abbiamo visto, dei nomi generali e
un'associazione di questi nomi con le cose generali. Questa è un'altra prova
che dimostra che tutte le espressioni con cui egli attribuisce agli astratti
un'esistenza isolata, cioè per sé, devono prendersi nel senso più rigoroso,
perché questa esistenza isolata non avendola, secondo lui, nel nostra pensiero,
non potrebbero averla altrove che nella realtà. Per denotare le sue astrazioni
realizzate Taine aggiunge, come Platone, al nome della classe
corrispondente dellé^ parole indicanti
che il carattere o gruppo di caratteri, che, secondo lui, è il vero oggetto
designato da un nome di classe THE ONE-AT-A-TIME HAIRY-COATED THING, THE
ALTOGETHER HAIRTY-COATED THING, deve considerarsi come esistente per set stesso
separatamente dagli altri caratteri con cui è unito nei diversi individui della
classe: egli dice, p. e. il poligono puro, l'albero in generale, il miriagono
intelligibile opposto al miriagono sensibile, l'unità para o astratta opposta
al dito o al sasso visibile, il triangolo astratto, il ferro in sè, il
parallelogrammo in sè', il triangolo generale, ecc. si noti l'analogia con le
espressioni platoniche; il poligono puro, l'albero in generale, ecc. significa:
il gruppo dei caratteri comuni a tutti i poligoni, Intellig. Intellig.: Noi
poniamo da un lato il miriagono intelligibile e l'idea precisa che gli
corrisponde, dall'altro il miriagono sensibile e l'immagine confusa che gli
corrisponde. Intellig. Intellig, Intellig.: La stessa analisi, se invece di un
soggetto individuale, come questa goccia di pioggia o questo parallelogrammo,
si considera un soggetto più o meno generale, come il 4)ar^llelogrammo in
sé o l'acqua in generale. Pilos. class.
nota. • i -a tutti gli alberi, ecc,
esistente per se stesso, seuza i caratteri particolari a questo o a quel
poligono, a questo o quell'albero, ecc. 11 poligono puro, l'albero in generale,
ecc. è uno in se stesso, presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi e
senza dividersi, in tutti i poligoni particolari, in tutti gli alberi, ecc. Noi
abbiamo visto infatti che a un'idea o a
un nome generale corrisponde, secondo Taine, una cosa generale ricordiamo
cL'egli suole contrapporre le cose generali e gl'individui e una cosa astratta
è allo stesso tempo per lui una cosa generale, p. e. il triangolo astratto, il
freddo e la rugiada isolati, il poligono puro jcioè astratto o isolato, il
parallelogrammo in sé cioè Ancora astratto o isolato equivalgono al triangolo
gene Int.: Il poliv:ouo puro è una
figura a molti lati senza che questi lati facciano un numero eioè quattr«s
cinque, sei, ecc.; ciò che esclude ogni esperienza e rappresentazione sensibile
l'albero in generale ha un'altezza, un fusto, delle foglie, senza avere tale
altezza, tal fusto, tali foglie. Scmgi di crii, e di stor, Prefcus. luogo
citato nella nota, Intellig, citato citato nella noti citato nella nota citato nella nota, ecc. P. e., indipendentemente dai
luoghi citati, neWIìUellig,, Un miriagono è un poligono di dieci mila lati.
Impossìbile d'immaginarlo, anche colorato e particolare, a più forte ragione
generale e astratto per provare che il vero oggetto designato da un nome
generale è irrapresentabile;\ La tabella e il punto e la linea segnati in essa
con la matita sono delle cose sensibili e
partiscolari, ma che sostituiscono dei limiti assolutamente astratti e
generali cioè la supertìcie in se, la linea in se e il punto tu sè. a. Filos,
class, il luogo citato Intellig, citato nella nota rale(ì)fS.\ freddo e alla
rugiada prm in generale, al poligono in generale, al parallelogrammo soggetto
generale; ciò implica che vi è una sola entità astratta per tutti gl'individui
del genere, e non altrettante quanti vi
sono individui. Che più soggetti hanno lo stesso attributo, significa che la
stessa entità astratta, eadem nti^ mero, è presente allo stesso tempo, pur
restando una e la stessa, in molti soggetti distinti; le entità astratte V.
nios. class,, cit. nella nota. Posit, ingl, nella nota Intellig., cit. nella
nota. Intellig., nella nota Intellig.: Osserviamo dunque una serie di oggetti o
d'avvenimenti, avendo cura di non
considerare in ciascuna di essi che la sua capacità d'entrare come componente
in una collezione. Perciò omettiamo di partito preso tutti i suoi altri
caratteri; dopo questa separazione, una fila di pioppi, un seguito di suoni,
ogni altra fila o seguito cessa di essere una fila di pioppi, un seguito di
suoni, un seguito o fila di oggetti o di avvenimenti determinati; essa non
è più che un seguito, fila o serie di
uni o di unità. Ora. a questo punto di vista, tutti gli uni sona lo stesso uno
e tutte le serie di uni sono la stessa serie; perchè i caratteri che
distinguono gli individui gli uni dagli altri e le serie le une dalle altre
essendo stati esclusi, gl'individui non possono essere più distinti gli uni
dagli altri, e le serie non possono essere più distinte le une dalle altre.
Ecco come dimostra gli assiomi che se a
due grandezze eguali si aggiungono due grandezze eguali le somme sono eguali, e
se da due grandezze eguali si tolgono due grandezze eguali i resti sono eguali:
Intellig. Sia una collezione d'individui simili, tal gregge di montoni, o una
collezione d'unità astratte, tal gruppo mentale d'unità pure, figurate agli
occhi per mezzo d'uno stessio segno
tracciato più volte. compariamo una di queste collezioni con un'altra
collezione analoga, e facciamo corrispondere, col pensieso o altrimenti, un
primo oggetto della pri 94 «queste creatrici immortali sono «sole stabiliti a
traverso riiifìnità del tempo che spiega e distrugge le loro ma con un primo
oggetto della seconda, un secondo con un secondo, e così di seguito, sinché una
delle due sia esaurita. Due oasi si
presentano Ovvero le due collezioni sono esaurite insieme; allora il numero dei
montoni è lo stesso nel primo e nel secondo gregge, il numero delle unità è lo
slesso nel primo e nel secondo gruppo, nel qual caso si dice ohe le due
grandezze sono eguali. Eguaglianza significa dunque presema dello slesso
numero. Ovvero Tuna delle due collezioni è esaurita avanti l'altra; allora il numero dei montoni è
differente nel primo e nel secondo gregge; il numero delle unità è differente
nel primo e nel secondo gruppo; in questo caso si dice ohe le due grandezze
sono ineguali Ineguaglianza significa dunque presema di due numeri differenti
Questa frase e quella corrispondente suU'efiCuaglianza sono state scritte da
me; le altre parole, sia nel tratto precedente
che in quello che segue, dallo stesso autore. La parola stesso è scritta
per indicare che deve intendersi nel senso più rigoroso possibile. Ora per
questa sorta di grandezze noi possiamo provare l'assioma il primo. Siano due
grandezze eguali a cui si aggiungono delle grandezze eguali. Secondo l'analisi
precedente, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero
d'individui o d'unità, ohe le se ne
aggiunge un certo numero, che la seconda contiene lo stesso numero d'individui
o d'unità che la prima, ohe le se ne aggiunge lo stesso numero che alla prima,
che nei due oasi lo stesso numero è aggiunto allo stesso numero, e che pertanto
le due collezioni finali contengono lo stesso numero aggiunto allo stesso numero,
vale a diro lo stesso numero totale d'individui
o d'unità, donde segue, secondo la definizione eguaglianza significa
eoo. ohe le due somme o grandezze finali sono delle grandezze eguali. Come ho
osservato nel Saggio ì. questa dimostrazione suppone ohe per lo stesso numero
s'intenda uu numero astratto, un'entità, ohe, una in se stessa, sia presente
allo stesso tempo in tutte le collezioni ohe perciò oi appariscono
uumerioamente eguali. Se la parola stesso non dovesse intendersi in questo
senso stretto, essa si • opere, sole indivisibili a traverso l'infinità
dell'estensione, che disperde e moltiplica
i loro effetti; quando scognitìoherebbe eguale, e allora la pretesa
dimostrazione non sarebbe ohe la più aperta petizione di principio. La stessa
osservazione vale per la dimostrazione seguente dell'altro assioma. Similmente,
siano due grandezze eguali, da cui si tolgono due grandezze eguali: secondo la
stessa analisi, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero
d'individui o d'unità, che le se ne
toglie un certo numero, ohe la seconda contiene lo sfesso numero d'individui o
d'unità che la prima, che le se ne toglie lo stesso numero ohe alla pi ima, in
modo che nei due casi lo stesso numero è diminuito dello stesso numero, e che,
pertanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero diminuito dello
stesso numero, vale a dire lo stesso numero restante d'individui o d'unità;
donde segue ancora secondo la definizione, ohe i due resti o grandezze finali
sono delle grandezze eguali. Dalle grandezze artificiali passiamo alle
grandezze naturali. Qui l'autore passa a dimostrare gli assiomi per le
grandezze geometriche, come sopra ha fatto perle aritmetiche: omettiamo questo
tratto, perperchè non è una prova diretta di ciò che abbiamo asserito nel testo. Che il lettore prenda la pena
d'esaminare l'artificio di questa prova di tutta la dimostrazione. Per il
pensiero, e con la confermazione ausiliaria dei fatti sensibili, noi facciamo
corrispondere, membro a membro, due grandezze artificiali cioè due collezioni
di unità, o facciamo coincidere, elemento ad elemento, due grandezze naturali
due grandezze geometriche ciò si riferisce alla parte omessa; se questa
corrispondenza o questa coincidenza sono assolute, l'idea d'eguaglianza nasce
in noi. Noi veniamo di assistere alla sua nascita, e scorgiamo il suo fondo;
essa racchiude un elemento più semplice, e si riduce all'idea dello stesso; in
effetto, a un certo punto di vista, omissione fatta di ciò ohe bisogna omettere
cioè astraendo dagli altri elementi differenti dalla quantità le due grandezze divengono la stessa.
Per conseguenza, al punto di vista inverso, addizione fatta di ciò ohe bisogna
aggiungere cioè unendo alla quantità altri elementi |Ì»i««M^^™»iÌ»l*«IMMii
^liiPMiBMMWIiaiBMiilMii»* WP^M»^ÌÌI^ÌiMÌMiM^^ ^^ prianio una legge per mezzo
d'un'induzioue, abbiamo Parìa di coDsiderare venti casi digerenti, ma in realtà
non ne diiferenti da essa la stessa
grandezza si trasforma ili due grandezze egriea/t. Togliete alle due graudezze
i loro tratti distiutivi, alle due grandezze artificiali eguali la proprietà
d'appartenere a due collezioni distinte, alle due grandezze naturali eguali la
proprietà di avere delle posizioni distinte; esse divengono la stessa gran»dezza.
Reciprocamente, prendete due volte la stessa grandezza, e attaccatela volta per
volta a due collezioni distinte o a due posizioni distinte; essa si
trasformermerà in due grandezze eguali. Ecco ora la dimostrazione deWassioma
che ogni fatto o legge ha una ragione esplicativa. Dopo il tratto citato nella
nota In» tellig., ohe io prego il lettore di rileggere l'autore continua: Per
dimostrare questa proposizione cioè che un attributo pili generale del soggetto
non è legato al soggetto tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e
generali del soggetto, analizziamo a vicenda l'attributo e il soggetto. Noi
abbiamo detto che l'attributo SHAGGY essendo piil generale del soggetto FIDO è
comune al soggetto e ad altri. Ciò significa che esso è lo stesso nel soggetto
e in altri La parola strsso qui e nel seguito ò neritta così nel libro stesso di
Taine. Cosi la caduta, la struttura chimica, il peso sono gli stessi nella
nostra goccia di pioggia e nelle sue vicine. Così Tegunglianza dei lati opposti
è la stessa in questo parallelogrammo e in tutti i parallelogrammi, nel
parallelogrammo ad angoli retti e nel parallelogrammo i cui angoli non sono
retti. Pertanto dire che il soggetto FIDUS possiede un attributo HIRSUTUS
comune ad esso e ad altri, è dire che altTi soggetti, reali o possibili,
possiedono \o stesso attributo che esso. L'eguaglianza dei lati opposti h la stessa nel mio parallelogrammo e in quest'altro; la
struttura chimica è la stessa nella mia goccia di pioggia e in quest'altra. In
altri termini presa in sé, omissione e soppressione fatta dei soggetti distinti
in cui risiede, l'eguaglianza dei lati opposti del mio parallelogrammo si
confonde con 1'eguaglianza dei lati opposti dell'altro, e la struttura chimica
della mia goccia di pioggia si confonde con la struttura chimica dell'altra,
come tal triangolo, staccato dal consideriamo ebe un solo perchè è la stessa
legge, cioè la stessa coppia di entità astratte, che si manifesta in tutti
posto che occupa, e trasportato per sovrapposizione su tale altro, coincide e
si confonde assolutamente con esso In una parola, ciascuna di queste due entità
astratte, eguaglianza dei lati opposti e struttura chimica d*una goccia di
pioggia, è una sola e stessa cosa, presente l'una in tutti i parallelogrammi e
1'altra in tutte le gocce di pioggia. Ora consideriamo il soggetto. Ciò che noi
chiamiamo un soggetto, un soggetto distinto, è una somma o riunione di
caratteri che non si ritrovano tutti e rigorosamente gli stessi in alcun altro,
per quanto simile s'immagini. Questa goccia di pioggia, anche se le'si suppone
una forma, un volume, una temperatura, una struttura interna esattamente le
stesse che alla sua vicina o alla seguente, possiede inoltre dei caratteri che
non possiede né la sua vicina né la seguente, cicè la sua situazione nel tempo
rapporto ai suoi precedenti e nello spazio rapporto ai suoi dintorni. La stessa
analisi se invece di un soggetto individuale, come questa goccia di pioggia o
questo parallelogrammo, si considera un soggetto più o meno generale, come il
parallelogrammo in sé o l'acqua in generale l'acqua comparata al mercurio, come
il parallelogrammo comparato all'esagono regolare, è un soggetto distinto, che,
essendo distinto, possiede forzatamente, come questa goccia di pioggia, uno o
più caratteri per cui si distiqgue da ogni altro soggetto più o meno simile a
cui é comparato Eccoci giunti a questa conclusione che il nostro soggetto
essendo distinto da un altro soggetto non è lo stesso GRICE WIGGINS SAMENESS
SUBSTANCE e possiede STRAWSON INDIVIDUALS nondimeno lo slesso attributo.
Rimpiazziamo i termini per la loro detlnizioue. Soggetto distinto significa
somma o riunione di caratteri di cui uno o alcuni sono assenti nell'altro
soggetto; è a questa somma o riunione che direttamente o indirettamente l'attributo
appartiene. Di là tre ipotesi, e tre ipotesi solamente. Ovvero l'attributo
appartiene direttamente alla somma dei caratteri riuniti; ovvero le appartiene
indirettamente, sia appartenendo a questa porzione della somma che si compone
dei 7 questi casi. Ogni carattere o gruppo dì caratteri, comune ad una classe,
è uno come un individuo o un avcaratteri assenti nell'altro soggetto INTERSOGGETIVO,
sia appparteueudo all'altra porzione. Ora le due prime ipotesi sono
contraddittorie. In effetto, da una parte, l'attributo SHAGGY non può
appartenere alla porzione delU somma che si compone dei caratteri assenti nel
scondo soggetto CATONE CICERONE; perchè allora non apparterrebbe al secondo
soggetto, poiché questi caratteri vi mancano; ora, per definizione, gli
appartiene. D'altra parte, l'attributo non può appartenere alla somma dei
caratteri riuniti; perchè, allora non apparterrebbe al secondo soggetto, poiché
questa riunione vi manca; ora, per definizione, gli appartiene. Queste due
supposizicmi essendo escluse, non resta che la terza. Donde segue che
l'attributo HAIRY-COATEDNESS BEATO
appartiene a questa porziimc del nostro soggetto che si compone di
caratteri presenti in ess<» e nel secondo soggetto CATONE, cioè comuni
all'uno e all'altro, cioè infine generali. Donde segue pure che appartiene
solamente a una porzione del nostro soggetto, in altri termini a un frammento,
a un estratto, a un astratto incluso nel nostro soggetto CICERONE E BEATO O
FELICE; ciò che si doveva dimostrare. Ripeterò l'osservazione fatta nel Saggio
Questa dimostrazione suppone che un attributo generale FELICE, cioè comune a molti
soggetti distinti CICERONE CATONE, sia un'entità unica, presente allo stesso
tempo in tutti questi soggetti distinti SMITH’S DOG, WILLIAMS’S DOG, JONES’S
DOG. Perchè infatti le due prime ipotesi cioè che l'attributo appartiene alla
somma dei caratteri riuniti di uno dei due soggetti CICERONE CATONE, o che
appartiene alla porzione di questa somma phe si compone dei caratteri assenti
nell'altro soggetto CATONE sono, secondo l'autore, contraddittorie Perchè lo
stesso attributo FELICE non potrebbe appartenere una volta alla somma dei
caratteri riuniti del primo soggetto CICERONE, e un'altra volta alla somma dei
caratteri riuniti del secondo soggetto CATONE I ovvero in un caso ai caratteri
differenziali del primo soggetto CICERONE, e nell'altro caso ai caratteri
differenziali del secondo soggetto CATONE Perchè si suppone che quest'attributo
FELICE è un'entità unica, eadem numero, e che per conseguenza sarebbe
impossibile che appartenesse simultaneamente a più cose, o meglio a più entità,
distinte, come per servirmi di una comparazione venimento particolare; non
differisce da essi che per la sua stabilità e la sua diffusione in molti
soggetti distinti. CICERONE CATONE È perciò che non vi ha niente di
sorprendente se si trovano a un carattere generale dei compagni, dei precursori
e dei successori, come se ne trovano a un individuo particolare o a un
avvenimento momentaneo. Ciascuno dei caratteri generali essendo uno come
ciascuno degl'individui e degli avvenimenti particolari, noi dobvolgare,
sarebbe impossibile che la nlessa moneta, eadem numero, si trovasse
simultaneamente nella mia tasca e nella vostra. Per mezzo dell'assioma
dimostrato della ragione esplicativa l'autore dimostra il principio
dell'induzione cioè che un carattere generale indicai sempre la presenza d'un
altro carattere generale a cui è legato. Riportiamo anche questa dimostrazione:
Un carattere generale è un attributo, lo stesso in molti soggetti distinti.
Ora, secondo l'assioma della msrioHc cs/^/ica^im;, esso appartiene, non
direttamente a tale o tal soggetto distinto, ma indirettamente a tutti per
Vintermediario di tuia ijorz ione che loro e comune, e che, a questo titolo, ò
un carattere generale; dimodoché esso suppone la presenza d'un altro carattere
generale a cui appartiene; così la sua presenza basta per garentiroi la
presenza di quest'altro. Di più.
(luest'altro a cui esso appartiene è generale; in altri termini ceso gli
appartiene in non imposta qual soggetto, qual ambiente, qual luego, guai momento; in altri termini ancora la presenza
di quest'altro basta per trascinare e pertanto per garentirci la sua presenza.
Così, in generale la presenza dell'uno, quello che ci è già conosciuto, basta
per garentirci la presenza dell'altro,
quello che ci è ancora sconosciuto e che cerchiamo di riconoscere demélerj Intellig,, lo devo avvertire il lettore che
l'ultimo tratto citato e quello precedente cioè la dimostrazione dell'assioma
della ragione esplicativa sono stati soppressi e sostituiti da altri nella 4.
edizione. Filos, class. Posit. ingl. I, citato nella nota. bianio attenderci a
trovare a quelli, come a questi, dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti,
delle particolarità, delle proprietà personali. Se la narura è sottoposta a
leggi generali, se vi hanno delle sequenze e delle coesistenze costanti tra i
fenomeni fatto che dovrebbe sorprenderci, perchè noi possiamo immaginare
benissimo uu mondo assolutamente caotico, senza alcun ordine, senza alcuna
legge, ciò è perchè vi hanno delle coppie
di entità astratte, vale a dire certe entità astratte sono in un
rapporto di sequenza o di coesistenza con certe altre: ogni entità astratta
essendo una in se stessa ed essendo presente in tutta una classe di cose o di
fenomeni, se essa è accoppiata con un'altra entità astratta pure una in sé
stessa e suscettibile di essere presente in tutta una classe di cose o di
fenomeni, ne seguirà che dapertutto ove
si troverà la prima si troverà necessariamente anche la seconda con cui essa è
acccoppiaia, e la coppia di entità astratte, presente in un'intìnità di coppie
di esistenze fenomenali, ci apparirà come una sequenza o coesistenza uniforme,
una legge, di fenomeni. Se ogni uomo è mortale, se questa legge non soffre
alcuna eccezione, è perchè l'uomo astratto è unito alla mortalità astratta,
e ijlt conseguenza da pn* tutto dove si
troverà il primo, porterà con sé la seconda; se riscaldando i metalli essi
costantemente si dilatano, è perche il riscaldamento <lel metallo in sé stesso cioè astratto è
unito alla dilatazione del metallo in sé stessa cioè astratta, e per
conseguenza dapertutto dove sarà presente il primo trascinerà con se la seconda;
una legge della natura è dunque una còppia di astratti, o piuttosto il suo
fenomeno; l'Intellig. luogo obe riporteremo nella nota Heguente. della coppia
apparisce come uniformità di rapporti tra fenomeni, come l'unità di ciascun
astratto, isolatamente considerato, apparisce come uniformità di fenomeni,
isolatamente considerati, cioè come identità specifica, geoerica, ecc. Come gli
altri realisti dialettici, Taine lìitcllif/. vi
hanno dei caratteri comuni la cui presenza moltiplicala e ripetuta lega
tra loro i diversi individui della classe. Questi caratteri sono la porzione uniforme
e fissa dell'esistenza dispersa e successiva, e ciò solo basterebbe a far
comprendere l'interesse che abbiamo a separarli les dcgaf/cr ed apprenderli. Ma
la loro importanz:i, si fa notare ancora meglio per un altro tratto. Non siamo
noi che li creiamo per la comodità del
nostro pensiero; non sono dei semplici mezzi di classare, degli strumenti di
mneraotecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi. e spesso ben al di
là della corta portata dei nostri sensi e delle nostre congetture; ma ancora
essi sono efficaci, l ciascuno di loro, per sé stesso e per sé solo, ne
trascina con sé un altro che è il suo compagno, il suo antecedente o il suo conseguente, e fa con esso una
coppia che si chiama una legge. i caratteri generali sono, non solo gli
abitanti più diffusi, ma anche gli attori piii importanti della natura; oltre
il più largo posto, essi hanno sulla
scena dell'essere la prima parte e la più decisiva azione Cfr GRICE FIRRT ROW ON StAGE. Intellig: Per
certe classi l'idea generale acquisita corrisponde a una cosa efì'ettivamente generale, cioè a un gruppo di
caratteri che si trascinano o tendono a trascinarsi l'un l'altro, quali si
iiiano gl'individui e le circostanze in cui l'uno di essi è dato, : v Nella
natura i caratteri generali non sono staccati gli uni dagli altri; qualunque
sia quello che noi abbiamo notato, non manchiamo mai di trovarlo legato a
qualche altro. Difatti l'uno trascina l'altro o almeno tende a trascinarlo. Ora è il primo che
trascina il secondo, ora è il secondo che trascina il primo, ora è
<>ia8Cuuo di essi che trascina l'altro. In tutti questi casi i due
caratteri formano una coppia, e questa coppia si chiama una legge: un
carattere, preso a parte, ha un'influenza; per sé riguarda le astrazioni
realizzate come le cause delle cose e al tempo stesso come la sola realtà. Le
cause dei stesso e per sé solo, ne
trascina qualche altro contemporaneo, antecedente o conseguente; basta che esso
sia dato, perchè uno o più altri siano dati: Nel metodo induttivo che Mill
chiama di differenza, si prendono due casi, il primo in cui il carattere
conosciuto il primo termine della ooppia è dato, il secondo in cui non è dato.
Poiché per la sua sola presenza, esso il carattere conosciuto ne introduce un altro sconosciuto, quando
sarà assente non Tintrodurrà; quest'altro ohe avrebbe introdotto mancherà, e,
per tanto, non si troverà nel secondo caso: qualunque siano i due caratteri,
simultanei o successivi, momentanei o permanenti, il legame per cui il primo
trascina, provoca o suppone il secondo come contemporaneo, conseguente o
antecedente, non è che una particolarità
del primo considerato solo e a parte. S'intende per ciò ch'esso ha. per
se stesso, la proprietà d'essere accompagnato, seguito o preceduto dall'altro;
ecco tutto. In altri termini, basta che esso esista perchè l'altro sia il suo
compagno, il suo precursore o il suo successore. Dacché esso è dato,
aloun'altra condizione non è richiesta; le circostanze possono essere
qualunque, ciò non importa. Che esso sia dato in tale o tale individuo, con
tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal luogo o momento, ciò è indifferente; la
proprietò che esso ha non dipende né dalle circostanze. né dall'individuo, nò
dal gruppo circostante degli altri caratteri, né dal luogo né dal momento;
preso a parte e in se stesso, isolato per l'astrazione, estratto dai diversi
ambienti in cui si trova, esso possiede
questa proprietà. È perciò che in qualunque ambiente venga trasportato,
esso la conserva con sé. Se la ha sempre e da per tutto, è perchè la ha da sé
stesso e per sé solo; se la ha senza eccezione, è perchè la ha senza
condizioae. Se tutti i triangoli ra'^chiudono una somma di angoli uguale a due
retti, è perchè il triangolo astratto ha la proprietà di racchiudere una somma
di angoli uguale a due retti. Se tutti i
pezzi di ferro sottoposti all'umidità si arruginiscono, è perchè il ferro preso
a fatti particolari sodo i fatti
generali, cioè le leggi, da cui si deducono, o in altri termini, i dati
complessi parte, in se stesso cioè il ferro in sé, il ferro astratto, e
sottoposto all'umidità presa a parte, in se stessa all'umidità astratta,
possiede la proprietà di arruginirsi. Se la legge è universale, è perché essa è astratta. Niente di
sorprendente in questa costituzione delle cose. Non è più strano di trovare dei
compagni, dei precursori e dei successori a un carattere generale che di
trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Senza
dubbio, nello sparpagliamento infinito e il flusso irrimediabile dell'essere, questa
sorta di caratteri sono i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre
gli stessi; ma essi non esistono in fuori degl'individui e degli avvenimenti
come voleva Platone interi)retato alla maniera ordinaria, né in un mondo altro
che il nostro; perchè essi sono i caratteri degli avvenimenti e degl'individui
che compongono il nostro mondo. Come gì' individui e gli avvenimenti, essi sono
delle forme dell'esistenza, e non
differiscono dagl'individui e dagli avvenimenti che perchè sono delle
forme più stabili e più diffuse. A questo titolo, noi dobbiamo attenderci a
trovare anche ad essi dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti, delle
particolarità, delle proprietà personali, e per riuscirvi, non si ha che ad
osservarli per se stessi e a parte. È appunto in ciò che consiste la
difficoltà. Perchè come osservare a
parte un carattere che, essendo un estratto, non s'incontra e non può
incontrarsi che in un caso o individuo particolare, vale a dire in una
compagnia di altri caratteri? Come fare per istudiare nella natura il ferro in
se esposto slW umidità in generale, e per costatare che, in questo stato di
astrazione, esso ha per conseguenza la ruggine in generale? Come fare per
separare deméler il triangolo astratto che non è né scaleno né isoscele né
rettangolo, per misurare i suoi angoli astratti che non sono né eguali né
ineguali, e per costatare che, iu questo stato strano, la loro somma è uguale a
due retti? L'autore mostra che gli artifici del metodo induttivo e del
deduttivo sono destinati a risolvere dell'esperienza hanno per cause gli
elementi semplici, cioè ffli astratti, in cui si risolvono; Vastrazione e la facoltà di
scoprire i principii; la sorgente degli «sseri è un sistema di lesrgi cioè di
coppie di astratti; questa dilfiooltà: Quando tra due dati possibili o reali
abbiamo costatato un legame, accade spesso che questo legame si spieghi, e
possiamo allora, non solo affermare che i due dati sono legati, ma anche dire
perchè sono legati. Tra i due dati ohe lanuo coppia, se uè trova un altro intermediario che,
essendo legato da uua parte al primo e da un'altra parte al secondo, provoca
per la sua presenza il legame del secondo e del primo. Niente di più importante
che questo dato intermediario, poiché è esso ohe, per la sua inserzione fra i
due dati, li salda in una coppia Bisocrna cercare in che esso consiste. Vi ha
già un caso in cui sapphimo tutto ciò,
quello degli oggetti individuali sottoposti a a leggi conosciute. Per
esempio. Pietro è mortale, queste due rette traacciate su questa tabella e
perpendicolari a una terza sono parallele: ecco delle coppie di dati in cui il
primo membro è un oggetto individuale, particolare, determinato, non generale.
Di più questi oggetti sono sottoposti a leggi conosciute; nm sappiamo che tutti
gli uomini, nel numero dei quali è
Pietro, sono mortali, che tutte le rette perpendicolari a una terza, nel numero
delle quali sono le nostre due rette, sono parallele. Ora, in questo caso,
rintermediario esplicativo che lega all'oggetto individuale la proprietà
enunciata è il primo termine d'una legge generale: se Pietro è mortale, è
perchè è uomo, e ogni uomo è mortale; se le nostre due rette sono parallele, è perchè sono perpendicolari a una
terza, e tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Ma uomo è un
carattere incluso in Pietro, estratto da lui, più generale che lui; similmente
perpendicolari a una tersa è un carattere incluso nelle nostre due linee, estratto
da esse, più generale che esse. Donde si vede che, nel caso degli oggetti
individuali sottoposti a leggi conosciute,
1 intermediario che lega a ciascun oggetto la proprietà enunciata è un
carattere incluso in esso, più astratto e più generale di esso, comune ad esso
e ad altri analoghi, e ohe, trascinando per la sua presenza la proprietà
enunciata, la porta con se in ciascuno degVindividui a cui appartiene. L'autore
mostra in seguito che la stessa è la natura dell'intermediario esplicativo,
«quando si tratta, non più di legare una
proprietà a un oggetto individuale, ma di legare una proprietà n una cosa
generale. Posit. inql. e Tntelliq.: Poijhè negli assiomi i due dati cioè i due
astratti che l'assioma mette in rapporto sono tali ohe il primo racchiùde il
secondo, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro unione: da
pertutto ove sarà il primo esso porterà il neeondo, poiché il secondo è una parte di esso, ed esso non può separarsi
da sé. pure Posit. ingl. citato nella nota, Intellig. citati nella nota. citato
nplla nota, nel luogo che con tene la dimostrazione dall'assioma della ragione
esplicativa e citati nella nota, Posit, ingl. che citeremo in una nota
seguente, Iniellig. che citeremo in nota nel seg. Intellig., ecc. Filos.
class., Posit. ingl. ecc. Posit. ingl. Per conseguenza gli astratti in cui il
concreto si decompone, ne sono, secondo
Taine, non solo gli elementi, ma anche i fattori: Intellig., Posit. ingl. luogo
citato nella nota ecc. Questa causalità degli astratti, e quindi la loro
realizzazione, è pure implicata in certe proposizioni come queste: le ragioni
dell'orbita che la terra descrive intorno al sole, sono dei caratteri che,
inclusi nella terra, le prescrivono questa
curva {Intellig,), o la conducono su di essa; le ragioni per cui un
numero è divisibile per 9, o per cui il
poligono contiene una comma di angoli retti eguale al doppio dei suoi lati meno
quattro, sono dei caratteri che, inclusi negli elementi del numero o del
poligono, obbligano il primo a lasciarci dividere per 9 (latell. e il secondo a
contenere quella somma di angoli retti; eco. ^T" il mondo scoverto dall'esperieoza trovala suaragione
coinè la sua immagine nel mondo riprodotto dall'astrazione Considerando gli
astratti come cause delln realtà concrete (ed anche come cause gli uni degli
altri, v. *seguente), Taine ci dà la
prova più evidente della esistenza per sé che loro attribuisce: evidentemente
egli non potrebbe riguardare delle proposizioni o delle semplici astrazioni
mentali come le cause dei fatti reali o di altre proposizioni o astrazioni
mentali, di cui esse non sono che le premesse logiche. Un'altra prova
dell'esistenza per sé che Taine atttibuisce agli astratti, è che essi sono,
secondo lui, il vero essere, mentre il concreto non è che un'apparenza. La
scienza lavora a ridurre il mondo dei fenomeni ad alcuni elementi astratti, a
Irasformare i fatti concreti in
astrazioni; la natura è, nel suo fondo sussistente, un sistema di leggi e non
Bemphce ha per sorgente un sistema di leggi; T osservazione sensibile non ci dà
di essa che un'idea illusoria^ dobbiamo risolvere il mondo dell'esperienza
negli astratti Posit. ingl. Filos, class. Filos, class, Per apparenza non
dobbiamo però intendere un semplice fenomeno subbiettivo. SI tratta del
concetto metafisico cioè inimma-inabile
e contradittorio di apparenza obbiettiva, qMaìe si trova p e in Hegel o in Platone Suppl. Posit. ingl.
luogo che riporteremo nella terra nota dopo questa,
Filos. class ohe riporteremo, eoe.
Posit. ingl., luogo riportato nella nota e Filos. class, luogo che riporteremo
Posit. ingl. che citeremo in nota e Intellig. che citeremo nella nota e nelle
loro coppie che si chiamano leggi per passare dall'apparenza alla verità. Il
mondo, contemplato dai Posit. ingl.: Noi vediamo ora 1 due grandi momenti
della scienza e le due grandi apparenze
della natura. Vi ha due operazioni, l'esperienza e l'astrazione; vi ha due
regni, quello dei fatti complessi e quello degli elementi semplici cioè dagli
astratti in cui si decompongono. Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il
primo è contenuto nel secondo e se ne deduce, come una conseguenza dal suo
principio In un senso le astrazioni realizzate sono contenute nelle cose concrete è la contenenza
secondo la comprensione in un altro senso le contengono è la contenenza secondo
Vestensione, Tutti e due si equivalgono; essi sono una cosa sola censiderata
sotto due aspetti. Questo magnifico mondo cangiante, quesro caos tumultuoso
d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita incessante infinitamente variata e
multipla, si riducono ad alcuni elementi
e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno
all'altro, dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi, dalle esperienze
alle formule. E la ragione ne è visibile, perchè questo fatto che io percepisco
per i sensi o la coscienza non è ohe una fetta Iranche arbitraria che i miei
sensi o la mia coscienza tagliano nella trama infinita e continua dell'essere.
Se essi fossero costruiti altrimenti, ne
intercetterebbero una altra; è l'azzardo della loro struttura che ha
determinato questa. Essi sono come un compasso aperto, che potrebbe esserlo
meno, e potrecbe esserlo più. Il cerchio ch'essi descrivono non è naturale, ma
artificiale. Esso lo è si bene, che lo è in due maniere^ all'esteriore e
all'interiore. Perchè, allorché io costato un avvenimento, l'isolo artifìciamente dal suo accompagnamento
naturale, e lo compongo artificialmente d'elementi che non fanno un insieme
naturale. Quando io vedo una pietra che cade, separo la caduta dalle
circostanze anteriori che realmente le sono congiunte, e metto insieme la
cpduta, la forma, la struttura, il colore, il suono, e venti altri circostanze
che realmente non solegate. Un fatto è dunque un ammasso arbitrario, nello stesso seDsi e
dalla coscienza, ò un seguito di fenomeni fuggitivi, senza niente di stabile,
un iìusso universale, una Buccessione di meteore; contemplato dall'astrazione,
è un insieme di forme persistenti, di leggi fisse, in una patola di cose eterne
ed immutabili. Cosi si trova giustificata la profonda intuizione degli antichi
pensatori tempo che un taglio arbitrario,
cioè a dise un gruppo fittizio, che separa ciò che è unito, e unisce ciò
che è separato Unisce ciò che è separato, perchè gli astratti che compongono un
fatto particohire non sono uniti che accidentalmente; separa ciò che è unito,
perchè ciascuno di questi astratti non è, per dir così, che una metà, cioè uno
dei due membri della coppia. che si chiama h gge, e che è, secondo Trine, il
vero essere reale, cioè sussistente per
sé. Così, sinché noi non guardiamo la natura che con la osservazione sola, noi
non la vediamo quale è; non abbiamo di essa che un'idea [provvisoria e
illusoria. È propriapente un arazzo che non Vediamo che dal rovescio. Ecco
perchè oerciamo di voltarlo. Noi ci sforziamo di separare démeler delle leggi,
cioè a dire dei gruppi naturali, che siano
effettivamente distinti dal loro accompagnamento e che siano composti di
elementi effettivamente uniti. Noi scopriiimo delle coppie di astratti, cioè
dei composti reali e dei h3gami reali. Noi passiamo dall'accidentale ail
necessario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità. Intellig. Le
astrazioni realizzate sono immutabili sole stabili a traverso l'infinità del
tempo ohe spiega e distrugge le loro
opere Filos, class, perchè rapprosentauo i tipi e le leggi costanti secondo cui
si producono i fenomeni; sono eterne, perchè esistono fuori del tempo, cioè non
si succedono nel tempo come gli oggetti e i fenomeni particobiri che le
manifestano Filos. cldss.: l'assioma eterno, ci<ȏ la legge suprema, riempie
il tempo e lo spazio, ma resta al di sopra del tempo e dello spazio »; e
la stessa opera. È questa l'idea dell'eternità nei sistemi che realizzamo le
astrazioni, come vedremo più particolarmente esponendo i sistemi di Platone e
di SDinoza. indiani, che il vero reale non può cangiare, perchè è impossibile
che il niente diventi qualche cosa e che quaU che cosa diventi niente. In
conclusione Taine è un realista nel senso del medio evo, vale a dire gli
universali non sono per lui dei nomi né
dei concetti, ma degli esseri reali, distinti dagli oggetti particolari. Vi ha
un uomo astratto, che non ha che gli attributi comuni a tutta la specie, senza
aver alcuno degli attributi particolari ad alcuni individui: quest'uomo
astratto, uno in sé stesso, è presente allo stesso tempo in tutti gli uomini;
se questi si somigliano, se sono tutti uomini e si chiamano tutti così, è perchè in tutti si trova lo stesso
uomo, apparendo come multiplo, benché in realta non sia che uno. Lo stesso che
abbiamo detto dell'uomo, dobbiamo dire dell'animale, dell'albero, del rosso,
del verde, del movente, del mosso, e in una parola di tutte le classi
corrispondenti a un termine generale; per ciascuna classe vi ha un'entità
astratta un animale astratto, un albero astratto, un rosso astratto, ecc., che non ha, come l'uomo
astratto, che gli attributi comuni a tutta la classe, e che è con gl'individui
della classe nella stessa relazione che l'uomo astratto con gli uomini
particolari. Ciò che distingue gli astratti di Taine da quelli di Hegel è che
per il primo essi non sono dei pensieri come pernii sec(mdo. Per Hegel
l'essere, il non essere, il divenire e tutte le altre astrazioni realizzate del suo sistema
esistono nelle cose e sono al tempo stesso dei pensieri, perchè per lui la
realtà è identica al pensiero; Taine non ammette questa identità, e le sue
astrazioni realizzate sono delle forme puramente obbiettive. Un'altra Saggi di
critica e di storia. Il Buddismo. particolarità del sistema di Taine è che ogni
astratto è, secondo lui, accoppiato con qualche altro, con cui è in un rapporto di sequenza o di
coesistenza, in modo che ciascuna di queste coppie rappresenti ciò che si
chiama una legge della natura. Così un astratto non è, secondo Taine, un essere
completo, ma la metà di un essere completo; i veri esseri sono le coppie di
astratti, td è a queste che si applica, come vedremo in seguito, quel processo
o metodo che nel sistema di Taine
corrisponde a ciò che Platone ed Hegel chiamano dialettica. Questa partic(»larità
è caratteristica nel sistema di Taine, e lo distingue da tutti gli altri
sistemi di realismo dialettico, Queste coppie di entità astratte e universali,
che noi chiamiaìiìo leggi della natura o di cui piuttosto ciò che cliiamiamo
leggi della natura sono la manifestazione fenomenale, sono ordinate in
gerarchia. Le leggi cioè le coppie di
astratti più particolari si dividono in gruppi di cui ciascuno si deduce da una
legge cioè da una coppia di astratti più generale: queste leggi più generali
alla loro volta si dividono pure in gruppi di cui ciascuno si deduce da una
legge ancora più generale; queste leggi ancora più generali formano anch'esse
dei gruppi che si deducono ciascuno da una legge più genemle; e così di seguito, sinché si giunga a una legge
suprema unica, da cui tutte le altre si deducono, per una deduzione
progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più
particolari. La Intellig,. Ma oi resta un altro mezzo di comprendere le cose
altro che l'osservazione, che ci mostra il mondo come un seguito di fenomeni
fuggitivi GRICE DUNCAN-JONES, e a questo secondo punto di vista> che
completa il primo, il mondo prende Ili legge suprema è una verità assiomatica,
cioè tale che la sua negazione implicherebbe contraddizione GRICE STRAWSON
ANALYTIC, NOT SYNTHETIC; l'auun aspetto diflerente. Per l'astrazione e la lingua,
noi isoliamo delle forme persisienti, delle leggi fisse, vale a dire delle
coppie di universali saldati a due a
due, non per accidente, ma j>er natura, e che. in virtù del loro legame
stabile, riassumono una moltitudine indefinita di incontri cioè di casi in cui
la legge si verifica Per lo stesso processo, al di là di queste prime coppie,
noi ne isoliamo altre, più semplici cioè più astratte, ohe, simili alla formula
di una curva, concentrano in una legge generale una moltitudine indefinita di
leggi x^articolari. Noi trattiamo allo
stesso modo queste leggi generali, sino a che infine la natura, considerata nel
suo fondo sussistente, apparisca alle nostre congetture come una pura legge
astratta che, sviluppandosi in leggi subordinate, arriva in tutti i punti
dell'estensione e della durata alla nascita incessante degl'individui e al
flusso inesauribile degli avvcnimeuti. I filos. class.: Se ne è concluso contro gli spiritualisti che non vi
ha bisogno d'inventare un nuovo mondo per ispiegare questo, che la causa dei
fatti è nei fatti stessi. che la sorgente degli esseri è un sistema di leggi, e
che tutto l'impiego della scienza è di ridurre l'ammasso dei fatti isolati e
accidentali a qualche assioma generatore e universale Segue il tratto citato
nella nota che io prego il lettore di rileggere, e poi continua con le parole seguenti È
perciò che al di là di tutte queste analisi inferiori che si chiamano scienze,
e che riducono i fatti ad alcuni tipi e leggi particolari, può esservi
un'analisi superiore chiamata metafisica, che ridurrebbe queste leggi e questi
tipi a qualche formula universale. Posit ingl,:
Vi hanno dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi
più generali, e da queste le leggi
particolari, e da queste leggi i fatti che osserviamo. Come si vede dal
contesto, gli elementi indecomponibili sono le entità più astratte, quelle ohe
si trovano al termine dell'astrazione e ohe per conseguenza costituiscono la
coppia di vniversali i più universali di tutti, tore la chiama 1'assioma
eterno GRICE ETERNAL TRUTH, CITY OF. La conoscenza
del reale sarà un giorno A PRIORI, come sono attualmente le matematiche,
e consisterà a dedurre tutto dall'a«sioma eterno. Da questo si concluderà non
solo che il reale, attualmente conosciuto col metodo dell'osservazione, deve
necessariamente esistere, ma anche che il non reale deve necessariamente non
esistere, in modo che si veda che ciò che esiste è logicamente impossibile
che non esista, e che ciò che non esiste
è logicamente impossibile die esista, e questi tre termini, reale,, possibile e
necessario, coincidano perfettamente GRICE WHAT IS ACTUAL IS NOT ALSO POSSIBLE.
L'iin altri termini quella che noi abbiamo chiamato la legge suprema. a. I
filos. class, che riassumeremo o citeremo nel seguito del paragrafo. Filos.
class, iX luogo citato nella nota
preced. et nella nota luogo che citeremo nel seguito del paragr. Posit.
ingl. e fnlellifj. Filos. class Intellig. Filos. class. luoghi che citeremo nel
seguito del paragr. Filos. class,: Essa quest'analisi supcriore chiamata
metatisica il luogo citiito nella nota
riceverebbe da ciascuna scienza la detiuizione a cui questa scienza arriva,
quella óell'estensione. del corpo astranomico, delle leggi fisiche, quella del
corpo chimico, dell'individuo vivente, del pensiero. Essa decomporrebbe queste
definizioni in idee o elementi più
semplici, e lavorerebbbe ad ordinarli in serie per sepanire déìnélcr la legge
che li unisce che è quella ohe abbiamo chiamato legge suprema. Essa scoprirebbe
cosi che la natura è un ordine di forme che si chiamano le une con le altre e
compongono un tutto indivisibile. Infine, analizzando gli elementi e le defiuìzioni.
essa cercherebbe di dimostrare ch'essi mm potevano dea di Taine come, del
resto, di tutti gli altri aprioristi, anche i più radicali non è però che si
deve escludere assolutamente l'osservazione, che si deve, per dir così,
chiudere gli occhi, e COSTRUIRE GRICE CICERONE CONSTRUCTUM la realtà per la
sola forza del pensiero. Il punto di partenza della scienza è necessariamente
l'osservazione: è dai fatti dell'esperienza che si devono estrarre le leggi
cioè le coppie di astratti più particolari; da queste delle leggi più generali,
e cosi di seguito, sinché si giunga alla legge universalissima Ma scoverta
questa per questo metodo di estrazione progressiva, si vedrà che essa è una
verità assiomatica, e allora comincerà il processo inverso, che, invece di
salire, come il primo, dai fatti alla legge suprema per le leggi intermediarie,
discenderà dalla legge suprema ai fatti, per le leggi intermediarie, ma
percorse in senso inverso, in modo che si vada sempre non, come la pririunirsi
che in un certo ordine di combinazioni, che ogni altro ordine o oombinazione
racchiude qualche contraddizione intima, ohe questo seguito ideale, solo
possibile, è lo stesso che il seguito osservato, solo reale, e che il mondo
scoverto dall'esperienza trova così la sua la ragione come la sua immagine nel
mondo riprodotto dall'astrazione Tale è l'idea della natura esposta da Hegel. Posit.
ingl., l'ultimo tratto citato nella nota. Gli elementi di cui si tratta in
questi due luoghi non sono gli elementi indecomponibili di cui nel luogo del
Posit. ingl. citato neUa nota. Quelli erano le entità più universali da cui
tutto il resto si deduce; gli elementi di cui si tratta qui sono invece gli
astratti piìì semplici in cui possono decomporsi tutte le astrazioni realizzate,
comprendendo anche fra di essi le note differenziali ohe bisogna aggiunirere
alle entità che sono più universali per costituire le meno universali
immediatamente subordinate. La descrizione che 8 ma volta, dal particolare al
generale GRICE STRAWSON, cioè dalla conseguenza al principio, ma dal generale
al particolare, cioè dal principio alla conseguenza. Il secondo metodo, cioè la
deduzione, ritroverà le stesse cose trovate già col primo metodo, cioè con
l'estrazione; sarà lo stesso cammino, gli stessi passi, ma fatti in un ordine
opposto; il primo metodo è andato dalla base al vertice della piramide, il
secondo andrà invece dal vertice alla
base. Deducendo dall'assioma eterno le veritii trovate la prima volta per
Pestiazione, la conoscenza empirica diventerà una vera scienza, cioè una
conoscenza razionale; le verità di fatto saranno trasformate in verità A PRIORI;
ciò che prima appariva come contingente apparirà come necessario; ciò di cui
prima si sapeva solamente che è, 8i saprà allora anche perchè è. La deduzione,
in una parola, non deve trovare niente di nuovo, ma dare soltanto alle vetità
scoverte induttivamente i caratteri delVapriorità e della necessità, ciò che
vuol dire ancora che essa deve spiegarle. Ecco come Taine descrive il metodo
eh'egli preconizza. Siano i fenomeni della vita animale. Una parte di questi
fenomeni, vale a dire la natura e i rapporti d'un gruppo d'organi e
d'operazioni, e i cangiamenti che questo gruppo subisce da specie a specie e
nello stesso individuo, si dedurranno dalla funzione della nutrizione. Sono
cinquecento fatti ridotti a un solo. Noi separiamo un fatto generale, cioè
comune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i momenti della vita, la
nutrizione o riparazione degli orTaine fa in questi due luoghi del
metodo, diciamo così, dtalettieo-^che però egli stesso non chiama mai così- è
poco precisa, perchè egU cerca delle formule che convengano egualmente al suo
proprio sistema e a quello di Hegel. Filos. class, gani, e ne facciamo derivare
tutto un gruppo di fatti. Questo non è composto che di conseguenze; quello è il
fatto sommario e generatore. Un'altra parte dei fenomeni, vale a dire ancora un
gruppo di organi e di operazioni e i suoi cangiamenti da specie a specie e
nello stesso individuo, si dedurranno da un'altra funzione, la distruzione o
decomposizione continua dell'organismo: è anche questo un fatto universale e
costante come la nutriziooe, a cui, come a questa, può ridursi tutto un gruppo
di fatti, che non ne sono che le conseguenze. Un'altra parte dei fenomeni
infine si dedurranno dal tipo, che deve persistere in tutti i cangiamenti
dell'individuo e di generazione in generazione. Tutti i fenomeni dell'organismo
animale si saranno dunque ridotti a tre fatti generali, la nutrizione, la
dissoluzione e il tipo. Riduciamo ancora, cioè cerchiamo di dedurre tutti
questi tre fatti da un principio unico. Supponiamo che il tipo sia un fatto
primitivo, e che gli altri due, cioè la nutrizione e la decomposizione, possano
derivarsi da esso; è il tipo stesso che sarà questo principio unico. Il tipo
sarà dunque la causa del resto cioè il fatto generale da cui derivano tutti gli
altri fatti. Si dedurranno <( da esso tutti i fatti che compongono l'animale
adulto. Ciascun gruppo di questi fatti si è dedotto da un fatto dominatore.
Tutti i fatti dominatori si saranno dedotti dal tipo. Noi non avremo più che
una formula unica, <( definizione generatrice, da cui uscirà, per un sistema
4(di deduzioni progressive, la moltitudine ordinata degli altri fatti Voi
intravedrete allora lo scopo di ogni scienza, e comprenderete che cosa è un
sistema. Guar€date di là come abbiamo proceduto. Noi ci siamo te Ed. . « nuti
uella regione dei fatti; non abbiamo evocato al« cim essere metafisico, non
abbiamo pensato che a formare dei gruppi. Questi gruppi dati, li abbiamo
rimpiazzati per il fatto generatore GRICE KEYNES. Abbiamo espresso questo fatto
con una formula. Abbiamo riunito le diverse formule in un gruppo, e abbiamo
cercato un fatto superiore che le generasse. Abbiamo continuato così, e sianìo
arrivati infine al fatto unico, che è la
causa nniversale. Chiamandolo causa non abbiamo voluto dire niente altro se non
che dalla sua formula possono dedursi tutti gli altri e tutte le conseguenze
degli altri. Noi abbiamo trasformato cosi ia moltitudine disseminata dei fatti
in una gerarchia di proposizioni, di cui la prima, creatrice universale, genera
un gruppo di proposizioni subordinate, che, alla loro volta, producono ciascuna
un nuovo gruppo, e così € di seguito, sinché appariscano i dettagli
moltiplicati e € i fatti particolari dell'osservazione sensibile, come si vede
in un getto d'acqua il fascio della sommità spargegersi sul primo bacino,
cadere sui gradini in fiotti ogni volta più numerosi, e discendere di piano in piano,
sinché infine le sua acque si accumulano nell'ultimo bacino, dove le nostre
dita le toccano. In questa scala Taine
non riguarda le sue astrazioni realizzate oouie esseri metalisioi, perch?^ non
sono fuori dei fatti come gli agenti ipotetici degli spiritualisti v. Filosoii
class. Prefazione, ma nei fatti stessi, di cui sono una porzione, un estratto,
ecc. Queste proposizioui. di cui ciascuna produce un gruppo di proposizioni
subordinate, sino alle ultime, cbe pi'odueono i fatti particolari deirosservazione
sensibile li producono, perchè, se ancbe i fatti sensibili non fossero prodotti
dalle proposizioni, l'autore non chiamerebbe 1» proposizione prima definizione
generatrice KEYNES GRICE e creatrice universale rappresentano ciascuna una indi
ricerche tutti i passi sono segnati. Formato un gruppo di fatti, noi ne
separiamo per astrazione qualche fatto generale, e ne deduciamo tutti gli
altri. Riunendo uu gruppo di questi fatti general: che l' autore KEYNES GRICE chiama
generatori, perché da ciascuno deriva tutto un gruppo di fatti particolari,
cerchiamo per lo stesso processo quello che genera gli altri. Così dall'insieme
dei fenomeni dell'organismo vivente abbiamo separato per astrazione tre fatti
generali, il deperimento, la riparazione GRICE REMEDIAL ACTION e il tipo, e
abbiamo dedotto da ciascuno un gruppo di questi fenomeni. Questi tre fatti
generali alla loro volta li abbiamo riuniti in un gruppo, e da questo abbiamo
staccato per lo stesso processo una proprietà di tipo, dalla quale gli altri
due fatti si deducono. Il fatto più generale da cui si deduce ciascun gruppo di
fatti, si trova in questi fatti stessi, e se ne separa per astrazione. Ora
tutte le volt-e che voi incontrate un gruppo naturale di fatti, potete mettere
questo metodo in uso, e scoprite una gerarchia di necessità; ne é qui del mondo
morale come del mondo fisico. Una civiltà, un popolo, legge della natura, cioè
una coppia di entità astratte; per conseguenza Taine, parlando della gerarchia
delle proposizioni, intende parlare propriamente della gerarchia di queste
coppie di entità astratte. Così, dicendo che una proposizione produce un gruppo
di proposizioni subordinate, egli riferisce, in ur senso traslato, alle
proposizioni quel rapporto di causa e di effetto, che come vedremo, egli
attribuisce, nel senso proprio, alle cose significate dalle proposizioni, cioè
alle coppie di entità astratte; o forse per queste proposizioni egli intende
appunto i loro significati, cioè le coppie di entità astratte, come quiindo noi
per assiomi o principii intendiamo, non le proposizioni stesse, ma i fatti, o
meglio, le leggi, che esse significano. un secolo, hanno una definizione, e
tutti i loro caratteri o i loro dettagli non ne sono che la conseguenza e gli
sviluppi. PeF esempio, considerando la società a Roma, voi vi distinguete la
falcolta molto generale di agire in corpo, con una vista d'interesse personale.
Voi staccate questa facoltà egoista e politica, e ne deducete tosto tutti i
caratteri della società e del governo romano. GRICE HEGEL PRUSSIA BISMARK
MUSSOLINI Da questa facoltà si deducono i differenti gruppi di abitudini
morali; da ciascuno di questi gruppi un ordine di fatti complicati e ramificati
in dettagli innumerevoli, la vita privata, la vita pubblica, la vita di
famiglia, la religione, la scienza e l'arte. Questa gerarchia di cause è il
sistema d'una storia L'autore, come
vedremo in seguito, chiama causa di un fatto il fatto più generale da cui
quello si deduce. Ogni storia ha il suo, e voi vedete come si ottiene. Per
1'astrazione, si separano nei fatti esteriori le abitudini interiori, generali
e dominanti. Per l'astrazione, in ciascun
gruppo di qualità morali, si separa la qualità generale e generatrice GRICE
KEYNES cioè da cui le altre si deducono A poco a poco si forma la piramide
delle cause cioè dei fatti di più in più generali, da ciascuno dei quali si
deduce un gruppo di fatti più particolari, e i fatti dispersi ricevono
dall'architettum filosofica i loro legami e le loro posizioni Supponete che
questo lavoro di formare la piramide
delle cause sia fatto per tutti i popoli e per tutta la storia, per la
psicologia, per tutte le scienze morali, per la zoologia, per la fisica, per la
chimica, per l'astronomia. All'istante, l'universo quale noi lo vediamo
sparisce. I fatti si sono ridotti, le formule li hanno sostituiti; il mondo si
è semplificato, la scienza si è fatta. Sole, cinque o sei proposizioni generali
sussistono. Restano delle definizioni
dell'uomo, dell'animale, della pianta, del corpo chimico, delle leggi fisiche,
del corpo astronomico, e non resta niente altro. Noi attacchiamo i nostri occhi
su queste f i definizioni sovrane; noi contempliamo queste creatrici immortali,
sole stabili a traverso l' infinità del tempo che spiega e distrugge le loro
opere, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione che disperde e moltiplica i loro eftetti. Noi
osiamo di più; considerando che esse sono molte, e che sono dei fatti come gli
altri dei fatti generali, cerchiamo di farvi scorgere e di separarne en
dé(jager per lo stesso metodo che nelle altre cioè per l'astrazione il fatto
primitivo e unico da cui esse si deducono e che le genera. Noi scopriamo
l'unità dell'universo e comprendiamo ciò che la
produce. Essa non viene da una cosa esteriore, straniera al mondo, né da
una cosa misteriosa, nascosta nel mondo. Essa viene da un fatto generale simile
agli altri, legge generatrice GRICE KEYNES da cui le altre si deducouo, come
dalla legge dell'attrazione derivano tutti i fenomeni del peso, come dalla
legge delle ondulazioni derivano tutti i fenomeni della luce, come
dall'esistenza del tipo derivano tutte
le funzioni dell'animale, come dalla facoltà dominante del popolo romano
derivano tutte le parti della sua LINGUA, delle sue istituzioni e tutti gli
avvenimenti della sua storia. L'oggetto finale della scienza è questa legge
suprema; e quegli che, con uno slancio, potesse trasportarsi nel suo seno, vi.
vedrebbe, come da una sorgente, svolgersi, per dei canali distinti Queste detinizioni sovrii.ne», queste
creatrici immortali, ecc., sono trattate così chiarameute come delle realtà,
che è evidente ohe noi dobbiamo intendere per esse, non le definizioni
propriamente dette, ma le astrazioni realizzate che ad esse corrispondono, e
che, secondo Taine, esse significano. L'autore le chiama definizioni perchè non
sono altra cosa che i gruppi di attributi compresi nelle definizioni ben inteso che questi
attributi si considerano, non come dei nomi o dei concetti, ma come delle
entità esistenti per se stesse e ramificati, il torrente eterno degli
avvenimenti e il mare infinito delle cose. Questa legge suprema è, come tutte
le altre, un'entità, o piuttosto una coppia di entità, un'astrazione
realizzata. Essa è l'immobile, l'onnipossente, la creatrice, ecc.; il tempo e lo spazio derivano da essa, ma essa è
fuori del tempo – GRICE ATEMPORALE TIMELESS SIGNIFICATIO e dello spazio; essa è
un essere unico, e la sua unità
costituise 1'unità dell'universo, perchè ogni essere è una forma o una
particolarizzazione di quest'essere unico: tutte queste attribuzioni suppongono
evidentemente che la legge suprema esiste perse stessa, qimntunque presente nei
fenomeni. Inoltre la legge suprema è, come abbiamo detto, un assioma, e la sua
scoverta trasformerebbe la scienza da induttiva ed empirica in deduttiva ed a
priori. Per questa gerarchia di necessità lo stesso che prima ha chiamato
gerarchia o piramide delle cause il mondo forma un essere unico, indivisibile,
di cui tutti gli esseri sono le membra. Alla suprema sommità delle cose, al più alto dell'etere luminoso e
inaccessibile, si pronunzia ra««iowa eterno cioè al principio del sistema delle
cose, che è la parte per noi pili oscura, ma in se stessa più chiara, di questo
sistema, si pone la legge suprema, evidente per se stessa e necessaria come un
assioma di PEANO, e il rimbombo prolungato di questa formula creatrice compone,
per le sue (mdulazioni inesauribili,
l'immensità dell'universo. Ogni forma, ogni cangiamento, ogni movimento,
ogni idea è uno dei suoi atti. Essa sussiste in tutte cose, e non è limitata da
alcuna cosa. La materia e il pensiero, il pianeta e l'uomo, gli ammassi di soli
e le palpitazioni d'un insetto, la vita e la morte, il dolore e la gioia, non
vi ha niente che non l'esprima, e n(m vi ha niente che l'esprima tutta intera.
Essa riempie il tempo e lo spazio coi
fenomeni in cui si manifesta, e resta essa stessa al disopra del tempo e dello
spazio. Essa mm è compresa in questi, e questi derivano da essa. Ogni vita è
uno dei suoi momenti, ogni essere è una delle sue forme; eie serie delle cose
discendono da essa, secondo necessità indistruttibili, legate dai divini anelli
della sua catena d'oro. L'indifferenza allusione all'assoluto di Schelling,
l'immobile, l'eterna, l'onnipossente, la creatrice, alcun nome non l'esaurisce;
e quando si svela la sua faccia serena e sublime, non vi ha spirito d'uomo che
non si pieghi, costernato d'ammirazione e d'orrore. Allo stesso istante questo
spirito si rialza; egli obblia la sua mortalità e la sua piccolezza; egli gode
per simpatia di questa infinitii cb'egli pensa, e partecipa alla sua grandezza. Questo monismo di Taine, vale a
dire la sua dottrina che vi ha nna legge suprema unica da cui tutte le altre
possono dedursi, è una conseguenza naturale del suo metodo di dedurre le
astrazioni realizzate, noi potremmo dire, applicando il termine usato da
Platone e da Hegel, della sun dialettica. La legge che governa il mondo delle
astrazioni realizzate è, secondo Taine, che
ciascun gruppo di coppie di astratti è prodotto da una coppia di
astratti più generale, in altri termini che ogni moltiplicità si riconduce ad
una unità superiore GRICE MULTIPLICITY. Sevi fosse, al vertice del sistema, una
pluralità di. Queste serie delle cose ohe discendono dalla legge suprema sono
ciò che prima ha chiamato gerarchia di necessità e piramide delle cause
meno naturalmente il vertice. La catena
d'oro che, secondo i poeti, era sospesa al trono di Giove, simboleggia, secondo
i platonici, le potenze superiori o le cause della natura, poste fra il mondo
sensibile e la causa suprema. coppie di astratti egiialinente primitive, ciò
sarebbe in contraddizione con questa legge, perchè anche (jnesta pluralità
dovrebbe ricondursi ad una unità superiore. Daltronde l'unità di principio è, come vedremo nel
seguito, un carattere comune di tutti i sistemi di realismo dialettico. Taine,
ammettendo che ogni gruppo di leggi deve dedursi da una legge superiore,
suppone che l'unico modo di spiegare le leggi della natura è il terzo di quelli
enumerati da MORE GRICE FOR THE Mill, cioè l'agglomerazione di più leggi in una
legge più generale che le racchiude
tutte». È perchè l'esigenza del realismo dialettico è l'assoluta uniformità di
metodo: il metodo di dedurre le astrazioni realizzate è infatti, nel realismo
dialettico, non un semplice processo logico, ma una legge obbiettiva delle
astrazioni realizzate stesse, il processo reale secondo cui esse si sviluppano
o si producono. La produzione delle astrazioni realizzate deve essere sottoposta a una legge uniforme, come è a delle
leggi uniformi che è sottoposta hi produzione dei fenomeni. Taine confessa che
la sua filosofia è costruita sullo stesso tipo che quella di Hegel. Egli mette
Hegel al di sopra di tutti i filosofii, e dopo Hegel, Spinoza un altro realista
dialettico: ciò che vi ha di vero, secondo lui, nell'hegelianismo è che il
mondo dell'esperienza ha la sua ragione
in un mondo di astrazioni, e che, queste astrazioni possono essere ritrovate A
PRIORI, e dedotte progressivamente le une dalle altre, in modo che, data l'una,
siano date necessariamente tutte le altre. Questa filosofia, dice Taine, ha per
origine Mill Logica I filos, class, e . gli stessi luoghi indicati nella nota
precedente. Ifilos. class, i luoghi citati nelle note una certa nozione delle cause. Io ho cercato qui cioè nel libro 1
filosofi classici di giustificare e d'applicare 7 e Posit. ingl. (J
11, Vili, il penultimo dei tratti
citati nella nota anche i luoghi seguenti: Po»i<.mgrZ.: Le due risorse dello
spirito umano sono 1'esperienza, quale la descrivono i fìlosoti britannici, e
l'astrazione, quale l'ha descritta l'autore cioè quale operazione i cui
prodotti non sono delle semplici
astrazioni mentali, ma delle
realtà che esistono per se stesse, e di cui le jiiù semplici o più astratte
sono la ragione delle più complesse o meno astratte La prima conduce a
considerare la natura come un incontro di fatti, la seconda come un sistema di
leggi; impiegata sola, la prima è inglese; impiegata sola, la seconda è
alemanna. Il compito della nazione della GALLIA è di precisare le idee alemanne cioè, come risulta da ciò che
ha detto precedentemente, le idee di Hegel e dei filosofi affini, correggendo e
completando lo spirito alemanno collo spirito della Britannia. Ideal ingl.:
L'idea di sviluppo, a cui si riduce il sistema di Hegel, e che consiste a
considerare l'universo come una serie di termini che si necessitano mutuamente
l'un l'altro, è il legato filosofico che 1'Alemagna ha fatto al genere umano.
Filos. class,: La deduzione, che l'autore descrive in questo capitolo e che noi
abbiamo visto nel paragrafo precedente, di tutte le leggi della natura da una
legge suprema assiomatica leggi nel senso di Taine, cioè astnizioni realizzate,
è quello stesso che hanno tentato i metafisici alemanni cioè Schelling ed Hegel
con un'audacia eroica, un genio sublime
e un'imprudenza più graude ancora che il loro genio e la loro audacia. I loro
sistemi sono caduti, perchè il processo deduttivo non era stato preceduto da un
processo induttivo sufficiente; 4f ma i resti crollati della loro opera
sorpassano ancora tutte le costruzioni GRICE CONSTRUZIONE umane per la loro magnificenza e per la loro
massa, e il piano semi-spezzato che vi si
distìngue, indica ai filosofi futuri lo scopo che bisogna infine
attingere Posil. ingl, dopo il tratto ohe abbiamo indicato al principio di
questa nota. Iniellig, 2^ equesta nozione. Io non ho cercato altra cosa qui né
altrove. Un sistema filosofico dipende dall'idea che si ha della causalità.
Precisando l'idea di causa, si può rinnovare la propria idea dell'universo. Se
voi intendete per causa una certa
c(»8a*, avrete una certa idiea dell'universo e della scienza, e se voi intendete per causa una cosa
differente, avrete un'idea differente della scienza e dell'universo. Gli
spiritualisti e i positivisti iiuiuaginano le cause dei fenomeni c-ime degli
agenti situati al di là dei fenomeni stessi; i primi li assimilano alla volontà
– DECAPITATION WILLED CHARLES I’S DEATH GRICE umana, i secondi li dichiarano inconoscibili.
L'autore mostra che la causa d'un diz.: L'esistenza deUe cose si può provare
senza ricorreVe aU'esperienza, poiché, come la quantità reale,
secondo i luateinatici, non è che un caso della quantità immaginaria, caso
particolare e singolare in cui gli elementi della quantità immaginaria
presentano certe condizioni che mancano negli altri casi, così l'esistenza
reale non è che un caso dell'esistenza possibile, caso particolare e singolare
in cui gli elementi dell'esistenza possibile presentano certe condizioni ohe
mancano negli altri oasi. Ciò posto, non si potrebbero cercare questi elementi
e queste condizioni i Hegel l'ha fatto, ma con imprudenze enormi; forse un altro,
con più misura, rinnoverà il suo tentativo con piti successo. I filos, class, dopo il tratto indicato nel
principio della nota precedente. Posii ingl.: Ciò che l'autore conserva della
filosofia degli Alemanni cioè, al solito, di Hegel e filosofi affini è <
la loro idea della causa; le cause, in questo senso, si scoprono per
l'astrazione. Filos, class, Flos, class, Posit ingl.: La parola causa
porta nel suo seno tutta una filosofia.
Dall'idea che voi vi attaccate dipende tutta la vostra idea della natura.
Rinnovare la nozione di cause è trasformare il pensiero umano. Filos. class,
fatto è la legge o la (jiialità dominante da cui esso si deduce; che una forza
attiva è la necessità che lega il fatto derivato alla legge primitiva, che la
forza del peso è la necessità logica che lega la caduta d'una pietra alla legge
universale della gravitazione. Le cause dei fatti sono dunque nei fatti stessi: non bisiìgna
inventare un nuovo mondo per ispiegare questo, come fanno gli spiritualisti, né
dichiarare questo inesplicabile, relegando le cause in un mondo misterioso e
inaccessibile, come fanno i positivisti. La causa d'un fatto concreto è
un'entità astratta compresa in esso, cioè la legge o tipo o qualità dominante
da cui esso si deduce; e la causa d'un'entità
astratta è un'altra entità più astratta compresa in essa, cioè la legge,
tipo o qualità dominante superiore, da cui essa si deduce. È questa l'idea
della causalità che l'autore accetta da Hegel GRICE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION.
Filos. class,. Filos. class, i luoghi citati. Posit. ingl. luogo citato: Per
cause intendiamo i componenti dei fatti, cioò gli astratti in cui si risolvono;
esse non sono un nuovo fatto aggiunto ai
primi, ma Hono contenuti in questi, ne sono una ])orzione, un estratto, ecc.
filos. class. \). il luogo eitato nella
nota e quello citato nel testo verso il principio di questo paragrafo. Hegel,
come abbiamo notato, non chiama esplicitamente un'astrazione causa dell'altra
astrazione che se ne deduce. Tuttavia Taine ha razione di dare per origine alla
filosofia hegeliana una certa nozione
delle cause, perchè Hegel, considerand<» la deduzione logica come una
derivazione reale, ha evidentemente di mira una certa idea di derivazione reale,
che è a]>punto ciò che noi chiamiamo causazione efficiente, quantunque egli
stesso non la chiami così; per conseguenza, l'idea fondjimentale del suo
sistema, cioè di ricondurre questa derivazione reale alla deduzione logica, è, come dice Taine, una
certa noConformemente a qiiest'idea della causa e dell'eflTetto, che identifica
la prima al principio logico e la seconda alla consegueenza, Taine considera V
essenza d'una cosa, cioè gli attributi che entrano nella sua definizione, come
la causa degli altri attributi di questa
cosa, perchè, secondo lui, tutti gli altri attributi d'una cosa possono dedursi
da quelli che compongono la sua definizione. L'essenza d'una cosa è la causa
interiore e primordiale di tutte le sue proprietà; la definizione è la formula
generatiice; e 1'attributo che la costituisce una proprietà generatrice e prima
cioè non derivata, che è la sorgente del resto, o da cui derivano le altro.
Beninteso che questi attributi che entrano nella definizione, sono delle entità esistenti per sé stesse: sono degli elementi
di cui si compone l'oggetto stesso, i suoi elementi (jeneratori, i suoi
/a«on . Il sillogismo va dalla causa
all'effetto, perchè va da una legge a un fatto o a una legge più particolare
che se ne deduce, e così si prova un fatto, come dice Aristotile, mostrando la
sua causa. La vera prova della mortalità di Pietro, Giovanni e compagnia non è
che tutti gli uomini sono mortali GRICE INTERPRETAZIONE SOSTITUZIONALE DELLA
QUANTIFICAZIONE UNIVERSALE, ma che l'uomo astratto è accoppiato alla
mortalitji: è questa coppia di astratti che, presente nella natura, è la causa
della mortalità di Pietro, Giovanni e compagnia, e che, presente nel nostro spirito, ne è la prova.
Il sillogismo va dunque dalla causa all'effetto, perchva dall'astratto al
concreto, e non dal generale al particolare, come dicono i logici ordinari
GRICE: “STRAWSON Makes the same mistak in ”General and particular””. Notiamo
zione delle cause », vale a dire una forma speciale eli'egli dà all'idea di
causalità efficiente. PosiU ingl.. PosiL ingl. questa distinzione fra la
proposizione generale che tutti gli uomini sono mortali, cioè la legge nel
senso ordinario, e la legge nel senso di Taine, cioè la coppia degli astratti
uomo e mortalità: non è la prima che è la causa, ma la seconda, perchè la causa
è un'astrazione realizzata, distinta dai fatti particolari, quantunque
contenuta in essi, e non una generalità, che noa è che la somma dei fatti particolari. Come i fatti particolari
hanno per cause le leggi astratte, contenrte in essi e da cui si deducono, così
le leggi astratte hanno per cause altre leggi più astratte, contenute in esse e
da cui si deducono: nel sistema di Taine, come in tutti gli altri sistemi di
realismo dialettico, l'essere si sviluppa passando continuamente dal più
astratto al più concreto, ed è in questo passaggio che consiste la vera causazione. Così trovare
la causa d'una cosa, oggetto particolare o astrazione realizzata, è considerare
a parte un astratto contenuto nella cosa stessa, e la facoltà di scoprire le
cause è l'astrazione. Taine sviluppa il suo concetto della causalità
nell'ultimo capitolo del suo libro 1 filosofi classici: il metodo, ch'egli
descrive in questo capitolo e che noi abbiamo rtassunto nell'ultimo paragrafo
consistente a dedurre i fatti dalle leggi, cioè dalle coppie di astratti,
queste leggi da altre leggi superiori, e cosi di seguito, sinché si giunga a
una legge suprema, assiomatica, da cui tutto il resto gradatamente si deduce
non è che il metodo di scoprire le cause dei fenomeni, e poi le cause di queste
cause, e così di seguito, sinché si giunga a una causa prima, esistente per sé
stessa, da cui deriva gradatamente tutto il resto. Egli comincia per definire
la causa: Un fatto da cui si possano dedurre la natura, i rapporti e i
cangiamenti Posit. ingl. -'I degli altri
>. Se dunque la nutrizione è una causa, «si potranno dedurre da essa
la natura e i rapporti d'un gruppo d'operazioni e d'organi; si potranno pure
dedurre da essa i cangiamenti che questo grupjio subisce da specie a specie e
nello stesso individuo. Questo è? L'esperienza risponderà. Se essa risponde
s^, la nutrizione avendo le proprietà
delle cause, è una eausa; e l'ipotesi giustificata diviene una verità. Ora
l'esperienza risponde che dalla nutrizione può dedursi tutto un gruppo di fatti
cioè la natura e i rapporti d'un gruppo d'operazioni e d'organi e i loro
cangiamenti. Dunque la nutrizione è la
causa di tutto un gruppo di fatti. La nutrizione è un fatto, ma un fatto
gènerale, cioè comune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i momenti
della vita; anche il deperimento o la decomposizione continua è un fatto
universale e costante. È anch'esso una causa come la nutrizione? Se è una
causa, si potranno dedurre da esso come dalla
nutrizione, la natura e i rapporti di tutta una serie di fatti e i loro cangiamenti. Ora
l'esperienza dichiara che è così. Dunque il deperimento è la causa di un gruppo
di fatti. Anche il tipo è una causa: resta a sapere se è una causa primitiva o
è un effetto della funzione. Se è un effetto della funzione, si deve dedurre da
essa l'esistenza, le variazioni, la persistenza del tipo. Ora questa deduzione
è impossibile; dunque il tipo non lia per
causa la funzione. Supponiamo che dal tipo possano dedursi la
decomposizione, la nutrizione e tutte le altre funzioni; il tipo sarà allora la
causa del resto. Noi avremo < la definizione (jeneratrice, donde uscirà, per
un sistema di deduzioni progressive, la moltitudine ordinata degli altri fatti.
Guardate, continua 1'autore, come abbiamo procednto. Noi abbiamo formato dei
gruppi di fatti; abbiamo sostituito a
eiascun gruppo il fatto generatore sostituito, perchè il fatto generatore, il
principio, non è che il riassunto dei fatti generali, delle conseguenze;
abbiamo riunito i diversi fatti generatori in un gruppo; abbiamo cercato un
fatto superiore che li generasse. Abbiamo continuato così, e siamo arrivati
infine al fatto unico, che è la causa universale. Chiamandolo causa noi non abbiamo voluto dire niente altro se non
che dalla sua formula si possono dedurre tutti gli altri e tutte le conseguenze
degli altri. Così abbiamo trasformato la moltitudine dei fatti in una gerarchia
di proposizioni, di cui la prima, creatrice universale, //e/iem un gruppo di
proposizioni subordinate, che, alla loro volta, producono ciascuna un nuovo
gruppo, e così di seguito. In questa
ricerca delle cause tutti i passi sono segnati. Astrazione che consiste
a separare un fatto generale dai fatti particolari in cui è contenuto, ipotesi;
che questo fatto generale è la causa di questi fatti particolari e
verificazione di quest'ipotesi che consiste a dedurre i fatti particolari dal
tatto generale; tali sono i tre passi di questo metodo. Un gruppo formato, noi
ne separiamo per astrazione qualche
fiitto generale. Ammettiamo per ipotesi che esso è la causa degli altri.
Conoscendo le proprietà delle cause cioè che dalle cause si possono, luogo
citato nel pai^igr. preced. nota dedarre i fatti di cui esse sodo le cause,
veritìchiamo se le ha: se non le ha, tentiamo l'ipotesi e la verificazioue sui
suoi vicini, sinché noi troviamo la causa. Riunendo un gruppo di cause o fatti
generatori, cerchiamo per lo stesso
processo quale genera gli altri. È così che noi abbiamo operato poco fa.
Abbiamo separato per astraziope due fatti generali, il deperimento e la
riparazione; abbiamo ammesso per ipotesi che erano la causa, l'uua delle
operazioni nutritive, l'altro delle operazioni dissolventi. Abbiamo verificato
queste due ipotesi deducendo dal deperimento e dalla nutrizione i fatti di cui si erano supposti le cause. Riunendo
queste due cause e un altro fatto generatore, il tipo, abbiamo staccato, per lo
stesso processo, lina proprietà di tipo dalla quale tutte e due si deducono e
che è quindi la causa di queste due cause. Lo stesso processo può applicarsi ai
fatti del mondo morale. I fatti
particolari che compongono la vita del popolo italiano si deducono dalle
abitudini interiori, generali e dominanti, separate per astrazione da questi
fatti particolari. Queste qualità morali si deducono da una qualità più
generale e più dominante, p. e. la facoltà egoista e politica del popolo
romano, sparata da esse per astrazione. Così si forma una gerarchia, una
piramide, di cause: nel mondo morale, come nel mondo tìsico, la causa non è che
un fatto; un fatto generale, separato per astrazione dai fatti particolari che
ne sono gli effetti; un fatto generale, da cui gli altri possono dedursi.
Supponete questo lavoro fatto per tutte le scienze fisiche e per tutte le
scienze morali. I fatti si •v: , luogo in parte riassunto e in parte riportato
uel parag. precedente. sono ridotti ad alcune definizioni; noi contempliamo
queste creatrici immortali, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione che disperde e
moltiplica i loro ef/etti; noi cerchiamo di separarne per astrazione il fatto
primitivo e unico da cui si deducono e che le genera. Noi scopriamo così che ciò
che forma 1'unità dell'universo è un fatto generale simile agli altri, legge
generatrice da cui le altre si deducono, e da cui derivano, come da una
sorgente, per dei canali distinti e ramificati, il torrente eterno degli avvenimenti e il mare
infinito delle cose. Questa legge suprema, quest'assioma eterno, è la formula
creatrice, il cui rimbombo prolungato compone, per le sue ondulazioni
inesauribili, l'immensità dell'universo;
essa non è compresa nel tempo e nello spazio, ma questi derivano da essa; è
l'indifferenza perchè è ciò che vi ha d'identico in tutti gli esseri,
l'ownipossente, la creatrice; e le serie
delle cose cioè delle astrazioni realizzate e, come ultimo termine, dei
fenomeni discendono da essa, legate dai divini anelli della sua catena d'oro. È,
in una parola, la causa prima, percui tutto esiste, mentre essa esiste per se
stessa per questa necessità intrinseca, che è espressa dalle parole 1'assioma
eterno. Così, supposto che questa legge fosse infine scoperta, noi arriveremmo al vertice della piramide delle
cause, e l'opera dell'astrazione sarebbe terminata. Nel Positivismo questa
teoria della causalità è riassunta così: Vi hanno due operazioni, l'esperienaa
e l'astrazione; vi hanno due regni, quello dei fatti complessi e quello degli
elementi semplici cioè quello degli oggetti
GRICE OBBLE SOBBLE Pas:, luogo
riportato nel paragr. precedente., luogo
riportato nel parag. precedente nota concreti e quello delle entità astratte in
cui essi si risolvono. Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il primo è
contenuto implicitamente nel secondo e se ne deduce, come una conseguenza dal
suo principio. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno all'altro,
dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi cioè alle coppie di astratti, dalle esperienze alle formule. E queste prime
coppie trovate, noi pratichiamo su di esse la stessa operazione die sui fatti,
perchè, a un minor grado, hanno la stessa natura. Quantunque più astratte, sono
ancora complesse. Esse possono essere decomposte in astrazioni più astratte e
spiegate. Esse hanno una ragion d'essere. Vi ha qualche causa che le costruisce
e le unisce. Vi ha luogo per esse, come
per i fatti, di cercare gli elementi generatori cioè delle coppie di astratti
più semplici in cui possono risolversi e da cui possono dedursi, e l'operazione
deve continuare finché si sia giunti ad elementi assolutamente semplici, cioè
tali che la loro decomposizione sia contraddittoria questi elementi
assolutamente semplici sono la coppia di astratti i più astratti di tutti. Che
noi possiamo trovarli o no, essi
esistono; l'assioma delle cause sarebbe smentito, se essi mancassero Vi ha
dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi più generali, e
da queste le leggi note. La spiegazione d'una le«;ge implica, secondo Taine, la
sua decomposiziout^, non perchè, spiegandola, essH si risolva in una pluralità
di leggi più generali l® e 2^ modo di
spiegazione di Mill, ina perchè ciò che la spiega, vale a dire ciò da cui essa
si deduce, è una legge più astratta contenuta in essa, e l'astrazione è una
decomposizione, appunto perchè l'astratto è contenuto nel concreto o in un meno
astratto, e non si fa che estrarnelo. particolari, e da queste leggi i fatti
che osserviamo. Noi possiamo ora compreud-re la virtù e il senso di quest'assioma delle cause
che regge tutte cose, e che Mill mutila.
Vi ha una forza interiore e costringente che suscita ogni avvenimento, che lega
ogni composto, che genera ogni dato. Ciò significa, da una parte, che vi ha una
ragione ad ogni cosa, che ogni fatto ha la sua legge; che ogni composto si
riduce in semplici cioè che il più concreto si risolve nel più astratto; che
ogni prodotto implica dei fattori; che ogni
nota. Ripetiamo l'osservazicme della nota penultima. Dicendo che ogni
composto si riduce in semplici, l'autore intende dire «empliocmente che i fatti
concreti si risolvono in coppie di astratti e le coppie di astratti in altre
coppie di astratti di un'astrattezza maggiore. Ma ciò non importa per lui che
ogni coppia di astratti deve risolversi in una pluralità di coppie più astratte:
il concreto deve risolversi in più coppie di astratti, perchè un fatto è una,
sovrapposizione di leggi . ma una legge interiore ncm è una sovrapposizione di
più leggi superiori, perchè se fosse così, le cause, cioè le leggi, non
formerebbero una piramide, e non i)otrobbero risolversi tutte in una legge o
causa unica l'assioma eterno. La dottrina di Taiue, come si vede
dall'esposizione dell'ultimo capitolo
dei Filosofi elassici, fatta nel paragrafo precedente, è che ogni gruppo
di leggi inferiori deve dedursi da una legge superiore unica; gli elementi i
semplici in cui si risolvimo quelle coppie di astratti inferiori sono dunque
questa coppia di astratti superiori. Si risol/ono in essa, perchè essa è la
legge sommaria in cui tutte sono contenute, e per conseguenza tutta hi loro
realtà e, per dir così, tutta la h)ro sostanza si riduce alla realtà e alla
sostanza di questa coppia unica. In ciascuna di un gruppo di leggi subordinate
a una legge superiore possono distinguersi, per usare la lingua di Taiue, due
porzioni: ciò che vi ha di comune in tutte, cioè questa legge superiore a cui
qualità e ogni esistenza devono dedursi da qualche termine superiore e
anteriore. E ciò significa, da altra sono subordinate, e ciò clie vi ha di
particolare iu ciascuna, per dir così, la sua differenza. Di queste due
porzioni Taine con considera come un'entità sussistente per se steessa ohe la
prima, come Platone delle due porzioni in cui divide la Specie il genere e la
diU'erenza non con considera come Idea, e per conseguenza come ycooiaiói^, che
una sola, il genere. E come Platone SuppL
riguarda i Generi come gli elementi delle Specie benché il concetto
delhi specie non sia costituito dal solo concetto liel genere, ma anche da
quello della ditt'erenza e i due Generi supremi, cioè l'Essere e il Non essere,
come gli elementi di tutte le Idee benché ogn'Idea abbia, a lato di questa
porzione comune a tutte, una porzione propria, così Taine riguarda la coppia di
astratti superiore come gli elementi a
cui si riducono le coppie inferiori benché ciascuna di queste coppie inferiori
abbia una porzione difterenziale oltre a questa porzione comune e generica,
i'iò é perché il mondo delle astrazioni realizzate è, per l'uno e per l'altro,
hi piramide delle eause, e per conseguenza un astratto, per loro, non può avere
un'esistenza per sé che quando é una causa, cioè quando da esso si deducono altre astrazioni realizzate.
Che Taine consideri una sola parte delle astrazioni in cui può decomporsi
l'idea d'un oggetto come tulli gli elementi dell'oggetto stesso, quando 1'altra
parte può dedursi da essa, si vede anche dai luoghi dove espone la sua teoria
della definizione, in cui dà come gli elementi dell'oggetto definito i due soli
attributi che entrano nella definizione,
perchè tutti gli altri attributi possono, secondo lui, dedursi da questi
Posit. ingl. nota. Il realisnu» dialettico non può misconoscere questa verità
innegabile, che il generale non è altra cosa che l'insieme dei particolari; è
perciò che esso risolve la realtà delle entità conseguenze degli effetti in
quella delle entità principii delle cause, nel tempo stesso che dà alle une
un'esistenza distinta da quella delle
altre. parte, che il prodotto equivale ai fattori, che tutti e due cioè il
prodotto e i fattori non sono che una stessa cosa sotto due apparenze; che la
causa non differisce dall'effetto; che le potenze generatrici non sone che le
proprietà elementari cioè gli astratti che l'autore riguarda come elementi',
che la forza attiva per cui ci figuriamo la natura non è che la necessità
logica che trasforma l'uno nell'altro il
composto cioè il più concreto e il semplice cioè il più astratto, il fatto e la
legge per fatto si deve intendere, non solo un fatto particolare, ma anche un
fatto generale, cioè una legge, in quanto si spiega per una legge superiore.
Così noi designiamo anticipatamente il termine di ogni scienza, e teniamo la
possente formula che, stabilendo il legame invincibile e la produzione spontanea degli esseri, pone
nella natura la molla della natura, nel tempo stesso che conficca e stringe nel
cuore di ogni cosa vivente cioè di ogni cosa esistente le tenaglie d'acciaio
della necessità. Questa esposizione della dottrina della causalità non
differisce da quella che fa nei Filosofi classici; vi manca però un le
astrazioni in cui si risolvono i fatti o gli oggetti concreti, ne sono dette,
non solo gli eleinenliy ma anche i /allori, per significare che ne sono le
cause, come dice Spinoza, immanenti Per la stessa ragione sono dette, non solo
gli elemenli, ma anche i fattori, delle coppie di entità astratte le coppie di
entità più astratte in cui esse si risolvono. Fattori è lo stesso che elementi
generatori, come le ha chiamato sopra, Noi ritroveremo iu altri realisti dialettici, cioè Platone e Spinoza, questo
termine anteriore e il suo correlativo j[?os/mor<?^ ]»er significare la
derivazione, al tempo stesso logica ed ontologica, di un'entità da un'altra
entità. Naturalmente si dice anteriore ad un'altra l'entità da cui quest'altra
deriva, e la seconda si dice posteriore alla prima. nota ^myr^ elemento importante. È l'esistenza necessaria della
cansii prima, cioè della legge suprema,
la sua assiomaticità. Questa è indispensabile affinchè la deduzione possa
riguardarsi come una derivazione reale. Se infatti la legge generale non fosse
stabilit^a che per una generalizzazione
delle leggi particolari subordinate, se il metodo della vera scienza andasse
dal particolare al generale e non dal generale al particolare, perchè le leggi
particolari deriverebbero dalla legge generale, e non piuttosto la legge
generale dalle leggi particolari? Se queste derivano da quella, è perchè quella
è logicamente anteriore^ cioè perchè le leggi particolari non possono essere
date se non è già data la legge generale, mentre questa è già data senza che
quelle siano ancora date. In altri termini, per usare la lingua di Aristotile,
perchè la legL'e generale è
assolutamente più notoria che le leggi particolari, quantunque queste possano
essere più notorie per noi. Ciò importa che il metodo della l'em conoscenza sia
puramente deduttivo, che vada sempre dal generale al paricolare e mai dal
particolare al generale; il che implica che il punto di partenza, cioè la legge
più generale di tutte, sia un assioma. È a questa condizione dunque che la deduzione può divenire una derivazione reale,
in altri termini che il rapporto logico tra il principio e la conseguenza può identificarsi al
rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Ma ciò che è il più importante di
osservare su (piesta teoria della causalità è che essa è legata
inseparabilmente alla realizzazione delle astrazioni. Le cause dei fatti, dice
Taine, sono le leggi, e la causa di un
gruppo di leggi è una legge più generale, e così di seguito, sino alla
legge suprema, assiomatica, che è la causa di tutte le cause. Questo concetto
suppone necessariamente che le leggi siano deile realtà esistenti per se stesse,
delle coppie di 'entità astratte, come ammette Taine, o, se st, vi ha un'altro modo di sostantifìcarle, un'altra
forma qualsiasi di astrazioni realizzate; che le leggi particolari abbiano un'esistenza distinta da
quella dei fenomeni, e le leggi generali un'esistenza distinta da quella delle
leggi particolari subordinate. Supponiamo infatti che non sfa così, e prendiamo
il termine le(/ffe della natura nel suo significato ordinario cioè in
<iuello che esso ha sia nella teoria nominatista sia nella concettualista In
questo caso una legge particolare non sarà che
un'espressione sommaria dei fenomeni che se ne possono dedurre, e una
l«^gge generale che un'espressione sommaria delle leggi particolari che se ne
possono dedurre, e quindi, in ultima analisi, di una classe più larga di
fenomeni. Così essendo, la legge suprema, e il gruppo di leggi immediatamente
sabordinate ad essa, e i gruppi immediatamente subordinati a questo gruppo, e
così di seguito, sino all'ultimo bacino
del getto d'acqua, cioè al mondo dei fenomeni, non saranno che delle
espressioni differenti, cioè più o meno astratte, più o meno sommarie, di una
sola e stessa cosa, che è precisamente questo mondo dei fenomeni: andando da un
grado all'altro della gerarchia, le espressioni, o se si vuole aache, i
concetti differiranno, perii loro grado di astrattezza o di sommarietà, ma la realtà che loro
corrisponderà, la cosa espressa o rappresentata, ^arà sempre una sola e sempie
la stessa, il mondo dei fenomeni. Ma allora il progresso della deduzione, la
discesa da uno a un altro grado della
gerarchia, sam un progresso del pensiero, che si rappresenterà il reale di una
maniera sempre meno astratta, sempre più determinata, ma a <iuesto progresso
del [»ensiero non corrisponderà un
progresso analogo nel reale stesso; non sarà questo stesso che. come il
pensiero, passerà gradatamente da uno stato più indeterminato o più astratto a
uno stato più determinato o più concreto; e per conseguenza la deduzione non
sarà una derivazione reale, poiché perciò ogni nuovo passo nella deduzione
dovrebbe rappresentare la produzione di alcun che di nuovo nella realta stessa, e il rapporto
ha il principio e la conseguenza non potrà identificarsi a quello tra la causa
e 1eftetto. In breve 1'identificazione del principio alla causa e del a
conseguenza all'effetto suppone necessariamente che le due cose che si
riguardano come principio e come conse^'uenza siano due realtà distinte l'una
dall'altra come avviene nel sistema di Taine e in generale nel realismo; ma se il principio e
la conseguenza - cioè l'insieme delle conscuenze sono la stessa cosa espressa o
pensata di due maniere differenti come avviene nel nomiualisino e nel
concettualismo, è impossibile che l'uno si consideri come causa e l'altra come
effetto, perchè la causa e 1effetto sono necessariamente due cose differenti
CAUSA SUI, e una stessa cosa non può
essere la causa e l'effetto di se stessa CAUSA SUI. Fra i grandi sistemi
di realismo dialettico e (juello di Platone che ha la più grande affinità col
sistema di Taine, col quale lia comuni, oltre alla obbiettivazione dei concetti
e al metodo dialettico quale noi 1'abbiamo descritto nella sua forma generale,
altri caratteri più speciali, che possiamo ridurre a «piesti tre: i concetti
obbiettivati considerati come puri
oggetti e non anche come pensieri, come in Hegel; la gerarchia fra di essi,
fondata sulla loro generalità descrescente; e una deduzione che somiglia alla
deduzione ordinaria, perche non va, come questa, che dal generale al
particolare. I concetti obbiettivati sono chiamati da Platone, come si sa, le
Idee, cioè le specie noi scriveremo la
parola idea colla maiuscola, per
distinguere il senso platonico e t Noi Bou abbiamo indicata qui ohe una delle
ragioni della obbiettivazione dei concetti. Bealizzazione delle astrazioni.
greco del termine da quello affatto differente che ha nell’italiano, e che, per
la sua confusione col primo, ha forse contribuito, più che qualsiasi altra
ragione, a far accettare Vinterpretazione tradizionale del sistema platonico Le
Idee platoniche sono state erroneamente
interpretate in un doppio senso. L'interpretazione tradizionale vede in esse i
pensieri, cioè i concetti generali, della divinità creatrice, che sono stati
gli archetipi, i modelli, secondo cui questa ha creato le cose. A questa
interpretazione, che non ha alcuna base nei testi e che è con essi nella contraddizione
più evidente, la più parte dei critici moderni ne sostituiscono uq'altra, fondata, più che sui
testi stessi di Platone, come CODE e GRICE, sull'esposizione del sistema
platonico clie fa Aristotile – Grice: “Which, I now realise, it’s like studying
Kant as read by Hegel!”. Questa seconda interpretazione vede pure nelle Idee
gli archetipi, i modelli, delle cose, ma non ne fii dei pensieri della divinità
come la prima: le Idee sono, secondo
essa, degli oggetti esistenti fuori delle cose, in un altro mondo, e fra
questi oggetti e le co«e non vi ha altro
rapporto che quello tra 1'esemplare e la copia. Questa seconda interpretazione
non è così arbitraria come la prima, ma in compenso essa rende il sistema delle
Idee perfettamente vano e senza scopo. L'interpretazione tradizionale comprende
almeno che Vipotesi delle Idee deve
essere, come qualsiasi altra ipotesi sia scientìfica sia metafìsica, una
spiegazione del mondo, una risposta alla quistione delle cause; non
comprendendo, sì per la sua arduità che per il suo carattere poco naturale, la
spiegazione del mondo, la risposta alla quistione delle cause, del realismo
dialettico, cerca, per dare uno scopo e una significazione al platonismo, di
assimilarlo alla metafisica perenne dell'umanità, cioè
all'antropomorfistica, non vedendo nelle Idee che un elemento di una
spiegazione teologica. Ma alla interpretazione trascendentalista che pone le
Idee fuori delle cose, ma senza farne dei pensieri, sfugge necessarianiente la
spiegazione del realismo ai al etti co perchè questa suppone che le Idee, o
generalmente le entità astratte e universali, siano immanenti, cioè nelle cose stesse, ne siano 1'elemento
costante e generale, senza poterle sostituire un'altra spiegazione, come cerca
di fare 1'interpretazione teistica. L'interpretazione trascendentalista non
teistica è fondata, oltre che sull'autorità d'Aristotile, sul motivo di voler
salvare le idee platoniche da un'inconcepibilità di questo sistema, che è
comune agli altri sistemi di realismo dialettico. Le Idee sono gli attributi generali delle cose
sostnntificati, e di cui ciascuno è riguaidato come uno in se stesso, ma
inerente al tempo stesso nei diversi individui
a cui viene attribuito. Più
chiaramente, l'ipotesi delle Idee
consiste essenzialmente in questi due punti: Gli attributi astratti delle cose,
p. e. la bianchezza, 1'umanità, la corporeità, ecc., non sono delle semplici
astrazioni mentali, ma delle realtà. Essi sono, in un senso, delle astrazioni,
in quanto non si trovano altrove ohe nelle realtà concrete, negli oggetti
bianchi, negli uomini, nei corpi, ecc, in cui coesistono con gli altri
attributi da cui queste realtà concrete sono costituite, e perciò,
considerandoli isolatamente, noi li
astraiamo^ cioè li separiamo dagl'insiemi di cui essi fanno parte. Ma
poiché ciascuno coesiste con altri, esso esiste pure per se stesso, perchè le
cose che coesistono devono avere ciascuna una esistenza per se stessa. La
bianchezza dell'oggetto bianco, l'umanità dell'uomo, la corporeità del corpo,
ecc. sono dunque delle cose reali, (juantunque astratte, che si trovano
nell'oggetto bianco, nell'uomo, nel
corpo, ecc, e ne fanno parte, come il mio braccio o la mia testa si trova nel
mio corpo e fa parte di esso. Ma come il mio braccio o la mia testa ha
un'esistenza per sé distinta da quella delle altre parti del mio corpo con cui
coesiste, così la bianchezza, 1'umanità, la corporeità, ecc. hanno ciascuna
un'esistenza per sé, distinta da quella degli altri attributi degli oggetti
bianchi, degli uomini, dei corpi, ecc, con cui coesistono. L'astratto, in una
parola, non è nn termine uè un semplice concetto, ma un essere reale; e il
concreto non è la realtà unica, ma una realtà di secondo ordine, un composto, i
cui elementi sono degli esseri astratti. Gli attributi comuni dei diversi
individui non sono semplicemente simili, ma identici: ciascun attributo generale
è un essere unico, non vi hanno
altrettante entità quanti sono gli individui in cui si trova (juest' attributo.
P. e. uou vi hanno altrettante bianchezze astratte quanti vi hanno oggetti
bianchi, altrettante umanità astratte quanti uomini, altrettante corporeità
astratte quanti corpi, ecc. Vi ha una sola Hianchezza il bianco «^esso per se
stesso j una sola Umanità l'uomo stesso, una sola Corporeità il corpo
«^e««o, ecc., che esiste
niìmiìtannsLìnente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti
bianchi, in tutti gli uomini, iu tutti i corpi, ecc Se tutti gli oggetti bianchi o tutti gli
uomini o tutti i corpi sono egualmente bianchi o uomini o corpi, se tutti si
somigliano e portano lo stesso nome in una parola se vi hanno nella natura
delle classi, dei gruppi di esseri speci licamen te o genericamente identici, è
perchè in tutti gli oggetli bianchi« è presente y^ la stessa Bianchezza, in
tutti gli uomini la stessa Umanitti, in tutti i corpi la stessa Corporeità,
ecc., o, in allri termini, perchè tutti gli oggetti bianchi € partecipano »
alla stessa Idea del bianco, tutti gli uomini alla stessa Idea dell'uomo, tutti
i corpi alla stessa Idea del corpo, ecc. Ciascun'Idea è una in se stessa, ma
sembra moltiplicarsi per la sua presenza
simultanea in molti individui. Ogni attributo generale è dunque una Mep,. /T
entità unica, che è presente allo stesso tempo in tutti gli oggetti che
partecipano a quest'attributo. Se questo attributo è generale è perchè, essendo
imo e lo stesso in se, si trova simultaneamente in molte cose; la
partecipazione di queste molte cose a una stessa entità spiega perchè loro sia comune lo stesso attributo Ma come
Vuno può esistere simultaneamente nei molti, senza moltiplicarsi e senza
dividersi? È questa Tinconcepibilità da cui 1'interpretazione trascendentalista
mira a salvare il sistema delle Idee. Ma questa inconcepibilità è una
condizione necessaria del realismo dialettico, perchè (luesta metafica è una
spiegazione delle cose in quanto unisce alla
obbiettivazione dei concetti il metodo dialettico, e questo suppone che,
dediicendo le Idee, si deducano le cose stesse, e quindi che il mondo delle
Idee e quello delle cose non siano due mondi diversi, ma due aspetti diversi
Vastratto e il concreto sotto cui può considerarsi il mondo unico della realtà.
Ciò che vuol dire, in altri termini, die le Idee non siano fuori delle cose
trascendenti, ina nelle cose stesse /mma/ieHfj, che Vastratto non esista che
nel concreto, e che il concreto non sia che rastratto stesso, a un grado ulteriore
di determinazione. In opposizione alla interpretazione trascendentalista della
più parte dei critici contemporanei, è sorta la interpretazione di Teichmuller,
che è identica in sostanza aquella di Hegel. Il vantaggio di questa
interpretazione è che essa riconosce
Vimmanema delle Idee, quantunque sembra che non metta sufficientemente in luce
la loro sostanzialità, dalla quale sovratutto l'altra interpretazione deduce la
trascendenza deduzione, in un senso, logica, ma che sfigura la concezione
platonica, e le toglie qual CHIAPPELLI (vedasi) L’interpretazione panteista di
Platone. siasi valore filosofico. Ciò che Hegel comprese esattamente è la stretta affinità del sistema
platonico col suo proprio sistema. L'uno e l'altro sono costruiti sullo stesso
tipo, sono delle varietà di una stessa specie, che noi chiamiamo realismo
dialettico. Ma da questa identità spe^ ci/Ica
Hegel conclude erroneamente a un'identità quasi assoluta. Egli pretende
ritrovare in Platone gli elementi della sna propria dialettica, attribuendo
anche a lui il principio dell'identità
dei contrari, e gli fa ammettere pure la dottrina dell'identità dell'essere e
del pensiero ciò che è il motivo principale per cui Teichmuller nega il
significato evidente delhi immortalità dell'anima in Platone, cercando in essa
il simbolo di quella dottrina, ch'egli non riusciva a trovare nell'autore in
forma aperta e letterale. La conseguenza è che a questa interpretazione sfugge, come a tutte le
altre, il vero significato della dialettica platonica, e quindi il modo in cui
Platone spiega 1'universo, perchè la spiegazione causale delle cose, il loro
modo essenziale di produzione, è, nel suo sistema come negli altri analoghi, il
metodo dialettico che è la legge stessa delh', cose e non un semplice mezzo che
uìettiamo in opera per conoscerle. Un'interpretazione esatta della dottrina
delle Idee ha bisogno di distinguere nettamente due parti, sino ad un certo
punto indipendenti, (piantunque non senza legame fra di loro, della filosofia
platonica. Questa filosofia contiene due spiegazioni del mondo, due risposte
alla quistione del perchè. In un senso, la causa efficiente è, per Platone,
Dio, cioè l'anima del mondo, e l'universo è
spiegato d'una maniera antropomorfistica. È un'applicazione del concetto
immediato, spontaneo, della causalità efficiente. In un altro senso, la
efficienza causale, la spiegazione dell'universo, sta nel processo dialettico
GOTT IM WERDEN, cioè nel modo in cui le Idee procedono, o si deducono,
progressivamente le une dalle altre. È un'applicazione dell'altra fo^nia del
concetto di causalità efficiente. Queste
due spiegazioni coesistono armonicamente, senza mescolarsi e senza turbarsi
l'una con 1'altra. Vi ha un Idea di Dio o dell'anima del mondo, come delle
altre cose, e quest'Idea si spiega, come tutte le altre, per la sua produzione,
al momento necessario, nella evoluzione eterna del mondo delle Idee. Dio o
1'anima del mondo non è un'essenza spirituale nel senso moderno: è, come l'anima dell'uomo, esteso,
in movimento continuo, e muove i corpi comunicando ad essi il proprio
movimento. La dottrina dell'anima del mondo si le;ia col sistema delle Idee
perchè questo contiene una spiegazione teleologica delle cose l'Idea suprema,
vale a dire più universale, da cui le altre derivano, è l'Idea del bene, cioè
press'a poco, come vedremo, della
finalità. Il legame più
importante che ha con la dottrina delle Idee quella dell'anima umana, è
l'ipotesi che le anime hanno intuiti» le Idee in una vita anteriore, e che la
scienza la quale è A PRIORI è perciò una reminiscenza. Non vi ha luogo di
respingere il senso letterale, cercandovi invece un senso riposto, delle
dottrine platoniche sulFanima, sia divina, sia umana semimaterialità,
preesistenza e immortalità, reminiscenza, ecc.\ si perchè
sarebbe arbitrario, sì perchè esse entrano perfettamente nell'ordine dei
concetti dell'epoca. La dottrina della intuizione delle Idee in una esistenza
anteriore, con la sua conseguenza, cioè che la conoscenza è una reminiscenza di
quest'intuizione, è costruita essenzialmente sullo stesso tipo che le altre
dottrine di una intuizione sovrasensibiìe
Malebranche, GIOBERTI (vedasi), ecc., e serve, come queste, a spiegare
la coincidenza tra il pensiero e la realtà in una conoscenza indipendente
dall'esperienza. Le dottrine platoniche Saggio sull'anima hanno dato luogo a
delle interpretazioni incompatibili col significato reale della dottrina delle
Idee, di cui le più importanti sono: che Platone ha ammesso la dottrina
dell'identità del pensiero e
dell'essere, e che l'immortalità dell'anima, 1'intuizione delle Idee in
un'esistenza passata e la reminiscenza non sono clie dei simboli di questa
dottrina che l'anima del mondo è un'entità intermediaria fra le Idee e le cose,
in modo che è i)er mezzo di essa e, per dir così, a traverso ad essa, che
l'azione delle prime si esercita sulle seconde che Dio è identico all'Idea
suprema (l'Idea del Bene o al complesso di tutte le Idee. Noi
esporremo le dottrine di Platone sull'anima e la divinità, e discuteremo queste
interpretazioni, in un Supplemento. Vi hanno dei punti, nel sistema delle Idee,
che non si riattaccano ai principii fondamentali di questo sistema cioè all'obbiettivazione
dei concetti, e al legame logico introdotto fra i concetti obbiettivati per
assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la eausa
e l'effetto, e di cui anzi alcuni sono in contraddizione con le loro conseguenze
più naturali. Tali sono le dottrine: che le idee sono numeri; che esse
costituiscono le sole /orme delle cose, ad esclusione della materia, che le
Idee e tutti gli esseri risultano da due principii egualmente primitivi, 1'uno
formale e l'altro materiale, che le entità
matematiche formano una terza classe di esseri, intermediari fra le Idee
e le cose. In un altro Sup[)leinento daremo l'interpretazione di queste
dottrine, e cercheremo i motivi su cui sono fondate. Il sistema di Platone ci
occuperà assai più largamente che qualsiasi altro. È ciò che non ci sembra
inopportuno, sì per l'influenza eccezionale ch'esso ha esercitato nella storia
della filosofia, sia direttamente, sia
per l'intermediario della filosofia aristotelica, sì per le controversie a cui
ha dato luogo la sua interpretazione. La quistione più controversa, quella deW’immanenza o trascendenza delle Idee, per non
interrompere con una argomentazione troppo prolissa il corso della nostra
esposizione, la tratteremo in un altro Supplemento. In questo capitolo
parleremo solamente della dialeiilca,
mostrando in che consiste e come essa sia una spiegazione delle cose, e
indicando le prove che giustificano il nostro modo d'interpretarla. La teoria
della conoscenza di Platone è un apriorismo il più radicale. I sensi non sono,
secondo lui, una sorgente della conoscenza, sono anzi per essa un ostacolo. 11
corpo è un impedimento all'acquisto della scienza, quando viene associato a questa ricerca. Se qualche cosa della
verità può manifestarsi all'anima, è nell'atto del pensiero, quando essa non è
turbata né dalla vista né dall'udito, ma racchiusa in se stessa e sciogliendosi
per quanto è possibile da ogni commercio e da ogni contatto col corpo, aspira a
conoscere ciò che é. Non è per mezzo degli occhi o degli altri sensi che si
perviene a scoprire le "essenze delle cose, ma bisogna per ciò applicare il pensiero
stesso all'oggetto che si considera, € non associando agli atti della ragione
né quelli della vista né quelli di aìcun altro senso, ma impiegando il pensiero
puro nella ricerca della pura essenza di ciascuna cosa. La. Fedone . Il
dialettico senza l' aiuto degli ocelli né degli altri sensi si eleva alla
conoscenza dell'essere per la sola forza della verità Rep, o in altri termini, per la ragione sola Rep.
Fedone Rep, eco. fe scienza é dunque il prodotto della spontaneità dello
spirito questo non deve ceicare la verità al di fuori, ma in se stesso: perciò
Platone dice che il movimento dell'intelligenza é, come quello dell'universo,
in se stessa e da se stessa. Di là la maieutica che egli attribuisce a Socrate:
questi non fa che aiutare il parto dell'idea, se l'int^erlocutore è fecondo, ed
è evidente che quelli che tirano profìtto dalla sua conversazione GRICE
CONVERSATION, non imparano niente da
lui, ma ritrovano in se stessi delle conoscenze che già possedevano, e eh' egli
trae dalle viscere della loro anima. Per
conoscere tutto il divino Platone chiama divino tutto ciò che è sovrasensibile
e quindi anche le Idee basta guardare dentro se stessi, nella propria
intelligenza. La sapienza è una virtù insita nell'anima, non é come le altre
virtù dell'anima e del corpo, che sopravvengono per 1'esercizio e 1'educazione:
Y intelligenza somiglia all'occhio; come questo non può non vedere, quando è rivolto verso gli oggetti rischiarati dalla luce, COSI quella non può non intendere
quando è rivolta verso l'intelligibile, cioè verso l'essere realmente
esistente. In certo modo la scienza di tutto ciò che esiste ci è innata,
quantunque non ne abbiamo coscienza: e ciò Tim. Teeieto Alcih Rep. L'ultima
proposizione è una conseguenza evidente dell'apriorismo, ed è facile di trovare delle proposizioni simili negli
altri filosofi aprioristi. p. e. Cartesio CITATDO DA GRICE DESCARTES ON CLEAR
AND DISTINCT PERCEPTION Jiieerca della verità per il lume naturale Opere
pubblio, da Cousin, Malebranche Rieerca della verità, Leibnitz CITATO DA GRICE
COME L’INVENTORE DELLA DISTINZIONE TRA L’ANALITICO E IL SINTETTICO iV. S,
sulVint, uni., ecc. Aristot. Mei. anche oltre i luoghi che citeremo in seguito sulla reminiscenza Politico: noi conosciamo naturalmente tutto,
ma come in un sogno; acquistare una conoscenza nuova è passare dal sogno alla
veglia. -«r- che si dice imparare non è
in realtà che ricordarsi dì ciò che già si sapeva. Ciò die
h) prova è che tutti gli uomini, se sono bene interrogati, trovano tutto da se stessi: che
s'interroghino su delle figure di geometria o su di altri oggetti simili, e vsi
vedrà che è così. E intatti Socrate nel Menone si rivolge Jid uno schiavo e lo
conduce, per mezzo di convenienti interrogazioni, a scoprire che, per avere un quadrato
dop])io di un altro, bisogna elevarlo sulla diagonale di quest'nltro. Grice: I still would
not call the slave’s reasoning correct – he was FORCED to a conclusion! È manifesto, dice Socrate, che è da se stesso
che lo schiavo scopre questa verità, e che egli non gl'insegna niente, ma si
limita a interrogarlo sulle sue proprie opinioni GRICE: In “On being forced to
a conclusion” Wood argues thta slaves lack the realm of ends: le interrogazioni
di Socrate non fanno che risvegliargli ciueste opinioni, che già si trovavano in lui, e che, così risvegliate, divengono conoscenze. Così
egli conosce senza avere imparato da alcuno, tirando la scienza dal suo proprio
fondo Ed egli farà lo stesso per le altre parti della geometria e per tutte le
altre scienze. La dottrina della reìnitiiscenza contiene evidenteniente due
proposizioni distinte: l'una è hi costatazione di un preteso fatto psicologico
che non è che una generalizzazione
illegittima di ciò clie Platone ha osservato nella geometria dello schiavo, no
del libero, cioè che lo spirito tira la conoscenza dal suo proprio fondo, o in
altri tninini, che la conoscenza è A PRIORI; Valtra la spiegazione di questo
fatto, cioè che ranima ha contemplato le Idee in una vita anteriore, e che è perciò
che l'intelligenza in questa vita attuale jmò riprodurre A PPRIORI l'intelligibile. Di queste due
proposizioni, noi non dobbiamo per ora fare attenzione che Fedone Meno Menoue
Fedone Fedrj ecc. alla prima: della seconda ci occuperemo in seguito, mostrando
che la spiegazione platonica è costruita essenzialmente sullo stesso tipo che
le altre ipotesi dei tilosotì aprioristi per cui essi hanno cercato di spiegare questa inverosimile coincidenza che la loro dottina stabilisce fra il
pensiero e la realtà. Una teoria della conoscenza empirista ha per correlativo
il metodo induttivo; una te<u'ia della conoscenza ^ipriorista, il metodo
deduttivo. Cosi è questo il metodo inculcato da Platone. Si deve, in ogni
ricerca, stabilire un principio, e poi farne derivare tutto il resto. Se vi ha
bisogno, quindi, di giustiiìcare una proposizione, lo si fa derivandola da qualche proposizione
superiore, e questa ancora da un'altra, e continuare così sinché si arrivi ad
un princii^io che ci sembri sufficientemente solido. Ciò che distingue la
scienza daWopinione vera, Crai.: In ogni cosa ò sul principio che ciascuno deve
portare una lunga attenzione e un lungo esame, per vedere se esso è stato ben
posto o no: dopo averlo esaminato
sufficientemente, bisogna che tutto il resto sembri derivarne. Nel
Fedone è così che descrive il metodo ch'egli segue dacché ha scoverto la
dottrina delle Idee: supponendo sempre il principio ohe mi sembra più VALIDO
GRICE LA CONEZIONE DEL VALORE, tutto ciò che mi sembra piùVALIDO GRICE LA
CONCEZIONE DEL VALORE, VALIDO TIMIDO -IDO tutto ciò che mi pare essergli
coìiforme lo ammetto come vero. e così fo sia ohe si tratti della ricerca delle
cause, sia di qual8ia8i altro oggetto; tutto ciò che non gli è conforme lo
rigetto come falso. Fedone dopo aver detto che le cose sono belle per ]*Idea
del bello, grandi iier l'Idea del grande, ecc.: se dovessi rendere ragione di
quest'ipotesi cioè dell'Idea del bello, o del grande, ecc., non lo farai allo stesso modo, ponendo ancora uu'altra
ipotesi, quella che ti parrà più conveniente tra i principii superiori, finché
perverrai a qualche cosa di sufficiente? E discutendo del principio cioè della
proposizione ultima da è che nella prima abbiamo anche la conoscenza del
perchè, della ragione di ciaftcuna proposizione; nella seconda conosciamo la
proposizione, ma senza il perchè. Vi ha,
in verità, un altro carattere distintivo, anch'esso importante: è che
l'opinione, anche vera, è sempre incerta
ed ondeggiante, mentre la scienza è immutabile. Ma questo secondo carattere non
è che una conseguenza del primo. Menone è sorpreso perchè si faccia più caso
della scienza che dell'opinione vera, e perchè siano due cose differenti.
Socrate risponde: Le opinioni vere, sinché
restano ferme, sono una bella cosa e producono ogni sorta di vantaggi;
ma esse non consentono a restare f^rme lungamente e fuggono dall'anima
dell'uomo; dimodochè esse non sono d'un gran pregio, a meno che non si leghino
per il ragionamento tirato dalla causa. cui le ipotesi saranno state dedotte e
delle cose che se ne deducono, non ti guarderai di confondere tutto insieme,
come fanno gU antilogi, se vorrai
giungere alla scoverta di alcuno degli esseri? Platone chiama ipotesi una
proposizione, anche la più certa, sinché non è stata dedotta. Bep., luoghi che
citeremo in seguito. Le ipotesi di cui sì tratta qui' come nei luoghi della
Bvpiihhliea sono delle proposizioni che pongono l'esistenza di qualche Idea;
così il precetto di Giustificare una proposizione, deducendola da altre superiori, non si applica qui che a
tali proposizioni Platone vuole ohe si deducano da altre ponenti delle Idee
superiori gli stessi luoghi della Repubblica. Ma noi abbiamo il dritto di
generalizzare questo precetto, perchè, come vedremo, la scienza, nel senso
rigoroso del termine, consiste appunto per Platone in un incatenamento di tali
proposizioni e i principii da cui esse si
deducono. Tim. e. Conv.,
eco. Tim, Meno,
ecc. Questo è ciò che sopra abbiamo chiamato reminiscenza. Queste
opinioni cosi legate divengono dapprima scienze, e poi stabili. Ecco come la
scienza è più preziosa della opinione vera, e con»e essa ne differisce per
Fincatenamento». 11 carattere essenziale della scienza è dunque secondo Platone
Fincatenamento deduttivo delle
proposizioni. Le parole del luogo citato ci mostrano inoltre il rapporto
tra il metodo deduttivo e Papriorismo di Platone. Se la deduzione non è altra
cosa che la reminiscenza, siccome questa implica il principio che lo spirito
tira la scienza dal suo proprio f(mdo » o in altri termini che la conoscenza è A
PRIORI, ne segue, da una parte, che la coooscrjnza A PRIORI di Platone non è
che una conoscenza che si produce per la
deduzione pura, e da un'altra parte, che la deduzione platonica è un metodo A
PRIORI, vale a dire che il suo punto di ymrtenza non sono delle proposizioni
induttive e sperimentali, ma dei principii evidenti per se stessi. Questo
risulta del resto da tutte le altre prove dell'apriorismo di Platone. Il metodo
platonico non è dunque solamente deduttivo,
ma dimostrativo. Platone, corne tutti i filosofi aprioristi, eleva il
metodo geometrico a metodo universale della scienza. Noi abbiamo osservato nel
paragrafo precedente che, nel Menone, la dimostrazione geometrica è il dato di
fatto, da cui Platone conclude il princìpio generale che la scienza è A PRIORI,
e quindi la dottrina della reminiscenza. Una conseguenza e al tempo stesso
un indizio dell'apriorismo è
l'importanza capitale, quasi esclusiva, attribuita al metodo. È ciò che si vede
in Cartesio GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION, in Meno., luogo
citato nel paragr. precedente. Menone Hegel e, in uua parola, in tutti i
filosofi aprioristi. Platone non fa eccezione. Egli designa il proprio metodo
col nome di dialettica. In un senso lato,
la dialettica è Varte d'interrogare e di rispondere Platone, con tutta
la scuola socratica, vede nel dialogo LA CONVERSAZIONE DI GRICE la forma
naturale d'investigare la verità – and hamburghers GRICE. In un senso più
ristretto, è il metodo per arrivare alla conoscenza delle essenze delle cose,
delle Idee. Ma tale è l' importanza del metodo in questo sistema, che la stessa
parola dialettica serve ad indicare la scienza degli oggetti stessi su cui
versa questo metodo, cioè la scienza del mondo ideale. Un altro carattere che
Platone ha in comune con tutti i filosofi radicalmente aprioristi, è che per
lui la filosofìa non è una scienza, ma tutta la scienza. La dialettica, egli
dice, è la scienza che conosce tutte le altre scienze. Queste non fanno che
apprestare i materiali alla dialettica;
è essa che mette in uso le loro scoverte. 11 filosofo ama la sapienza, non in
tale o tal altra delle sue parti, ma tutta intera, e non me Oratilo, Bep. eec.
Verso hi fine
dela Bcp. Platone lamenta gV
inconvenienti deUo studio della dialettica quale viene insegnata ai suoi
giorni. In questo luogo sono compresi in un concetto comune e designati con gli
stessi termini il metodo proprio dell'autore
e l'arte della conversazione o della discussione che insegnano i sofisti come
GRICE. Il pensiero stesso è, egli dice, un dialogo o CONVERSAZIONE dell'anima
con sé stessa – IMPLICATURE-FREE GRICE, in cui essa s'interroga e si risponde.
Teet, Sof, liepuhhl.,
Fileho Bep, Nel ^V
fista a la dialettica è identificata alla filosofia. FU. Eìitid. Bep. rita questo nome se non colui che mostra del gusto per
ogni sorta di scienze, clie vi si dà con ardore, e che è insaziabile d'
imparare Bisogna dunque che il dialettico abbia un'anima che aspiri, sin dai
primi anni, al possesso di tutta la verità, e ad abbracciare nella loro
universalità le cose divine ed umane, contemplando tutti i tenii»i e tutti gli
esseri; ed è nella sua natura di ricercare le essenze di tutte le cose, o, per usare la espressione
stessa di Platone, Vessenza tutta' intera, senza rinunzi ire ad alcuna delle
sue parti. In verità r oggetto della tìlosoMa, o della dialettica, non sono i
fenomeni, ma S(»lamente le Idee: ma la scienza non è che delle Idee, dei
fenomeni non vi ha che opinione perchè la scienza è dell'universale, e
Vuniversale è ridea; così, siccome l'oggetto della filosofia o della dialettica non è una parte, ma la
totalità, del mondo ideale, essa è, malgrado ciò, la scienza universale. Questa
universalità della filosofia deriva dall'essenza stessa della metafisica
apriorista, della stessji maniera che r importanza attribnita al metodo. Gli
altri sistemi metafisici consistono a dare una spiegazione dei fenomeni,
introducendo degli agenti ipotetici posti al di là dei fenomeni stessi; e in questi sistemi, la
filosofia non è propriamente che la teoria di questi agenti ipertìsici.e della
loro azione sul mondo reale. Ma che un metafisico apriorista trascenda o
no Supplem. suU'imnian. delle Id. plat.
P. e. Aristotile identifica la scienza prima con la teologia. Mct. mondo reale,
il processo essenziale della metafisica apriorista è, in ogni caso, tutt'altro:
il suo scopo è d'imprimere nel reale
stesso il carattere della necessità e della RATIO GRICE razionalità, e il mezzo
per raggiungere questo scopo un'elaborazione del sapere empirico per
trasformarlo in un sapere A PPRIORI. Così in questa forma di metafisica la
filosofia non si distingue dalle altre scienze per un contenuto proprio, ma per
la forma, cioè per il metodo scientifico: il suo contenuto è quello delle altre scienze, che
queste hanno prodotto con un metodo empirico, e ohe essa pretende riprodurre
con un metodo A PRIORI. All'universalità della conoscenza filosofica questa
varietà della metafisica apriorista che presentemente studiamo cioè quella che
al metodo a priori o dimostrativo unisce la realizzazione dei concetti
aggiunjre costantemente un altro
carattere, cioè la sua sistematicità, il legame intimo introdotto tra
tutte le verità. Né anche su questo CoDfr. i luoglii di ScheUiiig e Hegel
citati Citiamo anche qui Schelliug: l'idea deUa scienza assoluta,
incondizionale, che è assolutamente una, e nella quale ogni scienza è pure
necessariamente una, di questa scienza prima, che non si divide in più rami che
per corrispondere ai diversi gradi del
mondo ideale visibile, e si sviluppa nell'albero incommensurabile della
conoscenza p. Ogni pensiero che non è
stato pensato in questo spirito dell'unità e dell'universalità è in sé vuoto e
deve essere rigettato. Ciò che non è suscettibile d’essere compreso
armoniosamente in quest'insieme organizzato e vivente è un» sostanza inerte
che, secondo le leggi organiche, sarà, presto o tardi, espulsa Lezioni sul
metodo degli studii accademici Ed Hegel:
I^ scienza dell'assoluto è necessariamente sistematica. essa deve, in altri
termini, formare un insieme di conoscenze legate strettamente fra di loro Una
tìlosofia ohe non riposa sopra una
conoscenza sistematica non costituisce una scienza, ma piuttosto una forma, una
maniera GRICE MANNER Di DI-MORA -- di sentire indiviì punto Platone fa
eccezione: Ogni specie di figura, ogni costituzione di numero, ogni ragione
d^armonia e di rivoluzione degli astri, tutte le cose devono manifestare il
loro mutuo accordo a chi imparerà secondo il vera metodo, e lo manifesteranno
se chi impara guarda all'unità, perchè la riflessione gli scoprirà un legame
unico che unisce naturalmente tutte le cose. Non si può conoscere la natura d'una cosa sola, per
esempio dell'anima o del corpo, senza conoscere la natura di tutto l'universo
Così, nel suo piano di educazione tracciato nella Repubblica. Platone prescrive
che lo studio delle scienze, affinchè non sia un lavoro inutile, pervenga ai
loro punti di contatto e alla loro parentela reciproca, e le comprenda nella
loro affinità; duale e contingente
quanto al contenuto. Una conoscenza non è giustificata che quando essa è
il momento di un tutto, in fuori del quale non è che un'ipotesi o un'opinione
soggettiva. Inirod. alV Enciclopedia, Del resto questa unità sistematica,
propria della elasse di metafìsici di cui parliamo, più che dalle loro
dichiarazioni su ciò ohe deve essere la scienza speculativa, si vede dal modo
in cui essi hanno cercato effettivamente
di realizzarla. Rimandiamo anche perciò a quello che abbiamo detto in questo
capitolo su Taine e a quello che diremo su Spinoza. Epinom. FU. Ivi, per illustrare
il metodo dialettico, è proposta come esempio l'invenzione delle lettere: dopo
aver distinte le varie lettere e riunitele in generi, e riuniti questi generi
in uno solo come vedremo che fa la dialettica per le specie di tutti gli esseri, l'inventore delle
lettere,. € vedendo che nessuno potrebbe apprenderne una sola separatamente e
senza a]»prenderle tutte, ne immagina il legame come unico e faciente di tutte
qualche cosa di uno – GRICE: DISTINCTIVE FEATURES IN PHONOLOGY -- , e l'arte rispettiva chiama, col nome d'un
'arte unica, grammatica. Fedro Rep, e elle, dopo che sono state studiate isolataniente, siano presentate nel
loro complesso, perchè sia compresa, in una vista d'insieme, l'affinità di
queste scienze fra di loro e della natura dell'essere. Questa è la prova
migliore per distinguere da ogni altro l'ingegno dialettico; chi è idoneo a una
vista d'insieme è dialettico, gli altri no. Il legame di tutte le verità fa
che, datane una, noi possiamo, senz'altro, ritrovare tutte le altre. GRICE: “One problem with this is
synchroniciy. My surname, Griss, Anglo-Norman, is pronounced by an Anglo-Norman
in such a way that an Anglo-Saxon would not understand him – he would roll the
r! Tutta la natura
essendo aflìne, e l'anima avendo appreso tutto, niente impedisce che alcuno,
ricordando una cosfi sola, ciò che gli uomini chiamano imparare, ritrovi da
se stesso tutte le altre, purché abbia
della costanza, e non desista dalla ricerca: ricercare infatti e imparare non è
altro che ricordarsi. In altri termini,
tutte le cose essendt) legate fra di loro, il ricordo di una sola può
richiamare tutte le altre il passaggio da una conoscenza ad un'altra è
identificato all'associazione delle idee, per cui un ricordo suggerisce un
altro ricordo. ^la questa reminiscenza
non è, come abbiamo visto, che la deduzione. Così noi comprendiamo in
che consista questo leiranu^ naturale che unisce tutte le cose: è un legame
loirico. che deve incatenare tutte le conoscenze, deduceudole da un principio
unico. Per formarci un'idea più precisa del metodo platonico, cioè della
dialettica, noi dobbiamo paragonarlo col metodo matematico. È ciò che fa
Platone stesso nella Repubblica. A
questo riguardo noi abbiamo già osservato che (questi, come in generale tutti i
metafìsici aprioristi, ha immaginato il suo metodo filosofico sul tipo di
quello delle matematiche le sole, tra le siiienzc costituite, che siano
puramente deduttive. Una conferma di questa osservazione è che egli vede nello
studio delle matematiche una preparazione indispensabile a quello della dialettica. Esso ne è \ii propedendea o il preludio: è esso die
rende utile, da inutile che era, la facoltà dell'intelligenza; che purifica e
rianima l'organo della verità, acciecato e quasi estinto dalle altre
occupazioni della vita; che libera l'anima, imprigionata nella caverna dei
sensi, e la fa ascendere nella regione superiore; e che la volge, dalle tenebre
ov'era immersa, verso la luce
dell'essere e del vero Infatti, l'intelligenza essendo come l'occhio,
che non può non vedere quando è rivolto verso la luce, l'importante è di farla
volgere verso la verità, di dirigerla bene in modo che guardi là dove bisogna
guardare: questa evoluzione, περιαγωγή, -- cf. Grice epagoe, diagoge -- dell'intelligenza
è l'opera delle matematiche. Questo rapporto fra la dialettica e le
matematiche è espresso da Senocrate con
una frase un po'volgare ma incisiva, chiamando queste i manichi della Jìloso/ia
lU. Fra le scienze che costituiscono la propedeutica delhi dialettica, vengono
contatta, oltre le mateaiaiiche pure, cioè il calcolo la logistica a la geo
Kep. Meli.
Men. <*it. nel punip:. prec. ICep,
lil>. liep. Hep, liep. Diog. Liiert. inetria, anche alcuno che possiamo riguardare
come matematiche applicate, cioè
l'astronomia e V armonia GRICE WAS A PIANITS COWARD TOO BUT NO CONSECUTIVE
FOURTHS. Ma queste scienze hanno valore sopratutto, per Platone, come esercizi
ed applicazioni delle matematiche pure; egli vuole che si studino, non tanto
per la conoscenza dei fenomeni reali, quanto per i problemi matematici a cui dà
luogo la considerazione di questi
fenomeni. Il pensiero di Platone è, al fondo, che solo le matematiche possono
svegliare il bisogno della conoscenza filosofica contraddistinta da questi due
caratteri: l'universalità e astrattezza dell'oggetto, e il metodo dimostrativo
e al tempo stesso darne anticipatamente un modello, quantunque imperfetto.
Questa seconda proposizione è tanto vera, che Platone divide
l'intelligibile in due parti, l'una che
è l'oggetto della matematica, e l'altra della dialet Bep. questo luogo e la sua
interpietazioue nel Suppletn. stili' imman. delle Idee. Evidentemente Platone
riguarda lo studio delle mnteuiatiche applicate astronomia e armonia come un
accessorio di quello delle matematiche pure geometria e logistica. Così quando
vuol dare un'idea generale dei processi delle discipline che formano la propedeutica della dialettica,
egli non descrive che quelli della logistica e, sopratutto, della geometria
Hep,; e volendo indicare tutte queste discipline nel loro insieme, non fa
espressamente menzione che della sola geometria, o della geometria e della
logistica, considerandone le altre C(mie un accompagnamento. Così: la
geometria, il cailcolo e simili; la geometria e le ani sorelle; T abito delle cose geometriche e
delle cose simili; la geometria e le arti seguaci; il calcolo, la geometria e
tutta la propedeutica della dialettica. Come si vede, la geometria prende il
passo sulla logistica: è perchè è la prinui che otfre più spiccato ciò che per
Platone è la caratteristica della vera scienza, cioè l'incatenamento deduttivo.
tica, e considera la prima come
un'immaginazione della seconda. Noi diremmo ciie il modello è la
matematica, e la dialettica l'immagine; ma Platone inverte la relazione.
Com'egli chiama le cose immagini delle Idee, che egli ha immaginate sul modello
delle cose, così chiama il metodo matematico immagine della dialettica, ch'egli
ha immaginata sul modello del metodo matematico. Veniamo ora alle dift'ereuze
fra il metodo matematico e il metodo
dialettico. Perciò faremo parlare Platone stesso: KEP. D Socrate: Abbi dunque
due specie di oggetti^ il visibile e l'intelligibile. GRICE: SO what I see I
don’t understand? E come prendendo una
linea divisa in due parti ineguali, dividi ancora secondo lo stesso rapporto
ciascuna di queste due parti, quella del visibile SENSIBILIA e quella dell'intelligibile, e giusta la chiarezza e l'oscurità relative,
per una delle parti del visibile avrai le immagini. E Chiamo immagini prima le
ombre, poi i fau A tasini rappresentati nelle acque e sulla su Bep. Suppl, £nt. matem., nota. Platone rappresenta la
totalità degli oggetti della conoscenza per una linea divisa in due parti, di
cui l'una rappresenta la parte piìi chiara e l'altra la parte più oscura di
questi oggetti, cioè l'una l'intelligibile e l'altra il visibile – cf. Wells,
THE INVISIBLE MAN; e vuole che ciascuna di queste due parti sia suddivisa
secondo lo stesso rapporto secondo cui è stata divisa la totalità, cioè in modo
che l'una delle due suddivisioni del visibile, e di quelle dell'intelligibile,
sia altrettanto più chiara dell'altra quanto tutto l'intelligibile è più chiaro
di tutto il visibile. La suddivisione
meno chiara del visibile saranno le immagini. B C perfìcie dei corpi opaclii,
lisci e brillanti, e tutte Te altre rappresentazioni di questo genere. Per
l'altra parte poni gli oggetti cìie queste immagini rapjiresentauo, cioè gli
animali, le piante e tutti i prodotti della natura o del Parte. Se vuoi,
<liremo ancora elle la divisione è stata fatta secondo il rapporto del vero
e del non vero, di (piesta numiera: come
Vopinabile cioè il visibile è al conoscibile cioè all'intelligibile così
Vimmagine è «illa cosa Vediamo (ua come si deve dividere rintelligibile Una
parte di esso l'anima è costretta «l'investigare servendosi come
<l'imm.igini degli oggetti che già sono stati divisi, e partendo da ipotesi,
non per risalire al principio, ma per discendere alla conclusio^le ; 1'altra
parte, andando dalle ipotesi al princii)io che non è un'ipotesi, e stMiza
servirsi di immagini come fa per la prima,
procedendo unicameiì' te con ldce> per via di Idee (avio'tg eìòeni
<h^ avKhy tì]t^ ^iHoihìy lotovutyr^)
Tu sai infatti che quelli che trattano la geometrìa, la logistica e altre arti
simili, sup]»oiigono il pari e l'imj>ari e le ii.rure e tre specie di angoli
e altre cose simili secondo Vale a dire la proporzionalità fra le due parti
del visibile o dell'intelliccibile, paragouate tra di loro, e il visibile e
rintelligibile, parasjonati riino con l'altro, sunsisterà ancora, se invece di
paragonare questi oggetti per il grado della loro evidenza^ si paragoneranno
per quello della loro realtà: le cose sodo altrettanto più reali delle immagini
quanto rintelligibile lo è del visibile. D E A B ciascuna arte, e che
supposte queste cose come conosciute, non credono dover darne ragione né
a sé stessi uè agli altri, come di verità manifeste per t«itti; e che infine,
partendo da queste ipotesi, discendono logicamente, di proposizione in
proposizione, sino alla conclusione che si erano proposti di dimostrare. Tu sai
pure ch'essi si servono di figure visibili, e ragionano sopra di quéste, ma dirigendo il pensiero, non ad esse, ma a
quelle di cui esse sono le immagini, facendo le dimostrazioni, p. e., in grazia
del quadrato litesso e della diagonale stessa cioè delle Idee, ^ non del
quadrato e della diagonale che essi disegnano, e così per tutte le altre
figure, sicché essi usano come d'immagini delle figure che disegnano, e delle
quali vi hanno pure le ombre e le immagini nelle acque, cercando di contemplare
quelle altre figure che non si possono contemplare che con la ragione r?j ^la^oia. Io ho chiamato questa una parte
dell'intelligibile, ma ho detto che nella sua investigazione 1'anima è
costretta a servirsi d'ipotesi, non andando al principio, poiché non può
risalire al di là delle sue ipotesi, e a fare uso come d'immagini delle
cose stesse che alla loro volta hanno
per immagini altre cose inferiori, in paragone delle quali sono chiamate reali
e come tali state classate nella nostra divisione. Per l'altra parte
dell'intelligibile io intendo quella che la ragione stessa attinge per la potenza
della dialettica, le ipotesi non facendo principii, ma real11 D £ . mente
ipotesi, servendosene come di gradini e di punti di appoggio, sincliè pervenga a ciò che non è un'ipotesi,
al principio del tutto {lov nayzóg^ e
attintolo e attaccandosi nuovamente nàhy
av alle cose att.accate ad esso, discende così sino alla conclusione,
senza fare uso assolutamente di alcun sensibili», ma solo di Idee, andando
a:t Idee per via di Idee, e terminando
ad Idee («Aa' eìi^eaiy aliolg ÓL^aviiby
Big avià^ y.ai
zeUvià u^ BuSr^. Glaucone. Comprendo, quantunque non
abbastanza. Mi pare che tu dica qualche cosa di arduo; ma in somma tu vuoi
stabilire che la parte deli'essere e dell'intelligibile che si conosce per la
scienza della dialettica, è più evidente di quella che si conose per quelle che
chiamiamo arti, che hanno per principii delle ipotesi, e chi contempla i loro
oggetti ò costretto certamente a
contemplare con la ragione dtayoia e non coi sensi, ma poiché investiga non
risalendo al principio, ma da ipotesi, non ti sembra avere intelligenza yovà^
intorno a questi oggetti, benché col principio diverrebbero intelligibili. La
facoltii delle cose geometriche e simili tu la chiami, mi sembra,
raziocinazione <Siàvoiay e non intelli(jenza ^où/', come se la rasiocinazione
fosse qualche cosa d'intermedio tra
Vopinione e Vintelligenza,'^ Socu. Tu mi hai compreso peifetta mente. Ora a
quelle quattro parti di cui abbiamo parlato, applica queste quattro alfezioni
dell'anima: Vintelligenza yór^ai^ alla suprema, alla seconda la
raziociiiazione, alla terza la fede, e all'ultima Vimmaginazione; ordinandole
secondo questo rapporto: quanto gli oggetti a cui si applicano partecipano
della verità, altrettanto esse
partecipano dell'evidenza. Kep. «Ninno certamente ci contesterà che il metodo
dialettico é il solo che cerchi di pervenire, con un ordine dato vó6} na^ù ;rarróg, alle essenze di tutte le cose; ma la
più parte delle altre arti non si occupano che delle opinioni degli uomini e
dei loro bisogni, o delle produzioni e composizioni, o della conservazione
delle cose prodotte e composte; le altre
che abbiamo detto imrtecipare in qualche modo C all'essere, cioè la geometria e
quelle che la seguono, sognano intorno all'essere, ma é impossibile ad esse di
vederlo in veglia, sinché, servendosi d'ipotesi, le lasciano immobili e non
possono rendL-rne ragione. Quando infatti vi ha un principio che non si
conosce, quand'anche la conclusione e le proposizioni intermedie derivate da
ciò che non si conosce siano ben legate fra di loro, come una tale
dimostrazione potrebbe formare una scienza? Solo il metodo dialettico procede
per questa via, facendo risalire le ipotesi al principio per renderle ferme, e
trae a poco a poco l'occhio D dell'anima dal pantano barbarico in cui é Cioè y
intelligenza jille Idee, la razioeinazione air iute 111gi1»ile che »i
conosce per le mateiuaticlie. la fede
alle cose alla realtà feuomeuale, e Vimmaginazione eiy.adca alle immagini
elxóyeg, \ inimerso, e lo eleva
nell'alto, serveudosi per ministri ed ainti delle arti di cui abbiamo parlato:
le quali spesso, per l'abitudine, abbiamo chiamato scienze, ma abbisognano di
un altro nome, più chiaro dell'opinione ma più oscuro della scienza; noi sopra
le abbiamo chiamato rmiocinazione, ma
non è fra noi questione di nomi,
occupandoci di cose tanto importanti. Chiamiamo dunque, come sopra^, E la prima
porzione scienza^ la seconda
raziochiazione, la terza fede e immaginazione la A quarta; e le due ultime opinione, le due
prime intelligenza yóìjdit^: Vopinione intorno al divenire ai fenomeni,
Vintelligenza intorna all'essere; e ciò che l'essere è al divenire, l'/'/itelligenza è aìVopinione, e
ciò che l'intelligenza all'opinione, la scienza alla fede e la rasiocinazione
tiW immaginazione. Fermiamo le proposizioni più importanti: Vi hanno quattro
forme di conoscenza, o meglio dì credenza, corrispondenti a quattro classi di
oggetti che possono cadere sotto queste facoltà. Come le quattro classi di
oggetti Idee, intelligibili matematici,
cose, imniagini formano una serie discendente secondo il grado della
loro realtà, così le quattro forme di conoscenza intelligenza o scienza, raziocinazione, fede, immaginazione formano una serie
discendente secondo il grado della loro evidenza. L'opinione, il cui grado più
alto è chiamato fede e il più basso immaginazione, é, come sappiamo^ una
proposizione empirica, cioè non dimostrata,
ma fonli) Per la qiiistione cbe cosa bisogoi intendere
per la parte dell'intelligibile cbe si conosce con le niateiuaticbe, rimandiamo
al Suppl. Ent. inat., nota tiniile. 1-1
I data sull'induzione o l'analogia. La raziocinazione equivale al metodo
motematico, l'intelligenza o Scienza alla dialettica. Sorvoliamo sulla
corrispondenza che Platone pretende stabilire fra i termini delle due serie, la subbiettivae l'obbiettiva
-concetto forzato e pieno d'incoerenze, <5
in cui l'autore stesso non ha potuto vedere niente di rigoroso e non
facciamo attenzione che ad un punto, cioè che alla dialettica viene attribuita
un'evidenza superiore a quella della geometria stessa. L'evideuza della
geometria, per cui essa supera le altre conoscenze che Platone chiama opinioni,
consistendo nel suo carattere di Questa divisione delle forme della
conoscenza, o della «redenza, fu ammassa, in sostanza, da Pbitone sino
all'ultimo atteggiamento che egli diede alle sue dottrine, che è quello che noi
conosciamo per l'esposizione di Aristotile. Essa coincide infatti con quella
del De anima, salvo che qui la scienza, ohe nella Repubblica equivale
all'intelligenza, occupa invece il
seccmdo grado, corrispondendo alla (fidi^ota della Repubblica, e
j'opinicne non viene suddivisa. Invece di ciò si aggiunge un'altra forma, cioè
la sensazione, che nella Repubblica manca, perchè la divisione non vi è fatta a
un punto di vista psicologico, ma semplicemente logico. Una proposizione
generale, anche empirica e chiamata per
conseguenza da Platone un'opinione, dovrebbe
riferirsi alla Idea, perchè il concetto generale secondo Platone ha per
oggetto l'Idea Suppl. Tuttavia la sua dottrina costaate è che tutte le
proposizioni empiriche, anche le generali, non hanno per oggetto che i
fenomeni, il sensibile (vedi ^•wi.59c d,
FiL , ecc. L' applicazione
deWimmaginazione alle immagini non ha altra base che la relazione fonetica fra
le due parole [sUaaia^ eUcoy)
Del resto un'idea simile si trova anche in Aristotile, che attribuisce
wlU fantasia le apparenze illusorie degli oggetti p. e. del sole come pedale De
Anima. u I b Bcieììza A PRIORI e dimostraiiva, la dialettica dunque
è inù perfettauiente A PRIORI e più perfettamente dimostrativa che la stessa
geometria. La dialettica è più evidente della matematica, perchè non è, come
questa, fondata sovra ipotesi. Platone chiama ipotesi una proposizione che si
ammette senza darne la dimostrazione benché essa non sia assiomatica. La
proposizione più certa, se non è dimostrata e, ripetiamolo, se non è nemmeno
assiomatica, non è dunque per lui i^\ieim^ ipotesi non dimentichiamo che per
dimostrazione bisogna intendere una deduzione pura, cioè le cui premesse ultime
non sono induttive ed empiriche, ma
evidenti per se stesse Le matematiche
sono fondate sovra ipotesi, perchè esse non dimostrano resistenza dei loro
oggetti cioè dei numeri, delle figure, ecc. Piatone crede dunque che anche le
matematiche pure siano scienze esistenziali: egli non ammetterebbe la tesi che
io ho cercato di stabilire nel saggio, cioè che le matematiche si distinguono
dalie scienxe fisiche, perchè non hanno per oggetto che dei rapporti di
somiglianza, e non affermano niente sulP’esistenza delle cose. Platone pensa
invece, come Stewart e MiU, che le matematiche abbiano fra le loro
premesse Noi abbiamo visto ch« anche
Hegel ehiauia ipotesi ogni proposizione non dimostrata una conoscenza che non è
un momento di un tutto, cioè del sistema, essendo precisamente per Hegel una proposizione
"««/l»";*;^ ta E lo stesso fa in altri luoghi; p. e. nella Lo</. . la scienza pone in principio il dubbio universale, cioè rigetta
ogn'ipotesi, e non ammette se non ciò che è dimostrato. Stewart meni, della fil. dello spirilo umano e MiU
Logica, ecc. Io ho parlato di questa
dottrina nel Saggio certe proposizioni affermanti dei fatti fisici, cioè
l'esistenza e le proprietà di certi
oggetti, e, come questi filosofi, chiama queste proposizioni delle /j>o/es/.
In quanto alle matematiche applicate, non vi ha alcuna diflìcoltà a comprendere
perchè Platone dica che esse si fondano
su ipotesi: egli non esprime così che questo fatto evidente, che i dati ultimi
su cui (pieste scienze riposano, sono stati trovati per l'osservazione e non
per il ragionamento A PRIORI. La
dimostrazione dialettica si distingue duiiqae dalla dimostrazione
matematica e questa è la differenza che Platone mette più in vista in ciò che
solo la prima è una vera dimostrazione; cioè che solo essa respinge
ogn'ipotesi, ogni dato empirico e continf/ente, e non ammette che bielle
premesse razionali e necessarie, vale a dire o evidenti per se stesse o dedotte
da altre evidenti per se stesse. /: Ma
in un altro senso, ('hiamaudole ipotesi, questi tilosotì vogliono dire che i
fatti supposti da queste proposizioni sono, d'una maniera rigorosa, fisicamente
irrealizzabili: per essi queste proposizioni nou souo, come per Platone,
precarie, perchè sempliceniente empiriche, ma false. Per un verso anzi la loro
opini(me è diametralmente opposta a quella di Platone: per loro l'evidenza speciale delle matematiche è dovuta alla loro
ipoteticità; per questi, esse non sono abbastanza evidenti perchè ipotetiche.
Per Platoue il carattere ipotetico delle matematiche ntui è che provvisorio:
esso appartiene loro necessariamente in quanto scienze limitate; ma la loro
«lestiuazione è di venire incorporate nel sistema universale delle conoscenze,
costruito dalla dialettica FU,, L\itid.
, ii>ÌHom., luoghi citrati, e
allora le loro ipotesi cesseranno di esse tali, perchè verranno ricondotte al
principio Rep., luogo citato E in eft'etto queste ipotesi nou suppongono, al
fondo, che l'esistenza di certe Idee perchè esse non souo delle proposizioni
particolari ma universali e la dialettica, come vedremo più chiaramente in
seguito, deve dimostrare l'esistenza di tutte le Idee. Tuttavia anche la dialettica, in un senso, parte da
ipotesi. Noi sappiamo che la tilosotìa aprioiista non pretende far senza
dell'esperienza, ma trasformare il sapere empirico in razionale, rivestendone
il contennto della forma della necessità e dell'A PRIORI. Il punto di partenza
del dialetticè dunque necessariamente l'esperienza, per conseguenza le ipotesi,
ma queste ipotesi egli si affretta a dedurle
da altre ipotesi superiori, e
queste da altre ancora, e così di seguito, sinché arrivi a delle premesse che
non siano più delle ipotesi, cioè, come abbiamo detto, a delle premesse
razionali e necessarie. Allora la scienza si è fatta; la conoscenza empirica si
è trasformata in conoscenza a PRIORI: e il dialettico può rifare il suo cammino
in senso inverso, ritrovando sui suoi passi le sue ipotesi precedenti, nìa divenute delle verità
dimostrate, e salite a quel grado supremo di certezza che è il privilegio delle
projmsizioni necessarie. Vi hanno così
nel metodo dialettico due procedimenti, di cui la via è una, ma di direzioni opposte: l'uno risale dalle
ipotesi a ciò che le giustifica, cioè dalle conseguenze ai principii, sino al
principio primo è il processo della scienza che si fa, e corrisponde a ciò che Schelling chiama la
filosofia regressiva l'altro discende dal principio primo alle conseguenze è
quello della scienza già fatta, e corrisponde alla filosofia progressiva di
Schelling. Il primo di questi processi è descritto a, e l'uno e l'altro a. A
questi due processi si riferiscono pure i due luocrhi del Fedone citati., il
primo al discensivo, e V altro aU'asoensivo. Però in quello il processo discensivo non è descritto
nella sua totalità; Platone dice: e supponendo sempre il principio che mi
semlu'a più VALIDO GRICE VALUE » ecc.; la parola supponendo
tnotìtutyo^^ indica che il principio di
cui qui si tratta non è il principio primo.
àyvnóOeiog^ della Repubblica. Il metodo . Quantun(|ue le proposizioni del
matematico si riferiscano, in definitiva,
alle Idee, pure i suoi ragionamenti non volgono, inimediatamente, che
sulle cose cioè sopra oggetti particolari e sensibili, che sono come delle
immagini per cui le Idee vengono rappresentate. La dialettica, al contrario,
n »n volge, anche immediatamente, che
sulle Idee stesse, e in tutto lo svolgimento della sua dimostrazione non entra
assolutamente alcun.a rapx>resentazione
sensibile. Con questa distinzione fra il
metodo matematico e il dialettico, Platone esprime due circostanze importanti
in cui l'uno differisce dall'altro. Primo: secondo il presupposto platonico che
la conoscenza generale si riferisce all'Idea, le proposizioni matematiche
devono applicarsi alle Idee al triangolo in sé, al circolo in sé, alla decade
in sé, ecc.; ma ciò non distrugge questo fatto d'esperienza, che esse possono
anche intendersi, ed è così che sono generalmente intese, come enuncianti dei
rapporti tra cose fenomenali. Invece, le proposizioni della dialettica non possono
affatto interpretarsi come enuncianti delle relazioni tra fenomeni: ciò è
perchè come chiariremo nel numero seguente l'oggetto della dialettica non sono
che dei rapporti logici tra le Idee, a cui non corrisponde alcuna relazione
simile tra i fenomeni. Secondo: la dimostrazione geometrica comprende due
momenti; nel primo, che è la dimostrazione propriamente detta, infatti di cui
qui si tratta non è nn desideralum, c<mie
nella Repubblica, ma è il metodo
stesso che l'autore ha effettivamente seguito. Ora Platone non ha preteso, come
Hegel, di dare il sistema universale e comjileto della scienza: il
suo metodo egli non l'applica che d'una maniera frammentaria e in
ricerche particolari; e nel suoi saggi dialettici, come vedremo in seguito, i
suoi punti di partenza sono dei pri:«cipii derivati, che egli non deduce, per
conseguenza, delle ipotesi. la proposizione iiou si dimostra eia» della tigura
individuale che si ha d'innanzi agli occhi; l'altro èia generalizzazione,
l'applicazione della stessa eonclusioue
ad ogni altra figura che può essere enunciata negli stessi termini. Questo
processo di generalizzazione non è una vera induzione, perchè se noi
applichiamo la conclusione particolare a tutte le altre figure, è semplicemente
perchè sappiamo che Io stesso potrebbe dimostrarsi di qualunque di queste
altre. Nondimeno, come osserva Bain,
questo ricorso continuo a figure
particolari dà ad una scienza puramente deduttiva, qual è la geometria,
l'apparenza di una scienza induttiva e sperimentale. Ma Platone respinge dal
metodo dialettico questa stessa apparenza di un metodo induttivo e
sperimentale: il dialettico non deve far uso assolutamente di alcun sensibile,
ma. come abbiano visto, senza l'aiuto degli occhi uè degli altri sensi,
elevarsi alla conoscenza dell'essere per
la sola forza della ragione e della verità. Qui cade a proposito di notare il
legame intimo che vi ha, nel pensiero di Platone, tra le sue dottrine logiche e
gnoseologiche e la teoria delle Idee. La dialettica, e la scienza, che, nel
senso rigoroso, è un suo sinonimo, secondo Platone, non hanno per oggetto che
le Logica. Logica delle matematiche, Geometria. All'epoca di Platone si ricorreva alle figure anche
uell'aritim'tica. Lungo tempo ancora dopo Platone, i Greci impiagavano, per le
dimostrazioni teoriche, delle linee e delle serie di punti destinate a figurare
ai lore occhi i numeri su cui ragionavano Tannory IMucazione plutonica, nella Rev. Philos. Bep. òli C.
Eep. Idee Ne segue che tutto ciò che Platone dice sull'apriorità della
scienza e il suo metodo deduttivo, noi
dobbiamo applicarlo anzitutto alla scienza delle Idee ed è ad essa, d'altronde,
che si applicano, anche immediatamente, la più parte delle proposizioni,
relative a questi due oggetti, che noi abbiamo citate?iei paragrafi precedenti.
La verità di questa osservazione è anche provata dall'ipotesi metafisica che
Platone pone per base al suo apriorismo, e dall'interpretazione ch'egli dà, conformemenie a quest'ipotesi,
del processo deduttivo. Io intendo parlare della dottrina della reminiscenza:
questa dottrina consistendo essenzialmente nella supposizione che l'anima ha
intuito le Idee in una vita anteriore, non spiega, almeno direttamente, che
l'apriorità e il processo deduttivo della scienza delle Idee, vale a dire della
dialettica. Le verità che il dialettico deduce
le une dalle altre, non sono, a parlar propriamente, delle proposizioni,
ma dei concetti dei concerti obbiettivati, cioè delle I,iee È ciò che risulta
da e ^ovratutto da. Si noti
l'espressione 2)r///c/j>/o del tutto [rov
nat^iòz)^ cioè dell'universo, designante la verità primitiva da cui
tutte le altre si deducono: questo principio del tutto, e^ videntemente, non ha
un'esistenza puramente mentale, ma obbiettiva; non è una semplice proposizione,
ma un essere reale. Lo stesso risulta dal Fedone, il principio di cui si parla
nel primo di questi luoghi essendo un'Idea come le ipotesi di cui si parla V.
oltre i due luoghi di cui ci occupiamo attualmente, TiiH, Parm. FiL Rep. ecc.
il num. seg. nel 8ecoudo. Perciò la stessa progressione dialettica, €he Platone
descrive come un'ascensione graduale da
un'ipotesi a un'altra ipotesi superiore cioè da una conseguenza a un'altra
conseguenza meno remota sino al principio primo che le giustifica tutte, è pure
da lui descritta come un'ascensione graduale dalla contemplali Ecco
iuteirraluiente il primo luo^o (cìi cui
uel } 9'> nota prima è «tata citata ima parte;: Credetti, dopo essermi
stancato nella considerazione delle cose, che io dovessi guardarmi che mi accadesse come a quelli
che guardano un'ecclissi di sole: alcuni in fatti perdono la vista, se non
guardano V immagine di quest'astro nell'acqua o in un altro ambiente
somigliante. Mi venne in pensiero qualche cosa di simile, e temetti di perdere
la vista dell'anima, se io guardassi le cose con gli occhi o cercassi di
conoscerle con un altro senso qualunque.
Credetti dunque di dover ricorrere alle ragioni (kóyovg^ che potremmo anche tradurre concetti), e
guardare in esse la veritìi delle cose. Ma forse questa similitudine non è
interamente giusta, perchè io non accorderei che colui che guarda le cose nelle
ragioni guardi nelle immagini piuttosto che colui che le guarda nei fatti. Ma è
questa la via per cui mi misi, e supponendo sempre la ragione UdyoA che mi sembra più valida, tutto
ciò che si accorda con essa, pongo come vero e così fo, sia che si tratti di
cause, sia di qualsiasi altro oggetto ciò che non si accorda, rigetto come
falso. Qui la parola Aó/og significa al tempo stesso concetto e ragione, e si
applica alle Idee nell'uno e nell'altro senso: l'Idea infatti non è solamente
un concetto realizzato, ma è anche un perche;
le cose avendo il loro perchè nelle idee, e le Idee stesse in altre Idee
piit elevate nella scala dialettica. Anche Aristotile chiama Informa Uyo^, lua questo termine, in quest'applicazione,
non può significare, per lui. che concetto. A, invece di ragione, ho tradotto,
per più chiarezza, ptnncipio. Per il Fedone 9. no^a 2.zione d'un'Idea a quella di un'altra sino
all'Idea ultima da cui tutto si deduce.
Perciò ancora la dialettica ora è rappresentata come un metodo deduttivo puro
che deve costituire la scienza universale, e ora come la ricerca dei concetti,
o delle essenze, di tutte le cose; e in effetto, percorrendo tutta la s.u'ie
dei principi i e delle conseguenze, qualunque sia il termine della serie a cui
si fermi, e la direzioni'; ascensiva o discensiva ^ in cui la percorra, il
dialettico non trova altra cosa che dei
concetti obbiettivati. La deduzione dialettica va dunque dalla posizione di
un'Idea alla posizione di un'altra o di altre Idee, aventi con quella un legame
logico necessario: questo legame logico unisce, se si vuole, delle
proposizioni, ma purché s'intenda che ciascuna di queste proposizioni non pone
che 1'esistenza di qualche Idea» È come nei sistemi di Hegel, di Schelling, di Spinoza, di Taine, e in una
parola di tutti gli altri che, come quello di Platone, aggiungono al metodo A
PRIORI la realizzazione dei concetti: in tutti questi sistemi, come in quello
di Platone, la deduzione non volge propriamente su delle proposizioni, ma su
dei concetti realizzati. Si vede pure dagli stessi luoghi che la deduzione
dialettica va da Idee a Idee per via di Idee: in altri termini tutti gli anelli
della catena deduttiva sono delle Idee, e il passaggio dall'Idea precedente
alla Idea conseguente dalhi premessa alla conseguenza è una deduzione
immediata. Il yovg che corrisponde alla dialettica si distingue dunque dalla
(hàt^oia (deduzione Bep. il principio del secondo tratto riportato, Fed., ecc.;
e confronta ciò che diremo sulla definizione e il suo rapporto con la dieresi. ordiDaria o metodo
luateniatieo per quest'altro carattere, cioè die il primo è iu certo modo
intuitivo, tauto percbè conosce immediatamente i rapporti logici tra le verità,
quanto perchè, queste verità essendo degli oggetti reali, il pensiero si
limita, nel processo conoscitivo, a riprodurre le cose stesse, col loro ordine
e la loro connessione. La seconda al contrario è </mpr«/ra, perchè le sue verità, cioè i
rapporti tra le cose che costituiscono il contenuto delle sue proposizioni, non
le conosce immediatamente, e il pas-^aggio stesso da una verità ad un'altra non
si fa che per rintermediario di una dimostrazione. Questa differenza tra le due
forme di conoscenza è indicata dalla stessa relazione dei termini che le
denotano: dtàyoux in contrapposto a yovz
ci dice abbastanza che vi ha nelF una una mediatezza che non «siste
nell'altro. Anche Aristotile, la cui lingua filosofica deriva, per tanti
rispetti, da quello di Platone, chiama yov^
la conoscenza dei priucipii, che è immediata, e la semplice apprensicme
dei concetti, ciò clie <!orrisponde pure peifettamente al significato
platoiìico, l'intelligen/.a o dialettica ]datonica non eseicndo che la semplice
apprensione dei concetti obbiettivati come abbiamo detto, nell'ordine e la
connessione stessa che esistono fra di essi. Il dialettico va dunque da una
Idea ad un'altra senza bisogno di una dimostrazione proli) Ordo et canne vio
idearum idem est ne ardo et connexio rermn. Questa iiumediatezza o iutuitività
del yov^ platonico è stata notata auche da Leibuitz. LEIBNIZ CITATO DA GRICE
COME L’INVENTORE DELLA DISTINZIONE TRA L’ANALITICO E IL SINTETTICO. Non male
platonieis quatuor in niente coguitiones
agnoseimtui', Sensus, Opinio, Scientia, Intellectns; nempe Experimenta,
Coniecturae, Denioustratio et pura Intellectio, quae oeritntis nextiin tino
vienlis ictn pereipit t> Epist. ad ffanschiiim. De phil. platon. HI,
priamente detta le Idee si dimostrano per la h)ro semplice successione: egli non impiega
assiomi, non interpone, fra le verità ch'egli dimostra, delle proposizioni
introdotte in grazia della dimostrazione stessa, ma progredisce continuamente
da un essere reale a un altro essere reale, senza interrompere mai questo
progresso del pensiero, mescolando, come dice Spinoza, ciò che è soltanto
nell'intelligenza con ciò che e nella
realtà. Il dialettico, in una parola, non ragiona, ma vedere in effetto la
conoscenza dialettica, se non è nel senso proprio xxw'' intuizione
intellettuale perchè questo termine esprime la presenza immediata dell'essere
al pensiero, che Platone non ammette, è la riproduzione o il risveglio di
un'/wtuisione intellettnale; noi sjippiamo infatti che 1'anima ha intuito 11
Idee in una vita anteriore, e che la
scienza attuale è una reminiscenza. Anche questa intuitività Spinoza De
iniellcctus emendalione. uy. La spiegazione della scienza per la reminiscenza
di un'intuizione anteriore delle Id e prova al tempo stesso l'uno e l'altro dei
due punti che abbiamo stabilito in questo numero; cioè che nella dimostrazione
dialettica le verità che si deduc<Mio e quelle da cui si deducono sono delle Idee, e che il passaggio
da un'Idea ad un'altra è una deduzione immediata. Infatti il carattere
essenziale della scienza essendo l'iucatcnamento logico, cioè deduttivo, delle
verità, segue da questa spiejjazione che l'anima ha auche intuito
quest'incateuamento logico e Platone ammette esplicitamente questa conseguenza
quando identifica la reminiscenza e la deduzione Meno Ma l'anima non ha intuito
dello proposizioni ideile verità puramente astratte, ma degli esseri reali cioè
delle astrazicmi, ma realizzate; dunque quest'inoateuìimente logico essa non ha
potuto intuirlo che tra esseri reali, e non tra proposizioni. Di più, se quest'
incateuameuto logico ha potuto essere oggetto d'intuizione, tra le Idee
logicamente incatenate la o immediatezza della
deduzione è una nota comune di questa varietà della filosofia apriorista
caratterizzata dalla realizzazione dei concetti. Nel capitolo precedente noi
abbiamo parlato della classazione di Spinoza delle forme della conoscenza;
abbiamo visto che la forma più alta è la conoscenza intuitiva, che deduce, per
una deduzione immediata, gli effetti dalle cause, a partire dalla causa prima,
che non deduce, ma apprende
immediatamente; e abbiamo notato che queste cause e questi effetti sono delle
astrazioni realizzate, come le Iconnessione deve essere innnediata, deve
vedersi, per dir così, a colpo d'occhio; in altri termini il passaggio logict)
da un'Idea ad un'altra deve essere una deduzione immediata. Se per fare questa
deduzione fosse necessario V intervento di altri principii o concetti intermediarii che non fossero delle
Idee, siccome questi non hanno potuto essere intuiti perchè il solo oggetto
dell'intuizione è stato il reale, cioè le Idee, nemmeno rincatenamento o
connessione logica fra le Idee avrebbe ])otuto essere intuita. Noi potremmo
aggiunijere che questa immediatezza risulta anche per un altro verso
dall'assimilazione deUa deduzione alla reminiscenza: quest'assimilazione suppone ohe la
conseguenza segue il principio come un ricordo segue un altro ricordo; dunque
nel primo caso, come nel secondo, la sequenza avviene immediatamente, e non per
l'intermediario di un ragionamento. Noi osserveremo, del resto, che le due
proposizioni stabilite in questo numero, cioè
che la dimostrazione dialettica non consiste .die a dedurre delle Idee da altro Idee, e ohe questa deduzione è
immediata, non ne fanno in realtà che una sola: è che le premesse e le
conseguenze, in questa dimostrazione, non sono ohe delle Idee, o, per parlare
più generalmente, dei concetti realizzati; proposizione che non è altro che
quella di Spinoza « che l'ordine e la connessione dei pensieri sono identicici
all'ordine e alla connessione delle cose.
177 dee platoniche. In Megel, il pas.sjijL'-io da anidra ad un'altra è
accompagnato da una di ìn(»sl razione; ma v evidente, con tutto ciò, che per
lui niridea è sufficientemente dimostrata dalla sua posizione stessr, al posto
e al momento che le compete neirevojiizionc dell'Idea assoluta. È una
conseguenza della dottrina dvW unità dello sviluppo logico e <lello sviluppo
ontologico, e di quella dell'identità dell'essere e del j)ensiero. Lo stesso
deve dirsi di Schelling che anch'egli anjuìette, in sostanza, questi due
principii di Hegel La filosofia è jmt lui ww'' intuizione Intellettuale', la
vera dimostrazione èia costruzione, e costruire una cosa è mostrarla
nelTassoluto, indicare il grado o il momento del suo sviluppo a cui essa
corrisponde. Ciò che abbiamo detto in (pu\sto nuinen» sarà confermato nel
seguiti», esponenth» altri punti della dottrina platonica. Le Idee non si
deducono tutte immediatamente dal primo principi*», nui la deduzicme è
graduale: dall'Idea [primitiva altre Itlee, da queste altre ancoia, e così di
seguito Insieme a questo carattere <lel meto<lo dialettico, cioè la
moltiplicità dei gradi o dei passaggi della iiedu/ione, noi dobbiamo
indicarne un altro: è 1'ordine La classazione delle forme della conoscenza
di Spinoza è dunque identica, in sostanza, a quella di Piatene; esse non
ditferiscono clic in uu punto secondario, cioè la suddivisione
dell'o/zfnione, 11 metodo hetreliauo,
dice VERA (vedasi), pone i termini dimo«traudoli, e li dimostra ponendoli
Introd, alla Logica di Hegtì Willm
Storpia (iella filos. a lem, da Kant uino
ad Hegel f, . (A) \\ U-c, 12 regoliui' con cui si seguoin» ì concetti.
Che bisogna intendere per quest'ordine? f]
nna disposizione simmetrica delle ld<*e, una legge generale della
loio successione, come la tricotomia hegeliana tesi, antitesi e sintesi? Noi ci
limitiamo per ora a congetturarlo. FI seguito mostrerà che questa congettura è
fondata, e che il platonismo si contorma [)ienamente a
(pu\st 'altra esigenza del rcalisììio
dialettico, che è la sistematUità che potremmo chiamare obbiettiva, cioè
Vunità nella moltiplicità dei passaggi logici, un ritmo, una legge comune che
li regola, e che è comerimmagine, nelle successioni del mondo delle Idee,
<li <]uest'ordinft e t|uesta
regolarità che osserviamo nelle successioni del mondo dei fen<mieni. Notiamo
a parte, intine, un altro carattere
generale del realismo (halettivo, v]w non è, come vedremo a suo luogo, che lina
conseguenza della sifiteìnattcità^ cioè l'unità di principio. Le Idee si
deducono tutte, immediatamente o mediatamente, da un principio unico, che è
anch'esso, naturalmente, un'Idea. Noi abbiamo già incontrato questa
proposizione in un luogo citato del Menone, in cui si dice che, in virtù del legame di tutte le cose e della reminiscenza,
noi [)ossiamo, ricordata una cosa sola, ritrovale da noi stessi tutte le altre.
Siccome questa reminiscenza è la deduzione, e le cose dedotte e ipiella da cni
si deducono non sono, per conseguenza, che delle Idee perchè, come abbiamo
notati, questa è la sola deduzione che la reminiscenza possa spiegare, la
proposizione del Menone ha (piesto
significato, che data hìì'Idea, noi possiamo da essa dedurre tutte le
altre. È una esigenza evidente dei presupposti logici e gnoseologici di Platone
che quest'Idea primitiva ii;ia stabilita a priori: senza di ciò la conoscenza
non sarebbe A PRIORI, (piesf Idea sarebbe uuUpotcsi^ e la deduzione dialettica
non sarebbe una dimostrazione. 1/ idea primitiva da cui tutte le altre si
deducono, è l'Idea del Bene o del Buono,
zov àyaHov questa Idea è naturalmente, come tutte le altre, l'attributo omonimo
delle cose realizzato, cioè considerato come esìsteute per sé stesso e come uno
e lo stesso, letteralmente, in tutti gli oggetti a cui si attribuisce. Ecco ciò
che lo prova: Tutto ciò che è intelligibile lo è per l'Idea del Bene.
L'intelligenza è come la visione. Se alla vista e al visibile non si aggiungesse la luce, né la vista
vedrebbe, né il visibile sarebbe veduto; e fra tutti gli astri non vi ha che il
sole, la cui luce faccia vedere chiaramente gli oggetti. Ora ciò che il sole è
nel mondo visibile, rapporto alla vista e agli oggetti visibili, l'Idea del
Bene è nel mondo intelligibile, rapporto all'intelligenza e agli oggetti
intelligibili. L'Idea del Bene è ciò che dà la luce a tutte cose; è per quest'Idea che gli oggetti conoscibili
sono conosciuti; essa è la causa della scienza e della verità come conosciuta
dalla ragione, fornendo la verità agli oggetti conosciuti e dando al conoscente
la potenza di conoscere. A, evidentemente continuando la similitudine col sole,
l'Idea del Bene è chiamata il più chiaro dell'essere Il significato di «pieste
proposizioni è sidegato suftìcientemente
da ciò che segue il primo dei luoghi citati. Vi ha un principio primo del
conoscere da cui deriva Kep. luogo che
riporteremo nel uiim. seg. il $
pree. ogDÌ verità; avere
Vintetligensa o, ciò che è lo stesso, la scienza^ d'uuacosa, è poterla
dimostrare^ e dimostrarla è dedurla da
questo principio primo; esso è evidente immediatamente, le altre verità non
sono evidenti che per esso. Questo
principio primo del conoscere, evidente immediatamente, e per cui tutte le
altre verità sono evidenti, è l'Idea del Bene. Il principio del tutto di cui
nei luoghi del precedente paragrafo, è la stessa cosa che l'Idea del Bene, e
1'ascensione graduale da ipotesi in ipotesi sino al principio del tutto, è
un'ascensione graduale da Idea in Idea sino all'Idea del Bene. 11 libro
della Repubblica comincia con un'allegoria, con cui Platone rappresenta
il progresso dello spirito nella conoscenza. Egli immagina dei prigionieri
rincliiusi sin da bambini in un antro sotterraneo, con la faccia sempre rivolta
a una stessa parte, e senz'altra luce che quella che viene da un fuoco acceso a
una certa distanza, in alto, dietro di loro. Di loro stessi e degli oggetti che
passano al di fuori, questi prigionieri
non vedranno altra cosa che le ombre che si disegnano nel lato della caverna
esposto ai loro sguardi; gli oggetti reali, per loro, Baranno «lueste ombre; e
tutta la loro scienza si ridurrà a discernere acutamente le ombre che passano,
e a ricordarsi l'ordine con cui sogliono passare, le loro sequenze abituali, le
loro concomitanze. Che si sciolga qualcuno di questi i)rigionieri, e si faccia ascendere nella
regione superiore I egli dovrà abituarsi gradualmente alla vista degli oggetti
reali, per non restare abbìigliato dalla soverchia luce. E prima discernerà
facilmente le ombre e le immagini nelle acque degli mmiini e degli altri es
liejj. seri; f)oi questi esseri stessi; in seguito di notte potrà guardare le
stelle e la luna; ed è intìne che potrà contemi)laie il sole stesso, e vederlo quale è. Dopo ciò,
ragionando intorno a quest'astro, concluderà che è esso che produce le stagioni
e gli anni, che tutto governa nel mondo visibile, e che è la causa in certo
modo delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna. Il senso di
quest'allegoria ci è spiegato dall'autore stesso. Il prigioniero nella caverna
è lo spirito circoscritto tra i dati dell'intuizitme sensibile; la liberazione, la conversione verso
1'intelligibile (n€()fay(oyrj) per lo studio delle matematiche; le ouibre e le
immagini nelle ac<iue, gl'intelligibili matematici; la vista graduale degli
oggetti reali, prima degli animali, poi delle stelle e della luna, e intìne del
sole, è la progressione dialettica da Idea in Idea sino all'Idea del Bene. «
Ultima iielF intelligibile è l'Idea del Bene, e appena può vedersi, ma vedutala, si conclude che essa è
la causa di tutto ciò che è retto e bello, che nel visibile genera la luce e il
sovrano della luce cioè il sole, e neirintelligibilc, essa sovrana, fornisce la
verità e l'intelligenza. Piima ha già detto che come il sole dà agli oggetti
visibili, non solo la visibilità, ma anche la produzione e il nutrimento,
così l'Idea del Bene dà agli oggetti
intelligibili, non solo
riutellibibilità, ma anche tessere e l'essenza. L'Idea del Bene è il principio
delhi spiegazione uni r»ll a TìK» versale delle cose. ADassfigora lia
compreso che l'intelligenza è la causa di tutte cose dottrina conforme a quella
dell'autore sull'anima del mondo, ma egli non ha visto la conseguenza del suo
principio, cioè che essa ha dovuto tutto disporre nel miglior modo possibile,
e quindi, se alcuno vuol trovare la
causa dell'esistere di ciascuna cosa, o del suo nascere o perire o un'altra
modificazione qualsiasi, bisogna ch'egli trovi come l'ottimo per ciascuna cosa
sia di esistere o di agire o di patire d'una maniera tale. È così che
Anassagora avrebbe dovuto spiegare le cause delle cose: per esempio dicendo se
la terra è piana o rotonda, egli avrebbe dovuto farne vedere la causa e la necessità, mostrando ciò
che è l'ottimo PARETO GRICE OPTIMAL, e che l'ottimo è che essa sia tale; e
dicendo che la terra è posta nel centro dell'universo, mostrare che l'ottimo è
che essa sia nel rientro; e similmente per il sole, la luna e gli altri astri,
le loro velocitji relative, le loro rivoluzioni e tutti gli altri loro
fenomeni, egli avrebbe dovuto mostrare come 1'ottima sia che ciascuno di essi
agisca e patisca come fa. In una parola a tutte queste cose egli non avrebbe
dovuto assegnare altra causa se non questa, che 1'ottimo PARETO GRICE è che
esse siano come effettivamente sono. La causa di ciascuna cosa è l'ottimo PARETO
GRICE per questa cosa; la causa comune
di tutte, il bene comune a tutte. Invece di ciò, Anassagora non mette innanzi
altre cause che l'aria, l'etere^ l'acqua e altre cose ugualmente assurde; egli
fa come se alcuno, volendo spiegare le azioni di una i)erRona, non Fedone \)7 l.- M. V, parlasse che di ossa, di muscoli e
di nervi, negligendo la vera causa, che è la scelta deirottimo. Kgli, con tutti
gli altri fisici, danno il nome di causa
a ciò che non lo inerita, confondendo (india cli<^ è veramente causa con ciò
senza di cui la causa ncm produìiebbe il suo effetto. Essi non ammettono altre
cause che meccaniche; « e la potenza per cui le <M)se sono disposte nel
miglior modo in cui potevano esserlo, uè ricercano, nò stintano che vi sia in
essa qualche forza divina; ma credono di aver
trovato un Atlante più foite di questo, più immortale e più capace' di
contenere Tuniverso, e non ijensano che è il buono e ccmveniente che collega e
contiene tutte le cose. (jui il principi!» del Bene è pres<Mitato come una
conseguenza del teismo, e non come una necessità primordiale, come nella
TJe[Mibblica: ma, come in questa, tutto deve dedursi da questo principio
Spiegar*», infatti, non è che dedurre. E
in effetto la spiegazione del Fedone,
(/Me,v/o c'.s'/>/e perchè
è }/ attimo^ implica la proposizione generale che» viù che esiste è
l^otfimo, a qiu^.sta projK>sizione
può logicamente convertirsi in quest'altra: CIÒ cAc è Vottiwo csiaic.Wix da questa
premessii noi possiamo dedurre l'esistenza tli
<*iascuna cosa reale, prendendo c,ome altra premessa la ragiom^ per cui nel Fedone questa esistenza
viene spiegata, cioè che esfia è r ottimo. Ora la proposizione ciò che è
Tottimo eniste ^ equivale perfettamente alla posizione dell'Idea dell'Ottimo o,
ciò che è lo stesso, del Bene, p(Mchè, conu^ spi(»gheremo in seguit<», la
dialettica platcmica. i»onendo lui concetto, intende porlo in tutta Testensione
di cui esso è logicamente suscettibile.
11 meceaiiismo della ileduzione, in questo caso, è quello stesso che
PIat<nH* desciive in se HS . V. SII
questi» liu>j5t» Suppl.
fiiiiriium. delK* 1«1«m'. Vili. ' ^iiito, nel
hii»<;o del Fedone stesso che noi abbiiiino riI»oi({ito liei
i^* 0 nota n." -t: posto un concetto in questo cas ), quello dell’ottimo, aniniett»ere come vero
ciò che è eonfoiuie ad esso, rigettare come falso ciò che non lo è. L'interprete trascendentalista
ohbietterà che qui non si tratta delFIdea del liene, ma del bene attributo
comune delle cose stesse: ma l'Idea del Bene ncni è che l'attiibuto comune
delle cose, che Platone riguarda, \um come una seni [d ice astrazione, ma come
ima reità; e d'altronde, nel tratto che abbiamo posto tra virgolette, cbiamando
il bene una potenza che dispone le cose nel miglior modo possibile e in cui
risiede una forza divina, e un Atlante che contiene Funi verso, egli lo
considera espriissjimente come un'entità sussistente [»er se stessa, cioè come
un'Idea. Tutte le Idee e tutte le cose si assorbiscono nell'Idea suprema, che è
così ì'unO'-tutto.K ciò che si vede dal seguente luogo (l'Aristotile: E ciò ehe
sembra facile, il dimostrine che tutto è uno, non riesce; poiché dalVastnaìoìK' {>/;
i/Miau) non risulta che tutte sose sono una, ma ne lisulta semplicemente
qualche cosa in sé qualche Idea una »
ilm^^V usi razione a cui allude Aristotile,è rcqu'razione dello spirito
che noi chiamianìo con questo nome, con la differenza che per noi, o piuttosto
pei concettualisti, il risultato di qiuesta operazione è nn semplice conretto,
per Platone era un concetto obbiettivato. Come per un ]nimo process<» di
f(*'^rf/c/ow<?, applicato agli oggetti sensibili, si ottenevano le
Ide(^ più vicine alTindi|1) MvJ. OoiiiV. il roiiiineiito a qucstu hiotio di
Alt\ss;uiihn «li Aliodisia. e vi-di anche per Ì'E'/Mtaiz Mei, ecr. CoiilV. imre per quc.stt»
liiojst» il Siq»ploiiieiitn sniriimii. delle Idee
platoiiielie. siilbi fine. viduale, cioè di una compreìtsione massima, così per un'r/strasìouc ulteriore e
progressiva, applicata alle Idee stesse, si ottenevano altre Idee di una
comprensione mano mano decrescente, cioè sempre più astratte, sinché si
giungevaalPldea più astratta di tutte, che secondo l'esposizione di
d'Aristotile era quella dell'Essere o dell'ano. Ma secondo quest'esposizione
stessa l'Idea dell'Es.sereo dell'Uno era identica a quella del Bene. Così quest'astrazione suprema in
cui il tutto è uno, non è altra cosa che l'Idea del Bene. Quest'Idea è
Vuno-ttUto, perchè e il principio di cui tutte le altre Idee sono le
conseguenze, e le conseguenze sono implicitamente cont4?nute nel princi|)io.
Questo monismo logico che non bisogna confondere col panteismo, perchè
un'entità astratta come il Bene di
Platone o l'Assoluto di Schelling non
potrebbe chiamarsi Dio che per metafora si trova anche in Schelling, in
Spinoza, in Taine, e più o meno in tutti i realisti dialettici, secondo il
grado maggiore o minore di somiglianza che la loro pretesa deduzione ha con la
sola deduzione che ammetta la logica in cui la conclusione è un caso
particolare del princi|iio generale che ta da piemessa. Qual è, in questo monismo,
il ra[q>orto delle cose derivate col prin €Ìpiof Dire che tutto vi è virtualmente ccmtenuto
come in un germe, e che ne esce per una specie di svilupj)o o di esplicazione,
non è che una semplice espressicme rappresentativa. Il realismo dialettico
consiste nell' <dd»iettivazione, non solo dei concetti, nìa ancora dei
rapporti logici fra questi concetti; per conseguenza, per indicare il rapporto
in <|UÌ.stione, noi non abbiamo che
un'espressione ade(|uata: le altre cose scmo nel principio e derivano da (piesto, come le conseguenze» sono nelle
premesse e derivano da (lueste. Nella
forma della filosotia platonica, che noi possiamo chiamare il platonismo puro,
e che è quella che noi troviamo nelle opere dell'autore e di cui facciamo l'è
sposizione, cjuesto monismo è rigoroso. Ma uella forma die ci la troiioscere
Aristotile, la quale appjirtieiie all'ultimo periodo della speculazioni di
Platone, ed è, come vedremo in un Supplemento, un sincretismo tra i concetti
propri a questo filosofo e quelli dei Pitagorici, a questo monismo rigoroso
succede una specie di <lualisnio. Le Idee e le cose, in (piesta seconda forma, vengono da due
principii, l'Uno o l'Essere, che è identificato al Bene, e la Materia. La
dif!erenza penV è meno protbnda di quanto potrebbe sembrare sulle prime,
perchè, come spiegheremo in seguito, il vero principio, quello da cui le Idee
propriamente si deducono, non è che il primo; solamente la Materia è riguardata
come indipendente da esso ed egualmente primordiale. Ma ciò che importa qui di
segnalare in questa dottrina è <*.he
i due principi vengono riguardati come gli elementi di cui tutte le Idee e
tutte le cose sono costituite. Questo implica evidentemente che, in questa
seconda forma del platonismo, tutto il reale viene assorbito nei due principii,
come nella fiUMua primitiva lo era nell'uno <li essi. Ciò è tanto vero che
Aristotile fa ripetutamente alla dottrina dei due elementi l'obbiezione che
non ])otranno esistere che gli elementi
soli, e niente altro di piò; e che, secondo un'indicazione di Teofrasto, vi
erano dei platonici, i quali atfernuivano che la verità e l'essere stanno tutti
nei due principii. E appena bisogno di osservare che, se i due il) V. per
l'identità tra 1' riio o Essere v
il ììvììv. Mei., A7/i. Kufl. ero. V. su ipiesta «l<»ttnii:i ilei due elementi il Suppl. sul
pitagorisnid plutonico. Mei. iMO, Mei.
])rincipii costituiscono tutta la realtà, e sono come la sostanza di cui tutte
le Idee e tutte le cose sono fatte, è perchè essi sono dei principii nel senso
logico, cioè dei concetti in cui tutti gli altri sono im])licitamente
contenuti, perchè possono dediir.^ene. La dottrina che i due elementi sono i
principii da cui tutto si deduce, si trova in Aristotile anche d'una
maniera esplicita. La conoscenza di una
cosa qualun(iue (intendiamoci, una conoscenza
scientifica) presuppone quella
dei due elementi. Come si potranno imparare gli elementi di tutte h^ cose? È
evidente infatti che anteriormente non si potrebbe conoscere nulla. Di piò la
conoscenza dei due elementi ci dà, indipendentemente dalla esperienza, la
c<uioscenza di tutte le cose. «E gli
oggetti sensibili come potrebbero conoscersi senz'averne la sensazione? Eppure
sarebbe necessario, se quelli itavra) sono gli elementi di tutte le cose, da
cui queste risultano come le voci composta cioè le sillabe dai loro propri
elementi dalle lettere. Altrove Aristotile parag<ma il modo in cui le cose
derivano dai due» principii a quello in cui le conclusioni derivano dalle
premesse. Se i principii <levono
essere universali, an<*he le cose che ne derivano dovranno essere
universali, come nelle dimostrazioni. Per quc'sto sij^ni tirato logico della
parola eleinrnU (aTtt/yfja) iniplii'ante
rideii che essi sono dei principii di deduzione, couIronta Aristotile Mei.
<« si dicouo elemenli delle diinoHtrazioui le prime dimostrazioni e che si
contengono nella più p«rt« delle
altre»), e si dicouo elenienli
«Ielle ligure quelle le cui dimostrazioni si «'ontengono nelle diuiostrsizioni
di tutte le altre o della più parte j^
Mei. ' k^M^lèa L'Idea del Bene non è solo il princìjiio logico
prìncipium cognoscenfìi delle altre Idee, ma ne è anelie il principio
ontologico priiuiplum essendi Tn pensi
senza dubbio come me che il sole d.à
agli oggetti visibili, non solo la potenza di esser visti, ma anche la generazione e
Taccrescimento e la nutrizione. Così tu puoi dire che gli oggetti conoscibili,
non solo devono al Bene l'esser conosciuti, magli devono ancora l'essere e
1'essenza. 11 prigioniero liberato dalla caverna, nella sua ascensione nella
regione visibile, dopo aver guardato il sole, conclude che è esso che produce
le stagioni e gli anni, che tutt^ governa nel mondo visibile, e che è la causa
delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna. Così lo spirito, nella sua
ascensione nella regione intelligibile, dopo aver contemplato V idea del Bene,
conclude che essa è la causa di tutto ciò che è retto e bello, che è la sovrana
del mondo intelligibile, e che è essa stessa che genera il sole e la luce e noi
possiamo aggiungere, per completare il parallelismo tra l'immagine e il suo
significato tutto ciò che egli percepisce nel mondo visibile perchè, come il
sole rappresenta l'Idea del Bene, così le ombre della caverna rappresentano gli
oggetti visibili. Il Bene è chiamato il padre del sole. Questa identità tra il
principium essendi e il principhnn (ofinoscendi è pure implicata
nell'espressione il principio dell'universo per designare la premessa ultinta
da cui tutte le altre Idee si deducono. Alla causalità del Bene si allude anche
nella stessa Re|)ubblica, in cui si dice che Oio ha pi'odotto va liep.
iuralmenie l'Idea del letto e ogni altra Idea. Siccome Pia. tone non conosce
altro Dio, nel senso proprio, che l'anima del mondo, e questa non può produrre
che ciò che ha un cominciaraento nel tempo; e d'altra parte i termini Dio e
divino sono da lui spesso applicati ai principii delle cose, cioè }i Ile Idee; così qui per Dio noi doobiamo
intendere l'Idea suprema, che è il principio di tutte le altre. Intatti e il
produttore delle Idee è chiamato il re, come il Bene Nel Fedone Timpiego della parola
causa non può provare la causalità del Bene: dicendo che la causa dell'esistere
e del modo di esistere di una cosa è che ciò è l'ottimo PARETO GRICE METIER
DESTINAZIONE per essa, non se ne assegna la causa efficiente, ma semplicemente
la raf/ione. Ma in fine del luogo in cui il Bene è chiamato un Atlante che
sostiene l'universo, e la potenza per cui le cose sono disposte nel miglior
modo possibile e in cui risiede una forza divina, Platone gli attribuisce senza
dubbio, non solo la sostanzialità, come abbiamo osservato nel r)aragrafb
precedente, ma anche l'efficienza. 11 concetto della causalità universale
dell'Idea de! Bene si ritrova nell'esposizione d'Aristotile, benché inviluppato
nelle dottrine pitagoreggianti. Il Bene della liepubblica è chiamato l'Uno o
l'Essere, ed è dato Suppl. 11
pitagorismo nel Timeo, Teet. Parm. Tim^
Sof, Fedo. FU, Conv. Bep., ecc. Senocrate chiaiuava
Dei l'Uno cioò il Beue e la Dualità
indefinita la Materia; 1* Uno il primo Dio e il padro de^li Dei, la Materia la
madre (Stol». Ed. phys,. Si veda pure ciò che diremo sul Demiurijo del Tiìneo
in questo «tesRo $ e nel Suppl. come
riiiio dei dwi^rineipii delle Idee e delle cose, l'altro
essendo la Materia, che, al punto di vista della dottrina dei numeri, si chiama
anche la Dualità indefinita abbiamo i^ìii notato che questo dualismo appartiene
a una tase posteriore della speculazione platonica, il cui carattere essenziale
è una fusione dei concetti proprii del plat<misnio eoa quelli dei Pitagorici
Principio in Aristotile è sinonismo di c«j(8a-e d'altronde FUno e la Materia
non sono chiamati solamente i principii, ma anche le cause; così i principii
delle Idee e delle cose significa: le condizioni che determinano resistenza
delle Idee e delle cose e il modo di quest'esistenza. Tuttavia, siccome
Aristotile chianui principii e cause anche gli elementi concettuali da cui le
cose sono costituite, cioè la forma e la materia; e d'altra parte i due
principii platonici sono detti anche gli chmcnti.vY\\\\i^ Vessenza di tutte le Idee, l'altro la
materia: se ne potrei die inferire che la parola principii in (piesto caso non esprime
alcun'efficienza, e indica semplicemente gli elementi concettuali e siccome
Phitone e un realista, anche reali, da cui le Idee e le cose sono costituite. E
certamente i due principii platonici sono gli elementi da cui le Idee e le cose
sono costituite: ma ciò non esclude la hm>
efficienza, implica
solainen:>e ch'essi sono delle
cause immanenti. L'Uno e la Materia sono i due concetti più astratti che si
ritrovano nel contenuto di tutti gli altri concetti realizzati che Platone
chiama Idee; in altri termini, in tutte le altre Idee vi ha la panisia dell'Uno
e Met. ecc. Met. Met. eco. della Materia. Ma ciò non basta per chiamare il inimo Vessensa, e tutti e due gli elementi,
delle altre Idee, ne per chiamameli i principii; perchè essi non sono che la
porzione comune del contenuto delle altre Idee, e a lato di questa vi ha
inoltre la porzione propria e differenziale. Come abbiamo osservato nel
paragrafo precedente, chiamando le due astrazioni supreme gli elementi di tutto
il reale, Platone ammette che tutto il reale si risolve in queste due
astrazioni, ciò che egli può tare perchè secondo lui esse contengono
implicitamente tutte le altre Idee, come i principii nel senso logico le loro
conseffuenze. Similmente, chiamando l'Uno 1'essenza di tutte le Idee, Piatone
ammette che le essenze di tutte le Idee si risolvono in quest'essenza unica,
perchè oltre che non ne sono che delle determinazi(mi o delle specificazioni,
come vedrenu» nel jmragr., essa le
contiene tutte implicitamente, essendo il principio di cui (pielle sono le
conse</wen^e. Nell'uno e nell'altro caso noi non abbiamo, al fondo, che la
supposizione di un nesso logico fra le due porzioni del contenuto delle Idee,
la comune e ìs. ììropria. Ora, come il nome di elementi dato alle due entità
più astratte, e ciucilo, dato all'una di esse, di essenza di tutte; le Idee,
suppone che la seconda di cpieste due porzioni derivi logicamente dalla prima,
così il nome di principii suppone che essa ne derivi ontolor/i' cannente: se
così non fosse, le due entità non
determinerebbero le Idee nella loro esistenza e nel loro juodo di
essere, e non potrebbero esserne chiamate i principii e le cause. Nel sistema
di Platone come in tutti gli altri costruiti sullo stesso tipo • che G. chiama
realismo dialettico vi ha fia le diverse
astrazioni realizzate (in lin Conf. pree. lingiia liegeliana, fra i diversi
iiionienti del sistema, nel tenipo stesso die un rapporto di differenza^ un
ra[> porto (Videntità è questo il gran paradosso di tali sistemi, che in
Hegel arriva alla negazione del luincipio di contraddizione. Quando Platone
dice die tutto è uno o, ciò die vale lo stesso, che TUno o il Hene è Tessenza
di tutte le Idee, egli si mette al putito di vista dell'/dentità; ma «piando
«lice che ne è la causa o il prwcìpiOj
si mette invece necessariumente al punto di vista della differenza. Così
noi troviamo in Aristotile, per indicare il rapporto fra l'Uno e le Idee, due
formule diverse, ai>parentemente esclusive Vuna <leir altra, ma che non
sono che due espressicmi differenti di una stessa dottrina: secondo l'una,
l'Uno è Vessenza di tutte le Tdee; secondo l'altra, è la causa alle Idee della
loro essenza, o di ciò che esse sono. La seconda formula coincide evidentemente
con le prop()sizi<mi della Repubblica
di cui al cominciamento del paragrafo, salvo la dualità di principii, di cui
nella Repubblica non vi ha alcuna traccia. Nella dottrina dei numeri nella
quale le Idee vengono identitìcate con questi il rapporto tra i principii e le
cose derivate è rapppresen tato come una
(jenerazione, I numeri e le cose sono (jenerati dall'Uno e dalla Materia. Delle
altre formule con cui la derivazione delle Idee e delle cose dai due primi
principii viene espressa neir esposizione d'Aristotile, ci riserbiamo di
parlare in un altro paragrafo. Qui dobbiamo ancora indicare la cosmogonia Mei,
ecc. Met. Met. , ^ail. S), ecc. del Timeo, in cui hi dottrina dei due fuindpii è espicssa in forma
simbolica: la Materia o Dualità indefinita vi e rappresentata da una massa
informe agitata da un movimento disordinato, e l'Uno o Hene da un Demiurgo che
v'introduce l'ordine e v'impiinìe delle torme e ddFe speeie definite.
Ndl'allegoria dd Timeo il princi])ì(» veramente attivo, efficiente, è quello
che rappresenta l'Idea <lel Bene: ciò è perchè l'esigenza delia dialettica <li Platone è, come vedremo in seguito, Vunità di
priudpio, sia al punto di vista Unjico, sia al punto di Vista ontolof,ico:
così r^gli non attribuisca
proj^riamenf^^ la funzione di causa prima, altrettanto che quella di premessa
ultima da cui le Idee si deducono, che all'uno dei due principii, conservando
in qualche guisa, nello stesso dualismo ch'egli tiene dai Pitagorici, il nioni>smo primitivo ddla
Repubblica. Andie ndl'esposizione <l'Aristotile il principio per eccellenza
è quello die corrisponde all'Idea del Rene: così PUno è chiamato spesso il
principio (/, ài^xrj), come se Platone
non ammettesm che un principio unico, ed è rappresentato come il principio
attivo, in contrapposto alla Materia che sarebbe un principio passivo,
comequando, nelle cosmogtmie dei
fisici Siippl. e. // pitagorismo nel
Timeo, Così (^rautore, interpretando il Timeo, dice che Platone rappresenta il
mondo come generato (quantunque secondo lui sia eterno), in quanto non esiste
per se stesso, ma deriva da altra causa Mullach. Fr. S oltre i luoghi indicati nelle tre note
seguenti Met, Met, e dei teologi, trova
il suo coniRpoiideute nella causa movente e foniiatrice p. e. il Nous
d'Anassagora, o. nella generazione «lei numeri, lo paragona al padre, mentit?
la Materia eorrisp<mderel)be alla madre. La vera funzione dei due prineipii,
del resto, non può essere compresa eliiaramente che dopo Tesposizione completa
della dialettica platonica. Ora (piai è il come di questa causazione che
Platone attribuisce aiiridea tlel Bene? Quest'Idea, non dimentichiamolo, non è altro ehe 1'attributi»
comune delle cose che noi chiamianio buone, supposto esistente per se stesso,
ed inw e ^> stesso in tutti gli oggetti a cui viene
attribuito. Per concepire il mo(h> della sua efticienza, noi dobbiamo
dun«|ue mettere <la parte qualsiasi rappresentazione che assimili
quest'eftlcienza a (pielladi un agente ]>eisonale, qnalunqnesia la
forma in cui possiamo immaginarla: quando Platone chiama
il Bene Dio, egli non fa che una metafora per significare ch'esso è la causa
primitiva e universale Da un'altra piute l'enmnazione, Firradiazione e tutte le
altre immagini <*he i neo-platonici
prendevano dalla natura inanimata, non sono più accettabili che <|uelle che
può suggerire l'identificazione del Bene a un Dio personale Ncm vi ha in Platone alcuna traccia di rappresentazioni
simili; e d'altromle tutte cpieste
ij>otesi Siirebbero super MrL Mei. É una ruppiesentazione che rimouta senza
(lnl>l»io sino a Platone. 11 Bene nella Uepubblioa è detto. come aì)bianio
visto. il padre del sole; così pure il Demiurgo, nel Timeo, il padre del mondo
e dogli l>ei {IHm. ecc.. Confi*.
Plutarco Pskofjeiiia «Zarata, maestro di Pitagora, «liiamò la Dualità
indefinita la madre dei numeri, e 1'Unità il padre. e ciò cbe abbiamo detto su
Serocrate nella nota fine, perchè ciò che sappiamo della dialettica platonica
contiene già una risimsta alla nostra quistione. Le Idee sono dei concetti
realizzati, tra cui si pretende stabilire un nesso logico, quello che vi ha tra
le premesse e le conseguenze nel
ragionamento deduttivo. L'Idea del Bene
è la premessa prima e assiomatica da cui tutte le altre si dedncono; essa è il
princiino di cui queste sono le
conseguenze. ISe (piesto nesso logico non fosse che tra proi>osizioni o
anche tra semplici concetti, esso non sarebbe che logico; ma essendo tra
concetti realizzati, non è sohiniente logico, ma è anche ontologico. Se il
principio è, la conseguenza è: supposto che
«piesto principio e qnesta conseguenza sono delle entità reali, cioè che
vi hanno delle entità reali che stanno fra di loro nel rapporto di priucipio e
conseguenza, ciò vuol dire che, data l'entità principio, è <lata anche Pentita conseguenza, in altri
termini, che l'esistenza dell'una trascina con sé l'esistenza dell'altra, ciò
che costituisc-e fra le due entità nn
vero rapporto causale, o almeno (luel
rapporto analogo che i testi ci autorizzano a<l ammettere che Plat<5ne stabilisce tia il Hene e le altie
Id^^e. Tra il priììcipium co(jnoscendi e il princip'ìnm essendi, tra il uesso
logico e il nesso ontologico, non vi hu duuque semplicemente coincidenza, ma
identità: vi ha un nesso unico che è al temiK> stesso logico e ontologico,
che noi chiamiamo logico al punto di vista subbiettivo, cioè rispetto al nostro pensiero die deduce
le Idee, e <*1ie al ])unto di vista obbiettivo, cioè considerando le Idee in
s:^ stesse, chiamiamo ontologico. Questa
identità tra il legame logico e l'ontologico è indicata chiaramente da Platone
(juando, per designare la funzione logica del Hene, il suo posto di primo
principio nella deduzione, lo chiama il principio dell'universo: questa denomiuazioae sarebbe inopportuna, se la
deduzione non fosse per lui una derivazione reale, in altri termiui, se il
rapporto tra il principio e le conseguenze non equivalesse al rapporto tra la
eausa e gli effetti. Forse il termine causazione non è il più proprio a
designare questa derivazione delle entità conseguenze dalla entità principio:
essa differisce da una causazione almeno in questo punto, che la causa e l'effetto sono due cose
distinte e separate, mentre l'entità principio inesifite nelle entità
conseguenze, essendo una porzione la porzione comune del loro contenuto. È
perciò che nei sistemi moderni analoghi al platonismo al termine causazione si
è preferito quello di sviluppo: questo secondo termine è il più proprio a significare
questo passaggio dall'implicito
all'esplicito, questo rapporto d'identità, nel tempo stesso che di
differenza, fra l'antecedente e il conseguente, che risulta dalla
trasformazione del nesso logico in un nesso ontologico. Tuttavia esso ha
bisogno di essere chiarito, aggiungendo che lo sviluppo di cui si tratta è uno
sviluppo necessario, ciò che è al fondo un ritorno all'idea di causalità, che è
la sola successione che noi concepiamo
come necessaria. Un altro chiarimento indispensabile è che in questo sviluppo
la successione non è cronologica, ma logica: essa significa che i termini
posteriori hanno bisogno, per essere stabiliti, dei termini anteriori, mentre
gli anteriori non hanno bisogno dei posteriori. Noi vedremo in uno dei
paragrafi seguenti che questa successione logica che è anche ontologica, perchè 1'obbiettivazione dei concetti porta
con sé, come abbiamo osservato, l'obbiettivazione dei loro rapporti logici è
chiamata, nel sistema platonico, come poi in altri sistemi analoghi,
anteriorità e posteriorità di natura. Come abbiamo spiegato, la dialettica
platonica è una serie continua di deduzioni, tale che la conseguenza della
deduzione antecedente diviene il principio di una deduzione susseguente, e che in questa catena
di principii e conseguenze ciascun anello è, non una proposizione, ma un
concetto realizzato, un'Idea. Ma risulta dal parag. precedente che il nesso
logico tra le Idee è anche ]>er Platone un nesso ontologico. Ne segue che la
dialettica platonica è anche un incatenamento continuo di cause e di eft'etti, in
cni ciascun effetto èia causa di un
ettetto ulteriore, sinché la catena sia completa, queste cause e questi
effetti essendo, non delle cose che si seguono nel tempo, ma delle cose eterne
tra di cui la successione non è che logica
E infatti noi abbiamo nettato che quando, descrivendo il metodo di
dedurre le Idee, Platone chiama 1'Idea ultima da cui tutte le altre si deducono
«il principio dell'universo», egli riguarda evidentemente questa deduzione come
una derivazione reale. Ora questa deduzione è a gradi multipli il dialettico,
attinto il principio dell'universo, si attacca a ciò che è attaccato ad esso, e
discende così sino alla conclusione, andando ad Idee per via d'Idee, e
terminando ad Idee. Dunque anche la derivazione è a gradi multipli, e come la
premessa ultima da cui tutta la serie si deduce è il principio primo nel senso
ontologico rap[)orto a tutta la serie, così le ])reniesse particolari sono dei
principii secondi e derivjiti rapporto alle Idee particolari che se ne
deducono. Una conferma di questa interpretazione si ha nel Menone, in cui si
dice che le opinioni divengono conoscenze scientifiche, quando sono legate per
il ragionamento tirate» dalla causa, {aluag
Anyia^oì) Questo legame è il legame deduttivo che incatena tutto lo scibile, e le cose che esso
lega sono, non delle proposizioni, ma delle Idee. Infatti Socrate soggiunge:
questa è la reminiscenza di cui sopra abbiamo parlato, e la reminiscenza è il
ricordo dell'intuizione delle Idee uota Così il rafjìonamento tirato dalla
causa sigli itìca: la deduzione di un' Idea da un'altra Idea che ne è la cauna.
Tuttavia potrebbe credersi che questo luogo
non abbia la portata che uoi gli attribuiamo, perchè la parola aitia
significa spesso in Platone, non la causa efficiente, ma serapliceniente la ragione.
Delle prove più concludenti troviamo in Aristotile, ma esse non possono essere
comprese che dopo un'esposizione completa del metodo dialettico. Noi le
rimandiamo perciò ad un alti'o paragrafo, e pei ora ci limiteremo ad
aggiungere alcune osservazioni d'indole
generale. La prima è che in tutti i sistemi in cui, come in quello di Platone,
vi ha la realizzazione dei concetti unita al metodo deduttivo, vi ha pure
1'identità dello sviluppo logico con lo sviluppo omtologico. È ciò che abbiamo
osservato pei sistemi di Hegel, di Schelling, di Taine, e che osserveremo in
seguito per quello di Spinoza. In alcuni di «piesti sistemi la derivazione delle Tdee è chiamata nno
sviluppo, in altri come abbiamo visto nel sistema di Taini^, e come vedremo in quello di Spinoza è data
apertanu^nte per una causazione, egualmente che nel sistema platonico.
L'argomento tirato da quest'analogia diviene più fort;e, se si jiensa che le
particolarità del metodo deduttivo seguito in questi sistemi cioè che la
deduzione è una dhnostrasione, che essa
è immediata, che i principii e conseguenze sono n<Hì delle proposizioni ma dei concetti realizzati
(ivOi ^ ^ J^ltre di cui abbiamo parlato
sono comuni anche a Platone, ed esse tendono tutte ciò che per alcune è
evidente, e per le altre spiegheremo in seguito ad assimilare sempre più il
rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e
l'elletto. Queste analogie non si
spiegano che por l'impressione comune che questi sistemi tendono a produrre,
che è la realizzazione dell'idea di causalità effìciente per la trasformazicme
del nesso logico, introdotto fra i concetti, in un nesso ontologico. Un'altra
osservazione che conduce per un'altra via allo stesso risultato, è che
l'origine d<»lla dottrina delle Idee non può trovarsi altrove che nella ricerca delle cause efficienti. In
generale un'ii»otesi metatisica nasce dall'una o dall'altra di queste due
quistionì: (|uali sono le cause efficienti 1 qual è la cosa in se di
(piest'apparenza che chiamiamo materia? Le Idee non possono essere una
soluzione del problema della cosa in se: 4|uesto problenia non esiste per
Platone; egli è un realisla uaturate, come «piasi tutti i filosofi della sua e])Oca. Per conseguenza l'ipotesi delle
Idee non ha psituto avere il suo punto di partenza che* nel [U'obhMua delle
cause efficienti. E lo stesso Piatirne «iichiara che è cosi. Nel Fedone egli ci
racconta come sia pervenuto alla dottrina delle Idee e della dialettica. Da
giovane si era dato con ardore allo studio della fisica, bramoso di conosc(Me
le cause di tutte le cose, perchè ciascuna:
cosa nascr*, perchè perisce, perchè esiste. Ma questo studio, lungi di
fargli cimoscere il perchè dtille cose, gli rese incomprensibili i fatti stessi
che prima gli parevano 'più chiari. Lesse con lo stesso ardore ì libri mI'
Anassagora, piacendogli la sua dottrina che Vintelligenza è la causa di tutto;
ma non vi trovò, come sperava, una spiegazione teleologica dell'universo. Vide
invece che Assagora fa come gli altri
tìsici, •i quali non ammettono che cause meccaniche, scfuhbiando per la vera
causa ciò che non è che la condizione senza di cui essa non produrrebbe il suo
effetto. Per a|q>rendere (piale fosse questa causa si sarebbe fatto
volentieri il discepolo di chicchessia; ma non avendo potuto uè ini parali j da
altri uè trovarlo da se stesso, si mise
per un'altra via alla ricrerca d(4la
causa. Pensa che bisogna guardare le cose non in se stesse, iiiji iK*i
Ioni '/.óyot^ paileDclo sempre dal h'tyn^ cìie gli seniln-asse il iiic<;!:lio
stabilito, e declucendone tutto il resto
a~ nota iniiiia e nota ]ninìa).
La specie di causa die escogitò è quella di cui non cessa mai di parlare,
l'Idea del bene, del bello, del grande e di ogni altra cosa. E d'allora alla
quistione quale sia la causii d'una cosa
o d'un suo attributo, egli non dà che questa risposta assai semplice, che è
l'Idea della cosa o dell'attributo; e se deve dare ragione di quest'ipotesi, lo
fa deducendola da un'ipotesi 8U])eriore, e cos'i di seguito, sincbè pervenga a
un principio che basti a sé, stesso. nota
Nella Repubblica la conoscenza ein[Mrica è distinta dalla vera scienza,
in quanto ha per oggetto, non dei veri
rapporti causali, ma delle semplici sequenze invariabili: tutta la scienza del
prigioniero nella caverna si riduce a sapere come le ombre sogliono seguirsi e
accom])agnarsì; ciò che implica che Platone ha il concetto d'una causazione jnù
vera che quella che egli trova nel mondo delle cose, e che non ha potuto
trovare che nelle Idee e nella dialettica. Alle dichiarazioni <li
Platone dobbiamo aggiungere la
testimonianza di Senocrate, il quale detìnisce la filosofia che per un
platonico non piu> essere altia cosai che la dialettica € la scienza delle
cause jn'ime e dell'essenza intelligibile y>
(l;, e qu<*lla d'Aristotile, che cominciii il capitolo in cui fa la
critica del sistema delle Idee, osstM-vando che i partigiani di questo sistema
vi furono condotti dalla ricerca delle
cause. MuUacli Fraiiiiii. Mrt.
Ora in (jual modo le Idee possono fornire una spieiì:azione causale delle cose?
Fcuse in quanto un'Idea è la causa delle cose omonime'!^ in quanto, p. e., le cose belle sono tali per
la presenza o la partecipazione del Bello, le cose grandi pei quella del
Grande, eccJ Comunque s'interpreti il
rapporto tra le Idee e le core, è evidente che questa non è una spiegazione. 8e ammettiamo, come vogliono la più parte
degl'interpreti, che le Idee siano fuori delle cose, tutto il rapporto tra le
Idee e le cose è che quelle sono i modelli e queste le copie: ma resistenza dei
modelli non spiega menomamente 1'esistenza delle copie. Ciò è sì evidente che
gPinterpreti trascendentalisti sono stati costretti ad ammettere che la
dottrina delle Idee non ha per iscopo di
spiegare le cose, ma di rendere possibile la conoscenza. Se invece le Idee
sono, come noi crediamo, nelle cose stesse cioè se un'Idea non è che Fattributo
omonimo delle cose, supposto esistente per se stesso, ed uno e lo stenao in
tutti gli oggetti a cui viene attribuito certamente l'esistenza delle Idee
porta necessariamente con se l'esistenza, nelle cose, degli attributi omonimi. Ma è questa una spiegazione? È spiegare le
cose dire che esse hanno un certo attributo per la presenza o la partecipazione
di -iiuest'attributo, considerato come una realtà e ncm conie lina semplice
astrazione? È una di quelle spiegazioni che Bain chiama illusorie, e che
c<msistono a ripetere in altri l^ermini il fatto stesso che si tratta di
spiegare nel nostro easo, il fatto è tradotto dalla lingua ordinaria in quella della filosofia
realista: una spiegazione perfettamente simile a quella del medico di Molière,
che 1'oppio fa donnire perchè ha la virtù dormitiva; in uua parola non una V, per qiiest opinione il Sappi. spiegazione, ma iiua pura tautologia.
Qualunque sia tlunque il modo d'interpretare le Idee, che esse siana immanenti
o trascendenti, varrà sempre [ler questa jjarte la critica d'Aristotile,
eh'esse sono un inutile raddoppiamento degli esseri, e che Platone iia fatto
com(» aK cuno che, volendo contare un certo nuniero di oggetti, per riuscirvi
più facilmente, ne aggiungesse degli altri. Noi non abbiamo, per cimseguenza,
la scelta che fra due ipotesi: o le Idee non hanno alcuna reale ethcienza né
alcun vah)re reale cernie principii esplicativi, o se li hanno, noi dobbiamo
cercarli, non nel loro rapporto con le cost^ ma nei loro rapporti fra di loro,
cioè nella dialettica. Ciò vuol dire che Platone ha voluto spiegare, non le
esistenze particolari, ma:e forme generali di <|ueste esisteuze spiegare significa mostrare il modo in cui le
cose si producono, e la sua spiegazione consiste in ciò, ch'egli deduce queste
forme le une dalle altre, a partire da un
primo principio assiomatico, e le riguarda come esistenti per se stesse,
affinchè questji deduzione sia al tempo stesso una produzione reale. È solo a
questa condizione che la dottrina delle Idee è una dottrina lilosofica. Noi
osserveremo infine che 1'identilà dello svilupfio logico con l'ontologico è
suppost4i dall'inseimrabilità che
]*latone stabilisce fra la scienza o la dialettica e le Idee. È una sua
dottrina costante che la dialettica non ha \ìer oggetto che le Idee, e cosi puie
la scienza. Ciò non è, come potrebbs credersi, perchè il «concetto generale si
riferisce all'Idea: infatti, come vediamo nel Timeo e nel Filebo, egli dà per ogg<*tto alle V. /*/. r)7 e Tiil
d, ò'o/. a. Hejj. a . eoe. Jiep. («> il . l>
a. ecc. ricerche fisiche, quantunque evidentemente esse si riferiscano al generale e non al particolare,
non le Idee j ma i semplici fenomeni. La dialettica, invece di dedurre le Idee
stesse, potrebbe dedurre i generi e le specie delle cose che le Idee rappresentano:
ma in questo caso la deduzione non sarebbe una derivazione reale, perchè, come abbiamo più volte osservato e
come spiegheremo più chiaramente in
seguito, è la sostantifìcazione –GRICE SUBJECTIFICATION o CATEGORY SHIFT cfr
TRANSUBSTANTIATION dei concetti che trasforma il nesso logico fra di loro in un
nesso ontologico. Ora la deduzione per Platone deve essero una derivazione
reale senza di che essa non sarebbe una spiegazione: ecco perchè la scienza, il
cui carattere essenziale è il metodo deduttivo, e la dialettica, che non è che
un altro nome per significare questo
metodo, non possono avere secondo lui
altro oggetto che i concetti sostantitìcati. Questo ci fa comprendere
pure un argomento del Parmenide per istabilire l'esistenza delle Idee, cioè che
se non si ammettessero ciueste, si distruggerebbe la dialettica; e unakro, che
non ne è che una variante, del Timeo, in cui l'esistenza delle Idee si fa
dipendere dalla difì'erenza fra la
scienza e l'opinione vera, cioè, al fondo, dalPesistenza «tessa della
scienza. In un senso si ha ragione di dire che la dottrina delle Idee ha per
iscopo di rendere la scienza possibile. Le Idee, senza la dialettica, non
avrebbero alcun valore, ma questa senza di quelle sarebl>e un semplice
metodo subbiettivo, e non, come è per Platone, la rappresentazione del processo
stesso per cui le cose si producono;
quindi le Idee non hanno altro scopo che di rendere la dialettica possibile.
Per la trasformazione delle veritji generali in esseri generali,
l'incatenamento deduttivo divenendo un'incateuamento causale y la scienza si
trova costituita, perchè essa è, come dita poi Aristotile, la conoscenza della
causa. Noi abbiamo esposto sin qui salvo
un sol punto, <5Ìoè
rassegnazione del posto di primo
principio all'Idea del Bene i caratteri della dialettica platonica che essa ha
comuni con gli altri sistemi costruiti sullo stesso tip<», <ihe noi
chiamiamo realismo dialettico: ci restano ad e^porne i caratteri propri e
distintivi. Quest'ordine a cui ci conformiamo, per quanto ci è possibile, nella
nostra esposizione, ci è consigliato dalla natura stessa del soggetto La
deduzione di Platone, di Hegel e di
rutta questa famiglia di metafìsici non è niente affatto una deduzione nel senso
ordinario e vero di questo termine; e ciò per questa ragione assai semplice,
che il vero metodo deduttivo, quello che la logica (udinaria chiama così, non
si presterebbe all'applicazione che, nei loro sistemi, pretendono fare di
questo metodo. È evidente che questi filosofi, poi metodi particolari ch'essi hanno immaginato, si
sforzano di imitare, per (juanto è possibile, ciò che la logica chiama il
metodo deduttivo: tutta la forza e il valore dei loro sistemi è in
quest'apparenza <ìi deduzione, di cui sono obbligati a contentarsi, in
difetto di una deduzione reale. Ma le loro imitazioni si pensi p. e. alla
deduzione di Hegel, sono sì difformi dal loro modello, che sarebbe impossibile di comprendere lo scopo e il significato
di questi metodi, se non si sapesse prima
(piai è l'ideale di metodo ch'essi cercano di realizzare,
approssimativamente e alhmtanandosene in sensi differenti. Ecco il perchè
dell'ordine che ci siamo tracciati nell'esposizione del metodo platonico. La
stessa eccezione che siamo stati obbligati di fare alla regola che ci siamo
proposta perchè senza di ciò non avremmo potuto stabilire gli allri punti della
dottrina che abbiamo trattati è appena se è un'eccezione. Tutto ciò, infatti,
che abbiamo detto del primo principio di Platone salvo questo nome: il bene,
c<m le suggestioni che esso implica
potrebbe convenire ugualmente all’assioma eterno di Taine, o alla Sostanza di
Spinoza, o all'Assoluto di Schelling. Noi non
sappiamo altro sin qui se non che il concetto primitivo da cui tutti gli
altri si deducono, è chiamato da Platone l'Idea del Rene: ma. qua! è
precisamente il contenuto di questo concetto? e (piale la sua relazione con gli
altri concetti? È da questi due punti che cominceremo il resto della nostra
esposizione. La relazione dell'Idea del
]5ene con tutte le altre è quella del genere con le specie: ogni Idea, e per conseguenza, ogni cosa è una
determinazione o una forma particolare del bene (rò «/«.'/ó//, che varrebbe forse meglio
tradurre: IL BUONO – Grice: “Excellent point! I wish we had such liability in OUR
vernacular – BONVM CICERONE. Così secondo la Repubblica il dialettico definisce 1'Idea del
Bene, astraendola (à(ùeh(^y) da tutte le altre; secondo il Filebo ogni essenza
è nella classe del bene; secondo il Fedone ciò che esiste è sempre l'ottimo
PARETO GRICE, e il bene h^^a Q contiene
tutte le cose; secondo il Timeo tutto ciò che è fatto secondo un modello eterno
cioè secondo una Idea è bello il bello per Platone è, come diremo in seguito,
identico al bene, e il Demiurgo, nella creazione dell'universo, volle che ogni
cosa fosse buona, per quanto era
possibile, e costruì il bene in tutto ciò^ che fu generato Delle prove ancora
più concludenti troviamo in Aristotile. Noi abbiamo già visto che il primo
principio platonico che Aristotile chiama
abitualmente l'Uno o l'Essere GRICE MULTIPLICITY OF BEING, e che
identifìca al Bene è 1'essenza comune di tutte le Idee, e l'astrazione suprema
in cui tutto si unifica. A queste
indicazioni aggiungeremo queste
altre V. per quest'espressione e le
altre analoghe di cui Platone si serve per indicare l'astrazione, Suppl. Coint»
abbiamo osservato la tendenza del rea* per coiupreiulere la ciji portata iiou
si deve dimenticare che l'Uno o Essere deiresposizione aristotelica non è altra
cosa €he il Bene della Repubblica: L'Uno è 1'sló'oz e \a forma di tutti i numeri cioè di tutte le Idee, e questi sono con esso nello
stesso rapporto clie le specie col genere. L'identità dell'Uno col Bene e dei
numeri con le Idee ha per conseguenza che tutte le Idee e tutte le cose sono,
seccmdo Platone, dei beni. L'Uno o l'Essere è l'Idea più universale: essa non è
Kemplicemente un universale, ma un genere; è il prim<t genere^ cioè il
genere sonnno, che SI PREDICA GRICE BOEZIO di tutte le cose e in cui tutte le cDse sono contenute.
Notiamo, infine, Targomento con cui si dimostra l'esistenza del Non Essere
GRICE NEGATION AND PRIVATION WIGGINS,
che, se non esistesse questo, tutti gli esseri si ridurrebbero ad un
solo, l'Essere stesso: esso sup[K>ne
che il contenuto d'ogn'Idea consti di due parti, la comune o generiCii, che è
l'Essere, e la propria e distiativa^ che
non essendo l'Essere, può essere
compresa sotto il concetto generale del Non Essere. Del resto è si ovvio
che Platone abbia ammesso l'universalità assoluta dell'Idea dell'Essere, che
lisnio dialettico: i risolvere il tutto uel primo priucii)io deve renlizzarsi
d'una maniera più completa in un sistema, in cui, cimie in quello di Platone,
il primo principio è al tempo stesso il
concetto più generale nel quale tutti gli altri sono compresi. AfeL Mei. 3[et. Met., ecc.
Mei. Mei. 3Iet,, ecc. Mei. noi
avremmo potuto su questo punto dispensarci di qualsiasi prova, limitandoci a
ricordare il punto realmente importante, cioè l'identità fra quest'Idea e
quella del Bene. Ora <|ual è il signilicato o, come abbiamo detto, il
contenuto dell'Idea del Bene? di quest'Idea
che Platone identifica con quella dell'Essere, peichè vi vede il piano o
il tipo generale secondo cui tutti gli esseri sono costituiti? Elevando il
concetto del bene o, piuttosto, del m buono a tipo universale, Platone vuol
dire evidentemente: che tutte le opere della natura sono ben fatte, che da per
tutto domina il principio delle cause finali, e che 1'universo dev'essere
spiegato teleologicamente. Così Aristotile fa corrispendere il Bene platonico
alla Nel periodo pitagoreggiante, in cui al mtnisitio h sostituito il dualismo^
Velemento materiale è altrettanto univorsak*. e della stessa maniera, che l
'elemento esaemiale. Per più anq>i
sviluppi su questo punte» rinviamo al Suppl. e al Suppl. (Ine clementi: e intanto citiamo:
Platone Sof. universalità assiduta del
No)i Essere che, come vedremo, non è
altro che la Materia dell'esposizizionc aristotelica e sua inerenza, come attributo, in tutte le
Specie, Aristotile Phys. il Grande e Piccolo, cioè la Dualità indefinita,
contiene tutti i sensibili e tutti gl'intelligibili. Mei, i platonici sembrano
servirsi dell'Uno o Essere e del Grande e Piccolo come di generi, gli elementi
sono i massimamente universali e l'elemento
materiale essendo identico al male, tutti gli esseri devono partecipare
al male si noti che nella lingua platonica la partecipazione di un'Idea è hi
sua inerenza quale attributo. Nel terzo dei luoghi citati Aristotile dice
sembrano, perchè. quautun<iue il principio materiale abbia lo stesso dritto
ad assere riguardato come genere, pure Platone non considera come tale e quindi
anche cmue Idea che il principio
essenziale. 8iia causa fiuale, al rò oi'J
'ty^xx . Vi ha però fra i due collidetti questa differenza, clie il bene
di Platone non può significare IL FINE
METIER POINT PURPOSE DESTINAZIONE PIANO FINE DI PAINO PER CUI UNA COSA HUMAN
HUMANISE TIGERS TIGERISE ESISTE, come il rò ov tPBxa di Aristotile, perché in
questo caso non sarebbe l'essenza stessa
della cosa. Piuttosto che il fine stesso, esso indica dunque l'appropriazione
delhi cosa a «piesto fine: in altri termini, ogni cosa è buona, per Platone, in
quanto è APPROPRIATA A UN CERTO SCOPO – A GOOD CABBAGE, A GOOD KING, e questa
proprietà geuerale delle cose di avere degli scopi ed esservi appropriate,
considerata in astratto e sostantificata, si
chiama l'Idea del Bene. Il miglior commentario della dottrina sul Hene è
il suo legame col concetto di una mente ordinatrice. Noi abbiamo visto come nel
Fedone la proposizione che tutto è il meglio possibile, è presentata come una
conseguenza Mei. È perciò che Aristotile uega che Phitoiie uhbhi aiumestitt^
nel senso proprio, la ciuisa iiuale. Mvt., Da (luesto luogo e «lall'altro
citato nella nota precedente (in cui
dice che le Idee non hanno niente a fare con la causa, finale, quantunque
Platone ahhia fatto di questa uno dei due principii fti h concluso ohe secondo
Aristotile il suo maestro ha omesso il principio delle cause finali. La verità
è che Aristotile atterma non che egli ha omesso questo principio, cioè la
dottrina che vi hanno dei fini nella natura ciò che sarebbe un errore evidente e inesplicabile. ma che
secondo lui il fine non ò una causa; e ciò perchè, nel senso speciale che la
parola causa ha nella dottrina delle Ideo, ohe Aristotile riguarda giustamente
come il punto centrale della filosofia di Platone, non vi hanno per questi
altr» cause che il principio essenziale e il principio materiale. È per la
stessa ragione che gli rimprovera puro di aver
omesso la causa efficiente MtL, eco. quantunque r anima sia evidentemente
per Platone una causa efficiente, nel senso aristotelioo, cioè motrice. della
dottrina, desiderata in Anassagora, che il Nous, causa prinui dell'universo, ha
disposto tutte le cose nel miglior modo in cui potevano esserlo. Il
desideratuìu del Fedone è realizzato nel Timeo. Ecco in breve la cosmogonia che
ci è narrata in questo dialogo. Il
mondo, cioè l'universo ordinato, il cosmos, è 1'opera di un artefice supremo
demiurgo, che si è associati, come esecutori dei suoi disegni, altri artefici
inferiori divinità generate dal demiurgo. Prima dell'azione demiurgica la
uiateria era in uno stJìto caotico: Dio volle che ogni cosa fosse buona, e
cangiò il disordine primitivo nelFordine attuale, servendosi come di mezzi delle cause materiali, ma costruendo
egli stesso il bene in tutto ciò che produceva
Egli il demiursjjo diede la forma agli elementi, ne compose il corpo del
mondo, produsse l'anima e gli animali immortali cioè, oltre il mondo stesso, la
terra e i corpi celesti; le divinità generate, imitando la sua potenza
creatrice, produssero i vegetali, l'uomo e gli altri animali mortali. Il
Demiurgo e gli Dei generati agiscono, in
tutto ciò che fanno, con un PIANO GRAND PLAN GRICE e per uno scopo: per ogni
cosa prodotta, Timeo ci mostra la provvidenza e i savi consigli della divinità
che hanno presieduto alla sua produzione. Egli distingue due generi di cause,
la necessaria, che non è che una concausa, i cui effetti sono fortuiti e
irregolari, e la divina, che produce con intelligenza il buono e il bello GRICE
ON THE SHALL IN FIAT LUX. Il meccanismo delle cause finali è assimilato così
completamente al suo tipo, cioè all'art^e umana, cjie la creazione del Timeo
può dirsi, a rigor di termini, una vera fabbricazione GRICE CONSTRUCTION CICERO
COSTRUERE CONSTRUCTUM. Tim. Tim, eco.
Tiii^. Tim., ecc. Sarebbe difficile di dire sino a qiial
punto la teleologia di Platone è realmente, come apparisce nel Fedone e
sovratutto nel Timeo, una teleologia trascendente, cioè implicante un agente
iperfìsico, analogo alla volontà umana. È una dottrina non dubbia del nostro
autore che l'anima è la causa prima del movimento, per conseguenza di ogni
fenomeno, e che quella che governa il
mondo è l'anima migliore, cioè
intelligente come dimostrano i movimenti dei corpi celesti, e agente
sempre in vista del bene. Ma non ne segue che il bene deve essere spiegato
interamente per V anima. Vi hanno almeno due casi in cui questa spiegazicme è
certamente inapplicabile: l'anima non ha potuto produrre se stessa che è
anch'essa una specie del Bene, né niente di ciò ch'è eterno, perchè essa è una
causa che agisce nel tempo, e la cui
efficienza è semplicemente motrice. Ora come vedremo nel Suppl., il mondo, cioè il sistema attuale
dell'universo, è, secondo Platone, eterno, e la cosmogonia del Timeo non deve
essere presa in senso letterale. In quanto al Demiurgo, la cui funzione è di
produrre ciò che non potrebbe essere prodotto dall'anima, esso non è che un
simbolo dell'Idea del Bene: la causa
immanente del Bene è rappresentata come un agente esteriore e personale. Non vi
ha dubbio quindi che la teleologia platonica non sia, sino ad un certo punto,
immanente: in un senso, essa lo è anche interamente, perchè anche nei casi in
cui il bene deve essere spiegato per l'anima, questa non ne è la causa che in
un Leg., Epinom., Fedro, FU., Sof,, Rep., ecc Suppl. Il pitagorismo
nel Timeo. Suppl. // pitagor. nel Tim, senso, per dir così, fisico, cioè
come un semplice antecedente. La vera causalità sta nella connessione logica
delle Idee, e in questo senso il bene non ha altra causa che se stesso, perchè
il bene nelle cose non è che l'Idea stessa del Bene, e questa è una necessità
primordiale dell'essere, il principio assolutamente primo che non suppone
niente prima di sé. Perchè dunque questa
etessa teleologia immanente è rappresentata da Platone come una teleologia
trascendente Perchè egli sa che il concetto di finalità incosciente non può
essere compreso che per quello di finalità cosciente. Il fine è un'idea
essenzialmente umana, e applicarla alla natura è stabilire un'analogia fra le
sue produzioni e quelle della no-» € Vi hanno in Platone, dice Janet Le cause
finali Appendice due teorie della iiualità
l'una metafisica, l'altra tìsica. Secondo 1'una, le cose sono buone
perchè partecipano al bene; secondo l'altra le cose sono buone perchè sono
fatte per il bene. Nel primo caso la finalità è immanente e deriva da una causa
impersonale: nel secondo caso è trascendente, e suppone una causa personale.
Bisogna aggiuugere però che la prima teoria si applica universalmente a tutte
le cose, mentre la seconda, nella sua
applicazione, è necessariamente limitata. Inoltre potrebbe dubitarsi se le due
teorie siano realmente inconciliabili come crede Janet: esse non lo sono che se
si ammette che la spiegazione del realismo dialettico, che rende ragione dei
fatti deducendoli da principii logicamente anteriori, è incompatibile con la
spiegazione fisica, che ne rende ragione per altri fatti anteriori cronologicamente
antecedenti invariabili. Il contrasto, qualunque esso sia, delle due teorie
della finalità non è che quello delle due dottrine distinte della metafisica di
Platone, quella delle Idee e quella dell'anima, e dei due concetti distinti
della causalità di cui queste due dottrine sono l'applicazione. Si vedano pure,
sui motivi del simbolismo del Timeo, le
altre considerazioni che facciamo nel
Suppl. Pitagor, nel Tim. stra attività. L'espressione ^/mZ?7à incosciente o immanente non è che
un'enunciazione più breve di questa proposizione: che i prodotti della natura
sembrano^ quantunque non lo siano, gli effetti di un'attività cosciente, agente
con un piano e per uno scopo. Ogni definizione possibile della finalità deve
tornare, in ultima analisi, a quella di
Reid, in quel suo principio metafisico che ha tutta l'apparenza d'una
tautolo.i^na: I segni dell’intelligenza e del diserjno nell'effetto provano un
disegno e una intelligenza nella causa. Questo è dunque il concetto che Platone
sviluppa nel Timeo e nel Fedone: le cose della natura o sono effettivamente
l'opera d'un'intelligenza agente con un piano GRICE’S GRAND PLAN -- e per uno
scopo DESTINAZIONE METIER, o sono costituite come se GRICE AS IF -- fossero l'opera
d'una tale intelligenza. È perchè sono costituite così che esse si chiamano
buone, e questa costituzione stessa, concepita aviò xaO' abtó^ è l'Idea del
Bene, forma comune di tutti gli esseri. Questo significato dell'Idea del Bene
risulta nettamente dai caratteri per cui Platone la definisce. Alcuni di questi Reid Saggi sulle facoltà
inlelleUunU delVnomo. Saggio. Anche nel Gorgin., il concetto del Bene è
chiarito per la sua analogia con la finalità umana. Noi siamo buoni, noi e
tutte le altre cose che sono huone. per la presenza di qualche virtù ANDREIA.
Ma la virtù di ciascuna cosa, o strumento o corpo o anima o qual si voglia
essere animato, non vi si trova all'avventura, ma si deve all'ordine, alla regola e all'arac che
sono stati posti in ciascuna di queste cose. Qui la parola arle^ in quanto si
applica agli oggetti naturali, sembra non avere che un valore metaforico, come
quando noi parliamo dell'ar^t^^io della natura Kant dice: la tecnica della
natura Critica del giudizio – Grice: “Whereas what HE should HAVE said is the
TECNICA DELLA FISI -- senz^ivere perciò Tintenzione di personificarla, ma
unicamente per indicare Vanalogia fra certi prodotti naturali e quelli
dell'industria umana. caratteri non sono che delle espressioni generiche della
idea di finalità: l'ordine raf^c,
xófruog raccordo fra i vari elementi di un tutto, la proporzione, il
misurato, l'opportuno. ecc. Una determinazione più precisa è 1'appropriazione
di ciascuna cosa alla sua fun.zione: la
virtù o la bontà dell'occhio è di essere appropriato alla vista, dell'orecchio,
all'udito, ecc. Ma questa definizione non conviene che a quella che si è
chiamata finalità di uso o di appropriazione, e il cui tipo è l'organizzazione
degli esseri viventi, in cui le diverse parti sembrano fatte l'una per
l'utilità dell'altra, e tutte per l'utilità dell'insieme. Così nel Timeo,
descrivendo la formazione degli animali,
Platone non manca di mostrare, per
<iuanto glielo potevano permettere le sue conoscenze fisiologiche, 1'uso
di cia^^cuna parte e lo scopo per cui è stata costruita così. Da questa specie
di finalità possiamo distinguere con Janet quella che Janet chiama FINALITà di
piano – Grice: “Otiosely, since a plan is a ‘finis’” --, e per cui tipo
possiamo prendere i movimenti regolari
del nostro sistema planetario. È sovratutto come finalità di piano che il bene
è realizzato dal demiurgo – Grice’s genitor or engineer--: nei movimenti
regolari degli astri (9;, nella forma sferica del cielo e dei corpi celesti,
nelle forme dei corpi ele Gorg. Tim. Bep. ecc.
FU. Sof. Bep, Bep. ecc. FU. Tim.
FU. FU. Bep. Tim. Le cause finali Tim. Leggi Tim. mentari,
che sono ì poliedri re^ijolari della
geonietria , iiella proporzionalità fra i quattro elementi di cui è
composto il corpo del mondo, e in una parola in tutto ciò che è prodotto dal
Demiurgo stesso. Nel periodo pitagoreggìante questa forma di finalità prende il
passo sull'altra^ prestandosi più facilmente a un'interpretazione matematica:
così, secondo VEpidomide, il numero è la causa di tutti i beni, ed è assente da ogni movimento in cui
non vi ha né ragione uè ordine né beltà né ritmo né armonia, e in generale da
tutto ciò che partecipa a qualche male. In questa forma, il Bene si manifesta
nelle essenze stesse dei numeri come ordine regolare ed immutabile. Il
principale ostacolo all'intelligenza di questa dottrina di Platone é che una
dottrina essenzialmente ontologica é
presentata da lui come una risposta a una quistione puramente etica.
Alla domanda dei socra Tim. Tini, Arist.
Eth, End. Ciò fa prima di tutto per evitare T inverosimiglianza di attribuire a
Socrate delle rioercbe troppo diverse da quelle obe gli erano abituali; nel
cbe, oltre un intento letterario, vi ha l'intenzione seria di riattaccare le
proprie dottrine a quelle di lui^ facendo vedere cbe non ne sono cbe uno sviluppo (su questa tendenza
di Platone a riattaccarsi ai lilosofi precedenti, Supplemento Pitagorismo nel
Timeo e nel Fileho, sul principio; Sono gli stesM motivi per cui,
nell'esposizione della teoria delle Idee, gli esempi più abituali sono dei
concetti morali, o di cui si fa uso continuamente nella conversazione ordinaria
-- CONVERSATION: p. e. il buono, il giusto, il
bello, il grande, il piccolo ecc. nel Parmenide Socrate esita se deve
ammettere Idee dell'uomo, del fuoco, dell'acqua e, in una parola, degli oggetti
della natura. Sembra tici: quale il bene per noli in altri termini, in che
consiste la felicità umana? egli risponde con una teoria sul bene delVuniverso.
Il Bene, essenza comune di tutto ciò che esiste, é questo stesso bene, a cui
ogni anima aspira, facendo tutto in
grazia di esso, che alcuni riducono al piacere ed altri all'intelligenza, ma
che è superiore all'uno e all'altra, perchè esso è perfetto e pienamente
sufficiente, mentre nessuno si contenterebbe di una vita di piacere senza
intelligenza né di una vita di intelligenza senzii piacere. Evidentemente,
questa identificazione non importa per Platone che il concetto della felicità
sia identico a quello del Bene, oggetto
supremo dell'ontologia, perchè noi non potremmo attribuirgli il non senso che
la forma o essenza comune di tutto ciò che esiste, è la felicità. La felicità è
un bene, non il bene, vale a dire non è che una delle specie contenute nel
genere supremo Nondimeno Platone può riguardare il possesso della felicità come
la stessa cosa che quello del Bene, perchè
questo stato desiderabile dell'anima, in cui consiste la felicità, è
tale, e non il suo contrario, per la
partecipazione o parusia del Bene. Così, questo Bene la cui parusia nella vita
umana costituisce la felicità, essendo quel Bene stesso che ò il piano GRICE
ACKRILL EUDAEMONIA generale secondo cui tutti gli esseri sono costituiti, alla
inoltre che Platone abbia paura cbe lo si accusi di smarrirsi in speculazioni oziose: è un
resto di quell'utilitarismo socratico Senof. Memorah., di cui, pur ridendosene
qualche volta Rep., dà un'esempio non dubbio, quando bandisce i poeti dalla sua
repubblica Bep. Rep, FiL i luoghi del FU, citati nella nota precedente. domanda: quale sia il bene per
«oif egli può rispondere dicendo quale è il bene delV universo. Facendo cosi,
non confonde la quistione etica con la quistione ontologica, ma considera la
prima come un caso della seconda. Per ricondurre il bene suhhiettivo. oggetto
dell'etica, al bene obbiettivo, oggetto dell'ontologia, Platone ha po'tuto
partire da un'osservazione assai ovvia, cioè il sentimento di soddisfazione che
accompagna lesercizio normale delle proprie funzioni. La legge della finalità
nella natura ha per tipo l'organizzazione è là sovratutto che 1 filosofi hanno
cercato il dominio delle cause finali ed estendendo qucsta legge a tutta la
natura, Platone non ha ftitto che generalizzare una proprietà degli esseri
viventi, su cui Socrate ed altri pensatori avevano, prima di lui, rivolto
1'attenzione. Neil'essere vivente stesso, questa proprietà si manifesta al più
alto grado, quando l'insieme delle sue
funzioni si esercita di una maniera armonica e regolare, in una parola, nel suo
stato fisiologico. Questo bene del corpo vivente, questa sua completa
appropriazione ili suoi fini, è avvertito internamente come benessere: qualche
cosa di analogo ha luogo per 1'anima. L'anima, che è l'essere vivente per
eccellenza, ha anch'essa uno stato fisiologico e uno stato patologico: lo stato fisiologico dell'anima, la sua
sanità, è la virtù, il vizio ne è la malattia. Ora Arist. Eth. i\ic. U-I(j. Maf/n. Mar. specialnicDte Kant Critica del
ffiudisio, V. Senof. Memor.
Notevolraente Ippocrate. Gnìetìo De plaeitis Ilippr^craiis et Platonis Rep. Sof.
Leggi eoe. la vita virtuosa è identica
alla vita felice; ne segue che la felicità è, in ultima analisi, lo stato
^«io%/co dell'anima, e che il bene per
noi non è così che un caso del bene dell'universo. Questa subordinazione del
concetto etico del bene a quello ontologico fa che, per definire il primo,
Platone si serve delle stesse espressioni generali della finalità, che gli
hanno servito per definire il secondo. La virtù, che, come abbiamo detto,
s'identifica con la felicità, è l'ordine nell'anima, l'accordo fra le sue
parti, la sua appropriazione completa
alle sue funzioni. e le definizioni del Filebo, la proporzione, il misurato,
l'opportuno, si applicano al tempo stesso al bene dell'uomo e a queHo
dell'universo. Delle due specie di finalità distinte da Kant, V esteriore cioè
l'utilità d'una cosa per un'altra e
Vinteriore cioè l'appropriazione a un fine interno, come nelr organismo, il cui
fine precipuo è la conservazione di sé stesso è la seconda che prevale nella
teleologia di Platone. Ecco ciò che lo prova: Identificando il bene in se
stesso col bene per noi, questo è elevat > necessariamente a tipo del bene
universale. Il bene di ciascuna cosa deve essere dunque concepito per analogia
col bene nostro quello che costituisce la
nostra felicità, cioè con un bene desiderabile per l'essere stesso in
cui è presente. Così l'Idea del Bene è chiamata « ciò che vi ha di più Rep., Gorg., ecc. Coiifr. per Seuocrate Mullacli Fr. e Arist. Topie, Gorg, Rep.,
ecc. FU. Sof. Rep.
Rep., ecc. Rrp.. FU,.felice nell'essere, il che, se dovesse essere preso alla
lettera, implicherebbe che il bene in tutti gli esseri è la felicità^ e
secondo un'indicazione dell'^^tca a
Eudemo i numeri i numeri ideali di Platone aspirano all'unità come al loro
bene. La felicità GRICE ACKRILL EUDAEMONIA BEATO essendo, come abbiamo visto,
un caso della sanità, Platone eleva anche questa a tipo del bene universale.
Così nella Rep. e il male, anche negli esseri non viventi, è ricondotto alla
malattia: il male del ferro, la sua malattia,
è la ruggine, del legno la putredine, ecc. Citiamo pure il cominciamento
di una definizione di Speusippo: \4yafiòy
tò ahiot^ (T(oir^(jta^ zolg
ovai^ dove la parola ahioy deve
essere presa nel ^^ji^o immanente della
teoria delle Idee, secondo cui la causa d'un attributo nelle cose è la parusia
dell'Idea corrispondente. Aristotile fa corrispondere, come abbiamo detto, il
bene platonico alla causa finale. E lo
stesso fa Piatone medesimo nel FU,
H d, identificando così il fine
con l'essenza, come fa spesso Aristotile. È ciò che non potrebbero fare se il
bene fosse l'utile GRICE PRICHARD, cioè un mezzo e non uno scopo. Neil'ipotesi
d'una finalità interna, l'essere appropriato ad un fine METIER ciò che sarebbe
per noi la definizione del bene e il fine stesso non sono due cose necessariamente distinte. L'organismo ha per Rep. Vili. A questi luoghi
si può aggiungere Fedro, in cui le Idee che l'anima contempla nel piano della
verità sono chiamate€ perfette, semplici, immobili e felici apparizioni
warraara). MuUach. Pi^agm. graecorum
philoph, Speusippo Fragm. Phys. De
pari animai, ecc. fine se stesso, cioè
la propria sussistenza. Il bene è secondo
Platone identico al bello. Ora questo è un fine per se stesso e non come
mezzo per un fine ulteriore. Socrate identifica anch'egli il bello col buono^
ma riducendolo, come questo, all'utile PRICHARD GRICE. Questo concetto, dentro
certi limiti, sarebbe ammesso anche da Platone, ma purché non s'intenda per
utile UTILITARIAN FUTILITARIAN GRICE PRICHARD una finalità puramente
esteriore. Se si prende in questo senso,
la tesi socratica è respinta nell'Ippia Maggiore, perchè, l'utile essendo la
causa del bene, avrebbe per conseguenza che il bello non sarebbe bene, né il
bene bello. Nel periodo pitagoreggiante, il Bene è anche identificato Non
abbiamo aggiunto ai luoghi citati la definizione di Speusippo la quale
escluderebbe assolutamente qualsiasi
finalità esteriore: Ayaòòt^ zò abzov tt^sxst^ Muli.
Fr., perchè niente prova che essa si riferisca al bene in se stesso cioè
ontologico, e non piuttosto al bene per noi cioè etico. Tim., FU.,
Conv, FAsis, ecc. Confr.
Speusippo Definiz. di Platone MuUach. Fr. Senof. Memornh. Gorg. Qualche cosa di simile pensa
anche Goethe. Una creatura è bella, secondo lui, sovratutto quando la costruzione delle diverse membra è in armonia
con la sua destinazione CICERO DESTINO naturale – DESTINARE –comp. del prefisso
DE e STINARE, forma allungata di STARE – Lewis and Short, DESTINO, destine, e
può attingere il suo scopo. Così una giovane nubile non sarà bella, se non ha
il bacino largo, il seno abbondante. Se un cavallo è bello, è perchè tutto
nellaj sua organizzazione serve
perfettamente a uno scopo legittimo. Noi ammiriamo l'eleganza, la leggerezza
graziosa dei suoi movimenti, ma vi ha ancora in esso qualche altra cosa che ci
potrebbe spiegare un buon cavaliere o un conoscitore di cavalli; noi non ne
riceviamo che l'impressione generale. Eckermann Conversazioni di Goethe traduz.
frane, <;ome sappiamo, con l'Uno. In questa
identificazione Platone lia evidentemente di mira questa unità nella
varietà, ili cui alcuni hanno cercato 1'essenza deì bello. La regolarità
finalità di piano, il concorso di tutte le parti di un tutto a uno scopo comune
finalità di appropriazione, sono delle specie di unità nella varietà. L'unità
per eccellenza, Vindividuo, è il tutto in cui questo scopo è interno, cioè
l'essere organizzato. Le considerazioni
precedenti hanno la loro conferma nel Timeo, la €ui teleologia è, nella massima parte dei casi, interiore. In
questo dialogo il concetto delle cause finali è applicato sovratutto,
descrivendo la formazione del mondo come un tutto individuale e quella dell'UOMO
Homo sapiens sapiens HUMANISE HUMANS HUMANISE. Nella formazione del mondo lo
scopo del Demiurgo è di farne un tutto
completo, un essere vivente immune da vec<5hiezza e da malattia e
sufficiente a se stesso, un dio felice, grandissimo, ottimo, bellissimo e
perfettissimo. Nella descrizione della formazione dell'uomo GRICE HUMANS
HUMANISE la teleologia di Platone, per quanto fantastica, non è che
un'applicazi<me di questo principio fisiologico, ciie un carattere generale
degli organi è la loro utilità per 1'organismo stesso Sarebbe inutile di
ripetere ciò che abbiamo detto della forma degli elementi e degli altri esempi
di finalità di piano nelle opere del Demiurgo: osserviamo solamente che la
finalità di piano è evidentemente una finalità interiore. Da ciò che precede
potrebbe concludersi che noi potremmo definire il bene l'astratto:
l'appropriazione dell'essere a un fine
interno; e il buono il concreto: l'essere appropriato a un fine interno. Ma
questa generalizzazione sarebbe troppo assoluta. Il Bene platonica oscilla fra
due tipi, che sono quelli del concetto stesso di finalità: il prodotto
dell'arte umana finalità esteriore, e quello, come dice Kant, della tecnica
della natura, cioè l'organismo finalità interiore. Così in certi casi il bene
si traduce evidentemente nell'utile, e
anche nel Timeo non mancano degli esempi di finalità esteriore: i vegetali sono
stati creati per servire di nutrimento agli animali; il sole, non solo perchè
il mondo divenisse, per la produzione del tempo, più simile al suo modello . ma
anche porche gli uomini acquistassero la conoscenza del numero; ecc.
Neiripotesi di una finalità puramente interna, la spiegazione teleologica non potrebbe essere
universale, tanto i)iiì nel sistema platonico, in cui dovrebbe applicarsi, non
solo agli esseri reali, ma anche alle loro parti e alle loro qualità astratte.
Infatti tutto L'individuo, secondo la definizione di Virchow, è una comunità
unitaria nella quale tutte le parti
concorrono a uno scopo omogeneo. Tim. Tim. Tim. Tim. Tim. ecc. Tim.
L'Idea platonica può prendersi in due
sensi, di cui l'uno esprinie l'attributo stesso, e l'altro Togjajetto, in
genere, che possiede l'attributo. Così la stessa Idea ora ò chiamata con un
nome concreto, e ora col nome astratto corrispondente: il grande e la grandEZZA
p. e. Parm., il bello e la bellEZZA,
la mensa e la mensaLITÀ Plat.
Kep. e Diog. Laert.,
ecc. IL CAVALLO e la cavallITA Rep.
Gorg. Tim. <5iò di cui vi ha
Idea, deve essere, come abbiamo visto, una specie del Bene; ma non vi ha Idea solamente
dell'uomo HUMANS HUMANISE GRICE, dell'albero, del corpo celeste, ecc., ma anche
dell'osso, della foglia, del colore, della figura, ecc. Ora l'osso o la foglia
non hanno il loro fine GRICE POINT PURPOSE WINCH in se stessi, ma nello intero
organismo; e così pure al colore, alla figura, ecc. non potrebbe attribuirsi
altra finalità, salvo in casi spe<5iali, che di contribuire al bene
dell'universo, o di un altro tutto di cui siano delle parti. Del resto l'Idea
del Bene non è, come tutte le altre, che la realizzazione dell'attributo
omonimo UNIVOCO GRICE, e questo, il significato SIGNIFICATUM scare quotes what
is meant/what is said GRICE -- del termine corrispondente: essa non può essere
dunque che la generalizzazione di tutti i casi in cui questo termine è
applicabile. Prima di finire sulla quistione del significato dell'Idea del
Bene, dobbiamo aggiungere un'osservazione, che non potrà essere compresa
chiaramente che dopo l'esposizione couipleta della dialettica platonica. Definendo
il Bene pel concetto generale di finalità,
noi ci atteniamo strettamente, per quanto ci sembra, al pensiero dello
autore; ma non ne segue che questi avrebbe trovato soddisfacente la nostra
definizione. Come abbiamo accennato, e come spiegheremo nel seguito della
nostra esposizione, non è solamente necesssario, secondo Platone, che tutto ciò
che esiste, sia bene, ma ancora che tutto ciò che è bene^ esista. Vi ha, in
altri termini, seconda lui, una condizione generale, che trovandosi nell'essere
possibile, fa che questo sia, non semplicemente possibile, ma reale: questa
condizione generale della realizzazione del possibile è la conformità all'Idea Arist. Mh. Nie, Eth. Eud., Magn. Mor suprema. È così che
il dialettico scovre la realtà, in lingua moderna, la COSTRUISCE – GRICE CARNAP
constructivism – construction of a thing, construction of an object – logical
construction, rational re-construction costruisce: ciò che è conforme al
Aóyo^ supremo, egli lo ammette come vero, ciò che non gli è
conforme, lo rigetta come falso. Il reale è dunque un caso definito del
possibile, e definire la Idea suprema è appunto definire questo caso –
CONSTRUCTUM -- CICERONE GRICE E CICERONE
I’m a constructivist, enunciare questa circostanza, che si trova sempre
nell'essere reale, e non si trova mai nell'essere semplicemente possibile:
Questa circostanza è espressa completamente, definendo il bene pel semplice
concetto generale di finalità V Sembra che Platone non lo credesse:
evidentemente, secondo lui, una tale definizione non circoscrive abbastanza il
reale, non lo distingue abbastanza dal
semplice possibile. La formula della realtà dovrebbe essere più precisa,
dovrebbe aggiungere alla nostra definizione un altro elemento differenziale.
Qual è quest'elemento? Platone confessa di non conoscerlo. Quest'ARCANO per
usare l'espressione di Schelling nascosto nell’assoluto, che è la sorgente
d'o(jni realtà^ egli non pretende di averlo svelato. È a questa condizione che un'applicazione
rigorosa del metodo dialettico sarebbe possibile: ma Platone non ha preteso,
come Hegel, di costruire la scienza, ma solamente di mostrare ciò che essa deve
essere. Ciò che caratterizza la dialettica platonica è il metodo di divisione
dieresi. Esso consiste a dividere un genere nei generi immediatamente
inferiori, questi in altri generi inferiori
ancora, e così di seguito, sinché si giunga ai generi indivisibili, cioè
alle specie, nel senso stretto di questo termine. Questa divisione si applica,
Fedone Taine L’intelligenza Kep. in cui fa dire a Socrate che non conosce
sufficientemente l'Idea del Bene. non
nlle classi, cioè agli aggregati d'individui ma alle Idee, cioè ai concetti
realizzati, corrispondenti a queste classi. >e p. e., il genere animale si divide in mortale ed immortale, il
significato immediato di questa dieresi è, non che gl'individui che
costituiscono la classe owiwa^e devono distribuirsi nelle due classi inferiori
mortale ed iwimortale, ma che l'Idea, cioè il concetto obbiettivato, di Animale,
contiene le due Idee, cioè i due concetti obbiettivati, inferiori, di Mortale
ed Immortale. Per conseguenza Platone
riguarda un'Idea universale come un tutto, e le Idee più particolari ad
essa subordinate, come delle parti di questo tutto. E siccome questa divisione
in parti, cioè nelle Idee più particolari che essa contiene, non distrugge
l'unità dell'Idea universale, di là la formula platonica che tutto è al tempo
stesso uno e molti^ o, ciò che vale lo stesso, che Vuno è molti e i molti sono
uno. È la grande inconcepibilità del
sistema delle Idee, che nessuna spiegazione potrebbe rendere più intelligibile.
Platone, è vero, considera Vuno e i molti come due stati o due momenti
successivi nello sviluppo della Idea anteriorità e posteriorità: l'Idea, una
nel momento anterioie, diviene multipla nel momento posteriore. Ma questa
successione, (piesf anteriorità e posteriorità, non è cronologica, ma solan)ente logica, e resta sempre la
difficoltà come l'idea possa esistere simultaneamente in due stati coutrarii. FU. Sof. Polit. Fedro eoe. e Alex. Aphrod. in phil.
princ. Suppl. Suppl. Suppl.
La dieresi platonica è, o piuttosto pretende di essere, una classiticazione
naturale: in altri termini, essa si propone di distribuire gli esseri in gruppi
secondo le loro affinità reali. Di più,
percliè dei gruppi inferiori siano
riuniti in un gruppo superiore, 1'affinità deve essere tale, che (piesf ultimo
gruppo possa, rispetto ai primi, considerarsi come un genere, nel significato
rigoroso della parola; o, in termini ]>iù esatti la dieresi applicandosi,
come abbiamo detto, non ai gruppi stessi, ma alle Idee corrispondenti, non a
tutti i gruppi che potrebbero formarsi per la riunione di gruppi^ inferiori, corrispondono delle Idee, ma
solamente a quelli che possono riguardarsi come generi nel senso indicato. Così
Aristotile chiama costantemente {feneri le Idee uuiversali cioè tutte quelle
che comprendono sotto di sé altre Idee più particolari. Inoltre egli obbietta
ai platonici, che, auimessi anche i loro
presupi>osti, Vuno mm potrebbe essere unMdea, perchè è un scMuplice universa
È ciò ohe prova lo stesso riinprovero «-lie Aristotile fa ai platonici,
di spezzare, nelle loro dieresi, le ««lassi naturali collocando, p. e.; una
parte degli uccelli fra o;li auimali
aquatici ^ e un'altra in un genere diverso v. De partib animai.
Quest'obbiezione sarebbe senza valore, se alle esigenze della dieresi platonica
bastasse anche una classificazione artificiale. È questa condizione di una buona divisione, di non violentare i
rapporti reali tra gli esseri, che Platone ha di mira quando raccomanda al
dividente di dividere per membra secondo la natura delle cose, e cercare di non
spezzare alcuna parte, come farebbe un cattivo scalco Fedro Mei, Categ, ecc. 15
sale, e non un genere; il die implica, ciò che del resto è affenuato
esplicitamente nel commentario d'Alessandro
d'Afrodisia che i platonici non facevano Idee di tutti gli universali,
ma solamente dei generi e delle specie. Il significato della parola ffenere, in
Aristotile, è identico press'a poco a quello che essa ha presso i logici
moderni. La sua definizione, quantunque puramente grammaticale, coincide, al
fondo, con quella di Mill: un nome attributivo, che si applica a più oggetti
differenti di specie, significa un
genere, quan Mei. Alex. Aphiod. in phil. prim. Ciò risultii Anche dal Politico,
in cui 1'o«pitc oleate, che motto in pratica il metodo platonico, esorta il «uo
intorlocntore a non dividero seniplicemente per parti. ma per treneri.
Com\ non hisogna. ojfli dice, dividere
^li animali in uomini 0 bruti, perchè bruto non è un genere, questo nome non
indicando una affluita reale tra gli
esseri a cui si applica. Siccome la dieresi è ovidontemente per Platone un
metodo generale, che abbraccia tutti i casi in cui delle Idee più particolari
sono contenute nell'ostensione d'un'Idea più universale Sof, questo luogo del
Politico prova, come quelli citati d'Aristotile e d'Alessandro d*Afrodisia, non
solo che la dieresi è una olassificaizione per generi, ma ancora che tutte le
Idee universali cioè contonouti altre
Idee nella loro estensione sono, o piuttosto pretendono essere, delie Ideo di
«reneri. Log. Meno questa differenza senza dubbio importante, ma non per la
quistione presente che, secondo Mill, un genere si distingue per una
moltitudine indefinita di caratteri che non derivano gli uni dagli altri,
mentre, secondo Aristotile, tutti gli attributi di un genere derivano da un
piccolo numero di attributi primordiali, cioè quelli che ne costituiscono
Vesseìiza, o, in altri termini, ohe servono a definirlo. App. do risponde alla
domanda: che è* Così bianco non sarà un genere del cigno o della neve, perchè
non dice ciò che queste cose sono, ma semplicemente una loro qualità. Da ciò
che abbiamo detto non bisogna però concludere che Platone non ammetta Idee che delle specie e dei generi
delle Sf)sr.anze, cioè degli ogi^etti individuali concreti. LUndividuale può
anche essere per Platone una semplice astrcazioue, p. e: la bianchezza di
questa neve, di questa carta, ecc. Così l'Idea del Bianco esisterà, a titolo
d^Idea specifica, altrettanto che quella dell'Uomo, e l'Idea del Colore, a
titolo d'Idea generica, altrettanto che quella
dell'Animale. Negli scritti platonici le Idee delle qualità, delle
quantitsi, delle relazioni, ecc. sono anche d'un uso pili frequente che quelle
delle sostanze: la proposizione di Aristotile, che, secondo i principii di
Platone, non possono esservi Idee che delle sole sostanze, non è una
indicazione storica, ma una semplice deduzione.
Top. Top. S Mei. Di che vi ha
Idea secondo Platone ì di tutti i
concetti indistintamente ì o vi hanno concetti a cui non corrisponde
alcun'Idea? Da una parte l'analogia e la dottrina che il concetto si riferisce
all'Idea spingevano Platone ad ammetterne una per ogni termine generale. Ma da
un'altra parte, per la natura stessa e lo scopo deir ijiotesi, le Idee non
potevano rappresentare altro per lui che i diversi tipi di cose e di fenomeni che
osserviamo nella natura. Conformemente a questo punto di vista, a quanto ne
dice Proclo in Parm., egli definiva V Idea esprimendo il rapporto fra le Idee e
le cose in una forma popolare: la causa
esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura. Così, secondo Aristotile.
non si ammettevano Idee degli oggetti artificiali Mei., dei negativi {àtei.
Alla dieresi corrispoude un processo inverso, che Platone, e dei relativi Mei.; e, geoondo
Alessandro d'Afrodisia in phil, pr,, neppure dei mali. Ma 8u questo puuto
Platone non precisò il suo pensiero che nell'ultimo periodo della sua
speculazione: e infatti noi vediamo che nei suoi scritti, quando ciò gli fa
comodo per la discussione, non esita a supporre delle Idee, di cui poi negherà
l'esistenza. Così, secondo il Repubblica, vi ha un'Idea del cattivo, del brutto e dell'ingiust», non
meno che del buono, del bello e del giusto, cioè dei mali altrettanto che dei
beni – Cf. Grice, ILL-WILL; secondo il
1. del letto, della mensa e degli altri utensili; secondo il Cratilo,
della spola e degli altri strumenti; e secondo il Sofista, del non bello, del
non grande e di tutti i negativi. L*esistenza delle Idee dei mali sarebbe in
contraddizione col rapporto di specie a
genere che Platone stabilisce fra le altre Idee e quella del Bene. Tutto ciò
che esiste, per lui, è necessariamente bene, quantunque questo non è mai un
bene assoluto. Il bene assoluto è come una norma, a cui ogni essere tende ad
avvicinarsi senza raggiungerla mài pienamente: la legge delle cose è questa
tendenza, ma che esse se ne allontanino in questo o in quel senso determinato
p. e.: una malattia o una deformità nell'essere vivente è un avvenimento
puramente fortuito, e Platone per conseguenza non ammette' che esso si produca
conformemente ad un tipo. Tuttavia è anche una legge delle cose che ir bene non
sia mai assoluto; e perciò Platone, nell'ultima forma della sua filosofìa cioè
all'epoca stessa in cui esclude le Idee dei mali, ammette, come obbiettivamente esistente, un concetto
generale del male, che riconduce alla materia delle Idee Suppl. I due elementi
Per una ragione analoga, nel tempo stesso che respinge le Idee dei negativi e
dei relativi, Topposizione e la relazione essendo anch'esse delle leggi
necessarie degli esseri, ammette anche un'Idea del Non Essere, che riconduce
pure all'elemento materiale, e delle
Idee di alcune delle relazioni fondamentali delie cose, quali
l'Eguaglianza e la Disuguaglianza e lo chiama ì^xOeai^ astrazione e
(Tvat^ycoyrj riduzione alV unità. U astrazione o riduzione aW unità svolge
dalle cose individuali le Idee delle specie, da queste quelle dei generi
prossimi, e così di seguito, riunendo progressivamente gli esseri in gruppi più
estesi secondo i gradi decrescenti della
loro affinità, e rappresentando ciascun gruppo per un'Idea di più in più
generale. Le Idee formano dunque una gerarchia, una scala di generalità
crescente, che la dieresi e la avi^ayiùyrj percorrono in senso contrario, V una
andando dalla sommità alla base, dall'uno al multiplo, dal generale al particolare,
e 1'altra dalla base alla sommità, dal multiplo all'uno e dal particolare
al generale. Qresto processo di
astrazione progressiva, di cui poi la dieresi devo percorrere tutti i gradi in
una direzione opposta, o continuerà sinché si sarà formato di tutte le Stesso e
il Diverso, che riconduce ai duo elemepti contrari Suppl. I due elementi.
L'esclusione di eerte Idee è anche una conseguenza del metodo di divisione:
questo suppone, come abbiamo detto, che ogn'Idea superiore sia un genere; cosi nn attributo
oamuue a molte specie non può dar luogo a un'Idea, se esso non serve di
fondamento a una distinzione geì.erica. In questo caso sono compresi
evidentemente i negativi p. e. non uomo. non bianco, non quadrato ecc.. Inoltre
non potrebbero ammettersi, secondo questo metodo, Idee delle differenze
ragionevolCt RATIO GRICE bipede, ecc.,
benché Aristotile supponga talvolta che
l'elemento differenziale d'un'Idea sia anch'esso un'Idea altret tanto che
l'elemento generico Met., ecc.: ciò egli fa certamente perchè 1'esifitenza
separata di uno dei due elementi cioè del genere gli sembra avere per
conseguenza necessaria l'esistenza separata anche dell'altro. Fedro e FiL Idee
un sistema unico, riducendole ad uua sola, o si fermerà a una pluralitàdUdee
indipendenti che non potranno ricondursi a un'Idea più generale. Ciò che
abbiamo detta nel paragrafo precedente prova che di queste due ipotesi è la
prima che dobbiamo ammettere. L'Idea del Bene a dell'Essere è, come abbiamo
visto, il genere sommo, in cui tutti gli altri generi sono contenuti: alla
sommiità della gerarchia sta dunque un'Idea unica; ogni pluralità si riconduce a un'unità superiore. Così al
sistema delle Idee si applicano esattamente (lueste parole di Bacone. € Tutta
la natura delle cose è come acuta, e simile a uua piramide, perchè il numero
degl'individui che formano la larga base della natura è infinito. Questi
individui si riuniscono in ispecie, che sono pure in gran numero; poi le specie
si elevano in generi, i quali a misura che
le idee si generalizzano, vanno rinserrandosi di più in più, in sorta
che al fine la natura sembra riunirsi in un sol puuto. Ecco dunque l'ordine in
cui le Idee sono disposte: alla testa l'Idea del Bene, la regina, come la chiama
Platouey del mondo intelligibile: questa contiene sotto di sé un gnippo di Idee
meno generali, ciascuna delle quali contiene un nuovo gruppo, e così di
seguito, discendendo sempre una scala di
generalità decrescente, dai gradini di più in più larghi, che va dal genere
sommo alle specie infime per una moltitudine di generi intermediarii. Il mondo
ideale si forma per la divisione e suddivisione De dignilate et augmentis scientiaruni Mep. L'Idea del Bene è chiamata
anche r Idea ultima GRICE PHILOSOPHIA PRIMA PHILOSOPHIA ULTIMA Hep., perchè è
il termine ultimo della avyaytùyfi^ ruscensione graduale da Idea ad Idea, di cui
nella Mepubbliea, non essrndo altra cosa, come vedremo, che la avyaycoyi],: I
l»^»^™. mi I "Il"
i.™«.ii.«^i .i^i». ma in
il^i mi ^ i
uhm i saaaH^.^^M^_^iM progressiva dell'Idea suprema: è essti che sarebbo il
punto di partenza della dieresi, se Platone applicasse questo metodo, non frammentariamente, com'egli si limita a
fan% ma d'nna maniera completa e
sistematica. Nella dieresi platonicn ogni divisione e suddivisione è composta
di due parti; in una parola, questa dieresi è una dicotomia. Così, nella scala
delle Idee, ogn'Idea di un gradino superiore ha sotto di se due sole Idee del
gradino immediatamente inferiore, in altri termini, chiamando genere
l'Idea superiore, e specie le Idee
inferiori, cioè più particolari, immediatameuie subordinate, ogni genere^ nel sistema platonico, non contiene che due
specie. È la regola a cui Platone si conforma costantemente oegli esempi che dà
del suo metodo, e che prescrive espressamente nel Politico. Dalla sua parte Aristotile,
Xel periodi» pitagoreggiimte, alla sommità del mondo ideale si ammettono, come sappiamo, non uno ma due universali
Hupremi i due elementi. Ciò si concilia con le e8ij;enze del metodo platonico,
che suppone un punto di partenza unico per la dieresi, considerando l'uno dei
due clementi come il genere sommo e la
specie [elò^o^) tli tutte le Idee (, e l'altro come la materia Lo stesso
risultate» ha la fuuzii»ne di essenza ESSENTIA GRICE MULTIPLICITY OF BEING ovaia^ assegnata al
prim<» elemento v. ^14
perchè oi^aia^ per Platone ed Aristotile, equivale ad elòo^). Per pif. ampi
sviluppi su questo punto rinviamo al Suppl. [due elemeuii delle Idee: ivi
spiegheremo pure la dinìc(»ltà che presenta il luogo del Sofista. in cui. oltre iil Non Essere cioè alla materia delle
Idee, è attribuita anche ad altri c<»ncctti obbiettivati lo Stesso e il
Diverso la stessa universalità che all'Idea dell'Essere. Sof.. rolit. (H) tutte
le volte in cui è qui^tione «Iella dieresi
platonica, «uppone sempre che essa è una dicotomìa. Tuttavia Platone permette che
si divida per un numero magp:iore, quando la divisione per due non è
possibile; ma i>er questa
impossibilità non bisogna intendere un'impossibilità obbiettiva, ma
un'incapacità del dividente a cui sfuggono le Idee iutermedinrie. E in effetto
il metodo di divisione, secondo Platone, non è, come vedremo, un semplice
artifizio logico, ma la legge stessa del mondo ideale: il carattere di questo
metodo, per conseguenza, è l'assoluta uniformità. Ciò è tanto vero che
nella dottrina dei numeri ideali, in cui
la diei-esi è rappresentata dalla generazione progressiva dei numeri, a ogni
numero anteriore si fanno generare due numeri posteriari, riconoscendo così la
dicotomia come legge universale dello sviluppo delle Idee. Mei., De pari,
animai, Anal. Posi. Anni. Pr, ecc. Poi.
FU. IH. Così uella divisione per
otto, di cui nel luogo del Potit. citato nella nota precedente, evidentemente il dividente ha
saltato due ^radi (cio^. una prima divisione in due parti, e la suddivisione di
ciascuna di queste in altre due, che suddivise alla loro volta della stesvsa
maniera, foruiano così il numero otto. Suppl. I numeri ideali. Qualche volta
Phitone, nelle sue dieresi, fa uso della sezione doppia, vale a dire» dopo aver
diviso un genere per due secondo una
difì'erenza data, torna a dividerlo ancora per due secomlo una nuova
diftereuza. Così nel Sof. l'arte di l'are è divisa in divina e umana, e poi in
arte di fare le cose stesse e arte di fare le immagini. Altre due sezioni
doppie si hanno nel Politico. Più che col metodo dicotomico, questa maniera di
dividere sembra in coutraddizioue col principio che o» n'Idea universale deve
essere un genere. Ciascun membro d'ogni
dicotomia è caratterizzato da una differenza unica, e le due differenze sono
contrarie. Così 1'animale si dividerà in mortale ed immortale, il mortale in
provvisto di piedi e senza piedi, il provvisto di piedi in bipede e multipede,
il bipede in pennuto o senza penne, e similmente i generi collaterali.
L'importanza e lo scopo di queste particolarità del metodo di Platone saranno spiegati nel 20^: prima bisogna
esporre la sua dottrina sulla definizione, ciò che faremo nel paragrafo
seguente. SV., PoliL. Aristotile De pari, animai. Mei, ecc. oltre i luoghi
della nota precedente, Arist. Mei., Anal. Pr., Anal. Posi. Anal. Posi. Anal.
Pr., Mei. Platone pratica il metodo di divisione nel Sofista e nel Polilico. In
questi due dialoghi hi dieresi è fatta servire alla ricerca della definizione,
del sofista nell'uno e del politico nell'altro. Per conseguenza dei due generi
in cui si divide ciascun genere superiore, non viene suddiviso che quello in
cui è compreso 1*oggf'ttt) a definire. La definizione si forma aggiungendo
progressivamente al primo genere, che è il punto di partenza della dieresi, le
differenze che caratterizzano i generi intermediari e la specie infima, trovati con le divisioni successive.
Nel Sofista, la dieresi che giunge alla scoverta della vera definizione, è
preceduta da altre che non sono ohe semplici tentativi, e queste ancora da
un'altra, che è data come esempio del metodo a seguire, e <Mm cui si cerca
la definizione del pescatore all'amo. Le tre tavole seguenti riassumono tre
dieresi di quest(» dialogo nel quale il metodo è applicato con più rigore, cioè quella per
trovare la definizione del pescatore all'amo, e uno dei tentativi e la
definitiva per trovare la definizione del s(»fi8ta. 0) ^ 03 1 g n^S^ So cQ S '', i*' © «a. .£.5^
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CO 'è^ ^ 08 &4 „ O ^ P ce ^
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^ o P Cd P4 s, A. f O g La dieresi, quantunque abbia un valore per se
stessa come vedremo nel prossimo paragrafo è tuttavia presentata da Platone
come un metodo per la ricerca della definizione. Il rapporto intimo della
definizione con la dieresi si vede già al primo colpo d'occhio dalla sua stessa
composizione. I logici antichi, osserva Mill, sembrano aver creduto che la
definizione ordinaria avea pure per uftìcio di formulare la classificazione
usuale e, secondo loro, naturale, delle cose, cioè la loro distribuzione in
ispecie, e di segnalare il posto superiore, collaterale, o subordinato, che
ciascuna specie occupa rapporto alle altre. Si spiegherebbe così la regola che
ogni definizione deve necessariamente farsi per genus et differentiam, e perchè
una, sola difterenza qualunque er» considerata come sufficiente. Ma la dieresi
per Platone non è solamente un metodo per ottenere la definizione; si può anche
dire che per lui dieresi e definizione sono una sola e stessa cosa, che si
chiama ctieresi considerandola nel processo della sua formazione, e si chiama
definizione, considerandola già formata, cioè nel risultato di questo processo.
La dieresi non è, in sostanza, che una catena di definizioni: in effetto la
definizione platonica si fa per il genere prossimo e la differenza specifica
una sola, e nella dieresi ciascun membro di ogni divisione viene espresso
indicando il genere diviso e l'una delle due differenze opposte secondo cui
esso si divide. Per conseguenza, se vogliamo comprendere il valore e il
significato della dieresi di Platone, noi dobbiamo domandarci quale sia il
valore e il significato della sua definizione. Come abbiamo osservato nelP
appendice Log, precedeute, la definizione quella almeno che si fa per gemis et
differentiam è stata considerata di due maniere diffei^enti: o come una
semplice indicazione i>er far
riconoscere la cosa significata dal nome, distin lenendola da tutt^.le
altre; o come l'espressione completa della natura o essenza di questa cosa^
vale a dire della totalità dei suoi attributi primitivi, cioè che non possono
dedursi da altri attributi. Se è il primo caso che vale per la definizione
platonica, la dieresi non è che una semplice classificazione delle Idee con la
indicazione dei caratteri su cui è
fondata questa classificazione; se vale invece il secondo caso, la dieresi non
è una semplice •classificazione, ma è una vera ricostruzione del mondo ideale.
Neil'appendice noi abbiamo amiiiesso questa seconda ipotesi, deducendola da
considerazioni generali sulla dialettica platonica: qui dobbiamo stabilirla
sulPesame dei testi, il cui risultato possiamo lidurre ai punti seguenti: La
definizione esprime l'essenza della cosa olma, o in altri termini, ciò che
questa cosa è o tan Plat. Fedo,
Fedro, Fìiiifr., Meno Leg. Bep, eco.;
Arist. Met, Anal^Pr,
Anal. Posi, eec. Meno, FU., Sof,
Teet. Char7i, Laeh,
Lys. Fedro Futifr. e. Farm.,
Ipp, Mngg., ecc. zi taii
<» semplicemente ti itrtt
formula con cui Platooe propone 1a ricerca della defi* L'alata d'una cosa è il
suo essere, la sua vera realtà. E infatti questo termine, nella lingua
filosofica dei greci, riunisce al tempo stesso i significati dei due termini
italiani; propriamente: essema, non propriamente: sostanza – hypousia – cf.
soggeto, hypokeimenon, e nella lingua speciale di Platone è un sinonimo d'Idea,
per designare gii esseri veri in cui si risolve la realtà fenomenica. Nel
periodo pitagoreggiante, in cui le cose risultano, non dalle sole Idee, ma anche dalla materia, 1'oùtria ESSENTIA
– beingness -- non e che la forma, come in Aristotile; ma essa è Dizione indica
evidentemente Vensema Fedotie Meno Eutifr, Bep., ecc., come in Aristotile ed AQUINO –
filosofia d’AQUINO --, in cui la seconda di queste due forme sostantificata
rò u
t^ti è Tequivalente di aiata Mei. etr.,
ecc.. Teet. Del resto l'essenza no/m/ia^« Locke Sag. sulVititendim. um,
Mill Log. Bain Log., ecc. è una inrovazione, allo «cojm di
conciliare la dottrina tradizionale, ohe la definizione è la spiegazióne
dell'essenza, col concetto della più jjarte dei logici, eh' essa non è che la
spiegazione del senso del n<mie. Suppl.
Sup)» L'ideutità dell'Idea con V’avata spiega perchè Platone, per
designare le Idee, si serve delle parole
S iau preposte ai nomi corrispondenti p.
e. S tati
xkiyri Bep. t} iau intatfjf^tj Parm. ^Q
iazt preposto a un nome vuol dire al tempo stesso: ciò che il nome
propriamente signiftoa – in scqre quotes Suppl. e: l'essenza della cosa
ricercata dalla detìnizione Fedone. I due sensi coincidono, perchè ciò che il
nome significa è spiegato appunto dalla definizione. Arist. Mei. ancora il solo
essere vero, e la materia è ricondotta al non essere. Definire un concetto è
dire ciò die vi ha di comune in tutti gli oggetti sottoposti a questo concetto.
Così definire il simulacro è dire ciò che vi ha di comune nei diversi
simulacri, e che, come unico in tutti, chiamiamo c<m un nome unico,
simulacro; definire la figura, dire ciò che è lo stesso nel rotondo, nel retto
e in tutti gli altri oggetti che chiamiamo figure; definire la virtù, dire in
che tutte le virtù sono una sola e stessa cosa, cioè far vedere ciò che è lo
stesso in tutte e quattro la fortezza, la temperanza INTEMPERANZA GRICE, la
giustizia GRICE REPUBLIC, la prudenza, e che, essendo uno in tutte, chiamiamo
giustamente con un sol nome, virtù. In altri termini, definire è generalizzare,
trovare in una moltitudine di oggetti particolari la specie unica che li
comprende, -- GRICE ON “=DF” -- abbracciando questa moltitudine in una formula
generale. Conoscere una cosa nel generale, p. e. la virtù, la santità,
ecc. è conoscerne la definizione GRICE =df;
ignorare la definizione GRICE =df è ignorare la cosa stessa.
LHntelligenza o la scienza d'una cosa, o GRICE =df STRICTLY =Def. BURALI-FORTI,
Logica Matematica FORTI (vedasi) -- piuttosto della sua Idea, è V’intelligenza
o la scienza di ciò che questa cosa è
Suppl. / due elementi, Sof. ,
3feno,, Leg,, eoo. Sof.
Meno Leg. Teet. Polii,
Euti/r,, Leg, Meno Teet,
Laeh, (o iati); insegnare questa cosa, o piuttosto la
sua Idea GRICE E FORTI =Def. ,
è spiegare ciò che essa è, darne la
definizione GRICE E FORTI U ‘signifies that p’ =Def. U intends that p. La dottrina che la
conoscenza dell'Idea consiste nella definizione GRICE E FORTI U ‘signifies’
that p =Def. U intends that p. della cosa corrispondente, risulta
anche dal princìpio dell'autore che le Idee non si conoscono che per la
dialettica, la conoscenza che la dialettica dà dì un'Idea considerata per se
stessa, cioè indipendentemente dai suoi
rapporti logici con le altre Idee non potendo essere altro come vedremo nel
paragr. seguente che la definizione GRICE E BURALI FORTI U ‘signifies’ that p’
=Def U intends that p della cosa. GRICE E BURALI: Grice: “FORTI does not
use “Def.’ But ‘Def’ without the dot. As in U ‘signifies that p =Def U intends that p. La
definizione è l'espressione adequata
dell'Idea; essa la rappresenta più fedelmente che un ritratto l'originale. Cosi
nella lingua di Platone questi due termini, la definizione e l'Idea definita,
prendono spesso il posto l'uno dell'altro. Nel Politico sì dice che l'ospita
eleate fa il politico volendo dire che lo definisce, come diciamo di un pittore
o di uno scultore che fa l'oggetto stesso. Cercare e trovare la definizione
è cercare e trovare r Idea stessa che si
tratta di definire; il defi Fedo,
FU, Sof., Bep. Euti/r. FU., Rep., ecc.
pure Polii,; Le cose incorporee, che souo le più belle e
le più grandi, gi mostrano chiaramente col solo Xóyog e non altrimenti. Polii.
Sof, Polii. Meno, Teet, Lach. Fedro, eco,
Arist. De parlib
animai ueute nioHtra, niaiiiiVHta
cjuest'Idea; la conoscenza che la definizione GRICE E FORTI =Def ne dà è
così completa, che Platone la cliiania una vista, benché egli non ammetta un
intuizione propriamente detta delle Idee che in una vita anteriore. L'Idea è
composta degli elementi stessi di cui 8i compone la definizione, cioè del
genere e della differenza. Essa non è, al fondo, che la definizione
obbiettivata, e perciò Platone la chiama 'Àóyog, cioè col ili ]»riiic. e
e. Ili (ed. Ditlot. Hììvhv Suppl., per la dottrina di Platone clic lii
detiiiiziono hì riforÌHce all'Idea. Polii, -ififi e. Sof,
Kulifr. Meno Rep. ecc. Kuiifr. « e,
So'', Tièu. . 6Vmr.
jì. Kep. Leg., eoe. In alcuni di
questi luotrhi non è espressamente al definente o. ciò ohe vale lo stesso. al
dividente che Platone attribuisce questa conoscenza delle Idee ch'egli chiama
metaforicamente vedere; \m\j come
abbiamo detto, è un principio platonico ohe le Idee non si ctmosoono che per la
dialettica, e la conoscenza che questa dà di un'Idea, considerata isolatamente,
non è altra cosa che la definizione. P^)
AriKt. J/ij<. Vili. Anal. Post., ecc. AriHl,
Met.: Socrate non poneva «epira^t (/ft)(>«frrtf) gli universali e le
definizioni; questi Platone e hi sua scuola li separarono tyÒQiaatA^
tali esseri chiamarono Idee. Sul significato di ^(OQKfZóg^ ;^ft)^iCft),
eco. il Suppl. Fed. nome che dà alla definizione, come Aristotile la sua
forma, che, come si sa, corrisponde all'Idea platonica. Ma se la definizione
phatonica deve esaurire la natuiu della cosa definita, ne se^ue che essa deve
comprendere indistintamente ciascuno dei suoi attributi? È ciò che sembra incompatibile con la reticola che Platone
segue costantemente nelle sue dieresi, di definire ciascun genere per una sola
differenza, essendo evidente che un genere non differisce da un altro per un
unico attributo. Per Platone, come per
Aristotile e tutti i filosofi che hanno ammesso h* definizioni essenziali, la
definizione non comprende esplicitamente che un certo numero degli
attributi dell'oggetto definito, quelli
che poi sono stati chiamati attributi essenziali; tutti gli altri, i propri,
non li couiprende che implicitamente^ cioè in quanto derivano, o possono
dedursi, dagli essenziali. È ciò che Platone indica chiaramente quando afferma
che la conoscenza delle proprietji suppone quella dell'essenza. È impossibile,
egli dice, di conoscere se un oggetto abbia una data proprietà, se ncni si conosce ciò che esso è
ò' Uti; ricercando le proprietà d'un oggetto, si deve prendere per principio la
sua definizione; è ad essa che bisogna guardare, e riferire ogni cosa, in tutto
il se So/. e Polii., FU., Fedro, Leg. Teet., ecc. Mei. PA,y», De gen. ecc. Meno Rep. Meno Protag., Rep.,
Fedro guito della ricerca. Ciò importa evidentemeute che la defìnizione
contiene delle premesse per portare
delle inferenze sugli attributi non compresi nella definizione stessa; il che,
la conoscenza essendo per Platone A PRIORI, significa che, data la definizione,
si possono dedurre da essa A PRIORI, cioè indipendentemente dalPosservazione,
tutte le proprietà dell'oggetto definito. Ciò è confermato dal Fedone, in cui
Platone riassume il suo metodo in questa regola
unica: prendere per princio il Xóyog che sembra il meglio stabilito, e
ammettere come vero ciò che gli è conforme, ciò che non lo è rigettarlo come
falso. Questa regola di metodo valendo per ogni ricerca, essa prescrive di
dedurre, non solo ogn'Idea inferiore dall'Idea superiore, ma ancora tutti gli
attribuiti di una cosa dalla sua definizione. Qui kóyoq oltre che RAGIONE GRICE
RATIO ESSENDI RATIO COGNOSCENDI, cioè principio da cui le cose si devono
dedurre significa al tempo stesso concetto e definizione: questi due
significati – CONCEPTUAL ANALYSIS OF WHAT? – PHILOSOPHICAL ANALYSIS OF WHAT?
GRICE -- al fondo si equivalgono, perchè la definizione, secondo tutti i
concettualisti, non è che l'analisi, o lo sviluppo, del concetto. Questa
dottrina dì Platone sulla defìnizione sembra un accompagnamento naturale del
realismo dialettico. Anche nei sistemi, in cui la dialettica non è
rappresentata, come in quello di Platone, come una ricerca della definizione,
essa deriva dal carattere generale di questa filosofia, eh 'è di aspirare a
riprodurre, come insieme di concetti, l'universalità stessa dell'essere e del
conoscibile. Quando Hegel riduce la scienza a una serie di concetti, coi loro
rapporti di successione logica, siccome questa è per lui la scienza universale,
egli ammette implicitamente che tutte le proprietà e relazioni delle cose
devono dedursi dai loro concetti cf GRICE RAMSEY DEFINITION – RAMSIFIED
DEFINITION – The alternative to naming I shall callthe way of Ramsified
DEFINITION, which can dispense with the
uniqueness claim. It
will run: ‘(a) x judges juts in case there is a J and there is a V such that L,
and x instantiates J; (b) x wills just in ase there is a J and there is a V
such taht L, and x instantiates V.’ La
dottrina è formulata della maniera Fedro più espicita in Spinoza ed in
Taine. Le proprietà delle co^e, dice Spinoza, non
s'intendono, sinché s'ignorano le loro
essenze; se si tralasciano queste, si sovverte necessariamente la
concatenazione del pensiero, che deve rappresentare quella della natura stessa.
Talis requiritur conceptus rei sive definitio. ut omnes proprietates rei, dum
sola^ non nufcni cum aliis conjuncta spectatur, ex ea concludi poS"' »int.
Questo per le definizioni delle cose create; ma lo stesso requisito è poi
assegnato alla definizione della cosa
increata. Anche per questa si richiede ut ab ejus definitione omnes ejus
proprietates concludantur. La stessa dottrina nel Taine, benché espressa sotto
una forma più ontologica che logica. La definizione è la proposizione che marca
in un oggetto la qualità da cui derivano le altre e che non deriva da un'altra
qualità. Non è una proposizione verbale, perchè v'insegna la qualità d'una cosa. Non è l'affermazione d'una
qualità ordinarìa, perchè vi rivela la qualità ch'è la sorgente del resto. È
un'asserzione d'una specie straordinaria, la più feconda e la più preziosa di
tutte, che riassume tutta una scienza, e in cui ogni scienza aspira a
riassumersi. Così nella definizione della sfera s’annunzia che tutte le
proprietà d'ogni sfera derivano da questa formula generatrice. s'esprime l'essenza della sfera,
cioè la causa interiore e primordiale di tutte le sue proprietà. Ecco la natura
di ogni vera definizione. Causa, secondo Taine, è, lo sappiamo, un fatto più
generale, da cui può dedursi un altro fatto o un gruppo di altri fatti. La
dialettica di Platone non è che la dieresi. Così nel Sofista dice: Dividere per
generi e né la stessa specie prendere per
diversa né la diversa per la stessa, non diciamo essere questo l'ufficio
della scienza De intellectns emendalione, Storia della letteratura iìiglese dialettica f Così chi è capace di fare ciò, vede
acutamente un'Idea unica diffusa in molti, esistenti ciascuno separatamente, e
molte Idee differenti contenute sotto una Idea unica, e ancora un'Idea unica in
molti tutti ridotta all'unità, e molte Idee
affatto distinte: questo è saper discernere, per mezzo della divisione
per generi, quali comunicano fra di loro e quali no. Ma (piesta scienza
dialettica tu non l'attribuirai, io penso, che a chi puramente e giustamente
filosofa. Nel Fedro dopo aver raccomandato di ricondurre a un'Idea unica,
guardandolo con una veduta comprensiva, ciò che è sparso <iua e là, e poi
dividere e suddividere I>er ispecie com(* per altrettante articolazioni
naturali, soggiunge: Per me, o Fedro, io sono amante di queste divisioni e
riunioni ((rvyaycoywt')^ per essere più in grado di ben pensare e di ben parlare,
e se vedo qualcuno che sia capace di comprendere 1'uno e il multiplo qual è in
natura, io cammino sulle sue tracce come su quelle d'un dio. Quelli che hanno
questa capacità, dio sa se a torto o a
ragione, ioli chiamo sino ad ora Preseuti pure in questi ni'4li lutti, cioè una
in ciascuno Un tutto è il couìplfsso di cose o d'Idee inferiori contenute sotto
un'Idea. Oss(^rvian^o, per dare ragione di quest'interpretazione, che queste
tnolte Idee affatto disliìite non i)Otrebbero contrai>i)or8Ì alle molte Idee
differenti contenute sotto un"* Idea unica, intendendo l>er esse delle
Idee che non possono ricondursi a
un'Idea più generale: perchè in questo caso affatto distinte dovrebbe
significare: che non partecipano in comune a qualche altra Idea; significato
inammissibile, poiché secondo il Sofista tutte le Idee partecipano a <iuelle
deWessere e del non essere e delh» stesso e del diterso, e queste stesse le une
alle altre. Di più il contesto esige che anche in queste molte Idee affatto distinte si veda un ciiso della
dieresi e della sinagoge, come avviene infatti nella nostra interpretazione.
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11^ / dialettici. Nel Filebo la dieresi è evidentemente pret^entata come
il metodo scientifico per eccellenza: non vi ha né può esservi metodo più bello
di questo, di cui l'autore è stato sempre amante, ma che spesso sfuggendogli, lo ha lasciato inope e desert4> ; è per
esso che è stato messo in luce tutto ciò che è stato scoverto con arte; è un
dono degli dei agli uomini, inviato per un Jtltro Pnmioteo con un altro
splendidissimo fuoco (ibiil.); non si è sapienti in un soggetto qualsiasi, che
quando si è in gra<lo di applicare questrO metiodo. Il metrodo così esaltato
da Platone non può essere senza dubbio che il
dialettico; e del resto è ciò che egli dice esplicitamente, (piando dà
per carattere proprio della discussione dialettica, che la distingue dalla
eristica, il passare da ini' Idea generale albi moltitudine infinita
dell'individui, ncm iuìmediatamente, ma per l'intermediario delle. Idee più
particolari in cui essa si divide e suddivide. La stessa identificazione della
dieresi con la dialettica nel Politico,
in cui l'aut.ore ci avverte che, come un fanciullo che si esercita nelle
lettene yiìàuuaia viene interrogato su quelle di cui consta un nome, non per la
sola quistione su questo nome, niit per divenire più (frammatieo in ogni quistione,
così le dieresi di (luesto di«'ilogo non hanno solamente per iscopo di cercare
il Àóyog del politico, ma di rendere più dialeUiei in ogni soggetti», o, ciò
che vale
lo stesso, più capaci di « dare e ricevere ragione Aóyoz» di ciascuna
cosa. Agii) liep., in cui questa
lo<^uzioue, capace di dare e ricevere ragione, h impiegata evidentemeule
come l'equivalente di dialettiro. giun^iaìuo infine il Sofista, in cui il
metodo di divisione è cliianiato il
metodo delle ragioni (rà)#/ kóy(oy) y^^
le ragioni » (o/ 'Aóyoi nella lingua
platonica significa la stessa cosa che €
la dialettica; e Alfessandro Afrodisio in
phil. pr., il quale, commentando
l'osservazione d'Aristotile die la dottrina delle Idee è nata dallo studio
posto nella dialettica, intendeper dialettica la definizione e il processo di
cui essa è il nìomento finale, cioè la dieresi. Come si vede dal secondo dei
luoghi citati, la dialettica è talvolta ricondotta, non alla semplice dieresi,
ma alla dieresi e alla sinagoge. Ma
questa differenza non ha alcuna importiinza, perchè la dieresi implica la
sinagoge, come un suo momento subordinato. La dieresi infatti non è che una
classa/ione, e questa suppone la formazione delle classi, cioè dei concetti
generali, ciò che Platone chiama (rvyay(oyrj. In certi casi la dialet^ tica
sembra anche ridotta alla sola sinagoge. Così secondo la Repubblica e il dialettico è il sinottico,
cioè chi sa abbracciare molti oggetti in una vista d'insieme, comprendendo le
affinità tra le conoscenze e tra gli esseri; secondo V Epino mide e il primo e
il più bel modo di esaminare le cose è di riconduri-e in tutt^s le discussioni
il particolare al generale; e secondo le Letjfii e non vi ha metodo più
luminoso per lo spirito nmano che di poter guardare a un'Idea unica dai molti PolUk'o
2p. e. Hep. e Aristotile.
AIeL Allelui nel Filelìo il metodo di
cai si parla ora è rappresentato come una semplice dieresi, e ora come una
riduzione del multiplo all'uno sinagc»ge e una risoluzione dell'uno nel
multiplo dieresi) dissimili. Ciò è perchè, trovati tutti i concetti generali, vale a dire tutte
le classi, e super-ordinandoli gl’uni agl’altri secondo il grado della loro
generalità crescente operazioni che sono del dominio dèlia «rrra;/r,);/)y ;il
risultato sarà una classazione sistematica di tutte le Idee, in altri termini,
la loix) dieresi. Per la stessa ragione, siccome Platone identifica la
definizione colla sinagoge perchè la definizione, non essendo che l'esposizione del concetto, si ottiene,
come (piesto, svolgendo ciò che vi ha di comune in una classe di oggetti (2Ì
egli riconduce pure hi dialettica alla definizione. È ciò che fa nel Fiìebo, in
eui la scienza più vera, cioè la dialettica, è ridotta alla conoscenza di ciò
che è la giustizia stessa H. P. GRICE METAPHYSICAL ESCHATOLOGY AND PLATO’S
REPUBLIC e tutte le altre Idee, o in
altri termini, alla possessione del loro JLÓyoz'^ e in quella ste^^sa parte
della Repubblica in cui la dialettica è specialmente considerata come un metodo
di dedurre gradatamente tutte le Idee da un'Idea suprema. Così a: non vi ha che
il metodo dialettico che cerchi di prendere con un ordine determinato ciò che è
ciascuna cosa; e: non chiami dialettico colui che prende la definizione dell'essenza di ciascuna cosa? Ma
per ricondurre la dialettica alla definizione Platone ha ancora una ragione più
decisiva: è che la dieresi è il processo di cui la definizione è il risultato,
e può anche considerarsi essa stessa, come abbiamo osservato, come una catena
di definizioni. Fedro. Teeteto, Lefjf/i
J«63, eoo. MI! La dialettica essendo la dieresi, noi dobbiamo dunque
applicare alla dieresi ciò che abbiamo detto della dialettica considCTat.a
genericamente: quest'applicazicme ci darà i caratteri speciali del metodo platonico,
di cui sino al $ 15 non abbiamo considerato, quasi
esclusivamente, che quelli comuni con gli altri sistemi di realismo dialettico.
Noi abbiamo visto: che la dialettica è una catena continua di deduzioni, in cui
la conseguenza della deduzione
antecedente diviene il principio dtjlla deduzione, susseguente; che questi
principii e conseguenze non sono delle proposizioni, ma delle Idee, in modo che
la deduzione consiste a passare dalla posizione di un'Idea a quella di altre
Idee; e che il principio primo è l'Idea del Bene, cioè l'Idea più universale,
di cui tutte le altre sono delle specie o delle forme particolari. Noi
abbiamo visto pure che questa catena di
principi i e conseguenze è percorsa dalla dialettica in due direzioni
op[K>ste: 1'una ascensiva àyà^ats:, che va dalle conseguenze ai principìi,
])artendo dalle conseguenze ultime per arrivare al principio primo; e l'altra
discensiva, che va dai jirincipii alle conseguenze, part^ìudo dal principio
primo per arrivare alle conseguenze ultime. Ciò che abbiamo detto ci permette
di determinare in che consistono questi due processi opposti della dialettica:
il processo discensivo, che va dall'Idea del Bene alle per questo termine liep,
sue specie particolari, è la dieresi noi sappiamo che questa, applicata
d'una maniera completa, deve abbracciare tutto il mondo ideale, partendp
dall'Idea suprema che sta al vtrtice della piramide; il processo asceitsiiWj che arriva come ultimo termine al
termine primo della dieresi, cioè all'Idea del Bene, è la sinagoge La dieresi
dunque non è solamente una classificazione ma anche una deduzione: in questa
deduzione il genere diviso funge da principio, le specie, cioè i generi
immediatamente inferiori in cui si divide, da ccmseguenze • (juesti generi e
queste specie, come abbiamo detto, non
sono delle collezioni di oggetti particolari, ma le Idee che loro
corrispondono. Che fa infatti il dividente? Pone prima l'Idea di un genere, e poi quelle delle
specie contenute in questo genere Perchè questo processo sia una deduzione,
bisogna dunque che tra la prima di queste due posizioni-^quella dell'Idea
dv\ genere e la seconda quella delle
Idee delle specie contenute in questo genere
vi sia il rapporto di principio e conseguenza. La deduzione del
dividente è COSI un passaggio continuo dalia posizione di un'Idea a quella di
altre Id€?e, come abbiamo visto della deduzione del dialettico, prima d'aver
identificato la dialettica con la dieresi. Questo passaggio continuo dalla
l>osizione d'un'Idea quella di un genere alla posizione di ailtre Idee
quelle delle specie che e^so contiene e
di cui ciascuna diviene alla sua volta il genere di una nuova divisione è un
passaggio da un'affermazione esistenziale ad un'altra affermazione esistenziale:
ogni divisione stabilisce che esistono, nel genere diviso^ t«li specie
determinate, ed esse sole, dopo che si è stabilito, in una divisione
antecedente, l'esistenza, in un Filebo
altro genere superiore, di questo genere e del genere •collaterale, e di essi soli. In
verità il dividente non afferma espressamente l'esistenza del primo genere,
quello «he costituisce il punto di partenza di una dieresi: ma la posizione di
questo genere, cioè dell'Idea corrispondente, deve implicare anch'essa un
^affermazione perchè n(m potrebbe servire da premessa in una deduzione, se non
fosse l'equivalente di una proposizione, e
la posizione di un'Idea non può implicare altra affermazione che •quella
dell'esistenza di quest'Idea. La dieresi, considerata come metodo di dedurre le
Idee, è dunque un seguito continuo di affermazioni esistenziali, in cui
l'antecedente è il principio della susseguente e la susseguente la conseguenza
dell'antecedente. Il principio afferma l'esistenza di un'Idea generica: la
conseguenza, che esistono, contenute in
quest'Idea generica, tali Idee specifiche determinate, ed esse sole. Ogni
affermazione parziale compresa in questa conseguenza, cioè quella
dell'esistenza di ciascuna Idea specifica che diviene un'Idea generica in una
divisione ulteriore è «alla sua volta il principio di una nuova conseguenza,
che non è che un'altra affermazione esistenziale simile all'affermazione totale della conseguenza pt^cedente.
Applicando il metodo di una maniera completa e sistematica, si avrà il sistema
delle Idee riprodotto in un sistema di affermazioni esistenziali, che dall'Idea
supi^ema del Bene o dell'Essere andm sino a quelle delle specie infime, discendendo tutti i gradi della generalità
per una deduzione progressiva, che svolgerà continuamente dal generale il complesso dei particolari in esso contenuti.
La proposizione che la dieresi è un metodo deduttivo, che consiste a dedurre
dal genere le specie che esso contiene, significa che noi possiamo, secondo
Platone, per la sola forza della logica e indipendentemente dall'osservazione
reale, scoprire nell'Idea generica le Idee specifiche ad essa subordinate; ciò
che implica che noi possiamo, secondo
questo filosofo, conoscere a priori che un dato genere si divide in tali
specie determinate. In questa deduzione in cui Platone fa consistere la
dieresi^ il principio, abbiamo detto, afferma che un certo genere esiste, la
conseguenza che, in questo genere, esistono tali specie determinate, ed esse
sole. Questa conseguenza contiene così due affermazioni: l'una che tali specie
determinate esistono; l'altra che non esiste alcun'altra specie, e che esse
sole esauriscono tutta l'estensione del genere. L'una e l'altra di queste
affermazioni sono secondo Platone delle verità deduttive, cioè che noi
scopriamo nell'Idea generica per la sola forza della logica e indipendentemente
dall'osservazione reale. Due sono dunque le verità a priori, incluse secondo
Platone, in ciascuna divisione: la prima che il genere contiene queste specie,
e la seconda che non contiene che queste sole. Una verità A PRIORI essendo
anche una verità necessaria, cioè il cui contrario è inconcepibile, queste due
verità non sono solamente A PRIORI, ma anche necessarie, cioè il loro contrario
è inconcepibile. Platone suppone dunque in ciascuna divisione; 1» che,
esistendo il genere-cioè data la
realizzazione, nella natura, del concetto generico corrispondente
esistono necessariamente le specie reali determinate che esso contiene; e che
queste specie esauriscono, pure necessariamente, l'estensione del genere, in
modo che l'esistenca di qualche altra specie sarebbe inconcepibile. Un esempio
potrà chiarire questa differenza tra la dieresi platonica e una semplice
classificazione. Quando il naturalista divide i vertebrati in mammiferi,
uccelli, rettili e pesci, egli non enunzia che una verità di fatto: egli
afferma semplicemente che queste classi esistono, e che esistono esse sole.
Così la divisione del naturalista non che è una semplice classificazione: per
essere una dieresi alla platonica, egli dovrebbe mostrare, non solamente die i
inani in ìferì, gli uccelli, ecc. esistono,
ina die non possono non esistere dato che esistano dei vertebrati; né
8olament.e che queste sole classi <?sÌ8tono, ina che esse sole possono
esistere, e l'esistenza -di qnalche altra chisse è inconcepibile. Vi hanno dei
casi in cui questa seconda supposizione della divisione platonica si veriftea
effettivamente; p. e. quando si divide la linea in ietta e curva, o, per
tornare alle clnssitìcazioni del
nasumlista, quando si divide Tanimale in vertebrato e invertebrato: noi vediamo
che, nel jnrenere dato, (pieste sole specie possono esistere, e non solamente
che esse sole esistono; la divisione esaurisce necessariamente tutta
l'estensione del genere, perchè 1'esistenza di qualche altra specie
sareb>>e inconcepibile. Ma f»erchè
una tale divisione tosse una dieresi alla platonica, bisognerebbe che si
verificasse anche la prima supposizione; ciò che non è, perchè dato il concetto
della linea o dell'animale, e dato che (piesto concetto si sia realizzato nella
natura, non è necessario nel senno indicato di questo termine ch'esso si sia
realizzato in tutte le specificazioni di cui è logicamente suscettibile; in
altre parole, non è necessario che, se esisti^ la linea o l'animale, esiste
tanto la retta quanto la curva, tiinto il vertebrato <iuanto
l'invert^^brato, la realtii del concetto non importando la realtà di tutte le
sue specie possibili, cioè concepibili, ma solamente di (jualcuna di (|ueste
s|»ecie Noi abbiamo visto che la ]M>sizione dell'Idea generica implica, per
Platone, l'afterniazione dell'esistenza di quest'Idea, e che è
quest'affermazione che funge da principio cioè da premessa nella deduzione in
cui consiste la dieresi. La posizione dell'Idea della linea o dell'animale
equivale dunque per Platone all'affermazione della realtà ^i questi concetti
l'Idea platonica non è, lo sappiamo, ^he il concetto obbiettivato; in altri
termini essa equivale all'afiermazione
dell'esistenza della linea
o dell'ani 255
male. Ma perchè
dalla posizione del
concetto di linea o
di animale, e dall
'affermazione esistenziale che,
secondo Platone, implica questa
posizione, possa dednrsi l'esistenza della
retta e della
curva, del vertebrato
e dell'invertebrato, bisogna
che Platone, ponendo
un concetto, intenda affermarlo
in tntta la
sua estensione logica
intendendo per estensione
logica quella che
abbraccia, non tutte le
specificazioni di questo
concetto che si
sono realizzate nel mondo
obbiettivo (questa potrebbe
chiamarsi l'estensione reale), ma
tutte le sue
specificazioni possibili,
cioè concepibili -.
Per esprimere lo
stesso pensiero con una
locuzione platonica, bisogna
che Platone, ponendo l'Idea
della linea o dell'animale, intenda affermare, non
semplicemente che la linea e l'animaie esiste, ma che esiste tutta la linea e
tatto Vanimalc espres'sioni di cui Platone si serve per indicare che il genere
denotato dal nome va preso nella sua totalità; ciò che noi esprimeremmo
dicendo:OGNI linea, OGNI animale, salvo che la locuzione dell’accademia
implica, oltre alla realizzazione evidente dei
concetti di linea e di animale, che questi concetti si prendono nella
loro estensione logica, mentre nella nostra locuzione sono presi nella loro
estensione reale. Così la dieresi platonica, considerata come metodo di dedurre
le Idee, s)ippone, in ultima analisi, queste due condizioni: che le specie in
cui un genere si divide siano tutte le specie possibili di questo genere; in
altri termini, che la divisione di un
concetto generico esaurisca tntta la estensione logica di questo concetto; e
che ponendo il concetto generico, esso si aflPermi come reale, pure in tutta la
sua estensione logica. Queste condizioni realizzate, la dialettica di Plat Olle sarebbe una vera deduzione, nel senso
pro Sappi. prìo e logico del termine, e non una semplice sofistica, come quella
di Hegel: noi vedremo in seguito sino a
qua! punto si realizzino. Questo significato della dieresi platonica, che noi
abbiamo dedotto dalla identità di questo metodo col metodo dialettico, quale è
descritto sovratutto nella Repubblica, è
anche confermato, oltre a ciò che diremo nel prossimo paragrafo, dalle seguenti
osservazioni.^ lu apriorità della
dieresi è espressa chiaramente nel Timeo: Quali e quante specie la mente vede inesistere in ciò che è
animale vale a dire nell'Idea dell'animale, tali e tante stabilì il Demiurgo
che questo mondo dovesse riceverne. Ciò significa evidentemente che si
può, per la semplice inspezione dei
concetti, e indipendentemente dall'osservazione del mondo reale, conoscere le
specie in cui un genere si divide. Questa apriorità non è del resto che
un'applicazione delle dottrine generali
di Platone sulla scienza e il metodo scientifico. Ch'egli abbia fatto
effettivamente quest'applicazione si vede anche nel Politico, dove dice che noi
conosciamo naturalmente tutto, ma come in un sogno, e acquistare una conoscenza
nuova è passare dal sogno alla veglia; jjerchè egli non enuncia qni que Suppl.
Più giù dice cbe ne non fossero stati creati gli animaU mortali, il mondo non sarebbe perfetto,
perchè non conterrebbe tutti i generi degli animali: Tutti i generi »qui non
può significare tutti quelli cbe esistono di faitOy cioè ch« l'osservazione ci
mostra nel mondo reale, ma tutti quelli che la mente vede inesistere in ciò che
è animale, cioè che noi conosciamo A PRIORI che devono esistere, ste proposizioni generali t5he per applirarle al caso particolare di cui è quistione, cioè W
nuove dieresi necessarie per comiJetare la dehnizione del politico. Aristotile
ci attesta che, secondo l’accademia, la dieresi è uua diuiostrazione. Nelle
AnaL Fast. egli attribuisce ai fautori di questo metodo la pretesii di
stabilire con esso (liiuostralirameiìfe che tutt^o ciò che è nel genere diviso
si trova o nelPuno o neir altro dei due opposti
secondo cui il genere si divide, in altri termini che (|uestr» comprende
realnxMitc^ le specie detìnite per (juesti due opposti, e n(»n comprende che
queste sole speci(». Xelle AnaL f'r, Xoii fa un silh»»;isiiio vhì crostniiscc
la dfHiiizinnc col nietodo divisivo. Conu* infatti ìwUv fonchisioni senzji
medio, st^ alcuno dico che, s;» è «nu*sto, è necess:niauieiitc quest'altro,
avviene che altri ne domandi il pcrclir;
. così ndlc dctìniziimi costruite col metodo divisivo. Che è liionio? l'u
animale mortale, pedestre, bipede, implume. M.i perche t si domanda per
ciascuna di «lueste attribuzioni. Il dividente #//m e di mosti fra roti i a
dieresi y come erede, eke tulio v o morfitle o immortale tutto vu<d dire
evidenteuuuite: tutti» ciò che «> nel j^euere di cui mortale e immortnle
sono le differenze. cio«> nel ;;enere
animale). Ma tutto questo discorso non e una definizione. Per cui.
iiuand'anclie si dimostri con la dieresi. In definizione almeno non si fa con
sillogismo. Arist. Aitai. P.^si. Per conjprendere hene questo luogo, bisogna
confnmtarh> con Anni., in cui Aristotile fa vedere che. per ciascuna delle
elivisioni successive, è senza prova che la cosa definita si pone nell'uno dei due membri di questa divisione
anziché nell'altro; p. e., in una dieresi per ottenere hi definizione
dell'uomo. dopo aver diviso raninmle in mortale e iunnortale, è senza prova che
si dice che l'uomo è mortale; perchè da ciò che ogni animale è o mortale o
iunnortale, ne segue che l'uomo deve essere o l'uno o l'altro, ma n«m che sia
l'uno anziché l'altro. i *i> .>S ,
cont:iit;iiHl<) lo opinioni
platonidic sul valore dimostrativo «Ulla
dieresi j, mostra elie essa non potrebbe servire alla dimostrazione di
oji^ni quistione, e che non è che una piccola ])or/ione del metodo
dimostrativo: proposizioni in eui non possiamo vedere naturalmente che le
jintitesi delle tesi di Platone, di cui sappiamo *x'\ìi h* Idee sulla
universalità del metodo dialettico (:^).
Nella sua critica della dottrina che la
dieresi è' lina dimostnizione, Aristotile prende di mira, quasi esclusivamente,
un'applira/Jone di questa dottrina, cioè che è una dinKKsMazione della <h*tìnizione. È perchè egliiion considera
la diensi rlie come un mezzo per trovare la detinizione: è così int'attti che
IMatone la presenta nei i\\w dialoghi in
<ui pratica (piesto metodo, cioè il Solista e il Politico <-iò in eui dobbiamo vedere un altro esem|Mo dello
sforzo costante di (piesto filosofo di riattaccare, più che può, le sue
speculazioni alle ricerche di Socrnte e dei socnitici (H)-. NelPAppendice
il coiiimcuijuio d'Alcssaudn)
«l'Afrodisia. «piosto pjinij»r.
pa^. 2t7 sul luogo dol Fileho, e il palagi'. Amtt. I*r. l. v^AunL Poni. nota. La dieresi dimostra . necoiido
Platom*, la definizione, in quanto dimostra resistenza dell'Idea definita. Dimostrata
per la dieresi l'esistenza d'un* Idea, Platone ammette ehe sia dimostrata al
tempo stesso la sua definizione, pcrebò egli jiresuppone che i caratteri che si
vanno progressivamente aceumulaudo nelle divisioni successive per arrivare alla
posizione di tpiest' Idea, devono costituire la totalità dei suoi caratteri
esHemiali, cioè primitivi e da cui tutti gli altri possono dedursi. Per la
dottrina che la definizione si riferisce all'Itlea, v. il Sappi. noi abbiamo
visto quale sia il sioniticato del termine di dimostraziouG in Aristotile, cioè
che essa non è per lui una sempliee deduzione, ma una deduzione in cui la
proposizione conclusa diviene, per la deduzione stessa, una verità razionale e
necessaria. Come ablùamo osservato nel
10'\ Piatirne definisce la dialettica l'arte d'interrogare e di
rispondere, ^ designa con questo nome tanto il metodo particolare al suo
sistema, quanto l'arte della discussione ordinaria, quale V insegnavano i
sofisti. Notiamo ehe cif) ^gli fa nei luoghi stessi in cui espone il metodo
dialettico, descrivendolo, ud FHvho, come metodi» di divisione e sin}igO;i;e, e
nella Repubblica, eome metodo di dedurre
le l4lee e scoprire le Ipro definizioni Questo passaggio n-a il senso stretto
del termine dialetliea eon eui designa il metodo particolare al suo [»roi)rio
sistema e il senso più lato (eon cui desig'ia l'arte della discussione in
generale; (piesta idenliiicaziiuie. per conseguenza, tra i due concetti, il più
particolare e il più generale, designati
da (luesto termine; signitìcaiìo evidentemente
che, secondo Platone, la sua dialettica non differisce in sostanza da
una discussione ordinaria ben condotta, o, facendo astrazione dalla forma
dialounca, clic è un (ilemento accessorio, dal ragionamento ordinario e dai
processi Nella Rep. Nella Rep, anche Fileho. Come si vede nei dialo<»bi
propriauu*.ute dialettici, cioè il JSofìsta e il Politico, in cui, come dice
TOCCO (vedasi) Ricercht piatoniche. la forma drammatica scomparisce
per far luogo all'espositiva, e alla
ricerca in comune del vero da scoprire sottentra rinsegnaniento della verità
già trovata. Nel Sofista lo stesso ospite di VELIA riconosce elio il dialogo
non h no<3C88niio. V^^^-• BBBBI I I di cui esso fa uso. Platone non può
essere dunque, come Hegel, r inventore
di una logica uiwvtv, diversa ttalla comune e in antitesi c«>n essa: la sua
dialettica non può essere cbe un caso dalla logica comune, e deve fondarsi
sugli stessi principii. Ora la logica comune non conosce che due processi,
1'uno che conelude dai particolari al generale induzione, l'altro che conclude
dal generale ai particolari deduzione. Sono appunto i due processi della
dialettica di Platone le due vie, com'egli li chiama (1> descritti nella Repnhhlica, e che noi abbiamo
identificati, V uno con la SINAGOGE e V
altro con. la dieresi. L'osservazione precedente trova nn'altra conferma nel
luogo più v.ilte citato del Fedone, i» cui Platone riassume il metodo da lui
seguito dopo la scoverta della teoria delle Idee, cioè: stabilito un principio,
porre come vero ciò che si accorda (^),A(oa)^€r) co» esso, e rigettare come falso ciò che non si accorda. Questo
luogo prova che la deduzione a cui aspira Platone è una vera deduzione, fondata
sul principio della coerenza come si vede dalla parola greca citata e che non pone esplicitamente nella
conclusione se noa ciò che implicitamente è contenuto nella premessa. Tutte le Idee,
come abbiamo visto si deduU) Kep, In verità la SINAGOGE noo oorrispoDcle che a quella specie d'induzione,
che non ia che lia.smnere in una proporzione gènerale tutti i fatti particolari
osservati. La vera induzione dei lo'Tici moderni, quella che estende realmente
la nostra conoscenza, aiTdando dai fatti osservati a quelli non osservati, non
può aver luogo in un metodo assolutamente aprioristico, qual ^ la dialettica di
Platone. la nota e u. <50no dal heiw, e questa è l'idea generalissima, di
cui tutt« le altre sono delle specie o delle particolarizzazioni. È naturale
d'inferirne che la deduzione platonica, cioè )a dialettica, o, più propriamente
il processo d/^cewMvo di questa dialettica conclude sempre dal generale ai
particolari, dall'Idea dal genere a quelle deHe sue specie. Questa osservazione
conduce più prossimamente al nostro
scoi>o, si^ ricordiamo ciò che abbiamo notato. n., cioè che il modo
in cui nel Fedone viene spiegata l'esistenza di ciascuna cosa suppone che il
principio della deduzione platonica di tutte le cose dall'Idea del Bene sia questa
proposizione generale: fMtto ciò che è bene esiste è questo per altro il solo
senso in cui possiamo concepire che le forme particolari del Bene si deducano
dall'Idea generale Se è così, non è
logico di concluderne che la deduzione platonica consiste, in tutti i suoi
gradi, a porre un genere in tutta la sua estensione logica tutta la linea^
tutto Vanimale, o, NELLA LINGUA ORDINARIA GRICE LA LINGUA ORDINARIA, ofjni
linea possibile, offni animale possibile e poi a dedurre, dal genere così posto,
tutte le specie che implicitamente contienef
Che ponendo un'Idea generale, cioè suscettibile di dividersi in Idee più
particolari, Pl}#one intenda affermare il genere corri s[»on dente in tutta la
sua estimsioue logica, non è solo una generalizzazione del fatto che ciò egli
fa ponendo l'Idea del Bene, ma può anche concludersi da una conseguenza
necessaria di questo fatiti. Se tutto ciò che é bene esiste^ ne seguirà che
tutte le specificazioni possibili del
Bene devono esistere; quindi ancora tutte le specificazioni posgibili di
ciascuna di queste specificazioni. Così, tutti i generi esistenti essendo per
Platone delle specificazioni del Bene, la conseguenza sarà che tutte le specie
possibili di un genere s<mo reali, in altri termini, che dato un genere,
sono date per ciò stesso tutte le sue specie possibili. Platone ammette dunque che ogni concetto generico, più o meno
generale, ch'egli deduce dal Bene, può essere atfermato in tutta la sua estenèione
logica. Se ciò non prova che questi concetti intende a^ fermarli così nelFatto
stesso in cui li dediice, pròva almeno cìu^ esiste la condizione necessaria
perchè possa farlo; e noi dobbiamo supporre eh'egli lo fa effettivamente, se
vogliamo spiegarci la progressività
della deduzione dialettica, cioè coni'essa sia una deduzione h gradi multipli,
che va continuamente, com'egli dice, * da Idee a Idee per via di Idee – cf.
GRICE VIA D’IDEE, VIA DI PAROLE, VIA DI COSE.
> È l'ipotesi più ovvia, o a
dir meglio, la sola ovvia – SPERANZA VIA DELLA CONVERSAZIONE, che possa farci comprendere questo tratto
essenziale del metodo dialettico,
precisandociò che d'una ni iniera generica abbiamo stabilito. Come ultima prova
dell'identità tra la dieresi e là deduzione dialettica, indicheremo il rapporto
di aHienorità e posteriorità che Ptatone ammette tra le Idee come fanno, con
gli stessi termini o con termini analoghi, tutti i metafisici i cui sistemi
appartengono al tipo realismo dialettico V a ìì ter io rità e posteriorità indica i gradi successivi dello
sviluppo logico, significando la derivazione dell'Idea posteriore dall'Idea
anteriore, Orav secondo Platxme, Vaiiterittre è il generale, e il posteriore il
[mrticolare: l'Idea generica è anteriore alle Mee specifiche, e queste sono ad
essa posteriori. Dunque, secondo lui, le Idee specifiche derivano logicamente
dalla Idea generica; questa è il principio,
e quelle le conseguenze; e lo sviluppo logico delle Idee è un progressi
continuo dal generale al particolare, che va dal vertice della piramide ideale
a: la sua base, passando successivamente per tutti i gradi intermediHri. Della
dottrina dell'anteriorità e posteriorità delle Idee parleremo più lungamente:
ma qui era necessario di accennarla, mostrandola sotto il suo aspetto logico,
mentre aUora la considereremo sotto l'aspetto ontologico LORHARDUS ONTOLOGIA
OGDOAS SCHOLASTICA Grice Strawson Pears Metaphysics -- Prima di finire questo
paragrafo, noteremo la stretta affinità tra il sistema di Platone e quello di
Taine, affinitji tanto più col|)ente che questo filosofo, accettando
l'interpretazione trasceìulentalista della teoria delle Idee, non era posto a
un t>unto di vista da cui potesse
comprendere il valore e il signifiejito della dialettica platonica. Ricordiamo
la gerarchia di necessità di cui parla Taine, di cui la priina, creatrice
universale, genera un gruppo di necessità subordinate, che alla huo volta producono
ciascuna un nuovo grujipo, e così di seguito, 'Sinché appariscano i dettagli
moltiplicati e i fatti particolari dell'osservazione sensibile. Ric(udiaino pure che queste
necessità non sono delle semplici proposizioni generali o dei concetti astratti,
ma delle cose astiatte e generali, in altre parole dei concetti realizzati come
le Jdee platoniche; che le necessità superiori sono le gèralità più elevate, e
le necessità inferiori ad esse subordinate le generalità meno elevate che esse
contengonoe infine che questa produzione
o generazione di necessità ncm è che la filiazioni» logici, per cui la
consegaenza derì%\'i dal principio. Del lesto sircome la deduzione del Inaine
non è una divisione del genere nelle sue specie, come quella di Platone, ciò
die vi ha di comune tra i due fil isofi, oltre alla realizzazione dei concetti
e agli altri caratteri del realismo dialettico fra cui la sistematicità e
l'unità di principio, si riduce a
quest'idea assai naturale, che la dediizi(Mie. come filiazione logica dei
concetti realizzati, è concepita sul tipo della deduzione ordinaria, cioè come
una conclusione dal generale al particolari' 'A), .«• i'ò Si potivhbe <lmiqin' ilin dn. m.l rettìisttnt (lltb'lllc.a i siKtcìiii di Platone v «li Taiiu'
rappiesent:iiio un jrem'n^ dÌHtinto ^t iti Come abbiamo spiegato nel paragrafo
precedente, la dieresi platonica,
considerata come metodo deduttivo, è fondata su due principii: l'uno che le specie in cui un genere si
divide sono tutte le sue specie poscarattcrizzatii da ciò. rlic i concetti obbiettivati foruiauo uua gerarchia ai
piiiicipii di lina generalità crescente, in modo che la deduzione va «einpre da
un principio generale a un gruppo di principii più particolari compresi
8otti> di esso. 11 carattere
specifico del sistema platonico è che questa deduzione è al tempo stesso una
classitioazione, in altri termini, ohe i due processi logici deUa deduzione e
della divisione formano per Platone una sola e stessa cosa . eh'egli chiama il
metoffo dialettieo. Questa circostanza speciale del sistema di IMatoue tiene
forse in gran parte allo stato delle conoscenze positive nella sua epoca. Delle due parti in cui si può
dividere la scienza della natura. ci<ȏ la fisica f,e7ierale e la fisica
parlieolare o storia naturale, le prime acquisizioni scientifiche non potevano
concernere quasi unicamente che la seconda: in tali condizioni del sapere
positivo è ovvio di considerare couìc primitive e irriduttibili le uniformità
«pedali osservate nei domini particolari della natura ed elevarle a tipo di tutt*^ le uniformità dei
fenomeni, e i concetti particolari allo studio degli esseri viventi esercitavaut>
facilmente un'influenza preponderante sulla concezione del mondo e dell'essere
in generale. Hi là quella filosofìa che potrebbe chiamarsi orr/anicisia di cui
. nella storia della filosofia. Platone ed Ari8t4»tile ci danno gli esempi più
evidenti. I^ definizione
d'Aristoaie deir essere naturale in
generale € ciò che mosso continuamente
da un principio interno perviene a un fine determinato Phys. è evidentemente
foggiata sul tipo dell'essere vivente. U concetto dell'essere in Plat<me ed
Aristotile apparisce con questi caratteri: di essere governato da leggi propri©
cioè speciali ciò che spiega V’imporwinza nella loro filosofia, deiresscHza e
della definizione: di essere la causa
spontanea dei proprii cangiamenti; e di tendere, in tutte le manifestazioni
della sua attività, ad uno scopo interno. Sono i caratteri che, nella
interpretazione primitiva dei fatti . dovevam»
essere attribuiti >igli esseri viventi, lì mondo delle Idee è
sovratiitto per Platone la rappresentazione del mondo degli esseri viventi:
l'universi» sensibile h un animale che contine tutti gli animali sensibili, e il suo archetipo è
Tldea deiranimale, c<mtenente, come sue parti, tutte le Idee generiche e
specifiche degli animali Tim. e. J»2 e.
pure Arist. Mei,: Se i numeri ideali vanno sino a dieci, non ye ne «iranno per
tutte le idee: le specie degli animali sono di pifi. i»er comprendere come
Platone possa ridurre tutto il mondo delle Idee al couiplessc» delle Idee degli animali, bisogna ricordare ch'egli riguarda
ccuiie animali le piante, gli astri e il mondi»
stesso come un tutto. Tuttavia il pensiero di matone non ò che non vi
hanno altre Idee che di animali, ma che il complesso delle Idee degli esser
animati, dall'Idea universale di essere aniniait<» alle specie infime degli
animali, contiene in sé tutto il nuuido delle Idee, ogn' Idea che non sia Idea
di essere animato. essendo quella di
qualche parte o qualche attributo di essere animato. Del resto l'infiuenza dei
c<»ncetti desunti dalla considerazione degli esseri organizzati sulle
concezioni generali della filosofia platonica si rileva sovratutto nei tre
punti seguenti: •» 1termini f'Jto, tZrfof
«
^»n<»»""«<'«>""' ^ P»^*^»^*' italiane
corrisp<m<lenti specie, genere, tipo
ecc., esprimono dei concetti che
hanno avuto evidentemente la loro prima origine nella comparazione degli esseri
organizzata e richiamano s<»vratiitto dei rapporti esistenti tra questi
esseri. Queste par(»le sinoontrano ad ogni passo nelle opere di zoo:(»gia, di
botanica e di scienze affini. La dottrina delle Idee ci mostra anche per un
altro lato linfiuenza della concezi«>iie che abbiamo chiamato orfianieÌHÌa\
è. che essa vede nelle Idee \v necessità primitive della natura, ciò che
importa che i fenomeni di ciascun essere come, almeno in apparenza, quelli
degli esseri organizzati si spiegano per la natura o l’essenza speciale di
quest'essere, in altri termini che «»gni cosa ha delle leggi speciali da cui
sono regolati i »uoi fenomeni. La riduzione iXaWcHsema alla forma, che si trova
1-. ^.
sìbili, in altri termini che la divisione esaurisce l'estensione
lofifica del genefe; e l'altro che, ponendo nn contauto in Platone quanto in
Aristotile. è sujriserita aneli' essa «lalla considerazione degli esseri
organizsati, perchè in questi la forma
è, come dice Cuvier Regni animale più essenziale che hi materia
Aggiungiamo in fine rhe le attìnità di diversi gradi esistenti tra gli ess<*ri viventi, tra quelli sovratutto tra cui non si
ammette alcun legame geneah»gico.
suggeriscooo vagamente V idea di qualche cosa d'identico e di esistente
per se stesso, di un;i torma comune che s'inq»rime nei diversi esseri di uno
stesso tipo. Così Agassiz dice: 41* individui sono solamente i sustrati SOGGETTI
SOSTANZE PRIME SOSTANZA PRIMA SOGGETTO SPECIMEN di tutte queste CATEGORIE GRICE
CATEGORIA PRAEDICAMENTVM PREDICAMENTO PREDICAMENT I PREDICAMENTO
CONVERSAZIONALE DI GRICE categorie della struttura su ciìi si fonda il sistema
naturale della zoologia Della speeie e
della classificazione in zooloffia. Gl'individui non eostituiscono la specie,
la rappresentano e cosi pure il genere, la famiglia. 1’ordine, ecc. Cuvier cinsegna che i
sott'oregni {enìbranche nienls) s(mo
fondati sulla distinzione di piani di struttura diversi, di fornte o di modrfli
differenti. dentro cui ijli animali
Harelèhi'r(t stali per e,os) dire fasi»
A meno che le forze tisiche già in attività non ahhiano immaginato questi
piani. e non li ahhiano in seffnito iènpressi nel mondo materiale come nn
modello nel (piale la nalura fonderebbe
ormai costantemente tatti f/li esseri,
non avrehhero potuto aver luogo queste relazioni generali tra gli animali. Che
si prendano qui'stc metafore nel senso proprio, e si avrà il sistema delle
Idee. Il metodo di Flatcmc non è che il metodo dei naturaliftti la cui prima
applicazione ò stata alla natura vivente, al quale egli airgiunge 1'apriorità e
la necessità, in una parola la
deduzi<me. La gerarchia delle Idee platonicln^ ci dà un'immagine aggrandita
e, ]»er dir Cv>8i, condensata di i[uesta gradazione moltiplicata di tipi di
una generalitìi d^'cr.'S^ente, di questa disposizione arborescente delle fornu^
della natura, che è sì evidente sovratutto nella natura vivente. Senza dubbio i
gradi delhi gerarchia, nel mondo ideale di Platon**, s(mo assai più numerosi ohe cetto generico, s'intende atferma^rlo iu
tutta la sua estensione logica. Il secondo di questi due principii suple
categorie CATEGORIA IL PREDICAMENTO CONVERSAZIONALE DI GRICE, esprimenti i
diversi gradi di athnità tra gli esseri viventi, ammesse dai naturalisti. Senza
dubbio ancora, la più parte delle at!ìnità si; cui i gruppi sono fondati nelle
classificazioni dei naturalisti, non
pcitevano nemmeno e»sere sospettate all'epoca di Platone. La classitìcazione
degli animali di Linneo HOMO SAPIENS SAPIENS TIGERS TIGERISE HOMO SAPIENS
SAPIENS HUMANISE non com])rende che quattro gradi -- classi, ordini, generi e
specie!; Aristotile. ehe è riguardato
come il fondatore delle grandi chissiticazitmi Cuvier ^SVorm delle scienze naturali t. P^ 14<») non ammette che tre graditi generi
s(un^•»i (ui^aatn', P e. gli uccelli, i pesci
GRICE ICHTHYOLOGICAL NECESSITY, i serpenti, ecc.. i generi medi (utyà'/ia)
^ l* specie De animalilms Ifistoriar Ma
(dtre le identità di organizzazione su cui sono fVmdati <|uesti gruppi, vi
hanno per Aristotile delle analogie o anche identità parziali su cui possono
fondarsi altri gruppi. Così i «eneri
sommi rhe corrisponderebbero press'a
poco allo classi dei vertebrati, si riuniscimo nella CATEGORIA generale di
tt'diua <*i^*' provvisti di sangue, che corrispon<lerebbe al sotto-regno
tlei vertebrati. Al di sopra di questi». divisioni Aristotile ammette
naturalmente quella <ii animale e
quella superiore di essere vivente. Cert;iniente Platone n(m erji un naturalista; egli non era capace di
distinguere, nei gruppi ch'egli forma, l'analogia più o meno reale dalla vera
affinità. Ma appunto perciò dove essere portato a nioltiplicare indeti aita niente i gradi di affinità tra gli
esseri reali, per questa temleuza a trovare da per tutto un'idea generale, che
costituisce secondo lui lo spirito fatto per la diah'ttica. L'inipmtanza della
natura vivente nella dieresi platonica
risulta anche dalla, critica di
Aristotile, questo metodo, negli esempii eh*egli ne dà. applicandosi per il
solito agli esseri animati Mei. De pari, animal., Anat. f*r. Anul. Post., ecc.
Si sa inoltre che il successore immediat<» di Platone, Speusippo. mostrò le
affinità tra gli esseri ns'ili cere indole specialmente tra gli esseri
viventi (v. MiiUaoh pone il primole non
implica die la determinazione dì
prendere i concetti in un senso particolare, difforme, a dir vero, da qnello in
cui generalmente vengono presi. Il primo è la condizione necessaria del
seconde^, ed implica una veduta particolare sulla natura reale delle cose. È
esso dunque il tratto veramente caratteristico della dialettica platonica: noi
dobbiamo stabilirlo d'una maniera più diretta, mostrando al tempo stesso il
modo determinato in cui Platone cerca di applicarlo. Perciò prima di tutto noi
richiameremo l'attenzione sui caratteri particolari della dieresi platonica, di
cui abbiamo parlata, cioè che ogni divisione è una dicotomia, che ciascun
membro di ogni dicotomia è definito per una differenza unica, e che le di»
differenze sono contrarie. Quale potrebbe essere lo scopo di queste condizioni
a cui Platone si astringe costantemente
nella pratica del suo metodo? Queste condizioni implicano una certa ipotesi
sulla natura reale e un'ipotesi evidentemente contraria ai fatti
dell'osservazione, perchè, ricordiamolo, il metodo di Platone è un metodo
naturale, in cui ciascuna parte di ogni «liviFragtH. phil gmeror. voi. IH. Fnigm.
SpciiKÌppi: era evidenteineute un' uppiicaziimc e uua confcruiii, »al
teiiciio dei fatti, dei priiicipii della dialettica platoiiiea. Infine il
concetto teleologico o FINALISTA metier, di cui Platone fa la forimi generale di
tutti gli esseri t^ la legge
foudanientnle della natura, ha la sua
applicazione più plausibile, l'unica secondo alcuni filosofi, come Kant
O KANTOTLE se non ARISKANT PLATHEGEL o HEGPLATO, noi inoivdo degli esseri
viventi. In una nota noi vedremo come certi sviluppi ilei concetto teleologico o
FINALISTA GRICE METIER i»i alcuni natunilisti possono gettare qualche luce
sovra uno dei punti più importami della dialettica dell’ACCADEMIA, cioè die le
specie reali in cui un genere – ORNITORRINCO ECO si divide, sono tutte le
spìccie possibili di questo genere. sioue deve essere un genere, e la
definizione di ciiM^cuno di questi generi deve abbracciare. la totalità dei
suoi, attributi primitivi. Qual è dunque, ci domandiamo, il motivo di
quest'ipotesi f La risposta non è diffìcile: è che essa era
la più propria a dare una torma determinata
all'ideale di metodo che Platone si era proposto. La lingua ci offre numerosi
esempi di coppie di contrari, in cui noi vediamo che il genere in cui essi sono
contenuti, non solo non contiene di fatto che questi soli membri, ma che non
può contenere che essi soliy resistenza di qualche altro essendo inconcepibile.
Questi contrari si chiamano contrari
senza medio: tali sono: uno^ più; movimento, riposo; luce, oscurità;
retto, curvo; salute, malattia; saggio, pazzo; scabro, liscio; ecc. Ai casi in
cui dei nomi distinti sono impiegati per designare i contrari, dobbiamo
aggiungere gli altri in cui V uno dei nomi contrari si forma unendo all'altro
un prefisso indicante \a negiizione: p. e. finito, infinito; normale, anormale;
pari, dispari; conosciuto, sconosciuto; Grice’s publication, Grice’s
unpublication, ecc. Al di fuori di questi casi noi troviamo raramente che i
membri in cui si divide un concetto generico siano tutti i membri logicamente
possibili: è un fatto dovuto in parte alla struttura della lingua, e in parte
alla natura stessa delle cose, che noi ci limitiamo a segnalare senza cercare
di spiegarlo. Per conseguenza Platone, in cerca di divisioni che esaurissero
l'estensione logica dei generi divisi, eleva questi casi a tipo universale
delle sue dieresi, l'esigenza del suo sistema, come di tutti i Bain Log.Vi
bauno, secondo lui. nella lingua britannica parecchie centinaia di tali coppie
di contrari, in cui per designare ciascuno dei due viene impiegato un nome
distinto come negli esempi ohe abbiamo citati. sistemi di realismo dialettico, essendo rasgoluta
unifoi»mità di metodo, perchè il metodo, in questi sistemi, non è nn semjdice
processo siihbiettivo, ma la le^ge delle eose stesse, cioè dei concetti
fealizzati. La diviene platonica non e dunque semplicemente in due opposti, ma
in due opposti fra cui non vi ha medio, cioè oltre ai quali un'altra
specificazione del <::enere diviso,
non solo non esiste di fatto, ma non può
essere concepita. E infatti, nelle dieresi del Sofista e del Politico e neìjli
esempi che dà Aristotile del met«)di> platonico, noi vediamo lo sforzo
evidente di dividere in o])])osti di questa specie: perciò basta di <lare uno sguardo alle tavole che si
trovano nella nota, e alP esempio ehe abbiamo citato sulla fine dello stesso
paragrafo. In certi casi Platone non riesi'e ad
t»ttenere una tale opposizione, ma è impossibile che vi riesca in tutti
i casi, il suo metodo non essendo che una semplice utopia, che non potremmo
attenderci di vedere realizzata d^ma maniera completa., : Che gli opposti in
cui Platone divide siano, almeno a quanto egli pretende, degli opposti senza
medio, è un fatto attestato espressamente nel luogo seguente di Aristotile: Non
è necessario che il definente e il
dividente Sofista, Polit, e Arist. Anal. Pr, Anni. Posi., Departih. Animai.,
ecc. Nel /^o/*<., ili cui vi hauuo le
dieresi per trovare V arte del tessere.
que8t(» sforzo è meno evideute. Ma queste dieresi non sono fatte secondo le
regole: in molti casi infatti V’autore si limita a dividere in due specie,
senza indicare le ditferenze per cui esse dovrebbero definirsi Ora
1'opposizione, e per conseguenza l'opposizituie senza medio, non è, per
Platone, iu'inediatamente fra le apecie stesse, ma fra le dift'erenze che le
definiscono. conosca tutte le cose che esistono (1^... Se pone gli opposti e la differenza, e che
tutto cade o nell'uno o nell'altro di questi opposti, e pone che la cosa
cercata si trova ueir uno, e ciò conosca; niente importa che egli sappia o ignori le altre cose a cui le differenze
possono attribuirsi. K manifesto infatti che se, procedendo così, perverrà alle
specie in cui non vi, ha più differenza,, avrà la definizione dell'essenza
della cosa. Che poi ogni, cosa cada nella divisione, sie quelli sono degli
opposti fra cui non vi ha medio, non è semplicemente postulato cioè ammesso
senza prova benché aì>bia bisogno di esserC;
pnivato); poiché è necessario che
tutto ciò che è contenuto nel generi*, si tr.>vi o nell'uno o nell'altro di
questi opjmsti. se sono veramente la differenza di (jnel genere > . Le parole se somf def/li opposti fra cni non vi Ita medio noi
dobbiamo intenderle come se 1'autore dicesse: s'è vero, come suppongono quelli
che adoperano questo metodo, che sono degli opposti fra cui non vi ha medio. Come aH'ermavano al<Miiii platonici:
Spciisippy, secondo i oommeutatori d'Aristotile Mulbicb Frng. phil. graec,
Speus. Sulla spiegazione di Filopono di quest*opinione di Speusippo, cioè
<*bc egli cerca con quest'argomento di rigettare la divisione e la
definizione, Suppl. // pilay. nei
dincep. di Plat.y Speus: noi non possiamo
vedervi, invece, come ivi spiegheremo cbe un'espressione del princijiio
platonico del legame intimo di tutte le eonoscenze. La differenza non è
naturalmente che uno di questi opposti. 4'*i**totile si esprime cosi perchè egli vuole enunziare
due condizioni, cioè che il dividente ponga due
o)q)osti come al solito, e che fra di essi si trovi una differenza per
la definizione cercata. AnaL Posi, lofatti elle cosa vuol provare Aristotile?
<5he non è necessario elle il dividente conosca tutte le cose che sona
contenute nel genere diviso se questo è il genere assolutamente primo, conni
ricliiederebln* un'applicazione rigorosa del metodo, tutte le cose in generale.
A questa proposizione può obbiettarsi che, se non si conoscono tutte le cose
contenuta nel genere, è senza prova che si ammette che esse cadano tutte
nell'uno o nell'altro degli opposti in cui esso si divide. Aristotile risponde
che, se si verifica la cx>ndizione della dieresi, voluta da quelli che
impiegano questo metodo, cioè che gli opposti in cui il genere si divide siano
degli opposti senza medio, non vi ha bisogno di prova per ammettere che tutto
ciò che è contenuto nel genere deve cadere o nell'uno o nell'altro di questi
opposti. E infatti per essere sicuri che una divisiinie è couipleta, noi non
abbiamo bisogno di conoscere tutto ciò che è compreso nel genere, che quaDdo
essiv esmirisce la estensione retde di questo irenere, ma non la sua estensioue
lotfica y. e. nella divisione dei vertebrati in mammiferi, uccelli, rettili e
pesci. Ma quando una divisione esaurisce, non solo l'esten8i<me reale^ uìa
anche 1'estensione loiiica del
genere come in quella degli animali in vertebrati ed invertebrati noi possiamo
ammettere senza prova che la divisione è completa, iierchè è una verità
evidente per se stessa. La condizione della dieresi che essa deve dividere in
opposti senza medio, ci fa anche comprendere l'importanza e il signitìcato del
principio platonico che la stessa è la scienza dei contrari, in altri termini
che è impossibile di conoscere V’uno dei contrari, se non si conosce – GRICE I
KNOW SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE -- al tempo stesso anche V altro. Questo
piincipio era I ritenuto così importante per la dialettica platonica, che
Aristotile lo dà, insieme allo studio dei contrari in generale, come carattere
distintivo tra questa dialettica e quella di Socrate CITATO DA GRICE!
Evidentemente esso serviva a Platone per mostrare la necessità della dieresi
per la definizione. Infatti^ secondo questo principio^ la conoscenza di un'Idea
implica quella dell'Idea contraria – GRICE IS HEARING A NOISE, che è l'altro
membro della divisione, IT IS NOT THE CASE THAT GRICE IS HEARING A
NOISE e conosciute queste due Idee, si conosce per ciò stesso l'Idea
immediatamente superiore che le contiene ambedue, perchè non è che la parte
comune delle loro definizioni; la conoscenza di quest'Idea implica pure, alla
sua volta, quella dell'Idea contraria e dell'Idea superiore che le contiene
ambedue, e così di seguito. Ora ciò che c'importa d'osservare è che questo
principio, che la stessa è la conoscenza dei contrari, non è vero ohe se si tratta di contrari senza medio. In questo caso le due
nozioni contrarie si suppongono reciprocamente, perchè ciascuna di esse È LA NEGAZIONE DELL’ALTRA, e ogni nozione
suppone la NOZIONE NEGATIVA corrispondente. Una nozione generale, infatti, non
è che il significato d'un termine generale, e per conoscere con precisione il
significato di un termine, bisogna Fedone e Legj?i e. Mei, dopo avere parlato della defiuizione
socratica come antecedente della dottrina delle Idee: Allora all'epoca di
Socrate non vi era ancora la forza dialettica per poter considerare i contrari,
anche a parte della definizione^ e
ricercare se la stessa è la loro scienza. Due sono le cose che si possono a buon
dritto attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione
dell'universale. Per la dottrina che, per definire una cosa, bisogna
ancdefinire la cosa contraria, Bain che ha una dottrina analogar Logica sapere, non solo i casi in
cui può essere applicato, ma anche quelli in cui non può essere applicato; ciò
che è appunto avere LA NOZIONE NEGATIVA OPPOSTA A QUESTO TERMINE –GRICE:
NOT-NOISE. j n Il pernio su cui volge la
nostra interpretazione della dialettica platonica e potremmo anche dire del
sistema intero delle Idee è questo significato, che noi abbiamo spiegato, della
divisione dicotomica. Alcuni interpreti, tirando una conseguenza legittima
dalla maniera ordinaria di comprendere la dieresi, vedono nell'ammirazione di
Platone per il metodo dialettico e quelli che sanno praticarlo, una meraviglia
quasi infantile; indizio, essi aggiungono, di un pensiero giovane, che
contempla per irV'ma >^ proprio
mondo. Secondo noi invece, la dieresi platonica è l'attuazione, la più completa
che fosse possibile, d'un ideale elevato, quantunque chimerico, della scienza e
del metodo scientifico. Stabilito che, i»er la divisione in due contrari senza
medio, tutt« le specie in cui un genere si divide sono tutte le sue specie logicamente possibili, ne segue che ciascun
genere può essere affermato, secondo Platone, in tutta la estensione di cui è
logicamente suscettibile. Vi ha dunque,
secondo lui, una gerarchia di proposizioni di meno in meno generali, di cui
ciascuna stabilisce l'esistenza di un genere, aftermandolo in tutta la sua
estensiore logica -meno le ultime, che
stabiliscono l'esistenza dei generi infimi,
cioè delle specie nel senso piii stretto, perchè queste, nel sistema
delle Idee, non hanno un'estensione, né logica né reale. La prima stabilisce
l'esistenza del genere su Sono gl'individui ró àtofia. Arist. Mei., An. Post.,
De pari. anim. ed. Didot. eoo. L'essere, in questo sistema, non è ohe l'essere
necessario, cioè !'i, premo, e può formularsi così: tutto ciò che è bene,
esiste tatto ciò che è bene vuol dire, come abbiamo spiegato, ogni bene
possibile, ogni specificazione del concetto del bene cbe noi possiamo
concepire. A questa sono subordinate altre due proposizioni che stabiliscono
l'esistenza dei due generi inferiori in cui il bene si divide; a ciascuna di
queste altre due, che stabiliscono l'esistenza dei generi inferiori in cui si
divide ciascuno di questi due generi, e così di seguito; ogni proposizione
affermando, in una forma generale, che esiste tutto ciò che il nome del genere
sigoi fica tutto ciò che è animale, animale mortale, animale mortale provvisto
di piedi, ecc. e che le proposizioni susseguenti esprimono d'una maniera di più
in più determinata e particolare. Ciascuna di queste proposizioni è la
premessa, di cui le proposizioni subordinate sono le conseguenze: così,
percorrendo, dalla sommità alla base, questa gerarchia di proposizioni, noi
facciamo una deduzione continua, che non
è che lo sviluppo graduale di ciò che è implicitamente contenuto nel
primo principilo^ e che da questo andando di conseguenze in conseguenze sino
alle conseguenze ultime, non fa che esprimere sotto forme sempre più larghe e
più particolari ciò che esso enunzia già nella forma più cempendiosa e più
generale. Ogni proposizione corrisponde a un'Idea, e la gerarchia delle proposizioni
alla gerarchia delle Idee, che la dieresi percorre dall'alto in basso, anridea;
il ooutina:ente, vale a dire ciò che noi chiamiamo Tiadiyiduale, non è un
essere, cioè una realtà, ma un semplice fenomeno. Per conseguenza, Tldea
generica ha un'estensione, perchè contiene sotto di sé le Idee specifiche; ma
queste non hanno estensione, perchè tra gli esseri reali sono i più particolari
di tutti, ohe non possono contenere sotto di sé niente di più particolare – the
idea of GRICE. dando dall'Idea del Bene a quelle delle specie infime, e la
sinagoge dal basso in alto, dalle Idee delle specie infime a quella del Bene.
Tutto ciò non è che un corollario della dottrina della divisione dicotomica,
quale noi l'abbiamo interpretata. Ma poiché ad ogn'Idea di genere corrisponde
per Platone una proposizione affermante la esistenza di questo genere in tutta
la sua estensione logica ciò che è la conseguenza immediata della divisione in
due contrari senza medio, per mezzo della quale il nostro corollario è stato
dedotto dobbiamo noi ammettere che Platone, nell'atto stesso che pone un'Idea
generica, intende affermarla in tutta la sua estensione logica? Ciò non segue,
in verità, dalla divisione in contrari senza medio: ma come non ammetterlo,
quando sappiamo che Platone dà la dieresi
per una deduzione^ e questa è la
condizione necessaria perchè essa sia tale? Per vedere quanto vi ha di
chimerico nel metodo platonico, e comprenderne al tempo stesso il valore e il
significato, non dobbiamo dimenticare due punti d'un'importanza capitale, che
abbiamo stabiliti nell'esposizione precedente. L'uno che questo metodo è un
metodo naturale, che, nelle sue divisioni e suddivisioni, pretende di
aggruppare gli esseri secondo le loro reali affinità; e l'altro che la
definizione, che la dieresi dà di ciascun genere, per il genere superiore e
1'una delle due differenze opposte per cui questo si divide, è una definizione
essenziale, che deve esaurire la totalità dei caratteri primitivi del genere,
cioè che non possono dedursi da altri caratteri. Non sarebbe impossibile di
dividere tutti gli esseri in modo che ogni divisione e suddivisione consti di
due soli membri, e che questi due membri siano definiti, come vuole Platone, da
due contrari senza medio: ma alcune delle classi così ottenute non avrebbero
per caratteri che degli ATTRIBUTI PURAMENTE NEGATIVI GRICE NON-NOISE; la
classificazione non sarebbe naturale; e la definizione di ciaficun genere
potrebbe bastare a distinguerlo da tutti gli altri generi reali, ma non ne
determinerebbe la natura, in modo da poter convenire a questo solo genere, e
non ad altri generi possibili, quantunque non reali, aventi una natura più o
meno differente. Questa è la circostanza sovratutto importante per la dieresi
platonica, che ogni definizione per essa ottenuta deve determinare con una
precisione assoluta la natura del genere definito, in modo che se questa fosse
minimamente differente, la definìzione non potrebbe più convenirgli: senza di
ciò la divisione non mostrerebbe questa coincidenza tra il reale e il possibile,
che è la condizione precipua di questo
metodo e la sua speciale caratteristica. Infatti supponiamo che le definizioni
delle specie infime non avessero che la precisione sufficiente a distinguere
ciascuna specie da tutte le altre specie reali: ciascuna di queste definizioni,
quantunque tra le specie reali non si applicherebbe che ad una sola, sarebbe
anche applicabile ad infinite altre specie possibili, che, pur avendo la stessa
definizione, differirebbero da essa più o meno profondamente. P. e. Vanimale
mortale bipede implume supposto che da questa definizione non potessero dedursi
tutti gli altri attributi della specie umana, come sarebbe la esigenza del
metodo platonico quantunque tra tutti gli esseri reali non potrebbe designare
che l'uomo solo, abbraccerebbe, nel tempo stesso che l'uomo, un'infinità di
altri esseri possibili, aventi una forma, una struttura e altri caratteri
fisici e psichici più o meno differenti da quelli dell'uomo. Ma in questo caso
la dieresi non mostrerebbe che le specie esistenti dell'animale esistono
necessariamente, e che esse sole
i)ossono esistere: essa non sarebbe dunque una ricostruzione A PRIORI del
mondo reale, perchè in una tale ricostruzione necessario, reale e possibile
sono dei termini che hanno precisamente la stessa estensione –GRICE SEEING AND
SEEING-X. La condizione dunque perchè la
dieresi '^ 'a aia, come vuoìe Platone, una ricostruzione A PRIORI del reale, è
che le definizioni, per essa ottenute,
esauriscano r essenza, cioè la totalità de^^li attributi primitivi, dei generi
definiti. Allora la dieresi mostrerebbe che le specie esistenti che essa ha
riprodotte tali quali esse efiistono, e,
per dir cosi, ricreate esistono necessariamente, perchè contenute nell'Idea
suprema, la cui esistenza in tutta la sua estensione logica è. come sappiamo,
data A PRIORI e, per conseguenza,
necessaria; e che esse sole possono esistere, perchè esauriscono
l'estensione logica dei generi immediatamente superiori, e questi quella dei
generi ancora superiori, e così di seguito, in modo che l'Idea suprema, cioè il
tipo universale e necessario di tutti gli esseri, si è realizzato in tutte le
specificazioni di cui è logicamente suscettibile, e tutto ciò che è possibile è
reale, come tutto ciò che è reale è
necessario. È così che la dieresi è una dimostrazione, e che le verità
empiriche le ipotesi^ ottenute nel processo
ascensivo della dialettica, sono trasformate, nel processo discensivo, in
verità razionali e necessarie. La dialettica platonica a parte le supposizioni
relative al primo principio, per cui rimandiamo è fondata dunque su tre
presupposti: che ciascun genere possa
dividersi per due contrari senza medio ^ senza violentare, con questa
divisione, le affinità reali degli esseri che si tratta di classificare. che le definizioni formate per
l'accumulazione progressiva delle dif'ferenze su cui si fondano le successive
divisioni, esauriscano la totalità degli attributi primitivi dei generi
definiti. che, nel passaggio continuo da Idee a Idee per via d'Idee, in
cui consiste la dialettica, la posizione
di un'Idea generica implichi l'affermazione di quest'Idea in tutta la sua
estensicme logica. L' attuabilità del metodo platonico dipende dalla verità o
erroneità dei due primi presupposti: il terzo, supposta la verità dei due primi, non trascinerebbe per se
stesso alcuna impossibilità pratica neir applicazione del metodo, ma presenta
in coinpenso delle difficoltà d'indole
teorica, che mettono in forse la legittimità logica del metodo stesso,
considerato come un ideale e astrazion facendo dalla sua attuabilità. Platone
ha il diritto di attribuire alle sue Idee un'estensione logica e, in generale,
un'estensione qualsiasi Evidentemente le esigenze della dialettica vengono in
ccmtraddizione con quelle della nostra
facoltà rappresentativa, quando
cerchiamo di concepire gli universali come delle realtà obbiettive e
sussistenti per se stesse. Vi hanno certe condizioni della rappresentazione, da
cui il metafisico non può esimersi, anche quando oltrepassa i limiti del
rappresentabile: una di queste condizioni è l'individualità; tutto ciò che noi
concepiamo, o crediamo semplicemente di concepire, se non è un essere
individuale, non può essere che un
aggregato di esseri individuali. Quando Platone divide, com'egli dice, tutto il
bene, tutto l'animale, tutto l'animale mortale, ecc vale a dire, come abbiamo
spiegato, ogni bene possibile, ogni animale possibile, ogni animale mortale
possibile, egli pretende al tempo stesso
che le sue divisioni non si riferiscono che alle Idee; ma è evidente
eh'egli non potrà mai riuscire, io non
dico a rappresentarsi, ma a immaginare di rappresentarsi, un essere
obbiettivo corrispondente a tutto il bene, a tutto Vanimale, a tutto l'animale
mortale, com'egli immagina di rappresentarsi un essere obbiettivo
corrispondente al bene, iiiVanimale, M'animale mortale semplicemente. In altri
termini, la sua Idea non può essere che un concetto obbiettivato, e non può,
per conseguenza, considerata per se
stessa, cioè indipeDdentemeDte dalle Idee subordinate e dalle cose a cui si
dice che si partecipa, avere un'estensiooe ne reale né logica, perchè, come
ammettono i concettualisti, la quantità in estensione è esteriore al concetto,
e gli appartiene, non assolutamente come quella in comprensione, ma
relativamente ai concetti subordinati e alle cose a cui esso si applica. Ciò è perchè un concetto, sia obbiettivato,
sia come semplice rappresentazione supposta esistente nel nostro spirito, noi
non potremmo immaginarlo che conformemente a questa condizione delPimmaginabile
che è V’individualità, vale a dire come un individuo astratto^ sussistente
nella realtà o semplicemente rappresentato, come un tipo di tutti gl'individui
di una classe, che ha tutti gli
attributi identici in tutti questi individui, e nessuno di quelli particolari a
certi individui determinati. Platone concepisce dunque 1'Idea come un individuo
astratto, presente al tempo stesso in tutti gì'individui concreti e particolari,
e che uno in se stesso, sembra moltiplicarsi apparendo come altro nei diversi
individui particolari in cui è presente: tutte le forme in cui egli esprime
il rapporto fra le Idee e le cose, che
l'Idea è l'uno nei molti, che è una e la stessa in tutti gli oggetti
particolari, che è presente in ciascuno di questi oggetti , ecc., tendono a
questo concetto, che è enunciato apertamente
nella Repubblica, dove dice che ciascuna delle Idee è una, ma pare molti,
apparendo da per tutto per la loro comunione con le azioni e coi corpi Suppl.
a. e la recìproca fra di loro. Ma se è cosi, vi ha contraddizione fra
il concetto dell'Idea in se stessa e quello dell'Idea nella sua funzione nel
processo dialettico. Di questa contraddizione potrebbe farsi un argomento
contro la nostra interpretazione della dialettica platonica, obbiettandoci che
la dieresi non può essere una deduzione, perchè manca una condizione
indispensabile, cioè l'equivalenza fra la
posizione dell'Idea generica e l'aflfermazione del genere corrispondente
in tutta la sua estensione logica. Ma malgrado questa inevitabile incongruenza
fra i due elementi del sistema, cioè le Idee e la dialettica, non si negherà
ohe la deduzione di Platone quale la nostra interpretazione gliel'attribuisce
somigli a una vera deduzione più che quella di Hegel. Essa si fonda, in ultima
analisi, sopra un equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice:
aequi-vocality thesis] prendendo per generale ciò che è semplicemento
a«fraf<o), ma si tiene strettamente, facendo astrazione dalla pratica, ai
principii della logica comune, e non è, come quella del filosofo tedesco, un ROVESCIAMENTO
aperto delle leggi fondamentali del ragionamento. Se con tutto ciò questi ha
dato la sua dialettica per una
dimostrazione, a più forte ragione ha potuto farlo Platone; e il confronto tra
1 due filosofi ci mostra un altro esempio di un fatto che si può più volte
osservare nella storia della filosofia, cioè del cai^attere più semplice e
più naturale delle concezioni del mondo
antico, in comparazione di quelle del mondo moderno, più ricercate e più
artificiali. Noi termineremo questo paragrafo,
mostrando che nella dieresi si verificano le cojidizioni generali del
metodo dialettico, che abbiamo descritte. La dimostrazione dialettica
diflerisce dalla dimostrazione matematica, in quanto questa, quantunque in
definitiva si riferisca alle Idee, non volge immediatamente che sugli oggetti
particolari e sensibili; quella, al contrario, volge, anche immediatamente, sulle sole Idee. Con ciò Platone indica due diflferenze tra il metodo
matematico e il metodo dialettico. L'una che, mentre le verità della matematica
7 + 5 = 12 enunciano, almeno immediatamente, dei rapporti tra oggetti
particoli^ri, p. e, d'eguaglianza, d'ineguaglianza, ecc., le verità della
dialettica non enunciano invece che i rapporti logici fra le generalità, che
Platone sostantifica, chiamandole Idee. Questi
S(mo: dei rapporti di contenenza cioè che tale Idea generica contiene
tali Idee specifiche, e di sequenza logica cioè che l'Idea generica è il
principio di cui le Idee specifiche sono le conseguenze: essi non possono
correre fra gli oggetti particolari, ma
solo tra le generalità, e non sono quindi suscettibili del doppio senso che
Platone altribuisce alle verità matematiche, interpetrate, dal filosofo, come
rapporti fra Idee fra il quadrato in sé e la diagonale in sé, e dìil volgare,
come rapporti fra cose individuali fra questo o quel quadrato e questa o quella
diagonale. L'altra differenza tra il metodo matematico e il metodo dialettico è
che, nella geometria, una proposizione – cf. REISMAN GRICE’S HARDY -- OBVIOUSLY
non si dimostra immediatamente che della figura particolare che si è costruita,
estendendo in seguito la stessa conclusione a tutte le altre figure che possono
enunciarsi negli stessi termini. GRICE ON RAMSEY Ciò dà a questa scienza
l'apparenza d'una scienza induttiva e sperimentale – GRICE PRE-WAR, mentre la
dialettica, cioè la dieresi, deve essere un metodo deduttivo puro, che deve
respingere ogni dato empirico, e non
deve trarre il generale che da un'altra generalità superiore. In verità,
Platone, nelle sue dieresi, non si conforma esattamente a questa condizione del
suo metodo; stabilendo le sue classi, egli indica spesso alcuni casi, o anche
la totalità dei casi, compresi in una classe. Ciò il più delle volte ha pei
iscopo di chiarire il concetto della classe; ma qualche volta lo soopo è evidentemente di giustific ire una dieresi
per un appello all'esperienza. Allora il processo puramente dialettico della
dieresi, che trae il particolare dal generale, si complica col processo
opposto, cioè colla sinagoge – cf. Grice epagoge, diagoge; e noi sappiamo del
resto che, secondo Platone, il processo discensivo, cioè la dieresi, suppone,
come suo antecedente, il processo ascensivo, cioè la sinagoge GRICE EPAGOGE
DIAGOGE Ma ciò non toglie niente al
carattere essenzialmente deduttivo e aprioristico del metodo platonico, perchè
la filosofia apriorista, come abbiamo altre volte osservato, non pretende far
senza dell'esperienza, ma trasformare i dati empirici in verità razionali. La
dialettica è un passagu:io continuo, come dice Platone, da Idee a Ide^ per
via di
Idee Ciò si verifica esattamente nella dieresi. Infatti il dividente non
fa che porre, prima una classe generale, e poi succesdivamente le classi di
meno in meno generali, in cui quella si divide e suddivide. Ciascuna di queste
classi è un'Idea, perchè la dieresi, secondo Platone, si riferisce alle Idee; e
il passaggio da classi in classi è una deduzione di Idee da Idee, perchè
ponendo un'Idea, Platone intende
affermarne l'esistenza, e l'esistenza delle Idee meno generali è una
conseguenza dell'esistenza dell'Idea più generale che le contiene. La
dialettica è pure presentata da Platone come una ricerca delle essenze, cioè
delle definizioni, di tutte le cose: ma la definizione è l'espres Polii,
Sof,, eoe. Polii. e Sof.
sione adequata dell'Idea, P analisi del concetto di cui questa è
1'obbiettivazione; siccLè la scoverta della definizione non è cbe la scoverta
dell'Idea definita, la dieresi dando al tempo stesso le classi, cioè le loro
Idee, e la totalità dei caratteri per cui si definiscono. La proposizione cbe
la dialettica è un passaggio continuo da Idee a Idee per via d' Idee,
stabilisce due caratteri ^el metodo dialettico. L'uno che le verità che il
dialettico deduce le une dalle altre,
non sono propriamente delle proposizioni, ma delle Idee sono, se si vuole,
delle proposizioni, ma di cui ciascuna non fa che porre un'Idea, affermarne
1'esistenza; e l'altro cbe in questo incatenamento deduttivo, che costituisce
il processo discensivo della dialettica, tutti gli anelli sono delle Idee, in
altri termini che da Idee a Idee la conseguenza è immediata, cioè si vede intuitivamente e non mediante un
ragionamento. La dieresi considerata come un ideale, e astrazion facendo dalla
pratica soddisfa anche alla seconda di queste due condizioni della dialettica:
si vede intuitivamente e che data l'Idea generica sono date le Idee specifiche
perchè per ciò basta di vedere che queste date specie sono contenute in questo
dato genere e che non sono date che
queste sole Idee specifiche perchè la divisione in due contrari senza
medio mostra immediatamente che questi esauriscono l'estensione logica del
genere. Nel metodo platonico è tanto importante di vedere che la posizione
delle Idee specifiche segue dalla posizione dell'Idea generica, quanto di
vedere che dalla posizione dell'Idea generica non segue che la posizione di
queste sole Idee specifiche. Ciò è
perchè, se vediamo in una dieresi che tutte le divisioni successive, sino agli
indivisibili, esauriscono 1'estensione logica dei generi divisi, noi vediamo al
tempo stesso che questi generi devono essere affermati in tutta la loro
estensione logica, e che la dieresi è una deduzione e non una semplice
classificazione. La deduzione dialettica deve conformarsi al tempo stesso a due condizioni: l'una la moltiplicità dei
passaggi logici, e l'altra una legge comune a cui tutti questi passaggi si
uniformano. Nella dieresi si verificano pienamente queste due condizioni del
realismo dialettico: essa è una deduzione a gradi multipli, e in ciascuna
deduzione particolare si realizza il tipo uniforme della divisione dicotomica.
Questa, nel sistema platonico, è ciò che la tesi, antitesi e sintesi nel sistema hegeliano:
vale a dire 1'uniformità di sequenza del mondo ideale, che, nelle sequenze
logiche tra le Idee, è ciò che una legge di causazione nelle successioni tra i
fenomeni. Dalla condizione precedente dell'uniformità di sequenza nel mondo
ideale segue un'altra condizione del realismo dialettico, cioè l'unità di
principio. È ciò che si vede chiaramente nel
sistema platonico, in cui, la legge delle Idee essendo che si dispongano
secondo il tipo della divisione dicotomica, niente vi sarebbe di più incoerente
che una moltiplicità d'Idee primitive, cioè che non potessero subordinarsi a
un'Idea piìi generale. Qui cade a proposito di osservare che il legame fra
tutte le verità di cui parla Platone, suppone secondo lui la loro derivazione
comune da una verità più generale; in
altri termini, che la deducibilità di tutte le Idee da la nota un'Idea unica suppone, per Platone, che
questa sia come lo esige la dieresi V Idea più generale, in cui tutte le altre
siano contenute. Ciò vediamo nel luogo più volte citato dal Menone, secondo cui
è per V’affinità di tutta la natura cioè per la costituzione di tutti gli
esseri secondo un tipo comune che si
può, ricordata una cosa, ritrovare da se stesso tutte le altre. La
condizione perchè la deduzione dialettica sia una dimostrazione, è che V Idea
primitiva sia stahilita A PRIORI. La dialettica essendo la dieresi, quest'Idea
primitiva, che è come l'assioma – GRICE CONVERSATIONAL AXIOM -- da cui parte la
dimostrazione dialettica, deve essere l'Idea più generale, cioè quella del
Bene. L'apriorità del primo principio è
espressa chiaramente da Platone, quando dice che la dimostrazione dialettica
non è fondata sovra ipotesi come la dimostrazione matematica, perchè la
dialettica toglie alle ipotesi il loro carattere ipotetico, deducendole dal
principio che non è un'ipotesi àyvnó&stog
-ipotesù come abbiamo spiegato, è per Platone NO IPOSTASI ma un dato
empirico, sinché non è stato dimostrato
Questo principio àt^vnó&ezog, cioè certo A PRIORI e non dato semplicemente
dall'esperienza GRICE EXPERIENTIAL, è il punto di partenza della dieresi, cioè
l'Idea del B«ne. La proposizione che quest'Idea dà l'evidenza a tutte le altre
implica infatti eh'essa è evidente immediatamente perchè senza di ciò come
potrebbe rendere evidenti le Idee che se
ne deducono?; e del resto quest'evidenza immediata è indicata da Platone
anche esplicitamente, quando chiama il Bene il più chiaro dell'essere. La
filosofia progressiva – GRICE OXONIAN DIALECTIC AS PROGRESS --, che va dal
primo principio alle sue conseguenze, suppone, come antecedente, la filosofia
regressiva che va dalle conseguenze al
primo princìpio; perchè è una legge del
nostro spirito, che nessun filosofo apriorista ignora, che la nostra conoscenza
cominci dall'esperienza – A DULL FIRST STAGE GRICE. Le ipotesi devono essere
ricondotte al principi gradualmente, cioè deducendo un'ipotesi da un'altra
ipotesi superiore, e così di seguito, sinché si giunga al principio che non è
uua ipotesi. Questo è il processo ascensivo della dialettica filosofia regressiva: il processo discensivo
filosofia progressiva percorre gli stessi gradi in senso inverso, ritrovando
sui suoi passi le ipotesi precedenti, ma trasformate in verità razionali e
necessarie. La corrispondenza di questi due processi C(m la
sinagoge e la dieresi è una delle prove più evidenti della nostra
interpretazione della dialettica platonica. 1 caratteri del metodo platonico
che abbiamo per la geconda volta
enumerati, sono dei caratteri generali del realismo dialettico, essi derivano,
come vedremo in seguito, dallo scopo stesso di questa metafìsica, cioè di
realizzare, per 1'obbiettivazione dei concetti, l'idea di causa efficiente,
trasformando in una connessione ontologica la connessione logica introdotta fra
questi concetti. Oltre il metodo direttOj di cui abbiamo parlato sin qui, vi ha nella dialettica
platonica un metodo ini f Bep, luoghi riportati Rep. Rep. Fedone e Rep.
Rep. . itesa %Vii N diretto, di cui parleremo in questo paragrafo. Questo
secondo metodo, che è un complemento indispensabile del primo, è indicato ed
esemplificato nel Parmenide. Esso consiste, alla epichereisi del VELINO GRICE
R. A. A a sviluppare le conseguenze contradittorie implicate in un'ipotesi data,
e Parmenide di VELIA che dà il nome al dialogo, e ne è il protagonista lo
applica alle due ipot43si opposte che si possono fare sull'uno, cioè che «siste
e che non esiste. Prima IL VELINO (vedasi) ha letto un suo scritto in cui
confuta 1'opinione comune che vi hanno molti esseri, dimostrando che da
quest'ipotesi ne seguirebbe necessariamente
una cosa impossibile, cioè che i molti esserì avrebbero al tempo stesso
degli attributi contradittori. Parmenide raccomanda, come un mezzo
indispensabile alla scoverta della verità, di esercitarsi nel metodo praticato
dal VELINO, ma apportandovi due modificazioni: l'una di applicarlo, non agli
oggetti sensibili, ma alle Idee. Platone suppone in questo dia» lo^o, come fa
anche del resto implicitamente nel
Sofista e nel Politico, che Parmenide e gli Eleati in generale ammettono il
sistema delle Idee; e l'altra di esaminare non solo le conseguenze che derivano
dall'ipotesi che una cosa o a dir meglio, un'Idea esista, ma anche quelle che
derivano dall'ipotesi che essa non esista. Per esempio, se vuoi prendere
l'ipotesi che ha fatto IL VELINO^ se la pluralità esiste, bisognerà esaminare ciò che avverrà alla pluralità per
se stessa e nel suo rapporto con l'unità, e ciò che avverrà all'unità per se
stessa e nel suo rapporto colla pluralità; e ancora bisognerà di a. nuovo esaminare, se la
pluralità non esiste, ciò che avverrà e air unità e albi pluralità tanto per se
stesse quanto nel loro rapporto reciproco. Così pure, se si sup[>one che la
somiglianza sia o non sia, bisoonerà
vedere ciò che avverrà tanto nell'una (|iianto nell'altra ipotesi, e a
ciò che si è supposto, e alle altre cose, sì considerati per se stessi che nei
loro rapporti reciproci. E lo stesso si dica della dissoni ìc^lian za, del moto
e dello stato, della generazione e della corruzione, dell'essere stesso e del
non essere. E in una parola, che che tn
supponga, sia esistente sia non esistente sia avente qualsiasi altro attributo, bisognerà esaminare ciò che
gli avverrà e per se stesso e relativamente a ciascuna delle altre cose che
sceglierai, e a molte e a tutte egnalmcMite; e poi ancora ciò che avverrà alle
altre cose, e i)er se stesse e relativamente a quella che avrai ])resa, tanto
nell'ipotesi che esista quanto in quella che non esista, se vuoi, perfettamente
esercitato, j)enetrare a fondo la verità. Per far comprendere meglio questo
metodo, cedendo alle preghiere di Socrate e degli altri astanti, Parmenide ne
dà un esempio applicandolo alPIdea deirunità. Egli suppuue dunque prima che
l'uno esista, e poi che esso non esista; e deduce egualmente, tanto dall'una
quanto dall'iti tra ipotesi, che l'uno e le altre cose, sì considerati in se
stessi che nei loro rapporti reciproci, hanno al tempo stesso degli attributi
contrari e non hanno nessuna di questi attributi. Le deduzioni di Parmenide non
sono che dei sofismi sottili, il più spesso nemmeno speli)ciosi: la seconda
ipotesi non è trattata meglio della prima; la (lertuzioue nell'una è
altrettanto sofistica che nelraltra. La più parte degli interpreti hanno
torturato il l armeiiirte per .crearvi
nn risultato dogmatico e positivo,, credendo
che bisogni vedervi qualche cosa di più di ci«> per eui lo dà lo stesso Platone, cioè
di nn semplice esercizio dialettico. Noi uon dobbiamo tener conto delle
interi)retazi<.ni arbitrarie che
pretendono di scoprirvi un senso riposto diftorme dal suo significato
letterale, quali sono quelle dei neophitouici, di Hegel e dogli hegeliani, di
Fouillèe, e in una parola di tutti gli autori che hanno interpretato Platone
col proposito di trovarvi delle /jrofonde verità, cioè, nella nngliore ipotesi,
le loro proprie dottrine filosofiche. Faremo solamente un'osservazione suir
interpretazione di Hegel, che vede nella diakttica del Parmenide di VELIA la
dottrina dell'identità dei contrari. Hegel ha compreso la profonda affinità tra
il suo proprio eistenia e quello di Plat<.ne: sono infatti due esemplari d'uni, stesso tipo, quella
metafisica che noi chiamiamo realismo dialettico. Ma questo tipo nei due
sistemi si realizza di maniere differenti, che Hegel ha il torto di voler
identificare. 1/ idea generale della dialettica BERLINIAN DIALECTIC LA
DIALETTICA DI HEIDELBERG, comune tanto a Platone (pianto ad Hegel, è quella At
un metodo a priori, in cui i concetti
obbiettivati si deducono gli uni dagli altri – GRICE: STRICTLY MOORE
BELONGS IN CANTABRIAN DIALECTIC --, in
modo che questo processo logico di deduzione sia al tempo stesso uno sviluppo
ontologico, una filiazione di questi ctmcetti obbiettivati. Ma V. per .«euivio lU ne la a ipotesi o nella 2
ipotesi. quest'idea generale nei due sistemi si realizza di maniere
differenti. Il principio dell'identità
dei contrari nel sistema di Hegel è legato alla forma speciale del suo metodo
di dedurre i concetti, che consiste a passare da un concetto al suo opposto e
poi a un terzo che li coucilii Ma questo principio non potrebbe avere alcuna
funzione nella dialettica platonica, perchè questa deduce i concetti passando
dal geneiale ai particolari subordinati. Un metodo come quello praticato nel Parmenide, cioè che
consiste a dimostrare la coesistenza dei contrari in uno stesso soggetto, non
può crmiprendersi altrimenti che come metodo confutativo. E d'altronde
Parmenide dice espressamente che questo metodo non è che quello che è stato
praticato da Zenone *ora lo scopo di Zenone è stato di dimostrare che è
impossibile che vi 43Ìano molti esseri, percliè
è impossibile ch'essi abbiano degli attributi contrari. Più speciose,
per conseguenza, che le interpretazioni |»rece.lc*n temente indicate, sono
quelle di Zeller, di TOCCO (vedasi) e di altri critici, che vedono nella 2.
parte del Parmenide una riduzicme all'assurdo – R. A. A. GRICE -- delle due
tesi opposte sull'uno, per istabilirne indirettamente una terza, che Platone
non enuncia esplicita La parte
dialettica del Parmenide, cioè quella die deduce le conseguenze contraddittorie
derivanti dalle due ipotesi sull'uno, -è preceduta da una prima parte che
contiene delle obbiezioni eontro la teoria delle Idee. I critici di cui
parliamo ammettono <5he ciò che forma il legame tra le due parti del
dialogo, è che il risultato indiretto della 2. parte . cioè della <lialettca,
è una nuova concezione delle Idee, che
evita le obbiezioni della 1. parte, modificando il rapporto fra le Idee e le
cose. Questo concetto non ha più alcun fondamento nella nostra interpretazione
delle Idee ohe dimostriamo largamente nel Snpplem., perchè esso suppone r
interpretazione Irascendenialisln,
li-""• mente, ma che lascerebbe nondimeno intravedere. L'idea in cui
s'impernia quest'altro modo
d'interpretare il Parmenide, consiste in sostanza a considerare la prima
ipotesi esaminata dal filosofo eleate se l'uno è-come l'equivar lente della
tesi stessa della filosofìa eleatica, cioè che tutto è uno, o che l'uno solo
esiste coll'esclusione del molti. Ma il concetto primitivo da cui esso muove,
cioè che la parte dialettica del Parmenide è la confutazione di certe tesi per
istabilirne indirettamente qualche
altra, potrebbe anche dar luogo ad un'altra interpretazioue, che indicheremo
quautunque non sia stata proposta da alcuno^ perchè, fra tutte le
interpretazioni di questo genere, sarebbe la meno apertamente contraria al
significato evidente delle due ipotesi esaminate da Parmenide. Essa
consisterebbe ad ammettere che se l'analisi della prima posizione: V»mo è, arriva a delle conseguenze contraddittorie,
ciò è, secondo Platone, perchè il contenuto del concetto dell'uno è stato inesattamente determinato, e che così
tutta la parte diiilettica del Parmenide avrebbe per risultato indiretto una
determinazione più esatta di questo contenuto. Ma contro tutte in generale le
interpretazioni che vedono nella 2. parte del Parmenide una dimostrazione
ex absurdh di una tesi qualsiasi, sta il
fatto incontestabile che le due ipotesi opposte esaminate dal filosofo eleate,
se l'uno esiste e se l'uno non esiste y sono due proposizioni rigorosamente
contraddittorie, che non lasciano alcuna possibilità ad una terza proposizione
intermedia. E infatti Parmenide ha detto che l'esercizio, dialettico eh'egli
propone a Socrate, consiste ad esaminare, dopo le conseguenze dell'esistenza di
V. Zeller Filos. dei
Greci, TOCCO (vedasi) Ricerche
ptatoniche – cf Grice on Hardie’s masterpiece on Plato!. 1 ciascun
concetto V Uno, il Molti, la Somiglianza, la Dissomiglianza, ecc. quelle ancora
della non esistenza dello stesso concetto. Conformemente a questo principio,
egli esamina prima ciò che accadrà se
1'Uno esiste, e poi ancora ciò che accadrà se lo stesso Uno non esiste. L'Uno
non vuol dire 1'Uno di VELIA o Dio o le Idee in generale o qualsiasi altro
concetto simile, platonico o non platonico, che gl'interpreti hanno immaginato
o potrebbero immaginare. L'Uno vuol dire semplicemente l'Idea dell'unità, ciò
che i concettualisti chiamano il concetto dell'unità, realizzato, in altri termini quest'attributo,
che noi intendiamo indicare chiamando una cosa una, obbiettivato e considerato
come un'entità unica esistente per se stessa «rrò xuO' abvó. E infatti
Parinenide ha detto che il metodo, che poi ay)plica all'uno, deve applicarsi
alle Idee. Conformeniente al principio che ha stabilito, quantuuqi'C dica che
comincerà per la sua propria ipotesi,
quest'uno della cui esistenza o non esistenza esamina le conseguenze,
non è 1'uno eleatico, che è un'unità concreta cioè un essere concreto che ha
per attributo l'unità, ma l'unità astratta, l'attributo stesso separato dagli
oggetti concreti a cui appartiene, in una panda l'Idea dell'uno. Cosi 1'uno di
cui è quistione è chiamato slòo" e alzò
rò tV , espr«'8si<mi che, come sr sa, designaiuo lo Idee. Così ancora dal concetto di quest'uno
si escludono tutte le note che non entrano nel puro concetto dell'unitùy
separando questo concetto da tutti gli altri concetti distinti, p. e. l'essere,
l'identità, la diversità; e da una moltitudine di luoghi si vede evidentemente
che l'uno di cui si tratta non è che l'entità che è presente in tutti gli
oggetti a cui applichiamo il nome uno, o in altri termini, alla quale questi oggetti partecipano. Non è
quistione in sostanza che dell'unità matematica, vale a dire quella per la cui
ripetizione Ai il Questo è il puiìt» che
bÌROcrna anzitutto fissare, se vogliamo realmente interpretare il Parmenide e
non fare si forma il numero, cousidenita naturalmeute, non come una semplice
astrazione, ma come un'astrazione realizzata. Alcuni critici,
dall'analogia d'un luogo del Sofista
contro l'uno di VELIA in cui si dice clic se questo fossa veramente uno, uou
dovrebbe avere uè parti nò figura col eominciamenta della la ipotesi del
Parmenide in culle stesse determinazioni si escludono dall'uno di cui si tratta
in questo dialogo. hanno conolu-io che la 1.
parte della 1. parte di
quest'ipotesi ò una confutazione dell'uno eleatico. Mu è evidente che in tutto
il dialogo è quistione di uno stesso uno: come in un»v parte si parlerebbe
dell'uno eleatico, se in tutto il resto si parla dell'Idea dell'uno ì Nt»n è
sorprendente d'altronde che Platone nel Sofista deduca dall'uno eleatico la
stessa conseguenza che nel Parmenide deduce dall'Idea dell'uno, perchè la
deduzione nel primo dei due dialoghi è fondata sulla identificazione arbitraria
dell'imo eleatico a una pura astrazione,
a ciò che Platone chiama l'uno stesno. in altri termini all'Idea dell'uno vi si
dice in sostanza che se l'uno è di figura sferica, come vuole Parmenide, esso
ha delle parti e iiuindi non può essere veramente uno, perchè ciò che è
veramente uno, cioè 1'uno alesai lò cV
aitò non può avere delle parti. Ma come può dire Parmenide, mentre si tratterà
dell'Idea dell'uno, ohe comincerà
dalla sua propria
ipotesi, cioè dall'uno eleatico] Ciò
dipende forse da
qualche cosa di più che
l'affinità dei due concetti e l'identità della forma verbale con cui si
esprimono {V uno). Platone
attribuisce a Parmenide e agli Eleati
in generale la teoria
delle Idee ciò ohe secondo me non
è una semplice finzione drammatica (v.
Sappi, pilagor. nel Timeo e nel Fileho-:Qg\i deve dunque, tra le
dottrine conosciute dei VELINI, cercarne qualcuna che si presti a questa
interpretazione arbitraria della loro filosofia. Il loro Uno e il loro Ente,
sia perchè designati con dei nomi che sembrano sostantificare degli una
costruzione arbitraria. Le due ipotesi esaminate nella 2* parte del dialogo non
sono né più né meno che queste: «piest'entità che corrisponde al termine nuo
esiste; quest'entità non esiste. Parmenide non dice: quali conseguenze si
avranno se ammettiamo che quest'uno è tutto, o che esso solo esiste, e non i
molti? Egli non determina nemmeno il concetto dell'uno d'una maniera particolare
per poi esaminare le conseguenze che derivano da questa determinazione: V’uno
non é preso che nel significato
ordinario di questo termine, a cui non bisogna che aggiungere, conforuìemente
ai principii del sistema platonico, le condizioni generali (eli'
obbiettivazione dei concetti. Non vi ha
oltre di ciò, nelle due ipotesi esaminate, alcun presupposto, né espresso né
sottinteso. Le conseguenze che se ne svolgono, nascono semplicemente dalle
supposizioni che l'unità abbia o non abbia
una realtà obbiettiva nel senso che queste parole hanno uel sistema
deJle Idee: esse ne nascono per via di ragionamenti certamente capziosi, ma
suftìcienteinente intelligibili per se stessi, e senza sottintendere qualche
altra supposizione p. e. clu^ 1'uno é tutto, o che esso attributi, sia perchè
immutabili e ultrafenomenali quantunque immanenti come le Idee platoniche,
diventan«>. nel T interpretazione di
Phitoue, l'Idea dell'uno e dell'ente. Su' questo concetto si troveranno più
sviluppi nel Suppl. Pilay. nel l'ini, e nel FU.: qui noteremo che il processo è
al fondo lo stesso che quello ohe abbiamo osservato nella confutazione «Iella
dottrina eleatica nel luogo citato del Sofista. Come può r ipotesi che 1'uno è
equivaler* . come dice Zeller, a quella che tutto è uno, o, come dice TOCCO ((vedasi), che l'uno soltanto è –
L’APORIA DI TOCCO. quando Parmenide esamina lungamente ciò che avviene all'uno
nei suoi rapporti con le altre cose e ciò che avviene alle altre cose in se
stesse e md loro rapporti con l'uno l / solo esiste con l'esclusione dei molti,
o che il concetto deirunità si deve determinare d'una maniera piuttosto che
d'un'altra. Se la dialettica del
Parmenide miu* il)lu verità uua parte delle nr^omoutazioDi del
Pariueuide suppougoDo una certa detenuinazioue del cimoetto dell'imo, che lum
eutra nel significato comune di questo termine: è che, conformemente alla 8ua
abitudine di elevare le Idee airassoluto Suppl., Platone intende per unt»
un'unità assoluta, pura, senz'alcuna mescidanza di pluralità |v. la 1& parte della 1» parte della 1^
ipoteai e, nella 2^* parte della stessa ipotesi. mentre gli oggetti a
cui attribuijimo r unità sono generalmente delle unitii che contengono una
pluralità. È la prova migliore clic può invocare in suo appoggio l'opinione
secondo cui lo scopo della parte dialettica del Parmenide è di conciliare
l*unità con la moltiplicità e specialmente l'interpretazione clic abbiamo
supposto, secondo cui questa parte del
dialogo avrebbe per risultato indiretto una determinazione più esatta del
concetto dell'unità. Ma questa determinazione dell'uno coinr esclusivo di qualsiasi moltiplicità non
è supposta ohe da una parte solamente delle deduzioni della 1» ipotesi: la più
parte sono indipendenti da questa supposizione; basterà di citare quellc che
abbiamo già citato nella nota del
))aragiiilo ^da 1. Da un altro canto essa è abituale a Platone, e si
trova, ntui solo nella Repubblica, ma ji nelle nel Sofista, che è posteriore al
Parmenide perdio vi alliule jciò che basterebbe ad escludere che questo dialogo
iib)>ia per iscopo di ctunbatterbi,
per sostituirgliene un'altra. Del resto questa determinazione del concetto
deiruuità non è, eome abbiamo notat<i
. che un caso di un processo
generale che Platone applica a tutta una classe d'Idee p. e. oltre l'uno,
all'ugujile. al retto, al GIUSTO – H. P. GRICE, Phlosophical Eschatology and
Plato’s Republic --, ecc.; processo che si può osservare in tutti gli
s(n'itti platonici, fra cui lo stesso
Parmenide, e che è supposto nella polemica «l'Aristotile, il quale, come si sa,
esp<me e critica il sistenui delle Ideo nella sua fonua definiti v» i\. Suppl. rasse a un
risultato, questo non potrebbe essere dunque che negativo: quando la tesi e
l'antitesi formano un'al ternativa completa, e si dimostrano non pertanto
egualmente assurde, 1'unica conseguenza che se ne possa tirare è che la
conoscenza è impossibile e che la ragione s'inviluppa in contraddizioni
insolubili. Sarebbe inutile, da altra parte, diniostrare che questa non può essere r opinione di Platone.
Noi dobbiamo aggiungere, contro ogni interpretazione che attribuisce alla parte
dialettica del Parmenide l'intenzione di giungere a un risultato qualsiasi,
positivo o negativo, che la più pajte delle argomentazioni sono dei sotismi
così evidenti, che è impossibile di ammettere che Platone se ne sia servito sul
serio per dimostrare una tesi qualunque.
Ed è notevole che, come abbiamo osservato, le deduzioni dell'i, 2*» ipotesi se l'uno non esiste non sono meno sofistiche
che quelle della 1*. L'unico mezzo che ci resterebbe per ammettere che la
dialettica del Parmenide mira a un risultato positivo, sarebbe di supporre che
Platone non fa sul serio che le deduzioni di una sola ipotesi. Delle due
ipotesi egli deve ammetterne una, e noi
sappiamo qual è; ma dalla 2*^ parte del
Parmenide sarebbe impossibile di deciderlo. Ma da questo fatto incontestabile,
che la 2* parte del Parmenide è un
semplice esercizio dialettico, che non può condurre, né direttamente, né
indirettamente, a stabilire una tesi qualsiasi, se ne deve concludere, come
fanno Grote ed altri interpreti, che 1'autore non ha alcun proposito dogmatico? Questa interpretazione, che sopprime
interamente il valore fìlosofico del dialogo, è pertanto la più ovvia nella
maniera ordinaria di intendere la dialettica platonica. 11 proposito dogmatico,
o in altri termini, il valore tìlosotico della dialettica del Parmenide, non si
comprende che mettendola in rapporto <5on la dialettica propriamente detta,
cioè con la dieresi. ti Esso deve cercarsi, non nei risultati a cui quel metodo
conduce, ma nei presupposti che esso implica, i quali sono quegli stessi che
presuppone la dieresi. La dialettica platonica è fondata su tre principii. Che
l'esistenza deir Idea del Bene può stabilirsi A PRIORI, ed è per conseguenza
una verità necessaria. Che data l'Idea del Bene sono date necessariamente tutte
le specificazioni possibili di
quest'Idea (poasibili vuol dire che non racchiudono una impossibilità
logica Ciò, posta che l'esistenza dell'Idea del Bene è una verità A PRIORI e
per conseguenza necessaria, implica che anche resistenza di ciascuna delle
specificazioni possibili di (piest'Idea è una verità ujjcualmente A PRIORI e
per conseo-uenza necessaria. Che l'Idea del Bene è l'Idea di tutte le Idee, il
tipo comune di tutti gli esseri; in
altri termini che tutto ciò che esiste, ogni Idea, ogni forma dell'esistenza, è
una fonna determinata o, come abbiamo detto, una specificazione dell'Idea del
Bene. Anche questo terzo principio è una verità A PRIORI e necessaria: infj\tti
esso è uno dei punti fondamentali della dialettica, cioè della scienza quale la
concepisce Platone, e, secondo lui, ogni verità scientifica deve essere A PRIORI e necessaria. Segue dai
tre principii riuniti che, sec<mdoPlatone, tutto ciò che esiste è necessario
che esista, e La necessità e apriorits\ «Iella proposizione che tutto ciò che è
è bene, risulta del resto dalla riduzione dell'Idea del Bene a quella
dell'Essere. Per questa riduzione infatti le divisioni dell'Essere saranno la
stessa cosa che «{uelle del Bene, e quindi tutte le forme possibili cioè concepibili dell'essere
la stessa cosa che tutte quelle, del bene. sarebbe logicamente impossibile che
non esistesse; e viceversa che tutto ciò che non esìste è necessario che non
esìsta e sjirebbe logicamente impossibile che esistesse. Tutto ciò che esiste^
tutto ciò che non esiste non significa ogni essere particolare, ma ogni
f«>rma generale dell'esistenza, ogn'Idea, che esiste o che non esiste. Nel generalo dunque,
secondo Platone, tutto ciò che è reale è necessario, e tutto ciò che non è
reale è logicamente impossibile, e per conseguenza questi tre termini, possibile,
reale e necessario, sono, c;)me abbiamo detto altra volta, perfettamente co-estensivi.
Ciò è vero tanto del sistema di Platone quanto di ogni altra forma di realismo
dialettico, anzi, in generale, di ogni filosofia che eleva il metodo A
PRIORI a metodo scientifico universale. Questi presupposti della dieresi
platonica, che ciò ciie è reale è necessario, e ciò che non è reale è
logicamente impossibile – NOTHING CAN BE READ AND GREEN ALL OVER GRICE – A
PRIORI, but not analytic! --, sono quegli stessi che presuppone il metodo del
Parmenide. Questo m-todo c;)nsiste intatti a sviluppare le contraddizioni che
derivanr) dall'ipotesi dell'esistenza o da quella della non esistenza. Ma se
dall'ipotesi dell'esistenza di una cosa derivano delle conseguenze
contraddittorie, che altro può ciò provare se non che è impossibile che quest i
cosi esista? E se le conseguenze contraddittorie derivano invece dall'ipotesi
della sua non esistenza, che altro si dimostra con ciò se non che è neces-iarit» che la cosa esista?
Il metodo del Parmenide implica dunque questi presupposti: che l'esistenza
d'un'Idea che esiste può dimostrarsi facendo vedere che dall'ipotesi della sua
non esistenza risultano delle conseiruenze contraddittorie: e che, viceversa,
la non esistenza d'un'Idea che non esiste può dimostrarsi facendo vedei-e che
le conseguenze contraddittorie risultano
dall'ipotesi della sua esistenza – il R. A. A. di VELIA e GRICE -- Per noi
l'esistenza o la non esistenza delle specie o forme generali degli oggetti,
altrettanto che degli stessi oggetti
particolari, sono cose di fatto, che non possono stabilirsi che con
prove tìi fatto: per Platone sono delle verità necessarie ed A PRIORI, che
possono dimostrarsi per le conseguenze contraddittorie <5he derivano dalle ipotesi contrarie – il R. A.
A. di VELIA e GRICE. Bisogna distinguere il metodo ettfettivamente seguito nel
Parmenide e quello ohe deve seguirsi e di cui il primo non dà che un esempio
per farlo comprendere. Il metodo ettettivameute seguìto, cioè V esercizio
dialettico sull’uno, è, come lo chiama Platone, un giuoco che somiglia a una
cosa seria {jifìay^aismórig naióià^ .
Nel giuoco le conseguenze contraddittorie si deducono taut4> dall'una quanto
dall'altra delle due ipotesi contrarie, e la deduzione non può essere, anche
per Plaloue, che un tessuto di sofismi – GRICE – PHILOSOPHER’S PARADOX – We are
all alone.. I
hated it when that scot of a tutor I suffered at Corpus led me perversely to
self-contradiction! La
cosa seria è il metodo indiretto per dimostrare o rigettare le Idee: esso deve
essere una vera dimostrazione, e le conseguenze contraddittorie non può dedurle
che da una sola ipotesi, da quella della non esistenza se l'Idea deve
ammettersi, da quella dell'esistenza se deve rigettarsi GRICE VELIA R. A. A..
Se i due processi il <jiaoco e la
cosa seria differiscono, è perchè Platone non vuol dare un'applicazione reale
del suo metodo, ma un semplice esempio che ne faccia comprendere il meccanismo.
La 1» parte dell'esercizio dialettico sull'uno è un esemiùo forse sarebbe
meglio dire: un'immagine-dei metodo indiretto per dimostrare l'esistenza delle
Idee che esistono; la 1* parte un esempio dello stesso metodo per dimostrare la
non esistenza di quelle che non esistono GRICE NEGATION AND PRIVATION R. A. A.
VELIA. I due esempi sarebbero più
chiari, se volgessero su due Idee distinte: volgono su una sola e stessei
Idea i>er escludere la possibilità di
un risultoAto, e mostmre che si tratta
di un giuoco, e non della cosa seria che esso rappresenta. Se si domanda perchè
Platone, invece di fare un'applicazione reale del suo metodo, si limita a darne
un esempio imperfetto, che non ne manifesta che il meccanismo esteriore, la
risposta non è difficile: è che quest'applicazione non si sente in grado di
farla. Il metodo proposto nel Parmenide è un'utopia assolutamente
irrealizzabile, perchè 1'esistenza e la non esistenza si stabiliscono, come
abbiamo detto, con prove di fatto – GRICE: SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE, e non
per lo sviluppo delle contraddizioni inerenti alle ipotesi contrarie, o per
qualsiasi altro metodo A PRIORI. Platone
ben s'accorge che le applicazioni eh' egli può fare del metodo che immagina,
non corrispondono all'ideale che si è formato, e che cercando delle
dimostrazioni, egli non trova che dei ragion<amenti sofistici. Per
conseguenza egli si contenta di un esempio, che invece di una vera
applicazione, sia, come abbiamo detto,
un'immagine del suo metodo, in modo che 1'assenza dell'intenzione di concludere
scusi il carattere sofistico della deduzione. È qualche cosa di simile a ciò
che fa nel Sofista e nel Politico: anche qui non abbiamo un'applicazione reale
del metodo, ma un'immagine imperfetta che non ne esprime che la forma, perchè
la dicotomia non viene applicata alle vere
Idee – SOME LIKE WITTERS BUT MOORE’S MY MAN – Grice: Give me a Paddy
over a jew boy anyday! --, e non ha quindi vero valore scientifico. Il
metodo dialettico, tanto diretto quanto indiretto, non è per Platone che un
ideale, certamente attuabile in se stesso, ma ch'egli ha la coscienza di non
poter attuare, Queste considerazioni spiegano pure perchè il metodo per
dimostrare l'esistenza e quello per
dimostrare la non La dieresi, come sappiamo, noD si applica clie alle Idee – we
are not lobotomists, or co-operative grammarians!, ed è
UQ 'esigenza del sistema delle Idee, come Platone ammette espressamente
nell'ultimo periodo della sua speculazione ohe non vi siano Idee che di ciò che
vi ha di costante e di perpetuo nella natura. Grice: “Whereas Plato applied the
Dieresis to ideas only, Austin – with his Oxonian dialectic – extended its
range to words – important ones! – co-operation. Per conseguenza, come non vi hanno Idee degli oggetti NON-NATURALI
artificiali – Grice: “NON-NATURAL meaning does not look like an item in the
word – it’s fiat thing!” --, non vene
dovrebbero essere, per la stessa ragione, delle arti, che intanto sono l'oggetto delle dieresi nel
Sofista e nel Politico. Filebo '>esistenza si applicano, nel Pannenide, a
una sola e stessa Idea. Ciò non è solamente, come abbiamo detto, per mostrare
Fassenza d'un'intenzione seria. Se Platone avesse supposto la non esistenza di
uu^Idea reale per dare nn «sempio del metodo per dimostrare l'esistenza, e
l'esistenza iV un'Idea chimerica – PEGASUS -- [)er darne uno del metodo per
<limostrare la non esistenza, il carattere necessariamente sofistico della
deduzione avrebbe dato un indizio della inattuabilità di questi metodi – Grice:
“I suspect that was the case when I introduced Quine to Marmaduke Bloggs – his
reply was so terse!” -- “But then he had
already been offended by mine and Strawson’s neighbour’s three-year old who was
an adult!” -- Perciò egli preferisce un esempio in cui sia esclusa
assolutamente la posSibilità di giungere a un risultato, qual è quello di
sui>porre prima l'esistenza e poi la ntui esistenza della stessa Idea
–Grice: “Timothy’s playmates thought the idea of a sweater red and green all
over – no stripes or spots allowed – was absurd rather than, as I was
expecting, synthetic A PRIORI -; così questo carattere sofìstico della
<ledu/ione senibreni una conseguenza inevitabile, non dell'inattuabilità dei
mètodi in se stossi, ma delle condizioni anormali in <5ui si praticano. In
conclusione la dottrina racchiusa, quantunque non espressa esplicitamente, nel
Parmenide, è questa: che la non esistenza di ciò che è reale prendendo il reale
nelle sue forme generali e l'esistenza di ciò
che non è reale sarebbe un' iiìi possibilità logica; e che, per
conseguenza, r esistenza o la non esistenza d'un'Idea può essere dimostrata,
mostrando che dall'i|K)tesi contraria – GRICE R. A. A. VELIA -- derivano
conseguenze contraddittorie fra di loro. La seconda proposizione non è in
verità una conseguenza necessaria della prima, ma da questa a quella il
passaggio non è diftìcile, perchè,
un'impossibilità logica essendo una nozione che riunisce degli elementi
incompatibili – GRICE SHAFFER’S OR SOME OF THE STROKES, or Wiggins’s OTHER THAN
--, dalla proposizione che un'ipotesi è un'Impossibilità logica non vi ha gran
distanza a quella che quest'ipotesi trascina con sé delle conseguenze
contraddittorie. Questa dottrina del Parmeni<le si ritrova in parte nel Fedone, in cui si dice che bisogna
controllare l'ipotesi dell'esistenza d'un'Idea, esaminando se le conseguenze
che ne derivano si accordano o non si accordano fra di loro. Ciò corrisponde al
principio del Parmenide che l'esistenza d'un'Idea erroneamente ammessa
trascinerebbe conseguenze contraddittorie. Ma sin qui il metodo non avrebbe che
una portata negativa GrICE NEGATION AND PRIVATION. La trasformazione essenziale
del metodo del VELINO, che da negativo lo muta in positivo, è l'altro principio
che le conseguenze contraddittorie derivano pure dalla non esistenza d'un'Idea
reale. Per questa trasformazione la dialettica distruttiva dei VELINI diviene
costruttiva, cioè un metodo indiretto per diuìostrare A PRIORI le Idee, che,
come spiegheremo in seguito, è un complemento indispensabile del metodo
diretto, cioè della dieresi. L'altra modificazione del metodo del VELINO
(vedasi), cioè che esso deve applicarsi alle Idee e non albi cose sensibili –
GRICE: SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE --,
risulta dal concetto della dialettica platonica in generale. Tanto il
metodo diretto quanto il metodo indiretto hanno
per oggetto ciò che è necessario e conoscibile A PRIORI; ora tale ijon
può essere ciò che è peril)ile e particolare, ma ciò che è immutabile ed
universale, e questo è l'Idea platonica. Nella sua parte negativa cioè in
quanto sviluppa le contraddizioni implicate nell'ipotesi dell'esistenza d'Idee
che non esistono il metodo indiretto del Parmenide è una riprova dei risultati
del metodo diretto, cioè della dieresi,
e di uno dei principii fondamentali che questo presuppone, cioè che tutto ciò
che esiste non è e non può essere che una forma del Bene. La sua applicazione
più ovvia, in questa parte negativa, sarebbe di dimostrare l'impossibilità di
certe specie – CENTAURI, CAVALLI ALATI -- di un genere, che sembrano possibili
quantunque non siano reali. La dieresi sarebbe
già una dimostrazione di ciuest' impossibilità, perchè esaurendo essa,
non la sola estensione reale^ Fedone U.
..., -r-" ma tutta la estensione
logica del genere – CIRCOLO QUADRATO --,
escludere queste specie dalle divisioni è mostrare che esse, non sola
non esistono, ma è impossibile d'un'impossibilità logica che esistano. Ma con tutto ciò si
presenterebbe sempre naturalmente la
quistione: se tutte le specie possibili – CHIMERA – l’IPPOCERVO di CROCE
-- dell'animale devono esisterò, perchè NON esiste il centauro, la chimera, l’IPPOCERVO
di CROCE, il circolo quadrato di Meinong – citato da Grice -- o
qualsiasi altra specie che noi possiamo immaginare, quantunque non la
troviamo nella realtà – NOT A SWEATER WHICH IS GREEN AND RED ALL OVER – NO
STRIPES OR SPOTS ALLOWED f Platone rispondere che il centauro, la chimera,
l’IPPOCERVO di Croce, il circolo quadrato di MEINONG, il sweater di Grice che e
‘red and green all over (no stripes or spots allowed) -- e qualsiasi altra >^pecie immaginabile –
SYNTHETIC A PRIORI --, ma non reale, è
un concetto incoerente e implicante delle contraddizioni, che il metodo del
Parmenide svilupperebbe – Grice’s neighbour’s thre-year old adult -- in una
serie di coppie di attributi contraddittori – as in Grice’s example: the
inventor of the synthetic analytic, who was Leibniz, was not Leibniz! La
quistioue è tanto più naturalo, che la divisione dicotomica per contrari senza
medio non potrebbe jrinnijere, come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, che a formare delle classi, di cui alcune sarebbero detìnite per semplici
negazioni, e tutte per dei caratteri, che potrebbero bastare a distinguere
ciaBcuua chisse reale da tutte le altre, ma che non detìn irebbero questa
classe in modo che la definizione convenisse alle sole forme reali e non a
forme ipotetiche più o meno ditferenti dalle reali. A ciò Platone risponde
senza dubbio che per determinare d'una
maniera completa la natura di ciascuna classe alla PEANO, e mostrare così ohe
non vi hanno altre forme possibili che le reali . ai caratteri ottenuti per la
dicotomia si devono aggiungere altri caratteri ohe ne sono inseparabili e che
hanno con essi un legame necessario e CONOSCIBILE A PRIORI. Sarà forse utile di
ravvicinare le soluzioni ohe Platone ha
dato o ha potuto dare di queste difficoltà della sua dieresi, con certe idee di
un zoologo filosofico, cioè di Cuvier il quale ha in comune con Platone, oltre
al punto di vista teleologico o finalista – metier mestiere ministerium, una
tendenza evidente air apriorismo, tanto pit che, come abbiamo osservato, la
concezione delle Idee platoniche è modellata sovratutto sulla natura vivente nota.
Noi abbiamo parlato della dottrina Nella
sua parte positiva cioè in quanto mostra le conseguenze contraddittorie
derivanti dall'ipotesi della non di Cuvier della connessione dei caratteri negl’esseri
organizzati Appendice: abbiamo visto ohe essa è fondata sulla necessità di una
cospirazione armonica tra le funzioni o METIER e gli organi dell'animale
cospirazione armonica che sarebbe un caso
di ciò che Platone chiama 1' Idea del Bene TIGERS TIGERISE; e che le leggi che
esprimono queste connessioni di caratteri sono, secondo l'autore, altrettanto
necessarie e A PRIORI che le verità matematiche, come 7 + 5 = 12. Da tiuesto
principio della connessione necessaria dei caratteri Cuvier ne deduce ohe si
può dimostrare A PRIORI la necessità ICHTYOLOGICAL NECESSSITY di certe
interruzioni nella catena dei pesci e degli esseri, per l'impossibilità A
PRIORI l’ornitorrinco che certi caratteri coesistano, cioè che certi organi si
trovino ECO KANT L’ORNITORRINCO simultaneamente nello stesso organismo.
Così nella lezione ya dell’Anatomia
comparata, dopo aver indicato nell'art. le principali differenze di cui sono
suscettibili gli organi che servono a
ciascuna funzione animale, dice. Si vede che supponendo ciascuna delle
differenze d'un'oigano unita successivamente con quelle di tutti gli altri, si
produrrebbe un numero considerevolissimo di combinazioni – GRICE: BYZANTINE!, che corrisponderebbero ad altrettante classi –
CICERO: classe, l’unica entita atratta -snob! -- di animali. Ma queste
combinazioni, che sembrano possibili quando si considerano d'una maniera
astratta, o matematica come preferisce Grice, noi' esistono tutte nella natura,
perchè, nello stato di vita, gli organi non sono semplicemente ravvicinati, ma
agiscono gl’uni sugl’altri, e concorrono tutti insieme ad uno scopo comune – il
metier de la conversazione Perciò le
raodifioazioui dell'uno esercitano un'influenza su quelle di tutti gli altri. Quelle di queste
modificazioni che non possono esistere insieme, s’escludono reciprocamente,
mentre altre si chiamano, per dir così, FREAKS
OF NATURE e ciò non solo negli organi che sono fra loro in un rapporto immediato, ma ancora in quelli che paiono a
prima vista i più lontani e i più indipendenti. Generalizziamo quest'idea di
Cuvier; ammettiamo ohe, se le
combinazioni d'organi e lo classi d'animali corrispondenti, che sembrano
posHihili quando si considerano d’una
maniera astratta, esistenza d'Idee che esìstono, Tapplicazione più importante
del metodo indiretto del Parmenide è di dare una non esistono tutte nella
natura, è sempre per la ragione di cui parla Cuvier come sembra che egli dica,
quantunque è diffìcile che tale sia il suo pensiero; noi avremo questo concetto platonico: che tutte le specie
immaginabili dell'animale che non esistono^ non esistono perchè è logicamente
impossibile che esistanOy e questa impossibilità logica consiste in ciò, che
l'Idea dell'Animale come del resto tutte le altre contiene 1'Idea del fiene,
mentre queste specie immaginabili ohe non esistono, non contengono l'Idea del
Bene cioè non vi ha in esse questo
concorso di tutti gli organi a uno scopo comune, di cui parla Cuvier, e
quindi sono delle idee contraddittorie in cui noi riuniamo confusamente i
caratteri dell'animale con altri caratteri
che sono con essi
incompatibili.
Generalizziamo ancora l'idea
di Cuvier; estendiamola dagli
esseri viventi a
tutti gli esseri
della natura ; avremo
il principio fondamentale
della dialettica di
Platone, che tutto ciò che non esiste non può esistere perchè non è
bene, perchè tutto ciò che esiste deve essere necessariamente bene, e tutto ciò
che è bene deve necessariamente esistere. La quistione perchè tutte le specie
che noi possiamo immaginare in un genere dato non esistano, può presentarsi,
come abbiamo detto, in questa forma: perchè le classi ottenute per la
divisione dicotomica si efifettuino
solamente nelle forme realmente esistenti, e non in altre forme dififerenti
possibili, ohe potrebbero essere definite per gli stessi caratteri su cui si è
fondata la divisione. Noi abbiamo detto ohe la soluzione, ricavata dalla teoria
della definizione, è che ai caratteri su cui si fonda la divisione e per cui le
classi si definiscono, sono necessariamente cougiunti, e se ne possono dedurre, gli altri caratteri propri
delle forme realmente esistenti e che le differenziano da tutte le altre forme
possibili o piuttosto, come dice Cuvier, che sembrano possibili quando si
coièfiiderano d'una maniera astratta. Questo concetto di un legame logicamente
necessario fra tutti i caratteri di una classe, che forma la sostanza della
dottrina pla base al metodo diretto, cioè alla
dieresi. In questa forma del realismo dialettico, i concetti si deducono
per la tonico aristotelica della definizione, ha un'analogia evidente col
principio di Cuvier che fra tutte le parti di un essere organizzato vi ha una
dipendenza mutua, conoscibile a priori e logicamente necessaria, in modo che da
ciascuna di queste parti possono dedursi
tutte le altre Appendice. Tale è, secondo Cuvier, questa dipendenza reciproca fra le parti di
un organismo, ohe ciascuna specie di esseri potrebbe essere riconosciuta por
ciascun Irammento di ciascuna delle sue
parti. Discorso stille rivoluzioni della superficie del globo, e che dalla
vista di un solo osso si potrebbe concludere la forma di tutto lo scheletro
Anat. compar., anzi rifare tutto l'animale Discorso ecc. Questo principio non si applica solamente alla specie, ma a tutte le
categorie della classificazione, sino al concetto di animale e a quello di
essere vivente in generale. La minima faccetto d'osso, la minima apofisi, hanno
un carattere determinato relativo alla classe, all'ordine, al genere e alla
specie a cui esse appartengono, sino al punto ohe tutte le volte che si ha
soltanto un'estremità d'osso ben conservato, si
può con dell'applicazione, e aiutandosi con un po'di destrezza
dell'analogia e della comparazione effettiva, determinare tutte queste cose
cosi sicuramente che se si possedesse r animale intero Discorso ecc. (U
analogia e la comparazione effettiva non sono che degli aiuti, l'essenza del
metodo è la deduzione fondata sulla correlazione necessaria tra le parti
di un organismo. Conformemente a questo principio, egli mostra la dipendenza
necessaria fra i caratteri delle divert^e classi dei vertebrati Regìio animale,
fra quelli degli esseri organizzati in generale, fra quelli che sono propri
agli animali distinguendoli dalle piante Anat, compar,, ecc. Ogni coesistenza
di caratteri di qualsia'» grado di generalità, che il naturalista può costatare
negli esseri viventi, è dunque secondo
Cuvier una connessione necessaria, risuK tante dalla necessità a priori
d'una finalità immanente nell'organir dieresi, ma questa suppone un concetto
primitivo, che non può dedursi per la dieresi stessa, della stessa ma* Bino
cioè, com'egli si esprime, ohe tutte le parti di ud organismo concorrano a uno
scopo comune. Anche per Platone il legame necessario tra tutti gli attributi di
un genere, che permette di dedurre tutto
il resto da quelli compresi nella definizione, dove fondarsi, almeno
precipuamente, sul principio teleologico – GRICE CICERO DE FINIBUS --, perchè
secondo il Fedone la causa perchè una
cosa ha un attributo qualsiasi, è che l’ottimo PARETO GRICE OPTIMAL per essa è
di avere quell'attributo. Ogni connessione di caratteri di Cuvier ha naturalmente per conseguenza l'esclusione a
priori di nn'infìnità di coesistenze di caratteri: se tal fonna di A coesiste
neeesftariamente con tal forma di B, è logicamente impossibile che coesista con
tutte le altre forme di B immaginabili. Così pure per Platone ogni legame tra
ciascuno degli attributi su cui è fondata la divisione, e ogni altro attributo
di un genere che si può dedurre da
quello, ha per conseguenza V’impossibilitìi logica e la contraddizione
perchè è così eh'egli determina l'impossibilitìi logica d'un'intiniti\ di altre
coesistenze di attributi, che potrebbe dimostrarsi col metodo del Parmenide,
facendo l'ipotesi deir esistenza d'Idee in cui avessero luogo queste
coesistenze. Dando la massima generalizzazione al principio della connessione
dei caratteri di Cuvier, esso
includerebbe il principio della dieresi platonica, che le specie reali in cui
un genere si divide sono tutte le specie possibili di questo genere. Infatti
ogni divisione esprime una coesistenza di caratteri, solamente 1'esprime con una proposizione
disgiuntiva: A si divide in B e C, vuol
dire che i caratteri di A SIGNIFICATIO coesistimo o con quelli di B NATURA o
con quellidi C NON-NATURA, ma ntm mai
con altri caratteri che non si trovano né in B né in C. Così, se anche questa
coesistenza di caratteri è una connessione necessaria, è esclusa A PRIORI la possibiliUi,
oltre B e (>, di altre specie di A. Ma con ciò non avremmo che uno dei
principii fondamentali della dialettica platonica, cioè che ciò che non è reale
è necessario ohe non esista: per avere
questa dialettica in nieia che la catena delle proposizioni geometriche
suppone dei principii che non possono formare 1'oggetto d^alcun teorema. Ora questo
concetto primitivo o a dir meglio r’oggetto reale che corrisponde a questo
concetto non può ammettersi semplicemente come dato di fatto: in questo caso
esso non sarebbe che wwHpotesi, e 1'incatenamento di deduzioni, in cui consiste la dieresi, non sarebbe una
dimostrazione. Allora la conoscenza non sarebbe A PRIORI, e il principio non
avrebbe una vera priorità logica sulle conseguenze, ciò che importa che il
rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi al
rapporto tra la causa e l'effetto, perchè l'anteriorità ontologica della causa
verso V’effetto indispensabile perchè 1'una sia una causa e l'altro un effetto non è, in questo
sistema, che l'anteriorità logica del principio verso la conseguenza. Il
concetto primitivo, vale a dire l'Idea del Bene, deve dun que stabilirsi A
PRIORI: essa deve essere quindi o un assioma o una verità anch'essa dimostrata.
Ma Fesistenza dell' Idea del Bene non
può darsi per una verità assiomatica, cioè per una di quelle verità che basta
che siano enunciat;e ed intese perchè siano ammesse: essa deve essere dunque
una verità dimostrata. Per una tale dimostrazione noi moderni penseremmo
naturalmente a qualche cosa come 1'argomento ontologico, vale a dire intero a
parte la realizzazione dei concetti, bisognerebbe aggiungere l'altro principio
egualmente fondamentale, cioè che ciò che è reale è necessario che esista.
Non avremmo, in altri termini, e. IO il
presupposto della prima metà del metodo del Parmenide, quella che fa l'ipotesi
dell'esistenza, cioè della sua applicazione negaliva^ che bisognerebbe
completare per quello dell'altra metà di questo metodo, quella che fa l'ipotesi
della non esistenza, cioè della sua applicazione positiva un argomento clie
provi l'oggetto mostrando che il suo concetto
stesso ne include la realtà, o come si dice ordinariamente, che la sua
essenza implica resistenza. È questa infatti la sola argomentazione per cui si
possa dimostrare direttaìneute un primo principio vale a dire una cosa che non
potrebbe dedursi da un'altra cosa. Ma di una tale argomentazione non troviamo
alcun indizio in Platone. Non vi hanno nella dialettica platonica che due
metodi per dimostrare le Idee: il metodo
diretto, che è la dieresi, e il metodo indiretto del Parmenide. L'Idea del
Bene, non potendo dimostrarsi per la dieresi, deve dunque dimostrarsi col
metodo del Parmenide. Ammettendo ciò noi non tacciamo un'ipotesi, perchè il
metodo del Parmenide si applica alle Idee in generale; esso deve quindi
applicarsi anche all'Idea del Bene. È per quest'applicazione che questo metodo è un complemento
indispensabile della dieresi, e che Platone può dire che esso è necessario alla
scoverta della verità. Noi possiamo anche dire che la parte positiva del metodo
del Parmenide, cioè quella che sviluppa le contraddizioni risultanti
dall'ipotesi della non esistenza, non ha, al fondo, altro oggetto che di
dimostrare l'Idea del Bene. Noi dobbiamo ammettere che, secondo Platoue, se l'ipotesi della non
esistenza delle altre Idee esistenti implica delle conseguenze contraddittorie,
ciò è perchè esse sono delle forme del Bene, e negando una di esse si nega una
forma del Bene; sicché in tutte le dimostrazioni indii*ette che partono
dall'ipotesi della non esistenza, in ultima analisi l'unico punto dimostrato è
che il Bene, in qualsiasi forma, o, come
dice Platone, tutto il Bene, deve esistere, ciò che è il vero principio
primo della dieresi. Di quewì V. Paru. ~
sta maniera l'impossibilità logica della non esistenza delle altre Idee è una
conseguenza dell'impossibilità logica della non esistenza dell'Idea del Bene,
ciò che è necessario perchè 1'esistenza di quest'Idea sia una verità
logicamente anteriore a quelle dell'esistenza di tutte le altre. Così Fldea del Bene, quantunque sia
necessario dimostrarla, è in un senso una verità immediata, in quanto tutte le
altre verità della dialettica cioè tutte le altre Idee si deducono da essa, ma
essa non si deduce da altra cosa, e si prova per l'inconcepibilità della sua
negazione. Il metodo del Parmenide, mettendo in luce quest'inconcepibilità,
mostra l'inseparabilità tra il concetto del bene e quello della sua esistenza: è una specie di
argomento ontologico indiretto, e noi siamo sempre alla definizione spinoziana del
primo principio: ciò la cui essenza implica l'esistenza o, come spiega Io
stesso Spinoza, ciò la cui natura non può concepirsi se non esistente. È for»e
alla dinioHirazioDe dell'Idea del Bene col metodo del Parmenide che allude il
luogo seguente della Repubblica: Chi non è capace di definire, separandola da
tutte le altre, l'Idea del Bene, e, come in una mischia, penetrando per tutto
confutando (è)$7re(> èy ^a/yi
àia nàyTcoy èkéyxoyy
óie^mp)^ avendo cura di con/alare
non secondo V’opinione ma secondo la realtà^ procedere in ttitto ciò con
ragioni inconcusse, questi dirai che non conosce né il bene stesso né alcun
altro bene, ecc. Le parole sembrano
indicare un procedimento per istabilire l'Idea del Bene, che consiste in un
metodo confutativo ohe si applica all'universalità delle cose. E infatti è, in
un senso, all'universalità delle cose che deve applicarsi il metodo del
Parmenide per istabilire il primo principio. Poiché le verità fondamentali sul
primo principio non sono solamente che il Bene esiste ed esiste
necessariamente, ma anche t Un'altra
osservazione prima di finire sul Parmenide. La dieresi suppone necessariamente
un altro metodo diverso per dimostrare il suo punto di partenza. Ma perchè
Platone preferisce il metodo indiretto, cioè la dimostrazione ex ahsurdis GRICE
R. A. A. Negation introduction reductio ad absurdum ZENO DI VELIA f E perchè il metodo indiretto lo concepisce
come lo sviluppo di una serie di coppie
di attributi contraddittori inerenti simultaneamente allo stesso soggetto? Né
l'uuo né l'altro di questi due punti della dottrina platonica ha, bisogna
convenirne, un legame necessario coi due punti centrali del sistema, cioè
l'ipotesi delle Idee e la dieresi. Per
ispiegarli dobbiamo anche tener conto di un altro fatto, cioè dello sforzo
evidente di Platone di rìattaccarsi alle
tradizioni filosofiche dell'epoca, nel Parmenide alla scuola o setta di VELIA
Suppl. Questo sforzo apparisce della maniera più chiara quando egli attribuisce
a Parmenide di VELIA e agli VELINI in generale la dottrina delle Idee. Questa
scuola essendo celebre per la dialettica Zenone VELINO passa presso gli antichi
per esserne stato l'inventore Platone, in cerca di punti di contatlo colle tradizioni più illustri,
non poteva mancare di cercare di riattaccarvisi anche per questo lato. Il
Parmenide non ha duncjue solamente per issopo di tracciare un metodo
indispensabile al conseguimento della verità, ma anche di avvicinarsi ai VELINI
mostrando che la sua projjria dialettica GRICE OXONIAN DIALECTIC deriva dalla
eohe esiste uecessariiiiueiite ogui
forma del Bene, e die tutti eiò ohe esiste ò uecessiiriaineute una
foruia del Beue in uua parola che è ueoessario che tulio il Bene esista et che
osso sia ridea universale. Per dimostrare queste proposizioni bÌKOj::norebbe
ooufutare, d'uua maniera generale, 1'ipotesi della non esistenza di tutto ciò
cbe è bene cioò di tutto ciò cbo esiste e quella dell'esistenza di tutto ciò
cbe non ò beue cioè di tutto eiò cbe non esiste. leatica. Così egli imita, in
questo dialogo, la dialettica di Zenone VELINO, assegnandole una funzione
importante nel suo proprio sistema, e attribuendola, nella nuova forma ch'egli
le dà, al fondatore della scuola, ci mostra il vecchio eleate che l'insegna al
giovane Socrate – CITATO DA GRICE: “Socrates said he knew nothing, because
that’s how dialectic proceed. Similarly, at Oxford, Ausdtin said he knew nouthing –
even if we never believed him!” --. Dopo il Parmenide, Platone riguarda come stabilito che la sua
dialettica si origina da quella degli Eleati, e nei dialoghi in cui è praticata
la dieresi, cioè nel Sofista e nel Politico, la parola non è a Socrate, ma a un
supposto filosofo della scuola di VELIA. Abbiamo visto che l'Idea del Bene è, non solo il principio logico, ma anche il
principio ontologico, la catisa di tutte le altre Idee. Abbiamo visto pui'e che
1'essere il principio logico delle altre Idee e l'esserne il principio
ontologico non sono due fatti distinti, ma due espressioni difterenti di uno
stesso fatto, perchè se un concetto si deduce da un altro, ed essi sono, non
dei semplici concetti, ma delle realtà, dei
concetti realizzati, la realtà
premessa è il principium essendi della realtà conseguenza, e la deduzione eqiuivale
a una derivazione reale, a una produzione delì'ettetto dalla sua causa. Abbiamo
indicato le prove, per dir così, generiche, da cui si può concludere che
Platone ha esteso questo legaìne causale a tutti i gradi della deduzione progressiva
in cui consiste la sua dialettica, in modo
che l'incatenamento logico eh' egli introdiice fra tutte le Idee sia al
tempo stesso un incatenamento di cause e di effetti. Ora la deduzione per
Platone è la dieresi; il genere è il principio, le specie in cui si divide le
conseguenze. Ne segue che tra le Idee dei generi e le Idee delle specie
intendendo sempre per genere la classe X Sofista in principio. 1 li superiore e
per 8i)ecie le classi immedìataraente
inferiori in cui si divide vi La, secondo Platone, una derivazione, non solo
logica, ma anche reale – GRICE: “AUSTIN SUSPECTED WORDS LIKE REALITY, BECAUSE
LATIN WASN’T FIRST NATURE TO HIM!”; che Tldea generica è la causa e le Idee
speci fiche i suoi effetti, o in altri termini, trattandosi di una causalità,
non esteriore, ma immanente, che la
serie delle Idee, secondo la loro generalità decrescente, costituisce i
gradi successivi, i momenti, di uno sviluppo necessario, che è al tempo stesso
logico ed ontologico. È ciò che dobbiamo provai*e particolarmente nel presente
paragrafo. I gradi successivi, i momenti, di questo sviluppo necessario, logico
ed ontologico, sono indicati da Platone, come poi da Spinoza, coi termini
anteriore e posteriore di natura
nQÓisfJok^ xaì vaze^ot^
xaià (pva^i'. Secondo le
definizioni di Aristotile, Platone chiama anteriore ciò che può essere scii::a
il posteriore, mentre il posteriore non può essere senza l'anteriore; ovvero:
ciò tolto il quale è tolto anche il posteriore, mentre tolto il posteriore, non
è tolto perciò l'anteriore. In altri termini, il posteriore porta con sé
l'anteriore, mentre l'anteriore non
porta con sé il posteriore p. e. uomo porta con sé animale, mentre animale non
porta con sé uomo. Questo rapporto di anteriorità e posteriorità corre tra i
concetti generici e specifici, o, parlando più propriamente, tia le realtà
corrispondenti a questi concetti: il Genere P Idea é anteriore alle Specie le Idee, e queste gli sono posteriori. Le
specie opposte che provengo Met,, Caieg., ecc. Met., Eth. End., Top. p, e. Eth. End.: anteriore è il comuue e
separabile yoyoiatóy P^^' il significato
di questo termine v. Sappi.; a tutti i multipli sarebbe anteriore il Multiplo.
no dallo stesso Genere per la stessa divisione si chiamano simultanee di natura
oifia rfi (omei. Aristotile usa i termini anteriore e
posteriore in un senso più lato, ma nel sistema platonico, come termini tecnici aventi il significato delle
definizioni precedenti, non denotano che una relazione tra il generale e i
particolari. Ciò risulta dai luoghi d'Aristotile, in cui si vede che pei
platonici, perchè una cosa sia anteriore ad un'altra, deve essere Phytt. e
Met.: Le cause di una stessa cosa possono essere 1'una anteriore e V’altra
posteriore, ciò ohe avviene quando V’una è il genere di cui V’altra è una specie; p. e. della sanità lo
sono il medico e l'artofice, del diapason il doppio e il numero. Met.: secondo
i partigiani delle Idee, dovrebbe essere prima non la Dualità, oom'essi
ammettono, ma il Numero perchè più generale. I primi generi sono ì generi più
vasti Met.; i primi di tutti gli esseri sono rUno o Essere, identico al Bene, e
la Dualità indefinita, cioè le due Idee più
universali di tutte Met,, ecc. Quest'applicazione dei termini anteriore
e posteriore e sinonimi si vede pure in Categ., Top. Mei., ecc.: noi riporteremo
in seguito alcuni di questi luoghi. Anche Alessandro d'Afrodisia, commentando i
luoghi che si riferiscono ai platonici, applica i termini anteriore e
posteriore ai concetti generici e specifici: v. in phil. pr, ecc. Categ. e Top.
Quantunque Aristotile non attribuisca
espressamente questa denominazione ai platonici, non può esservi alcun dubbio
che non appartenga ad essi, tanto per r’allusione al metodo di divisione e
divisione per opposti – GRICE NATURA NON NATURA, quanto per il suo rapporto
evidente coi termini anteriore e posteriore. separabile x^oiìimóy)^ cioè sussistente per se stessa infatti due
concelti di cui l'uno poitii con
sé, cioè include, l'altro, se si tratta
di concetti obbiettivati, non possono essere nel sistema platonico che una
Specie e il suo Genere; e più chiaramente ancora da altri luoghi in cui
Aristotile, dopo aver supposto che, nel sistema platonico, un'entità è
anteriore ad un'altra, ne conclude che quella deve abbracciare questa nella sua
generalità. Lo stesso risulta pure dalla
definizione del termine simultanei di natura; perchè il significato di
questo termine, nella definizione che ne dà Aristotile, oltre il caso indicato
di specie opposte in cui un genere si divide, non abbniccia che un altro caso
che può rientrare in esso, cioè quello di due termini correlativi, quali il
doppio e la metà i correlativi essendo una sorta di oppo Eth. Eud.,
y-lO, luogo iu parte citato, e Metaf. Così in Met. fa quest'obbiezione a
Platone: il Lungo e Corto da cui procedono le linee, il Largo e Stretto da cui
procedono i piani, e l'Aito e Basso da cui procedono i solidi per questa
dottrina Suppl, Entità
uiatem. si seguono cioè sono fra di loro anteriori e posteriori? In
questo caso il piano sarà una linea e il solido un piano perchè il Largo e
Stretto sarà una specie del Lungo e
Corto e TAIto e Basso una specie del Largo e Stretto. GRICE: “And by the
same token, I am a plant, since I digest!”. Un'obbiezione analoga – GRICE: “Blatantly
ignoring implicature!” -- fa un po'più giù a dei platonici dissidenti cioè a
Speusippo. E in Met, obbietta ohe l'unità che è nella dualità dovrebbe essere
anteriore ad essa, perchè tolta la prima si toglie anche la seconda; e che per conseguenza quest'unità, essendo
anteriore ad un'Idea cioè alla Dualità, dovrebbe essere un' Idea d'Idea Idea
d'Idea non può significare, applicato al sistema platonico, ohe specie di
specie, cioè Idea generica d' un'Idea specitica. sti, e questi potendo
considerarsi come due specie di uno stesso genere. Dopo quello che abbiamo
detto nei paragrafi precedenti, non abbiamo bisogno di mostrare che questo rapporto di anteriorità e
posteriorità, che Platone stabilisce fra il generale e i particolari
subordinati, implica secondo lui il legame logico tra principio e conseguenza.
Ci resta a stabilire che egli ha riguardato espressamente questo legame anche
come ontologico dico espressamente perchè un legame logico tra concetti
obbiettivati è necessariamente, per il fatto stesso di quest'obbiettivazìone, un legame
ontologico. Un indizio di questo significato dell'anteriorità e posteriorità
platonica l'abbiamo già nel senso in cui questi termini vengono usati nella
logica di Aristotile. Si sa la dottrina di Aristotile sulla dimostrazione: la
dimostrazione scientifica è quella che si fa per le cause, e si dimostra per le
cause quando si dimostra per priora o, continuando a tradurre come abbiamo fatto il termine greco
corrispondente, per gli anteriori. Il concetto di anteriore implica cosi per
Aristotile quello di causa: per priora egli intende delle verità, che non siano
solamente le premesse da cui altre verità, cioè le posteriori, si deducono, ma
che siano anche le cause dell'esistenza di qiu'ste altre verità. Cause non vuol
dire per questa dcAuizione Categ.
In Top., oltre il primo caso, vengono
indicati, invece dei correlativi, gli opposti in generale. sovratutto An, Post,
An. Posi.: Causas vero etiam esse oportet et priora, si quidem causas. E: Nam
scit magis qui ex superioribus causis scit; ex priorihutt etenim scit quando ex
non aliunde effectis causis scit. cause della coDclusione perchè ciò è comune
tanto alle dimostrazioni scientifiche, quanto
a un'altra deduzione che non si fa per priora ma anclie della cosa
stessa, del fatto che è l’oggetto della conclusione. Così il senso aristotelico
dell’anteriorità e post'Criorità include
al tempo stesso due concetti, come quello che attribuiamo a Platone: il
rapporto logico tra il principio e la conseguenza, e il rapporto ontologico tra
la causa e l'effetto. Senza dubbio, chiamando cause le premesse di una dimostrazione scientifica,
Aristotile fa un uso improprio del termine causa: è solo in un SENSO TRASLATO che
l'essenza può essere chiaiiìata causa delle proprietà che se ne deducono, o gli
assiomi matematici dello proposizioni dimostrate. È, come in Platone, una
confusione tra il principium cognoscendi e il principium essendi: tra i
principia cognoscendi Aristotile
riguarda come cause quelli che può più facilmente identificare con
questa. Potrebbe dirsi che attribuendo la causalità a delle proposizioni o a
dei semplici concetti, Aristotile eleva per un momento delle astrazioni al
grado di realtà perchè noi non possiamo riguardare come cause che delle cose
che esistono per se stesse, e si distinguono dai loro effetti realmente, e non
soltanto logicamente Questo realismo, per dir così, metaforico di Aristotile è
al vero realismo di Platone come p. e. la personificazione poeti FACCIOLATI
(vedasi) Institutiones logicae peripntetice. App. Ma hì deve notare che la
causa, in questa teoria, non è presa sempre in questo senso improprio; la causa
può essere la causa finale CICERO FINIBUS GRICE END metier o anche la causa nel
senso più stretto, cioè la efficiente nel significato aristotelico. Anal. Post.
tica delle forze della natura è alla personificazione reale dei miti e delle
religioni naturaliste. Questa personificazione, che nella coscienza del poeta
non è che uno stato istantaneo, diviene in quella del facitore di miti uno
stato permanente e definitivo: così il vago realismo d'un Aristotile, che
confonde la causa con la ragione – GRICE RATIO COGNOSENDI RAIO ESSENDI, dà
luogo al realismo deciso d'un Platone o d'un Spinoza, quando nella coscienza
del filosofo è divenuto uno stato permanente e definitivo. È per altro un fatto
indiscutibile che l'uso che fa Aristotile dei termini anteriore e posteriore si
riattacca a quello che ne faceva Platone. Le sfere di applicazione di questi
termini coincidono sino ad un certo
punto nei due filosofi: anche per Aristotile l'universale è anteriore, e il
particolare ad esse subordinato, posteriore. Di più, per distinguere
l'anteriore dal posteriore presi nel senso logico ed ontologico che Aristotile
attribuisce a questi termini, egli si serve talvolta del cri Così
neW Anal. Post, intende per proposizione anteriore V’universale
e per posteriore la particolare in essa
compresa ciò che d'altronde non potrebbe essere altrimenti, dato il
significato logico dei termini anteriore e posteriore, la conseguenza essendo
un caso particolare della premessa maggiore. Un po'prima, ha detto che
l'universale è causa. lìnd, distinguendo
Tanteriore di natura e l'anteriore per noi, dice che anteriore di natura è il
generale, per noi il particolare GRICE PARTICULARISED CONVERSATIONAL
IMPLICATURE. Come per Platone il genere è anteriore alla specie, e le specie in
cui il genere si divide, simultanee di natura Top. Nelle Topiche, in cui tratta
dei luoghi per provare che una definizione non è fatta, come deve essere, per
priora, questo termine è preso quasi sempre in un significato identico al
platonico, cioè come sinonimo di piìì generale. terio stesso di Platone, cioè
die anteriore è quello tolto il quale si
toglie anche il posteriore. Top. È
curioso fteguire le vicende dell'ubo dei termini pHore e posteriore da Platone
alla filoKofia moderna. Gli scolastici, continuando ad usarli nel senso
aristotelico, chiamano dimostrazione n priori quella che si fa i>er le cause (o pelle ragioni considerate
come cause, e a posterioì^i quella ohe si fa
per gli effetti (p. e. 1'argomento cosmologico per provare 1'esistenza
di Dio e quello fisico-teologico sarebbero a posteriori, l'argomento
ontologiccì sarebbe a priori, perchè prova Dio assegnando la causa, cioè la
ragione, della sum esifrtcììzn^. Sin qui il significato dei termini è ancora
quello di Platone. Ma siccome nel ragionamento induttivo il principium cognoscendi
non può assimilarsi al principium
essendi come nella dimostrazione propriamente detta cioè quella che
deduce da principii evidenti per se stessi, così la dimostrazione propriamente
detta si disse a priori, e il ragionamento induttivo a posteriori. Di lìi fu
facile il passaggio al significato che questi termini hanno nella filosofia
moderna, e conoscenza a posteriori divenne il sinonimo di conoscenza
sperimentale, conoscenza a priori
«piello di conoscenza razionale, o indii)endente dall'esperienza. È notevole
ohe, dopo questo cangiamento della connotazione dei termini, la loro
denotazione coincide ancora con quella di Platone, perchè anche Platone chiama
la conoscenza sperimentale del generale « posteriori cioè dai suoi effetti,
mentre la conoscenza dalle cause era per lui a priori nnche nel senso
moderno della parola, cioè razionale.
Nella iMetafìsica il LIZIO usa i termini anteriore e posteriore in un senso più
vago di quello ch'essi hanno nella sua
teoria della dimostrazione. Tuttavia anche nella Metafisica questi
termini hanno un significato ontologico, non ben definito forse, nia in cui
risaltano sovratutto questi due concetti: quello di una derivazione del
posteriore ma che non è necessariamente
causale, come si vede p. e. in cui chiama la potenza anteriore all'atto non nel
senso cronologico e quello di un maggior grado di Ma senza esagerarci uè
diminuirci V importanza di questo legame
storico tra la dottrina del LIZIO e quella dell’ACCADEMIA, per istabilire il
significato dei termini anteriore e posteriore, noi passeremo ad altre prove
più importanti che ridurremo a queste
tre: P I termini anteriore e posteriore indicano una sequenza metafisica, il
cui tipo, nel mondo dell'esperienza, è la successione cronologica, specialmente
quella che avviene secondo una legge, p. e. V’evoluzione degli organismi. Non
sam inutile di citare le definizioni che Aristotile dà del significato
primitivo dei termini anteriore{nQóz€Qoy e simultanei «.uà, prima di passare a definirli nel loro significato
platonico. Una cosa si dice anteriore ad un'altra principalmente e massimamente
secondo il tempo, secondo cui l'una è detta più vecchia e più antica
dell'altra. Simultanee si dicono nel senso più stretto e assoluto le cose la
cui produzione è nello stesso tempo. Nella Metaf. si parla della realtà
dell'anteriore Mei.: gli anteriori sono superiori nell'essere, ro)
shai vneQpàkkei), Anche il secondo di questi due concetti si riattacca
al significato platonico dei termini, perchè Platone considera 1'anteriore come
più reale del posteriore. Si veda più giù, in questo stesso paragrafo. Categ.
Categ. Le rappresentazioni che si fa Aristotile della derivazione delle Idee
dai primi principii, implicano tutte una successione nel tempo. In
Met, domanda ai platonici: come i
numeri (cioè, pei platonici ortodossi, le Idee) vengono dai due principii 1 per
una mescolanza? per una composizione? ne vengono come da materiali che
continuano ad esistere in essi f o come da un germe? allusione all'idea di
sviluppo di cui parleremo in seguito o come da nn contrario che si cangia nel
suo contrario f Altrove Met. si rappresenta 21 \ quistione era
una controversia tra i platonici se il bene deve riguardarsi come
principio, o deve ammettersi che sia generato posteriormente. Alcuni moderni i
platonici che sostengono la seconda opinione convenendo, dice Aristotile, coi
teologi secondo i quali l'ordine nel mondo è stato preceduto dal chaos,
ammettono che il buono e il bello non appariscono che nel progresso della
natura degli esseri {nQoek&ovarjg
if\q toyy o^kùp
(ùv<tb(ù^. I poeti antichi, continua Aristotile, avevano un'opinione
simile, perchè attribuivano il principato e il regno su tutte cose, non ai
primi esseri, quali la notte o il cielo o il chaos o l'oceano, ma a Giove. Nel
capit. seguente in princ. dice di questi platonici che paragonano i principii
del tutto a quelli delle piante e degli animali, perchè si va sempre (tanto questa derivazione come un passaggio
dalla potenza all'atto ciò che, egli dice, è impossibile, perchè le cose eteme
non possono essere che in atto. In Met., dopo aver riferito la proposizione
platonica che l'Idea del due viene dal Grande e Piccolo lo stesso che la
Dualità indefinita eguagliati, osserva: dunque prima erano ineguali e poi
divennero eguah, e non h in grazia della
speculazione che fanno la generazione dei 7iumeH in altri termini,
questa generazione deve intendersi nel senso stretto, come implicante una successione
nel tempo. A questa pseudoidea di causalità, che il realismo dialettico
attribuisce alle sue astrazioni reaUzzate, non può corrispondere niente di
rappresentabile, in cui non entri V’idea di una sequenza nel tempo, perchè è
solo come una sequenza nel tempo che noi
conosciamo e possiamo immaginare la causalità. È perciò che le espressioni
platoniche, indicanti la derivazione tra le Idee, suggeriscono sempre questa
sequenza. Il senso reale di queste espressioni anche quando non indicano che
una semplice sequenza, come i termini anteriore e posteriore è del resto
abbastanza chiaro, se si aggiunge all'idea di sequenza quella di necessità, implicata nel loro
significato logico. Causalità infatti, nel significato comune ohe è lo stesso,
ai fondo, ohe quello della metafisica, -- GRICE: “I like that: metaphysical
meaning is ordinary meaning!” -- vuol dire appunto sequenza necessaria. nel
tutto quanto nelle piante e negli animali dal più indeterminato e più
imperfetto al più determinato e più perfetto (If ào^iazcoy
àiek^i/ oh àei
za v€k€ióz€()a)' e che così
avviene, secondo essi, anche nei primi, tanto che l'Uno cioè il loro primo
principio non è nemmeno un essere. Questi priim, di cui parlano questi
platonici, che vengono paragonati agli esseri primitivi nelle antiche
cosmogonie, questo progresso della natura degli esseri, questo sviluppo che va
sempre dal più indeterminato e imperfetto
al più determinato e perfetto, e che ha il suo analogo in quello delle
piante e degli iiuimali, non devono intendersi
in un senso cronologico. Non si tratta evidentemente che d'una
successione metafìsica, come si vede nell'opposizione tra 1'esser principio il
bene e l'esser generato posteriormente, perchè il modo in cui il primo
principio dei platonici genera le altre cose non è una produzione nel tempo, ma una derivazione ab aeterno, in
cui la successione non è che logica. La comparazione del tutto alle piante e
agli animali è un'anticipazione dell'idea di sviluppo nel senso hegeliano; il
passaggio continuo dal più indeterminato e imperfetto al più determinato e
perfetto non è che il passaggio continuo dal più astratto al più concreto, che
avviene tanto nella dialettica di Hegel
quanto in quella di Platone, e noi possiamo aggiungere, in qualsiasi
altra deduzione di qualsiasi altra forma di realismo dialettico. I platonici di
cui si tratta sono Speusippo e la sua scuola: sono dei dissidenti, ma essi non
hanno abbandonato la dotttina platonica dell'anteriorità e posteriorità, uè quella che l'anteriore è il generale e il
posteriore il particolare. Infatti Aristotile ripete contro questa scuola la Vedi, per questa
proposizione chn l'uno non è un essere, Supplem. Speusippo, obbiezione che ha
fatto a Platone, che se i principii materiali delle grandezze non si seguono,
non si vede perchè il solido debba comprendere la superficie, e la superficie
la linea, ma se si seguono^ la superficie dovrebbe essere una linea [IMPLICATURA?
GRICE] e il solido una superficie [IMPLICATURA? GRICE – “Il quadrato tiene tre
lati”]. Per il riferimento a Speusippo tanto di quest'obbiezione quanto delle
opinioni precedenti, rimandiamo al
Suppl.; ma per vedere che nei due casi si tratta degli stessi filosofi,
basta di confrontare Met. 1j^ anteriorità e posterioritàj nei numeri ideali,
indica una filiazione di questi numeri gli uni dagli altri. Platone,
nell'ultima forma della sua filosofia,
ammette due sorta di numeri: i numeri ideali cioè le Idee, che, in quest'ultima
forma del suo sistema, sono dei numeri e i numeri matematici cioè che formano
l'oggetto dell'aritmetica. Un carattere distintivo tra i numeri ideali e i
numeri matematici, è che i primi hanno anteriorità e posteriorità. Anche i
numeri matematici hanno, in un senso, anteriorità e posteriorità, in quanto costituiscono una serie i cui
termini si seguono con un ordine determinato. Ma questo senso dei termini
anteriore e posteriore non è quello tecnico che questi termini hanno nella
filosofia platonica Così Aristotile per indicare il numero ideale, in
contrapposto al numero matematico, dice:
quello che ha anteriorità e posteriorità. Per conseguenza noi dobbiamo
ammettere che quest'anteriorità e
posteriorità dei numeri ideali deve intendersi nel senso proprio, cioè tecnico,
della filosofia platonica. La filiazione che Platone ammette tra questi numeri
che hanno anteriorità e posteriorità, è questa: ogni numero genera Mei, Suppl. Ent. matem. Met. due numeri, 1'uno pari che nasce
dal suo raddoppiamento, e l'altro dispari che nasce da questo raddoppiamento e
r aggiunzione dell'unità. Ora noi
vediamo in Aristotile che i termini anteriore e posteriore applicati a questi
numeri o alle unità che li costituiscono significano appunto l'ordine di questa
generazione. Cosi in Met.: le unità che sono nella prima Dualità cioè nel Due
ideale sono generate simultaneamente aaa. se l'una unità fosse anteriore
all'altra, sarebbe anteriore anche alla Dualità che è da esse. Né bisogna nascondersi che avviene
nella dottrina dei numeri ideali che vi hanno delle dualitfi anteriori e
posteriori, e similmente per gli altri numeri. Le dualità infatti che sono
nella Tetrade cioè nel Quattro ideale siano simultanee fra di loro: ma esse
sono anteriori a quelle che si trovano nell'Otto nell'Otto ideale, e sono esse
che hanno generato come la Dualità in sé aveva
generato esse stesse le tetradi che si trovano nell'Otto in sè. L'unità
quella che è una parte della Dualità ideale dovrebbe essere anteriore alla
Dualità: infatti, tolta essa, è tolta anche la Dualità il criterio di Platone per distinguere
l'anteriore e il posteriore. Dunque dovrebbe essere necessariamente
un'Idea d'Idea, essendo anteriore r
un'Idea, e dovrebbe essere stata generata anteriore. E Ciascuna delle due unità che costituiscono la
Duali(|à ideale dovrebbe essere anteriore alla Dualità perchè, dice Aristotile,
somiglia di più all'Uno in sé, e questo è anteriore a tutto. Ma non dicono
così; quella che generano la prima tra tutte le cose che generano è la Dualità.
Suppl. Bisogna notare che nei luoghi citati Aristotile estende l'anteriorità e
posteriorità, che Platone ammette tra i
numeri, alle L'anteriorità e posteriorità dei numeri ideali non può essere
altra cosa che l'anteriorità e posteriorità delle Idee che essi rappresentano,
e la filiazione tra i numeri anteriori e posteriori corrisponde alla
subordinazione logica di genere e specie tra le Idee rappresentate. Cori questa
filiazione tra i numeri non può significare altro che una filiazione tra le
Idee che rappresentano, essendo evidente
che, generando i numeri, Platone geìiera le cose stesse cioè le Idee con cui li
identifica. In altri terunità che li costituiscono quando chiama simultanee le
unità dello stesso numero, e anteriori e posteriori quelle dei numeri che sono
in questo rapporto. Lo stesso fa in altri luoghi in cui chiama l'unità che fa
parte di un numero, simultanea al numero stesso
e a in cui domanda, nelU ipotesi
che le unità dei diversi numeri che, secondo Platone, sono eterogenee
differiscano di quantità, se sono le prime le minori o le posteriori vanno
crescendo, o se è al contrario. Sinché si tratta dei numeri stessi, si potrebbe
supporre che V anteriorità e posteriorità non signilìchi che i diversi gradi di
generalità delle Idee che questi numeri rappresentano. Ma questa spiegazione
essendo inapplicabile alle unità, questi termini, in questo caso, non
potrebbero avere altro significato immaginabile ohe la successione metafisica
di cui nel n. 1. Si veda, per una maggiore eluoidazione di questo punto, il
Suppl. Qui aggiungeremo solamente che il penultimo dei luoghi citati prova, non
solo che 1'anteriorità e posteriorità, applicata ai numeri ideali, ha il
solito significato definito d:i
Aristotile ciò che dimostra il criterio usato per distinguere l'anteriore e il
posteriore, ma ancora che un numero anteriore rappresenta un'Idea più
universale, come apparisce dalle parole Idea rf' Idea, che noi abbiamo già spiegato in una
nota precedente. Così Aristotile dioe(3/e(: Generano le cose che seguono za
énófzeya-^cioh che seguono ai due prinoipii, come mini la generazione
progressiva dei numeri gli uni dagli altri non è che 1'espressione, in termini
pitagorici, di questo nesso ontologico tra le Idee, che è 1'obbiettivazione del
loro nesso logico. E per conseguenza i termini anteriore e posteriore, che
significano i diversi gradi di questa generazione, significano pure i diversi
gradi dello sviluppo delle Idee, o, ciò che vale lo stesso, i diversi anelli
del loro incaten amento causale. Anteriore e i termini simili è sinonimo di
principio, posteriore di cosa derivata da questo principio. Così tutte le
entità, di cui si ammette generalmente che Platone le ha riguardate come
principii, sono anteriori alle cose di cui sono i principii. L’Uno cioè, senza
pitagorismo, l'Essere o il Bene e la Dualità indefinita sono i primi degli
esseri, anteriori a tutte le altre cose,
che sono chiamate za énó/aeya. Le Idee sono anteriori alle cose, e sono pure
chiamate i primi degli esseri l' Idea del Bene è il primo dei beni, la Dualità
ideale la prima dualità, ecc. Siccome i numeri ideali non producono soltanto le
cose, ma anche le entità matematiche, essi sono anteriori anche alle entità
matematiche, che, come tutti i concetti obbiettivati, producendo le cose di cui sono i concetti, sono
anteriori a queste, e si dicono perciò medie fra le Idee e i sensibili. Pei
platonici per cui i primi numeri sono gì'ideali, le cause prime di tutti U
vuoto f la proporzione, V abbondante ^ e le altre cose tali, dentro ki decade;
perchè alcune cose attribuiscono ai principiialtre cioè quelle che seguono ai
numeri. V., oltre i luoghi citati nella
nota, Met, ecc. Met, Mh. Eud. Alex.
Aphrod. in phil. pr., ecc. MeL e Suppl. gli esseri sono i numeri ideali; sono i
numeri matematici per quelli per cui i primi numeri sono i matematici. La
sinonimia tra principio iiìoh principio assoluto e primo come anche tra cosa
derivata e cosa posteriore apparsa nel progresso della natura degli esseri è
evidente nei due luoghi della Metafìsica citati cioè Met.
Aristotile continua ad usarli come sinonimi nel tratto che se^»ue il
primo di «luesti due luoghi, e lo stesso fa anche altrove, come in Met., in cui dopo aver detto che anteriore ha
due sensi, nell'uno dei quali anteriore
è V universale, e nell'altro la materia di cui un oggetto si compone,
rimprovera a Platone di riguardare l'Uno in sé come principio nell'uno e
nell'altro di questi due sensi del termine anteriore come universale, perchè
ogni numero è uno, e come materia, perchè si compone di unitji. Ma 1' equivalenza
di primo e di anteriore a principio è sovratutto evidente in Met.: L'Uno e l'Essere possono specialmente
riguardarsi come coutenenti Mei, Mei.: È
Btrauu che al pnmo cil eterno e sufficientissiino a se stesso, questi stessi
attributi primi, la sufficienza a se
stesso e 1'eterna censervazione, non appartengane in quanto ò bene.
Dunque è conforme alla ragione che sia vero affermare che il principia è tale
cioè è il Bene, ma è impossibile ohe sia 1’Uno in sé. Ne segue una grave
ditticoltà, che alcuni hanno cercato di evitare, riconoscendo ohe l' Uno è il
primo pHncipio ed elemento, ma del numero matematico. Questa equivalenza tra
anteriore e principio di ciò a cui si
dice anteriore, si vede pure in Met., cioè nel luogo citalo, in cui si dice che
le unità della Dualità, somigliando al primo principio, cioè l'Uno in sé, più
della Dualità stessa, dovrebbero esserle anteHori. tutti gli esseri, e sembrare
si>ecialmente pnncépie per essere primi di natura. Tolti infatti essi, sono
tolte anche <rvi^ai/ai{)Bitai le altre cose, poiché tutto è uno ed essere Perchè dall'esser primo, cioè
anteriore a tutto il resto, seguirebbe essere il principio assoluto, se non
perchè l'anterioreè il principio di ciò a cui è anteriore? In quanto le specie
sono tolt« tolti i generi avt^ayaiQBizai
zoìg yéyeai)^ più sembrano
principii i generi che le specie. Principio infatti è rò Tvi^ai^ai()ovyy> vale a dire ciò tolto il
quale è tolto anche ciò di cui si dice
principio. La definizione di principio è dunciue la stessa che quella di
anteriore. In tutti questi luoghi, riferendosi essi alle dottrine platoniche,
Aristotile deve usare sì il termine primo che il termine principio nel
significato platonico. In Top,, in cui non deve usarli, a dir vero, nel senso
platonico, ma in quello certamente della lingua filosofica dell'epoca e che è
comune perciò anche ai platonici, dice:
Ciò che è principio è pvimo, e ciò che è primo è principio. Ora, ripetiamolo,
se principio, nel senso assoluto, cioè di primo principio, è il sinonimo di
jpr/mo, cioè di quest'altro assoluto il cui relativo corrispondente è anteriore
principio nel senso relativo deve essere sinonimo dell'altro relativo, cioè di
anteriore. In altri termini, come ciò che è anteriore a tutio il resto è
il principio di tutto il resto, così ciò
che è anteriore ad un'altro sarà il principio di quest'altro a cui si dice
anteriore. Indipendentemente dal significato dei termini ante^ Anche in Anal. Pont. Aristotile dice: Lo
stesso dico primo e principio; ma noi non possiamo tirarne alcuna deduzione sul
significato platonico di questi termini, perchè qui parla della sua propria
terminologia, e relativamente alla sua
teoria della dimostrazione. riore o primo e posteriore^ abbiamo altre prove in
Aristotile che dimoBtrauo che Platone considera le Idee più universali come
principu delle Idee più particolari. La principale è che i platonici chiamano i
generi priìicipii dello specie, e per conseguenza anche deglMndividui compresi
nelle specie per specie qui deve
intendersi, come si vedrà dal seguito,
le specie infime. In MeL Aristotile
enumera le quiationi dubbiose che il filosofo deve esaminare, e una delle
quistioni è questa: E se i principii e gli elementi sono i generi, o
gl'ingredienti nei quali si scompone ciascuna cosa. E supposto che i generi, se
gli ultimi che si predicano degl'iudiviJui
o i primi; p. e. se Panimale o l'uomo è principio ed ha più essere
^à'A'Aòy èazi al di là del singolare na()à zò
xa*' exaazo»^ è uno dei modi con cui Platone esprime la
relazione tra le Idee e le cose. Questa quistione non è un semplice dubbio che
si propone Av'stotile, ma ha un fondamento storico. Infatti in Met., parlando
dei significati della parola elemento, dice: Alcuni chiamano elementi i generi,
e più che la differenza, perchè il genere è più universale elemento per i platonici è sinonimo di principio Met. E in Met., indicando le cose che sono
riguardate come sostanze: € Avviene a un altro punto di vista il genere
essere più sostanza delle specie, e l'universale dei particolari >(ciò che
corrisponde al fzàkkóy iati di Met. Ora questi generi, che sono riguardati come
principii, come elementi ii come piii sostanze delle specie, non sono
evidentemente dei semplici concetti, ma dei concetti obbiettivati, cioè delle
Idee: questa è dunque una dottrina platonica, perchè noi non possiamo
attribuire le Idee che a Platone, e d'altronde essa non si comprende che in
relazione alla dieresi platonica, cioè come una trasformazione in un legame
ontologico del legame logico tra le Idee generiche e le Idee specifiche. Ma se
l'una delle due soluzioni della quistione che ci presenta Aristotile cioè che
principi i ed elementi sono i primi generi, vale a dire i generi nel senso
stretto, è una dottrina filosofica della sua epoca, non ne segue che lo stesso
deve dirsi dell'altra cioè che principii ed elementi sono i generi ultimi, vale
a dire le specie. Questa seconda soluzione, che non è che l'antitesi della tesi
platonica, Aristotile la propone per
indicare che la proposizione che i generi sono principii e più sostanze
delle specie non è una Met. Per Platone
le Idee generiche danno più essere e sono piil sostanze delle Idee specifiche,
perchè per lui 1'essere e la sostanza delle Idee specifiche sono contenuti in
certo modo in quelli delle Idee generiche. Ciò è perchè le Idee specifiche si
deducono dalle Idee generiche, e per conseguenza esistono implicitamente in queste e non ne
sono che un'esplicazioìie L la stessa
ragione per cui Platone dice che tutto è
uno, e, egli stesso o alcuni discepoli, ohe tutto l'essere è nei due
principii. La sostanza, disseminata nel momento posteriore, esiste,
concentrata, nel momento anteriore, perchè l'Idea si sviluppa passando dall'uno
al multiplo. Chiamando le Idee generiche elementi, Platone esprime, al fondo, lo stesso
concetto, per che questa dcuomiuazione implica che tutto il reale delle Idee
specifiche e delle cose si risolve nelle Idee generiche Così tanto la
denominazione di elementi quanto quella di pia sostanze delle Idee specifiche
equivalgono, in ultima analisi, all'altra di
2>W«c*/>/i: ogni principio è
j^ev Vìeitoné elemento e piic
sostanza di ciò di cui è principio,
perchè le cose derivate non sono per lui ohe le cose stesse da cui derivano, e
la derivazione non è che uno sviluppo, cioè uno svolgimento o, come abbiamo detto, una esplicazione. (/ conseguenza necessaria della dottrina
delle Idee, e che le dottrine platoniche forniscono anche dei motivi per
sostenere la proposizione contraria, cioè che le specie sono più principii e
più sostanze dei generi. La quistione se
i principii siano i generi o le specie si ritrova in Met e ITI. In quest'ultimo luogo jriL Nella maniera iu cui la presenta Aristotile,
la tesi che gli elementi e i principii sono i generi e non gì'ingredienti
sembrerebbe la dottrina comune di due sistemi
HIos liei, di cui l'uno
ammetterebbe che elementi e principii sono i generi primi, e l'altro i generi
ultimi. Ma il vero è che tutti quelli
ohe sostengouo questa tesi non la intendono ohe in una sola delle due forme
indicato da Aristotile, vale a dire ammettono che questi elementi e principii
sono i iroiu'ri primi, cioè i generi propriamente detti. Ciò si vede nel III
cap. dello stesso
lib. Ili, in cui Aristotile
ripresenta con più sviluppi la quistione se principii ed elementi siano i
generi o gì'ingredienti. Ivi, esponendo
le ragioni in appoggio dello due proposizioni contrarie, è cosi che dice sulla
prima: In quanto conosciamo ciascuna cosa mediante le definizioni, e i generi
sono principii delle definizioni, è necessario che i generi siano anche
principii delle cose definite. E se avere la scienza degli esseri è avere
quella delle specie secondo cui gli esseri sono nominati, i generi, di
certo, sono i principii delle specie.
i^Met. È appena bisogno di osservare che queste ragioni su cui si appoggia la
proposizione che i principii sono i generi, proverebbero abbastanza se fossero
necessarie altre prove ohe la proposizione stessa ohe si tratta di una dottrina
dolla scuola platonica. In seguito vedremo che le ragioni su cui è appoggiata r
altra pretesa forma della tesi, cioè che i principii sono i
generi ultimi e non i primi, sono desunte anch'esse, quantunque
forzatamente, dalle dottrine platoniche. Se più è principio ciò che è più
semplice che ciò che lo è meno, siccome le ultime delle cose che vengono dal
genere {là Igxo-io. i(bv £x zov yéyovg,
vale a dire: le ultime entità che il dividente ricava dalla diviene del'genere,
in una parola le si ripete negli stessi termini la quistione di
III. I. 9, cioè se, supposto che
i principii ed elementi siano i generi e non gl'ingredienti, deve ammettersi
che sono i primi generi o gli ultimi; ma per primi generi s'intende i primi nel
senso più stretto, cioè il genere sommo di Platone, rUno o Essere, che il LIZIO,
seccmdo la sua abitudine, sdoppia in due generi distinti, V’uno e 1'essere –
GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. GRICE CODE PLATONISM
AROSTELIANISM Però questa dottrina che i generi supremi, cioè l'uno e l'essere,
sono i principii primi delle cose, è riguardata come un'applicazione della
dottrina più generale che i principii sono i generi, e come legata
solidariamete con specie infimo sono più
semplici dei generi esse infatti
sono indivisibili, mentre i generi si dividono in molte e diffsrenti specie,
più le specie ohe i generi sembrerebbero
essere principii. Ma in quanto le specie sono tolte tolti i generi, più
sembrano principii i generi: principio infatti è ^ò av^ai^aiQovìf)^ (v. più
su, questo paragr. n., in cui è già stata citata 1'ultima parte di
questo luogo. S’osserva facilmente che gli argomenti tanto per l'una quanto per
l'altra delle due tesi contrarie sono tirati da dottrine platoniche. La ragione
in appoggio della prima tesi, che più è
principio ciò che è più semplice ohe ciò che lo è meno, è una deduzione forzata
dalla dottrina eh e il primo principio è l'Uno in sé Met. Non è possibile che
1'uno sia un genere degli esseri, e nemmeno l'essere. È necessario infatti ohe
le differenze di ciascun genere siano e ciascuna sia una. Ma è impossibile
tanto che le specie di un genere si predichino delle proprie differenze, quanto che sé ne predichi – GRICE
BOEZIO PRAE-DICATIO il genere separatamente dalle sue specie. Per cui se l'uno
o l'essere è un genere – GRICE: But for Aristotle, being is not a genos --, nessuna differenza sarà una uè essere. Ma se
non sono generi, non saranno nemmeno principii, se sono i generi che sono
principii Met. È evidente ohe in questo
luogo la parola genere deve intendersi
nel senso stretto, cioè come quello a cui sono subordinate delle specie. essa:
infatti confutando la prima dottrina, il LIZIO fa delle obbiezioni, che non
hanno di mira direttamente essa stessa,
ma la seconda, perchè vogliono dimostrare che le specie sembrano
principii più che i generi. La 4 Oltre a ciò le differenze saranno principii
piìt che i generi. Ma se anche esse sono
principii, i principii, per dir così, diventano infiniti, specialmente se si
pone come principio cioè come principio primo il primo genere. Questo luogo
prova ohe le differenze secondo i platonici non sono principii, com yotrebhe
sembrare da Met., in cui si dice che €
alcuni dicono elementi i generi, e piìi che le differenze I platonici
non possono riguardare le differenze né come
principii né come elementi, perchè
essi nou le considerano come delle entità sussistenti per sé stessi, in una
parola come delle Idee. Alessandro d'Afi^disia,
in phil, pr., commentando questo luogo, nota che IL
LIZIO combatte la dottrina che i generi sono principii, perchè nel suo pensiero
essa è legata con quella che sta confutando, cioè che i principii primi sono i
generi sommi. E te l'uno ha più natura
di principio, Tuno essendo l'indivisibile
e i generi essendo divisibili in specie,
sarà più uno l'ultimo PREDICATO GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO cioè, la
specie infima e quindi sarà più principio che il genere. Met. L'uomo infatti
non è un genere degl’individui quindi, non si divide in essi come un genere
nelle specie V. per tutto questo periodo il comm.
d'Aless. d'Afrod., Inoltre nelle cose in
cui vi ha anteriorità e posteriorità non nel senso tecnico aella filosofia
platonica che abbiamo spiegato nou è possibile che ciò che SI PREDICA GRICE
BOEZIO PRAE-DICATIO in comune di esse sia qualche cosa al di là di esse fnaoà
zai^ra cioè sene faccia un'entità distìnta: p. e. la dualità essondo la prima
dei numeri, non vi sarh un Numero generico
al di là ntroà delle specie dei numeri; e similmente non vi sarà una
Figura al di là delle specie delle figure si allude a un'argomento capzioso dei
platonici, fondato sul doppio senso AEQUI-VOCALITY delle parole anteriore e
posteriore, per escludere le Idee generiche dei numeri e delle figure v. il
commento d'Aless. d'Aphrod. e confr. Suppl. Ma se di queste cose non 335 prima
dottrina essendo incontestabilmente platonica, deve esserlo anche la
seconda; e del resto basterebbe a provarlo la natura degli argomenti che
servono a combatterla, perchè questi non potrebbero avere del valore che per un
platonico, e non si comprendono che come argomenti ad hominem. In questa
discussione del della dottrina che i
principii primi sono i primi generi, cioè 1'uno e 1'essere, questa dottrina
viene riguardata, non solo, come abbiamo detto, come un'applicazione di quella
che i principii sono i generi, ma come una conseguenza del presupposto che il
più univeisale è sempre principio del più particolare. Evidentemente vi hanno
dei generi al di là nagà delle specie, molto meno ve ne saranno delle altr^; di
queste cose infatti sembra massimamente ohe
vi siano dei geperi. Tra gl'individui invece non vi ha anteriorità e
posteriorità {p per conseguenza ciò che SI PREDICA GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO in
comune di essi, cioè la specie, può essere alcun che al di là di essi, vale a
dire può farsene un'entità distinta. Di più dove c'è un meglio e un peggio, il
meglio è sempre anteriore; per cui di tali cose non potrebbe esservi genere.
Per queste ragioni dunque le specie ehe SI
PREDICANO GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO degl'individui, sembrano essere principii
più che i geneH, Met. € Se infatti gli universali sono sempre più
principii, vale a dire: se più un'entità è universale, e più è principio è
chiaro ehe saranno principii i generi sommi; perchè questi SI PREDICANO GRICE
BOEZIO PRAE-DICATIO d'ogni cosa. Met. Il
principio e la causa deve essere al di là (^nagà delle cose di cui è principio,
e poter essere separato
^^o)Qi^ofiéyr^y) <ia ©ss® (sono due espressioni platoniche per
indicare ohe il comune si astrae e se ne fa un'entità distinta Supp. Ma perchè
si ammetterebbe esservi alcun che di tale al di là nagà dei particolari, se^non
perchè SI PREDICA GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO in universale e di tutti t Ma se
per ciò, i più universali più si devono porre principii (xà fÀàkkoy
xa&ókov ^àkXoy 'liL questa
proposizione non è certo la base della dottrina che i primi principii sono i
concetti universalissiniì, ma anche di quella che le Idee generiche sono i
principii delle Idee specifiche. Se IL LIZIO la indica solamente come il
presupposto della prima, è perchè nella
sua esposizione del sistema platonico, come del resto nelle opere stesse di
Platone, tiene più posto la dottrina che tutte le Idee derivano dalle Idee
universalissime, che quella più generale di cui essa non è che un caso, che le
Idee più particolari derivano sempre dalle Idee più universali. ^Bxéoy àgyàg,
cioè iiua cosa più universale più si deve porre principio che unii meno universale; per la qual cosa principii
saranno i primi generi. Più principio non può voler dire ohe: un principio più
primitivo, Sicché la proposizione che i più universali sono più principii
significa che gli universali di diversi gradi formano una scala di principii,
in cui il più generale è un principio più primitivo che il più particolare. Ma
ciò alla sua volta non può voler dire altra cosa se non che questi principii derivano
gradatamente gU uni dagli altri, il più particolare dal più generale; non i»uò
avere, in altri termini, altro senso che quello che noi abbiamo spiegato déìV
anteriorità e posteriorità, Le Idee generiche essendo i principii delle Idee
specifiche, ne sono anche le causCy perchè principio e causa sono dei termini
perfettamente equivalenti, tanto per Platone
quanto pel LIZIO. Così in Met. troviamo la proposizione: € L'uomo ha
molte cause, l'animale, il bipede, che noi non possiamo che riferire ai
platonici, perchè evidentemente implica la realizzazione dei concetti di
animalo e di bipede. In questo luogo. come altrove, p. e in Met., per bipede
non devo intendersi la differenza dell'uomo, perchè le differenze per Platone
non sono Idee, ma un genere subordinato
ad animale e superordinato ad uomo. Il concetto che le Idee più generali sono i
principii dello più particolari, è espresso pure indicando il rapporto delle
Bell concetto indicato in Met., che il più generale GRICE GENERALISED
IMPLICATURE è sempre il principio del più particolare GRICE PARTICULARISED
IMPLICATURE, è quello che riassumo tutto il
sistema platonico. Le Ideo cioè le Specie sono i principii delle cose,
le Idee più universali i principii delle Idee più particolari, e il principio
primo è l'Idea univcrsalissima del Bene – H. P. GRICE, ARISTOTLE ON BEING AND
GOOD --, identico all'Uno e all'Essere
H. P. GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. Per questo concetto il
sistema platonico ha una più grande coerenza che le altre forme del realismo
dialettico. Perchè il processo per cui l'Idea più astratta si astrae dalla più
concreta e il processo inverso – GRICE CONVERSO -- per cui l'Idea più concreta
deriva dalla più astratta, non sono che urni continuazione di quelli per cui le
Idee si astraggono dalle cose, e le cose derivano dalle
Idee. In una parola la stessa rehizione di universale a particolare, che vi ha fra le
Idee e le cose, vi ha tra i gradi successivi dello sviluppo delle Idee. Ma più che V identità
che la relazione tra le Idee più universali e le più parconde alle prime con la
preposizi<me significa evidentemente una derivazione. Così rà U tov ytyov:; "cl luogo citato nella nota,
Met., come altrove p. e. in Categ. –
GRICE AUSTIN e Top, in cui Aristotile
parla souza dubbio alla plutonica per dire: i generi inferiori e le specie di
uu genere. Si noti che iu questo stesso mi lo troviamo frequentemente espressa
la derivazione delle Idee e delle cose dai duo principii primi. I numeri ideali
e le altre entità sono, o vengono, o i platonici li fanno, l^ t(ò,f
ct^jjfO)//, ix to\)
fcVò^ xat zfjg
àoQtatov ^vàdog, tx Tov iyóg o £X
tf}^ àogiazov óvàóo^
semplicemente, ecc. Met., eoe. In alcuni luoghi, come nei quattro primi citati,
è chiaro che questa derivazione indicata dalla proposizione l-x non è
uu i semplice composizione da elementi., 22 ticolari ha col rapporto tra
le Idee e le cose, a noi importa di notare quella che essa ha col rapporto tra
l'Idea del Bene e tutte le altre Idee. H. P. GRICE ARISTOTLE ON BEING AND GOOD
Noi troviamo in Aristotile le stesse formule per esprimere la relazione tra il
Bene e le altre Idee e per esprimere quella tra le Idee più generali – GOOD IS
SAID IN MANY WAYS H. P. GRICE ARISTOTLE ON BEING AND GOOD e le più particolari
subordinate. Come l'Uno o Bene è principio e causa di tutte le Idee, così le
Idee generiche sono principii e caìise delle
Idee specifiche L'Uno o Bene è elemento
di tutto ciò che esiste, ed ha più essere delle cose che ne risultano perchè
tutto è uno, e l'essere sta tutto nei due principii: le Idee generiche sono
elementi anch'esse, ed hanno più essere che le Idee specifiche, nota. La
derivazione di tutte le cose dall'Uno e l'elemento materiale è indicata
chiamandoli primi e anteriori a tutte le altre cose, nota: la derivazione delle Idee più particolari dalle
Idee più generali è pure indicata coi termini anteriore e posteriore. L'Uno e
la Dualità indefinita generano tutti i numeri ideali, e questi sono pure
generati gli uni dagli altri, quelli che corrispondono alle idee più
particolari da quelli che corrispondono alle Idee giù generali, M4r La derivazione delle entità più particolari
delle entità più universali è anche
rappresentata come i gradi successivi di uno sviluppo, e questa
rappresentazione significa pure la derivazione di tutte le cose dal primo
principio, perchè il primo principio è il primo grado, il punto di partenza, di
questo sviluppo. Infine la prepiìsizione |x indica tanto la derivazione di
tutte le cose dai principii primi quanto la derivazione delle Idee più
particolari dalle Idee più universali.
Tra le formule che esprimono il rapporto di tutte Idee coi primi principii, una
sola non trova la corrispondente tra quelle che esprimono il rapporto delle
Idee più particolari con le Idee più generali: è la riduzione dei due principii
l'uno all'essenza e l'altro alla materia di tutte le Idee, destinata a
conciliare la teoria pitagorica dei due elementi coi presupposti della
dialettica platonica. Questo
parallelismo tra le due serie di formule prova d'una maniera evidente l'identità dei rapporti che
esse esprimono, e non lascia alcun luogo a dubitare che la derivazione delle
Idee più particolari dalle Idee più universali sia altra cosa che quella di
tutte le Idee dall'Idea universalissima. Sia che indichino Tuna, sia che
indichino l'altra, esse non possono SIGNIFICARE GRICE che una sola e stessa
cosa: 1'obbiettivazione del nesso logico
tra il principio e la conseguenza e la sua identificazione con quello
ontologico GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS ONTOLOGY tra la causa e l'effetto.
Le espressioni che indicano la derivazione di tutte le Idee dal principio
essenziale l'Uno o il Bene, indicano egualmente la derivazione di tutte le Idee
dal principio materiale la Dualità indefìnita. È che il rapporto delle Idee con
l'uiìo dei due principii non può differire in sostanza dal loro rapporto con
Ta'tro. Platone, considerando come
genere e come Idea V’uno solo di questi principii perchè la dieresi esige un
punto di partenza unico riguarda necessariamente esso solo come primo principio
logico perchè la deduzione non è che la dieresi e quindi come causa prima perchè il rapporto tra la causa e V’efietto
non è che il rapporto tra il principio e la conseguenza. Ma in realtà il
principio ch'egli chiama materiale ha lo
stesso dritto ad essere riguardato come jirimo principio di tutta la deduzione,
o per conseguenza come causa prima. Infatti anche per esso si verificano le due
condizioni per cvù un'entità deve essere riguardata come il principio logico e
come la causa di altre entità: è che queste ne siano delle specificazioni, e
che ne siano tutte le specificazioni logicamente possibili. Se Platone non attribuisce propriamente la
funzione di primo principio logico cioè di punto di partenza della dieresi e la
causalità che al princii Noi termineremo l'esposizione del sistema platonico,
mostrando come l'identificazione del rapporto tra il principio e le conseguenza
con quello tra la causa e 1'effetto, è l'idea madre, e, per dir cosi, il germe
di questo sistema. Siccome tutti gli
altri sistetni di realismo dialettico derivano dallo stesso germe e
dalla stessa idea madre, ciò sarà mostrare al tempo stesso come i caratteri generali di
questa forma di
metafìsica siano le
conseguenze di questa identificazione. Il sist>ema
platonico, e in generale ogni sistema di realismo dialettico, si riduce
a due dottrine: le astrazioni realizzate, che Platone chiama Idee, e il metodo
dialettico. Noi indicheremo dunque successivamente come1'una e 1'altra,
considerate nei loro tratti generali, risultano dal concetto di causalità che è
l'origine di questa filosofia. Bealiszazione delle astrazioni. Questa, come
abbiamo detto, è necessaria per due ragioni: Il realismo dialettico, come
qualsiasi altra fomia di filosofia
apriorista, non pretende di scoprire a priori o
di dedurre i fenomeni e gli oggetti individuali con le loro circostanze
particolari, ma ciò che vi ha di costante e di generale nella natura questo è
infatti l'oggetto della conoscenza scientifica, e la filosofia apriorista non
aspira che a riprodurre il contenuto stesso della scienza positiva, dando a
questo contenuto la forma dell'apriorità e della necessità. Per conseguenza il realista dialettico
distingue due elementi in ciò che noi chiamiamo il reale, pio ohe egli chiama
essenziale, egli non può farlo che arbitrariamente e, per dir così, verbalmente:
il suo scopo è di soddisfare in un certo modo all'esigenza della sua
dialettica, che è l'unità di principio, in contraddizione con la sua nuova
dottrina della dualità, che egli deve ai pitagorici. vale a dire nella realtà
empirica: l'elemento costante e generale, eh'è il solo che egli ammette che sia
deducibile e necessario, e V’elemento particolare e variabile, che è per lui
non deducibile e contingente. Questi due elementi del reale non sono
separabili, al punto di vista comune, che per una semplice astrazione mentale; ma egli deve
ammettere che il primo ha in realtà un'esitenza indipendente e distinta da
quella del secondo, perchè ciò che egli deve dedurre sono degli esseri reali, e
non delle proposizioni o delle semplici astrazioni mentali ciò che è la
condizione indispensabile perchè la deduzione rappresenti una derivazione
reale, cioè un rapporto di causa e di effetto. P. e. Platone deve dedurre e
dimostrare a priori che esistono le specie degli uomini e dei cavalli, coi
caratteri costanti e generali di queste specie, ma non che esistono, sono
esistiti ed esisteranno i dati uomini individuali e i dati cavalli individuali
del mondo reale, coi caratteri particolari di ciascun individuo, e gl'incidenti
particolari della sua esistenza. L'elemento costante e generale di queste
specie, distinto dall'elemento particolare e variabile, cioè individuale, non
è, al punto di vista comune, che un'astrazione mentale; ma Platone deve
considerarlo come reale, quantunque astratto, perchè è esso solo, isolato
dall'elemento individuale, che egli deve dedurre, e ciò che egli deve dedurre
deve es$ere una realtà, e non una semplice astrazione mentale. Se egli non lo deducesse isolato dall'elemento
individuale, la sua deduzione non potrebbe rappresentare una derivazione reale,
un nesso ontologico di causa ed effetto, e non semplicemente logico di
principio e conseguenza. Supponiamo infatti che quando egli pone, deduceudole
dai principi! che ha posti precedentemente, la specie dell'uomo e quella del
cavallo, i reali eh'egli intende porre cim questa sua deduzione siano i cavalli
e gli uomini individuali dati del mondo dell'esperienza: questa deduzione non
potrebbe rappresentare una derivazione i-eale delle cose dedotte da quelle da
cui si deducono, perchè i cavalli e gli nomini individuali dati del mondo
dell'esperienza, che sono, secondo Platone, contingenti e indeducibili, non
ijotrebbero essere la conseguenza necessaria delle cose da cui si dedurrebbero,
e quindi nemmeno Veffetto, perchè l'effetto è ciò che è dato necessariamente
data la sua causa. Questi reali eh'egli deve porre, deducendoli da quelli che
ha posti precedentemente, devono essere dunque ciò che vi ha di generale e di
costante nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratto da ciò che vi ha in
esse di particolare e di variabile, cioè d'individuale; perchè ciò solo, per
Inr, è una conseguenza necessaria dei principii già posti, e può quindi,
essendo una realtà e non una semplice astrazione mentale, considerarsi come un
effetto di cui questi principii sono la eausa. Ciò che vi ha vdi costante e di
generale nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratte» da ciò che vi ha in
esse d'individuale e di variabile, e considerato, in questa astrattezza, come
una realtà, è ciò che Platone chiama l'Idea dell'uomo e quella del cavallo.
L'Idea dell'uomo e del cavallo sono dunciue le specie stesse degli uomini e dei
cavalli, astrazion facendo dal loro elemento contingente e non deducibile, e
considerate nel solo elemento necessario e deducibile: sono queste specie
stesse, perchè ciò che Platone intende dedurre è il mondo reale stesso, quello
che è l'oggetto della nostra esi)erienza, di cui è costretto a negligere certe
circostanze, perchè le ritiene non deducibili. Queste circostanze che si devono
negligere, e fatta astrazione delle quali, il residuo è l'Idea, sono le
particolarità e l'esistenza stessa degl'individui; ciò che resta è il tipo
dell'uomo e del cavallo: quello che è necessario e deducibile è che, nella
realtà, questo tipo esista; che esso si effettui in tali o tali altri individui
determii\ f*nati, ed anche in tale o tale altro numero determinato d'individui,
questo è non deducibile e puramente contingente. Questi tipi, astratti dalle
particolarità degl'individui in cui si manifestano, ed anche da qualsiasi
numero o moltiplicità d'individui, e considerati, in questo stato d'astrazione,
come reali, sono le Idee. Deducendo le Idee, Platone intende dedurre le specie
stesse del mondo dell'esperienza e infatti, come abbiamo detto, ciò che egli
deve dedurre è il mondo reale, perchè le Idee sono per lui queste specie
stesse, senza certe determinazioni con cui ci sono date nel mondo dell'esperienza:
l' Idea è la specie allo stato astratto, la specie l'Idea allo stato concreto,
cioè l'Idea a cui si aggiunge la determinazione del numero e le differenze che
distinguono ciascuno dei multipli cosi ottenuti, vale a dire la posizione in un
punto determinato del tempo e dello spazio, i caratteri individuali,
gì'incidenti della storia di ciascun individuo, ecc. Di più, non solo l'Idea è
la stessa cosa die la specie, che solamente si concepisce astrazion facendo da
alcune delle sue determinazioni; ma la specie, in quanto è veramente reale, non è che l'Idea. Tutte queste determinazioni
che, aggiunte all'Idea, costituiscono la specie, non sono veramente reali,
perchè non sono dedotte: infatti il realista dialettico deve dedurre tutto il
reale, perchè la sua deduzione rappresenta il modo essenziale di produzione
dell'universo reale; quindi ciò che non può dedursi non può essere per lui
veramente reale. La specie, come complesso d'individui, è dunque un fenomeno,
un'apparenza, quantunque obbiettiva, la cui realtà è l'Idea; e il mondo delle Idee non solo è il
mondo stesso dell'esperienza, Suppl. considerato astrazion facendo da alcune
delle sue determinazioni, ma è tutto ciò che vi lia di reale in questo mondo
dell'esperienza. Tutto ciò che abbiamo detto in questo numero si applica tanto
al sistema di Platone quanto a quelli di Hegel o di Taine, e in generale a
tutti i sistemi che obbiettivano i concetti e in cui questa obbiettivazione è
unita al metodo dialettico. I concetti obbiettivati, in tutti questi sistemi,
rappresentano 1'elemento necessario e deducibile del mondo, astratto
dall'elemento indeducibile e contingente^ e considerato, in questa astrattezza,
come reale e come la sola cosa che sia veramente reale. Noi spiegheremo in
seguito perchè questi filosofi vedono quest'elemento necessario e deducibile
del mondo precisamente nei concetti obbiettivati. Nella deduzione la
ccmseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non è che il principio
stesso in una forma, più detcrminata o più concreta. I fatti reali che corrispondono
alle conseguenze sono gli stessi che i fatti reali che corrispondono ai
principii, semplicemente i principii esprimono questi fatti d'una maniera più
astratta o più indeterminata, le conseguenze d'una maniera più concreta o più
determinata,.Così, se non vi ha altro di reale che il singolo, i fatti
particolari dell'esperienza, al progresso nella deduzione non corrisponderà
alcun progresso nelle cose stesse; passando dal principio alla conseguenza, non
si passerà dall'aftermaziono d'un reale a quella di un altro reale; il reale
affermato sarà sempre lo stesso; prima espresso d'nna maniera più astratta o
più indeterminata, poi d'una maniera più concreta, o più determinata Allora la
deduzione non rappresenterà una derivazione reale, o, ciò che è lo stesso, il
rapporto logico tra il principio e la conseguenza nou jiotrà identificarsi al
rapporto ontologico tra la causa e l'effetto, perchè questa identificazione
suppone che da un reale si deduca un altro reale, la causa e 1'effetto essendo
due fatti reali, distinti e separati l'uno dall'altro. Ciò che 8i è detto è
vero tanto nell'ipotesi del nominalismo quanto in quella del concettualismo:
nella seconda ipotesi alle proposizioni che fanno da principii
corrist)onderanno dei concetti più astratti; a quelle che fanno da conseguenze
dei concetti meno astratti; ma le realtà rappresentate da questi concetti
saranno sempre le stesse realtà, che i concetti corrispondenti ai principii
penseranno d'una maniera più astratta, e quelli corrispondenti alle conseguenze
d'una maniera meno astratta. Così il progiesso dal più astratto al meno
astratto, dal più indeterminato al più deteiminato, avverrà solamente nel
nostro pensiero e non nella realtà stessa, e la deduzione non potrà
rappresentare una derivazione reale, perchè, passando dal principio alla
conseguenza, non si passerà da un reale ad un altro reale, ma il reale
affermato sarà sempre lo stesso, che solamente si pensem ora d'una maniera più
astratta o più indeterminata, ora d'una maniera più concreta o più determinata.
Perchè dunque la deduzióne sìa una derivazione reale, e il rapporto tra il
principio e la conseguenza s'identifichi col rapporto tra la causa e l'effetto,
è necessario che al nominalismo o al concettualismo si sostituisca il realismo,
cioè che si amfuetta che l'astratto e l'indeterminato ha un'esistenza per sé,
indipendente e distinta da quella del concreto e del determinato. Allora il
progresso dal più astratto o più indeterminato al più concreto o più
determinato avrà luogo nella realtà stessa, e non solamente nel nostro
pensiero; passando dal principio alla conseguenza, si passerà da un reale ad un
altro reale, e non semplicemente da un'espressione o rappresentazione a
un'altra es[>ressìone o rappresentazione dello stesso reale; e deducendosi
un reale da un altro, la deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè
il principio e la conseguenza saranno due realtà distinte, come sono aa«a due
realtà distinte la causa e 1'effetto a cui si cerca d'identificarli. Tutto ciò
ha la sua applicazione più evidente nel sistema platonicOo La dialettica platonica consiste a dedurre da
un genere le sue specie, p. e. dall'animale Taniraale immortale e l'animale
mortale, dall'animale mortale Tanimale propriamente detto e la pianta,
dall'animale propriamente detto quello provvisto di piedi e quello senza piedi,
ecc. Essa pretende che se l'animale è, sono anche necessariamente l'animale
immortale e rlnimale mortale; che se l'animale mortale è, sono anche
necessariamente l'animale propriamente detto e la pianU, e così via; e vede
perciò neir ani. naie il principium essendi o la causa dell'animale immortale e
dell'animale mortale, nell'animale mortale il principium essendi o la causa
dell'animale propriamente detto e della pianta, e così via. È evidente che se
non esistessero che degli animali individuali, se animale, animale mortale e
animale immortale, pianta e animale propriamente detto, ecc. non fossero che dei termini generali o
dei concetti generali; deducendo dall'animale 1'animale immortale e l'animale
mortale, dall'animale mortale l'animale propriamente detto e la pianta, ecc.,
questui deduzione non potrebbe avere alcuna pretesa a rappresentare una
derivazione reale, in altie parole il principio e la conseguenza non potrebbero
identificarsi alla causa e all'effetto. Se l'animale è, sono anche
necessariamente l'animale immortale e l'animale mortale, significherà
semplicemente che se una proposizione è
vera, sarà vera necessariamente anche un'altra proposizione, ovvero che se un
concetto è vero, cioè è conforme alla realtà, saranno anche necessariamente
veri, cioè conformi alla realtà, altri concetti; ma non potrà significare che
se un reale esiste, esistono anche necessariamente altri reali. Gli
oggetti reali che si affermeranno
dicendo € l'animale esiste, saranno gli stessi
che gli oggetti reali che si affermeranno dicendo l'animale immortale e
l'animale mortale esistono; semplicemente questi oggetti reali la prima volta
saranno espressi o rappresentati d'una maniera più astratta o più indeterminata,
la seconda volta d'una maniera più concreta o più determinata. Il legame tra il principio e la conseguenza non sam
dunque ontologico, perchè non si dedurranno dei
i-eali da nitri reali differenti^ ma sarà semplicemente logico.
Ammettiamo invece, come vuole Platone, che oltre agli afaimali concreti e
individuali, vi siano degli animali astratti e generali; che i termini animale,
animale mortale e animale immortale, ecc. DESIGNINO GRICE DESIGNATIO ciascuno
un essere reale distinto da tutti quelli designatidagli altri. Allora il
progresso dal più indeterminato al più
determinato avrà luogo nella realtà egualmente che nel nostro pensiero, e la
deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè deducendo dall'Animale
l'Animale immortale e l'Animale mortale, dall'Animale mortale l'Animale
propriamente detto e il Vegetale, ecc., si dedurianno sempre dei reali da altri
reali distinti; perciò fra il principio e la conseguenza il legame non sarà semplicemente logico, ma
anche ontologico, poiché, il principio e la conseguenza essendo delle realtà
distinte, il principio non sarà semplicemente il principium cognoscendi y ma
anche il principium essendi, ciò che vorrà dire che il principio sarà in
qualche sorta la causa, e la conseguenza l'effetto di questa causa. Ciò che
abbiamo detto in questo numero ci mostra
al tempo stesso due condizioni necessarie di una filosofia, che è
fondata sulla identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza
con quello tra la causa e l'effetto: l'una che si realizzino le astrazioni, e
l'altra che queste astrazioni realizzate formino una scala di astrazione
decrescente, in modo che la deduzione vada sempre da entità piùastratte ad
entità meno astratte, e queste entità
più astratte e meno astratte siano gli stati logicamente sucessivi di una
stessa realtà, che passa progressivamente da uno stato più astratto a uno stato
meno astratto anteriorità e posteriorità di natura. Questa seconda condizione
l'abbiamo anche trovata in Hegel e in Taiue e la ritroveremo in Spinoza, e
possiamo considerarla come un carattere generale del realismo dialettico. Vi
ha un punto che ci resta a
rischiarare. Le considerazioni
precedenti ci mostrano che una tilosofia fondata sulla identificazione del
principio e della conseguenza alla causa e all'effetto deve realizzare
necessariamente le astrazioni: ma perchè queste astrazioni realizzato sono
precisamente dei con cri 11 obbiettivati, come abbiamo visto in tutti i sistemi
di cui abbiamo parlato! I concetti
obbiettivati non rappresentano adeguatamente l'elemento costante e
necessario della realtà empirica. Non ò solo un fatto costante e generale della
natura che esiste il tipo Uomo ciò che corrisponde al concetto obbiettivato
dell'avzoài^6()o)7iog, ma anche che questo tipo si realizza in una moltitudine
d'individui, che, sparsi nella serie del tempo, occupano successivamente tutta
la serie (secondo la dottrina antica
della stabilitti ed eternità delle specie. Che t^sistauo tali o tali altri
individui determinati ed anche tal o tal altro numero determinato d'individui
sarà, secondo i presupposti del realismo dialettico, un fatto contingente: ma
che esistano, ed esistano sempre, molti individui, non è un fatto che ha lo
stesso titolo ad essere rigtardato come
necessario che l'esistenza stessa del
tipo che essi realizzano! L'astrazione realizzata che rappresenta la specie
umana non dovrebbe essere dunque, nel sistema di Platone e degli altri realisti
dialettici, una moltiplicità indeterminata d'individui umani indeterminati che
occupano successivamente dei punti indeterminati in tutta la serie dei tempi,
anziché 1'Uomo indeterminato, astratto assolutamente dal numero e dal tempo, e non li semplicemente da un
numero e da un tempo determinati? Se sì ammette che un indeterminato reale può
concepirsi e può esistere, il primo di (luesti due indeterminati reali non è
altrettanto concepibile e altrettanto possibile che Paltro f Perchè dunque
Platone e gli altri realisti dialettici di cui abbiamo parlato, hanno concepito
le astrazioni realizzate che rappresentano
le specie reali degli esseri, nella seconda forma anziché nella prima?
A. questa quistione rispondono gli argomenti di Platone per provare l'esistenza
delle Idee. Se si negliggono gli argomenti più deboli, gli altri possono
ridursi sommariamente a questi due: la somiglianza generica e specifica degli
esseri, questo fatto sorprendente che lo stesso tipo si ripresenta
uniformemente in individui distinti ed
anche senza alcun legame fra di loro come p. e. nei minerali e nelle specie
diverse delle piante e degli animali che non hanno fra di loro, al punto di
vista antico, alcun legame genealogico, non può spiegarsi che ammettendo che
tutti gli esseri che si somigliano partecipano in comune a qualche cosa che è
una e la stessa in tutti: questa qualche cosa è l'Idea; la verità dei
concetti e delle conoscenze scientifiche
che sono unioni tra concetti suppone l'esistenza di oggetti reali che
corrispondono adequatamente a questi concetti: questi oggetti sono le Idee. Si
avrebbe torto di vedere in questi argomenti i soli motivi per cui Platone
ammette l'esistenza delle Idee. S'egli trova questi argomenti concludenti, è
perchè ha bisogno di astrazioni realizzate per potere identificare
il rapporto tra il principio e la per la 1» prova
il Supplem. e per la
prova cioè per il gruppo di argomenti che essa riassume lo stesso Supplem. y lo stesso luogo e parte
conseguenza a quello tra la causa e l' effetto, e questi argomenti gliene
fornivano: vi era in essi un motivo sutfftciente, non per realizzare le
astrazioni, ma per preterire ad altre le astrazioni realizzat* che
potevano basarsi 8u di essi. Si sarebbe
ingiusti, d'altronde, verso questi argomenti di Platone, negando assolutamente
ad essi qualsivoglia valore. La 1» prova contiene la sola spiegazione che abbia
dato la metafisica di «no dei fatti più Lprendenti della natura: è uno dei più
importanti di nuelli di cui Darwin si propone di dare una spiegazione
scientifica ma pei soli esseri viventi, e la. Landò inesplicato 1'altro fatto per cui lo spiega
ci^ la legge d’eredità. La 2» prova o,
p.uttos^ il 2« Ippo di prove presenta, sotto le forme che
Piatone crede più incalzanti, una conseguenza, secondo no. logica, della teoria
dei concetti. Un filosofo che non avesse avuto bisogno, come Platone, di
astrazioni reatoZ avrebbe respinto il
principio in forza de la con^uSza, invece di ammettere la conseguenza in forza def principio. Ma se la
teoria dei concetti non fosse la dottrina comunemente ricevute, sarebbe
evidente per tutti, secondo me, che delle idee astratte suppongono necessarSTente
ddle realtà egualmente astratte. Come ho detUi nel Saggio, il pensiero implica
naturalmente la eredenza o la supposizione di un oggetto, reale o possibile,
che abbia, nella forma
dell'obbiettività, il contenuto stesso che l' idea ha nella forma della
rappresentez.one. Nell'esereizio naturale del pensiero, queste stessa
distinzione fra una rappresentazione e un oggetto rappresentato per noi non
esiste: noi crediam.. istintivamente che i pensiero colga immediato.nente
l'oggetto pensato, e che ciò 1 \i . »,
» e lì che è presente al nostro spìrite,
sia quest'oggetto stesso e non la sua
rappresentazione, perchè questa, della «tessa maniera che la sensazione, s’obbiettiva, ed è riguardata
come una COSA – CICERONE: RES -- esteriore. Quest'illusione, come tutte le
illusioni naturali, persiste anche quando noi abbiamo appreso che è
un'illusione: anche allora noi continuiamo a proiettare, per dir così, al di
fuori di noi, o almeno al di fuori del momento attuale, le nostre rappresentazioni, e a credere che
ciò che è presente al nostro spirite non sono delle semplici rappresentazioni,
ma gli oggetti stessi -- o meglio, LA COSA -- rappresentati. È quest'illusione
naturale il meccanismo per cui si ottiene il risultato che il pensiero si
riferisce all'oggetto pensato; che quando noi ricordiamo, prevediamo, in una
parola affermiamo, quantunque non vi
siano nel nostro spirito che delle semplici rappresentazionì, ciò che
noi intendiamo di affermare non sono queste rappresentazioni, ma i fatti stessi
– LA COSA -- che esse rappresentano. I fatti stessi – LA COSA -- significa,
come abbiamo detto, degli Oggetti, reali o possibili, che abbiamo, nella forma
dell'obbiettività, il contenuto stesso che le idee corrispondenti hanno nella
forma della rappresentazione, Ne segue
che, se noi abbiamo delle idee astratte, noi dobbiamo istintivamente proiettare
GRICE HUMEIAN PROJECTION, per dir così,
al di fuori di noi queste idee astratte, come proiettiamo al di fuori di noi le
idee concrete, e credere di avere presenti al nostro spirito, non delle
semplici rappresentazioni astratte, ma degli oggetti astratti corrispondenti.
Questa, illusione naturale persiste
anche quando la riflessione psicologica ci ha appreso che il nostro pensiero
non coglie immediatamente gli oggetti, ma non consiste che in semplici
rappresentazioni; e ha per risultato, anche allora, che quando noi avremo delle
idee astratte, e formeremo dei giudizi unendo delle idee astratte, noi
ammetteremo o supporremo degli oggetti astratti corrispondenti (reali o possibili, secondo che crederemo o no alla verità dell'idea
astratta, e intenderemo di affermare l'unione di questi oggetti astratti nella
realtà, come le loro rappresentazioni sono unite nel nostropensiero. Questa
conseguenza forzata del concettualismo, in cui noi abbiamo visto una prova
della erroneità di questa teoria, dove sembrare a un filosofo che, come Platone,
cerca delle astrazioni realizzate, una
prova evidente della loro esistenza; di più dove dargli un motivo sufficiente
per preferirò i concetti obbiettivati a qualsiasi altra forma di queste
astrazioni realizzate che egli cerca Tanto l'una quanto 1'altra delle due prove
per cui Platone stabiliva la realtà degli astratti cioè che i concetti
suppongono degli oggetti reali che siano,
per usare la lingua della scolastica, formalmente ciò che i concetti
stessi sono obbiettivamente ^ e che la somiglianza specifica e generica si
spiega per la presenza di una stessa entità in tutti gl'individui della specie
e del genere soddisfaceva al tempo stesso alla doppia esigenza di astrazioni
realizzata che vi ha nel realismo dialettico: vale a dire di sepamre 1'elemento
costante e necessario della natura dall'elemento variabile e contigente, e di
fare del princìpio e della conseguenza due realtà distinte, che rappresentino
uno stesso essere a due gradi differenti di astrazione. Queste due prove dei
concetti obbiettivatì non sono speciali al solo Platone, ma comuni, in
sostanza, a tutti i filosofi che obbiettivano i concetti. Quando Taine spiega le sequenze e coesistenze
uniformi dei fenomeni per gli accoppiamenti delle entità astratte presenti in questi
fenomeni; quando dice, per esempio, che se tutti i triangoli hanno gli angoli
uguali a due retti, è perchè gli angoli astratti del triangolo oatratto sono
eguali a due retti, o che se tutti i pezzi di ferro sottoposti all'umidità si
arruginiscono, è perchè il ferro in sé,
sottoposto all'umidità in se stessa, ha per conseguenza la ruggine in
generale – GRICE: And when Plato says that horses neigh, it is because
HORSENESS gets attributed NEIGHING ITSELF ; questa spiegazione è perfettamente
identica a quella di Platone, quando spiega 1'identità specifica e generica
delle cose per la presenza in tutte di un'Idea unica. Ed Hegel, risolvendo
tutti gli esseri in concetti
obbiettivati, non ammette anch'egli, come Platone e Taine, che in tutti gli
oggetti di una classe è presente uno stesso concetto obbiettivato t e se è
così, non spiega implicitamente, coine quelli fanno esplicitamente, la
somiglianza degli oggetti della classe per la partecipazione comune allo stesso
concetto obbiettivato! Non è meno evidente, dall'altra parte, che quando Hegel stabilisce l'esistenza dei concetti
obbiettivati in virtù del principio dell'identità dell'essere e del pensiero,
la sua prova ha per primo punto di partenza, come gli argomenti di Platone,
oltre alla teoria dei concetti, la corrispondenza assoluta e necessaria tra la
rappresentazione e la cosa rappresentata, che secondo lui non si spiega che per
la loro identità. In quanto a Taine, quantunque
esplicitamente egli non ammetta i concetti, deve ammettere non di meno
che noi pensiamo le cose astratte e generali perchè è evidente che per
credervi, come egli vuole, dobbiamo pensarle; di più egli sostiene che i nomi e
le conoscenze, cioè le proposizioni, generali hanno per oggetto queste cose
astratte e generali: ma se è cosi, questi termini generali, che sono o possono
essere accompagnati dal pensiero delle
cose generali, SIGNIFICANO GRICE, al fondo, dei concetti, i quali anche per
lui, come per Platone e per Hegel, implicano necessariamente degli oggetti
astratti corrispondenti perchè non sono secondo lui, come secondo essi, che il
pensiero di questi oggetti astratti. Noi vedremo tuttavia nei paragrafi
seguenti che non tutti i realisti dialettici si sono rappresentate le
astrazioni realizzate sotto la forma precisamente di concetti obbiettivati: ciò
non ha niente di strano, se s’ammette che le due prove indicate per istabilire
la realtà degl’astratti non sono il vero motivo per cui si realizzano le
astrazioni, ma per cui si dà una forma speciale a queste astrazioni realizzate,
necessarie per applicare il concetto di causalità che è la vera base del idealismo dialettico. Noi faremo
un'enumerazione dei caratteri generali del metodo dialettico, cioè che sono
comuni al sistema di Platone e agli altri sistemi di realismo dialettico,
indicando come ciascuno si deduca dal concetto fondamentale di questa forma di
metafisica. Il metodo del realismo dialettico c<msi8te a dedurre delle
astrazioni realizzate da altre astrazioni realizzate. Questo metodo, essendo una deduzione, ha
necessariamente per tipo la deduzione della logica, cioè il sillogismo BARBARA
CITATO DA GRICE ASPETTI DELLA RAGIONE, ma s’allontana più o meno, non meno
necessariamente, da questo tipo, perchè deve dedurre dei reali da altri reali
poiché senza di ciò il principio non potrebl>e assimilarsi alla causa e la conseguenza
all'effetto. Ciò importa che questa
deduzione deveessei^e un progresso reale del pensiero, che rappresenta un
progresso reale nelle cose stesse; mentre la vera deduzione, essendo fondata
rigorosamente sul principio d'identità, non può che affermare nella
conclusione, sotto una forma differente, ciò che era stato già affermato nelle
premesse. WOMAN’S REASON GRICE -- Questa difformità necessaria della deduzione del realismo dialettico dalla
vera deduzione fa che spesso non si comprenda che essa pretende di essere una
deduzione, come è avvenuto generalmente per la dialettica platonica. Questa
che, come abbiamo visto, consiste a dedurre da un genere tutte le sue specie
reali, che sono al tempo stesso tutte le sue specie possibili non sarebbe una
vera deduzione che se la premessa fosse,
non l'affermazione del concetto generico obbiettivato, cioè dell'Idea del
genere, come è di fatto, ma la proposizione generale che tutte le specie
possibili del genere devono esistere. Ma in questo caso non si dedurrebbero dei
reali da altri reali distinti; quindi la deduzione non rappresenterebbe una
derivazione reale, ma il rapporto tra il principio e la conseguenza sarebbe
puramente logico, e non potrebbe
identificarsi a quello ontologico GRICE STRAWSON PEARS ON ‘ONTOLOGY’ IN
“METAPHYSICS” tra la causa e l'effetto. L’astrazioni realizzate che, in questa
deduzione, fanno da principii e quelle che fanno da conseguenze, devono formare
una scala di astrazione decrescente, in modo da costituire degli stati
logicamente successivi di un essere unico,
che passa gradatamente da uno stato più astratto o più indeterminato a
uno stato più concreto o più determinato. Ciò è perchè, come abbiamo detto
precedentemente, la conseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non
potrebbe essere che il principio stesso in una forma più concreta o più
determinata, e il passaggio dal più astratto o più indeterminato al più
concreto o più determinato, in cui
consiste la deduzione, deve rappresentare un progresso nella realtà stessa, e
non semplicemente nel nostro pensiero, senza di che la deduzione non
rappresenterebl)e una derivazione reale Ciò importa che il più astratto o più
indeterminato e il più concreto o più determinato siano due realtà distinte,
quantunque al tempo stesso due forme d'un'esistenza unica, e non semplicemente due espressioni – the
expression of emotions GRICE DARWIN -- o due rappresentazioni distinte di una
stessa realtà. È un tratto clie abbiamo trovato in tutti i sistemi precedenti e
che è più essenziale al realismo dialettico che la stessa obbiettivazione dei
concetti, come vedremo nei paragr. seguenti, in cui lo ritroveremo in Spinoza,
le cui astrazioni realizzate non sono, a
parlar propriamente, dei concetti obbiettivati. Il primo principio noi diremo
in seguito perchè il primo principio è necessariamente unico deve essere
stabilito a priori, per la sua necessità intrinseca, in modo che la conoscenza
sia puramente a priori, e la deduzione sia una vera dimostrazione. Ciò è
perchè, nel realismo dialettico, l'anteriorità cronologica della causa verso
l'effetto è sostituita da una
anteriorità logica che; obbiettivata, si chiama anteriorità di natura. La
certezza delle conseguenze deve dipendere dalla certezza dei princìpi!, ma
questa deve essere indipendente da quella. Se non fosse così, Pesisenza delle
entità conseguenze non dipenderebl)e dalla esistenza delle entità priucipii, e
il rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi a quello tra la causa e l'effetto. Non solo
la dimostrazione dialettica non deduce che delle astrazioni realizzate d’altre
astrazioni realizzate, ma questa deduzione deve essere, per quanto è possibile,
immediata, vale a dire il legame logico fra le astrazioni realizzate che fanno
da premesse e quelle che fanno da conseguenze deve vedersi, per quanto è
possibile, intuitivamente e non mediante
un ragionamento, in modo che dalla posizione delle une si passi
immediatamente a quella delle altre, e la dimostrazi(me non consista che nella
loro posizione successiva. Di questa maniera lo svihippo della dimostrazione
non è che la riproduzione dello sviluppo stesso della realtà, e la scienza è
una sorta d'intuizione, in cui il pensiero non fa che asssistere, per dir cosi,
alla evoluzione delle cose, limitandosi
a rifletterla passivamente come uno specchio. È ciò che è espresso nel
principio hegeliano dell'identità dello sviluppo logico collo sviluppo
ontologico GRICE STRAWSON PEARS ONTOLOGY IN METAPHYSICS e nella proposizione di
Spinoza: ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Questa
identità è spiegata da Platone considerando
la scienza come un risveglio dell'intuizione del mondo ideale in una
vita anteriore. Spinoza la chiama una conoscenza intuitiva, e Schelling la fa
consistere, nel senso proprio, in un'intuizione intellettuale. La ragione di
questa immediatezza della deduzione del realismo dialettico è che il principio
logico deve identificarsi colla causa efficiènte. Perchè una causa possa
considerarsi come efficiente, la sua
connessione coll'effetto deve essere una verità, non solo razionale, ma anche
intuitiva, deve essere evidente per sé che la causa è capace di produrre
l'effetto, e 1'effetto <lì essere prodotto dalla causa. Ne segue che il
legame logico tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi col
rapporto tra la causa cuciente e l'effetto, se questo legame logico non si vedesse intuitivamente, ma fosse necessario
di stabilirlo per una dimostrazione. La deduzione dialettica implica una
moltiplicità di passaggi logici vale a dire tutte le entità non si deducono
immediatamente dal primo principio, ma si passa gradatamente «la questo alle
conseguenze ultime per una moltitudine di anelli intermediari. RAGIONE >
RAGIONE CONVERSAZIONALE. Di più tutti questi
passaggi logici sono regolati d’una legge costante; in altre parole, il metodo
della deduzione è rigorosamente uniforme, ed è considemto come la legge stessa
delle astrazioni realizzate. Questa legge, nel sistema hegeliano, è il
passaggio dalla tesi all’anti-tesi e da queste alla sin-tesi; nel sistema
platonico, la divisione dicotomica dell’idea generica nelle Idee specifiche;
nel sistema di Taine la gerarchia delle
coppie d’astratti, secondo cui un gruppo di leggi inferiori deriva
costantemente d’una legge superiore. È nel mondo delle astrazioni realizzate
ciò che una sequenza invariabile nel mondo dei fenomeni, salvo che qua si
tratta di una sequenza cronologica e là di una sequenza semplicemente logica.
Questa uniformità di sequenza delle astrazioni realizzate, che implica al tempo
stesso una moltiplicità di passaggi logici e una legge comune che li regola, è
evidentemente un corollario dell'identità tra il principio e la conseguenza e
la causa e l’effetto. Infatti, se la causazione efficiente si distingue dalla
causazione empirica perchè il legame tra la causa e l'effetto è intrinsecamente
evidente e necessario ciò che è la ragione determinante per identificarla col rapporto tra il principio e
la conseguenza, essa non è al postutto che una forma della causazione, e
causazione vuol dire sequenza invariabile. Un altro carattere, che è una
conseguenza del precedente, è l'unità di principio. La legge c(miune che regola
i passaggi logici, implica che tutte le astrazioni realizzate si dispongano in
un ordine uniforme, secondo un tipo costante
che si riproduce a tutti i gradi del progresso dialettico – FROM THE
MANY TO THE WISE – GRICE ATHENIAN DIALECTIC OXONIAN DIALECITIC, e si ritrova in tutte le parti del mondo
delle astrazioni realizzate. Questo tipo costante consiste, come sappiamo: nel
sistema di Platone, in due Idee opposte subordinate a un'Idea più generale; in quello di Hegel in
due idee opposte seguite d’una terza che
le sintetizza; in quello di Taine, in un gruppo di leggi inferiori subordinate
a una legge superiore. Questo tipo costante deve realizzarsi sempre e da per
tutto, perchè è la legge del mondo delle astrazioni realizzate: ognuna deve
essere dunque colle altre in rapporti determinati, in modo che questi rapporti
riproducano il tipo costante secondo cui tutte sono disposte ed ordinate. Ma ciò sarebbe
incompatibile con una pluralità di principii primi: anche questi dovrebbero
avere fra di loro quei rapporti determinati, necessari perchè il loro insieme
presenti anch'esso il tipo comune, ciò che importa la subordinazione degli
altri a qualcuno di essi o di tutti a qualche altro principio superiore. P. e. una pluralità di generi sommi pel
sistema di Platone o di leggi supreme
nel sistema di Taine richiederebbe,
perchè non vi fosse un'eccezipne al tipo universale che è la legge di ciascuno
dei d|ie sistemi, un altro genere o un'altra legge ancora superiori, a cui
questi generi o queste leggi fossero subordinati. Nel sistema di Hegel una
pluralità d'idee ugualmente primitive e indipendenti – eccetto il regno di
Prussia -- le une dalle altre
richiederebbe che anche queste idee si ordinassero fra di loro secondo
la legge comune di un'opposizione seguita da una sintesi, ciò che importerebbe
la sequenza logica delle altre da qualcuna fra di loro. Questa unità di
principio che potrebbe chiamarsi MONISMO logico – the principle of
conversational helpfulness – NOT “the principles” --, importa un'altro monismo,
che potremmo dire ontologico. Le conseguenze, nel realismo dialettico, non
essendo che i principii stessi a un grado più avanzato di determinazione, dire
che tutte le astrazioni realizzate si deducono da un principio unico è dire che
tutte costituiscono degli stati logicamente successivi di un essere unico, che
passa progressivamente da una stato più indeterminato – RAGIONE -- a uno stato
più determinato – RAGIONE CONVERSAZIONALE. Questo monismo logico ed ontologico, che è
anch^esRo un carattere generale del realismo dialettico, è una conseguenza
indiretta del concetto di causalità su cui è f(»^ata questa filosofia,
derivando da un altro concetto che ne deriva della maniera più diretta, cioè,
come abbiamo visto nel numero precedente, la legge uniforme del metodo dialettico. Il stisteraa di Spinoza –
GRICE: “HAMPSHIRE LOVED HIM – but then he loved most Jews!” -- è un realismo
dialettico, come quelli di Platone e di Hegel, ma in questo sistema le
astrazioni realizzate a cui s’applica la dialettica, cioè la deduzione, non
sono delle Idee come in quelli di Platone e di Hegel. La dialettica non può
dare il reale nella sua integrità, ma
solamente l'elemento necensario del reale – ENGINEER --: questo, nel realismo dialettico, si astrae,
per conseguenza, dall’elemento contigente, e si considera, in questa sua
astrattezza – metodo matematico di Grice --,
come una realtà distinta, presente nelle cose, ma sussistente per se
stessa. Nei sistemi di Platone e di Hegel questo elemento necessario del reale,
astratto dall'elemento contigente, sono
le Idee, cioè i tipi generici e specifici, riguardati ciascuno come Vuno nei
molti, vale a dire come uno in se stesso, ma presente, pur restando uno e lo
stesso, in tutti gl'individui della specie o del genere. Nel sistema di
Spinoza, invece, sono le cose stesse multiple e infinite, considerate, come
dice l'autore, sub specie aeternitatis; vale a dire ciò che vi ha di costante
negli stati successivi dell'universo,
riguardato come una realtà eterna, cioè al di fuori del tempo, presente in
tutti questi stati successivi, ma sussistente per se stessa. Un'altra
circostanza caratteristica del sistema di Spinoza è la relazione diversa
ch'egli stabilisce fra il pensiero e le cose. Platone si mette al punto di
vista più ordinario, nel quale il pensiero e la realtà appariscono come due
cose affatto distìnte, fra cui non vi ha
che un rapporto di azione reciproca; per Hegel tra il pensiero e la realtà vi
ha un'identità assoluta; per Spinoza vi ha un parallelismo, che si spiega per
un'identità fondamentale, anteriore, nel senso platonico e spinozista del
termine alla loro distinzione. Sono questi due caratteri propri del sistema di
Spinoza, che, uniti a quelli comuni del realismo dialettico, danno un'impronta
speciale a questo sistema, e rendono conto dei suoi tratti più generali. Il
concetto che riassume tutta la fisolofia di Spinoza è la celebre proposizione:
Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Questa
proposizione esprime al tempo stesso il principio del realismo dialettico cioè
l'identità del rapporto tra il principio e la conseguenza col rapporto tra la causa e 1'effetto e quello del
parallelismo tra il pensiero e le cose. Quantunque a noi non importi studiare
il sistema di Spinoza che in quanto è uno sviluppo del primo dei due principii,
pure, questa parte essendo inseparabile dall'altra, cioè quella per cui è uno
sviluppo del principio del parallelismo, noi dobbiamo esporre tanto l'una
quanto l'altra, facendo precedere quest'ultima, senza la quale non ci sarebbe possibile di far
comprendere la prima. Il principio del parallelismo tra il pensiero e le cose è
la dottrina del parallelismo psico-fisico, o psico-somatico come preferisce
Grice, salvo che il termine parallelismo, nel sistema di Spinoza, va preso in
un senso assai più rigoroso. In questo sistema, oltre alla concomitanza
costante tra i fenomeni psichici e certi fenomeni fisici e la loro indipendenza reciproca. Per
questi due punti della dottrina di Spinoza Eth.
Prop. col Cor. e lo Sohol., Cor. prop. Pr. e Schol. parte Prop., e Schol. parte Prop., eco: il
parallelismo importa: P Glie ogni fatto fisico ha ud concomitacte psichico e
viceversa. Ne segue che non vi ha corpo senza spirito come non vi ha spirito
senza corpo, che tutto è animato che
ogni cosa vive, sente e pensa. Ne segue pure che ad ogni fatto fisico
non corrisponde che un solo fatto psichico, concetto che, come vedremo, ha per
risultato dMntegrare le singole anime degli oggetti partieotari nell’anima unica del tutto, trasformando il
sistema di Spinoza da semplice ilo-zoismo in un vero pan-teismo ebreo. Che il
fisico e lo psichico sono, come dice l’autore, due espressioni difterenti di una sola e stessa
cosa. Per conseguenza la serie fisica v la serie psichica non si corrispondono
solamente pei loro rapporti di concomitanza – cf. il triangolo semantico di
Grice -- costante, ma fra i termini delle due serie vi ha, insieme alla loro
differenza, una identità parziale, come se fossero modellati sovra un tipo
comune, che gli unì e gli altri rappresentano,
quantunque gli uni differentemente dagli altri. Questo parallelismo
psico-fisico così inteso, è, insieme al concetto generale del realismo
dialettico, il germe da cui si sviluppa tutta la metafisica dì Spinoza. Il
tratto che salta più agli occhi nella filosofia di Spinoza e che è, come
spiegheremo, una conseguenza del principio del parallelismo è la sua dottrina
dell'unità dì sostanza. L'universo è un
essere unico, che si chiama Dio o la Natura -- Deus sive natura – GRICE
STRAWSON PEARS METAPHYSICS. Dio o la
Natura NATURANS NATURATA GRICE SIGNVM DI NATURA NATURANS SIGNVM DI NATURA
NATURATA è una sostanza infinita, la cui essenza è costituita da un numero
infinito di attributi, ciascuno infinito nel suo genere, ma di cui noi non ne conosciamo che Eth. parte, Sohol. prop.
Eth. Schol. pr. due, l'estensione e il pensiero grandioso non senso, in cui noi
dobbiamo vedere, piuttosto che un prodotto del genio metafisico dell'autore, un
effetto di questa tendenza verso il colossale e l'iperbolico, che caratterizza
l'immaginazione ebrea e orientale Ogi^i cosa è un modo della soistanea unica,
che esprime d'una maniera determinata e
finita questi due termini per Spinoza sono equivalenti l'essenza di questa
sostanza, cioè per quanto noi ne conosciamo, l'estensione e il pensiero
infiniti In questo concetto della sostanza il principio del parallelismo si
mostra evidentemente in due punti. Per Spinoza, come per CARTESIO CITATO DA
GRICE CERTEZZA, ^essenza della materia
consiste nell'estensione, e per
conseguenza l'estensione è per lui la sostanza delle cose materiali, vale a
dire ciò che vi ha in esse di permanente, e di cui tutti i loro fenomeni sono
dei modi di essere o delle determinazioni, cioè delle forme, degli
atteggiamenti svariati. Similmente tutti i fenomeni psichici sono per Spinoza
delle forme o degli atteggiamenti svariati di una cosa permanente, che è il
pensiero assolutamente considerato, o, come
egli lo chiama ancora, il pensiero sostansialc. Ciò Dio, Vuomo eco.
trad. frano, Eth. Def., Sohol. prop., Schol. prop,, Dim. prop., parte Dira.
prop. e Schol., Sohol. prop., Epist., Epist. fr., ecc. Eth. parte. Dim. prop..
Prop. e dim., parte Def., De ini. emetul,. Ili,
Episl., EpisL, ecc. Eth. Parte
Prop., Cor. pr., Dim. pr., Dim. pr., Schol., Dim. pr., Dim, pr., Parte
Def., Dim. pr., Dim. pr., Schol. pr., Dim. pr., Cor. pr., ecc. Dio, Vuomo eco.,
Epist. Epist., Epist., Eth, Prop. o dim., e dim., e dim., parte Prop.
e dim., eoe. mmi I 1'' ri suppone: Che tutti gli
altri fenomeni psichici siano ricondotti al pensiero. Oosì la psicologia di
Spinoza è l'esempio più tipico di quella che Wundt chiama intellettualista.
Tutti i fatti interni, apparentemente diversi dal pensiero, sono pure dei
pensieri, ma confusi: i sentimenti stessi o come dice Spinoza, gli affetti sono
anch'essi delle idee confuse. Ciò è perchè il principio del parallelismo
importa, come abbiamo detto, che il fisico e lo psichico sono due espressioni
diverse d'una sola e stessa cosa, e rappresentano, per dir così, un tipo
comune, su cui l'uno e l'altro sono modellati. Ora questo non è
concepibile che assimilando tutti
gli ;iltri fenomeni psichici al
pensiero, alla rappresentazione. Che vi sia una sostanza del pensiero, di cui
tutti i pensieri siano delle forme cangianti
e limitate, come
vi ha una
sostanza materiale di e:iì
tutto ciò che
avviene nel mondo fisico
è una forma
cangiante e limitata. Questo concetto di un pensiero
sostanziale, die è il substratum permanente di tutti i pensieri, è una
conseguenza naturale del principio di CARTESIO CITATO DA GRICE CERTEZZA che
l'essenza dello spirito consiste nel pensiero, e si ritrova, in altra forma, in
Malebranche e in altri cartesiani. Noi vedremo nell'Appendice che sulla natura
dello spirito, concepito come una sostanza, cioè come un substratum permanente
su cui i fenomeni psichici sono tVmdati,
la metafisica immagina costantemente un certo numero d^ipotesi, e che una di queste
è che la sostanza dello spirito O ANIMA
è anch'essa un fatto psichico, cioè un pensiero o un sentimento, permanente e
fondamentale. La dottrina del pensiero sostanziale di Spinoza è senza dubbio
una forma di quest'ipotesi; salvo che egli cerca, non la sostanza dell^anima individuale, ma quella deir anima
del tutto, di Dio o della Natura. Ma essa è anche evidentemente un'applicazione
del principio del parallelismo, perchè essa trasporta nel mondo psichico, cioè
nell'attributo del pensiero, quella stessa relazione tra la sostanza e suoi
modi, che 1'autore vede nel mondo fisico, cioè nell'attributo dell'estensione.
La prima determinazione del pensiero
sostanziale, il suo modo originario da cui tutti gli altri derivano, eterno
come il pensiero sostanziale stesso, sono le idee, cioè l'intendimento o la
conoscenza. Il sistema di Spinoza non è un semplice ilo-zoisnìo, ma è anche un
pan-teismo, perchè egli attribuisce al tutto, come tale, un'intelligenza
propria, distinta da quelle degli esseri particolari, quantunque queste nonne
siano che delle partecipazioni.
L'intendimento, nella cosa pensante, cioè nel tutto considerato sotto l'attributo
del pensiero, è unico come ii suo oggetto: è una conoscenza assoluta, una copia
perfetta, di tutto il reale, un sistema d' idee che rappresenta esattamente il
sistema delle cose, e in cui ad ogni oggetto reale corrisponde un'idea
unica, come Elh.
Parte Def. e
AffecL Getter Definii,
ed JKrplie. , Parte
Dim. prop., Cor. prop., Diui.
prop., eoe. Append. Le idee o T
intendimento sono il modo originario del pensiero, anteriore di natura come
dice Spinoza, a tutti gli altri, perchè gli altri modi del pensiero, cioè gli
altri fatti psichici, si risolvono, secondo lui, in idee confuse e inadequate,
e queste nascono, come ora spiegheremo, dalle idee adequate. V. Dio Vuomo
ecc. trad. frano.,
Eth, dim. prop. .«p ad ogni idea corrisponde un oggetto nnico nella
realtà. L'idea corrispondente ad un oggetto costituisce il lato interno di
quest'oggetto, cioè la sua anima o, come dice Spinoza, la sua mente GRICE MEANING MENTIRE STEVENSON
SCARE QUOTES, di cui però l'oggetto
stesso non ha che una percezione imperfetta. Noi e tutti gli esseri pensanti individuali siamo parti di un essere
pensante unico ARISTOTELE DIO PENSIERO PENSATTO GENTILE; il nostro intendimento si confonde coll'intendimento
unico che è nella cosa pensante; le nostre idee sono una partecipazione delle
sue idee. Ogni idea considerata assolutamente, vale a dire in quanto esiste in
Dio, cioè nel tutto, è vera, perchè è della natura del pensiero
di corrispondere GRICE CORRESPONDENZA VERITA perfettamente all'oggetto
pensato. Le nostre idee vere ossia adequate sono le idee stesse del tutto, del
suo intendimento unico, che noi percepiamo nella loro integrità (ex loto, vale
a dire noi ne partecipiamo in modo che questa partecipazione continua a
rappresentare esattamente 1'oggetto, come l'idea nella sua totalità: le
nostre idee false o V.
Dio, l'uomo e la beat. trad.
fi-auc., lOT108.,Mh, parte Prop. e
diui., e dira., Dim. pr., Cor. prop., Schol., Scbol, pr., Cor. prop. e dim.,
Dim, pr., Sohol. pr., Dim. pr., Dira. pr., Pr. e dim., Dim.
pr.,
eoe. y.Dio, ruomo eoe., Mh.v H Dim. pr., Sohol. pr., Dim. pr., Dim. pr.,
eoe. V. jWo, Vuomo eco.
nota, Eth Prop. e dim.. e dim,
Soboi. prop., Prop. e
Cor, ecc. V. De inielL
emend., Dio, V uomo eoo. nota Mh. Cor. prop., Sohol. pr., Schol. pr., eoo. De ini.
emend, Eth, Pr. e dim, e dim, e dim, ecc. De ini, em, Eth. p. e . pr. e dim., eoo. di
una maniera qualunque inadequate sono ancora le idee del
tutto, ma che noi percepiamo per frammenti, o, come dice Spinoza, ex parte o
mutilate GRICE STRAWSON PEARS
METAPHYSICS BRADLEY ON THE FRAGMENTARY, l'errore non essendo niente di positivo,
ma solamente una privazione di conoscenza GRICE NEGATION AND PRIVATION I DO NOT
KNOW THAT THIS IS NOT RED. Per ispiegare le nostre idee inadequate, cioè
frammentarie, Spinoza dice che le idee adequate corrispondenti sono in Dio,
cioè nel tutto, in quanto egli
costituisce, non la nostra mente soltanto, ma insieme ad essa le menti
di altri oggetti, o in altri termini in quanto egli ha, non l' idea del nostro
corpo soltanto, ma insieme ad essa le idee di altri corpi. Così il pensiero
unico di Dio, cioè del tutto, non esiste al di fuori dei pensieri individuali;
è questi pensieri individuali stessi, addizionati e fusi in un solo pensiero;
come un'immagine unica che risulti dalla sovrapposizione di molte immagini, in
modo che l'immagine risultante rappresenti d'una maniera perfetta e completa la
cosa stessa che le immagini componenti rappresentano imperfettamente e
parzialmente. Evidentemente quest'ipotesi di Spinoza di una intelligenza unica
del tutto, di cui le intelligenze individuali sono delle partecipazioni, è un
effetto della tendenza costante della metafìsica a fare dell'universo, come
dice Schopenhauer, un macrantropo, a dargli una coscienza e una personalità. Ma
non è meno evidente ch'essa è un'applicazione del principio del parallelismo.
11 concetto che ogn'idea, assolutamente De ini, ememt, Eth. p. Cor. prop.,
Prop., Cor. prop., p. Dim. prop., eco.
Mh. Prop. e dim, Prop. e dim, Scbol.
prop., eoo. Eth. Dim. prop. Cor.
prop. Dim. prop. , ecc.
considerata, è vera ed adequata, Spinoza lo deduce esplieitamente dalla
proposizione che ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum.
Da questa proposizione egli avrebbe
potuto dedurre egualmente che l'idea, assolutamente considerata, deve essere
unica per ciascun oggetto, e per conseguenza V intem ipotesi, perchè essa non
consiste che in questi due concetti. Il parallelismo psico-fisico, cioè il
parallelismo tra l'idea e la realtà perchè tutto lo psichico si risolve nel
pensiero, e tutto il pensiero nelle idee vere e adequate risulta, secondo
Spinoza, dalla identità fondamentale di questi due lati inseparabili
dell'essere. La sostanza pensante, egli dice, e la sostanza estesa sono una
sola e stessa sostanza, che ora si comprende sotto l'uno, ora sotto 1' altro di
questi due attributi. Così pure un modo dell'estensione e l'idea di questo modo
è una sola e stessa cosa, espressa di due maniere difterenti. In altri
termini, un corpo e l'idea di questo
corpo, o, ciò che è lo stesso, la sua mente, è una sola e stessa cosa, che ora
si concepisce sotto 1'attributo dell'estensione, ora sotto quello del pensiero.
P e. il circolo reale e l'idea del circolo stesso che è in Dio vale a dire l'idea adequata e, se non
fosse una stranezza, l'anima di questo circolo è una sola e stessa cosa che si
spiega per due attributi diversi. P. e.
ancora la volizione e il movimento corporeo che 1'accompagna è una sola
e stessa cosa, che chiamiamo volizione quando la consideriamo sotto l'attributo
<lel pensiero e la spieghiamo per le leggi di questo, e chiamiamo movimento
quando la consideriamo sotto l'attributo dell'estensione e la spieghiamo per le
leggi del moto e della quiete. Ne segue che
Mh. Dira. prop. sia che noi
concepiamo la natura sotto l'attributo dell'estensione, sia che la
concepiamo sotto l'attributo del pensiero, noi troviamo da una parte e
dall'altra un solo e stesso ordine, una sola e stessa concatenazione di cause
ed effetti; che p. e. la serie delle azioni e passioni del corpo corrisponde
alla serie delle azioni e passioni delTanima, quantunque l'una si svolga
indipendentemente dall'altra. Dall' una
e dall'altra parte noi vediamo seguirsi le stesse cose; ma ora Ic^ consideriamo
come modi del pensiero, ora come modi dell'estensione. Il concetto di Spinoza,
che metteremo più in luce in seguito, è che l'idea e il suo oggetto e per
conseguenza, l'anima e il corpo sono due modi di essere di una sola e stessa
cosa che, una in se stessa, si ritiova sotto queste due forme distinte, pur restando identica a se stessa. I fatti che
egli vuole spiegare sono sovratutto due. L'uno che l'idea e la cosa hanno per
dir così, lo stesso contenuto, questa sotto la forma delia realtà, quella sotto
la forma del pensiero. L'altro la concomitanza costante, la corrispondenza, tra
i fenomeni psichici e i fenomeni somatici che li accompagnano. Nel secondo di
(|uesti due fatti si è visto sempre un
mistero: è sem])re sembrato incomprensibile che il fenomeno psichico sia
prodotto dal fenomeno tìsico corrispondente, e questo da quello. Dalla pretesa
impossibilità di un legame causale tra i due ordini di fenomeni che egli
ammette con Malebianche e con Leibnitz – CITATO DA GRICE COME “l’inventore
della distinzione analitco-sintetico --, Spinoza ne conclude che non vi ha fra
di loro che una semplice concomitanza, un paralle AVA. Schol. prop. e
Scbol. prop. e
IH Scbol. prop liftino, e, come Malebranche e Leibnitz – l’inventore
della distinzione analitico-sintetico – Grice --, cerca un'ipotesi per impiegare <|ue8ta concomitanza. 11 primo fatto, cioè
la conformità tra il pensiero e le cose, è tanto più un problema per Spinoza,
che e^li non ammette, uè che le cose
agiscano sul pensiero né che il pensiero agisca sulle cose. L'ipotesi di
Spiuoza per ispiegare i due fatti è costruita sullo stess'> tipo che tutte
le ipotesi metafisiche in g«»nerale: egli cerca un fatto familiarissimo, e
assimila a questo i fatti che si tratta di spiegare. Questo fatto
familiarissimo è che una stessa cosa, in due modi di essere o stati differenti,
deve ^somigliare e corrispondere a se
stessa. È ciò che osserviamo il più abitualmente: ma <]uesti due modi di
essere differenti di una stessa cosa noi non possiamo concepirli che
successivi, mentre Spinoza pretende concepirli simultanei. È perciò che
quest'ipotesi è un concetto metafìsico nel senso più stretto, cioè trascendente
l'immaginazione, e non soltanto l'esperienza. Oltre il parallelismo tra il
fisico e lo psichico, cioè tra i modi
dell'estensione e i modi del pensiero, la proposizione che V ordine e la
connessione delle idee sono identici alVordine e alla connessione delle cose
significa, come abbiamo detto, che lo sviluppo logico del i)ensiero corrispomle
allo sviluppo reale dell'essere. È quella stessa identità tra il processo
logico e il processo ontologico che abbiamo osservato in Platone, in Hegel e in Taine. Spinoza suppone,
per conseguenza, come essi: cht la vera conoscenza è un sapere a priori, che si produce per il solo
movimento logico del pensiero, cioè per un metodo puramente deduttivo; che
questa deduzione non volge su delle proposizioni, ma su delle semplici idee
beninteso, delle idee astratte; e che i gradi o momenti successivi nel
progresso della deduzione rappresentano
dei gradi o dei momenti successivi nel progresso del reale in se stesso
anteriorità e posteriorità di natura nel senso che abbiamo spiegato parlando di
Platone, in modo che il principium cognoscendi sia anche il principium essendi,
e il legame tra le premesse e le conseguenze s' identifichi col legame tra le
cause e gli effetti. È un'altra forma del parallelismo tra il pensiero e le cose, purché si ammetta il
presupposto gnoseologico dell'autore, cioè che vi ha una conoscenza del reale
assolutamente a priori, che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo per la
sola forza logica del pensiero. Vi hanno, secondo Spinoza, tre (fcneri di
conoscenza, ed è il terzo che è il solo ade(|uato. Esso procede dalla
cognizione dell'essenza di Dio alla cognizione dell'essenza delle cose, e
questo passaggio dall'una cognizione all'altra è una dedusione: così il terzo
genere di conoscenza consiste a dedurre tutte le cose particolari dall'essenza
di Dio, cioè della Sostanza. L'esistenza di ciò da cui tutto il resto si
deduce, cioè di Dio o della Sostanza, è una verità evidente per se stessa,
assiomatica senza di ciò la conoscenza non sarebbe a priori: Dio o la sostanza è la causa di sé, vale a dire ciò la cui natura non può
concepirsi che come esistente, o ciò la cui essenza involge 1'esistenza, in
altri termini dal cui concetto o dalla cui definizione segue necessariamente
che deve esistere. ConlVouta
Eth. Schol. piH)p. Schol. piop. Dim.
prop. Schol. prop.
ecc. Klh, Scbol. prop. Scbol. prop. Dim. prop.,
De iulelL emend., ecc. Per la
uecessità, nel realismo dialettico, che
il primo principio della deduzione sia una verità a priori v. e i 1.
indicati nella n. 2 di Eth
Def. e Prop. e dim. Schol.
prop. SE -^ K Dio è la causa di
tutte le altre cose nello stesso senso in cui è la causa di sé, vale a dire,
come la sua esistenza segue dalla sua essenza, cosi è dalla sua essenza che
segue pure V’esistenza delle altre cose. Tutte le cose seguono eternamente dall'essenza di Dio, come
dall'essenza del triangolo segue eternamente che i suoi tre angoli sono uguali
a due retti eternamente, per8,
Prop. e
dilli., Diui. prop.,
eoo. Questa dottrina di Spinoza che l'esisteuza di Dio, cioè la prima
verità da cui si deduooDo tutte le altre. si deduce dalla sua essenza o dal suo
concetto, è iiaturaliuente una variante della dottrina corrispondente di
Cartesio – CITATO DA GRICE: CERTEZZA. Anche Spinoza riguarda, come Cartesio –
CITATO DA GRICE CERTEZZA --, Tidea di esse*'f, necessarioj cioè la cui
esistenza segue dal suo concetto, come inseparabilmente legata a quella di
essere perfettissimo, cioè assolutamente infinito benché talvolta sembri
considerare, come fa Cartesio CITATO DA GRICE CERTEZZA, l'esistenza necessari:^ come una conseguenza
dell'infinità Eth. Schol. prop.,
Epist., Epy , e tal altra invece
l'infinità come una conseguenza dell'esistenza necessaria Eth. Schol. prop.,
Episi, Ep. È su questa inseparabilità tra il concetto di essere necessario e
quello di essere assolutamente infinito che è fondato il suo paradosso che Dio
o la Natura – CITATO DA GRICE, “METAPHYSICS” GRICE, STRAWSON, PEARS -- deve
avere un numero infinito di attributi, e non soltanto quelli che noi
conosciamo, cioè il pensiero e l'estensione Eth. Schol. pr.. , Epist,,
Ep, Episi., sia perchè dall'esistenza necessaria dell'essere segue la
sua assoluta infinità, i, sia perchè è
solo da questa assoluta infinità che può seguire la sua esistenza necessaria.
Spinoza non si allontana molto da
Cartesio CITATO DA GRICE CERTEZZA,
dando l'esistenza di Dio per una verità assiomatica, perchè anche questi
talvolta considera l'esistenza necessaria dell'essere perfettissimo piuttosto
come un assioma che, come una verità di dimostrazione. Kisp. alle See.
Ohbiez. ed. Cous. Eth. Schol. pr. Eth. Schol.
pr. Dim. Prefaz.
Eth. Schol. prop. e Schol.
prop. che le conseguenze d'una
verità eterna devono essere anch'esse
delle verità eterne – GRICE LA CITTA DELLA VERITA ETERNA. La dottrina di
Spinoza è, come sappiamo, che tutte le proprietà d'una cosa
devono potersi dedurre dalla sua essenza, cioè dalla sua definizione: ora le
altre cose non sono che dei modi della sostanza unica, cioè di Dio; così egli
vede tra Dio e le cose lo stesso rapporto che
tra 1'essenza e le proprietà, e ammette che tutto ciò che esiste deve
dedursi dall'essenza o dalla definizione di Dio, come le proprietà di una cosa
si deducono dall'essènza o dalla definizione di questa cosa. Per esprimere la
derivazione delle cose da Dio, Spinoza dice il più abitualmente - e noi vedremo
il perchè che le cose secinono o sono segnite il più delle volte
necessariamente, spesso anche senza
quest'avverbio dall'essenza o dalla natura di Dio o di alcuno dei suoi
attributi. Ma altre volte indica più chiaramente il senso lo<jko di questa derivazione,
dicendo che se ne concludono o se ne deducono j e confrontando dei testi in cui
ripete uno stesso Eth. Dira. prop. e Schol. prop. Dim. prop. Eth. Dim. prop,
Schol. prop., Dim. prop., prop., Schol. prop. Dim.
prop, Dim. proi. Schol., Dim. prop.,
Prefaz., Prop. e dim., Dim.
prop. , Cor. i)rop., ecc. Spesso
questa forma è sostituita da un'altra «imile, cioè che le c<»se
seguono dalla necessità della natura odelVessema divina: Eth. Schol.
prop., Prop., Dim. prop.,
Schol. prop., Cor.
prop., Append., Schol.
prop. Schol. prop. ecc. Eth, Schol.
prop. , Prop. e
dim., Prop., Dim. pr., Dim. e Schol.
prop., Prefaz. ecc. Eth. Dim.
prop., Schol. prop.,
Cor. prop. Dim. prop., ecc. r
concetto, si vede che tutte queste espressioni sono per rautove
e^iuivalenti. In questa dottrina di Spinoza dobbiamo notare l'identità con
quelle di Platone e di Hegel, e al tempo stesso la differenza. Tutte le idee,
per Spinoza, devono dedursi da un'idea unica, come per Platone e per Hegel:
ma quest'idea, per l'uno, è un concetto
astrano perchè l'essenza, considerata a parte,
non è che un'astrazione ma non un concetto generale come per gli altri
due perchè Dio o la Natura CITATA DA GRICE, STRAWSON, PEARS Metaphysics -- è un
individuo, e non un'entità generale come le Idee di Platone o di Hegel. Che una
cosn si deduca da un'altra, e che questa sia la causa e quella 1'effetto, sono per Spinoza delle
proposizioni perfettamente equivalenti. Egli dice ad ogni passo che Dio è la
causa di tutte le cose, che queste sono, o sono state, prodotte da lui, ch'egli
le determina o le ha determinato ad essere e ad operare, che le crea o le ha
creato, ecc.; parla continuamente dell'azione di Dio, della sua potenza, ecc.
Ma tutto ciò signitìca che le cose possuìfo dedursi dall'essenza di Dio, ne sono le
conseguenze; o a dir meglio, poter
dedursi dall'essenza di Dio ed esserne causate sono per Spinoza una sola e
stessa cosa, perchè per lui la causa è identica al principio logico e V effetto
alla conseguenza. Noi abbiamo visto infatti che Dio è la causa delle cose nello
stesso Mh. Prop. e dim., Prop. o
diiii., Schol. prop. Cor.
prop. Dim. prop.,
eoo. De ini. em,,
eoo. L' espressioDo più abituale
di Spinoza, che le cose srguoìw o sono seguile dall'essenza di Dio, esprime il
doppio aspetto del rapporto tra Dio e lo cose, cioè tanto il logico (ohe le
cose sona le conseguenze deir essenza di Dio quanto 1'ontologico che ne sono gh
effetti. senso in cui è la causa di sé, vale a dire in (|uanto dall'essenza di Dio può dedursi
l'esistenza delle cose come se ne può
dedurre la suji propria esistenza. Così, dimostrato che tutto ciò che cade
sotto un intelletto infinito può dedursi dall'essenza di Dio come le proprietà
d'una cosa dalla sua definizione, l'autore ne conclude: che Dio è la causa di
tutte le cose; che è causa per sé e non per accidente; che è la causa
assolutamente prima; ch'egli agisce per la sola necessità della sua natura;
e quindi che è causa libera; che è
anteriore a tutte le cose per causalità; che è causa efficiente tanto
dell'essenza quanto dell'esistenza delle cose (;; che è causa efficiente anche di ciò che
determina le cose ad operare in un certo ìnodo; che le cose non avrebbero
potuto essere prodotte da lui in niun altn modo né in niun altro ordine. Dire
che le cose sono, o sono stiate, prodotte da Dio, e cli'(ssse ^^eguono, cioè
possono dedursi, dalla sua essenza, sono delle espre^.s AV/i. prop.
lf>, e. Cor., proj». Dim.
prop.:U. | Cor. Ciò vuol dire fhe è causa neci-ssariameiito.
clie non può non produrre gli ett'etti
che pn)du<o. Pio. Viionio ecc., Cor. Dim.
prop. Nello Scliol. della
prop. questa jjroposizione è data, non come una conseguenza della proposisioue,
ma come equivalente ad essa Hrefaz. Cor.
prop. Si dice libera quellji cosa die esiste per la sola necessità della
sua ujitura ed è determinata ad aj^ire da sé sola. Parte Del". Schol. prop. Sehol. prop. dim.
prop. Prop. e Dim. f.
sioni elle Spinoza (jonsidera
come identiche di senso: le cose che sono in potere di Dio significa le cose
che seguono dalla natura di lui; la sua potenza, causa di tutte le cose, è
la sua stessa essenza, in quanto tutte
le cose seguono da (piesta. Come si vede dalle proposizioni precedenti, quando
Spinozii parla di Dio come causa, egli non intende propriamente attribuire la
causalità che air e««enra di Dio due cose differenti, perchè Dio è il tutto, la
sostanza coi suo modi, Vessenza di Dio è quest'astrazione che Spinoza riguarda
come il substratum del tutto, la sostanza
separatamente dai modi. Così egli dice che le cose emanano o fluiscono
dalla natura di Dio come dall'essenza del triangolo deriva 1'eguaglianza dei
suoi angoli a due retti; che Dio è causa, o a<?isce, per la necessità della sua natura; che è da
questa necessità della natura divina che le cose sono state determinate ad
essere e ad operare in un certo modo; che Dio è causa dei modi dell'estensione
in quanto ha l'attributo dell'estensione e dei modi del pensiero in quanto ha V’attributo
del pensiero perchè Schol. prop. ,
Uiui. prop. Sohol., Dim.
prop., Schol. prop.
e App. Schol. e
Dim. prop. Prop. e
dim. Dim. prop.,
App. Schol. pr., Cor.
pr. Mh. Schol. iirop., Kpisl. Cor.
prop., Dim. pr., Dim. pr., App. Schol. prop., ecc.
prop. e dim.,
e dim. prop. .
Una proposizione jinaloga nell'App., cioè ohe tutte le cose furono
predeterminale dn Dio, non dalla sua volontà, ma dalla gita assoluta
natura, Dim. pr., Pr., dim.
pr. ei-v. r essenza è il
complesso degli attributi e le cose si
deducono dall'attributo di cui sono i
modi; ecc. Spinoza distingue la natura naturante e la natura naturata: la
natura naturante è definita Dio in quanto è considerato come causa libera, e
consiste negli attributi della sostanza astrattamente considerati; la natura
naturata GRICE SIGNUM NATURALE – SIGNVM PER NATURA NATURANTE – SIGNVM PER
NATVRA NATVRATA -- è tutto ciò che segue dall'essenza di Dio, vale a dire i
modi di questi attributi. Talvolta non è
Dio stesso che è riguardato come causa delle cose, ma l'attributo divino di cui
esse sono i modi, cioè il pensiero o l'estensione: è l'espressione più esatta
del pensiero di Spinoza, che senza dubbio userebbe più spesso, se non volesse
discostarsi dalla lingua comune. Il principio
e la conseguenza considerati come realtà oggettive sono una stessa cosa in due
stati differenti: quello a uno più astratto, più indeterminato; questa a uno
stato più determinato, più concreto.
Infatti la conseguenza non è che un'applicazione, un caso particolare, del
principio. La conseguenza racchiude dunque il [irincipio, come il concreto
racchiude l'astratto. Di là l'assioma di Spinoza, che l'idea dell'effetto
involge, cioè racchiude, l'idea della causa. Ne segue che le idee di tutte le
cose involgono l' idea dell'essenza di Dio,
Def., Dim. prop., Pr. e
dim., Schol. , Cor. prop., ecc. Schol. prop. Dim. prop. e
Dim. prop. As8. , De int.
em. (la conoscenza d'un effetto
non è che una conoscenza più perfctt-i della sua causa e . I la definizione d'una cosa creata deve
comprendere la sua causa prossima. a perchè questa è la causa di tutte le cose.
Quelle dei modi del pensiero non involgono che quella dell'attributo del
pensiero; perciò i modi del pensiero non possono avere per causa che l'attributo
del pensiero. E in generale le idee dei modi di un attributo non involgendo che
l'idea dell'attributo stesso, questi modi non possono avere per causa che
Dio considerato sotto questo solo
attributo. Le cose pensata seguono e si concludono dall'attributo di cui sono i
modi, della stessa maniera e con la stessa necessità che i loro pensieri
dall'attributo del pensiero. Dall'identità della causa col principio logico e
dell'effetto con la conseguenza segue pure questo canone del metodo di Spinoza,
che la vera scienza procede dalla causa all'effetto perchè la dimostrazione procede dal
])rincipio alla conseguenza e consiste a conoscere le cose per le loro cause.
Di là l'identità del processo con cui si produce la conoscenza Elh.
p. Prop. pr. e diiii.,
Schol., p. Dini. pr., pr. e dim., ecc. Un'altra espressione dello
stesso concetto è che tutte le cose esprimono in un modo deter in inalo V essenza di Dio. Eth. p. Cor. prop., Dim. prop., p. Def., Dim. prop., Dim. pr., Cor. prop.. ecc. La proposizione che le idee di
tutte le cose involgono l'idea
dell'essenza di Dio, equivale, al fondo, a quella che tutte le cose sono
dei modi della sostanza divina. 1/essenza di Dio essendo compresa in tutte le
cose, cioè nei suoi effetti. Dio è, dice Spinoza, causa immanente, non
transiente Elh. p., pr. e
dim.. P. Dim. prop. P. dim.
prop. Nella dim. della prop. il
ragionamento è invertito: le cose hanno per causa Dio considerato sotto
l'attributo di cui sono i modi, quindi le loro idee devono involgere il
concetto di quest'attributo. Episl. Cor. prop. Eth, p. Schol. prop., De ini. em., eco. col processo con cui si produce la realtà stessa:
ordo et conuvxio idearuni idem est ae ardo et connexio rerum. La concatenazione
delle nostre idee vale a dire, la loro
concatenazione logica deve essere tale che il «ostro pensiero non sia che la
rappresentazione delle cose: esso deve andare da una cosa all'altra,
progredendo secondo la serie delle cause; i nostri concetti devono derivare,
cioè dedursì, gli uni dagli altri, come le cose concepite derivano, cioè sono
prodotte, le une dalle altre. Ma quest'antitesi fra i concetti che si deducono e le cose concepite che sono
prodotte, non rende esattamente il pensiero di Spinoza: che le cose sono
prodotte le une dalle altre significa che possono dedursi le une dalle altre; e
similmente che i concetti si deducono (jli uni da(/li altri può esprimersi pure
dicendo che sono prodotti gli uni dagli altri. Non vi ha da una parte uji
incatenamento Elh. p. Prop. Spinoza
dimostra questa proposizione per
l'assioma che la conoscenza dell'effetto dipendente dalla conoscenza della
causa. De
ini. em. De ini. em. De ini. em.: Adde quod idea eodem modo se habet obiective,
ac ipsius ideatum se habet realiter. Si ergo daretur aliquid in natura nihil
commeroii habens cum aliis rebus, eiu» etiam si datur essentia obiectiva,
<iuae convenire omnino deberet cum formali,
nihil etiam commercii haberet cum aliis ideis^ id est. nihil de ipsa
poterimus concludere; et contra, (luae habent commercium cum aliis rebus, uti
sunt omnia quae in natura existunt, intelligentur et ipsorum etiam essentiae
obiectivae idem habebunt commercium, id est, aliae ideae ex eis deducen tur,
(juae iterum habebunt commercium cnm aliis p. L'autore aggiunge in nota alle
parole nihil etiam commercii haberet cum
aliis ideis: Commercium hahere cum aliis rebus est produci ab aliis aut alia
producere Essenlia ohieiliva vuol dire. causale nella realtà, e da un'altra
parte un incatenamento deduttivo nel pensiero: è un solo e stesso
incatenauiento, che ora si considera tra le cose, e ora tra le loro
rappresentazioni. Aftinché il nostro
pensiero rappresenti di questa maniera
l'esemplare della natura, bisogna che tutte le nostre idee siano
prodotte da quella che rappresenta 1'origine e la sorgente di tutta la natura,
cioè l'essenza di Dio, in modo che questa idea sia l'origine e la sorgente di
tutte le altre idee. Ciò che è necessario di osservare è che
quest'incatenamento causale delle cose, identico all'incatenamelito deduttivo
dei concetti, non ha luogo tra le cause
e gli etfetti fenomenali cioè che sono dei fatti particolari e separati
gli uni dagli altri ma tra i gradi successivi dello sviluppo di quest'essere
unico, che Spinoza chiama Dio o la Natura. Come si vede da ciò che precede,
quest'incatenamento causale, che è al tempo stesso un incatenamento deduttivo,
abbraccia, anche nel sistema di Spinoza, molti anelli come in tutti i sistemi
che identificano il rapporto tra la
causa e l'effetto col rapporto tra il principio e la conseguenza. Il terzo
genere di conoscenza consiste a dedurre dall'essenza di Dio le essenze delle
cose €onfoiiuemeiite all lingua scolastica, la rappresentazione; essentia
formalis, la realtà Si veda pure il u., nella nota seguente, e il n. nel De
int, em. è la continuazione del luogo riportato nella nota precedente: Porro ex
hoc ultimo, quod diximus. scilicet quod
idea omnino cura sua essentia formali debeat convenire, pate;i iterum ex eo
quod, ut mens nostra omi.ino ref'erat natnrae exemplar, debeat omnes suas ideas
producere ab ea, quac refert originem et foutem totius naturare, ut ipsa etiam
sit fons ceterarum idearuni. Si veda pure il n. particolari: ma queste non si
deducono immediatamente da quella, non
ne sono gli effetti immediati. L'essenza di Dio e le essenze delle cose
particolari sono i termini estremi di una serie, in cui ciascuno degli altri
termini è la conseguenza e l'effetto del termine precedente, e la premessa e la
causa del termine susseguente. Tra i modi infiniti ed eterni di Dio tutto ciò
che segue dall'essenza divina è eterno ed infinito come essa Spinoza distingue
quelli che seguono immediatamente da un
attributo divino, e quelli che seguono da un attributo divino mediante qualche
modo che segue da quest'attributo in altri termini che seguono da un modo che è
seguilo dall'attributo. Seguire da un attributo divino o da un suo modo
significa al tempo stesso, come sappiamo, po^tersene dedurre ed esserne
prodotto. Tra i modi che seguono dagli attributi mediatamente, niente ci vieta di Così Spinoza
parla di cause prime e di cause prossime intendendo la parola causa nel senso spiegato,
in cui è 1'equivalente di principio logico Il terzo genere di conoscenza ora è
fatto consistere nel conoscere le cose per le cause prime Ulh, p. Schol. prop.,
De int. em., eco. ed ora nel conoscere l'essenza di ciascuna cosa per la sua
causa prossima De int, em., eco. La seconda deiìnizione equivale alla prima,
perchè anche la causa prossima deve essere conosciuta per la sua causa
prossima. e cosi via via sino alla causa prima. Nell'Appendice alla
p. contrappone gli effetti ohe sono prodotti immediatamente da Dio a
quelli che per prodursi hanno bisogno di piìì cause intermediarie. Gli effetti
che sono prodotti immediatamente da Dio sono
quelli di cui si tratta nella proposizione ohe egli cita, cioè i modi ohe
seguono immediatamente dagli attributi.
A7/i. p. prop. Dim. prop. Dim.
prop. JMStfii. supporre che ya uè siauo
dei più prossimi e dei più remoti; iu altri termini, che oltre a quelli che
seguono da un attributo attraverso un solo modo, ve ne siano degli altri che ne
seguono attraverso una pluralità di modi di cui Tuno segue dall'altro. È a ciò che pensiamo
naturalmente, quando Spinoza parla di una serie di cause, che il nostro
pensiero deve riprodurre come concatenaisione logica di ccmcetti. Inoltre, come
mostreremo. Spinoza ammette, al di là <legli attributi, qualche cosa di più
fondamentale, che ne è il substratum come essi lo sono dei modi è ciò ch'egli
chiama Vessere assolutamente indeterminato, e la logica «lei sistema esige che
gli attributi se ne deducano e ne siano prodotti, come i modi si deducono <?
sono prodotti dagli attributi. Nella serie delle cause, cioè delle cose eterne
ed infinite, il cui incatenamento causale è rappresentato dall'incatenamento
logico dei concetti, il termine susseguente è sempre una determinazione del
termine precedente. È l'attuazione del principio che l'idea delFettetto involge l'idea della
causa. Il primo termine della serie A ciò non si oppone la proposizione di
Spinoza che i modi ohe non seguono immediatamente da qualche attributo divino,
devono seguirne mediante qualche modo aliqua modificalione che segue da un
attributo Dim. prop. Infatti questo modo può essere la conseguenza di uno o più
altri modi anteriori, e nondimeno Spinoza può parlare anche in questo caso come
se fosse il solo modo intermediario, perchè ogni modo contiene in 66 stesso i
modi anteriori di cui è la conseguenza conformemente all'assioma che l'idea
dell'effetto racchiude l'idea della «ausa. De int. emend. i», e ed
Eih, p. Schol. prop.. i è Vessere assolutamente indeterminato: gli
attributi, cioè l'estensione e il pensiero
sostanziale, ne sono le prime determinazioni. I modi immediati
dell'estensione sono la quiete e il movimento. I modi mediati sono coi modi
immediati nello stesso rapporto che questi con gli attributi. Un esempio dei
modi mediati pure nell'attributo dell'estensione è l'aspetto di tutto
1'universo facies totius universi che pur cangiando di maniere infinite, resta
nondimeno sempre lo stesso. È una
determinazione dei modi immediati, perchè ogni varietà nel mondo materisile
consiste in una diversa distribuzione della quiete e del movimento e nella
diversa natura del movimento stesso. Ciascun termine della serie è il
substratum di quello che lo segue, vale a dire ha con esso la stessa relazione
che la sostanza coi modi. L'essere si forma,
])er dir così, per strati successivi,
aggiungendosi progressivamente nuove determinazioni, di cui la
susseguente è la c<mseguenza e Fetfetto della precedente. In questo
progresso, è un solo e stesso essere, che passa continuamente, come per una
forza interna che lo necessita a svilupparsi, da uno stato più indeterminato a
uno stato più determinato. È ciò che sopra ^ abbiamo chiamato i gradi
successavi dello sviluppo di Dio e della Natura: ma si deve intendere d'una
successione, non cronologica, ma solamente logica, perchè le Episl. Dio, V uomo
ecc.. la dim. della prop. Eth, p., con
la dim. della prop. Epist, Eth. p. gli assiomi, lemmi, ecc. tra la prop. e la
prop.; e Dio, Vuomo, ecc. trad.
frane. conseguenze dell'essenza di Dio sono, come abbiamo detto, eterne
come il loro principio. Questo concetto
di Spinoza, che il processo secondo cui le cose si producono è uno
sviluppo continuo al di fuori del tempo, che consiste a passare costantemente
da uno stato più astratto, più indeterminato, a uno stato più concreto, più
determinato, è, vi ha appena bisogno di notarlo, un carattere comune del
realismo dialettico, che noi abbiamo già incontrato in tutti i sistemi
precedenti. Ciò che sef/ue, cioè si
deduce, dall'essenza di Dio, non sono gli oggetti peribili e cangianti, ma ciò
che vi ha di eterno e di immutabile nella natura. Le cose seguono o jlaiscoao
dalla natura di Dio <sempre con la stessa necessità, allo stesso modo che
dalla natura del triangolo segue ab aetenio ed in eterno che i suoi tre angoli
sono eguali a due retti. L'onnipotenza di Dio è stata in atto ab aetenio,
e rimarrà in eterno nella stessa
attualità Tutto procede per una certa eterna necessità della natura, tutto
<segue dalla eterna necessità della natura SPOTS ARE MEASLES di Dio Come è
per un'eterna necessità che le cose derivano dall'essenza di Dio, così è per
un'eterna necessità che devono concepirsi come derivate da quest'essenza perchè
l'ordine e la connessione delle idee sono gli
stessi che l'ordine e la connessione delle cose: tutti i decreti di Dio
involgono una verità ed una necessità eterne. Tutte queste prò Eth.
p. Scbol. pr. Mk. App. p. P.
Schol. pr. P. a
Dira. prop. e dini. prop. Schol. pr. il sapiente è conscio di se stesso
o di Dio e delie cose per una certa eterna necessità. Epist. posizioni sono
basate sulla prop. parte ehe l'autore cita, in cui ha dimostrato che tutto deriva dalla essenza di Dio come le
proprietà d'una cosa dall'essenza di questa cosa. Il concetto che esse
esprimono è clie la essenza di Dio è una causa eterna ed immutabile, che agisce
d'una maniera eterna ed immutabile: la conseguenza è che gli effetti di questa
causa devono essere anch'essi eterni ed immutabili. Spinoza afferma
ripetutamente l'eternità e l'immutabilità degli
attributi divini, cioè del pensiero e dell'estensione considerati
assolutamente, vale a dire astratti dai loro modi. L'eternitti è pure
esplicitamente attribuita a tutti i modi necessari degli attributi, sia
immediati che mediati: tutto ciò che segue dall'essenza di Dio, sia
immediatamente sia mediatamente, è, come abbiamo detto, eterno ed infinito come
essa. In quanto all'immutabilità
esplicitamente è affermata in Dio l'uomo e la beatitudine di tutti i
modi immediati^che sono i soli modi eterni ed infiniti che Spinoza ammette in
quest'opera, e nell'Epist. dell'unico esempio che, in tutti i suoi scritti,
egli dà dei modi mediati, cioè dell'aspetto di tutto l'universo che, come
abbiamo visto, resta sempre lo stesso malgi-ado i suoi infiniti cangiamenti.
Noi dobbiamo dunque ammettere che tutti
i modi necessari cioè che se Mh. p. Dini. prò., pr. e dim., ecc. y Eth. p. Cor.
pr, Dim. pr., p. Soh. pr., p. Schol. prop. De int. em., Dio V uomo e la beat.
in nota, eco. Dio Vuomo e la beat., Eth. p. pr., Dim. pr., p.^Scoi. pr. Dio,
Vuomo e la beat. n. Dio, Vuomo e la beat. guoiio necessariamente dall'essenza
di Dio, tanto^11 immediati qnanto i mediati, sono, secondo Spinoza, non
solo eterni, ma anche immntabili. Ciò è
confermato dal De intellectus emendatione, in cui la serie delle cauae^cioè
ress(*nza di Dio e le cose che gradatamente se ne deducono vale a dire, come
sappiamo dall'Etica, i modi immediati e mediati che seguono dagli attributi
divini, è chiamata la <serie delle cose fisse ed eterne, y>ed opposta a (|uel]a delle cose
singolari mutabili. Del resto Pimmutabilitii in Spiiìoza accompagna
necessariamente l^eternità, perchè T eterno per lui non è ciò che esiste in
ogni tempo ^ma ciò che esiste al di fuori del tempo, e, per conseguenza, di
ogni successione e di ogni cangia., luogo che riporteremo. Eth. p. DEF.
Vili. Per aeternitutem iutelligo ipsam
existeutiam, quatenus ex sola rei aeternae defìnitioue necessario sequi
concipitur. ESPLICATIO. Talis euiin
existeutia ut aeterna veritas, sicut rei essentia, concipitur, propteraque per
durationem aut lem pus explieari non poteste tametsi dura Ho principio et fine
carerà concipintur. Dim. pr. e Scbol., e Dim. pr. l'antitesi fra l'esistenza
eterna e V esistenza ohe si spiega o si definisce per il tempo e la durata. Per
comprendere questo concetto dell'eternità di Spinoza che è quello del realismo dialettico in generale
GRICE TIMELESS, si deve avvertire che le cose fisse ed eterne sono, come
spiegheremo in seguito, delle entità astratte, per concepire le quali bisogna
fare astrazione di certe determinazioni della realtà empiiica. fra di queste la
posizione nel tempo e la durata. Che le cose fisse ed eterne sono fuori del
tempo e della durata, significa dunque
che devono essere concepite astrazion facendo del tempo e della durata
tanto di un tempo e di una durata determinati quanto del tempo e della durata
infiniti, ed esistono cosi come devono essere conceDite. perchè le astrazioni,
in questi sistemi, sono delle realtà, e non dei semplici concetti. mento. Le
cose fisse ed eterne, cioè i modi eterni ed infiniti dell'Etica, costituiscono,
in un senso, tutto il reale, perchè
Spinoza afferma, da una parte, che queste sole cose seguono, o possono dedursi,
dall'essenza di Dio, e da un'altra parte, che tutte le cose seguono, o possono'
dedursi, da questui essenza Ciò non importa però che 1 modi eterni ed infiniti
non siano altro che il complesso delle cose particolari, cioè empiriche. Ciò
che prova che essi hanno un'esistenza distinta è che Spinoza nega che le cose singolari, ossia
finite e che hanno una durata determinata, siano prodotte dall'essenza di Dio
assolutamente considerata, sia immediatamente sia raediatamente. Vi ha in
(,uesto sistema una doppia sene di cause, a cui corrisponde un doppio ordine di
realtà. Una cosa singolare o, come la definisce l'autore, finita e che ha
un'esistenza determinata lia per causa
un'altra cosa singolare, che la precede nel tempo, HERBERT GRICE, questa
un'altra, e così di seguito all'infinito. Queste cose non sono prodotte
dall'essenza di Dio assolutamente considerata, cioè non se ne possono dedurre.
È l'ordine delle realtà empiriche, e la loro causalità è una causalità
empirica, cioè che si riduce a una sequenza invariabile. Ma al di là delle
realtà empiriche vi ìmnno le co^a fisse
ed eterne, cioè l'essenza di Dio e i
modi eterni ed intì Mh. p. prop.,
anche i indie, nella nota dopo la seguente. Etk,
p. Schol. prop., Pr., Schol. pr., Schol. pr., Schol. pr., Pr.,
Sohol., Dim. pr., Pr., App. p., Epi^t.,
e?c. V. Età.
p. Dim. prop. e Schol., p. Dim. prop. e Dim. pr.. Eth. p.
Prop. e Dim.
pr., p. Dim.
prop. e Dim.
prop. Diti, che SODO
prodotti dall'essenza di Dio assolti
tameDte coDsiderata, cioè che se De deducouo. Per quest'altro ordiDe di realtà
vale im'altra causalilà: è quella del
realismo dialettico, iu cui causa equivale a principio logico ed effetto a
conseffuenza, e che Spiuoza ha di mira, quaudo dice che l'idea dell'effetto ìd
volge, cioè racchiude, l'idea della causa DARK CLOUDS MEAN RAIN. Le cose fisse
ed eterne haono, come abbiamo detto,
un'esistenza per sé, distiDta dall' iDsieme delle cose singolari; ma sono
presenti in queste, e ne sodo le cause prossime. Chiamaudole cause prossime,
Spili) De ini. em, nel luogo ohe riporteremo. Per questa
presenza naoovdta plalonica delle cose fìsse ed eterne nelle cose che esistono
nel tempo, il concetto dell'eternità viene completato e avvicinato al cor.cetto volgare, ohe ne fa uua durata
infinita VEpist., in cui Spinoza definisce la eternità infinitam existendi
fruitionem. In un certo senso può dirsi che le cose fisse ed eterne esistono
sempre, cioè in ogni tempo, perchè le cose fenomenali in cui esse sono
presenti come l'astratto è presente nel
concreto esistono sempre, cioè in ogni tempo. Ma in se stesse, vale a dire
astrazion facendo delle cose fenomenali
in cui sono presenti o a dir meglio delle altre determinazioni che, aggiunte ad
esse, costituiscono le cose fenomenali, sono fuori del tempo e della durata:
esse sono anteriori al tempo e alla durata, che appariscono a un grado
posteriore dello sviluppo dell'essere anteriorità e posteriorità di natura, al
-rado ultimo, perchè Spinoza riguarda il tempo e la durata come la nota distintiva dell'individuale, oiob, come
dicevano gli oolastici, àeWomnimode determinatum nota De ini. emend., thid. Lo
stes^^o concetto, espresso d'una maniera differente, nello Scolio alla prop. p.
dell'Etica: ivi si distinguono le cose immediatamente prodotte da Dio cioè i modi eterni ed infiniti, si
immediati che mediati e le cose singolari che sono prodotte mediante quelle;
Dio è causa assolnfamente prossima delle
une cioè delle cose fisse ed eterne, delle altre può anche dirsi causa remota.
Doza intende dire delle cause immanenti perchè sono presenti negli eftetti, e
considera, per conseguenza, le cose singolari, prese nel loro insieme, come le
stesse cose fisse ed eterne ad un grado ulteriore di determinazione. Noi
sappiamo infatti che intendendo le parole
causa ed effetto nel senso del realismo dialettico l'ettetto nou è per
Spinoza che una determinazione della causa, vale a dire la causa stessa a uno stato più determinato, meno
astratto. È perciò che le cose singolari
sono chiamate le cose che hanno un'esistenza determinata: finito e determinato
e infinito e indeterminato sono per Spinoza dei termini equivalenti, perchè il
finito per lui è il determinato, cioè il
concreto, e l'infinito le cose fìsse ed eterne l'indeterminato, cioè l'astratto
Un'altra prova Eth. p. Dim. prop. Prop.
e Dim.. ecc. L'espressione « esi.Atenza detenninatJi è per Spinoza
l'equivalente di durata determinata che equivale alla su:i volta a durata
finita e l'opposto di eternità. Ma siccome denota l'esistenza individuale eswa
deve significare anche l'idea che
naturalmente suggerisce, cioè che le cose a cui si applica sono delle
realtà concrete, e non delle astrazioni realizzate come lo. cose fisse ed
eterne. VEpist., in cui si trova la celebre proposizione determinatio negatio
est GRICE NEGATION AND PRIVATION, ohe egli prova per la oonsi'lerazione che la
figura, cioè una delerminaiione eli'estensione, non h che una limitmione di
questa perchè non esiste
nell'es:;ensione infinita, ma solamente nelle estensioni finite. Questo
principio che la determinazione è una negazione, cioè una limitazione, si
verifica, nel sistema di Spinoza, in tutti i passaggi del reale da un grado
anteriore al irrado posteriore. Così la quiete e il movimento, che sono i modi immediati
dell'estensione, cioè le sue prime determinazioni, ne sono pure delle limitazioni perchè la estensione in
quiete è limitata dall'estensione in movimento, e viceversa. Così pure
l'estensione e il pensiero sono delle limita
che dimostra che a quest'indetermiDato cioè alle cose fìsse ed eterne è
attribuita uua realtà propria, distinta dal complesso delle cose che hanno
un'esistenza determinata, è l'uso frequente del tempo passato HE MEANT IT per
indicare la derivazione dall'essenza
divina dei modi eterni ed infìniti e, in generale, di tutte le cose di cui le
cose fisse ed eterne >sono 1'elemento
veramente reale; seguirono, furono prodotti, furono creati, ecc. Spinoza può esprimersi così, perchè le
cose fìsse ed eterne essendo distinte da quelle che esistono nel tempo^ la loro
produzione non è un fatto che si ripete continuazioni dell'essere assolutamente indeterminato^perchè questo è
assolutamente infinito, mentre i suoi atttributi si limitano l'uno con l'altro,
e non sono infiniti che ciascuno nel suo genere
Epist. Per Spinoza, come per tutti i realisti dialettici, il vero essere è l'elemento
eterno e necessario delle cose. È ciò che è affermato iraplicitjimente nelle
proposizioni in cui dice ohe tutte cose seguono, cioè si deducono, dall'essenza di Dio nota se si mettono in
rapporto con le altre in cui dice invece che da quest'essenza non seguono, cioè
non si deducono, che i modi eterni ed infìniti nota Eth. p. Prop. e Dim., Dim.
pr., Dim. pr., Schol., App. p., Prefaz. p. Eth, p. Schol. prop., Prop.,
Schol. prop. Eth, p. Schol.
prop., App. p.. Dio, V uomo e la
beat, trad. frane, ecc. Indicherò pure
Eth. p. Schol. prop. tutte le cose fluirono necessariamente
dalla natura di Dio come dall'essenza del triangolo segue l'eguaglianza dei
suoi angoli a due retti, Prop. e Dim. Prop. tutte le cose sono state
detcrminate dalla necessità della divina natura ad essere e ad operare in un certo modo e
App. p. tutte le co»e furono predeterminate dall'assoluta natura di
Dio. mente per un tempo infinito, ma che avviene una volta sola, al dì fuori del tempo, e può
quindi coiisidf^rarsi come passato quantunque nell'eternità non vi sia, come
dice l'autore, né quando né ante né posti,
porche non è in feri, ma già compiuto ab aeterno. Spinoza distingue due
njodi di concei)ive le cose, o piuttosto due forme della loro esistenza stessa:
da una parte il loro essere empirico, la loro esistenza nel tempo e nella durata, che noi ci rappresentiamo per i sensi
e l'immaginazione; da un'altra parte le cose considerate 8uh specie aeiern
itati f(, che s4)iio 1'oggetto della scienza assoluta.
Considerare le cose sub specie aeternitatis vuol dire concepirle come eterne, e
questo non è per Spinoza un pensiero fittizio o una semplice astrazione
mentale, ma le cose pensate sub specie aeternitatis sono, secondo lui, eterne come si pensjino. Le cose, dice,
Spinoza, in due modi si concepiscono da noi come attuali cioè come reali: l'uno
in (pianto esistono in un certo tempo e in un certo luogo, l'altro in quanto
seguono, cioè si deducono, dalla essenza di Dio. Le cose che si concepiscono a
questo secondo modo come vere ossia come reali, le concepiamo sotto la
specie Eth, p. Schol.
prop. A7/«. p. Cor. prop., p. Dim.
pr.. Dim. pr., Schol., Dim. pr., ecc. Questa eternità, in alcuni dei
luoghi indicati, è espressa come la
esclusione di ogni relazione di tempo e
di ogni durata, perchè è in ciò che consiste anzitutto, per Spinoza, reternità
quantunque essa implichi inoltre che ciò che in se stesso è al di fuori del
tempo e della durata è presente in ciò che occupa tutto il tempo e tutta
la durata, concetto inseparabilmente
legato al primo, perchè ciò che ò al di fuori del tempo e della durata è,
secondo Spinoza, »;iò che esiste ueeessarianiente. dell'eternità. Noi dobbiamo
concepire le cose sotto la specie dell'eternità, perchè è con una eterna
necessità che derivano dalla essenza di Dio. Questa specie di eternità sotto
cui devono essere concepite è la stessa eternità della natura divina. Dobbiamo
concepirle eterne come la natura divina, perchè dobbiamo contemplarle come
necessarie e percepire questa loro necessità quale è realmente in se stessa:
ora in se stessa questa necessità delle
cose è la stessa necessità della eterna natura di Dio. L'esistenza eterna è
l'esistenza che segue nenecessariamente dall'essenza di Dio. È in questo senso
che Dio è eterno cioè in quanto la sua essenza implica la sua propria
esistenza: è in questo senso pure che le cose si concepiscono sub s[)eci<'ì aeternitatis, cioè in quanto si concepivscono
come esseri reali per la essenza di Dio,
o in quanto per questa essenza involgono l'esistenza vale a dire in quanto la
loro esistenza è una conseguenza necessaria dell'essenza di Dio. Che le cose
concepite Klh. \ì. Schol. pr.: Re»
duobus modis a n()l»is ut ìictiialcs
coacipiuiitur, vel quateuus easdem cura relatioiie ad certuni tcuipus et locum
existere, vel quateuus ipsas in I)eo contili»'ri et ex naturae divinae necespìtate coupequi conoipiuius.
Quae auteni hoc secundo modo ut verae seu reale» coucipiuutur, eas 8ub aeternitatis
specie coucipimus. Mh. p. Dim. pr.
COR. PR.: De natura ratiouis est res coucipere sub specie aetwnitatis.
DEMONSTR.: De natura enini rationis es rea ut necessarias et non ut
contingeutes eoutenipbiri. Hanc autem rerum necessitatem vere, hoc est, ut in
se est percipit. Sed haec rerum
necessitas est ipsa Dei aeternae naturae necessitas. Ergo de natura ratioiiis
est res sub hac aeternitatis specie contemplari. Eth. p Dim. prop.: Aeternitas
est ipsa Dei essentia, quateuus bacc necessariam involvit exìsteutiam. Res igitur sub specie aeternitatis siano per
Spinoza delle realtà veramente eterne, oltre che da queste proposizioni risulta
dalla sua dottrina, che la scienza
assoluta, cioè il terzo genere di conoscenza, deve contemplare le cose sub
specie aeternitatis. Tanto più che secondo il principio del parallelismo orda
et connexio idearum idevn. est etc. deve esservi equazione perfetta tra il
pensiero e la realtà e che il terzo genere di conoscenza è una conoscenza
intuitiva, in cui non hanno luogo, per conseguenza, delle astrazioni puramente mentali o altre rappresentazioni
ausiliarie, ma 1'intelligenza non fa che riprodurre l'oggetto intelligibile
come la percezione l'oggetto sensibile. Questa
equivalenza tra una cosa concepita sub specie aeternitatis e una cosa
realmente eterna, si vede inoltre nei luoghi in cui espone la sua dottrina
dell'eternità della mente umana. La mente umana è eterna in ciuanto è 1'idea
del corpo umano concepito sub specie
aeternitatis (4/. ma il corpo umano concepito sub specie aeternitatis è eterno
come la mente stessa. Cosi Spinoza parla dell'esistenza presente della mente,
che 4c si <letioisce o si spiega per
il tempo e la durata, di8tin«aiendola dalla sua esistenza eterna o al di fuori
del tempo e della durata; e parla pure, negli stessi luoghi sub specie
aeternitatis concipere est res
concipere, quateuus per Dei essentiam ut entia realia coucipiuutur, sive
quatenus per Dei essentiam involvunt existentiam. Eth. p. Schol. pr., Dim. pr.,
Dim. pr., eco. Dio, l'uomo e la beat. trad. frane, Eth. p.. Schol. prop., p.
Schol. prop., />« ÌH<. ew^^Hrf.,
ecc. De int emend., ecc. Eth. p., Pr.,
Dim. e Schol. Eth. p. Dim. prop. e Schol. pure p. Schol prop. Ubigli Btea^ierflMoi, éitìV esigenza, presente del corpo che <si
detìnisee o si spiega per il tempo e la durata^ciò che implica che anche per il
corpo vi ha un'esistenza eterna, al di fuori del tempo e della durata. Così
ancora la mente, in (pianto si conosce o si considera sub specie aeteruitatis
vale lo stesso che la mente in quanto è eterna, e le cose realmente eterne,
come quelle considerate sub specie aeternitatis, hanno per contrapposto le cose € in quanto si
considerano con relazione a un certo tempo e a un certo luogo. Che il corpo
umano deve avere, come la mente umana, una doppia esistenza, l'una temporanea e
l'altra eterna, è d'altronde la conseguenza inevitabile di uno dei principii
fondamentali del sistema di Spinoza, cioè del parallelismo P. Dilli, pi-., Dim. pr., Schol. pr e Diiii. pure
p.. Schol. prop. P. Dim. pr., o
Dim. prop. Eth, p. Prop. mens uoàtra
quatenus se et corpus sub specie aeternitatis co«;noscit e Diin. lo stesso, ma
invece di cognoscit, eomipil e Prop. Deus quatenus per esseutiam humanae mentis
sub specie aeternitatis cousideratam explicari potest. pure Dimostr. prop.:
mentis natura quatenus ipsa ut aeterna veritas per Dei uaturam consideratur.
Quatenus ut aeterna veritas per Dei
natnrnm consideratur non differisce essenzialmente dalla espressione più
abituale considerata sub specie aeternitatis^perchè le cose si considerano sub
specie aeternitatis in quanto si riguardano come verità necessarie dedotte dell'essenza di Dio. lo
Schol. della prop., riportato nella nota. La frase di questo scolio quatenus ex
naturae divinne necessitate conseqni
concipimus è evidentemente l'equivalente di quella della Dim. prop.
quatenus ut aeterna veritas per Dei naturam consideratur. Schol. prop. e Sch.
prop. pure i luoghi della p. V. indie, nelle duo note prima della precedrnte. psico-tìsico date le
sue dottrine che la mente è V idea del proprio corpo, e che la nostra mente, in
quanto è eterna, è l'idea del nostro corpo concepito sub specie aeternitatis.
Non può esservi, secondo Spinoza, né uno spirito senza corpo né un corpo senza
spirito, perché il tìsico e lo psichico, sono per lui le due facce inseparabili
sotto cui si rivela una realtà unica. Spinoza afferma, come conseguenze del
parallelismo psico-fisico, che le idee delle cose singolari, cioè le loro menti
o le loro anime, non durano che mentre durano le cose stesse; che: i'anima non
è stata mai senza corpo, né il corpo senza anima; che l'esistenza presente
della nostra mente cioè quella che si definisce per il tempo e la durata cessa
quando cessa l'esistenza presente del nostro corpo. Per la stessa ragione deve
ammettere se vi ha, oltre all'esistenza presente, un'esistenza eterna della
nostra mente che questa seconda esistenza ha luogo anche per il nostro corpo, perché
il corpo di cui la nostra mente é l'idea nella sua esistenza eterna, é
il corpo stesso della sua esistenza presente, concepito sub specie
aeternitatis. Tutto ha dunque, secondo Spinoza, una doppia esistenza, l'una
temporanea e 1'altra eterna, il nostro corpo come la nostra mente, e come il
nostro corpo tutti gli oggetti contemplati dalla ragione, perché la ragione,
come abbiamo visto, deve contemplare
Uth, p. Propr., Prop., e Cor. e Schol. di questa. nota. P. Cor. e Schol. pr.
Dio Vuomo e la beat. trad. frane, la nota Eth. P. Schol. pr. Schol. prop. p.
ciò che diremo nella nota finale di questo paragrafo sul vero significato della
dottrina dell'eternità della mente umana. tutto sub specie aeternitatis. Essa
deve conteraplare sub specie aeteruitatis tutte le cose presenti, passate e future, salvo che deve contemplarle
non come presenti, passate o future, ma come eterne. Gli avvenimenti stessi
devono essere contemplati sub specie aeternitatis, perchè anch'essi sono
oggetti della ragione GRICE RUBICON GIULIO CESARE morte di Socrate, ed è solo
la loro temporaneità che non è che oggetto dell'immaginazione. Tutti gli
avvenimenti, come tutti gli oggetti,
esistono dunque a un doppio stato: l'uno nel tempo e nella durata, come li
conosce l'immaginazione, e l'altro fuori del tempo ed eterno, come li conosce
la ragione. Non si deve credere però che le cose considerate sub specie
aeternitatis sono gli oggetti individuali con tutti i loro earatteri
individuali, e con questa sola differenza, che bisogna rappresentarseli, non
come temporanei, ma come eterni. Le cose
concepite sub specie aeternitatis non sono delle finzioni, ma ut verae seti
reales concipiuntur. Perciò devono rappresentare ciò che vi lia di etemo e
d'immutabile nelle cose, Telemeuto costante della natura, che è sempre lo
stesso nella successione e il cangiamento incessante dei fenomeni. Non sono, a
parlar prnpriamente, gli oggetti individuali, con le circostanze che fanno di
ciascuno tale o tal altro individuo distinto e differente dagli altri, che
bisogna rappresentarsi come eterni, ma le forme o i tipi costanti della natura
– le quattro stagioni di VIVALDI --, che essi rappresentano, e di cni non sono
che degli esempi. Le cose concepite sub specie aeternitatis sono gli oggetti
della scienza assoluta, cit»è del terzo genere di conoscenza: ma la realtà empirica, 1'individuo, non può essere,
secondo Spinoza, un oggetto del terzo genere di conoscenza. Noi abbiamo visto
infatti che il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre le cose
dall'essenza di Dio, e che le cose<singolari o che hanno un'esistenza
determinata non seguono, cioè non possono dedursi, dall'essenza di Dio. Inoltre
il terzo genere di conoscenza consta d'idee adequate; ma Spinoza non ammette che delle cose
empiriche, individuali, vi siano delle idee adequate. Noi non abbiamo che una
cognizione inadequata, o delle idee mutilate e confuse, sia del nostro corpo,
considerato come oggetto individuale, e delle sue modificazioni, sia delle
parti che locompongono e dei corpi esterni considerati come ogi^etti
individuali, sia della nostra mente e delle idee della nostra mente corrispondenti alle
modificazioni del nostro corpo. Tutti gli oggetti empirici, individuali, noi
non ce li rappresentiamo che mediante le modificazioni del nostro corpo, e le
rappresentazioni così formate costituiscono l'immagina Eht. p. prop. e Dim.
Schol. prop. p.. £th. p. Soho). pr!
(oli. uella nota. i 1. cit. nella nota. parag. Mh. p. Schol. pr., Dim.
pr., Sch. prop., p. Prop., De int. emendai., eoo. Eth. p. Prop., Pr , Cor. pr. .Eth, p. Pr. Eth,
p. Pr. Eth.
p. Cor. pr., Pr., Pr., Cor. pr., p. Ili Afttct, gener, definii, Eth, p, Pr,
Schol. pr., Prop., Cor. prop. Eth,
p. Schol. pr. Eth,
p. Prop., Propr., Prop. e Cor.,
Cor. prop., Schol. pr., p. Prop.,
ecc. K zione, che noQ è
che il grado infimo di conoscenza, e non consiste che in idee inadequate. Che
le cose concepite sub specie aeternitatis si svestano della loro individualità,
risulta del resto dai luoghi precedentemente citati, in cui esse si
contrappongono alle cose concepite con relazione a un certo tempo e un certo
luogo perchè la posizione in un tempo e in un luogo determinati sono state
sempre riguardate come le condizioni dell'esistenza individuale. Ciò che si
concepisce sub specie aeternitatis, non
sono, a parlar propriamente, le cose stesse, ma le essenze delle cose.
L'essenza, in effetfco, è \\u' eterna verità , cioè necessaria e che si
verifica sempre, perchè è sempre la stessa nella sue Eth. p. Schol. pr. i^or.
prop. Scliol. prop. p. Prop., De
ini. emend. Eth, p. Schol. pr., Cor. pr., Schol. pr. De ini.
emend. ecc. -Che delle cose inclividuali non VI
siano idee adequate «i
vede pure dalla distinzione tra gh atìetti che si riferiscono alle cose
di cui abbiamo intelligenza e quelli che si riferiscono alle C(»se singolari
Ufh. p Prop. e Schol. prop. u., e dalla proposizione che formandoci
delle idee chiare e distinte, cioè adequate doi nostri affetti, h separiamo dal
pensiero delle loro cause esterne cioè delle cose particolari ohe ne sono
l'oggetto o V occasione e li uniamo invece a dei pensieri veri Sch. pr. e Schol pr. Schol. prop. e Schol. prop.
p. V. Età. Exiplicat. Def., Schol.
prop., Schol. prop., De ini. em. Dire di
una cosa che si considera come un'eterna
verità GRICE CITY OF ETERNAL TRUTH equivale per Spinoza a dire che € si
considera sub specie aeternitatis Eth. Dim. prop. cit. nella nota, e questa nota. De int. em. De ini. em.
n. cessione degrindividui, e una verità che si verifica sempre, per un apriorista
radicale come Spinoza, è una verità necessaria. E infatti il terzo genere di
conoscenza il cui oggetto sono, come
sappiamo, le cose considerate sub specie aeternitatis deduce propriamente
dall'essenza di Dio, non le cose stesse, ma le loro essenze. Così Spinoza
preferisce di dire che ciò che si considera sub specie aeternitatis è l'essenza
del corpo umano, anziché il corpo umano stesso e se non fa lo stesso per la
mente, è perchè e.ii^li vuol esporre la sua dottrina della eternità della mente umana in una forma che
l'avvicini, più che sia possibile, alla dottrina comune dell'immortalità
dell'anima, e per un'altra ragione che vedremo nella nota in fine del
paragrafo. Ci si potrebbe obbiettare in verità che l'essenza d'una cosa non
differisce per Spinoza dalla cosa st-essa, perchè egli dice in una definizione
che all'essenza d'una cosa appartiene ciò, dato il quale, la cosa necessariamente è posta, e tolto il quale, la
cosa necessariamente è tolta, o ciò senza cui la cosa e viceversa ciò che senza
la cosa non può uè essere uè concepirsi», facendo così entrare nell'idea
dell'essenza d'una cosa individuale tutte le note che entrano nell'idea di
questa cosa stessa. Ma è chiaro che nell'uso della parola essenza egli non si
conforma sempre a questa definizione: quando
dice che l'essenza è un'eterna verità, egli Jl) Elh. p. Schol. pr. Elh. p. Schol.
pr. e De ini. em. Elh. p.
Prop. Elh. p. Def. È in questo significato che intende la parola
essenza nell'Ass., nello Schol. della prop., nella Prop e nel Cor. della prop., parte. b n Don può intendere per questo termine che
ciò che intendono generalmente gli altri filosofi, cioè V essenza comune a tutti gl'individui d'una specie, l'oggetto
d'una definizione generale. Che sia questa l'essenza che deve essere
contemplata sub specie aeternitatis è ctmfermato dal Trattato De int emend, in
cui dice che le essenze delle cose singolari mutabili non devono ricavarsi da
queste cose stesse, ma devono cercarsi nelle cose fisse ed eterne, le quali
possono riguardarsi come dei generi delle
definizioni delle cose singolari mutabili. A queste essenze cosi intese
cioè come oggetti delle definizioni generali, concepiti separatamente dalle
proprietà particolari a tale o tal altro individuo, Spinoza non attribuisce,
come gli altri filosofi, una semplice esistenza concettuale, ma una realtà
propria e distinta, perchè le cose considerate sub specie aeternitatis non sono
per lui, come abbiamo visto, delle
astrazioni mentali, ma delle cose veramente eterne e sussistenti per se stesse.
Evidentemente, le cose considerate sub specie aeternitatis non sono altro che i
modi eterni ed infiniti dell'^^ica e le cose fisse ed eterne del Trattato De
intellectus emendatione. Infatti le cose considerate sub specie aeternitatis
sono quelle che formano 1'oggetto del terzo genere di conoscenza, e questo consiste a dedurre le cose
dell'essenza di Dio: ora, secondo l'Etica, dall'essenza di Dio non seguono,
cioè non possono dedursi, che i modi eterni ed infiniti, e secondo il Trattato
de int. emend., la serie delle cause, gli oggetti che la ragione deduce gli uni
dagli altri, non sono che le cose, luogo che riporteremo nel paragr. Prop. p..
fisse ed eterne. Noi possiamo dunque applicare alle cose considerate ^«6 specie aeternitatis ciò che Spinoza
afferma dei modi eterni ed infiniti o delle cose fisse ed eterne e viceversa.
Ora noi abbiamo visto che le cose fisse ed eterne o i modi eterni ed infiniti
hanno un'esistenza distinta da quella delle cose singolari e temporanee ma sono
presenti in esse e ne sono le cause immanenti e non sono che esse stesse a uno
stato «.9//77^/o, cioè separate da alcune
delle loro determinazioni. Lo stesso dobbiamo dunque dire delle cose
considerate sub specie aeternitatis. Spinoza le identifica con le cose
sin-ohiri e temporanee riguardandole come queste cose stes'se concepite di un
altro modo, perche le cose considerate sub specie aeternitatis e le cose singolari
e temporanee sono e stesse cose a due gradi differenti di determinazione, le
une a uno stato astratto, le altre allo
stato concreto. Ma può al tempo stesso distinguerle, e può ammettere che le une
sono presenti nelle altre e ne sono le cause immanenti, perchè secondo lui
l'astratto esiste per sé, quantunque non si trovi che nel concreto, e r effetto
è la causa stessa a uno stato più avanzato di determinazione. La sola
difficoltà che presenta rinterpretazione di questa dottrina di Spinoza è di sapere con precisione quali sono
le determinazioni del rea Le cose
considerate sub specie aeternitatis non sarebbero considerate così, se non
fossero, non solo esistenti fuori del tempo e della durata, come ce le rappresenta
Spinoza, ma anche presenti nelle cose che occupano tutto il tempo e la durata:
è a questa sola condizione che una cosa esistente fuori del tempo e della durata può essere riguardata come eterna,
perchè noi intendiamo per eternità una durata infinita, o, come dice Spinoza,
la fruizione infinita dell'esistenza. le cioè del reale empirico, delle cose
esistenti nel tempo e nella durata, di cui bisogna fare astrazione per
concepire le cose sub specie aeternitatis, cioè per farne delle cose fisse ed
eterne, dei modi eterni ed infiniti di Dio. Questa quistione siccome le cose considerate sub
specie aeternitatis sono le cose in quanto formano oggetto del terzo genere di
conoscenza, o, ciò che è lo stesso, in quanto seguono necessariamente, cioè si
deducono, dalla essenza di Dio equivale a quella di sapere qual è precisamente
l'oggetto del terzo genere di conoscenza, in altri termini quali sono le
determinazioni delle cose che Spinoza
rignanhi come necessarie e deducibili dall'essenza di Dio, e quali
quelle che riguarda come accidentali e non deducibili. Senza dubbio ciò che Spinoza
riguarda come necessario e come deducibile è ciò che vi ha di eterno e
d'immutabile nelle cose, l'elemento permanente e sempre identico della natura:
ma si tratta appunto di sapere ciò che egli considera, nelle cose, come eterno
ed immutabile, e al tempo stesso come
esistente per sé, benché presente nelle cose stesse; quale è nelle cose
l'elemento variabile e fenomenale che non è che l'oggetto deìV immaginazione, e
quale l'elemento sempre ideutico a se stesso e veramente reale che è l'oggetto
della vera scienza. Su questa quistione, bisogna convenirne, noi non troviamo
quasi altro in Spinoza, d'una maniera
esplicita, che ciò che possiamo trovare in qualsiasi altro realista
dialettico, p. e. in Platone. L'elemento eterno e necessario della natura si
distingue dalle cose individuali, è costituito dalle loro essenze comuni, ed
esiste per sé benché presente nelle cose individuali, al di Nota fuori della
successione e del cangiamento. Ciò implica che, per concepire quest'elemento
eterno e necessario, noi dobbiamo fare
astrazione di ogni determinazione del reale come complesso di cose individuali,
e non includere nei nostri concetti che 1'universale puro, le forme e le leggi
generali della natura. Anche in ciò Spinoza si accorda esplicitamente con gli
altri realisti dialettici. Le basi della nostra conoscenza razionale sono, dice
Spinoza, delle nozioni comuni a tutti gli uomini, che rappresentano ciò che vi ha di comune a tutte
le cose: di queste proprietà comuni di tutte le cose noi a4>biawio delle idee adequate, e siccome
esse non costituiscono l'essenza di alcuna cosa singoiar© Bel senso della parola essenza di cui si
tratta nella Def. P., devono essere concepite senza alcuna relazione di tempo,
ma sub specie aeternitatis. Noi abbiamo anche idee adequate di ciò che è comune al corpo umano e ad altri corpi
esterni e alle loro parti: infine tutte le idee che si deducono da idee che
sono, nella nostra mente, adequate, sono anch'esse, nella nostra mente,
adequate. La conoscenza razionale è una conoscenza universale, che è costituita
da nozioni comuni cioè generali e da idee adequate delle proprietà delle cose e
non delle cose stesse; e se Spinoza
contrappone la conoscenza del terzo genere a quella del secondo in Mh.
p. Cor. prop. Prop. e Cor. P. Prop. Cor.
prop. P. Prop. Prop. P. Sohol. prop. e
Schol. prop. p. quanto la prima lia per oggetto il singolare, ciò non è
perchè essa non sia una conoscenza universale come quella del secondo genere,
ma perchè l'universale che è l'oggetto del secondo genere di conoscenza non
è che la collezione dei particolari,
astrattamente considerata, mentre quello che è 1'oggetto del terzo genere
esiste per se stesso indipendentemente dalle cose particolari, ed è quindi
singolare anch'esso quantunque non nello
stesso senso che le cose che si chiamano propriamente singolari, cioè le
mutabili. E infatti ciò che nel Cor alla prop. parte ha detto del 2° genere di
conoscenza, che esso è costituito di
nozioni comuni e di idee adequate delle proprietà delle cose, Spinoza lo
considera, nelle Dim. delle proposizioni
della parte come una definizione generale della ragione, quindi non può non
applicarsi anche al 3«genere di conoscenza, che è la conoscenza razionale per
eccellenza. Si vede anche dal primo di questi due luoghi che
queste € proprietà della cose di cui si tratta
nel Cor. prop. parte, sono, le proprietà comuni delle cose», cioè, non
le proprietà comuni a tutte le cose di cui nella Prop. parte , ma tutte le proprietà generiche e specifiche in
generale perchè nella Dim. della Hlh, p.
Sch. pr. Elh p. Schol. prop., Schol. prop., De ini. em. Nel De int. em. nello stesso luogo in cui
chiama le cose fisse ed eterne singolari, distinguendole dalle cose singolari
«mutabili, intende per singolari senz'altro le mutabili, cioè le cose singolari
nel senso ordinario. De natura rationis est res sub quadam aeternitatis specie
percipere Cor. prop. parte. prop. p. V gli affetti clie si riferiscono alle
proprietà comuni delle cose sono tutti quelli che nascono dalla ragione, i
quali vengono apposti a quelli che si riferiscono alle cose singolari, e nello
Schol. alla prop. n. in cui si cita
questa prop. gli 4C affetti che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose
sono detti invece gli affètti che si riferiscono alle cose di cui abbiamo
intelligenza e contrapposti a quelli che si riferiscono alle cose che
concepiamo d'una maniera confusa e mutilata, cioè alle cose singolari di cui
nella prop. È superfluo, del resto, dimostrare che il 3" srenere di
conoscenza ha per oggetto, secondo
Spinoza, l'universale in se stesso^do\)o che abbiamo visto che esso non ha per
os»getto le cose individuali, e che non si riferisce che alle essenze comuni di
queste cose. Ciò che bisogna notare è che questi uni vergali, di cui Spinoza fa
delle cose eterne sussistenti per se stesse, comprendono per lui tutto ciò che
vi ha di generale nelle cose, sino alle loro leggi più particolari e alle loro specie ultime. Noi
abbiamo visto infatti che si deve concepire sub specie aeternitatis V essenza
del corpo umano e quella della mente umana, e similmente le essenze di tutte le
cose, perchè il terzo genere di coli) Nella Dim. delhi prop. p. le cose che intendiamo chinramente e
distintamente GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION cioè gli oggetti della conoscenza razionale, non
sono solamente le proprietà comuni delle cose, ma anche ciò che può dedursi da
esse: ma anche questo non può essere che alcun che di generale IF IT’S
HAIRY-COATED IT IS HAIRY AND IT IS COATED,
perchè di tutte le cose obo intendiamo chiaramenle e distintamente GRICE
DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION
(e non delle sole 4 proprietà comuni delle cose si dice che le loro
rappresentazioni vengouo in noi eccitate più spesso che quelle delle altre
evidentemente perchè queste sono particolari ed esse sono generali. I iiosceuza consiste a dedurre dalPesseuza di
Dio tutte le cose^cioè propriamente, le loro essenze. Aggiungiamo che di tutte
le modificazioni del nostro corpo e di tutti i nostri affetti noi possiamo formarci delle idee
chiare e distinte GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION, cioè adequate,
e, per conseguenza, conoscerli col terzo
genere di conoscenza; che dall'essenza di Dio seguono necessariamente, insieme
alla mente umana, tutti i suoi fenon\eni, i diversi gradi di perfezione degli
esseri e tutto l'ordine della natura; e che, perchè il nostro pensiero rappresenti la realtà,
dobbiamo produrre tutte le nostre idee da quella dell'essenza di Dio per tutte
le nostre idee dobbiamo intendere tutti i nostri concetti generali; per
conseguenza per tutti i concetti generali vi devono essere degli oggetti corrispondenti, cioè delle € cose fisse ed eterne, che si deducono
dall'essenza di Dio. Noi abbiamo detto, commentando la proposizione di Spinoza che la ragione deve
contemplare sub specie
a6<<?rw/<a/is tutte le
cose presenti, passate e future: salvo che deve contemplarle, non come
presenti, passate o future, ma come eterne. Avremmo dovuto dire, per essere
esatti, che la ragione deve fare
astnizione, insieme alla loro temporaneità, di tutte le circostanze, che sono
legate a questa temporaneità, vale a
dire di tutte le loro particolarità
puramente individuali, che sarebbe assurdo di contemplare sub specie
aeternitatis, perchè sarebbe assurdo di farne delle forme stabili, costanti,
della natura. Eth.
p. Pr., Prop. e, Cor., Prop., Prop, Scbol. prop. Eth. Pref. della p. Elh. App p. Eth.
p. Prop. e Sehol. De hit. em. Potrebbe credersi, ed effettivamente è stato
creduto da alcuno, che le € cose
considerate sub specie aeternifatis )> o le
«( cose fisse ed eterne siano identiche alle Idee platoniche IL CERCHIO DI
GRICE. E nel fatto le une e le altre sono delle astrazioni realizzate; le une e
le altre rappresentano l'elemento eterno e necessario delle cose; le une e le
altre sono la constantificazione dell'universale, che è considerato egualmente
nei due sistemi come avente un'esistenza
distinta da quelle delle cose individuali, ma come presente in queste
cose e causa immanente di esse. Ma non si può ammettere che Spinoza jibbia
determinato dello stesso modo che Platone «luesf universale che ha come lui
sostantifìcato. Per separare l'elemento eterno e necessario delle cose
dall'elemento mutabile e contingente, Platone e Spinoza hanno fatto due ipotesi
differenti, e il confronto dei due sistemi
ci mostra che le determinazioni della realtà femmcììale, di cui bisogna fare
astrazione per concepire il vero reale, che è 1'oggetto della vera scienza,
sono maggiori in Platone che in Spinoza, in altri termini, che le astrazioni
realizzate del primo sono più astratte che quelle del secondo. Così l'editore
di Spinoza Hermann nella prefazione al volume dice del Trattato De intellectus emcudatione: lu hoc
traetatu persequitnr divini Platonis de idcis doctrinam. Le parole ohe seguono
ravvicinano il metodo che Spinoza espone in questo trattato, alla dialettica
tii Hegel. L'autore ha un'idea giusta della dottrina di Spinoza nei suoi
tratti, per dir così, generici, vale a dire comprende perfettamente che è un
realismo dialettico, e la identificazione che
ejzli fa delle cose fisse ed eterno con le Ideo di Phitone non è che
l'esagerazione di una verità evidente, cioè l'affinità strettissima tra i
sistemi dei due filosofi. Il realista dialettico non pretende di dedurre tutto
l'universo reale, con tutte le circostanze particolari che sono proprie agli
individui che lo costituiscono, ma solamente ciò che vi ha di costante nella
natura, le leggi e le forme generali
delle cose. L'esistenza di questo o quell'individuo determinato e le proprietà
peculiari che li caratterizzano, sono, secondo il realista dialettico,
indeducibilì in altri termini, non sono necessarie, ma contingenti; ciò che è
necessario, ciò che deve dedursi, è che esiste il tipo generale secondo cui
gì'individui sono costituiti, ma non che questo tipo si realizza in tali o tali
altri individui. Ora l'idea che è il germe del realismo
dialettico, è che l'incatenamento deduttivo dei concetti rappresenta
l'incatenamento causale delle cose. Dunque, la serie dei principii e delle
conseguenze, in quest'incatenamento deduttivo, non essendo che concetti delle
forme generali delle cose. la serie delle cause e degli effetti,
nell'incatenamento causale corrispondente, non possono essere che le stesse forme generali delle cose, che sono
gli oggetti di questi concet^ ti. Supponiamo che queste forme generali delle
cose, che il realista dialettico deduce, si concepiscano, non astrazion facendo
dalle circostanze degli oggetti individuali con cui sono congiunte nella
realtà, ma unitamente a quesie circostanze: in questo caso esse non sarebbero
più delle conseguenze necessarie dei
principii da cui si deducono perchè queste circostanze non seguono da
questi principii ciò che torna a dire che non né sarebbero atfatt<' delle
conseguenze. Ma, secondo il realismo dialettico, la conseguenza è lo stesso che
l'efletto, e il principio lo stesso che la causa. Così, se queste forme
generali delle cose si concepiscono unitumeute alle circostanze degli oggetli
individuali con cui sono unite nella
realtà, e non astrazion facendo da queste circostanze, esse non sono più gli
effetti necessari delle cause da cui derivano, ciò che torna a dire che non ne
sono affatto degli effetti, perchè la causa è una causa e l'effetto è un
effetto per il legame necessario che vi ha o piuttosto che il realista
dialettico e, in generale, il metafisico A TYPE OF PIROT, ammette che vi sia
tra la causa e l'effetto. Per conseguenza, affinchè la sua deduzione
rappresenti il movimento stesso, lo sviluppo, dell'essere -in altri termini
affinchè il principio logico sia identico alla causa e la conseguenza
all'effetto il realista dialettico deve concepire queste forme generali delle
cose, che egli deduce, astrazion facendo dalle circostanze degli oggetti
individuali con cui sono unite nella
realtà cioè in quella che noi
chiamiamo così, nella realtà empirica: ciò vuol dire che deve considerarle come
sussistenti per se stesse, come aventi un'esistenza propria e distinta da
quella degli oggetti individuali in cui si trovano, in una parola che di queste
astrazioni deve fare delle realtà. A<»giungiamo che deve farne, non
solamente delle realtà, ma le sole realtà vere, perchè lo sviluppo del pensiero che deduce essendo identico allo
sviluppo reale delle cose, non può esservi altro di veramente reale òhe ciò che
si deduce, e il resto non può essere che fenomeno. Spinoza si accorda con
Platone in ciò, che l'uno e 1'altro concepiscono queste forme generali delle
cose, vale a dire ciò che vi ha di eterno e di costante nella natura, ciò che è
necessario e deducibile, come esistenti
per se stesse, indipendentemente dagli oggetti dell'esperienza in cui si
trovano, e come costituenti la sola vera realtà: ma essi differiscono in ciò,
che, come abbiamo detto, il secofido, nel concetto ch'egli si forma di
quest^elemento eterno, necessario e veramente reale delle cose, conserva certe
determinazioni della realtà empirica, che il primo ha pure soppresse. Per dare
un'esistenza per sé a quest'elemento
eterno e necessario delle cose, e separarlo dall'elemento variabile e
contingente, Platone fa l'ipotesi àeWuno nei molti. Quest'elemento eterno e
necessario delle cose non è che le concordanze delle esistenze individuali
successive, i punti di somiglianza che vi hanno fra di esse: Platone suppone
che queste somiglianze siano delle identità parziali, che gl'individui di una specie o di un genere si somigliano
perchè contengono alcun che di identico, qualche cosa che, una in se stessa,
sia presente al tempo medesimo, pur restando una stessa e identica cosa, in
tutti gl'individui della specie o del genere. Ciò è, come sappiamo, l'Idea
platonica. Ora è evidente che vi ha nella realtà empirica una determinazione
anch'essa eterna e necessaria, ma che
tuttavia non è rappresentata nel mondo delle Idee platoniche: è la
moltiplicità degli esseri GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING in cui
si realizza il tipo generico e specifico. Perchè l'Idea GRICE CODE PLATONISM
ARISTOTELIANISM, cioè il tipo generico o specifico, si realizza in una
moltitudine d'individui? È questo, secondo Platone, un fatto contingente, o non
deducibile, e che, per conseguenza, non ha alcuna ragione di essere; perchè
tutto ciò che è necessario, a deducibile, deve essere rappresentato nel mondo
delle Idee. Ora l'Idea è come un individuo unico, presente al temiM) stesso
nella moltiplicità degl'individui empirici» ma in se stessa senza alcuna
moltiplicità individuale. La moltiplicità individuale è esteriore all'Idea, e
non è che un fenomeno ciascuna Idea è unica, ma apparisce come molti, perchè la
vera realtti è l'Idea, ciò che è necessario e deducibile, e tutto il resto non
è che fenomeno. Ma è evidente che, se è un fatto contin/jente che esista tale o
tal altro invividuo, se è ancora un fatto contm^ew /e che esista un tal numero
determinato d'individui, l'esistenza di una moltitudine d'individui è, secondo
i preli) Rep. supposti del realismo
dialettico, un fatto necessario altrettanto che l'esistenza della forma
generale che essi rappresentano, perchè, come è un fatto costante della natura
che esiste, nelle cose, questa forma generale, così è un fatto costante della
natura che essa è rappresentata da una moltitudine d'individui. Ora è in ciò
che le «cose considerate sub specie aeternitatis o le cose fìsse ed eterne di Spinoza difteriscono dalle
Idee platoniche: esse non sono, come queste, delle unità senza moltiplicità^ ma
accolgono in se stesse la moltiplicità che noi osserviamo nei fenomeni, vale a
dire rappresentano, insieme agli altri fatti costanti e necessari della natura,
questo fatto altrettanto costante e necessario che le forme generali delle cose
si realizzano in una moltitudine
d'individui, e sono realmente delle specie e dei generi^e non
degl'individui eterni come le Idee platoniche. E infatti Spinoza non fa
consistere, come Platone, il processo per cui l'iutelligibile si astrae dalla
realtà empirica, in una riduzione del multiplo all'uno, cioè nella soppressione
della moltiplicità, ma in una eternizzazione del temporaneo, nella soppressione
del tempo e della durata. Ciò implica che l'intelligibile, per lui, deve
comprendere in sé tutto ciò che vi ha di eterno nella natura, per conseguenza
anche la moltiplicità degl'individui. Semplicemente questi devono essere
concepiti, non come temporanei e successivi, ma come eterni perchè le
astrazioni realizzate di Spinoza sono in se stesse fuori del tempo e della durata,
ma presenti in ciò che occupa tutto il
tempo e tutta la dur.ita e senza
le circostanze particolari che fanno degl'individui dell'esperienza tali
individui determinati perchè queste circostanze non fanno parte dell'elemento
eterno e necessario della natura, ma costituiscono 1'elemento variabile e
contingente. Noi possiamo dire, in breve, che le cose fisse ed eterne di
Spinoza sono le Idee platoniche cadute nella raoltiplicità, cioè concepite ciascuna non come una, come le
concepiva Piatone, ma come molte. Ciò è confermato dal luo^o del J>e
in teilectìis emendatione, in cui enumera le proprietà dell'intelletto.
Una di queste proprietà è: Res non tara sub duratione, quam sub quadam specie
aeternitatis percipit et numero infinito; vel potius ad res percipieu«, das nec
ad numerum, nec ad durationem attendi t. €
Quum antem res imaginatur, eas sub certo numero, « eterminata duratione et quantitate percipit .
Quando soggiunge vel potius nec ad numerum attendit, egli non intende dire che
l'intelletto non si rappresenta le cose come multiple perchè in questo caso non
si comprenderebbe come prima abbia potuto dire che le percepisce in numero
infinito ma che non se le rappresenta di {%n
numero determinato, come si vede dal contrapposto con Pimmaginazione che
le percepisce invece sub certo numero. Infatti come abbiamo notato, che il tipo
generico o specifico sia rappresentato da tale o tal altro numero determinato
d'individui non è nn fatto costante della natura, ma appartiene all'elemento
mutabile e contingente delle cose. Noi spiegheremo in seguito in qual
senso l' intelletto percepisca le cose
in numero infinito, e in qual senso le percepisca senza un numero determinato.
Che il realismo di Spinoza non sia precisamente quello di Platone e del medio
evo, cioè l'obbiettivazione delle idee generali del concettualismo, si vede
anche da certe sue proposizioni, che parrebbero dare ragione a (piegli
espositori, che, come Ritter, fanno di lui un nominalista. Spinoza rigetta,
della maniera più esplicita, la realtà degli universali nel senso tradizionale
cioè, come abbiamo detto, dei concetti generali realizzati. È ciò che egli fa
più volte a proposito della quistione del libero arbitrio. La dottrina del
libero arbitrio, secondo lui, suppone che le volizioni abbiano per causa, non
altri fatti precedenti, ma la volontà, e riguarda per conseguenza
quest'astrazione, la volontà, come avente una esistenza per sé, distinta da
quella delle volizioni stesse. Ora la volontà, dice Spinoza, non è che un
essere di ragione. Essa dirterisce da questa e quella volizione allo stesso
modo che la bianchezza da questo e quel
bianco, o 1'umanità da questo e quell'uomo; sicché è altrettanto impossibile a
concepire che la volontà sia causa di questa e quella volizione, quanto che
Vumanità sia causa di Pietro STRAWSON e di Paolo GRICE PAYING PETER TO PAY PAUL
ciò che intanto accadrebbe nel sistema di Spinoza, se l'essenza dell'uomo
considerata sub specie aeternitatis fosse 1'umanità così intesa, cioè in
termini platonici, l'Idea dell'uomo. Alcuni più abituati a occupare il loro
spirito con degli esseri di ragione che con le cose particolari, che sole
esistono realmente nella natura, trattano questi esseri di ragione, non come
tali, ma come esseri reali. Poiché l'uomo, avendo tale o tal volizione GRICE
KENNY VOLITING, ne fa un modo generale di pensare, che chiama volontà, come dall'idea di tale o tal uomo particolare
si fa un'idea generale dell' uomoj e siccome non sa separare gli esseri reali
dagìi esseri di ragione, ne segue che considera questi come delle cose reali.
La volontà, come abbiamo detto, non essendo che l'idea generalizzata di tale o
tal volizione particolare, non è per conseguenza che un modo del pensiero, un
ens rationis e non un ens reale; niente
per conseguenza Epist.. può essere
causato da ee^sa, perchè niente può venire da niente. Non vi ha alcuna facoltà
assoluta di volere, come non vi ha alcuna facoltà assoluta d'intendere, di
desiderare, di amare, ecc. Queste e simili facoltà o sono affatto fittizie o
non sono niente di più che esseri metaiìsici, cioè universali, che sogliamo
formare dai particolari vale a dire, come dice
in seguito, sono delle nozioni univc^rsali, che non si distinguono dai
singolari da cui le forniamo; sicché l'intelletto e la volontà sono a questa e
quell'idea o a questa e quella volizione, come la lapideità è a questa e quella
pietra, o l'uomo a Pietro STRAWSON e a Paolo GRICE ROBBING PETER TO PAY PAUL.
Delle proposizioni simili troviamo nello Schol. alla prop., combattendo, non il concetto che le volizioni abbiamo per
causa la volontà PEARS FREEDOM OF THE WILL GRICE ILL-WILL, ma quello che la
volontà si distingua dall'intelligenza, e sia qualche cosa di altro che
l'affermazione con cui l'autore la identifica. La volontà è un essere
universale c/oéu?t'tdea, con cui spieghiamo tutte le volizioni singolari, vale
a dire ciò che vi ha in queste di comune GRICE’S DEFINITION OF WILLING THAT AND
JUDGING THAT IN TERMS OF WILLING THAT. E poi, dopo aver detto che
1'affermazione, in cui consiste la volontà, non è in tutte le idee che in
quanto si concepisce astrattamente: Per cui viene sovratutto da notare quanto
facilmente e' inijanniamo, (juando confondiamo gli universali coi singolari, e
gli esseri di mgioue e gli astratti con le cose reali. La realtà degli
universali, nel senso platonico e del realismo del medio evo, è pure esplicitamente
negata a proposito della dottrina che Dio Dio, Vtimio e la beat, trad. frane. Eth. Schol. prop. Per universale
intende i concetti generali del concettualismo, come si vede dalle parole che
vengono in seguito; L'universale si dice egualmente di uno, di molti e
d'infiniti individui. non conosce le
cose particolari, ma solamente i generi. Quantunque gli aristotelici dicano che
le idee platoniche non esistono e non sono che degli esseri di ragione,
tuttavia anch'essi sembrano spesso considerarle come cose reali, poiché dicono
espressamente che la Provvidenza non ha riguardo agl'individui, ma solamente ai
generi; che p. e. Dio non ha mai applicato la sua provvidenza a Bucefalo, ma al genere cavallo
in generale. Essi dicono ancora che Dio non ha la scienza delle cose
particolari, ma solo delle cose generali, che, nella loro opinione, sono
immutabili; ciò che attesta la loro ignoranza, perchè sono precisamente le cose
particolari che hanno una causa, e non le generali, poiché queste non sono
niente. E altrove: Intanto non bisogna trasandare l'errore di alcuni che
stabiliscono che Dio non conosce che le cose eterne, quali gli angeli e i
cieli, che fìnsero ingenerabili e incorruttibili per la loro natura; e che
di questo mondo non conosce che le
specie, che sarebbero anch'esse ingenerabili e incorruttibili. Questi sembra
che vogliano errare a bello studio ed escogitare le cose pili assurde.
Stabiliscono che Dio ignora le cose realmente
esistenti e gli attribuiscono la conoscenza degli universali, che non
sono, né hanno alcun'essenza oltre i singolari. Ma ciò che mostra della maniera
più evidente che le cose fìsse ed eterne di Spinoza non sono Vuno nei molti
come le Idee platoniche, ma contengono in sé la moltiplicità individuale, è il
modo in cui egli concepisce Dio e i suoi attributi e modi necessari. Le cose fìsse ed eterne sono Dio stesso nei gradi differenti
della sua Dio, Vuomo e la beat., trad. fr. Cogitatorum metaphysicorum.
determinazione progressiva meno l'ultimo in cui diviene un complessi di esistenze
temporanee e contingenti: cioè Dio come essere assolutamente indeterminato,
come cosa estesa e come cosa pensante assolutamente considerate cioè astrazion
facendo dalle loro moditìcazioni e come cosa estesa e cosa pensante modificate
con modificazioni che seguono necessariamente dalla loro essenza. Ora ciascuna
di queste cose è concepita da Spinoza, non come alcun che di comune a una
moltitudine di oggetti particolari simultaneamente esistenti, ma come una cosa
infinita che abbraccia la totalità di questi oggetti particolari. L'origine
della natura vale a dire Dio come la
cosa fissa ed eterna dalla quale derivano tutte le altre non è, dice Spinoza,
un'entità astratta, cioè universale; è un ente infinito, cioè che è tutto
l'essere, e al di fuori del quale non vi ha alcun essere. Come Dio, quale
essere assolutamente indeterminato, è l'essere assolutamente infinito che
comprende tutto l'essere delle cose, cosi Dio considerato sotto 1'uno o sotto
l'altro dei suoi attributi è un essere infinito nel suo genere, che
comprende tutti gli esseri che partecipano a quest'attributo. Limitandoci agli
attributi che conosciamo. Dio è un corpo infinito, di cui tutti i corpi sono
delle parti, animato da per tutto da una mente infinitii, di cui tutte le menti
sono delle parti: la sua essenza, da oii il 3® genere De ini, emend. iL'pist,
Dio, rnomo, ecc. trad. frano, M:th. p. dim. pr. Elh,
p. Def. , Pr., Dim. pr., p. Pr. e
8ohol., ecc. Mh, p., Pr. e
Corollarii, Pr. e Schol., Dim. pr., Cor. pr., Pr. Schol. pr., Pr., p., Def., Pr., Schol. pr., Pr., e
Cor. e Schol., Pr., Cor. pr. di conoscenza deduce tutte le cose, contemplate
sub specie aeternitatis, è questo <-.orpo e questa mente infiniti,
considerati come sostanze pure, cioè astrazion facendo dai loro modi o
affezioni. L'estensione come cosa fissa
ed eterna, Véstensione in sé, non è l'Idea dell'estensione, vale a dire ciò che
vi, ha di comune in tutte le estensioni determinata, ma l'estensione infinita,
la cosa estesa unica che è la totalità delle cose estese particolari j e così
pure il pensiero in sé, il pensiero assoluto, come cosa fissa ed eterna, non è
ciò che vi ha di comune in tutti i pensieri o in tutti i pensanti detcrminati, ma un pensiero infinito diffuso ia tutte le
parti di questa estensione infinita, la cosa pensante unica che è la totalità
degli esperi pensanti particolari, la
solo, Pr. e Cor., Schol. pr.,
Pr., Pr., Pr., Pr., Pr., Pr., Pr., Pr., p.,
Pr., Pr.. Schol. pr., eco. V £th, p., Def.. Pr., Dim. pr., Pr. e Schol., Schol. pr., Pr.,
Pr. e Schol., Corollari pr., Pr., Pr. e
Schol., Schol. pr.. Pr., Pr.,
p. pr., Pp., Pr. e Cor., Pr.. e
Cor., Scolii e Cor. Pr., Schol. pr., Schol. pr., p. Prop., Pr., Schol. pr., Pr.,
Pr., Schol. pr., ecc. Quantunque Spinoza non ammetta che una sostanza
unica, egli chiama auche sostanze gli attributi dell'estensione e del pensiero,
perchè il primo è il substratum di tutto ciò che vi ha di fisico, e il secondo
di tutto ciò che vi ha di psichico. Dio, Vuomo e la beat, trad. frane,
AVA. p. Sohol. pr., p. Schol. pr., ecc. per quest'espressione
Dio, Vuomo e la beai., trad. frano, Dio, Vuomo e la beai., trad. frane,
Eih. p. Schol. pr., p. Def., Pr., Schol. pr., ecc. per
quest'espressione Eih. p., Dim. pr. stanza psìchica luoudìale
infine, di cui ogni anima è una parte e ogni fenomeno psichico una
modificazione. Le altre cose fisse ed eterne, cioè i modi necessari clie
seguono dagli attributi divini, sono
infinite come questi attributi stessi e l'essere assolutamente indeterminato
che è il loro substratum. Le cose considerate sub specie aeternitatis «ono,
oltre agli attribuii di Dio, le sue proprietà perchè Spinoza assimila il modo
in cui le cose procedono dal primo principio a quello in cui le proprietà
derivano dall'essenza: questa altre cose fisse ed eterne sono ancli'esse degli attributi di Dio, che si
distinguono dagli attributi propriamente detti, perchè questi sono primitivi e
costituiscono 1'essenza divina, essi sono derivati e si deducono da
quest'essenza. Ne segue che Episl., Dio, Vuomo e la beat. trad. frane,
Eth, p
Pr. e Schol., Pr., Schol. pr., Pr, e Dim. e Cor,
Dim. pr., ecc. Elh. p.e Prop. e Dim. Il vero primitivo, la vera origine della natura, secondo Spinoza, l'essere assolutamente
indeterminato. Ma nell'Etica considera come il primitivo la sostanza quale
complesso degli attributi, facendo consistere il 3o genere di conoscenza nella
deduzione delle coso, non da Dio come essere assolutamente indeterminato, ma
dagli attributi divini p. e. Schol. pr. p. Sembra che questo latto sia una
conseguenza della sua d.)ttrina che Dio
ha un numero infinito di attributi, di cui non ne conosciamo che due,
mentre tutti gli altri ci sono sconosciuti. Ciò importa che il primitivo per
noi, cioè il punto di partenza della nostra deduzione, non può essere il
primitivo in se siessOf ma (gualche cosa di posteriore. Se fosse il primitivo
in se stesso, vale a dire l^ens absolute indeterminatum, noi dovremmo poter
dedurne tutti gli attributi perchè
questi ne derivano, e ohe una cosa deriva da un'altra cosa significa per
Spinoza che se ne può dedurre: ma allora la più parte di questi attributi
queste altre cose fisse ed eterne sono infinite come Dio stesso di cui sono le
proprietà: ne segue inoltre che sono qualche cosa d'individuale e non dei
concetti generali realizzati, perchè Dio, di cui sono i modi o le affezioni,
non è
un concetto generale realizzato, ma un individuo infinito, di cui tutti
gli altri individui sono delle parti. Così il movimento, come cosa fissa ed
eterna, è il movimento infinit», diffuso
nell'estensione infinita di cui è un modo immediato: è la collettività dei
movimenti che si producono simultaneamente nell'universo, che non si distingue
dalla totalità dei movimenti particolari, se non in quanto, per concepirlo, bisogna fare
astrazione dal tempo e dalla durata. Così pure l'intendimento, come non
dovrebbero esserci, come sono, sconosciuti e inconoscibili. Spinoza deve
ammettere dunque che nella nostra deduzione noi non possiamo partire dal
principio assoluto probabilmente perchè non ne abbiamo un'idea adequata ma da
principii relativi. L'essere assolutamente
indeterminato è, come dice Schelling, l'arcano nascosto nell'Assoluto
che è la sorgente d'ogni realtà: quest'arcano per noi è impenetrabile, e noi
dobbiamo derivare le nostre idee, non dalla sorgente, ma da ciò che ne deriva
immediatamente, cioè gli attributi che conosciamo. Dio Vuomo e la beat. n.
5f> e > e. Il
movimento come cosa fissa cioè immutabile ed eterna sembra una contraddizione nei termini, perchè il
movimento è la negazione stessa dell'immutabililà. Ma questa contraddizione,
reale o apparente, è inevitabile in tutti i sistemi di realismo dialettico, e
si trova in Platone e in Hegel altrettanto che in Spinoza. Per Platone
rimandiamo al Supplem.; per Hegel basterà di citare le parole seguenti di VERA
(vedasi): le Idee sono tutte immutabili ed eterne. Non vi ha, in effetto, né avanti né dopo né
generazione né alterazione nella sfera delle Idee E le Idee di tempo e di
movimento esse stesse, che per la cosa
fissa ed eterna, che è un modo immediato del pensiero come il movimento dell'
estensione, è l'intendi loro natura sembrauo dover essere sottoposte ulla
nascita e ali» morte, sono, esse pure, inperibili ed eterne. Perchè ciò clie
nasce e ciò che perisce ò tal tempo e tal movimento, ma non la loro essenza VERA
hìlrodvz. alla filos. di Hetjel o. Il
movimento in sé vale a dii-e 1'Idea del movimento secondo Platone e secondo
Hegel, e secondo Spinoza il movimento considerato sub specie aetrmitatis è
dunque immutabile in quanta l'essenza e le leggi del movimento sono immutabili.
Quando Spinoza o gli altri realisti
diallettici dicono di una cosa che implica la successione e il
cangiamento, qual è il movimento, che essa è al di fuori del tempo e della
durata, intendono i)arlare di un tempo e di una durata determinati, in altri
termini della posizione di questa cosa in un certo tempo e in una certa durata;
ma anche il tempo e la durata hanno per questi filosotì, la loro essenza eterna
ed imumtabile, e questa deve trovarsi
necessariamente nelle cose fisse ed eterne che noi non possiamo concepire che
come implicanti il tempo e la durata. Supplemento il luogo ci taito. Per comprendere
sufficientemente ohe cosa sia, secondo Spinoza, questo movimento eterno ed immutabile, bisogna farci
prima un'idea completa delle sue cose fisse ed eterne, in altri termini, delle
sue astrazioni realizzate. Per ora
]M)ssiamo diro, senza pretendere ad una precisione rigorosa, che il movimento
in sé, il movimento come cosa fissa ed eterna, secondo Spinoza, è l'insieme di
tutti i movimenti che avvengono nell'universo in un momento qualsiasi della sua
durata, concepito facendo astrazione da tutto le circostanze che sono
particolari a questo momento e non sono comuni a tutti gli altri. Quest'insieme di movimenti, astratto da
queste circostanze, si concepisce come esistente in sé stesso al di fuori del
tempo e della durata, ma come presente in tutti gl'insiemi di movimenti
fenomenali che si producono nell'universo nei diversi momenti del tempo e della
durata Esso ò eterno perchè tutti questi insiemi di movimenti fenomenali, in
cui è presente, riemmento infinito, che
comprende tutte cose in ogni tempo, infinito, eterno ed immutabile, come
il pensiero sostanziale, di cui è una modificazione necessaria. È
l'intendimento unico che esiste nella cosa pensante, lo specchio unico ili cui
si riflette l'universo unico; ogn^idea e ogni mente considerata sub specie
aeterniiaiis è contenuta in esso; ogni essere pensante è una parte di
quest'essere pensante unico; la nostra
mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare, limitato da un altro
modo eterno di pensare, questo da un altro ancora, e così di seguito
alPinfinito, sicché tutti insieme costituiscono l'intendimento eterno ed
infinito di Dio. Il solo esempio che ci dà Spinoza dei modi necessari mcdiati è
l'aspetto di tutto l'universo, immutabile attraverso i suoi infiniti
cangiamenti: come le cose fisse «d
eterne di cui abbiamo parlato precedentemente, è una «osa individuale,
infinita, e che rappresenta, non ciò che vi ha di comune in una moltitudine di
esistenze particolari, ma la collettività di queste stesse esistenze
particolari, concepite senza la successione e il cangiamento. Il carattere
comune delle cose fisse ed eterne di Spinoza è di essere infinite, e di
realizzare, non dei concetti piouo tutto
il tempo e tutta la durata; ed è immutabile perchè é presenta in essi sempre lo
stesso e senza partecipare al loro cangiamento. Dio Vuomo e la beat, Epis, S,
Eth. p V Sch(d. pr, ecc. Dio l'uomo e la beat. ecc.; e parag. Eth, p. Pr., Pr. Pr., ecc. Gir. $. Eth. p Schol. pr. Episl.. (; Le idee assolute, secondo il Ife
intellectvs cmend. geoerali come le Idee platoniche, ma dei concetti collettivi: l'estensione è l'insieme
di tutte le estensioni, la cosa pensante di tutte le cose pensanti, il
movimento di tutti i movimenti, ecc. Non sono, ripetiamolo, l'uno nei molti
come le Idee platoniche, ma i molti stessi ed infiniti, concepiti come eterni
ed immutabili. Raccogliendo i risultati dell'esposizione precedente, noi
vediamo che le astrazioni realizzate di Spinoza hanno tutti i caratteri delle Idee platoniche, meno
uno, cioè 1'unità dell'Idea, in modo che si trova giustificata, almeno d'una
maniera approssimativa, la nostra proposizione che esse sono le Idee platoniche
stesse, concepite ciascuna, non come una, ma come molte. Noi abbiamo visto
infatti che le cose che seguono necessariamente da Dio sono eterne ed
immutabili, ehe hanno un'esistenza
distinta da quella delle cose singolari, cioè empiriche, ma sono
presenti in queste e ne sono le cause immanenti, e die costituiscono le loro
essenze e corrispondono alle loro definizioni generali. Noi abbiamo visto
inoltre che ogni cosa deve essere concepita svh specie aeternitatis y cioè come
eterna; che le cose concepita sub specie aeternitatis sono, secondo Spinoza,
eterne come si pensano (e quindi, anche
immutabili, perchè sub specie aeternitatis devono devono CRprimere rinfinitA.
Le idee assolute sono quelle che formano il punto di partenza della deduzione,
quelle che rappresentano le cause prime delle cose e ohe sono esse stesse, per
conseguenza, le cause prime di tutte le nostre idee. Nell'Etica, come sappiamo,
l'infinità è affermata, non solo deirli oggetti delle idee assohite, cioè della
sostanza e dei suoi attributi, ma anche delle cose ohe ne derivano, cioè dei
modi, immediati o mediati, che seguono necessariamente dagli attributi p.
prop.: cencepirsì non solo le cose, ma anche gli avvenimenti; e che ogni cosa
i>cr conseguenza, la nostra mente come il nostro corpo e tutto ciò che può
essere oggetto della nostra mente, ha una doppia esistenza, 1'una il fenomeno, temporanea e
mutabile, e l'altra, l'essenza, eterna ed immutabile. Ma noi abbiamo visto
[)ureche le cose che seguono necessariamente da Dio, o, ciò che vale lo stesso,
le cose considerate sub specie aeternitatis, non sono la realizzazione dei
concetti (jenerali, ma dei concetti collettivi, delle cose: che l'estensione,
come cosa fijssa ed eterna, è la collettività di tutte le cose estese simultaneamente
esistenti, l'intelligenza di tutte le intelligenze, il movimento di tutti i
movimenti, ecc. Conformemente a questo principio, l'umanità, come cosa fìssa ed
eterna o considerata sub specie aeternitatis non è, come per Platone, un
individuo umano concepito come eterno ed immutabile, ma la collettività
degl'individui umani, simultaneamente esistenti a un momento qualsiasi della durata del genere
umano, concepita come eterna ed immutabile. E lo stesso che dell'umanità
dobbiamo dire di tutte le specie e di tutti i generi delle cose, cioè di quelli
che possiamo concepire sub specie aeternitatis, vale a dire di cui possiamo
ammettere che sono sempre esistiti, ed esisteranno sempre nella natura
naturalmente Spinoza ignora la dottrina dell'evoluzione e i fatti su cui essa è
fondata, e ammette la stabilità e l'eternità delle specie. Quest'umanità, cosa
fissa ed eterna, è in se stessa fuori del tempo e della durata, ma è presente
nell'umanità fenomena^le esistente nei momenti successivi del tempo e della
durata: è l'umanità tipica che persiste sempre la stessa in tutte le
generazioni umane successive, il substratum immobile e veramente reale di cui queste generazioni
successive sono le forme o le apparenze cangianti, in una panda ciò che vi ha
d'identico in tutti i momenti successivi della durata del genere umano,
astratto da ciò che vi ha di variabile, e concepito come esistente per se
stesso. Ciò che infatti è necessario di avvertire è che, per concepire gli
uomini sub specie aeternitatis, non basta di farci una sappresentazione della totalità degli uomini
attuali, e concepirli al di fuori del tempo e della durata, cioè come eterni ed
immutabili, ma bisogna fare anche astrazione da tutte le circostanze che sono
particolari agl'individui attuali, e non sono comuni a tutti i momenti
successivi della durata del genere umano. Infatti le cose considerate sub
r^pecie aeternitatis, cioè come eterne ed
immutabili le cose fisse ed et<?rne non possono essere delle finzioni
senza scopo, ma devono rappresentare ciò che vi ha di costante e di perpetuo
nella natura. Per conseguenza un'altra circostanza di cui bisogna fare
astrazione per concepire il genere umano sub specie aeternitatis, è il numero
determinato d'individui che esiste a tale o tal momento della sua durata: esso,
come gli altri generi, deve concepirsi
come costituito da una moltitudine d'individui, ma non da un numero
determinato, perchè se è un fatto costante e necessario che il tipo umano o
un'altra forma qualsiasi della natura è rappresentato da una moltitudine
d'individui, è variabile e contiqgente che questa ipoltitudine d'individui sia
uno o un altro numero determinato. Questa inconcepibilità delle cose fisse ed eterne di Spinoza, di essere uua
moltitudine d'individui senza un numero determinato, è «evitata n(^l sistema
platonico, in cui ciascuna specie è concepita come un essere unico (l'uno nei
molti; ma questa inconcepibilità non è maggiore che le altre inerenti a
qualsiasi sistema di realismo dialettico: una moltitudine che non è una
moltitudine determinata, non è né più né meno
irrappresentabile che l'uomo in
s: di Platone HORSENESS, che non è né biaikco né nero, né alto né basso,
né dt>tto né ignorante, ecc., o 1'animale in sé, che non è né uomo né
cavallo né qualsiasi altro animale determinato. Non è che un'altra forma della
difficoltà di rappresentarsi un'astrazione realizzata. Ecco dunque il processo
di cui bisogna servirsi per concepire le cose fisse ed eterne di Spinoza, cioè per con<5epire sub
specie aeternitatis le specie o i generi delle <M)se o dei fenomeni p. e. l'umanità,
l'intelligenza, il movimento, ecc.. Bisogna immaginare le totalità delle
<jose o dei fenomeni appartenenti alla specie o al genere dato, che esistono
nei diversi momenti della duratji della specie o del genere; confrontare fra di
loro queste totalità successive di cose
o di fenomeni; e separare ciò che vi ha d'identico in tutte da tutto ciò
che vi ha di particolare ad alcuna o ad alcune: ciò che vi ha d'identico in
tutte è la specie o il genere concepito sub specie aeternitatis, cioè come
esistente in se stesso fuori del t^mpo e della durata, ma presente in queste
totali tii successive la cui serie riempie tutto il tempo e tutta la durata.
L'ipotesi di Spinoza ha lo stesso scopo
<ihe (|uella di Platone: astrarre l'elemento costante e necessario delle
cose dall'elenjento mutabile e contingente, e considerare il primo, nella sua
astrattezza, come sussistente per se stesso. Questo astratto, sussistente per
se slesso, Platone lo fa consistere in ciò che vi ha di comune a tutti
gl'individui di una specie o di un genere, considerato come qualche cosa
d'identico che è presente in tutti
questi individui; Spinoza lo fa consistere invece in ciò che vi ha di comune a
tutti i momenti successivi della durata della specie o del genere,
<?onsiderato come qual(*.lie cosa di identico che è presente in tutti questi
momenti successivi. Il risultato a cui mira l'una e l'altra ipotesi è di separare
ciò che nelle cose è deducibile da ciò che non lo è, in modo ohe ciò che
si deduce esista con la indeterminazione
stessa con cui si deduce, e il pro'^resso della deduzione rappresenti Io
sviluppo stesso delle cose, cioè il Ioni incatenamento causale nel senso
trascendente del realismo dialettico. Ci resta a chiarire come tutte le cose
che seguono necessariamente da Dio siano, non solo eterne e, por conseguenza,
immutabili, ma anche infinite. Le specie o i generi delle cose, considerati sub specie
aeternitatis, non possono essere infiniti che in quanto, considerati nella loro
esistenza empirica, comprendono un numero infinito d'individui simultaneamente
esistenti. Ora in certe specie o generi,
p. e. quelli delle piante e degli animali, il numero degl'individui simultaneamente esistenti che li
costituiscono a ciascun momento della durata della specie o del genere, non è mai che un numero finito.
Come conciliare ciò con la dottrina che tutto ciò che segue necessariamente
dall'essenza di Dio, e per conseguenza tutte le cose contemplate sub specie
aeternitatis, non sono che i modi eterni ed infiniti di Dio t Evidentemente una
specie o un genere di piante o di animali non può essere per Spinoza uno dei
modi eterni ed infiniti di Dio, perchè
egli non può ammetterne l'innità come ne ammette l'eternità e la stabilità; non
può essere che una parte di uno di questi modi. Spinoza ammette che tutte le
cose contemplate sub specie aeternitatis sono i modi eterni ed infiniti di Dio,
perchè egli fa dell'essenza di Dio il primo principio, e assimila il modo in
cui le cose derivano dal primo principio
a quello in cui le proprietà derivano
dall'essenza. Ma egli non pretende perciò che un modo eterno ed infinito di Dio
deve essere necessariamente costituito da parti fra fra di loro omogenee p. e.
come l'estensione o il pensiero sostanziale. Un esempio di un modo eterno ed
infinito costituito da parti eterogenee, è il solo modo mediato di cui si parli
negli scritti di Spinoza, cioè l'aspetto di tutto l'universo facies totius universi, che persiste immutabile
attraverso i suoi infìniti cangiamenti. Noi non oseremo di affermare se sia in
questo modo eterno ed infinito, ovvero in un altro o in più altri analoghi, che
sono compresi, come delle parti, le specie e i generi degli esseri viventi, e
in generale, tutte, le specie e tutti i generi propriamente detti vale a dire
tutta la natura in quanto è l'oggetto delle scienze di classificazione. La sola
affermazione che autorizzino le proposizioni dell'autore è che i modi eterni ed
infiniti di Dio devono comprendere tutto
il reale, e che per conseguenza tutto ciò che esiste, contemplato sub specie
aeternitatis, deve essere contenuto, come una parte, in qualche modo eterno ed
infinito di Dio. Un'altra osservazione che dobbiamo aggiungere è che lo stesso
insieme di esseri, che considerati come specie, cioè concepiti nei loro
attributi specifici, costituiscono un certo modo eterno ed infinito di Dio, se si considerano più astrattamente,
vale a dire se non si concepiscono che nei loro attributi generici, possono
costituire altri modi anteriori, cioè meno mediati Noi sappiamo infatti che lo sviluppo di Dio o
della Natura è una determinazione progressiva, una successione di stati di un
solo e stesso essere, che da uno stato più astratto o più indeterminato va
semprn a uno stato più concreto o più
determinato. Ai diversi gradi delH classificazione p. e. negli esseri viventi,
classi, ordini, famiglie, generi, ecc. possono dunque corrispondere dei modi
eterni ed infiniti di Dio, più o meno astratti, in cui gli stessi esseri sono
contenuti, ma concepiti d'una maniera più o meno astratta. P. e. in uno di
questi modi l'uomo sarà contenuto concepito come uomo, in un altro anteriore concepito semplicemente come
mammifero, in un altro come vertebrato, ecc. È la scala delle Idee platoniche,
ma in cui ogni gradino contiene una moltitudine d'Idee, e ciascuna di queste
Idee stesse è concepita, non come una, ma come multipla. La dottrioa che le
cose contemplate sub specie aeternitatis sono delle pirti dei modi eterni ed
infiniti di Dio, fa cLe una cosa
contemplata sub specie aeternitatis può, secondo Spinoza, considerarsi a
due punti di vista: cioè come una delle unità il cui insieme costituisce una
specie o un genere determinato, e come una delle unità il cui insieme
costituisce un modo eterno ed infinito di Dio. Di là la proposizione di Spinoza
cbe sopra abbiamo citato, cioè che la ragione, contemplando le cose sub specie
aeternitatis, le concepisce Jn numero infinito,
o piuttosto senza attendere al numero vale a dire, come abbiamo spiegato, a un
numero determinato Le concepisce senza attendere a un numero determinato, in
quanto sono delle unità che costituiscono una specie o un genere dati; le
concepisce in nnmero infinito, in quanto sono delle unità che costituiscono un
modo eterno ed infinito di Dio. Si vede
da ciò ohe abbiamo detto a e in tutto il paragr. che nella dottrina di
Spinoza dell'eternità della mente umana non si tratta di un'eternità personale,
ma la credenza comune nell'immortalità dell'anima non potrebbe essere al più
per lui cbe un simbolo del concetto della sua metafisica dell'eternità
deìVeasema dell'anima. Non vi ha altro d'incorrutibile, dice Spinoza, che Dio e
i suoi modi universali cioè i modi
eterni ed infiniti che seguono necessariamente dagli attributi olivini Dio
Vuomo e la beat., e questi, lo abbiamo visto, hanno un'esistenza distinta da
quella degli esseri individuali, e sono costituiti, non dalle cose ste-se. ma
dallo loro essenze. L'eternità o immortalità dell'anima, come eternità o
immortalità inuividuale, sarebbe in contraddizione, come abbiamo osservato, con
uno dei principii fondamentali del sistema di Spinoza, cioè col parallelismo
psico fisico e la dottrina su cui esso è basato, che il fisico e lo psichico
sono due aspetti diversi di una sola o stessa realtà. Spinoza afìerma esplicitamente Le astrazioni
realizzate del realismo dialettico risultano da un doppio processo di
astrazione. L'uno le conseguenze inevitabili di queste premesse, cioè che V idea vale a dire la
mente o l'anima e il suo oggetto il corpo di quesra mente o di questa anima non
possono esistere l'una senza l'altro né reciprocamente Dio Vuomo e la beat.;
che Puna di queste due cose non dura, cioè non
cs'ste nel tempo, che quando dura anche 1'altra Eth. p. Cor. e Schol.
prop., Dio Vuomo e la beat.,
ecc.; ohe l'anima non è stata mai senza il corpo, come il corpo non è stato mai senza
l'anima Dio Vuomo e la beat,; e che quando il corpo è distrutto, anche l'anima
è distrutta Dio V uomo e la beat., Ethy.
Schol. prop., p. Schol. prop. Un'altra considerazione che non bisogna negligere
è che l'immortalità individuale suppone delle concezioni sul destino dell'anima
dopo la morte paradiso, inferno, ecc., che non sarebbero possibili in un sistema naturalistico come quello di
Spinoza. Secondo Spinoza, vi hanno per 1*anima, come per tutti gli altri
oggetti, due stati o due forme di esistenza: l'esistenza pre»sente ohe si
definisce per il tempo, e la durata, e questa appartiene all'anima individuale;
e l'esistenza eterna cioè fuori del tempo e della durata, che apx)artiene, non
all'auiniii individuale, ma all'anima considerata sub specie aeternitatis, cioè all'essenza
dell'anima. Questa essenza dell'anima, quest'anima <c cosa fissa ed eterna,
non è l'anima dell'uomo individuale, cioè quello che ha un'esistenza
determinata, ma l'anima dell'uomo eterno, che fa parte dell'umanità eterna,
cioè di quest'umanità astratta, che è, come abbiamo detto, il substratum
immutabile, di cui tutte le generazioni umane successive sono le forme o le apparenze cangianti. La
prima esistenza, quella che si definifjce per il tempo e la durata, appartiene
all'anima in quanto è l'idea di un corpo individuale, determinato; ma essa è
limitata come quella di questo corpo stesso: come si vede dai luoghi
precedentemente citati, l'anima come idea di un corpo individuale^ cioè come
anima individuale, non comincia ad esistere consiste a separare l'elemento
eterno e necessario delle cose dall'elemento mutabile e contingente è quello
che, ^'1 nel sistema di Spinoza, abbiamo studiato nel precedente paragrafo;
l'altro consiste a separare, in questo stesso che cominciando l'esistenza del
corpo, e cessa d'esistere quando cessa l'esistenza del corpo. L'esistenza
eterna appartiene all'animu in quanto è l'idea dell'essenza del corpo considerata sub specie aetern'tatis
Eth. p. V prop.; essa oon le appartiene dunque che in quanto la sua essenza
stessa si considera sub specie aeternitatis, vale a dire, non come anima
individuale, determinata, ma come anima astratta, di cui l'anima individuale è
una delle forme o apparenze cangianti. K in eiletto: Spinoza dice espressamente
che l'esistenza eterna della mente non
può detinirsi per il tempo e la durata
p. dim. prop. e schol. e dim. prop., o in una parola, che non dobbiamo
confonderla con la durata, come fa la credenza volgare dell'immortalità
dell'anima Schol. prop. La mente non è eterna che in quanto segue
necessariamente dall'essenza di Dio Eth.
p. Dim. prop., Dim. prop., Dim. prop. Schol
pr.: ora, come sappiamo, dall'essenza di Dio non seguono che i modi eterni ed infiniti, e
questi hanno un'esistenza distinta da quella degli oggetti individuali. L'amore
intellettuale di Dio, che è eterno nel senso stesso in cui è eterna la mente, è
opposto alle cose che si considerano con relazione a un tempo e a un luogo
determinati, cioè alle cose individuali Schol. prop. L'esistenza eterna, del
corpo come della mente, è opposta alla loro esistenza presente, che si
detluisce per il tempo e la durata, ciò che importa che la mente è eterna nel
senso stesso in cui è eterno il corpo. La mente in quanto è eterna e la mente
in quanto è considerata sub specie aeternitalis sono per Spinoza due
espressioni equivalenti. ^ intine, la mente, in quanto intende che, come
vedremo, è la sola parte eterna dell'anima e il suo amore intellettuale di Dio
sono parti di un modo eterno ed infinito di Dio, cioè dell'intendimento eterno
ed infinito e dell'amore intellettuale infinito con cui Dio ama se stesso p.
Schol pr. Pr. l'osservazione che abbiamo
fatta al n.. Conformemente al principio
del parallelismo psico-fisico, al corpo cosa fissa ed eterna corrisponde
un'anima cosa fissa ed eterna, come un'anima fenomenale e peribile corrisponde al corpo fenomenale e peribile.
Sono i due aspetti inseparabili di una sola e stessa realtà «onsiderata ora
come astrazione realizzata, e ora come esistenza concreta e individuale. Ma
1'eternità della mente ha anche, e sovratutto per Spinoza, un altro
significato. In questo secondo significato è una teoria della conoscenza, ed ha
la più stretta analogia con l'immortalità dell'anima nel senso hegeliano. Questa teoria della
conoscenza, come le altre analoghe del realismo dialettico, ha per isoopo di
spiegare la corrispondenza fra il pensiero e la realtà. Il problema di spiegare
la corrispondenza tra il pensiero e la realtà è più incalzante nel realismo
dialettico, perchè al punto di vista di questo sistema la corrispondenza è
maggiore che al punto di vista ordinario. Infatti: il realismo dialettico fa consiatere il vero
reale in astrazioni realizzate, e noi non siamo abituati ad ammettere come
astratte le cose, ma le idee: esso pretende di sviluppare la conoscenza dal
fondo stesso dello spirito, per la forza interna del pensiero e
indipendentemente dall'azione delle cose, cioè dall'esperienza; infine, in
questo sviluppo della conoscenza il progresso del pensiero, cioè V incatenamento dei principi! e delle
conseguenze, rappresenta lo sviluppo stesso delle cose, cioè l'incatenamento
delle cause e degli effetti. Per quanto riguarda Spinoza, vedremo meglio il lo
e il 30 punto nel paragrafo seguente. Nei realisti dialettici troviamo tre
soluzioni differenti del problema, corrispondenti alle relazioni diverse
stabilite fra il pensiero e le cose. Platone ammette l'opinione ordinaria,
secondo cui il soggetto e l'oggetto sono due realeà distinte ohe agiscono Tuua
su11' altra. A questo punto di vista il pensiero, come conoscenza, è
subordinato all'oggetto conosciuto, e considerato come il prodotto
dell'impressione delle cose. Così Platone spiega la corrispondenza fra il
pensiero e la -1 * ti elemento eterDo e necessario delle cose, certi elementi
concettuali dagli altri, considerandoJi come esistenti per realtà per
l'intuizione delle Idee che l'anima ba avuto nella su» esistenza passata. Hegel
è un idealista, cioè riguarda le cose come rappresentazioni, che sono prodotte
dall'attività del pensiero. Così egli può spiegare la corrispondenza fra
1*essere e il pensiero per la loro identità, ammettendo ohe il pensiero filosofico è il pensiero
assoluto, che comprende tutti i gradi precedenti dello sviluppo del pensiero, e
per conseguenza tutta la realtà. Spinoza non subordina il pensiero alle cose
come Platone, né le cose al pensiero come Hegel, ma riguarda il fisico e lo
psichico come due serie parallele, ohe si corrispondono perfettamente, senza
che l'una abbia azione suU'altra: il
parallelismo, cioè la corrispondenza, fra le due serie è spiegata per la
loro identità radicale, cioè per l'unità del suhstrntum, di cui sono due forme
o due aspetti differenti. A questo punto di vista è ovvio che Spinoza riguardi
la corrispondenza tra il pensiero filosofico e il suo oggetto corno un caso del
parallelismo psicofisico, cioè di questa corrispondenza generale ch'egli
suppone tra il fisico e lo psichico, e
che applichi ad essa la stessa spiegazione: egli ammette dunque che il pensiero
filosofico e il suo oggetto sono due serie parallele, che si corrispondono
perfettamente perchè sono due forme o due aspetti difterenti di una sola e
stessa essenza. Eth, p. Prop. col suo Cor. e Schol. Spinoza ammette dunque anch'egli V
identità dell'essere e del pensiero, ma in un altro senso ohe Hegel: per Hegel
le cose sono presenti nel pensiero, e non sono esse stesse che pensieri; per
Spinoza 1'identità dell'essere e del
pensiero consiste nell'unità del loro subatralum dell'essenza comune di coi
sono le manifestazioni. In Platone la corrispondenza tra il pensiero e la
realtà è qualche cosa di accidentale: essa non è spiegata per i principii del
sistema, ma per un semplice fatto, l'intuizione delle Idee in un'altra vita. Ma
in Spinoza e in Hegel la spiegazione è basata sui principii fondamentali dei
loro sistemi, anzi in generale del se stessi, indipendentemente da questi
altri, eonie esso si è considerato esistente per se stesso, indipendente realismo
dialettico. Uno di questi principii è che l'essere si svilui>pa
arricchendosi progressivamente di nuove determinazitmi, andando continuamente
da uno stato più astratto ji, uno stato più concreto: ne segue ohe i gradi
posteriori dello sviluppo deiTessere comprendono i gradi anteriori, che questi
devono ritrovarsi in quelli. La spiegazione di Hegel è basata su questo
principio: le cose si ritrovano nel pensiero filosofico, perchè questo è
l'ultimo momento dell'evoluzione dell'idea, che comprende in se stesso tutti i
momenti precedenti. Un altro principio fondamentale del realismo dialettico è
che l'astratto è un essere unico che esiste per se stesso, e si ritrova,
restando uno e identico a se stesso, negli esseri più concreti che ne sono le
determinazi<mi. È su di esso che è basata la spiegazione di Spinoza: ciò die
vi ha di comune aH'es.sere e al pensiero, egli lo considera come un essere
unico ed esistente per sé, ohe si ritrova simultaneamente «eir uno e
nell'altro, e di cui l'uno e l'altro sono due modi di essere distinti. Ciò
diverrà più chiaro nel paragrafo seguente. L'essere che si rivela sotto questi
due aspetti difterenti, cioè il fisico e lo psichico. 1'estensione e il
pensiero, esiste per Spinoza, come sappiamo, a un doppio stato: come cose
temporanee, € che hanno un'esistenza determinata, e come cose c<msiderate
sub specie aeternitatis, cioè come astrazioni realizzate. Il pensiero, ohe è il
parallelo delle cose temporanee e mutàbili, è esso stesso nn pensiero
temporaneo e mutabile: è il pensiero che costituisce le anime degli oggetti
individuali, cioè concreti, e tutti i loro fenomeni. Il pensiero che è il
parallelo delle cose fisse ed eterne, è un pensiero esso stesso fisso ed eterno
perchè è l'altro aspetto sotto cui si rivela 1'essere come cosa fissa ed eterna:
questo pensiero è un pensiero astratto,
come le cose fisse ed eterne sono delle cose astratte e costituisce il lato
mentale di queste astrazioni realizzate. Il pensiero temporaneo e mutabile ha
per oggetto le cose temporanee e mutabili, cioè concrete; meote dairelemcDto
contingente e mutabile da cui si è separato. Col primo processo di astrazione
il vero reale il peusiero fisno ed eterno ha per oggetto le cose fisse ed
eterne, oÌ4»è le distrazioni realizzate. Ora il pensiero filosofico non ha per
oggetto le cose temporanee e mutabili, ma le cose fisse ed eterne le cose
considerate sub specie aeternitatig; in altri termini, non le cose
concrete, ma le astrazioni realizzate.
Di più l'ordine e la connessione del pensiero filosofico non sono identici
all'ordine e alla coniìessione delle cose temporanee e mutabili, ma a quelli
delle cose fisse ed eterne, delle astrazioni realizzate: infatti r inoatenamento dei principii e delle
conseguenze, che costituisce il 3® genere di conoscenza, non rappresenta
l'incatenamento delle cause e degli efl:'etti fenomeni, ma l'incatenamento
delle cause e <legli ett'etti astrazioni realizzate, vale a dire i gradi
successivi di questo sviluppo estratemporaneo dell'essere che va
progressivamente da uno stato piìl astratto o più indeterminato a uno stato più
concreto o più determinato. Da ciò Spinoza conclude che il pensiero filosofico
non è il parallelo delle cose temporanee e mutabili, ma delle cowe fisse ed
eterne, delle astrazioni realizzate. Ciò vuol dire che esso è una parte del
pensiero fisso ed eterno, ohe. come abbiamo detto, costituisce il lato mentale
di queste astrazioni realizzate, e ohe la nostra mente quando pensa le cose
aiib specie aeternitatis, partecipa a questo pensiero fisso ed eterno, e sì
identifica con esso. Un pensiero fisso ed eterno significa un pensiero ohe
esiste fuori del tempo e della durata: la nostra mente, quando pensa le cose
sub specie aetemiiatis, esiste dunque fuori del tempo e della durata, ed è
eterna ed immutabile come le cose che essa pensa. È questa la teoria della
conoscenza, che costituisce sovratutto il signi.^cato deircternità della mente
umana. Questa teoria della conoscenza consiste in sostanza in due proposizioni:
Che le nostre idee, che hanno per oggetto le cose considerate stib specie aeternitatis, sono eterne, cioè
esistono fuori del tempo e della durata. Questa dottrina forma il soggetto
principale dell’Etica, e siccome non po. si astrae dal fenomeno, e l'essere si
risolve in Idee Platone o in cose considerate sub specie aeternifa.ti8
Spitrebbe dar luogo a difficoltà d'interpretazione, ci limiteremo ad indicare i
luoghi relativi, cioè Pr. e Schol., Pr.,
Pr. e Sohol. e Sohol. e Sohol. e Schol., Schol. pr. iO, Schol. pr. per questa
dottrina Dio, l*uomo e la beat^. Che
queste nostre idee eterne che hanno per oggetto le cose considerate sub specie
aeternitatis, sono una partecipazione delle idee eterne di Dio, cioè
dell'intendimento unico che Spinoza attribuisce al tutto come tale. Questa è
un'applicazione di una dottrina che noi abbiamo esposta Noi abbiamo visto in questo paragr.: che vi ha
nel tutto, considerato come un essere unico, un sistema unico d'idee, in cui ad
ogni oggetto reale corrisponde un'idea unica come ad ognuna di queste idee
corrisponde un oggetto unico nella realtà; che questo sistema unico d'idee
costituisce l'intendimento unico che vi ha nella cosa pensante, l'essere
pensante unico di cui tutti i pensanti particolari sono delle parti; e che le idee di questi
esseri pensanti particolari sono una partecipazione delle idee di quest'essere
pensante unico, una partecipazione ex loto quando sono adequate, ex par<e
quando sono inadequate. Ne segue che le nostre idee delle cose considerate sub
specie aeternitatis e sono le sole idee adequate che Spinoza ci attribuisce
sono una partecipazione delle idee delle cose considerate sub specie
aeternitatis che si trovano in questo sistema unico d' idee che costituisce l'
intendimento dell'essere pensante unico. Non vi ha dubbio infatti che
uell'intendimento unico di Dio vi siano le idee delle cose considerate sub
gpeeie aeternitatis: in Dio, dice Spinoza, vi ha l'idea della sua essenza e di
tutte le cose che seguono necessariamente da essa dall'essenza di Dio non seguono necessariamente che le cose
considerate sub specie aeternitatis, e questa idea è unica come è unico il suo
oggetto Mh. p. prop. Inoltre queste idee di Dio che hanno per oggetto le cose
eterne, cioè la sua essenza e le cose ohe ne seguono necessariamente, devono
essere noza); col secondo, dalle Idee o cose considerate sub specie
aeternitatis più concrete si astraggono
altre Idee o delle idee esse stesse eterne, perchè 1'ordine e la connessione
delle idee sono identici all'ordine e alla connessione delle cose p. Prop.
e Cor., e le idee devono seguire
dall'attributo del pensiero della stessa maniera e con la stessa necessità in
cui le cose ideate seguono dagli altri attributi Cor. prop. Così è per
un'eterna necessità che vi ha in Dio l'idea del corpo umano considerato sub specie aeternitatis, come il corpo umano
considerato sub specie aeternitatis segue per un'eterna necessità dall'essenza
di Dio. p., Dim. prop. Che le nostre
idee delle cose considerate stib specie aeternitatis siano una partecipazione
di queste idee divine, Spinoza lo afi'erma esplicitamente nello Schol.
alla prop. la nostra mente, in quanto
intende, è un modo eterno di pensare, limitato
da un altro modo eterno di pensare, e questo da un altro ancora e così
all'infinito, e tutti insieme costituiscono 1'intelletto eterno ed infinito di
Dio, col quale si devo confrontare la prop. il nostro amore intellettuale di
Dio che accompagna il 3« genere di conoscenza ed è eterno come essa, Cor. prop.
e Prop. è una parte dell'amore
intellettuale infinito con cui Dio ama se stesso. Questa dottrina è anche
contenuta nello Schol. alla prop.iu cui identifica la nostra idea di Dio con
Dio stesso cioè, evidentemente, con r idea che Dio ha di se stesso; perchè
deduco la proposizione che la nostra mente dipende e deriva da Dio, da quella
che l'idea di Dio è il fondamento del 3» genere di conoscenza. lutine essa si
ritrova in Dio, /'uomo e la heat^ dove
riguarda il nostro intendimento, in quanto
è eterno, come identico all'iutendimento eterno ed infinito di Dio, cioè
all'intendimento eterno unico che esiste nella cosa pensante. Spinoza C(msidera
il sistema d'idee eterne, che hanno per oggetto le cose eterne, e di cui le
nostre idee di queste cose sono una partecipazione, come lintendimento infinito
di Dio, ohe è il modo necessario e immediato dell'attributo del pensiero Schol.
cose considerate sub specie aeternitatis di più in più astratte p. e., nel
sistema platonico, dall'Idea dell'uomo pr. e Dio, Vtiomo e la beat, n. quantunque r intendimento infinito di Dio
debba anche comprendere le idee delle cose individuali, cioè temporanee Ciò
egli fa evidentemente perchè questo sistema d'idee eterne costituisce per lui
ciò che vi ha di essenziale e di veramente reale nell'intendimento infinito,
conformemente al suo principio che le cose fisse ed eterne costituiscono
l'essenza e la vera realtà delle cose temporanee e mutabili. Siccome le idee
divine temporanee e mutabili e ohe hanno per oggetto le cose temporanee e
mutabili, costituiscono alla loro volta la realtà di tutto ciò che vi h.i nel mondo psichico nella sua esistenza
temporanea e mutabile perchè i fenomeni psichici distinti dalle idee non sono
per Spinoza che idee confuse, e tutte le idee sono una partecipazione, perfetta
o imperfetta, delle idee dell'intendimento divino ne segue che questo sistema
d*idee eterne costituisce l'essenza e la vera realtà del mondo psichico, di cui tutti i fatti psichici sono la
manifestazione fenomenale, come tutti i fatti fisici sono la manifestazione
feujmienale delle cose eterne corrispondenti a queste idee. È un'applicazione
del principio del parallelismo: alle cose fisse ed eterne devono corrispondere
dei pensieri fissi ed eterni, che sono il suhsfrnlum dei pensieri temporanei e
mutabili, come le cose fisse ed eterne sono il snhstratum delle cose temporanee
e mutabili. Così il sistema d'idee eterne, di cui le nostre idee delle coso
considerate sub specie aeternitatis sono una partecipazione, costituisce il
lato mentale e, per così dire, l'anima,
delle cose fisse ed eterne, e il principio dell'identità tra l'aninm e il
corpo, l'idea e il suo oggetto, spiega il parallelismo tra la conoscenza
filosofica e il vero reale che ne è l'oggetto, come spiega il parallelismo tra
i fenomeni psichici e i fenomeni fisici. In quanto al pernio su cui volge
questa spiegazione della conoscenza filosofica, cioè il principio dell'identità
tra il fisico e lo psichico, a ciò ohe abbiamo detto in questa nota stessa, non
aggiungeremo che un'osservaI quella del bipede, dall'aiiimale^dall'essere
vivente, eec, che si considerano conae aventi una realtà distinta da esse,
zìoDe: è che questo principio apparisce per la prima volta nello Scolio alla
prop., parte, in cui 8tabilit*ce la celebre tesi: orda et connexio idenrnm idem
est ac ordo et connexio rerum ^e ohe questa tesi, in questa proposizione, è
presa nel senso del realismo dialettico, cioè come 1'equivalente della dottrina
hegeliana dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo ontologico. Ma
un'altra osservazione che non dobbiamo negligere è, che per essere giiisti
verso li spiegazione di Spinoza, bisogna
anche tener conto della sua dottrina dell'idea dell'idea. Come ad ogni oggetto
corrisponde la sua idea, cosi a quest'idea corrisponde l'idea di quest'idea;
fra le idee e le iaee delle idee vi ha lo stesso paralleli smo che fra gli
oggetti e le idee, e questo parallelismo è spiegato della maniera medesima,
cioè per l'identità fondamentale tra l'idea e l'idea dell'idea. Eth. parta, Prop.,
e Schol. prop. Di questa maniera
si comprende come noi possinmo avere una conoscenza filosofica, non solo delle
cose fisse ed eterne che costituiscono il lato fisico del vero reale, ma anche
di quelle che ne costituiscono il lato psichico. Questa teoria d*Ila conoscenza
forma talmente il significato principale della dottrina dell'eternità della
mente umana, che Spinoza parla il più spesso come se essa ne formasse tutto il
significato La mente si rappresenta le cose nel tempo e nella durata in quanto
è peribile Eth. p. Schol. p.,
Prop., ecc.; inquanto è eterna
non si rappresenta che le cose considerate sub specie aeternitatis. Essa n(m è
dunque eterna, che in quanto concepisce le cose sub specie aeternitatis Schol.
prop.: anche la parte che conosce le cose
col secondo genere di conoscenza è eterna Dim. prop., ma per istabilire questa
proposizione Spinoza si fonda su quella precedentemente stabilita, che la mente
concepisce le cose sub specie aeternitatis in quanto è eterna. Egli pensa
evidentemente che, quantunque il 20 genere di conoscenza non abbia per oggetto,
come il 30, le astrazioni realizzate cioè le cose considerate sub specie 4 ma come presenti in esse, della stessa
maniera che le Idee o le cose considerate sub specie aeternitatis in
geaeterutiatis nel i-euso pr<»prio del termine, tuttavia esso si liferiscc
all'universale benché non astratta» dai particolari e sostantificato e la
possibilità di questo pensiero dell*universale si spiega per la presenza
nell'anima delle idee eterne che hanno
per oirgetto le cose eterne. Il
2«> e il 3t' genere di conoscenza cos^itnendo
l'intelletto, e l'insieme degli altri fatti ntentali l'immaginazione perchè i
fatti distinti dal pensiero consistono, secondo r autore, in idee coi.fuse. la
proposizione che riassume la dottrina di Spinoza è che la parte eterna della
mente è l'intelletto, la parte peribile l'immaginazione Cor prop.. a. Prop. Prop. e
Scholi e Schol pr.. Ciò vuol
dire non che la mente in quanto è eterna
non ha che la facoltà dell'intelligenza, ma che eiò che vi ha di eterno nella mente sono gli atti stessi
dell'iutelligeuza, le idee e le conoscenze intellettuali, che, come sappiamo,
sono eterne, cioè esistenti fuori del tempo e della durata. E infatti quando
Spinoza dice che la mente, in quanto conosce le cose sub specie aeternitatis,
non ha mai cominciato, non solo ad
esistere, ma nemmeno a conoscere le c<»se sub specie aeternitatis Schol. prop.
Schol. prop. egli non i.uò voler dire,
evidentemente, che la niente individuale non hamai cominciato, non solo ad
esistere, ma nemmeno a conoscere le cose sub specie aeternitatis, ma che la
mente che conosce le cose sul» specie ueternitatis non è la mente individuale,
ma la mente che non è altro che le conoscenze
sub specie aeternitatis. e quest» è sempre esistita, come sono esistite sempre
le sue conoscenze. Questa equivalenza tra l'eternità della mente e l'eternità
delle eouoscenzc sub specie aeternitatis non è uicno evidente quanto dice che
piìi numerose sono le conoscenze del 2»
e del 3o genere, o più grande l'amore
intellettuale di Dio che accompagna queste conoscenze, e maggiore è la parte delia mente che rimano
o che è eterna Pr. e Schol. e Schol.
Conformemente a questo principio, egli va sino a non considerare come eterna
che la mente del sapiente eioè la parte della mente del sapiente che
conoI* I nèrale si considerano come
presentì nelle cose fenomenali, cioè individuali e temporanee. 8ce le cose ««/>
specie aeternisatis mentre quella dell*ignorante sarebbe tutta peribile
Sohol. prop., infine dell'opera; concetto che ritroviMmo neirEpist. in cui si
attribuisce a Spinoza r a iter m azione che V anima dell'empio muore assolutamente l'empio sarebbe l'uomo che non
conosce che i fenomeni. e non ha alcuna conoscenza di Dio, cioè delle cose
fìsse ed eterne. Nel trattato su Dio, Tuomo e la beatitudine è più volte
ripetuta l'idea che l'anima si rende eterna per la sua unione con Dio o con le
sostanze eterne, e questa unione consiste nel 3» genere di conoscenza che in
questo trattato è il 4», perchè il lo è suddiviso in due e l'amore
intellettuale di Dio che ne deriva, Alla conoscenza delle cose considerate sub
specie aeternìtatis partecipando, almeno in potenza, tutti gl'individui della
specie umana, questa conoscenza deve
trovarsi nell'essenza dell'uomo, cioè nell'uomo tisso ed eterno, che fa parte
dell'umanità fìssa ed eterna. In realtà
essa non appartiene alla mente individuale, cioè all'anima come idea del corpo
temporaneo e mutabile, ma alla mente considerata sub specie aeternìtatis, cioè
come idea del corpo considerato sub specie aeternìtatis prop., ecc., e
l'individuo non vi partecipa che in
quanto partecipa alla sua essenza eterna, di cui è la realizzazione nel tempo e
nella durata. Infatti le idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis
sono al di fuori delle condizioni dell'individualità, e non esìstono ehe nel
mondo delle astrazioni realizzate: la mi>nte non può dunque possederle che
inquanto essa stessa è un'astrazione realizzata. L'indivìduo, che conosce lo
cose sub specie aeternìtatis, sopprime
le condizioni della propria individualità, e si identihca con la essenza eterna
che è presente in esso e che è il suo substratuni; egli si ritira, per cosi
dire, nel pììi ìntimo di se stesso, spogliandosi della temporanietà e di tutte
le altre determinazioni dell'esistenza fenomenale. In verità l'essenza della
mente umana non consiste nelle sole idee delle cose considerate Che in Spinoza si trovi anche
questo secondò processo dì astrazione, noi potremmo inferirlo, almeno come prosub
specie aeternìtatis, perchè tutto ciò che esiste nell'uomo temporaneo deve
essere rappresentato nell'uomo eterno, quantunque astrazion facendo dalla
temporauietà e da tutte le circostanze che vi sono legate. Ma ciò che vi ha di
più intimo nell'essenza della mente umana, l'essenza, per dir così, di questa
essenza, consiste nelle idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis,
perchè l'essenza della niente consiste nella conoscenza mentis essentìa in
cognitiuue cousìstìt. Dim. prop. e Seh.
prop. f e per conseguenza la conoscenza sub specie aeternìtatis è l'essenza
della mente eterna, come la mente eterna è l'essenza della mente temporanea
e mutabile. È perciò che Spinoza può
ehiamare eternità della mente nmana l'eternità
delle idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis, benché queste
non costituiscono che una piccola parte dei fenomeni della psiche umana. La
teoria <lella conoscenza di Spinoza che abbiamo esposta in questa nota,
importa un'eccezione apparente al ])rincipio del parellelismo j)sicotisico.
Spinozii ammette che per ogni fenomeno
psichico vi ha un fenomeno fisico che gli corrisponde, e viceversa; ma le idee
delle cose considerate sub specie aeternìtatis non hanno, secondo luì, alcun
concomitante fisico. Le idee che ci vengono medianto leafi'ezìoni del corpo,
cioè i suoi movimenti, sono iuadequate. e rinsieme di queste idee si chiama
immaginazione.Eth. p. Schol. pr., Pr. e
Cor,, Cor. pr. Schol. pr., De iut. eménd., ecc. come abbiamo
detto, è in esse che si risolvono tutti i fenomeni della psiche che sogliamo
distinguere dal pensiero. Ma la concatenazione delle idee che si fa secondo
1'ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo, deve distinguersi da
quella che si fa secondo l'ordine dell'intelletto, per cui la mente percepisce
le cose per le loro cause prime
Elh. p Schol. pr. Le idee dell'intelletto nascono
dalla forza intima dell'intelletto stesso, che si spiega per le sue leggi
proprie, e non dalle cause esterne: esse sono ])rodotte dulia niente pura,
e mm dai fortuiti movimenti del corpo.
Eth. p. -i;V^^pé<MÌM^ babile, dalla sua dottrina delle cose
considerata sub specie aeternitatis. Le cose considerate sub specie
aeternitatis sono delle astrazioni
realizzate: l'astratto è dunque per Spinoza una realtà, ed egli ha potuto dare
un'esistenza per sé, come a queste astrazioni, così alle astrazioni superiori a
cui esse sono \subordinate. Ma la prova più importante e che ne rende ogni
altra superflua, è Tidentifìcazione del rapporto tra il principio e la
conseguenza col rapporto tra la causa e l'effetto. La realizzazione delle
aBtrazioni-di quelle formate pel secondo dei due processi che abbiamo distinti
non è una conseguenza di questa identificazione, ma è questa identificazione
stessa espressa in altri termini. Così nel parag. noi non abbiamo potuto fare a
meno di anticipare sul paragrafo presente, essendo impossibile di esporre la
dottrina che il rapporto tra il principio e la conseguenza è identico al
rapporto tra la causa e l'etfetto, senza
attribuire a Spinoza, più o meno esplicitamente, anche la dottrina che i
principii hanno una realtà distinta da quella delle conseguenze, in altre
parole, che non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle cose esistenti
per se stesse, delle astrazioni reaSchol. pr. p. Soboi. pr. De ini, emend.,
Questa eccezione al principio del paraUeli srao non è. come abbiamo detto, ohe
apparente. Il parallelo dei pensieri fi»RÌ ed eterni non possono essere dei
fenomeni, ma delle cose egualmente fisse ed eterno. Prima di finire questa nota
dobbiamo avvertire che per comprendere bene questa teoria della conoscenza di
Spinoza e i motivi su cui essa è fondata, bisogna formarsi un'idea esatta della
corrispondenza perfetta ch'egli suppone, tra lo sviluppo del pensiero, cioè del pensiero filosofico, e lo
sviluppo d.ll'essere. Perciò bisogna aggiungere a ciò che abbiamo detto nel
paragrafo ciò che diremo nel paragrafo seguente. lizzate. Spinoza non poti*ebbe
riguardare il principio e la conseguenza come causa ed effetto, se non li
riguardasse come due realtà distinta: è per questa realizzazione che il
rapporto semplicemente logico tra principio
e conseguenza diviene un rapporto onfologivo tra causa ed effetto. Il
sistema delle conoscenze, nel realismo dialettico, è una catena di nozioni
astratte, in cui l'astrazione è decrescente, e che sono logicamente legate fra
di loro, in modo che la nozione precedente cioè la più astratta sia il
principio di quella che immediatamente la segue, e la susseguente cioè la meno
astratta la conseguenza di (luella che
immediatamente la prece<le. Queste nozioni più o meno astrìitte
rappresentano le stesse cose, ma concepite d'una maniera più o meno astratta perchè la
conseguenza non fa che porre esplicitamente ciò era posto implicitamente dal
principio, e non è che il principio stesso in una forma più sviluppata: per
conseguenza, se l'astrazioni! non fosse che mentale, il progresso nella
deduzione non sarebbe che un progresso nella determinazione con cui il pensiero
concepirebbe le cose, mentre le cose stesse resterebbero immobili. Se invece
l'astrazione non è semplicemente mentale, ma anche reale, in altri termini se a
queste nozioni astratte corrispondono delle realtà astratte, il progresso nella
deduzione è un progresso nella determinazione delle cose stesse in altre parole
il passaggio dall'indeterminato al determinato non avviene nella sola
conoscenza, ma neir oggetto conosciuto: allora ogni nuovo passo nel
ragionamento segua un nuovo passo nello sviluppo dell' essere, e il movimento
del pensiero corrisponde al movimento
stesso della realtà. Ora in questo sviluppo progressivo dell'essere, in
questo passaggio continuo delle cose da uno stato più indeterminato a uno stato
più determinato, gli stati successivi sono fra di loro nel rapporto logico di
principio e conseguenza: ciò vuol dire che dato il precedente è dato pure il
couseguente, che la esistenza dell'uno trascina necessariamente 1'esistenza
dall'altro. Ma dire che l'esistenza
dell'uno trascina necessariamente l'esistenza dell'altro, è dire che 1'uno è la
causa e l'altro l'effetto: così, per la realizzazione delle astrazioni, il
rapporto puramente logico di principio e conseguenza diviene un rapporto di
causa e di effetto, e. questa causa è efficiente, perchè il legame tra il
principio e la conseguenza è un legame visibile a priori e n«ecessario. Applichiamo ciò che abbiamo detto al sistema
di l^piuoza. Il 3° genere di conoscenza
parte da una nozione astratta, 1'essere assolutamente indeterminato, e ne
deduce progressivamente altre nozioni astratte, ma di cui ciascuna è sempre
meno astratta dì quella da cui si deduce immediatamente: dall'essere
assolutamente indeterminatosi deducono immediatamente gli attributi, dagli
attributi i modi immediati, da questi altri modi, e così di seguito. Queste
nozioni astratte su cui volge la deduzione di Spinoza^dell'essi re
assolutamente indeterminato, degli attributi, dei modi immediati, e dei modi
mediati che da essi progressivamente si deducono, rappresentano le stesse cose,
cioè l'insieme degli esseri, che Spinoza chiama Dio o la uàtura; ma le
rappresentano d'una maniera sempre meno
astratta, l'estensione e il pensiero d'una maniera meno astratta che l'essere
assolutamente indeterminato, il riposo e il movimento e i modi immediati del
pensiero di una maniera meno astratta che l'estensione e il pensiero, e così ili seguito. Nel progresso
della deduzione, nel passaggio dall'essere indeterminato agli attributi, ai
modi immediati, ai modi immediati di
questi modi ecc.^è sempre l'insieme degli esseri l'oggetto reale a cui si
riferisce il nostro pensiero, ma quest'insieme degli esseri noi lo pensiamo
d'una maniera di meno in meno astratta. Per conseguenza, se l'astrazione non
fosse che mentale, vale a dire se l'essere assolutamente indeterminato,
l'estensione e il pensiero assolutamente considerati, ecc., non esistessero, in
questo stato di astrazione, che
unicamente nel nostro pensiero, il progresso della deduzione non sarebbe che un
progresso nella nostra conoscenza, che andrebbe progressivamente determinando
ciò che in principio non le era stato dato che d'una maniera assolutamente
indeterminata; questo progresso, questo passaggio dall'indeterminato al
determinato, non avrebl)e luogo che nel nostro pensiero, perchè di leale non vi
sarebbe che il concreto, e questo è assolutamente determinato. In questo caso
il rapporto tra il principio e la conseguenza non sarebbe che logico: r
incatenamento deduttivo non potrebbe assimilarsi all'incat^mamento causale,
perchè al progresso del pensiero non corrisponderebbe un progresso nella
realtà, alle nozioni successive che Spinoza deduce le une dalle altre, non corrisponderebbero, nella realtà,
dei momenti successivi che deriverebbero gli uni dagli altri. Ma ammettiamo che
l'essere assolutamente indeterminato, l'estensione e il pensiero indeterminati,
ecc. non siano delle semplici nozioni astratte, mi delle astrazioni realizzate,
in altre parole che esistano delle cose reali che non siano che essere
assolutamente indeterminato, estensione
e pensiero indeterminati, ecc.: allora alla serie delle nozioni che si
deducono le une dalle altre corrisponde una serie di cose che ilerivano le une
dalle altre, i momenti successivi nello sviluppo del pensiero rappresentano dei
momenti successivi nello sviluppo dell'essere stesso, e le premesse diventano
delle cause come le conseguenze diventano degli eftetti. L'identificazione del
rapporto tra il principio e la
conseguenza a quello tra la causa e l'effetto è dunque il risultato della
realizzazione delle astrazioni: senza di essa questa identificazione sarebbe
impossibile, perchè la deduzione non sarebbe che un processo logico e non una
derivazione reale, in una parola perchè lo sviluppo logico non sarebbe al tempo
stesso uno sviluppo ontologico. Questo sviluppo logico che è al tempo stesso uno sviluppo ontologico, è
indicato nel realismo dialettico dall'espressione anteriorità e posteriorità di natura. È il termine che
usa Platone, e che in Hegel è sostituito dalla parola momenti. La successione
puramente logica e metafisica è simboleggiata dalla successione cronologica.
Questi termini esprimono lo stesso concetto che il realista dialettico esprime
chiamando cama il principio logico ed effetto la conseguenza, cioè che la
deduzione non è un semplice processo logico, ma una derivazione reale
semplicemente il rapporto tra il principio e la conseguenza viene assimilato
meno apertamente al rapporto tra la causa e l'effetto. Noi troviamo dunque
un'altra prova della realizzazione delle astrazioni di. quelle ottenute col
secondo dei due pròcessi indicati nell'uso
che fa Spinoza della espressione platonica. Anteriore e posteriore di natura
significa in Spinoza, come in Platone, quella sequenza metafisica nelle cose
stesse, che è il correlativo della sequenza logica nel nostro pensiero. Altre
volte questi termini sono usati in un senso che non implica la realizzazione
delle astrazioni, ma significano anche allora la relazione tra ciò da cui una cosa deriva e la cosa stessa
derivata. Che anteriore di natura, quando l'applica a delle Antenore di natura
pnor natura è uaato in questo senso neir
Mh. Prop., Dini. prop. App. alla
p. p. II. Sohol. prop. {tam
eognitione quam natura prior. vale a dire tanto logUamente quanto
ontologicamente; in Dio, V uomo e la bi'.at,
I. eoe. Posteriore di natura
nello stesso luogo dell'App. alla p,
Simnl natura in />e Intell. emend.
Mh. p.
Schol. prop. p. Dim. prop., Dira, prop., Dim. prop. Dio, V
uomo e la beat. astrazioni^implica per Spinoza la loro esistenza per sé, si
vede nella dimostrazione della proposizione. Nella natura delle cose non
possono darsi due o più sostanze della stessa natura o attributo. DIMOSTR. Se
se ne dessero più distinte, dovrebbero distinguersi o per la diversità degli attributi o per la
diversità delle affezioni. Se solo per la diversità degli attribuii, si
concederebbe dunque non darsene che una sola dello stesso attributo. Ma se per
la diversità delle affezioni, siccome la sostanza è anteriore di natura alle
sue affezioni, deposte dunque le affezioni e considerata in se stessa, cioè
veramente considerata, non potrà distinguersi da un'altra, cic»è non potranno darsene più, ma solamente
una. In una notii del trattato su Dio, l'uomo e la beatitudine si dimostra che
non vi ha parti nell'estensione avanti ogni modificazione cioè nell'estensione
come anteriore ai suoi modi proposizione di cui parleremo in seguito fondandosi
sul principio che € l'estensione come estensione o come si è detto un po'prima
nella stessa nota, l'estensione in sé y^
esiste senza i suoi modi e avanti i suoi modi. La realizzazione delle
astrazioni nel senso indicato 'NeìVMh.
p. Sohol. prop. e p. Sohol prop. simul natu^-af applicato alle cose e ai pensieri per
signidoare la loro indipendenza reciproca cioè che uè i pensieri sono prodotti
dalle coso, uè le cose dai pensieri, ed anche, senza dubbio, la loro
derivazione simultanea dal loro substratum
comune. La sostanza si considera dunque veramente, cioè si pensa quale è
in realtà, quando si pensa separata dai suoi modi, depositis affectionibus.
Inoltre dalla indifierenziabilità di due sostanze dopo ohe si è fatta
astrazione dai loro modi, Spinoza non potrebbe concludere la loro reale
identità, se esse non esistessero realmente come si concepiscono dopo
quest'astrazione, cioè a parte dei loro
modi. I è supposta pure da due altre dottrine di Spinoza che non sono anch'esse
che delle espressioni differenti del principio delPidentità tra lo sviluppo
logico e lo sviloppo ontalogico. L'nna è il y)arallelisnio tra il pensiero e le
cose, in quanto per pensiero sMntende il pensiero filosofico, cioè quello che
conosce le cose col terzo genere di conoscenza. Siccome il 3<>genere
di conoscenza consiste a passare
gradatamente da una nazione astratta ad un'altra nozione pure astratta, ma meno
astratta della precedente, la dottrina del parallelismo implica che a questa
serie di pensieri astratti conisponda una serie di cose egualmente astratte,
tanto più che il pensiero e V oggetto pensato non sono due cose differenti, ma
due aspetti differenti di una sola e stessa cosa, che da una parte apparisce come pensiero e
dall'altra come realtà. L'altra dottrina è che il S*^genere di conoscenza è
intuitivo. È il carattere più essenziale, per cui Spinoza lo distingue dal
secondo genere. La conoscenza del 3^genere è una scienza intuitiva, in cui lo
spirito non fa alcuna operazione intellettuale,
ma vede; non è una convinzione fondata sul ragionamento, ma è il sentimento e il godimento della cosa stessa;
questa è perc(^pita immediatnmente ed in se stessa, come r oggetto sensibile è
percepito immediatamente ed in se stesso dall'intuizione sensibile. Per questa
intuitività della conoscenza filosofica Spinoza non intende, Dio ruomo e la
beat,, Eth. p. Scbol. 2o pr., De ini, emend. Mh, p.
Schol. pr. p. Schol.
pr., eoe. De
int. emend. Dio, l'uomo e la
beat. Dio, Vnomo e la beat. pa«;.. come
potrebbe credersi, che l'oggetto pensato è presente nel pensiero e s'identifica
con esso, come, secondo la credenza del volgjire sulla percezione sensibile,
l'oggetto sentito è presente nella sensazione e s'identifica con essa perchè
ciò sarebbe contrario al principio del parallelismo fra il pensiero e le cose:
il senso di questa dottrina di Spinoza è
che nella conoscenza filosofica lo spirito non è che uno spettatore, che
l'intelligenza si limita a ricevere Tini pressione degli oggetti intelligibili,
come la vista degli oggetti visibili, riproducendoli in se stessa e
riflett,endoli come uno specchio, in modo che il pensiero non sia che,
l'immagine della realtii e l'ordine e la connessione delle idee siano identici
all'ordine e alla connessione delle cose
stesse. Dato (jiiesto concetto sulla natura della conoscenza filosofica,
alcuu'astrazione puramente mentale non può aver luogo in questa conoscenza,
come non può avervi luogo alcun'altra operazione intellettuale che non abbia il
suo riscontro nella realtà; delle
nozioni astratte non potranno che rappresentai^e degli oggetti astratti, ai
principii e alle conseguenze nel nostro pensiero corri spon desanno dei principii e delle
conseguenze nella natura, e la nostra deduzione non saì^che un'immagine della
derivazione reale delle cose stesseo Perciò Spinoza raccomanda di non concepire
le cose nella conoscenza filosofica astrattamente o, ciò che per lui vale lo stesso,
uni versai niente, di non passare mai, nel progresso della deduzione, agli
astratti ed universali, e non mescolare
ciò che è sol De int. emend., eoo. De int. emend., luoghi che riporteremo in
seguito. tanto nell'intelletto con ciò che è nella realtà; e distingue la
conoscenza del 3® genere da quella del
2^ per ciò che questa ha per oggetto l'universale, mentre quella ha per oggetto
il singolare. Per astratto intende evidentemente un'astrazione puramente
mentale, vale a dire una nozione per cui
il reale che può essere anche un'astrazione realizzata non è concepito
in tutta la sua determinatezza, e in cui la mente separa ciò che non è separato
^(OQiaióy nella realtà: la conoscenza del 2^genere ha per ogetto l'universale,
perchè essa non concepisce che astrattamente ciò che è comune a tutta una
classe; quella del 3» genere ha per ogetto il singolare THE ONE AT A TIME NICE
GIRL THE ONE AT A TIME SAILOR GRICE, perchè concepisce la classe stessa, non
astrattamente, ma qua! è in se stessa considerata «mò specie aeternitatis.
Tanto è vero che Spinoza dà un'esistenza per sé all'essere assolutamente
indeterminato, 1'estensione e il pensiero indeterminati, e le altre astrazioni
che si deducono da queste, ch'egli attribuisce loro, in questo stato
astratto, delle proprietà contrarie a
quelle che esse hanno in qnanto si trovano negli oggetti concreti o nelle altre
astrazioni meno astratte ad esse subordinate. È ciò ch'egli fa della maniera
più esplicita per l'estensione. L'estensione come estensione, cioè 1'estensione
in sé, l'estensione come sostanza, è indivisibile: la divisibilità appartiene
ai modi dell'estensione, non all'estensione stessa. Dividendo una cosa estesa, p. e. l'acqua, si divide il
modo della sostanza, e non la sostanza stessa, la quale resta sempre la stessa
WATER TWATER, che essa sia moli) De ini. emend. Eth, p. Schol. prop. e Schol. prop., De ini. emend., eoo. dificata in acqua o in
altra cosa; in altri termini, essa si divide in quanto è acqua WATER TWATER,
non in quanto è sostanza corporea cioè estensione. Spinoza nega che l'estensione in sé sia
divisibile, perchè la divisione suppone l'esistenza dei corpi e del movimento,
e questi sono dei modi dell'estensione, posteriori all'estensione stessa. Egli
avrebbe espresso il suo pensiero in una forma più rigorosa, se avesse detto che
l'estensione in sé non è né divisibile né indivisibile perchè è evidente che,
se l'astratto manca di alcune delle
determinazioni del concreto, esso non può avere però altre
determinazioni positive che siano incompatibili con esse. Anche in questa forma
più rigorosa si affermerebbe dell'estensione in sé un attributo che è in
contraddizione con un attributo delFestensione concreta; ma la forma di
Spinoza, mettendo più in antitesi l'attributo dell'una con quello dell'altra,
mette più in rilievo la loro distinzione,
e mostra più chiaramente che la prima non è secondo lui una semplice
astrazione, ma ha un'esistenza per sé, indipendentemente dalla seconda. Ma dove
il realismo di Spinoza apparisce della maniera più evidente, è in un luogo del
trattato De intellectus emendatione, che riporterò per disteso, perchè lo
cansidero come l'espressione più netta e più completa del pensiero dell'autore: In quanto all'ordine poi, e €
aftinché tutte le nostre percezioni vengano ordinate ed unite, si richiede che,
quando prima può farsi e lo domanda la ragione, ricerchiamo se si dia qualche
essere, e al tempo stesso quale, che sia la causa di Dio Vnomo e la beai.,
Eih. p.
Prop., Prop. , Cor. e Sohol.,
Sohol. prop., De ini. emend.,
Spisi, ecc. I tutte le cose, in modo che la sua essenza obbiettiva cioè la sua idea sia pure
la causa di tutte le nostre idee, e così la nostra mente, come abbiamo detto, rappresenti, quanto più è
possibile, la natura. Infatti avrà obbiettivamente la essenza stessa di essa e
lo stesso ordine e la stessa unione. Donde possiamo vedere come in primo luogo
ci sia necessario di dedurre sempre tutte le nostre idee dalle cose fisiche,
cioè da« gli essevi reali, progredendo,
per quanto è possibile, secondo la serie delle cause, da un essere reale ad un
altro essere reale, e in modo da non passare agli a€stratti ed universali, né
concludendo da essi qualche 4( reale né concludendo essi da qualche reale.
L'una e l'altra cosa infatti interrompe il vero progresso dell'in«teletto. Ma
bisogna notare che per la serie delle cause e degli erseri reali io non intendo la serie delle cose singolari
mutabili, ma soltanto la serie delle cose fisse ed eterne. lafatti sarebbe
impossibile alla umana debolezza di tener dietro alla serie delle cose
siniro«lari mutabili, tanto per il loro numero che supera ogni moltitudine,
(juanto per le infinite circostanze in una sola e stessa cosa di cui ciascuna
può essere CUBISMO prima ba detto ohe si deve
conoscere l'effetto per la causa: Quindi non ci sarà mai lecito, quando
si tratta della ricerca delle cose, di concludere alcun che dagli astratti, e
ci guarderemo bene di mescolare le cose ohe sono <i soltanto nell'intelletto
con quelle che sono nella realtà: Ma l'ottima conclusione sarà ricavata da
qualche essenza partico«lari affermativa, cioè da una vera e legittima
detinizione. In«fatti dai soli assiomi
universali rintelletto non può scendere ai singolari, poiché gli assiomi si
estendono a un'intinità di cose, e non determinano l'intelletto a contemplare
uno piutto«sto che un altro singolare. causa che la cosa esista o non esista.
Poiché la loro esistenza non ha alcuna connessione con la loro essenza, ossia,
come già abbiamo detto, non è un'eterna verità. Ma del resto non abbiamo bisogno di comprendere la loro serie: in
effetto le essenze delle cose singolari mutabili non si devono ricavare dalla
loro € serie o ordine di esistere, poiché questo non può darci altro che delle
determinazioni estrinseche, delle relazioni, o al più delle circostanze, e
tutto ciò è ben lontano dall'intima essenza delle cose. Questa deve cercarsi
soltanto nelle cose fisse ed eterne, e insieme
nelle € leggi, scritte in queste cose, come nei loro veri codici,
secondo le quali tutte le cose singolari si producono e sono ordinate; anzi
queste cose singolari mutabili così intimamente e, per di così, essenzialmente
dipendono dajle fisse, che senza di esse non possono essere né concepirsi.
Quindi queste cose fisse ed eterne, quantunque siano singolari, pure per la
loro presenza do€ vunque e la loro
latissima potenz«a f^aranno per noi come degli universali o dei generi delle
definizioni delle cose singolari mutabili, e le cause prossime di tutte le
cose. Questo luogo, dopo ciò che abbiamo detto nei due paragrafi anteriori, non
ha bisogno di molli commenti. Ci limiteremo a notare: che le cose fisiche o gli
esseri reali di cui si tratta in questo luogo, sono delle cose fisse ed eterne, che si distinguono dalle cose
singolari mutabili, in cui sono presenti, e di cui sono le essenze e le cause
immanenti; che la serie di (jucsti esseri reali é una serie di cause, cioè che
essi costituiscono una catena di cause di cui 1'una procede dall'altra, e ciò
nel senso trascendente che la parola causa ha nel realismo dialettico, perché
(piesta serie di cause si distingue dalla serie delle cose singolari mutabili;
e infine che il progresso ininterrotto dell'intelletto da un essere reale ad un
altro, percorrendoli secondo la serie delle cause, cioè secondo il loro
iucatenamento eausale, è nna deduzione continua, in cui si conclude sempre un
essere reale da un altro essere reale. Ma la serie delle cose che si deducono
runa dall'altra, e di cui quella da cui si deduce è considerata come la causa di quella che se ne deduce,
sono, nel sistema di Spinoza, l'essere assolutamente indeterminato, gli
attributi divini, cioè il pensiero e l'estensione indeterminati, e i modi
eterni ed infiniti che derivano, immediatamente e mediatamente, dagli attributi
nei quali modi eterni ed infiniti sono contenute tutte le cose considerato sub
specie aeternitatis, concepite a gradi differenti di astrazione secondo i gradi di prossimità dei
modi agli attril>uti. Sono ciueste cose dunque gli esseri reali di cui si
tratta nel luogo citato, e l'essere assolutamente indeterminato, gli attributi
divini e le altre astrazioni che se ne deducono, non sono dtlle semplici
astrazioni, ma delle astrazioni realizzate, di cui la più astratta esiste
indipendentemente dalla meno astratta,
in cui è contenuta e di cui è la causa
immanente, come tutte esistono indipendentemente dalle cose concrete, in cui
sono contenute e di cui sono le cause immanenti. Si vede anche dal che abbiamo
riportato in nota, non solo che il 3« genere di conoscenza consiste a dedurre
gradatamente da un essere reale un altro essere reale, ma che tutte le premesse
e tutte le conseguenze non sono in
questa deduzione che esseri reali Ciò
vale a dire che questa deduzione è immediata, cioè che essa passa
immediatamente dalla posizione di un essere reale alla posizione di un altro
essere reale, senza l'intervento di assioni o altre proposizioni intermediarie,
e in una porola senza una dimostrazione propriamente detta. È perciò che
Spinoza chiama la conoscenza del 3"genere una scienza intuitiva: essa
è intuitiva sì perchè i suoi oggetti non
sono delle astrazioni, ma degli esseri reali, si perchè la connessione tra
questi esseri reali non è conosciuta per ragionamento, ma immediatamente.
Questa immediatezza delle deduzione è, come abbiamo notato, un carattere
generale del realismo dialettico, che Spinoza ha comune con Platone, con GRICE
JACKS BROAD GRICEIANISM e gli altri
rappresentanti di questo tipo di metafisica. Così il rapporto tra il
principio e la conseguenza è assimilati di più a quello tra la causa e
l'effetto, i»erchè nelle causazioni familiari da cui è venuta l'idea di
causazione efficiente, il legame tra la causa e l'effetto non si vede per
ragionameato, ma immediatamente. Inoltre l'identificazione del principio logico
alla causa e della conseguenza
all'effetto implica che l'astrazione realizzata che si riguarda come la
causa di un'altra astrazione realizzata sia la premessa unica da cui questa si
deduce: se occorressero altre premesse, ne sarebbe una delle cause, ma non la
causa completa. Questi due principii del metodo di Spinoza, che le cose che si
deducono sono degli esseri reali, e che la deduzione è immediata,
costituiscono, presi insieme, il
significato della sua proposizione che l'ordine e la connessione delle idee
sono identici all'ordine e alla connessione delle cose a parte il parallelismo
psico fili) L'immanenza della causa
uell'effetto è si chiara in Spinoza, che il rapporto delle cose fìsse ed eterne
fra di loro e con le cose non potrebbe dar luogo, nel suo sistema, alle stesse
quistioni a cui ha dato luogo nel sistema
platonico. sico come dottriua psicologica e cosmologica. Questa
proposizioue, in questo suo significato trascendente, equivale, al fondo, al
principio hegeliano dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo
ontologico. Ma Hegel non presentando la serie delle astrazioni realizzate che
egli deduce, che come i gradi uecessivi di uno sviluppo, noi non possiamo che
per induzione altribuirgli come scopo
ultimo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza al rapporro
tra la causa e l'ett'etto. Spinoza li identifica esplicitamente, e ci mostra
così nella luce più completa il vero scopo e 1'essenza intima del realismo
dialettico. Prima di finire «u Spinoza dobbiamo giustitìcare unartermazione che
al>biamo ripetuto più volte, sia esplieitameute 8ia implicitamente, cioè che al di là degli attributi Spinoza suppone
qualche cosa di più indeterminato, ohe è agli attributi ciò che questi sono ai
modi, vale a dire ohe esiste per se stessa, quantunque presente negli
attril>uti, come gli attributi esisttmo per se stessi, quantunque presenti
nei modi. Noi nim lo fju^ciamo ohe alla fine di questo paragrafo, perchè la
prova potissima di questo punto della metatìsioa di Spinoza si ha dal confronto della dottriua di
cui abbiamo parlato, che la cosa estesa e la iosa pensante sono due aspetti o
due espressioni ditì'erenti di una sola e stessa cosa, con la dottrina che ha
formato l'argomento del paragrafo precedente e di questo pariigrafo. che il
reale risulta da astrazioni realizzata, e che per conseguenza ciò che è comune
a molte cose è riguardato come una
realtà distinta, unica in se stessa, ma presente al tempo stosso in
ciascuna di queste cose. La sola maniera possibile d'intendere la prima
dottrina è che vi ha nelhi cosa estesa e nella cosa pensamte, oltre agli
attributi propri in cui differiscono, una essenza comune in cui sono identiche,
e che questa essenza comune della cosa estesa e della cosa pensante è un'entità
unica, esistente per se stessa e
<4ie, senza perdere la sua Noi
abbiamo incontrato nel corso di questo capìtolo diverse forme del realismo
dialettico, caratterizunità e senza dividersi, è presente al tempo stesso
nell'una e nell'altra come l'estensione è un'entità unica, presente al tempo
«tesso nei suoi due modi immediati, cioè la quiete e il movimento, o l'umanità
SHAGGINESS, come cosa fissa ed eterna, è un'entità anica, presente al tempo
stesso in tutte le generazioni successive dell'umanità fenomenale. Questa
dottrina di Spinoza non sembra suscettibile di alcun altro senso: ma noi non
siamo fondati ad attribuirle questo, che perchè sappiamo che egli riguarda
1'astratto come reale, e il comune come separabile /woKTTÓt^, cioè come
un'entità unica esistente per sé e presente al tempo Btesso in ciascuna delle
cose a cui si dice comune. Questa interpretazione è tanto più giustificata ohe,
per indicare la relazione della cosa estosa e della cosa pensante con la cosa
unica di cui esse sono i due aspetti, Spinoza si serve degli stessi termini che
usa per indicare la relazione dei modi degli attributi con gli attributi
stessi. Così egli dice, da una parte, che ogni cosa, cioè ogni modo degli attributi divini, certo et
determinato modo exprimit l'essenza di Dio o alcuno dei suoi attributi Eth.
p Cor. pr. Dim. pr.,
p. Def., I)im. pr., Dim, pr.,
Cor. pr., p HI
Dim. pr.
H, ecc. e dall'altra parte, che l'estensione aliquo
modo Dei natnram exprimit Epist. neXV Etieri si dice più volte degli aitributi
che esprimono l'essenza di Dio, p. e.
nelle P Dim. pr. e nella P Dim.
pr. I; ma in questi luoghi l'essenza di Dio significa forse il complesso
degli attributi stessi, non il loro substratum e ohe un modo dell'estensione e
l'idea di questo modo sono una sola e «tessa cosa, duohus modis expressa GRICE
EXPRESS Eth. p Schol. pr. Così pure noi troviamo da una parte: Deus
qnatenus per naturum humanae mentis explicatur Eth. p Cor. pr. Dim. pr. , p
V Pr. e Dim.
per significare: Dio in quanto è modificato di questo modo particolare che è la
mente umann; e dall'altra parte: Dio come e«)sa pensante et non quatenus alio
atlrihuto explicatur Eth. p. Pr.,, p. Dim.
pr.; e ancora:
ilcir zata ciascuna dal modo differente di concepire le astrazioni
realizzate. Questo modo è legato evidentemente alla concezione particolare del
mondo propria a ciascun autore. Platone
si rappresenta le astrazioni realizzate colo esistente nella natura e l'idea
divina di questo circolo GRICE CIRCLE sono una sola e stessa cosa quae per
diversa atirihuta explieatur Etli. p. Schol.
pr. nello S<jhol. prop. p.
Ili: la volizione e il naovimento corporeo corrispondente sono una sola e
stessa cosa, che chiamiamo volizione quando si considera sotto l'attributo del
pensiero e per esso explieatur; nello stesso Schol. pr. p : la sostanza pensante e la sostanza
estesa sono una sola e stessa sostanza, quae iam sub hoc iam sub ilio attributo
eomprehenditur compre htndi tur ha evidentemente lo stesso senso che
explieatur. Questi termini exprimit explieatur e loro sinonimi, sia che
indichino il rapporto frH gli attributi e 1'essere unico che essi manifestano, sia che indichino quello tra i modi e gli
attributi, devono significare, nell'un caso e nell'altro, uno stesso concetto:
la relazione fra le determinazioni e l'indeterminato di cui sono le
determinazioni quest'indeterminato essendo considerato come una realtà, e non
come una semplice astrazione. Naturalmente noi dobbiamo attribuire a Spinoza,
non solo il concetto che l'estensione e il pensiero sono due determinazioni di
un essere unico l'essere assolutamente indeterminato esistente per sé e presente
nell'una e nell'altro, ma anche quello che o<;ni modo dell'estensione e il modo corrispondente
del pensiero nono due determinazioni di una cosa unica una modificazione dell'essere assolutamente
indeterminato, pure esistente per se e presente nell'uno e nell'altro. Dal
primo al secondo dei due concetti la conclusione non è forzata, e Spinoza la fa
perchè vi trova una spiegazione della corrispondenza fra il pensiero e la
realtà, e in generale tra l'ordine fisico e l'ordine psichico. L'esistenza per
sé d'un'entità astratta, che è il substratum comune dell'estensione, del pensiero e degli altri
attributi e che Spinoza chiama l'ens absolute indeterminatum, Epist. oltre che nei luoghi in cui è
quistione della dottrina dell'identità tra il pensiero e le cose, è indicata
chiaramente anche altrove, e sovrattutto in un luogo del trattato su Dio Vaomo
e In beat, in cui afferma che gli attributi sono alla sostanza ciò che i modi
sono agli attributi trad. frane.: se tu
voi chiamare sostanze il corporale e l'intelletluale rapporto ai modi che ne
dipendono, bisogna pure che li chiami modi rapporto alla sostanza da cui
dipendono; perchè essi sono concepiti da te, non come esistenti per se stessi,
ma della stessa maniera che tu concepisci volere^ sentire, intendere, amare
come i modi di ciò che tu chiami sostanza ])ensante, a cui tu li riferisci come non facenti che uno con essa: donde io
concludo che l'estensione infinita, il pensiero infinito e gli altri attributi
infiniti non sono niente altro che i modi di quest'essere uno, eterno,
infinito, esistente per sé, in cui tutto è uno, e al di fuori del quale alcuna
unità non può essere concepita. In questo luogo per sostanza s'intende il
substratum degli attril)uti, che esiste per so,
tndipendentemente dagli attributi stessi, mentre nell'Etica la sostanza
significa ordinariamente il complesso degil attributi. Tuttavia nella Dim. pr.
I per sostanza s'intende, come nel luogo citato di Dio.Vuomo e la beat.,
qualche cosa di anteriore agli attributi, da cui questi derivano, come i modi
derivano da essi Che se si suppone una volontà infinita, deve pure ad esistere
e ad operare essere determinata! da
Dio, non in quanto è sostanza assolutamente infinita, ma in quanto ha un
attributo che esprime 1'essenza infinita ed eterna del pensiero; e per
conseguenza, la volontà, anche infinita, non più dirsi causa libera, ma solo
necessaria o coatta. Nello Schol. alla
prop. ha detto che Dio h causa libera in quanto è natura niturans, cioè
in quanto è il complessso degli attributi
considerati d'una maniera indeterminata. Qui vuol dire dunque che se la
volontà infinita deriva immediatamente dalla sostanza assolutamente infinita,
sarebbe un attributo e farebbe parte della natura nnturans, cioè di Dio come
causa Ubera; ma derivando invece da un attributo, fa parte della natura
naturata, e quindi non di Dio come causa libera. L'esistenza di uu'entità
unica, anteriore al pensiero e
alVesten Del modo più ordinario del realismo
se non del realismo dialettico, cioè come dei concetti obbietti vati, in
altri termini come degli oggetti aventi,
nella forma della realtà, il contenuto stesso che i concetti nella forma della
rappresentazione. Questi concetti obbiettiv^ti di Platone sono dei puri oggetti,
tra cui e i cousione, e che sia la radice comune dell'uno e deirultra, è del resto indispensabile in
Spinoza, affinchè il suo sistema sia realmente un monimo e non un dualismo: se
non vi fosse qualche cosa di anteriore, da cui l'estensione e il pensiero
derivano, tutte le nostre idee non si ridurrebbero ad un'idea unica come vuole
l'autore De intellemend. ece. vale a dire, nou si dedurrebbero da un'idea
uuioa. ma vi sarrebbero due principii. e non un principio unico.
Quest'argomento è tanto più forte, che l'unità di principio, cioè la
sistematizzazione completa di tutti i concetti obbiettivati, è un carattere
comune del realismo dialettico, che abbiamo incontrato in tutti gli altri
rappresentanti di questa forma di metafìsica. Quest'unità di principio noi non
possiamo attribuirla a Spinoza che nell'ipotesi che egli ha ammesso qualche
cosa di assolutamente indeterminato di cui il pensiero e l'estensione sono le
determinazioni primitive; e viceversa, in quest'ipotesi, noi dobbiamo
attribuirgliela necessariamente. Se Spinoza ha ammesso questa qualche cosa di
assolutamente indeterminato, egli non ha potuto non vedervi il principio nel
senso logico ed ontologico che questo lerniine ha nel realismo dialettico
dell'estensione e del pensiero e di
tutti gli altri attributi divini benché nell'Etica ammetta, per il motivo
indicato nella nota, che la deduzione non deve partire che dagli attributi. Nel
suo sistema, e nel realismo dialettico in generale, il più concreto deriva,
cioè si deduce, dal più astratto di cui è una determinazione: la causa prima e
il principio logico primo deve essere dunque 1'essere assolutamente indeterminato, da cui il pensiero e
1'estensione indeterminati devono dedursi. come tutte le altre cose si deducono
dal pensiero e l'estensione indeterminati. cetti stessi non vi ha altro
rapporto che quello che la cosa rappresentata ha con la sua rappresentazione:
inoltre essi non hanno gli uni con gli altri altro legame necessario che quello
derivante dai rapporti di contenenza tra i concetti, per cui le Idee generiche accompagnano
necessariamente le Idee specitìche, che le contengono come loro parti. Le
astrazioni realizzate del Taine sono dei concetti obbiettivati e dei puri
oggetti, cioè distinti dal pensiero, come quelle di Platone; ma esse non
esistono ciascuna per sé come queste, ma formano delle coppie, ognuna delle
quali costituisce una legge della natura. La difterenza tra queste due forme, la più antica e la più
moderna, del realismo, corrisponde evidentemente alla dirtereuza tra la
concezione onjamcista del mondo, così naturale al punto di vista della scienza
antica, e la concezione, che si può chiamare in un senso lato meccanica, della
scienza moderna, che vede nei fenomeni, non la manifestazione dell'essenza o
natura particolare a ciascuna specie di
esseri, ma il risultato di un rigoroso determinismo causale, governato da leggi
costanti e universali. Le astrazioni realizzate di Hegel non sono solamente
l'obbiettivazione dei concetti, ma sono identiche ai concetti stessi, e non dei
puri oggetti come quelle di Platone. È che Platone, come tutti i filosofi
antichi, divide ingenuamente la credenza
naturale, che dà agli oggetti un'esistenza assoluta, indipendente dal soggetto
percepente; mentre Hegel identifica la realtà col pensiero con un pensiero
permanente e assoluto, cioè indipendente da un soggetto pensante particolare,
per conciliare la credenza naturale dell'esistenza assoluta degli oggetti col
risultato della moderna teoria della conoscenza che gli oggetti non esistono che in quanto sono conosciuti.
Le astrazioni realizzate di Spinoza differiscono
da quelle dei filosofi precedenti, perchè non sono, come esse, dei concetti
obbiettivati. Questa differenza è legata alla dottrina spinozista dell'unità di
sostanza, cioè al suo panteismo, che è una conseguenza del parallelismo
psico-fisico, quale lo comprende questo filosofo. I concetti obbiettivati
suppongono l'uno nei molti, cioè che ciascuno si realizzi in una moltitudine di oggetti particolari:
ciò che implica una moltiplicità di esseri, e non un essere unico come vuole
Spinoza. Oltre che nelle forme differenti con cui si nappresentano le
astrazioni realizzate, le diverse concezioni del mondo dì questi filosofi si
riflettono pure nelle forme differenti del loro metodo, cioè della dialettica.
Alla concezione organicista di Platone corrisponde la sua dieresi, (juesta olassazione a gradi
multipli, di cui egli fa la legge universale delle Idee, avendo la sua
applicazì(me più evidente nel mondo degli esseri viventi. La gerarchia di leggi
del Taine somiglia alla gerarchia di tipi di Fiatone, ma si oppone a questa
come alla concezione organicista antica si oppone la concezione meccanica
moderna, che sostituisce alla essenza o forma la legge cioè il rapporto uniforme di sequenza o coesistenza tra
fenomeni, e vede nelle leggi particolari dei fenomeni dei casi di leggi più
universali. Il concetto cardinale della dialettica hegeliana che gli opposti si
chiamano e si danno l'uno con l'altro, dipende evidentemente dalla sua dottrina
dell'identità dell'essere e del pensiero, perchè esso trasforma in legge
ontologica delle cose una legge
psicologica dei pensieri. Spinoza, conformemente alla sua dottrina dell'unità
di sostanza, per cui egli vede in tutti i generi di esistenza degli attributi o
proprietà di un essere unico, ammette che le cose si deducono dal primo
principio cioè dalla essenza o definizione della sostanza come le proprietà di
un oggetto p. e. di una forma geometrica
si deducono dalla essenza o definizione
di queflt'oggetto. Ma malgrado le differenze fra i diversi sistemi, si
rivela in tutti una nniià di piano, una vera omologia, tanto più colpente, che
essa non si spiega per un legame storico, per una filiazione degli uni dagli
altri o da uno stipite comune ed in ciò questa omologia differisce da quella
dei naturalisti, ciascun sistema essendosi prodotto indipendentemente dai
sistemi precedenti salvo un certo
rapporto del Taine con Hegel, e senza anche che l'autore salva ancora
l'eccezione di cui sopra avesse una conoscenza sufficiente dei sistemi
precedenti. Spinoza e Taine interpretano Platone alla maniera trasceudentalista
cioè riguardano le Idee come poste fuori delle cose, e non mostrano di avere
alcun sospetto del vero significato della sua dialettica; Hegel non comprende né la dialettica di Platone né quella di
Spinoza, perchè fa consistere quella del primo nella sua propria dottrina
dell'identità degli opposti, e rimprovera al secondo che egli non applica alla filosofia che il metodo
matematico che per Spinoza non conviene che alla conoscenza del secondo genere,
e che nel suo sistema tutto è inghiottito dalla sostanza come in un abisso,
senza che essa produca niente di reale e
di positivo ciò che mostra che Hegel non comprende che Spinoza fa derivare le
altre cose dalla sostanza, per una filiazione al tempo stesso logica ed
ontologica come Logica quella del metodo dello stesso Hegel. Questa
omologia^questa unità dj piauo, dimostra che la spiegazione delle cose in cui
consiste il realismo dialettico, è una di quelle predeterminate, per così dire, dalla struttura stessa
dell'intelligenza umana: essa infatti è il prodotto del concetto inevitabile,
per quanto illegittimo, di causazione efficiente coi caratteri, tiinte volte
indicati, di necessità, di evidenza intrinseca e di esplicabilità radicale
degli effetti per le cause e dell'analogia tra una connessione d'idee, ohe
rappresenta un rapporto tra fenormeni realmente o apparentemente razionale e necessario^ e la connessione tra
il principio e la conseguenza nella deduzione; analogia che, oltre alla teoria
della causalità che è l'idea madre del realismo dialettico, dà luogo a quella
che nel Saggio 1"abbiamo chiamato
dottrina analitica dei (fiudizi a priori, perchè anche questa è fondata nella
confusione e l'identificazione di ({ueste due connessioni mentali analoghe. È notevole che in tutti i sistemi alla
spiegazione del realismo dialettico è congiunta una o un'altra forma
dell'antropomorfismo. Queste forme variano secondo le diverse concezioni del
mondo a cui sopra abbiamo accennato. Alla concezione organicista di Platone
corrisponde ripotesi teologica dell'anima del mondo, perchè il concetto delle
cause finali nasce naturalmente dalla considerazione degli esseri organizzati.
Nel Taine troviamo invece il panpsichismo, questo e 1'ilozoismo essendo le sole
forme dell'antropomorfismo che possano accordarsi con la concezione meccanica.
Hegel è un idealista^ cioè vede nelle cose il prodotto dell'attività del
pensiero, questa spiegazione essendo la
più ovvia quando Saggio delle cose non si fìinno che delle rappresentazioni. In
quanto a Spinoza, la sola concezione antropomorfìstica che possa permettergli
il suo [uincipio del parallelismo psicofisico, è, non una spiegazione
propriamente detta fondata sull'antropomorfismo, cioè che spiega le cose
considerandole come prodotte da un'attività analoga all'attività umana, ma la presenza in tutte le cose dell'anima (^
del pensiero, il fatto fisico non essendo l'effetto HEAD SCRATCHING GRICE del
fatto psichico, ma essendone semplicemente accompagnato. Questa unione del
realismo dialettico con altre forine di spiegazione metafisica
all'antropomorfismo, nei sistemi di Spinoza e di Taine, sì aggiunge anche
l'/mpw^ sionismo si comprende facilmente per
il carattere particolare di questa filosofìa. Piuttosto che una
spiegazione delle cose, essa dà un sembiante di spiegazione intendendo per
spiegazione un'ipotesi che, quantuncpie insussistente, dà una soddisfazione al
bisogno di conoscere le cause elidenti; si potrebbe paragonarla ad Issione, che
stringe la nuvola invece della dea. La causazione efficiente, secondo il
concetto immediato ed istintivo, non è
che una specie di sequenza invariabile; la produzione delle cose, di cui si
tratta nel realismo dialettico, imita i caratteri per cui una causazione
efficiente si distingue dalle altre causazioni, ma non è più una sequenza tia
fenomeni; ai fenomeni sono sostituite delle entità, e alla successione nel
temi)o una successione puramente logica. Come queste entità sono le
immagini dei fenomeni a cui si
sostituiscono, così la loro produzione è un'immagine della causazione: il
realismo dialettico mette i simulacri al posto delle cose stesse; a ciò che
darebbe una soddisfazione al bisogno di conoscere le cause efficienti
sostituisce un succedaneo, e gode dell'immagine, n<m potendo possedere la
realtà. Evidentemente se il realista dialettico ricorre a uu sistema sì
poco naturale, è perchè egli non può
immaginare un'applicazione completa tlel concetto di causalità efficiente in un
mondo di realtà concrete e particolari: non potendo concepire le cose nel modo
conforme alle tendenze spontanee del nostro spirito GRICE TEORIA CAUSALE DELLA
PERCEZIONE NECESSARIA IMPLICATURA DI CAUSA PER FENOMENI ANNORMALI, cerca di
concepirle in un modo quanto più è possibile, somigliante, costruendo una nuova
forma di causalità efficiente ad imitazione della forma immediata ed istintiva.
Il realismo dialettico e la teoria della causalità su cui esso è fondato, sono
degli effetti della tendenza naturale dello vspirito umano ad assimilare, più
che può, le sue nozioni ulteriori e riflesse sulle cose alle sue nozioni
spontanee e immediate. Questa è un caso
di una tendenza più generale, che è, secondo me, l'origine di tutti i concetti
metafisici, cioè ad assimilare tutte le nostre rappresentazioni a quelle che ci
sono le più abituali. La tendenza ad assimilare tutti i fenomeni a quelli che
ci sono i più familiari per cui abbiamo spiegato 1'origine del concetto di
causalità efficiente non è che un altro
caso della stessa tendenza generale
GRICE PARADIGM CASE ARGUMENT URMSON STRAWSON FLEW. Un altro caso ancora è la ripugnanza ad
ammettere certe verità scientifiche che ci forzano a formarci dei fatti delle
rappresentazioni contrarie alle abituali p. e. il movimento della terra o V
azione fisica a distanza, e lo sforzo a trovare dei compromessi tra queste
verità e le nozioni abituali che esse
contrariano p. e. l'ipotesi di Tico-Brahe che i pianeti volgono attorno al sole, ma il sole con tutti i pianeti attorno alla
terra, o, in un altro ordine d'idee, la dottrina di Kant della libertà
noumenale, mentre gli atti del me DI GRICE fenomenale sarebbero soggetti a un
determinismo rigoroso. Un effetto inevitabile di questa tendenza generale dello
spirito umano è che, quando non si può ammettere, nella sua integrità, qualcuno
di quei concetti che sono i risultati di certi processi spontanei e istintivi
della nostra intelligenza, s'immaginano delle dottrine filosofiche che,
quantunque non riproducano perfettiimente questo concetto, permettono di
concepire le cose nel modo, più che è possibile, analogo. È ciò che io ho
detto: assimilare le nozioni ulteriori e riflesse sulle cose alle nozioni spontanee e
immediate. Il miglior esempio di quest'assimilazione, come fondamento di
concetti metafisici, sono tutte le dottrine dei metafisici sugli oggetti
est^eriori. La dottrina delle monadi, della volontà di Schopenhauer,
dell'inconoscibile, e in una parola tutte le ipotesi IPOSTASI trascendenti
sulla natura delle cose non liaono altro motivo che di fare risorgere, sotto
una nuova forma, il concetto naturale ed istintivo della cosa in sé che non è,
in questa sua forma immediata, che la pura e semplice obbiettivazione delle
nostre sensazioni. Il realismo trasfigurato del metafisico noi intendiamo per
questo termine tutte le forme trascendenti ESCHATOLOGICAL GRICE del realismo
non è che un succedaneo del realismo naturale. Discutere il valore di (jnesta forma riflesso, del realismo non
appartiene all'argomento della prima parte di questo Saggio, ma a quello della
seconda: noi possiamo tuttavia affermare, come un fatto psicologico evidente,
che la forza con cui s'impone al nostro spirito non sta tanto negli argomenti
su cui si appoggia, quauto nella sua analogia col realismo istintivo. La è la
ripugnanza nat»irale ad ammettere la
dottrina di MORE GRICE TO THE Mill che tuttavia è il risultato inevitabile
della filosofia dell'esperienza che la materia si riduce a sensazioni e
possibilità di sensazioni: questa tlottrina si respinge senza esame, perchè
troppo contraria alle nostre credenze istintive OF OBBLES. Dopo che la
riflessione scienha distrutto la credenza naturale che esistono DI UNA MANO DI
GRICE, fuori del nostro spirito, degli oggetti OBBLE estesi, c<dorati,,
ecc., e che sono (juegli stessi che costituiscono l'oggetto immediato delle
nostre sensazioni URMSON THE OBJECT OF THE FIVE SENSES, noi sentiamo il bisogno di sostituire a
questi oggetti qualche cosa di analogo IL VISUM: di là tutte queste teorie
dimamismo, paupsichÌ8ino, teoria dell'inconoscibile, ecc. più o meno difformi dalla credenza naturale, ma
die, quantunque non la riproducano né in tutto né in parte, le sono, quanto più
é possibile, somiglianti. È un effetto della tendenza indicata del nostro
spirito, ad assimilare le concezioni ulteriori e riflesse sulle cose alle
concezioni spontanee e immediate. Come altri esempi di questa tendenzii
possiamo citare la dottrina della percezione immediata in tutte le sue forme
filosofiche perchè nessuna di queste si conforma alla credenza naturale che i
nostri sensi colgono immediatamente gli oggetti esteriori, ma non fa che
assimilarvisi, e le dottrine degl'irfo/f,
emanati dagli oggetti, di Democrito e del GIARDINO, delle specie intenzionali di alcuni
scolastici, delle immagini nel cervello GRICE FROM THE BANAL TO THE BIZARRE SCIENTISM
THE DEVIL di molti fra i primi filosofi moderni, alle quali si può anche
aggiungere quella seconrio cui le idee sono degli oggetti esistenti nel nostro
spirito, ma distinti dalla percezione che se ne ha, perchè anche questa non è,
come le precedenti, che un'assimilazione al modo istintivo di rappresentarci il
fatto della percezione e del pensiero, cioè come una fissazione, uno sguardo, della coscienza DI GRICE su un
soggetto esteriore alla coscienza stessa. Io mostrerò nella 3* parte un altro esempio della stessa
tendenza nelle dottrine filosofiche sul bene assoluto che e l'idea fondamentale
di quasi tutti i sistemi di etica: Vi'v.
SiijiKio e pajr. 5f»8-;ìfi9.
Lirclerc, Bnicker, GENOVESI, ecc. A questi potremuio uuire i tilosoH
scozzesi, Koyer-Collard. ecc., che fauno
della cosoieuza stessa uu che <li distinto dai fenoiueui psichici di cui si
ha la iCoscieu/a. .Sa^jiio queste non sono che un'assimilazione alla credenza
istintiva della morale assoluta la quale, per un efietto dell' altra tendenza
ad assimilare tutti i fatti a quelli che ci sono i più familiari, considera le
nostre nozioni morali come comuni a tutti gli uomini e a tutti gli esseri che immaginiamo sul tipo umano PIROT, e come evidenti per se stesse dopo che questa
credenza, in questa sua forma immediata, è stata distrutta dalla riflessione
scientifica. Il realismo dialettico nasce dunque dal concorso di queste due
tendenze naturali del nostro spirito: quella per cui assimiliamo tutti i
fenomeni a quelli che ci sono i più familiari, e quella per cui assimiliamo
le concezioni ulteriori e riflesse sulle
cose alle concezioni spontanee e primitive. Per un effetto della prima tendenza
noi ammettiamo che ogni fenomeno ha una causa PEARS THOMSON EVERY EVENT HAS A CAUSE
e^ciente, cioè che spieghi l'effetto
d'una maniera esauriente nel senso popolare e metìifisico della parola
spiegazione – NOT REICHEMANN’S! ed abbia con esso un legame necessario ed evidente
intrinsecamente. Per un effetto della seconda, quando non si può immaginare,
nel mondo delle realtà concrete, un'applicazione sufficiente di questo concetto
istintivo della causalità, si realizzano le astrazioni e s'introduce fra queste
astrazioni realizzate un incatenamento logico continuo PSICOPATICO,
considerando il principio logico come causa e la conseguenza come effetto. Ciò si fa perchè il
principio logico, quando i principii e le conseguenze sono delle entità,
diviene anche un principio ontologico AND JUST LIKE THAT, e nel rapporto tra
questo principio e le conseguenze che se ne fanno derivare, si trovano i
caratteri che distinguono una causazione efficiente da una semplice causazione
empirica o sequenza invariabile SPOTS ARE MEASLES. Piuttosto che
un'assimilazione alle causazioni familiari da cui ci è venuto il concetto
istintivo di causazione efficiente DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE,
la teoria della causalità del realismo dialettico è, se mi è lecito di dir
così, un'assimilazione a quest'assimilazione. Tuttavia sono queste causazioni
familiari il tipo primitivo su cui sono
modellate le causazioni del realista dialettico; tipo con cui non hanno necessariamente
che una vaga somiglianza, quale le ombre della caverna, nell'allegoria del
padre del realismo dialettico che noi dobbiamo prendere a controsenso potevano
avere con le cose, dei cui simulacri erano le ombre. Nihil oritup, nihil
interit. La nozione di causa efficiente con le sue applicazioni è la manifestazione incomparabilniento più
importante della tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare tutti i
fenomeni a quelli che ci sono i più
familiari: ma la metafisica ci presenta altre manifestazioni di questa
tendenza, di cui una non può non formare un oggetto speciale del nostro studio,
per il gran posto che essa non ha mai cessato di tenere nella storia del
pensiero. Se noi div^idiamo tutti i
fenomeni della nostra esperienza, vale a dire tutta la massa delle percezioni
che noi abbiamo avute sin dal primo
momento della nostra esistenza, in due grandi categorie PAPA e MAMA, mettendo nell'una tutte le esperienze che ci
hanno mostrato un cangiamento nelle proprietà delle cose, vale a dire nei
caratteri per cui noi distinguiamo le cose particolari e il cui complesso si chiama V essenza d'una cosa, e
mettendo nell'altra le esperienze che €i hanno presentato le cose con le stesse
proprietà IV f 1 / I che essi ci avevano prima mostrato, è evidente che quelle
della seconda categoria MAMA sono, senza comparazione, le più frequenti, le più
familiari. Inoltre, se noi facciamo un'altra divisione in questa massa totale
delle nostre esperienze, riunendo in una
classe tutte quelle che ci hanno presentato un cangiamento in qualsiasi qualità
delle cose e non semplicemente nei loro caratteri distintivi, essenziali, e in
un'altra tutte quelle che ci hanno presentato un non cangiamento qualitativo e
niun altro cangiamento che nelle posizioni reciproche delle cose, è evidente
ancora che, quantunque la differenza numerica tra le due classsi non sia in questo caso così grande come nel
caso precedente, la seconda MAMA classe sorpassa di gran lunga la prima per la
frequenza o familiarità dei fenomeni si devono anche comprendere sotto la
parola fenomeno le esperienze di un
assoluto non cangiamento. Perchè la verità di queste osservazioni venga
pienamente compresa, non sarà forse inutile di far notare, primo, che di una gran parte dei cangiamenti che noi
osserviamo nella natura gli antecedenti sfuggono alla nostra percezione attuale
p. e. noi vediamo cadere la pioggia ma non vediamo la trasformazione del vapore
in acqua; noi vediamo il lilo d'erba sorgere dal suolo, ma non vediamo la
trasformazione del germe in filo dYn'ba e che in questi casi perciò il
cangiamento delle proprietà non deve
contarsi fra le nostre esperienze EDDINGTON’S TWO TABLES GRICE; e
secondo, che la più parte dei cangiamenti qualitativi delle cose non si
producono che mediante una gradazione continua, impercettibile p. e. il fanciullo
cresce, il giovane invecchia, ma senza che noi abbiamo mai attualmente la
percezione del cangiamento, il quale non è conosciuto che dalla riflessione che
<5onipara degli stati separati da lunghi intervalli sicché, in questi casi, BIRD OUT OF THE EGG le percezioni stesse che
ci vengono dagli esseri sottoposti ad un continuo cangiamento, vanno ad
accrescere nel fatto la massa delle esperienze del non cangiamento, e, per
conseguenza la forza che questa massa esercita sulle associazioni tra le nostre
idee. La conseguenza di ciò che abbiamo
detto è che, conformemente alla tendenza generale ad assimilare ciò che ci è
meno familiare a ciò che ci è più familiare, noi siamo naturalmente inclinati
ad ammettere che il fondo dell'essere è permanente, immutabile, e che il
cangiamento non è che superficiale o anche apparente, e a spiegare la natura,
partendo dalla ipotesi che non vi ha mai in realtà un cangiamento nella essenza del reale, in altri termini che
niente, al fondo, nasce né muore, o anche dalla ipotesi più radicale che non vi
ha mai nelle cose un cangiamento qualitativo, intrinseco, ma il cangiamento si
riduce al mutamento dei rapporti reciproci di posizione e non attinge mai le
cose in se stesse. La tendenza a concepire le cose di questa maniera è cosi naturale
al nostro spirito, che essa si mostra
anche nelle nostre metafore più ordinarie il piacere che dà una metafora è
forse dovuto in a una soddisfazione del profondo bisogno della nostra
intelligenza di identificare, di assimilare e nelle forme più abituali della
lingua: p. e. si dice che la scintilla
si sprigiona dalla selce, e la parola sviluppo o evoluzione serve ad indicare i
cangiamenti ordinati che si producono in un tutto, come se ciò che viene in seguito fosse già
contenuto in ciò che era prima, d'una certa maniera latente, inviluppata.
L'esempio forse più notevole del sofisma a priori dì cui parliamo, lo troviamo
nel primo periodo della filosofia, cioè nei fisici ionici e nei VELINI. Ciò che
questi filosofi si propongono in primo luogo, è la ricerca dell'essenza
immutabile delle cose, del fondo permanente
dell'essere che non attinge il cangiamento. Siccome la tendenza
filosofica che carattorizza questo periodo del pensiero non è messa
sufficientemente in luce dagli espositori più desiderosi di trovare una
connessione logica nella successione dei concetti filosofici che di comprendere
la loro derivazione dalle disposizioni naturali dello spirito umano noi
dobbiamo darne un'esposizione al nostro
punto di vista, esposizione che sembrerà forse troppo diffusa per il soggetto
di questo scritto, ma noi saremo nella necessità di giustificare le
affermazioni che avanzeremo. Noi sappiamo da Aristotile che il principio comune
di tutti i fisici, ammesso da loro come una ptuposizione assiomatica, è che
l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. 11 senso di
questa proposizione non è semplicemente
che la materia non può crearsi dal niente ne diventare niente, ma anche, come
ci spiega lo stesso Aristotile, che le cose non possono cangiare di natura,
cioè che delle cose aventi una natura determinata non possono cangiarsi in
altre di una natura differente, o, per parlare la lingua di questo e di quelli
di cui egli espone le opinioni» I I che gli esseri non possono né nascere né perire, che non vi ha
in realtà né generazione né corruzione. I diversi sistemi dei fisici non sono,
anzitutto, che delle realizzazioni differenti di questo principio generale, a
tutti comune. La maniera più chiara e più coerente di realizzare questo
principio è quella seguita dai fisici che Bitter chiama iììeccanisù\ cioè di
ammettere una pluralità di sostanze
qualitativamente immutabili, e di cui
non cangiano che i reciproci rapporti nello spazio. Dal principio che l'essere
non può cominciare né finire questi fisici ne concludono così, non solo
l'immutabilità della natura o essenza IZZ
HAZZ delle cose, ma la loro assoluta immutabilità qualitativa: e in verità non
vi ha tra le due specie di mutazioni una distinzione precisa, le qualità non
potrebbero nettamente separarsi in due categorie, le une essenziali IZZ, le
altre non essenziali HAZZ. Per altro Timmutabitità delle qualità, così bene che
T immutabilità dell'essenza IZZES HAZZES, era anch'essa compresa nel senso,
necessariamente vago ed ondeggiante, dell'assioma dei fisici^ questa
proposizione a parte l'enunciazione che essa racchiude della persistenza della
materia essendo l'espressione di questa oscura tendenza del nostro spirito che
ci spinge a ricondurre più che possiamo il fenomeno meno familiare, che è il
cangiamento nello stato delle cose, al fenomeno più familiare^ Arlst. Phys
VIU; i^et. m.
V., ecc. vili che è la loro
persistenza nello stesso stato. La fisica meccanista si presenta in una forma
più primitiva perchè conforme alla
credenza spontanea della obbiettività di
tutti i dati della percezione sensibile e al tempo stesso più metafisica per le
ipotesi trascendenti sulle forze motrici in Anassagora e GIRGENTI; negli
atomisti, in una forma più sciene rigorosamente naturalista, che l'ha resa
suscettibile di sopravvivere a tutti gli antichi concetti filosofici, e di
ritrovarsi, la stessa per il fondo, nella scienza. GIRGENTI ammette, come
tutti sanao, quattro sostanze materiali:
la terra, l'acqua, l'aria e il
fuoco^<5he sono le forme più comuni e al tempo stesso più
inarcatamente differenti con cui la materia si presenta ai nostri sensi. Le
particole di queste sostanze elementari, cangiando la loro posizione
rispettiva, congiungendosi e separandosi, danno luogo a tutto «ciò che vi ha di
variabile nell'universo; ma ciascuna sostanza
in sé è sempre la stessa, sempre simile a se stessa. GIRGENTI nel suo
poema sgrida gli stolti che credono che qualche essere possa nuovamente
prodursi e poi cessare di esistere; che ciò che non esiste prima della nascita
e non esisterà più è nato dopo la morte.
Ciò è un'illusione; non vi ha, a parlar propriamente, né nascita né morte; non
vi ha che congiunzione e separazione di sostanze che persistono sempre le stesse, poiché
Tessere non può Versi Mullach. venire
dal niente nò diventare niente. Ciò che gli antichi chiamano alterazione cioè
il cangiamento nelle proprietà sensibili, p. e. da bianco in nero, da caldo in
freddo, da secco ad umido, da molle in duro, e viceversa non è al punto di
vista di GIRGENTI e di tutti i fisici che ammettevano più sostanze
primordiali meno impossibile che ciò
che gli antichi chiamano generazione e corruzione; ciascuna sostanza conserva
sempre le sue proprietà sensibili particolari; come un pittore, con un numero
limitato di colori, convenientemente mescolati.
Versi Mullach: AUud vero tibi dlcaiii: nec ortus est ullius rerum
mortali uni, neo funestae mortis interltus, sed ftola mlxtio mixtorum(iue
secretlo, generati© vero in his rel)us
ab hominlbun vocatur. eo enim. quod non est, fieri neqult ut quidquam orlatur,
ens vero Interire nullo pacto potest; semper enim superabit, nuocumque quls
illud propulerlt. Sed malls utique mos est diffiderò veris ac legltlmis: tu
vero, quemadmodum certa Musae nostrae argumenta jubent, tenete, mente In
praecordlis divisa. At UH, quldciuid ad houiluls slmilitudlnem mixtum In aetheris lucem [pervaserit vel ex
agrestlum anlmantium genere vel fruticum vel volucrium, Id quldem natum putant;
quum vero Illa secernuntur, hoc infaustum fatum Inepte appellant, sed ad
consuetudinem ii>se me accomodo. 8tultl: neque enim pei-splcax tpsls mentis
acìes est, ut qui quod prius non erat Id
gignl existiment aut emorl aliquld et penltus
Intercidere. Neque vlr sapiens
tal la oplnetur, quamdlu vivant mortales, quam
IllI certe vltam vocant, tamdiu Ipsos esse et bona lls malaque evenire,
antequam vero concreti et postquam dissoluti siut, nlhil esse. Arist, Qen et corr., Met., ecc. anche Plut Plac,
Stof. X può riprodurre tutta
la varietà che noi osserviamo nella natura, così questa può produrre tutta
questa varietà mescolando convenientemente
le quattro forme elementari. Ma nella mescolanza ciascuno degli elementi
si conserva inalterato; non vi ha fusione tra un elemento e un altro, ma
semplicemente juxta posizione. Secondo questo punto di vista le proprietà
sensibili del composto risultano dalle proprietà sensibili degli elementi della
stessa maniera in cui il grigio risulta dal bianco e dal nero. Una quistione
che s'impone necessariamente ai fisici
meccanisti è quella dell'origine del movimento. Essi non possono contentarsi di
quest'idea vaga dei fisici unizzanti, loro predecessori, secondo cui il tutto,
cioè il mondo considerato nel suo insieme, avrebbe la proprietà di produrre
spontaneamente movimento, proprietà che noi non osserviamo nelle sue parti,
cioè negli elementi materiali che lo costituiscono. In queste noi non vediamo che Vinersia,
l'incapacità di passare da se stesse dalla quiete al movimento; e sarebbe
contrario al prin. Veisi M. Ai-lst. De Geu, et Corr,; Galeno In Hlppoor.
De fiat, hojfi. Comment. prlin. al
tento. In verità GIRGENTI ammette
un movimento naturale dei corpi pesanti, come la terra, verso Jl basso, e del
fuoco verso l'alto Arlst. De An., Gen, et corr.:
movimento In cui egli sembra vedere un caso della tendenza che ha secondo lui il simile MACCHIO
ad unirsi al suo simile MACCHIO,
Versi M. Ma quand'anche egli
avesse ammesso che (jnesto movimento fosse dovuto a una tendenza inerente agli
elementi stessi e non alle forze motrici di cui diremo, questa opinione isolata
di GIRGENTI, come quelle analoghe che gli altri fisici meccanisti hanno avuto o hanno potuto avere,
non può impedirci di attribuir loro la dottrina dell'Inerzia della materia, che
risulta dairimpresslone generale del
loro sistema. XI cipio dell'immutabilità qualitativa della sostanza l'ammettere
che una sostanza, ordinariamente inerte, possa acquistare in certi casi la
proprietà di mettersi spontaneamente in movimento. Supporre d'altronde che il mondo, considerato come un tutto^abbia una
spontaneità di movimento che manca alle sue parti costitutive, sarebbe sempre
ammettere un cangiamento qualitativo in queste parti, poiché è in esse, al
postutto, che dovrebbe prodursi questo movimento spontaneo della cui facoltà il
tutto vorrebbe supporsi dotato. Ne segue che la produzione del movimento non
può essere attribuita agli elementi
materiali: perchè essi fossero in certi casi capaci di mettersi spontaneamente
in movimento, bisognerebbe, essendo essi qualitativamente immutabili, che il
movimento, e la stessa specie di movimento, si produce in essi costantemente,
cioè d'una maniera continua. Ora, supposta l'inerzia degli elementi materiali,
bisognerà ammettere ovvero che non vi ha mai produzione di nuovo movimento, e che il movimento di un
corpo è sempre dovuto alla spinta o alla trazione di qualche altro corpo,
ovvero^ se vi ha produzione di nuovo movimento, ch'essa è dovuta a delle forze
motrici distinte e separate dagli elementi materiali. GIRGENTI ammette la
seconda di queste due ipotesi: così egli aggiunge ai quattro elementi materiali
due forze motrici del resto concepite
anch'esse come estese nello spazio secondo le concezioni
semi-materialiste antico spiritualismo, cioè 1'amore e l'odio, di cui il primo
è la causa della riunione O COPULA delle sostanze e quindi della produzione
delle cose, e il secondo della separazione THANATOS I LOVE TO HATE YOU delle
sostanze, e quindi della dissoluzione delle cose. La dualità delle forze
motrici TWO DIRECTIONS OF FIT è data a GIRGENTI dal principio stesso
dell'immutabilità qualitativa della sostanza: egli non comprende che una stessa
forza produce alternativamente i due movimenti contrari di attrazione e di
repulsione, di riunione e di separazione, delle particole elementari. Un'altra
quistione, che si presenta naturalmente al punto di vista dei fisici
meccanisti, è quella dell'origine della sensibilità GRICE BANAL TO BIZARRE e
del pensiero. Che la stessa materia da incosciente diventi cosciente e
viceversa è contrario al principio dell'immutabilità qualitativa della
sostanza. Per conseguenza bisogna ammettere o che la materia è sempre e in
tutte le sue parti dotata di sensibilità e di pensiero; ovvero che queste sono
delle proprietà inerenti sia a qualche sostanza materiale particolare, sia ad
una sostanza diversa dalla materia. Noi ritroviamo le tre differenti ipotesi
nei tre diversi sistemi della fisica meccanista. L'ipotesi di GIRGENTI è la
prima, cioè egli ammette che ogni elemento senta e pensi; e il principio
dell'immutabilità della sostanza è da lui spinto sino al punto di non
attribuire a ciascun elemento che una funzione sened intellettuale sempre invariabile ed identica: ciascun elemento non conosce che il
suo simile secondo il principio di
alcuni antichi filosofi Versi M.; Atlst.
Met., Oeìi. et corr., ecc. M. Versi che il simile si conosce dal simile,
e cosi anche noi con la terra conosciamo la terra, col fuoco il fuoco, con
l'amore 1'amore, ecc., la sensibilità ed intelligenza di un tutto essendo la
somma delle sensibilità ed intelligenze elementari. L'ilozoismo di GIRGENTI è
una conferma della esattezza della deduzione, da noi data, della dottrina sulle
forze motrici. Potrebbe sembrare infatti
che l'ipotesi dell'animazione degli elementi materiali avrebbe dovuto
dispensare GIRGENTI dal ricorrere a delle forze motrici distinte dalla materia
stessa. Ma il problema della causa del movimento è per GIRGENTI subordinato al
problema di conciliare la produzione del movimento col principio
dell'immutabilità qualitativa della sostanza: l'ipotesi dell'animazione della
materia non modifica per niente questo fatto dato dall'osservazione che la
materia è ordinariamente inerte, e GIRGENTI non poteva attribuire, in certe
condizioni particolari, a questa materia, quantunque senziente e pensante, la
proprietà di mettersi spontaneamente in movimento, senza contraddire al suo
principio fondamentale, cioè quello della immutabilità della sostanza. La dottrina di Anassagora sugli
elementi materiali è più radicale che quella di GIRGENTI. Egli non crede che un
numero limitato di elementi possano spiegare, per la loro aggregazione e
disgregazione, rinfiuita varietà che si osserva nella na Per cui Arist. dice
che GIRGENTI fa constare rjiìiliiia dagli elemeutl. De An. ecc. 1 ti tura. Secondo lui devono esservi tante
sostanze elementari quante specie vi
hanno di corpi che possono distinguersi per le loro proprietà sensibili: il
ferro, 1'oro, la carne, 1'osso, il sangue, ecc., e in una parola tutti i corpi che Aristotile
chiama omeomeri, cioè tali che la natura delle parti in cui possono dividersi è
identica a quella del tutto, sono per lui delle sostanze tutte primordiali ed
eterne, che nou possono provenire da altre
sostanze ne cangiarsi in altre sostanze. Di più siccome ciascuna delle
specie di sostanze che noi possiamo distinguere contiene in se stessa delle
differenze individuali, Anassagora ammette che vi ha un numero infinito di
elementi di germi, di cui è esattamente simile ad un altro, ma che tutti
differiscono sia per la forma, sia pel colore, sia pel gusto, sia per
qualsivoglia altra proprietà sensibile. Questi elementi, ora congiungendosi ora
separandosi, producono tutti i cangiamenti che noi osserviamo nelle cose, ma
ciascuno si conserva sempre identico a se stesso. Se delle sostanze differenti
sembrano procedere le une dalle altre, è questa un'illusione, la quale si
spiega per il fatto che nessuna sostanza è pura, ma ciascuna Donde 11 nome di
omeomerie con cui vengono designati 1
prlnclpll materiali di Anassagora Zeller. Arlst. De gen. et corr.;
De Coelo, Met,; Lucrezio;
ecc. Fr. Mullach, Arlst. Phys m., Gen. ^t corr., De Coelo, Met. Fr, 3 M. è mescolata a particole di tutte le altre
sostanze. Così Tassimilazione degli alimenti nella nutrizione non avviene
perchè questi si trasformano in ossa, in sangue, in carne, ecc.: queste
sostanze esistevano già preformate negli
alimenti stessi – il calcio del latte; esse non fanno che separarsi dalle altre
sostanze con cui erano mescolate, e riunirsi alle sostanze omologhe del corpo
dell'animale Anassagora non nega meno energicamente di GIRGENTI che qualche
cosa possa cominciare ad esistere o finire di esistere. Quando gli Elioni, egli
dice, parlano di nascere e di morire, essi
fanno uso di termini di cui non dovrebbero servirsi, in realtà niente
nasce e niente muore, ma delle cose già esistenti si riuniscono, e poi si
separano. A parlar propriamente, bisognerebbe dunque chiamare il cominciamento
delle cose una composizione, e la fine una disgregazione. Ciò che è stato detto
della inalterabilità degli elementi di GIRGENTI si applica pure agli elementi
di Anassagora; e a più forte ragione,
poiché a ogni minima differenza qualitativa corrispondendo per quest'ultimo una
sostanza elementare differente, il minimo cangiamento di qualità equivarrebbe
per lui a un cangiamento di essenza. Gli antichi, a cominciare da Aristotile,
fanno derivare la dottrina delle omeomerie dal principio che l'es Fr.;
Arlst iVi//. rv\
Placita Fr. M.3, sere non
può venire dal non essere né ridursi al non essere. Il problema
dell'origine del movimento e quello origine della coscienza di GRICE sono
risoluti da Anassagora, ammettendo che tra le altre sostanze eterne immutabili
ve ne sia una che abbia la proprietà di pensare e di sentire, cioè la Mente, il
Nous. Il concetto dell'inerzia della materia è espresso in lui della maniera
più energica, poiché egli ammette che
all'origine il tutto era in un'immobilità assoluta, che il movimento non
cominciò che per l'azione del Nous sulla materia. TI Nous eh'egli concepisce
come esteso nello spazio, e costituito, come tutte le omeomerie, di parti
omogenee fra di loro e col tutto è partecipato dai diversi esseri animati, in
maggiore o minor quantità, ma da per tutto identico nella qualità, e
produce in essi la sensazione e il
pensiero. Il Nous non cessa mai di agire nella maniera che gli è propria: il
corpo dorme, ma l'anima veglia sempre. Il principio che l'essere non può
cominciare né finire condusse Leucippo e Democrito a un'ia AriHU
PhffS l.I.V^I.2-:^, 3Iet.,
P/acita e, Fr.
MuHach; Arist. Fliys
Fr. M. Arlst.
De nti. Aristotile
De an, l. «lice che Anassa^^ora non fa differenza fra II nous e Tanlma, porche, mentre
per lo stesso Aristotile alla sostanza nous non appartiene che la fnnzlone
superiore tleiraninia, cioè 1'Intel llj?enza, essa Invece per Anassagora è
anche Il principio delle funzioni Inferiori. Placita Diog.,
Alex. ad. Met.
Stab. Ed., Plutarco adv. Col,
S. . terpretazione dei fenomeni fisici, in cui l'inalterabilità assoluta
della sostanza deriva dal concetto stesso della materia. Concepita infatti la materia come
destituita di qualità sensibili e perfettamente solida cioè di una densità e
durezza assoluta non è possibile d'immaginare in essa altro cangiamento che
nella posizione reciproca delle sue parti, e noi abbiamo così le condizioni
generali di una fisica costruita sullo stesso tipo che quelle di GIRGENTI e di
Anassagora. Ciò che caratterizza in
primo luogo il sistema degli atomisti è la dottrina della subbiettività del
colore e delle altre qualità sensibili le qualità seconciarie dei moderni.
Democrito prova questa dottrina per la relatività della percezione sensibile;
ma essa può direttamente dedursi dal principio, che è la presupposizione GRICE
COLLINGWOOD dei fisici meccanisti, della immutabilità qualitativa
della sostanza. Se in effetto queste qualità dei corpi fossero reali,
esse sarebbero invariabili; ma ciò è contrario all'esperienza. Noi vediamo
infatti che una cosa, conservando la sua identità materiale, può nondimeno
cangiare di colore, e dei corpi, composti di elementi eterogenei, presentano
all'occhio una massa perfettamente omogenea, ciò che non avverrebbe, se
ciascuno di questi elementi diversi
avesse il suo colore proprio ed invariabile. Anassagora e GIRGENTI, dotando
ciascuno dei loro elementi di Teofrasto De scnsn ecc.. Arlst. Geiicrat, et corr, LUCREZIO
proprietà sensibili determinate, si trovavano ad ogni momento in contraddizione
con la testimonianza dei sensi: di là la loro diffidenza verso la percezione
sensibile; di là ancora delle proposizioni paradossastiche come quella di
Anassagora, così celebre presso gli antichi, che la neve è oscura poiché
l'acqua di cui è formata è oscura). L'ipotesi della solidità assoluta della
materia nei suoi elementi ultimi, insieme all'ipotesi del vuoto, sono destinate
a conciliare col principio dell'immutabilità della sostanza i fenomeni del
cangiamento nella densità dei corpi, e so\a-atutto nel loro stato fisico cioè il cangiamento da solido in
liquido, da liquido in gazoso, e viceversa. È il secondo di questi fenomeni che
è particolarmente in contraddizione col principio della immutabilità della
sostanza il qual priniàpio non è, come abbiamo detto, che una suo-ffestione
delle nostre esperienze più familiari. Il caniriamento nello stato fisico dei
corpi è un fénomeno relativamente
straordinario; il fenomeno ordinario, familiare, è la persistenza in
quello stato in cui si trovano. Così Leucippo e Democrito ammettono la solidità
come lo stato invariabile della materia in se stessa, e il vuoto interposto tra
le particole solide come la causa della diminuzione di densità che accompagna
la trasformazione dei corpi solidi in liquidi e di questi in gazosi. Ma am.
Y. Empod. V. Miinach, Sesto lìfath. Sesto Pyrrh., CICERONE Acad, ai,
Galeno De simpìic, medicamente, ecc. I fisici anteriori aveano jxlfi ricondotto 11 cangiamento di stato fisico
alla rarefazione e condensazione. messa una volta la solidità, come carattere
comune di tutti gli elementi della materia, e il vuoto, si troA^ava più
coerente di attribuire a questi elementi, non un certo grado di densità, ma una densità assoluta cioè di concepirli
come resistenti a qualsiasi compressione, e di spiegare per il vuoto tutte le
differenze di densità che si osservano nei corpi, tanto più che il cangiamento
di densità della materia è al postutto un fenomeno meno familiare, e quindi
meno intelligibile, che la sua persistenza nello stesso grado di densità. Alla
densità assoluta degli elementi si aggiunge la durezza assoluta, cioè la
resistenza a qualsiasi sforzo tendente a cangiarne la figura; e ciò sia perchè
la durezza sembra legata alla densità, Arlst. Pliys. espone gli argomenti degli
Atomisti per provare li vuoto, 1 quali si riducono in sostanza a questi tre: il
movimento non sarebbe possibile senza il vuoto, perchè uno spazio pieno non
potrebbe dar posto al corpo clie si muove. la
compressione, la condensazione dei oorpi, per cui uno stesso corpo può
occupare uno spazio minoro di prima, suppone il vuoto. un corpo può introdursi
nello spazio occupato da un altro corpo, in modo che i due corpi insieme
occupino lo stesso spazio cne prima era occupato da un solo di essi. Di questi
argomenti 11 2. corrisponde al motivo che noi abbiamo assegnato all'origine
della dottrina: gli altri due per essere probanti devono presupporre
l'Impossibilità che una materia continua occupi uno spazio ora maggiore e ora
minore, dilatandosi e condensandosi, vale a diro prendere come concesso ciò che
era appunto in quistlono tra i partigiani della continultii della materia e
quelli del vuoto. Il primo argomento deve presupporre anche che tutta la
materia sia solida, ipotesi la quale
alla sua volta presuppone il vuoto. Sicché noi dobbiamo ammettere, come vero
scopo della dottrina, quello di spiegare la rarefazione e la condensazione. Teofrasto
De sensn sia per una ragione di coerenza nella spiegazione dei fenomeni.
Infatti la facilità a cangiare di figura dei corpi non solidi spiegandosi per
la mobilità degli elementi solidi separati che li costituiscono, il cangiamento di figura di un corpo solido
p. e. di di un corpo elastico deve spiegarsi pure, se si vuol essere coerenti,
per il movimento di particole divise e separate fra di loro, e quindi i
corpuscoli solidi, le particole ultime in cui la materia è divisa, ciascuna
delle quali è necessariamente continua ed indivisa indivisa, non indivisibile,
perchè non abbiamo ancora dedotto il concetto deir atomo non possono concepirsi come
suscettibili di un cangiamento di figura. Un'altra conseguenza che Leucippo e
Democrito tirano dal principio dell'immutabilità della sostanza è il rigetto
della dottrina delFunità della materia, della convertibilità reciproca di tutte
le sostanze ammessa dai più antichi fisici. Questa dottrina, come lo prova il
fatto ch'essa fu universalmente abbracciata
dai primi fisici, e che essa prevalse in ogni tempo nella filosofia, era
l'interpretazione più ovvia dei dati deirosservazione, la quale mostra che le
sostanze più marcatamente differenti i quattro elementi degli antichi erano
convertibili T una nell'altra: ma la dottrina ammessa invece da Leucippo e
Democrito, d'una pluralità di sostanze primordiali, di cui ciascuna conserva
eternamente la sua propria natura e le
proprietà particolari che la distinguono, era più conforme al principio a
priori che gli esseri non possono ne nascere nò perire. Ora una materia di una
solidità assoluta cioè di una densità e di una durezza assolute, in tutte le
sue parti, e destituita di colore e di tutte le altre proprietà che non siano
tangibili, è una materia assolutamente omogenea: tra le sue parti non potrebbero concepirsi altre differenze che di
figura o di grandezza. Così è per la figura e per la grandezza che secondo
Leucippo e Democrito gli elementi materiali si distinguono fra di loro. Si
potrebbe forse supporre ch'essi avrebbero potuto distinguere gli elementi di
diversa natura per delle energie o attività differenti: ma anzitutto per
Leucippo e Democrito, come per gli altri fisici
meccanisti, la materia è, come diremo, inerte, non è attiva; e poi non
si comprenderebbe come un sustrato perfettamente omogeneo in tutte le parti potesse
manifestare nelle sue parti distinte delle attività insite differenti. Così, le
sostanze differenti distinguendosi per la grandezza e la figura degli elementi
costitutivi, la inalterabilità di queste sostanze, la inconvertibilità delle
une nelle altre, suppone che gli
elementi costitutivi conservino sempre la stessa grandezza e la stessa figura,
cioè ch'essi siano indivisibili. Allora il concetto A^Waionio si trova costituito.
Il concetto dell'inerzia della materia a Leucippo e Democrito risulta d'una
maniera più necessa Arist. Met ; Gen.
et corr,; Vili. De Coelo Phi/s.
ecc. Arlst. De Coelo ria ancora che ad Anassagora e a GIRGENTI;
poiché la materia allo stato solido sembra manifestarci la sua inerzia d'una
maniera più evidente che ad un altro stato fisico. Ma gli atomisti intendono
mantenersi in un terreno rigorosamente naturalista, e non ricorrono a delle
ipotesi trascendenti per ispiegare 1'origine del movimento: essi ammettono
perciò che il movimento non ha origine, che non vi ha movimento che sia spontaneo, e che il movimento dei corpi è
sempre prodotto dall'urto di altri corpi. Come essi si rappresentano la materia
universale sul tipo dei corpi solidi, così essi elevano a tipo universale del
modo di produzione del movimento l'azione meccanica che noi osserviamo tra i
corpi solidi. Arisi. De Gen. et
corr, VITI, Fìac,
Stob. Ed,; SIiiipl. De
Coelo; Alex, ad
Met., CICERONE De fato. Noi nou
possiamo ammettere con Zeller, Lnnge ad altri espo che Leuclppo e Democrito
abbiano spiegato l'origine del movimento attribuendo agli atomi 11 peso alla maniera del GIARDINO, cioè una tendenza
naturale al movimento verso 11 basso. Ciò è esplicitamente contraddetto da
molti autori antichi, quali Alessandro, Ps. Plu-, Stobeo, CICERONE nel luoghi
citati nell'ultima nota, che mettono In
opposizione sotto questo rapporto la dottrina di Democrito e quella del
GIARDINO, e queste testimonianze sono tanto più attendibili, che vi era più
motivo d'ingannarsi, confondendo a torto le due dottrine anziché distinguendole
a torto. Inoltre questa interpretazione è implicitamente contraddetta dallo
stesso Aristotile, il quale dice che Leucippo e
Democrito non hanno cercato la causa del movimento Met., e non hanno
accordato agli atomi alcun movimento naturale De Coelo. Se malgrado ciò Zeller attribuisce agli antichi atomisti la
dottrina degli atomisti posteriori, è perchè egli assegna, come scopo precipuo,
alla fisica nieccanista quello di spiegare il divenire, e perciò ritiene che
una causa prima del movimento sia un elemento
essenziale di una tale fìsica. Ma l'oggetto principale del meccanisti,
come degli altri fisici, era la ricerca della essenza Immutabile delle cose,
noi dobbiamo perciò considerare Iil In quanto al problema dell'origine della
coscienza DI GRICE, si crederà forse che gli atomisti Thanno abbandonato come
affatto insolubile secondo i loro principii; o almeno che essi non hanno
potuto, in ogni caso, darne una soluzione che si avvicinasse a quella della
dottrina animista. Tuttavia questo che sembra naturale e necessario al punto di
vista del materialismo moderno, non era tale al punto di vista del materialismo
antico: gli atomisti, come quasi tutti gli altri materialisti antichi,
accettavano la distinzione comune tra anima e corpo quantunque, conformemente
per altro alle concezioni dell'animismo
primitivo, r anima fosse per loro anch'essa materiale. Così
basta di dare all'anima un sustrato materiale specificamente distinto da quello
delle altre sostanze ciò che era assai conforme ai principii della fisica
ineccanista ^v avvicinarsi al punto di vista del dualismo spiritualista. Noi
abbiamo visto che la distinzione del Nous dalle sostanze materiati come
essenziale alla loro fisica la dottrina
dell'inerzia della materia, ma non quella di una causa prima del movimento.
Dall'altra parte, noi non possiamo nemmeno, a difetto di testimonianze precise,
affermare col Lewes che Democrito abbia spiegato 11 peso stesso per
l'impulsione quantunque Aristotile, /?e
Coelo . Vin. , sembri alludere a
questa dottrina, la quale potrebbe convenire agli atomisti meglio che a qualsiasi altro degli antichi filosofi.
Sembra più verisimile che Leuclppo e Democrito, con tutti gli altri fisici,
considerassero la caduta dei gravi cioè dei corpi aventi un certo grado di
densità, perché pare che gli antichi atomisti attribuissero al corpi meno
densi, non una tendenza a cadere, ma una tendenza a portarsi in alto. Aristotile
De Coelo come un fatto abbastanza naturale ed
intelligibile, in ragione della sua famUiarità, del quale non occorreva
di dare una spiegazione IMPLICATURA. era anzitutto in Assagora una conseguenza
della dottrina delle omeomerie. Democrito non distingue l'anima da tutte le
sostanze corporee; egli la identifica ad una sostanza particolare, il calore,
in modo che il calore e l'anima sembrano per lui due concetti
assolutamente coestensivi, due termini
perfettamente sinonimi, il calore essendo per se 8teg;so anima, come l'anima
calore. Cosi egli sembra fare della coscienza un attributo inseparabilmente
congiunto al calore, e perciò dÌLfonde l'anima in tutto l'universo, dal quale
gli esseri animati l'assorbono, assor})endo il calore. Questa dottrina di Democrito,
data la sua spiegazione perfettamente naturalista del mondo, non si comprende che come uno
sforzo por rendere conto dell'origine della coscienza DI GRICE, conformemente
al principio della fisica meccanista cho TesscTO non può né nascere ne perire.
Potrebbe sembrare che la concezione meccanista essendo, come abbiamo notato,
l'applicazione più chiara e più coerente del principio comune dei fisici che
l'essere nou può A^enire dal non essere
né ridursi al non essere, noi dovremmo trovare questa concezione al punto di
partenza della fisica, e non quella che vi troviamo in effetto, di una so Arlst.
De An,,
De respirar, oUr© I .
citati nen'ultlma nota,
Plut. P/ac,
\. I. vn., Stob. Ed, (fililo cantra Jnlianttm, CICERONE Nat. Deor., ecc. E a questa dottrina
suiranima dearll antichi atomisti che si riattacca l'Indicazione del Ps. Plut.
Plac. che, secondo Lencippo, la morte convlen? al corpo, nou alTanlma. stanza
primordiale unica, e della oonvertibilità reciproca di tutti i corpi. Ma noi
abbiamo osservato che una fisica meci^anista si trova necessariamente in
contraddizione con la testimonianza dei sensi, e che, nella sua forma più
sviluppata, questa fisica arriva a un sistema che nega la realtà dei dati immediati della percezione
sensibile. Inoltre una pluralità di sostanzo primordiali inconvertibili l'una
nell'altra è un'idea contraria alle prime apparenze, ISl potrebbe tuttavia
ammetterò col llltter che la fisica ììieccanista abbia avuto anche tra i più
antichi fisici 11 suo rappresentante, cioè Anassimandro. E ciò che sembra
risultare da due testi di Aristotile in cui la dottrini d'Anassimandro è assimilata a (juella del
fisici meccanlsti. Nell'uno di <iuestl
testi Phys Aristotile divide tutti i fisici in due catej^orie, di cui
f?ll uni ammettono una sostanza primordiale unica facendone derivare le altre
cose per via di condensazione e di rarefazione, e gli altri fanno separare le
contrarietà contenute nell'uno, cioè nell'indistinto primitivo, ed è in questa
seconda categoria ch'egli compi'ende Anassimandro, insieme a GIRGENTI e ad
Anassag«»ra. Nell'altro testo Met. attribuisce ad Anassimandro, al tempo stesso
che a GIRGENTI e ad Anassaj^ora, l'Idea di una mescolanza primitiva, e assimila
la sua dottrina a (juclla dello stesso AnassajJTora e di Democrito di uno stato
originarlo del mondo in cui tutte cose
erano insieme cioè in cui tutto il reale
preesisteva allo stato di attualità, e non semplicemente di potenza come
nella materia dello stosso Aristotile.
Se, seguendo questo indicazioni a cui si potrebbe agglun'^ere quella di
Teofrasto ap, Simpi. in Plnjs. fot., che assimila la dottrina di Anassagora
sugli elementi materiali a (luella di Anassimandro, per non parlare di
Simplicio stesso In Phi/s fol., e di
altri testimoni posteriori, si fa di
Anassimandro un meccanista, bisognerebbe attribuirgli una fìsica analoga a
(luella che Parmenide di VELIA espone nel suo poema, cioè la dottrina di due
elementi, l'uno caldo e al tempo stesso tenue, luminoso, mobile, l'altro freddo
e al tempo stesso denso, oscuro, inerte. È ciò che risulterebbe combinando
l'indicazione di Aristotile di una separazione delle contrarietà, con
un'altra indicazione di Plutarco ap.
Eus. Praep. evang., che dice che alla
formazione alle inferenze risultanti dalle osservazioni più ovvie: queste
mostravano che le forme più marcatamente differenti della materia, cioè i tre
stati fisici dei corpi, a cui si aggiunge il fuoco come una quarta forma non
meno spiccatamente distinta, potevano procedere le une dalle altre; se ne
conclude che le forme meno differenti
erano anch'esse convertibili, e che vi era una materia unica che poteva del
mondo avvenne una separazione del grerrae, YÓ^VXO'^, del caldo e del freddo, e
un] altra di Stobeo Ec/. , secondò cui il cielo è formato dalla mescolanza del caldo e del freddo. Una tale
Interpretazione spiejjherebbe anche 11 fatto altrimenti difficile a
coraprendere, che Parmenede di VELIA dà questa dottrina, che egli non ammette,
come Vopinione degli nomini. Ma questa interpretazione, e in generale qualsiasi
interpretazione wcccauisti della fisica di Anassimandro, ha contro di so le
testimonianze della più parte degli autori posteriori, 1 quali gli
attribuiscono invece la dottrina di una sostanza primordiale unica diversa dai
quattro elementi. Sicché noi non possiamo niente affermare di sicuro sulla vera dottrina di
Anassimandro, tanto più che queste testimonianze, quand'anche dovessimo
seguirle, non c'insegnano niente sullo spirito della fìsica di Anassimandro,
poiché esse non eindicano per qual processo, secondo questo filosofo, 11
multiplo sarebbe uscito dall'uno l'indicazione che le diverse sostanze derivano
dalla sostanza primordiale per rarefazione
e condensazione essendo esplicitamente contradetta da Aristotile.
L'interpretazIoMe del Zeller secondo cui Anassimandro si sarebbe contentato
dell'idea vaga che la sostanza omogenea primitiva si divise in una moltlplicltà
di sostanze differenti, oltre che fa discendere a un livello troppo basso 11
valore filosofico di Anassimandro, è obbligata a torturare i testi indicati di
Aristotile, e non rende conto
dell*lncontestabIle analogia che,
secondo ciuesti testi, deve ammettersi tra la fisica di Anassimandro e
quella meccanisti. Si potrebbe forse immaginare un'interpretazione che mettesse
di accordo le indicazioni che assimilano Anassimandro ai fisici meccanisti con
quelle secondo cui egli avrebbe ammesso una sostanza unica indeterminata Diog. Laert.
P/ac, e principalmente Teofrasto
e, che sembra attribuirgli la dottrina di una sostanza ///prendere tutte le
ferme. Ma ammettendo V unità della materia e la convertibilità reciproca di
tutte sostanze immediamente date dall'osservazione^ i primi fisici non
rinunzia^ano perciò al principio, considerato come evidente perse stesso, che
l'essere non può nascere ne perire, e, quindi, che delle cose aventi una natura determinata non possono cangiarsi
in altre cose di una natura differente. Quando essi dicono che tutto è aria o
fuoco o acqua, il loro pensiero non è semplicemente che vi ha una materia
unica, e che perciò la sostanza che costituisce le cose diverse dall'aria o dal
fuoco o dall'acqua, nell'eterna circolazione dei suoi stati ha già attraversato
quello di aria o di fuoco o di acqua. definita secondo la specie e secondo la
grandezza: si potrebbe, cioè, attribuirgli l'idea di TELESIO Teleslo della
materia indeterminata, e del caldo e del freddo, concepiti come due entità
sussistenti per se stesse, che si dividono il dominio di questa materia.
Infatti Aristotile Phys. parla dell'opinione secondo la quale Vinflnito non può
avere alcuna delle proprietà contrarie per cui 1 differenti corpi si distinguono fra di loro,
perché una sostanza infinita avente certe proprietà determinate renderebbe
impossibile l'esistenza di altre sostanze aventi delle proprietà opposte. Se
riferiamo quest'Indicazione ad Anassimandro, come fanno i commentatori
d'Aristotile, sembrerebbe risultarne che l'infinito di Anassimandro supposto
ch'egH abbia ammesso un principio materiale unico resta nel suo stato
d'indeterminazione, anche dopo che le sostanze particolari ne sono state
formate. La materia di Anassimandro sarebbe dunque, per usare una espressione
di Rosmini, un'indeterminato reale, o, in altri termini un'astrazione
realizzata e in effetto Aristotile, De
gen. et corr., per distinguere
questa materia senza alcuna delle
proprietà contrarle dalla materia qual essa è nella sua propria dottrina, dice
che la seconda non é separabile come la prima, assegnando così tra le due
dottrine lo stesso carattere differenziale per cui egli suole distinguere 1
suoi propri concetti da quelli di Platone. Ora la realizzazione dell'astratto
materia supporrebbe necessariamente la
realiz Ciò che permane nelle
trasformazioni continue della materia non è soltanto, per essi, il
sustrato comune indeterminato delle diverse sostanze materiali: in questo caso,
non si avrebbe ragione di elcA^are una
qualunque delle forme che prende alternativamente la materia a base ed elemento
di tutte le altre: non vi sarebbe, in ultima analisi, vera differenza tra le
varie opinioni dei fisici unizzanti: ben più tra queste opinioni e quella di Aristotile non vi
sarebbe alcuna opposizione reale, e la polemica di questo filosofo contro i
fisici che, come lui, ammettevano l'unità della materia, si ridurrebbe a una
semplice logomachia. Xoi non dobbiamo dunque interpretare la dottrina dei
fisici unizzanti semplicemente nel senso che, al punto di partenza e al punto
di arrivo della evoluzioije del mondo,
tutto ///, e nuovamente sarà^aria
o fuoco o acqua: noi dobbiamo intendere inA^ece che tutto attualmente è aria o
fuoco o acqua. znzione di altri astratti. cioè delle forme che differenziano la
materia; e noi dovremmo ({ulndl comprendere le contrarietà della cui
separazione è qnlstlone nel luo^o Indicato della Fisica, nel senso più rigoroso
della parola contrarietà, che indica, non le cose aventi le proprietà contrarle, ma le stesse
proprietà contrarle. Queste contrarietà si ridurrebbero, per Anasslraando. alla
contrarietà fondamentale del caldo e del freddo, che Anassimandro avrebbe
trattato come defrli esseri reali separabili, per usare l'espressione abituale
di Aristotile, rappresentandoseli come iugenerabill e imperiblll. e sempre gli
stessi e nella stessa quantità, e determinanti
per il semplice passaggio da un luogo ad un altro tutti 1 cangiamenti
del mondo materiale. Di là la proposizione, attribuitagli da Diogene Laort.,
che l'universo cangia continuamente nelle sue parti, ma 11 tutto resta
immutabile. Sarebbe senza profitto per il nostro argomento sviluppare più
largamente un'ipotesi dalla «luale, non potendo venire appoggiata su dati
storici precisi, non si potrebbe tirare
alcuna conseguenza.che la sostanza primitiva, di cui tutte le cose sono state
fatte, persiste ancora, al di sotto delle sue nuove parvenze, nelle cose
derivate. Questo mondo dice Eraclito, è stato, è e sarà sempre un fuoco
immortale; egli non dice soltanto: questo mondo è stato fuoco, e tornerà ad
essere fuoco. Similmente Diogene d'\pollonia non dice semplicemente che
tutto viene dallo stesso Paria e si
risolve nello stesso, ma ancora che tutto è lo stesso. E i testimoni più
autorevoli, come Aristotile, attribuiscono a tutti i fisici che ammettono un
principio materiale unico la dottrina che una sostanza determinata Taria o il
fuoco o Tacqua, ecc. è la materia universale, la sostanza o la natura di tutte
le cose, il sustrato di tutti i fenomeni, Tessere unico che Fr.. Mullach.
/'/. Mullacli: la prova che tutto è lo stesso è che altrimenti le cose
non potrebbero venire l'ima dall'altra Fr, né mescolarsi nò agire l'una
sull'altra secondo il principio che solo il simile può agire sul simile. Met Gcn,
et corni. Met, Vili De Coe/o Phys.
(Jeii, et corr.
Arist. Met.: Plurimi eorum qui
primo pliilosopbati sunt, solas illas caiisas existimarunt esse principia .
«juae in materiae specie sunt. Ex quo
enim omnia entia sunt. et ex (ino primo fiunt. et ad (^uod ultimum
corrumpuntur, substantia qui<Iem permanente, mutata vero passionibus, hoc
elementum et hoc omnium entium osse principium aiunt: et oh hoc nihil fieri ne«iue corrumpi opinantur.
tanquam huiuscemodi natura somper conservata Oportet enim aliquam naturam aut
unam aut plures esse, e quibus caetera
fiunt, illa conservata. Pluralitatem tamen et speciem huius principii non
eandem omnes dicunt, sed Thales aquam ait esse etc. V. a. Mef.,
Phfjs. ecc.. Mrf. Phijs, Vf'f. S,
Phys. è al fondo di tutti gli esseri. Questi fisici pensano adunque che
l'elemento primitivo di cui tutte le cose sono fatte, si mantiene identico a se
stesso, attraverso tutti i mutamenti del mondo
materiale; che gli esseri derivati passano, ma la sostanza primordiale
resta, ed è incorruttibile ed eterna; e che perciò, a parlar propriamente, niente
nasce e niente perisce, il fuoco o l'acqua o l'aria che costituisce l'essenza
di tutte le cose, non cessando mai di essere quello che è. Di là sembrerebbe
seguirne che di tutti gli stati Met.
Gen. et corr. Diog. Fì\ , Atqne hoc
ipsum est corpus aeternum et immortale:
caetera partim fmnt, partim deficiunt Arist. De Coelo: Quidam autem, caetera
quidem omnia fieri, fluireque dicunt, ac niliil prorsus stabile esse; unum
autem quid solum permanere, ex quo haec universa transfigurari sint apta: quod
quidem et alii complures et Heraclitus Ephesins dicero velie videntur. Arist.
3Iet, e.
Arist. Met.: Item natura dicitur,
ex quo primo inordinato exsistente et
immobile ex sua potontia est aut fitaliquid eorum (juae natura sunt, ut statuae
vasorumque aeneorum aes natura dicitur, ligneorum vero lignum: similiter autem
et de ceteris. Ex bis enim unumquodque est, prima materia salva. Hoc enim modo
etiam eorum quae natura sunt elementa dicunt esse naturami quidam ignem, quidam
terram, quidam aerem, quidam aquam, quidam aliud tale dicentes, et quidam
aliiiua horum, quidam vero baco omnia. Arist
Bhijs.: Jam vero quibus dam videtur natura et essentia eorum quae natura
Constant, esse id quod primum cuique rei inest, informe per se: ut lectirae
natura est lignum, statuae vero aes. Idcirco alii terram, alii ignem, alii
aèrem, alii aquam, alii nonnulla ex bis, alii baec bomnia, inquiunt esse rerum
naturam. Quod
enim quisque existimavit esse tale, sive unum sive multa, boc et tot inquiunt
esse universam essentiam, reliqua autem omnia esse borum affectiones et habitus
et dispositiones. Et borum quidem quodvis esse sempiternum non enim esse ipsis
mutationem ex se ipsis; cetera vero fieri et interire infinities. Met,
Pys, Gen. et. corr. i.hI.2S, che
noi vediamo attraversare successivamente
alla materia, secondo questi fisici, uno solo è reale, e gli altri non sono che
apparenti; che le sostanze materiali non sono da noi percepite. secondo la loro
realtà, all'infuori dell'elemento primitivo; che quando p. e. l'aria di
Anassimene si è cangiata in acqua o in terra, è a noi che pare acqua o terra,
mentre in realtà non xi ha ancora che l'aria primitiva. Tale è il senso in cui LUCREZIO comprende queste dottrine; così
egli dice contro Eraclito: Dicere porro ignem res omneis esse, neque ni lavi
Rem veram in numero rerum constare nisi ignem, Quod facit Ilice' idem, perdei
ir iim esse videtur. Nam contra sensiis ab sensibiis ipse repugnat, Et
lahefactai eos, linde omnia eredita pendent; Unde ìiic cognitus est ipsi, qiiem
nominai ignem. Credit enim sensiis ignem
cognoscere vere; Caetera non credit, quae nilo darà miniis sunt. Ma in verità
né Eraclito nò gli altri fisici unizzanti pensavano ridurre a semplici
apparenze illusorie le forme in cui l'elemento primitivo si trasmuta,
quantunque sia questo il risultato a cui essi sarebbero stati condotti se
avessero sviluppato rigorosamente le conseguenze contenute nelle loro
affermazioni. Dal princij3Ìo a priori a priori in quanto era non una
conclusione, ma un'anticipazione
dell'e I. V. 1
Hqq. y I I sperienza che Tessere non può nascere né
perire, e che una cosa perciò non può cangiarsi in un'altra di una natura
differente, essi concludevano che il fuoco o l'aria primitiva non poteva
cessare di essere lo stesso fuoco o la stessa aria; l'esperienza quale essi
l'interpretavano mostra, al contrario,
che T elemento primitivo si trasforma in altre sostanze di cui tutte le
proprietà erano essenzialmente differenti dalle sue: essi non sacrificavano il
fatto al principio, ma nemmeno il principio al fatto; e ciò che vi ha di
caratteristico nelle loro vaghe e oscure concezioni è la coesistenza nel loro
spirito di queste due idee incompatibili, la forza con cui l'una e l'altra
s'imponevano non permettendo loro di
rinunziare all'una o alFaltra, ne di vedere (;he vi era tra di esse una
contraddizione insolubile. L'idea che nelle trasformazioni della materia la
sostanza si conservava nondimeno identica a se stessa, dove condurre i fisici
unizzanti a una maniera di vedere analoga a quella dei fisici meccanìstì\ che non ammettevano altro cangiamento nelle
cose che nei rapporti di spazio. Essi
credevano che gli stati differenti della sostanza unica erano dovuti ai irradi
differenti della sua condensazione, Naturai monto Arlstotllo non ha manoato di
notare II carattere eontradittorio (lolla dottrina di iiuosti flsiol De Oeiì,
et COrvA.ll, V. Per Anasslmene: Plut. ap. Kum. Vraep.
Erang. I. H, Plut./)e Prim. Friy,; Slmpllo. ///
/V//A9. fol., Ippol. Ref, haeres.,.(OrlgenlH Phllosophoumona. Per Dioj?ene
d'Apollonia: Dloj?. Laert. Per Erael.: Diog. Laert. H e «ejfjr.. Plut. Placita «, Siuipl.
/// Phìjs 0 a,:nO a. Per tutti: Arist. Mct,, P////S, e siccome la condensazione e la
rarefazione non sono che un avvicinamento e un allontanamento dello particole
fra di loro, il movimento della materia spiegava secondo essi tutti i cangiamenti che si
osservano nella natura. Così è alla
congiunzione e alla disgiunzione delle parti della sostanza elementare che essi
riconducono, come i fisici meccanisti, tutti i mutamenti apparenti di sostanza
rv,, De Gerì, et corr. Gal. in Hippocr. De nat»
hom,, ecc. Avvertiamo che per la
esatta comprensione del concetti dei fisici unizzanti bisogna tener presente
che essi non ammettevano il vuoto, e perciò nemmeno ciò che noi diclamo la costituzione
molecolare della materia, cioè la sua divisione In particelo ultime separate le
une dalle altre e conservanti sempre In se stesse la stessa densità. Ippol.
Ref, haeres e; Simplic. in Phi/s, fol. a
per Anassimene; Plut. ap. Eus. Praep. erang. per Dlog. d'Apoli.; per tutti: Arlst. De gen. et
corr, Phys, VUI. Arlst. De Coelo: quelli che ammettono 11 fuoco come corpo primitivo, e lo distinguono per la
tenuità delle particole cioè Eracllte e 1 fisici che professano una dottrina
analoga, in opposizione ai platonici che lo distinguono per la figura, da esso
compostosi C TOtJTOD aUVTlOsaévO'J, cioè dalla integrazione, dalla
confluenza delle sue particole dicono prodursi le altre cose come per
l'ammassamento di un pulviscolo xaOòCTUSp
àv £1 OL>[XCpUaa)[X£V0D (};y)YlXaTO(;) anche Met
Phgs,, ecc: È questo processo meccanico nella produzione delle sostanze
che fa dire a LUCREZIO contro Eraclito: Versi Nam cur tam variae res possent
esse, requiro. Ex uno si sunt Igni puroque creatae. Nihil prodesset enim
calidum denserier ignem, Nec rarefìeri, si partes ignis eandem Naturam, i^uam
totus liabet super Ignis, haberent.
Acrior ardor enim conductis partibus esset: Languidior porro disjectis disque
supatls. Amplius hoc fieri nihil est quod posse rearis Tallbus in causis; nedum
varlantia rerum Tanta queat densis rarlsqne ex ignibus esse. f i i r 1 (apparenti perchè, come abbiamo
detto, niente nasce al fondo e niente perisce; e Aristotile fa consistere la
differenza fra di essi e gli Eleati, i quali negano qualsiasi specie di
cangiamento, in ciò che i primi, d'accordo coi secondi per ogni altro
cangiamento, non negano però il movimento, il cangiamento nello «pazio. Le
forme e le differenze del multiplo non sono, secondo i fisici unizzanti, che
gradì differenti di densità e di rarità, di concentrazione e di dilatazione
della materia universale: divenuta più densa o più rara essa pare differente;
ogni differenza tra le cose non è al fondo che quantitativa, ridiicendosi alla
maggiore o minor quantità di materia che occupa uno spazio dato. Da queste
indicazioni degli antichi testimoni noi possiamo concluderne che, secondo
questa scuola di fisici,la rarefazione e
la condensazione della sostanza universale non è semplicemente la causa dei
suoi cangiamenti di stato e delle differenze qualitative che si manifestano in
questi stati differenti; ma ancora che questi stati differenti e le qualità
differenti che li caratterizzano non consistono, in se stessi, che nei diversi
gradi di densità e di rarità, di concentramento e di diffusione di una sostanza
qualitativamente immutabile, o piuttosto i cui cangiamenti qualitativi non sono
nella loro essenza Met, Arlst. Fhus* Ippol. TUDXVO'JjJLSVOV (rarla, secondo Anasslineue yÒ(.Q
De Coelo UI.V.. che cangiamenti
quantitativi e puramente spaziali, qualche cosa come una concentrazione e una
diffusione di certe qualità fondamentali che la sostanza non perde mai. Per
quanto tali idee siano oscure, anzi
affatto inconcepibili, esse si presentavano naturalmente al punto di vista dei
fisici unizzanti, i quali per conciliare il principio preteso assiomatico
deirimmiitabilità della sostanza con le trasmutazioni che presenta
l'esperienza, non avevano altro mezzo che di ridurre tutti i cangiamenti della
natura al cangiamento di posizione nello spazio, come poi fecero, con ideo più chiare e coerenti, i fisici meccanisti.
^-i Ciò che precede è negato recisamente da Zeller, almeno per Eraclito.
Non sC deve, egli dice, avanzare con
alcuni autori tra i quali egli ha il torto di non comprendere Aristotile: De
Coelo., in cui estende a quelli che ammettono il fuoco come elemento, il
rimprovero che per i fisici nnizzanti la diiferenzn tra le sostanze è soltanto
quantitativa e quindi un che di
puramente relativo che secondo Eraclito, le sostanze secondarie procedono dal
fuoco e si risolvono in fuoco per via di condensazione e di dilatazione. Senza
dubbio quando il fuoco si cangia in umidità e l'umidità in terra, vi ha
condensazione, come, nel caso contrario, vi ha dilatazione. Nondimeno, nel
pensiero di Eraclito, questa condensazione e questa dilatazione non sono la causa, ma la conseguenza del
cangiamento di sostanza. In etfetto, secondo lui, non è il ravvicinamento delle
particole del fuoco che fa passare l'elemento igneo allo stato umido, e
l'elemento umido allo stato solido o terroso; ma se un elemento meno denso
diviene un elemento più denso, è perchè il fuoco si è tiasformato in umidità, e
l'umidità in terra. Così pure perchè il
fuoco rinasca dalle altre sostanze, non basta che gli elementi primitivi
di queste sostanze s'allontanino gli uni dagli altri: bisogna una nuova
trasformazione, un cangiamento qualitativo tanto delle parti quanto dei tutto.
Certamente un cangiamento qualitativo è necessario, ma esso non é per Eraclito,
come per gì altri fisici della stessa scuola, che una conaeguenza, nel
senso lo Il principio deli-unità e immutabilità della sostanza è
sostenuto della maniera più radicale da Eraclito, il quale spinge questo
principio sino alla conseguenza estrema della identUà dei contrari. Eraclito
riconduce tutte le differenze dell'essere, che costituiscono la moltiplicità e
il divenire, alla opposizione per contrarietà. La legge delle cose è, secondo
lui^ la loro opposizione mutua: tutte le cose sono per coppie di contrarli; ogni cangiamento è
il passaggio da uno stato al suo stato opposto. Tutto nasce dalla discordia,
dice Eraclito nella sua lingua figurata; la guerra è la madre e la sovrana di
tutte le cose; Tarmonia del tutto è cogico, non semplicemente un effetto del
cangiamento «li densità o di posizione reciproca delle parti. La ragione
decisiva por cui si deve ammettere questa
interpretazione è, secondo Zeller, che ogni altra sarebbe incompatibile
con la dottrina fondamentale di Eraclito del flusso di tutte le cose. Una
sostanza immutabile non sarebbe
compatibile con questa dottrina. Per la stessa ragione, nella dottrina che
tutto è fuoco t^gli non vede che un simbolo della legge del divenire,
quantunque Eraclito nella sua propria coscienza non sappia ancora distinguere, egli dice, tra l'idea generale e
la forma sensibile sotto cui quest'idea è espressa. In altri termini quantunque
Eraclito prenda questa dottrina nel senso letterale, e non come un semplice
simbolo. Molti saranno, come me, incapaci di rappresentarsi un simile processo
mentale in un pensatore qualunque: se Eraclito prende in un senso letterale la
proposizione che tutto è fuoco, essa può
essere uu simbolo per un altro che
filosofa sulla dottrina di Eraclito, ma non per Eraclito stesso. È come quando
Hegel dicj che i domini religiosi sono dei simboli della sua propria tìlosofia:
il ciedente ammette questi domini come dottrine positive e non come simboli:
per Hegel sono simboli, precisamente perchè per lui non sono più veli)
Diog. Laort. Stab. EcL , Filone quis divinarum rerum heres sii., Quaest in Gen,.
Muli. Fr. bT,, Eth. End, Plut De Jsid. et Osir^ e Simpl. in Arist. Cut, f.. in
Muli, illustr. a Fr..
stituita
dall'opposizione reciproca delle parti. Questa proposizione che l'opposizione è
una legge universale delle cose si spiega sufficientemente per una
generalizzazione dell'osservazione: questa in verità non la giustifica che sino
ad un certo punto non essendo vero che
tutte le nostre nozioni possano distribuirsi per coppie di termini contrari,
come luce e tenebre, maschio e femmina, salute e malattia, ecc. a meno che
alcuni dei termini non siano puramente negativi, come non uomo, non bianco, ecc., nel qual
caso la pretesa legge delle cose diverrebbe una semplice proposizione verbale;
ma non deve sorprenderci che, in
un'epoca scientifica sì primitiva, Eraclito, come già prima di lui altri
filosofi, quali Alcmeone e i Pitagorici, sia stato così profondamente colpito
dall'osservazione delle opposizioni rità. Ma noi non abbiamo alcun motivo per
prendere la proposizione di Eraclito che tutto è fuoco in un senso differente
delle proposizioni analoghe degli altri fisici, p. e. di quella d'Anassimene o di Diogene d'Apollonia che tutto è aria. Sia detto di
passaggio, la differenza tra le due proposizioni non è tanto grande quanto
sembra a prima vista; perchè Eraclito non sembra rappresentarsi il fuoco
primitivo da cui tutto è stato fatto, come una fiamma, ma piuttosto come una
sostanza calda e aeriforme. Zeller stesso.
Se Zeller fosse stato conseguente, avrebbe dovuto dare
un'interpretazione simbolica, non della sola dottrina di Eraclito, ma delle
dottrine corrispondenti di tutti i fisici che ammettono un solo elemento. La
dottrina del divenire di cui d'altronde Zeller dà un'interpretazione iperbolica e puramente fantastica, intentendo che le cose sono ad
ogn'istante distrutte e nuovamente create come per incanto, ogni cosa cambiando
ad ogni momento le particole materiali che la costituiscono non è una prova che
Eraclito nega l'immutabilità della sostanza nel senso che ho spiegato perle
dottrine dei fisici unizzanti in generale
j Eht. Eud., Muli. Fr. .
mmm t delle cose, da vedervi una legge
importante della natura. Noi non dobbiamo per altro lungamente fermarci su
questa dottrina di Eraclito: essa non c'importa per se stessa, ma solo per il
suo rapporto con laltra legge dei contrari, stabilita da questo filosofo. Come
l'essere si è scisso in una moltiplicità di esistenze reciprocamente opposte e
come passa incessantemente da uno stato ad un altro stato opposto, cosi esso,
secondo Eraclito, mantiene la sua identità a traverso di tutte le opposizioni.
Tutti i contrari sono identici: la stessa cosa sono il giorno e la notte, il
bene e il male, il puro e Timperchè appunto egli vuole eccettuato dalla legge
del cangiamento universale l'uno che è il sustrato permanente di tutti i
cangiamenti e di cui ogni cangiamento non è che una diversa configurazione
Arist. De Coelo Per un'illusione di
prospettiva assai naturale, nella tesi del continuo flusso delle cose, perchè è
la più decantata dagli antichi, per il suo carattere paradossastico Arist.
Top,, si vede il pensiero fondamentale di Eraclito; e poi, per l'esagerazione^di
un concetto giusto in se stesso, che è quello della connessione intima tra
tutte le parti di un sistema filosofico e la subordinazione necessaria di certe
parti ad altro più dominanti come in ogni tutto organico esagerazione che
discende direttamente dal preconcetto hegeliano di vedere in ogni sistema della
storia la realizzazione di una categoria logica, o, in generale, di un momento
del sistema vero e universale il quale,.del
resto» per gli storici hegeliajio eclettici, alla maniera di Zeller, è ancora,
e sarà sempre in incubazione si pretende che tutte le idee del sistema devono
logicamente derivarsi dal preteso pensiero fondamentale. Ma se vi ha in
Eraclito un pensiero che merita di esser
considerato come fondamentale, è quello ch'egli ha in comune con tutti i
filosofi dell'epoca: l'assioma che l'essere non può venire dal non essere, e
che perciò niente nasce al fondo e niente perisce. E Fr.
Fr.; Arist. Top,, Ph!jH. . i
puro, l'alto e il basso, l'ascensione e la discesa, il retto e il tortuoso. La
nascita è morte e la morte nascita; il mortale è immortale, e l'immortale
mortale. La stessa cosa è il vivente e il morto, il vegliante e il dormente, il giovane e il vecchio. Tutte è uno; Dio è
giorno e notte,, està ed inverno, guerra e pace, fame e sazietà, e tutti i
contrari; come tutti gli opposti procedono dall'uno, così da tutti risulta
Tuno. Questo discordando sempre da se stesso, concorda sempre con se le altre
proposizioni di Eraclito devono derivarsi dal suo pensiero fondamentale, la
legge stessa del divenire, cioè la dottrina che tutto è in movimento e niente
in quiete, perchè, come abbiamo visto, i fisici unizzanti, ugualmente che i
meccanisti, riducono tutti i cangiamenti al movimento deve derivarsi anch'essa
dall'assioma dei fisici. Il che noQ è difficile, perchè, se le proprietà
essenziali del reale sono sempre le stesse ciò che è il senso di quest'assioma,
comela sostanza primitiva, che è vivente ed
in un'agitazione perpetua,, potrebbe trasmutarsi in una massa affatto
morta ed inerte? Plut. Piaci.: 'HpàxXlTO; Y]p£[Xiav TioCl aTÒCOlV £x Tciv 6X(ùV
àvY)Cei* SOTl vàp TOOtO 'CWV VSXCWv. Con la stessa conseguenza con
cui gli Eleati concludono dall'assioma della fisica che tutto è immobile più
giù su questi filosofi, Eroclito ne conclude invece che tutto é in movimento;
ciò che è dotato di un movimento spontaneo ed incessante non potendo diventare
una materia inerte.. KaOapóv e [xiapóv.
Fr. Fr. ;. Fr. Clem. Sfroin. iM. Ippol. nefuL Haere^.. in Muli, illustr.a Fr. Fr.. Fr. ; Filone Lei/ (illeg. Fr. Le due ultime antitesi, guerra e
pace faine e sazietà^indicano i due stati fra cui alterna il mondo: quello
della divisioneo del cosmos, e quello dell'unità e omogeneità, in cui tutto è
fuoco. Fr. . se stesso; la costituzione dell'essere è come quella dell'arco e
della lira di cui le due metà sono al
tempo stesso identiche ed opposte. Ora in qual senso dobbiamo noi comprendere
le proposizioni di Eraclito affermanti l'identità dei contrari? Siccome queste
proposizioni, prese alla lettera, sono inintelligibili e implicitamente contraddittorie, perciò
potrà credersi necessario di sforzarsi a darne un'interpretazione che le adatti
al senso comune, e tolga ciò che vi ha in esse di ripugnante ERACLITO L’OSCURO
GRICE CHIARITA. Così p. e. quando Eraclito dice che il giorno e la notte sono
la stessa cosa, s'intende, come fa Zeller, che lo stesso essere ora è chiaro e
ora oscuro, ovvero, come fa Schuster, che essi sono la stessa cosa in quanto
l'uno e l'altra sono egualmente delle divisioni del tempo. Cosi ancora, quando
Eraclito dice che la stessa cosa è il vivente e il morto s'intende che la
stessa materia attraversa a vicenda i due stati della vita e della morte. Ma
tali interpretazioni non solo sono lontane dal significato naturale delle
parole di Eraclito, ma hanno anche contrarie le più gravi testimonfanze degli
autori antichi. Cosi è nel senso più letterale Plato Conv,; Soph,
e. Fr. e . Ippolito Refut Haeres
che ha conservato le parole di Eraclito, intendo che la luce è identica
airoscurità, il bene al male, ecc. Questa sembra essere l'interpretazione di
Plutarco ConsoUit, ad ApolL,. Il Fr,
Muli, la vita e la mort« è tanto nella nostra vita quanto nella morte è
una prova ohe Tidontità non è solo del sustrato materiale della vita e della
morte, ma della vita e della morte medesime. possibile che Aristotile comprende
le proposizioni di Eraclito: egli attribuisce a questo filosofo l'opinione che
l'esser bene e l'esser male è la stessa cosa, e che i contrari sono identici
per Vessenza o per la definizione e non semplicemente per la materia, come
nella precedente interpretazione della proposizione: lo stesso è il vivente e
il morto. Secondo lo stesso Aristotile ed altri autori antichi, Eraclito nega
il principio di contraddizione, ammette €he allo stesso soggetto appartengono
degli attributi opposti, e che le due proposizioni contraddittorie sono vere 1'
una e l'altra. In effetto, se i contrari sono identici, tanto varrà predicare
d'un soggetto un attributo quanto l'attributo contrario SHAGGY NON SHAGGY. È
probabile che questa conseguenza del principio dell'identità dei contrari che
verisimilmente Eraclito avrebbe respinta sia stata dedotta da quegli
eraclitizzanti che, come Cratilo, esageravano grottescamente le dottrine di
questo filosofo, e ne deducevano delle proposizioni scettiche: ma siccome la conseguenza
deriva effettivamente dalla premessa, essa poteva venire attribuita, non senza
fondamento, ad Eraclito stesso. Phy8, Mef, Vili. Top, Vili. Specialm. Sesto
Emp. Pjrrh. Tanto più che questo
filosofo, per arrivare alla tesi della identità dei contrari in astratto,
comincia mostrando che lo stesso fatto o la stessa cosa concreta presenta degli
aspetti contrari: p. e. per provare l'identità del bene e del male mostra come
i rimedi dei medici possono essere riguardati al tempo stesso come beni e come
mali Fr, Aristotile non vuole assicurare che la tesi della verità Noi dobbiamo
dunque rigettare come inutile qualsiasi tentativo di rendere più intelligibile
la tesi di Eraclito della identità degli opposti: per dare a questa tesi un
senso concepibile, bisognerebbe liberarla dalla contraddizione che è in essa
implicata; ma allora non sarebbe più la tesi della identità degli opposti, la
dottrina di Eraclito non sarebbe spiegata, ma sostituita da un'altra dottrina.
11 caso è lo stesso che per la tesi corrispondente di Hegel: non vi ha alcun
mezzo per renderla intelligibile, non è possibile di dare un senso a ciò che è
un controsenso. Comprendere una dottrina metafisica in questi casi non è altra
cosa (U tutte e due le proposizioni
contradittoric debba attribuirsi aUo stesso Eraclito. In Mei. dice È impossibile di pensare che la
stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono che dica Eradito; poiché non é
necessario che si creda tutto ciò che si dice. Queste ultime parole non
significano, come crede Zeller :M, che se Aristotile non vuole attribuire
categoricamente ad Eraclito l'opinione in
quistione, è perchè questi V ha effettivamente enunziata, ma senza
credervi o senza comprenderne il senso, ma spiegano in generale come il fatto
che vi hanno delle persone che a parole ammettono la realtà della
contraddizione, non sia contrarlo al principio che è impossibile di pensare che
la contradpizione si realizzi. Zeller attribuisce ad Eraclito la dottrina della
coesistenza dei contrari nello stesso
sogetto invece di quella della identità dei contrarli, e la deduce dalla
dottrina del divenire continuo di tutte le cose FHo8,dei G'r^ci p. rj;. Questa deduzione non è secondo me
ammissibile, quantumiue possa sembrare che abbia l'appoggio dell'autorità
d'Aristotile. Per comprendere il valore di questa deduzione, bisogna farsi una
giusta idea della conseguenza scettica che gli
eraclitizzanti come Cratilo tiravano dalla dottrina di Eraclito del
divenire, cioè che di ciò che diviene niente può con verità affermarsi, e non
vi ha perciò alcuna scienza possibile né alcuna proposizione che sia vera
Arist. Met.. Aristotile assegna (luesta dottrina a qiielli che dicono di eraclitizzare; che
indicarne il motivo e Torigine. Per Hegel il motivo è, come abbiamo detto
altrove, la necessità della identità
delle idee, perchè possano dedursi le une dalle altre: naturalmente Eraclito
non potè esser condotto alla sua dottrina, come Hegel, da considerazioni
dialettiche; l'assioma comune dei fisici spiega questa dottrina di Eraclito
come la maggior parte delle altre dottrine di questi filosofi. negli altri due
la chiama semplicemente, eraclitica. Noi non dobbiamo perciò attribuirla allo stesso Eraclito, perchè essa
è uno scetticismo e un agnosticismo assoluto, ed è incompatibile con la
filosofia di Eraclito come con qualsiasi filosofia dogmatica H. P. GRICE ON
BROAD GRICEIANISM. Per intendere la proposizione di Cratilo, si consideri un
punto in movimento neir atto che esso passa da un punto determinato dello
spazio, A, ad altro punto qualunque. B,
concepito il più vicino ohe sia possibile ad A. Per quanto il punto B si
concepisca prossimo al punto A, vi saranno sempre delle posizioni tra A e B,
che il punto in movimento deve occupare dopo di aver lasciato la posizione A e
prima di passare nella posizione B: ma ciascuna di queste posizioni interposte,
essendo un punto distinto da A. sarà
separata da A da (jualche intervallo, ed
è necessario perciò che tra essa ed A s'interpongano altre posizioni. Qual è
dunque la posizione che il punto in movimento occupa immediatamente dopo la
posizione A? E impossibile di dirlo, percliè qualsiasi punto si assegni
prossimo ad A, esso, essendo distinto da A, ne sarà separato da qualche
intervallo, che il punto in movimento deve aver per corso prima di passare nel
punto assegnato, e perciò questo non può
essere la posizione immediatamente successiva alla posizione A. La posizione
immediatamente successiva ad A è dunque un che d'indeterminabile e
d'indeterminato, di cui può dirsi soltanto che essa deve essere distinta da A e
da tutti i punti distinti da A, ma senza poterla in so stessa indicare; di essa
saranno vere delle proposizioni negative: non è
A, non è B, non é C, ma non sarà vera alcuna proposizione affermativa: è
D GRICE NEGATION AND PRIVATION. Che si generalizzi questa difficoltà implicata
nella idea della continuità del movimento Le antinomie della ragione, si avrà
il concetto di un cangiamento universale continuo in cui ciascuno degli stati
successivi è fi: V Per l'identità degli
opposti ciò che Eraclito vuole stabilire è V unità e l'identità del tutto; la
eterna perminenza nella sua propria identità di quest'essere unico che diviene
tutte cose. Il cangiamento essendo da uno stato ad un altro stato opposto,
perchè r essere resti identico a se stesso nel cangiamento, bisogna che gli
opposti siano identici. L'uno essendo divenuto multiplo, e la varietà essendo
costituita dair opposizione, perchè i molti
siano uno, un uno che nelle A^arietà si ritrova dapertutto identico a se
stesso, bisogna che gli opposti siano idensempre un punto di transizione, e
perciò un che d'indeterminabile, posto tra due stati determinati qualunque:
questo è il fondamento della i)roposizione di Cratilo che, ciò che
continuamente diviene non essendo mai in uno stato determinato, non vi ha
alcuna determinazione che possa con verità attribuirsi alle cose, le quali sono
tutte in un continuo divenire. Ora è evidente che la conseguenza della dottrina
del divenire assoluto non è secondo Eraclito e secondo la logica la
proposizione che tutto è vero, cioè che raflfermativa e la negativa sono
entrambe vene e che i contrari coesistono allo stesso tempo nello stesso
soggetto; ma piuttosto la proposizione che
niente è vero, che nessuno dei due attributi contrari appartiene in
realtà al soggetto che diviene, che passa dall'uno all'altro dei due stati
contrari, e che ogni aifermazione è falsa H. P. GRICE TRANSCENDENTAL
JUSTIFICATION MEANING REVISITED e quindi
anche, può dirsi, ogni negazione, in quanto la proposizione negativa si
consideri come implicante l'affermazione di
uno o un altro degli attributi positivi compresi nel giro del termine
negativo, che è l'attributo della proposiziono negativa, se si dà a questa la
forma infinitiva p. e è non bianco implica l'affermazione di uno o un altro dei
colori DISTINTI DAL bianco GRICE NEGATION AND PRIVATION. Perciò quando
Aristotile parla della dottrina eiaclitica che tutto è vero, non può essere
quistione di una deduzione dalla
dottrina del divenire, ma noi dobbiamo i)ensare piuttosto a una dcauzione dalla
dottrina della identità dei contrari. Lo stesso Aristotile parla, è vero, come
di una conseguenza della dottrina del divenire, dell'opinione che le due
proposizioni contraddittorie possono emettersi egualmente sullo stesso soggetto
HE IS NOT SHAGGY Mei,: tici. In una parola il principio di Eraclito è che l'essere non può cangiare
di natura e di proprietà; perciò tutti gli stati differenti che esso
successivamente attraversa devono essere, al fondo, identici. Eraclito spinge
assai più in là che gli altri Usici unizzanti il concetto dell'immutabilità
della sostanza: per questi l'identità dell'essere non è che una identità
materiale; ma per Eraclito l'unità e l'identità del tutto non consiste semplicemente in ciò che un sustrato
materiale uno e sempre identico a se stesso soggiace a tutte le forme che
costituiscono gli esseri differenti dando anche alla identità materiale il
senso, che noi abbiamo attribuito alle dottrine di ma, come risulta dal
contesto, quest'opinione non consiste a pretendere che le due proposizioni sono
vere l'una e l'altra, ma che, l'una non essendo vera più dell'altra, si ha tanta ragione di affermare
runa <iuanta se ne ha di affermare l'altra ASSERTABILITY Plat. TeetA^ d-lK3 D'altronde Aristotile riconosce che la
dottrina del divenire è in contraddizione con la proposizione che tutto è vero
o che i contrari coesistono nello stesso soggetto 3fet., e che, mentre Eraclito
fa tutto vero, la consegifenza della dottrina del divenire è invece che tutto è falso specialmen
Mei. con Met. Ao'<'iun<»^eremo infine sull'interpretazione di
Zeller della teoria dei contrari di Eraclito, che, quand'ancte la coesistenza
dei contrari potesse riguardarsi come una conseguenza della dottrina del
continuo divenire, nessuna forse delle proposizioni particolari di Eraclito che
noi conosciamo lo stesso è il giorno e la notte, il vivente e il morto,
ecc. si presterebbe al una tale
deduzione dato e non concesso che tali proposizioni affermino la coesistenza
dei contrari, e non la loro identità; perciò bisognerebbe che ciascun momento
del tempo fosse il punto di transizione tra il giorno e la notte, che ciascun
istante della nostra esistenza fosse il confine tra la vita e la morte VITTERS, ecc. Cosi pure quando Sesto Empirico
attribuisce ad Eraclito l'opinione che
il miele è al tempo stesso dolce ed amaro, noi possiamo pensare ad una
deduzione dalla teoria dell'i-^ denti tà dei contrari, ma non da quella del
continuo divenire. questi fisici, di una sostanza materiale sempre identica a
se stessa di cui non cangia che la posizione nello spazio; le forme stesse che
riveste successivamente il sustrato materiale, cioè le qualità differenziali e le energie specifiche per cui
i vari esseri, costituiti dalla stessa materia, si distinguono, si risolvono, per
Eraclito, nell'uno e nell'identico. Ma alla quistione: come queste forme
differenti siano identiche, cioè come la loro differenza possa conciliarsi con
la loro identità, sarebbe inutile di attendersi da Eraclito una risposta
precisa o semplicemente intelligibile. Perciò egli dovrebbe fare le parti tra ciò che \\ ha
nelle cose d'identico e ciò che vi ha in esse di differente o di opposto;
invece non troviamo in lui che quest'asserzione contraddittoria se la prendiamo
alla lettera, vaga se vi cerchiamo un senso qualunque che gli opposti sono
identici. La proposizione di Eraclito che gli opposti sono identici non è per
altro né più né meno contraddittoria delle
proposizioni dei fisici unizzanti in generale che tutto è aria o che
tutto è fuoco proposizioni incompatibili con resistenza di altre sostanze
distinte dall'aria o dal fuoco. Noi abbiamo osservato che in quest'ultimo caso
la conci) Arist. Phìj»: Se gli Eleati dicono che tutto è uno secondo
la definizione, ciò tornerà a sostenere la tesi di Eraclito. Lo stesso sarà il
bene e il male, lo stesso 1'uomo e il cavallo Asclepio! Schol ia Arist. dice
che per Eraclito vi ha una definizione unica per tutte le cose, proposizione che certamente non può
attribuirsi ad Eraclito, ma che esprime, quantunque in una éorma troppo rigida,
il pensiero di questo fìlosoto dell'unità eè»fn•zialey e non semplicemente
materiale^di tutte le cose. traddizione nasce, perchè il principio ammesso a
priori, in forza di un sofisma naturale, dell'immutabilità della sostanza,
coesiste nello spirito di questi filosofi col fatto, dato dairosservazione, del
cangiamento di una sostanza in un'altra sostanza; cosi nel caso di Eraclito, il
principio, ammesso a priori in virtù dello stesso sofisma, che tutte le cose
sono identiche di natura, perchè la natura delle cose le quali tutte sono
costituite della stessa materia e perciò reciprocamente convertibili non può
cangiare, coesiste, noi pensiero di questo filosofo, col fatto, dato
dall'osservazione, dell'esistenza di cose aventi delle nature differenti e
reciprocamente opposte. 11 principio e il fatto, l'identità e l'opposizione,
non si escludono per Eraclito, quantunque siano esclusive Tuna dell'altra; esse
si consiunsono, ma non si conciliano, nella formula contraddittoria della
identità degli opposti. Aristotile dà come motivo di una delle opinioni che
negano il i)rincipio di contraddizione,
l'assioma dei fisici ehe V essere non può venire dal non essere {il qual motivo
prova l'origine fisica della dottrina fondata su di esso, dottrina perciò
che, tra le diverse opinioni sovversive
del i)rincipio di contraddizione, noi dobbiamo riconoscere per quella della
scuola di Eraclito. Quando una cosa passa da uno stato ad un altro, il secondo
stato verrel)be dal non essere, se i due stati fossero semplicemente contrari,
e non al tempo stesso identici, di guisa che il secondo stato preesistesse in
certo modo nel primo: questo non deve essere perciò uno solo dei due contrari,
ad esclusione assoluta dell'altro, ma in certo modo anche l'altro Mei, Il
motivo addotto da Aristotile coincide al fondo con quello che noi abbiamo
assegnato alla dottrina di Eraclito: non si deve che applicare alla dottrina
dell'identità dei contrari l'argomento che Aristotile applica invece alla sua
conseguenza, cioè a quella della coesistenza dei contrari nello stesso
sogl^etto. 'A ' li -< /•,. Gli Eleati
sì accorsero che il principio dell'unità e immutabilità della sostanza è incompatibile col fatto
della pluralità e del cangiamento: così, per salvare il principio, essi rigettarono il fatto, dichiarandolo una
semplice apparenza senza realtà. La proposizione fondamentale degli Eleati,
come di Eraclito, e in generale dei fisici unizzanti, è che tutto è uno.
Quest'uno è per gli Eleati, come pei fisici ionici, il sustrato unico e
permanente di tutto ciò che i sensi ci presentano, la sostanza comune di tutti
i corpi. Gli Eleati descrivono l'Essere come una massa continua, senza lacune
prodotte dal non essere cioè dal vuoto, omogenea, senza differenza di densità,
immobile tanto nella totalità quanto nelle parti. Esso è infinito di grandezza,
secondo Melisso; finito e di forma sferica, secondo Parmenede. La differenza
tra Fune de Proposizione che noi dobbiamo distinguere da quosf altra: Tessere è
uno; perchè mentre questa non indica che la
soppressione della moltiplicità. la prima indie, pure la riduzione
deUamoltìph. cita all'unità. Cosi Timone la dire a Xenofane che dapertutto ove
rivolge il suo pensiero, tutto si risolve per lui in un'essenza xmica sempre
identica a se stessa Versi Mullach '
/^j/^J fané, Teofrasto ap. Simpl. Phljs,, Sesto Empir. PijTrh. , ecc. Pe^gli Eleati
posteriori, oltre il luogo di Parmenide che tra poco riporterò nel testo, Plato. Teet. IHO e, Soph.,
Anst^Phys , ITI. , Gen. et Corr., Met., ecc. Parmen., Mei. Fr.,; Arist. De Gen. et Corr. Parmen. Mei. Fr.;
Parmen 1. e. Parmen.; Mei. Fr. Mei. Fr.; Arist. Do Gen. et Corr., Phys,
Met. r t Parmen.; Teofrasto ap. Alex, ad Met. d. gli Eleati
e 1'uno dei fisici ionici è, come osserva Aristotile, che i primi non
negano soltanto, come i secondi, la generazione e la corruzione, ma anche il
movimento e ogni specie di cangiamento in generale; per conseguenza anche ogni
moltiplicità, questa, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, non essendo che
un risultato del cangiamento. Quest'universo, dice Parmenide, tutte queste cose
che gli uomini, ritenendole come reali, dicono essere e non essere, nascere e
perire, mutar di luogo e cambiar di
colore tutto ciò non è in realtà che un
solo essere, unico, immobile, senza principio e senza fine, permanente sempre
nello stesso stato. Il pensiero rientra anch'esso in quest'unità; esso non è distinto
dall'essere, perchè non yì ha niente all'infuori dell'essere, e questo è unico
e sempre identico a se stesso. Alcuni espositori, come Zeller, trovano il
fondamento del sistema eleatico in un
argomento capzioso, per cui Parmenide cerca di provare 1'unità assoluta
dell'essere. All'infuori dell'essere, egli dice, non potrebbe esservi che il
non essere; ma il non essere è niente; dunque l'essere è unico. Noi non
possiamo ammettere, come abbiamo altre volte osservato, che un sistema
metafisico si Met. Parmen. Io ho esposto
l'argomento sotto la forma in cui lo dà
Teofrasto ap. Simplic. in Phf/a.
anche per questo argomento che non potrebbe ricavarsi dai soli frammenti
di Parmenede Arist..Phfjs , Met, ^1
fondi sovra un sofisma puraimente perchè allora la metafisica non sarebbe che
una volgare sofistica. Tra il processo del metafìsico e quello del sofista non
vi sarebbe, in questo caso, altra differenza che neirintenzione: ma questa
differenza renderebbe anche più
incomprensibile l'origine della metafìsica; ciò che è inconcepibile è che delle
convinzioni così contrarie al senso comune siano prodotte da motivi così poco
idonei. Parmenide ha potuto credere alla forza probante del suo sofisma. ma
dopo che già era convinto della sua tesi per altri motivi, e questi motivi non
possiamo cercarli che in qualcuno dei soHsmi naturali à^Wo spirito umano. Per ricondurre il sistema
degli Eleati ai sofismi a priori del nostro spirito, e metterlo al tempo stesso
in connessione con le idee dominanti dell'epoca, noi non possiamo che dedurle,
con Aristotile, dall'assioma della fisica che l'essere non può né cominciare né
finire, deduzione che in effetto noi troviamo nei frammenti stessi di questi
filosofi.Grli Eleati non concepiscono,
non solo che la materia possa cominciare e finire, ma anche che le cose possano
cangiare di natura e di qualità ciò che, non bisogna dimenticarlo, è il senso
dell'assioma dei fisici. Così secondo loro la moltiplicità non sarebbe
possibile che ad una sola condizione: che vi fossero molte sostanze
inconvertibili 1'una Phys. Parmen e Mei
Fr.. Per Xenofane De Melisso ecc.
Simplicio P/iy« f. , Plittarco ap. Euseb. Pr. ev . LI neir altra e qualitativamente
immutabili. Se vi fossero molte cose,
dice Melisso, esse dovrebbero essere tali quale io suppongo Tuno. Se é
in realtà la terra e l'acqua e l'aria e il ferro e l'oro e il fuoco, e questo
vivente e quello morto, e il bianco e il nero, e tutte le altre cose che gli
uomini credono reali; se queste cose sono, e noi rettamente vediamo e udiamo; ciascuna cosa
deve continuare ad esser tale quale ci é sembrata la prima volta, e non mutarsi
né divenire altra, ma essere sempre tale quale essa è. Ora noi diciamo che
rettamente vediamo e udiamo e intendiamo; intanto ciò che è caldo ci sembra
diventare freddo e ciò che è freddo caldo, ciò che è molle duro e ciò che è
duro molle, e il vivente morire e
risultare dal non vivente, e tutte queste cose mutarsi, e ciò che é
stato ed è non essere mai simile a se stesso. Sicché é chiaro che non
rettamente noi vediamo né rettanif^nte queste cose sembrano esser molte. Non si
muterebbero infatti, se fossero vere; ma ciascuna cosa sarebbe sempre tale qual
essa ci é apparsa. Se ciò che é si mutasse, V essere perirebbe, e il non essere
verrebbe all'esistenza. Parmenide, nella seconda parte del sno poema, in cui
egli vuol mostrare come le cose dovrebbero concepirsi nelcepirsi nell'ipotesi
che l'opinione comune che ammette la realtà del multiplo e del cangiamento
fosse vera, espone una fisica meccanista, in cui le cose si producono per la
mescolanza di due sostanze primordiali, contrarie l'una all'altra e ciascuna
sem Fr. -r~T ( pre identica a se stessa.
Questa fìsica non sembra a Parmenede soddisfacente, essendo per lui un errore
di ammettere più sostanze primordiali non bisogna ammetterne, egli dice, che
una sola; e se si domanda perchè gli Eleati, dopo avere intravista la
possibilità di una tal fisica, le avessero non pertanto preferito la dottrina
per noi meno soddisfacente dell'Uno immobile, noa si può dare alrisposta se non che la supposizione di una
pluralità di principii materiali, con tutte le altre ipotesi accessorie della
fìsica meccani sta, sembrava loro in contraddizione coll'esperienza;
dalPosservazione che le forme più differenti della materia corrispondenti a ciò
che gli antichi chiamano i quattro elementi sono convertibili Funa nell'altra,
essi ne concludevano, come tutti i fisici che li avevano preceduti, che vi ha una sostanza
materiale unica, la quale prende a vicenda tutte le forme. Noi non abbiamo
alcuna difficoltà a comprendere come 1'assioma dei fisici conducesse a negare
la realtà di ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione p. e. la trasformazione degli elementi
materiali l'uno nell'altro, o la produzione di un essere vivente e il suo
ritorno allo stato di materia bruta; in
effetto questi fatti sono direttamente in contraddizione col principio che V
essere non può avere coniinciamento né fine. Noi riattacchiamo pure facilmente
allo stesso principio la negazione della realtà di'ciò che gli antichi chiamano
altera-| t ìsione p. e. il cangiamento di colore o delle altre proprietà
sensibili: noi abbiamo visto infatti che i fisici meccanisti tiravano da questo principio la stessa conseguenza.
Ciò che sembra diffìcile è di derivare dall'assioma dei fisici la negazione
della realtà del movimento. Infatti se i fisici concepiscono più facilmente che
le cose conservino le loro qualità anziché il cangiamento di queste qualità, e
pretendono per conseguenza o di ricondurre al primo il secondo di questi fatti
i meccanisti o di ridurlo a un semplice
fenomeno senza realtà gli eleati, è perchè il primo fatto è per noi
assai più familiare ehe il secondo: ma il cangiamento di luogo non essendo per
noi un fatto meno familiare che la persistenza nello stesso luogo, non si vede
quale difficoltà gli Eleati potessero trovarvi. Tuttavia, quantunque la
negazione della realtà del movimento non derivi immediatamente dall'assioma dei
Usici, ne può essere dedotta
indirettamente: si vedrà in effetto, considerando la quistione dell'origine del
movimento, che vi ha connessione tra questa negazione e la conseguenza
immediata dell'assioma, che è la non realtà del cangiamento di essenza e di
proprietà; connessione la quale parrà più evidente, se si rifletterà che per
gli antichi, ignorando essi la dottrina della conservazione dell'energia, e credendo che vi ha ad ogni istante
annichilazione di movimento, la perdurazione del movimento nell'universo
suppone necessariamente che r annientamento del movimento in una parte venisse
compensato dalla produzione di movimento in un'altra parte. Perciò bisogna o
che la materia avesse in qualcuna delle sue forme il potere di produrre
spontaneamente il movimento p. e. l'aria,
secondo Anassimene e Diogene, il fuoco, secondo Eraclito, o che questo
potere appartenesse ad un essere diverso dalla materia come nei sistemi degli
spiritualisti, Anassagora, Platone, Aristotile, ai quali Parmenide stesso
sembra accostarsi per le figure mitiche di Afrodite e di Eros. Neil'ipotesi
d'una sostanza unica, la possibilità di
qualche cosa capace di produrre spontaneamente il movimento, era legata alla possibilità del
cangiamento nelle proprietà e l'essenza delle cose, cioè a quella che la stessa
sostanza da materia inerte che è la forma più abituale sotto cui essa ci
apparisce si mutasse in un essere attivo e vivente. Non ammettendo questa
possibilità, gli Eleati rendevano impossibile l'origine del movimento, e quindi
il movimento stesso. Essi non potrebbero
nemmeno cercare 1'origine del movimento nei mutamenti di luogo che
accompagnano l'alterazione delle sostanze p. e. quando l'acqua si cangia in
vapore o il vapore in acqua. perchè quest'alterazione non essendo secondo essi
reale j il movimento che l'accompagna non può essere nemmeno reale. Un
movimento originario cioè che non fosse l'effetto di un movimento anteriore,
.iella supposizione della unità e immutabilità assoluta della sostanza, non
sarebbe possibile che ad una condizione: cioè che la facoltà di produrre questo
movimento potesse considerarsi come una qualità Plato Tim. immutabile della
sostanza, e quindi che esso si producesse continuamente in tutta la materia in
tutte le sue p;irti e a ciascun istante della durata con la stessa energia e la stessa direzione. Sarebbe un'ipotesi simile a quella
di Herbart del divenire assoluto o movimento senza causa nel suo trilemma del
movimento. Una tale ipotesi essendo in contradizione con l'esperienza, gli
Eleati ne concludono che il movimento, impossibile nella sua origine, non è che
un'apparenza senza realtà. Applicando M.'uno dei lìsici ionici il principio
della non realtà di qualsiasi specie di
cangiamento, noi avremo Vuno degli Eleati, coi caratteri astratti e negativi
con cui questi filosofi lo concepiscono. L'idea dirigente è che bisogna
eliminare dal reale ciò che è variabile, e non ritenere per vero se non ciò che
resta invariabile a traverso tutti i cangiamenti. Di là l'omogeneità assoluta
dell'Essere in tutte le sue parti. Tutte le differenze che noi percepiamo nelle
diverse parti della materia essendo
delle forme che una stessa materia può successivamente prendere e lasciare
poiché, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, una stessa materia soggiace a
tutte le forme, ne segue che alcuna di esse non è reale, secondo gli Eleati,
poiché il reale non è, secondo essi, che l'invariabile. Per conseguenza Introduzione alla filosofìa Aristotile MeU, dopo aver parlato della quistione del principio del movimento,
dice: Alcuni di <iuesti che ammisero ruuo gli Ebati, co«J€ vinti da questa difficoltà, dicono immobile
l'uno e tutta la natura. le parti dell'Uno non possono differire per il colore
o per la densità o per qualsiasi altra qualità sensibile, tutte questt?
determinazioni non essendo che semplici fenomeni, apparenze senza realtà.
L'Essere degli Eleati è, al fondo, un
essere astratto, il cui concetto si ottiene per la soppressione di tutte le
determinazioni che differenziano i diversi esseri particolari; esso non può che
essere assolutamente omogeneo, una volta che si è fatta astrazione di tutte le
differenze del reale dato dai sensi. Secondo questo processo di eliminazione
gli Eleati avrebbero dovuto negare dell'Uno tanto il riposo quanto il movimento, poiché l'inerzia e l'attività ci
sono date l'una e l'altra come due stati variabili dello stesso essere di una
stessa materia. Ma non era possibile di concepire che un essere esteso nello
spazio come gli Eleati si rappresentavano l'Uno e come doveano necessariamente
rappresentarselo, non essendo esso altra cosa che il sustrato comune e
immutabile di tutti gli esseri sensibili non
fosse né in riposo né in movimento. Tuttavia visto che un essere esteso
senza colore, senza densità determinata, ecc. non é, al postutto, meno
inconcepibile noi potremmo forse ammettere Melisso Fr.
e. Fr. E notevole che Aristotile
chiama V Essere degli Elati aÒTÒ TO
OV Phys. applicandogli una denominazione ch'egli non snoie applicare che
alle Idee platoniche del resto,
conformemente allo stesso Platone GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF
BEING, e talvolta anche ai principii dei Pitagorici, ehe non sono anch'essi che
delle entità astratte. che ^li Eleati, negando dell'Essere il movimento, non
intendevano perciò affermarne la quiete: il loro vero pensiero potrebbe essere
quello che Teofrasto sembra attribuire a Xenofane, cioè che l'Essere non è né in movimento né in riposo,
e che la sua eterna permanenza nello stesso stato deve intendersi di uno stato
che esclude tanto il riposo quanto il movimento. Al processo di eliminazione di
cui abbiamo parlato aggiungiamo la negazione del vuoto dottrina comune a tutti
i fisici eccetto gli atomisti, e avremo tutti i caratteri distintivi
dell'Essere eleatico. Non essendovi alcun
vuoto che possa separarne le parti, e queste non potendo nemmeno
staccarsi le une dalle altre per il movimento, l'Essere è necessaria V. Sim[)licio in
Phfjs commento a Aristotile; tr.
De MelHHo ecc. e. b.. TootVasto dice, secondo
Simplicio: jxiav Ss TfjV àfyY)v
r^Toi sv tò ov xai
;rav, >ta\ o'jts :re7U£pao[j.£vov oSts
aTusioov, oSts %tvou[j.svov outs Y]ceaoiiv l]sV0CpàvYjV... ÙTUOTLOscOai
l'essere e il tutto non è né finito né infinito, sia pere h^, come e
indicato nel De MhIìhho ecc. 1. e, quantunque esso non sia infinito, la
limitazione non potrebbe nemmeno attribuirglisi, perchè in «lucsto caso
dovrebV>e essere limitato da <iualche altra cosa; sia perché Xenotane si
é contraddett.>, ora attribuendo al mondo la forma sferica, con che egli
veniva a negare la sua infinità, e ora
ammettendo che la profondità della terra e l'alt^iz/.a dell'aria si estendono
all'infinito, con che veniva a negare la finità del mondo. Zeller crede che
Simplicio ha mal compreso le parole riferite di Teolrtiato, spiegandole egli
stesso, senza appoggiarsi più su questo autore, nel modo che é stato esposto
nel testo, e che il vero senso di queste parole é che Xenofane non dice se l'essere primitivo ó in riposo o In
movimento. Ma quest'interpretazione mi sembra inammissibile, non fosse altro
per la ragione che, se Xenofane non si fosse pronunziato, e:me crede Zeller,
mila quistione del movimento dell'essere, Teofrasto non potrebbe concluderne
eh'egli non ha stabilito niente su questa quistione: ciò che dovrebbe
concludersi invece dal silenzio di Xenofane
é che epjli ha mantenuto, al contrario mente unico e indivisibile, e noi
comprendiamo come la realtà del multiplo sia negata dagli Eleati d'una maniera
tanto recisa quanto quella del cangiamento. Ora
qual è il senso che gli Eleati attaccavano a queste negazioni?
Annientavano essi d'una maniera assoluta la pluralità e il cangiamento, per
conseguenza tutta la natura sensibile, o conservavano ai fenomeni un resto di realtà? È una
quistione dibattuta fra gli espositori: la prima interpretazione sembra la più
conforme al senso più ovvio delle proposizioni degli Eleati, ma la seconda ha
una verosimiglianza intrinseca assai più grande, e può anche invocare in suo
appoggio Tautorità di molti autori antichi, tra cui alcuni conoscevano
certamente nella loro integrità gli scritti di questi filosofi. Il concetto di fenomeno di apparenza, e quello correlativo
di essere, di realtà, che netti e recisi come sono per il senso comune,
sembrerebbero non poter dar luogo ilei suoi snnccssori, la realtà del
niovirnento, poiché «luando un filosofo non ne^a un daU del senso comune, si
devo intendere ch'egli lo ammette: e nel fatto lo «tesso Zeller, inferendo dal
presunto silenzio di Xenofane, é
quest'opinione che gli attribuisce. In verità noi potremmo intendere le parole
riferite di Teofrast.» ammettendo col Zeller che nell'esposizione di Simplicio
non vi sia niente altro che si debba a quest'autore nel senso che Xenofane non
ha stabilito né la realtà del movimento né la sua non realtà, ma nell'ipotesi
che in questa quistione vi fosse in questo filosofo <iualche contraddizione come in quella della
limitazione del mondo. Più giù avremo occasione di tornare su questa
indicazione di Teofrasto. Parmenide versi, Melisso Fr., Arist. l)t (fenerat et cornipt, Come di
Plutarco Adi\ Col. e
Simplicio in Phgn, conimento a Aristotile ad alcuna incertezza od equivoco
EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocallity thesis], non hanno, per alcuni
metafìsici, che un senso vago, il quale non potrebbe indicarsi senza riunire dei termini contraddittori. Per
Platone, per Hegel e per altri filosofi, i quali, come gli Eleati, non riconoscono per veramente reale
che l'essenza eterna ed immutabile delle cose, la natura sensibile non è che un
fenomeno senza realtà, un'apparenza; ma per ciò essi non intendono che essa non
sia altra cosa che un fenomeno subbiettivo, il quale non esiste che nella
sensazione. Vi n'apparenta obbiettiva è per noi una
contraddizione nei termini, il concetto di apparenza essendo per noi identico a
quello di fenomeno subbiettivo: tuttavia tale è secondo Hegel la natura
sensibile un'apparenza obbiettiva, e quantunque questa espressione non sia
propria che di lui, essa potrebbe convenire egualmente, per designare il valore
della natura fenomenale, in tanti altri
sistemi in cui, come nel suo, il
fenomeno, cioè r individuale, il cangiante, è Un che di medio, come dice
Platone, tra l'essere e il non essere. Si potrebbe d'altronde dubitare se, in tutti i momenti dello sviluppo
intellettuale dell'uomo, il concetto di apparenza sia costantemente legato a
quello della subbiettività, come lo è certamente nella sua forma più chiara e
sviluppata: un'ombra, un'immagine nell'acqua o nello specchio, quella
proiettata da una lanterna magica, sono delle apparenze per il fanciullo e per
l'uomo privo di qualsiasi coltura; ma sono anche per essi necessariamente
subbiettivo? Quando più fanciulli guardano rimmagine della lanterna magica, non
pensano essi piuttosto che vedono tutti la stessa cosa, come Reid CITATO DA
GRICE dice che gii uomini vedono tutti
lo stesso sole? Queste considerazioni possono far ammettere la possibilità che
il fenomeno, cioè il diverso e il cangiante, sia per gli Eleati ww' apparenza
obbiettiva, e non un semplice fenomeno suhbiettivo che non esiste se non in
quanto è sentito. Certamente di questa maniera si attribuirebbe agli Eleati una
contraddizione: quella che il loro sistema era destinato a risolvere, tra il principio dell'immutabilità
della sostanza e il cangiamento dato dall'esperienza, verrebbe a riapparire
sotto un'altra forma. Ma una tale contraddizione è inevitabile nel sistema
eleatico: ammettiamo pure che i canariamenti e la varietà della natura non
siano per loro che dei fenomeni subbiettivi; essi esisteranno nondimeno a titolo di fatti dello
spirito, e quest'^5/^teiiza sarà sempre
incompatibile col principio dell'unità e dell'immutabilità assoluta
dell'essere. Una conseguenza di
quest'osservazione è che ci è impossibile di prendere alla lettera e in tutto
il loro rigore le affermazioni degli Eleati sull'unità e l'immutabilità di ciò
che esiste; come queste affermazioni non possono essere una prova che essi
negavano l'esistenza dei fatti subbiettivi, quantunque compresi nella pluralità e il cangiamento di
cui essi non volevano ammettere la realtà, cosi non provano d'una maniera
decisiva che la pluralità e il cangiamento del mondo esteriore fossero privi
per essi di qualsiasi esistenza obbiettiva. Noi non comprendiamo una dottrina
che riduce la natura visibile a puri fenomeni subbiettivi, a semplici
sensazioni, che come il risultato di una profonda critica della conoscenza, di una riflessione,
almeno, sul carattere relativo delle nostre percezioni: ma tutto ciò manca
negli Eleati; manca ancora nei loro continuatori, ì Megarici; e sarebbe
certamente molto inverosimile che questi ultimi, in un'epoca in cui il pensiero
si era già rivolto verso le ricerche di quest'ordine a cominciare almeno da
Protagora, non si fossero dati anch'essi a
speculazioni cosi in armonia coi loro principii, se fosse vero che la
natura sensibile non consiste per loro che in fenomeni subbiettivi. Qualunque
sia il motivo del sistema eleatico, esso non può avere infine che lo scopo di
rendere il reale più comprensibile: ma sopprimere il reale c:ó che è semplicemente quello che gli Eleati
avrebbero fatto nell'ipotesi della subbiettività del fenomeno non è comprenderlo. Secondo noi questo sistema
non si spiega che per uno sforzo di conciliare l'esperienza, la natura varia e
cangiante, col principio dell'unità e dell'immutabilità della sostanza,
concepito in tutto il suo rigore: nelT ipotesi dell'obbiettività del fenomeno,
Tesperienza, la natura, non viene immolata a questo principio nel qual caso
l'esistenza dell'Uno stesso non avrebbe
più fondamento, ma si cerca di acicordarla con esso per mezzo dell'idea
vaga di apparenza obbiettiva, distinguendo il fenomeno cangiante e Vessenza
immutabile. L'obbiezione più forte contro quest'Interpretazione sono le
proposizioni degli Eleati sul valore deilla conoscenza sensibile e le 4 I À ' ir fi .1 t ì --r Su
tutto il periodo
della filosofìa greca
rappresentato dai fisici dobbiamo
fare unosservazione
generale, che si
riattacca pure all'argomento
di questo capitolo» Se
questo periodo si
mette in rapporto col
susseguente, rappresentato da Platone e da Aristotile, si vede
immediatamente fra le due tendenze filosofiche un'opposizione SANZIO, che
Aristotile esprime di<jendo che i fisici non hanno ricercato che il
principio materiale, trascurando e anche sopprimendo l'altro elemento
costitutivo della natura degli esseri, cioè il principio formaìe o essenziale.
Ciascun essere, nella filosofia di Platone e di Aristotile, ha in se stesso, considerato come un tutto
individuale, un principio interno di attività, che è irruduttibile alle energie
proprie agli elementi materiali da cui esso è costituito. Questo principio è
riposto nella essenza o nella forma speciale di ciascun essere, vale a dire
esso è differente negli esseri specificamente differenti: ciascuna specie di
esseri è governata da leggi proprie ed è, per dir così, autonoma, queste leggi non essendo dei
semplici casi delle leggi universali della materia. dei risultati necessari del
concorso delle forze generali della natura. I fisici invece tendono a sj^iegare
le forme, cioè le Indicazioni corrispondenti degli antichi testimoni,
proposizioni e Indicazioni che possono riassumersi cosi: bisogna rigettare la
testimonianza del sensi che ci mostrano 11 reale come multiplo e cangiante, e non credere che
alla ragione. la quale ci prova che esso è uno e Immutabile Parmenide di VELIA
versi, Melisso di VELIA Fr., Arlst. GèneranU et corrent, Met,, De Melisso di
VELIA ecc., Arlstocle ap. Euseb. Praep, evang., Plutarco ap. Euseb. Pr, ev.,
Sesto Math, Arlstot. De Coelo, Timone ap. DJog.. Ma quest'obbiezione non
potrebbe essere decisiva. Platons si
esprime slmilmente al soggetto della conoscenza del seasl e della realtà del
sensibile p. e. Phaedo: quam fallax oculornm, qnam fallax anriam caeterornmque sensnnm sit considerano
neqne nlli credat praeterqnam sibi, qnatenus ipse per se cogitet qmdlihet eornm
quae snnt per se, quod vero per alia consideret exsistens in aliis alind ut
nihil existimet vernm; esse vero talia
qnidem visibilia ac sensibilia,
ecc.: tuttavia Platone non Intende certamente negare l'obbiettività della
percezione sensibile. Né ci sembra sicuro, come crede Zellei, che Aristotile
abbia compreso la dottrina dei VELINI nel senso della subblettlvltà del
fenomeni. Non mancano In Aristotile del luoghi che sembrano Invece suppone 11
contrarlo. Tale è notevolmente quello che è già stato citato
Met., De an, De pari, animal., De gen. et corr, Phyès,, De Coelo, ecc. ì
H\ a proposito di Eraclito, contenente un ravvicinamento tra qnesto filosofo e iVELINI.
C/ome si deve Intendere, domanda Aristotile iPhys., la proposizione che tutto è
uno V forse nel senso che vi ha per tutte cose una stessa definizione? ma
allora pei VELINI, come per Eraclito, sarà la stessa cosa 11 bene e II male, l'uomo e 11 cavallo; ecc. Physs,:
è Impossibile che tutto sia uno per la forma, ma è solo possibile per la
materia; è per la forma che le cose differiscono jiure contro i VELINI. Qui
Aristotile sembra attribuire ai VELINI un monismo che non sopprime la
moltlplicltà fenomenale, ma la riconduce all'unità della sostanza. GRICE
ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING Del più antichi testimoni l'altro che
noi possiamo consultare sui VELINI più che in semplici frammenti, cioè Platone,
è incontestabilmente più favorevole alla Ipotesi della obbiettività che a
quella della subblettlvltà del fenomeno. Infatti Platone stabilisce un rapporto
sì Intimo tra la sua propria metafisica e quella dei VELINI. che va sino ad
attribuire a Parmenide di VELIA la
dottrina delle Idee-finzione che naturalmente non si può riguardare come
un'immaginazione puramente capricciosa, ma in cui deve vedersi l'espressione in
forma fantastica della proposizione astratta che vi ha una stretta connessione
tra la dottrina delle Idee e la filosofia VELINA, L'analogia fra V idealismo
platonico e la metafisica dei VELINI sarebbe in effetto assai colpente, se questi
considerassero, al pari di Platone, il particolare e 11 cangiante come
1'apparenza obbiettiva dell'Essere immutabile. Ma se i VELINI sopprimevano
d'una maniera assoluta il multiplo e 11 cangiante, cioè tutta la natura, la
dottrina VELINA sarebbe la più ^nature particolari degli esseri, per le
proprietà degli elementi materiali e per le forze generali da cui questi sono
animati. Essi non concepiscono che un
tutto abbia delle energìe che non siano il risultato delle energie dei suoi
elementi costitutivi, e perciò gli esseri particolari, p. e. gli esseri viventi,
non potrebbero, secondo essi, essere governati da leggi particoiari; da per
tutto essi non possono vedere che l'azione delle leggi generali che governano
la materia. In una parola noi troviamo nei fisici i primi rudimenti di una concezione della natura prevalente nella
scienza moderna, cioè della spiegazione fisico-chimica o semplicemente meccanica
opposta al sistema deUe Idee più opposta che qualsiasi altra fra le dottrine
dei fisici, poiché le Idee non sono altra cosa che lo stesso multiplo e
cangiante considerati nelle loro leggi, nelle loro forme generali. Grli
argomenti di Zenone di VELIA e di Melisso di VELIA contro 11 movimento, siccome
negano slnanche la possibilità di questo il primo facendo risultare dal
concetto del movimento delle conseguenze contraddittorie, il secondo negando il
vuoto e sostenendo che esso è la condizione del movimento possono sembrare una
prova decisiva contro l'interpretazione che farebbe del movimento un fenomeno
obbiettivo» Ma del filosofi hanno
ritenute le obbiezioni di Zenone di VELIA VELINO contro il movimento
insolubili, e tuttavia non ne hanno negato l'obbiettività. Hamilton, p. e.,
dice: Gli argomenti di Zenone VELINO provano che il movimento^(iuantunque certo
come fatto, non può essere concepito come possibile, perchè esso implica
contraddizione MORE GRICE TO THE Mill. Fitos. di Hamilione. In queste difficoltà del movimento Hamilton vede
un caso della legge che condanna lo spirito umano a delle antinomie Insolubili,
tutte le volte che tenta di oltiepassare la conoscenza del fenomeno, in cui
esso è necessariamente circoscritto: queste antinomie provano, secondo lui, che
noi non conosciamo l'assoluto, ma solo il condizionato, cioè solo le
manifestazioni relative d'un'esistenza in se stessa incomprensibile. La filos»
dell'assolato nei Frammenti della fllos. di Hamilton tradotti da Peisse Cosi gU
argomenti di Zenone VELINO
dimostrerebbero, secondo Hamilion, che il monda\ di tutti i fenomeni del mondo
fisico. Ma ascoltiamo Aristotile: I fisici, i quali dicono che è la materia che
produce gli esseri per il suo movimento, distruggono l'essenza e la forma.
Essi attribuiscono certe forze ai corpi,
e ne fanno produrre le cose d'una maniera puramente meccanica, sopprimendo la
causa secondo la specie cioè il principio formale o l'essenza. Dopo avere
supposto che la natura del freddo è di concentrare le parti della materia e
quella del caldo di disgregarle, e che ciascuno degli altri principii di
quest'ordine agisce naturalmente o patisce d'una certa maniera, è da tali principii e per sensibile
non è la realtà assoluta, ma non che è un semplice fenomeno subbiettlvo. Ma ciò
che prova d'una maniera più diretta che Zenone VELINO poteva conservare al
movimento un resto di realtà obbiettiva, anzi ciò che può riguardarsi come un
indizio importante che tale effettivamente sia stata la sua opinione, è la
forma in cui 1 Megarici presentano gli argomenti del loro predecessore. Il
megarlco Diodoro Crono, dopo aver provato, secondo Zenone VELINO,
l'impossibilità del movimento, aggiungeva che, se non è vero dire del mobile
che si muove, si può tuttavia dire che è mosso HE MEANS HE MEANT. Sesto Empir. iI/flr///.X. , Pyrrh,, ecc.. Per comprendere
questa distinzione, bisogna tener presente che gli argomenti di Zenone VELINO erano fondati sulle difficoltà
derivanti dal concetto della continuità del movimento cioò del passaggio
successivo del mobile per tutti I punti intermediari fra due posizioni distinte
Saggio Le antinomie della ragione. Secondo Diodoro Crono, si può dire si è
mosso, perchè effettivamente il mobile occupa successivamente delle posizioni
distinte; ma non si può dire si muove,
perchè il movimento non è continuo. Non essendovi continuità nel movimento, il
corpo sta successivamente in ciascuna delle posizioni successive che esso
occupa, e non si muove mai; per indicare che il corpo occupa una nuova
posizione, si può usare il perfetto HE HAS MEANT, che indica 11 termine
dell'azione, l'azione compiuta, ma non mal 11 presente, che indica l'azione
stessa, l'azione che si compie. FOR HOW LONG HAVE YOU MEANING THATper il senso della
distinzione tra si muove HE IS MEANING HE MEANS e si è mosso UTTERER MEANT THAT IFF HE INTENDED, Arist. Pìujs.. La distinzione di
4ali cause eh'essi dicono tutte le cose esser prodotte ^perire. Essi fanno come
qualcuno che attribuisse alla sega e agli altri strumenti la causa della produzione degli oggetti
fabbricati da un artigiano. E altrove: Non bisogna imitare gli autori antichi,
i quali dicevano piuttosto come gli esseri si generassero che come fossero;
poiché gli esseri non sono così perchè così sono prodotti, ma piuttosto sono
prodotti così perchè così sono, cioè perchè tale è la loro forma, come avviene
per un edilizio, la genesi di ciascuna cosa
essendo in grazia della sua essenza, e non viceversa. Non bisogna dunque
fare Dlodoro €rono, per la stessa forma eonti*addittorla con cui è espressa, ci
indica che essa non era destinata, nell'intenzione di questo fili»«jofo, a
salvare il movimento, rettificandone il concetto per la eliminazione di un
elemento falso, cioè della continuità. Dlodoro Intende dimostrare, come Zenone
VELINO, la natura contraddittoria e
l'impossibilità del movimento, quantunque esso fosse un fatto attestato
dall'esperienza; r essersi mosso senza muoversi mal HAVING MEANT WITHOUT
MEANING, 1'esistenza d'un fatto impossibile, prova che questo fatto non era
veramente reale, che esso non era che un semplice fenomeno, quantunque
obbiettivo dai luojj^hi citati di Sesto risulta
chiaramente che Dlodoro ammette la non realtà del movimento e al tempo
stesso la sua obbiettività. In ogni caso II movimento, per i Megarici come pei
VELINI, non poteva consistere in altra cosa che nell'apparizione successiva di
fenomeni perfettamente simili p. e. una certa forma con un certocolore in
posti differenti, non n?! trasporto, a traverso lo spazio, della sostanza
stessa, del sustrato di questi fenomeni;
polche tutte le differenze del reale, che costituiscono una moltlpUcltà di
cose, non sono per loro che delle apparenze che si mostrano in diversi punti
del sustrato comun3, p9r se stesso
omogeneo e ciò tanto nell'ipotesi della obbiettività di queste apparenze,
quanto in quella della subblettlvità. Data questa concezione del movimento, la
sua obbiettività fenomenaie è
conciliabile con l'Immobilità dell'essere vero La dottrina di Dlodoro Crono sul
movimento è, per la nostra qulstlone, un dato tanto più importante, che da
questa dottrina si può De Geru ti corr, . k €onie GIRGENTI, il quale spiega molti caratteri
degli animali per qualche accidente loro avvenuto quando furono prodotti;
attribuendo p. e. tal conformazione della spina all'essersi spezzata per
oontorsione. Se l'uomo consta di tali membra, è perchè tale è l'essenza METIER
dell'uomo: senza di queste membra non sarebbe uomo, ed è così perchè non
potrebbe essere altrimenti, o perchè così è il meglio. Ma gli antichi non
cercarono che il principio materiale e la causa analoga: quale fosse, e come il
tutto ne nascesse, e per qual causa motrice, p. e. la concordia e la discordia, o la mente, o anche
«rgomeutare che la scuola megarlca in generale non rigettava d'una maniera
assoluta la pluralità e il divenire. Ora questa scuola non faceva che
continuare la filosofìa dei VELINI l'opinione che i Megarici hanao
ammes-^o le Idee prima di Platone, non
che è una congettura arbitrarla di alcuni critici moderni, ch'ò impossibile di
ammettere quando si è compreso lo scopo e l'origine dell'ipotesi delle Idee. La
stessa conclusione, cioè che 1 MogarlcI e quindi probabilmente anche i VELINI
non rigettavano assolutamente 11
cangiamento, sembra risultare dalla confutazione della dottrina megarlca sulla
possibilità, che troviamo In Aristotile Mei.. I Magarlcl negano ciò che In
lingua aristotelica si chiama la distinzione iva potenza ed atto: essi non
ammettono che Vatto, ma non Aa potenza; per loro, in altri termini, non è
possibile se non ciò che e reale, dò che è avvenuto o che avverrà; ciò che non
è avvenuto e non avverrà, secondo loro,
non poteva avvenire e non potrà avvenire, CICERONE De fato, Plutarco De
Stoicor. repugnant, ecc. su Dlodoro Crono non abbiamo alcun motivo per
ammettere che la tesi di Diodoro Crono fosse differente da quella del primi
Megarici. Aristotile obbietta che questa tesi rende Impossibile il divenire o,
com'egli dice, 11 movimento e la generazione,
perchè so ciò che non è /;/ atto non è nemmeno /// pòtema, ne segue che
ciò che presentemente non è, non è possibile che divenga In avvenire. È
evidente che nessuno dimostrerebbe per l'assuiMlo la falsittà d'una tesi,
mostrando che essa condurrebbe logicamente ad una proposizione, che per lui è
evidentemente falsa, ma che per 1 sostenitori della tesi confutata è la verità
fondamentale del una causa puramente
meccanica; la materia soggiacente avendo insita una certa natura necessaria,
come fervida il fuoco, fredda la terra, e l'uno leggiera, l'altra grave; ed è
così che essi generano Tuniverso. E così anche dicono della produzione delle
piante e degli animali; p. e. che scorrendo Tacqua nel corpo, si sia prodotto
il ventre e ogni ricettacolo del cibo e dell'escremento, e le narici si siano aperte per il passaggio
dell'aria. I fisici espongono l'origine e la causa delle forme degli esseri
viventi come un fabbro che parlasse d'una mano di legno: dicono da quali forze
siano state fabbricate; il fabbro parla foro sistemi. ZeUer crede che la
uef^nzlone della potenza è le3:at!i, nel contatto dei Megarlci, a quella del
divenire: ma la di^duzlone di Aristotile è forzata; fra le due dottrine non può
ei^servl In realtri alcuna eonuesslone, tanto più che non vi ha ragione, come
abbiamo osservato, di distin«jruere la tesi dei primi Megarlcl da (luella di
Dlodoro Crono. La stessa osservazione vale, e a più forte ragione, pei*
l'obbiezione immediatamente precedente. In conseguenza della tesi del Megaricl,
dice Aristotile, non vi sarà ne Gildo nèireddo né dolce nò assolutamente alcun
sensibile all'infuorl della sensazione;
pev cui avverrà loro di dire la proposizione di Protagora Qui la forma stessa
In cui è espressa l'obbiezione esclude indubbiamente che i Mega -lei ammettano giù la dottrina di Protagora cioè
che 11 sensibile non esiste se non In quanto è sentito Intanto, se secondo l
Megarlcl e i VELINI il multiplo e il cangiante non consistesse che in fenomeni
subblettlvl, la loro dottrina sarebbe giù quella di Protagora, cioè essi
ammetterebbero della m.^niera più esplicita l'assurdltù a cui vuole forzarli
Aristotile. che non vi ha né caldo né freddo né dolce ne assolutamente alcin sensibile
alPinfuorl della sensazione. Ma il più forte argomento contro l'interpretazione
del sistema eleatlco nel senso della subbiettlvitù del fenomeno ci sembra 11
rapporto tra Xenofane e gli oleati posteriori. Pare certo, sia per certe
proposizioni di questo filosofo sulla dlvinltù Fr. Muli.: Dio muove o governa
11 tutto che cosa governerebbe Dio, se non esistesse una natura?, sia per le
sue opinioni cosmologiche, ch'egli diseure e di trapano, essi di terra e
d'aria. Ma meglio il fabbro, il quale sa che non basta il dire come mediante lo
strumento si sia formato il cavo e il piano, ma aggiunge che ciò avvenne,
perchè egli aggiustò i colpi d'una tale maniera e a tal oggetto, cioè affinchè
l'opera ricevesse una forma tale. Altrove Aristotile paragona i fisici a
qualcuno che pretendesse di spiegare la forma di un edilìzio, dicendo che i
gravi si ]jortano naturalmente in basso e i leggieri in alto, e che è perciò
che le pietre e le fondamenta si trovano
nella parte inferiore dell'edifizio, al di sopra la terra perchè non rigettava
assolutamente li cangiamento e la natura sensibile pure nel De Melisso ecc. e.
sul. princ. un'obbiezione contro Xenofane dalla quale risulta ch'egli manteneva
l'esistenza del multiplo. Intanto le testimonianze più autorevoli attribuiscono
allo stesso Xenofane la dottrina dell'Immutabilità assoluta dell'essere e della
non realtà del cangiamento Aristotile Mei., Arlstocle ap. Euseb. Pr. ei\ , Plutarco, Sesto Empir. PijrrJi,, ecc.
Quand'anche l'indica'/lone già citata di Teofi-asto sul riposo e il movimento
dell'uno tutto dovesse intendersi, non nel senso che Xenofane escilude da esso
tanto l'uno quanto l'altro, ma in quello che Teofrasto non può attribuirgli la
dottrina nò della realtà né della non
realtà del movimento, questa indicazione non potrebbe farci rigettare le altre
testimonianze, che identificano la dottrina di Xenofane con quella dei VELINI
posteriori: essa proverebbe soltanto cha nella prima vi era qualche incoerenza,
che si spiegherebbe supponendo che, per i VELINI, la realtà del movimento e, in
generale, del sensibile era qualche cosa di equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis].
Ma se si suppone col Zeller che Xenofane ammette assolutamente la realtà del
cangiamento e del sensibile, e che i VELINI posteriori la rigettavano
assolutamente, non si comprende più il rapporto tra l'uno e gli altri, e non si
vede come gii antichi potessero identificare le due dottrine. La quistlone: 1
fenomeni hanno per i VELINI un'esistenza obbiettiva o subbiettiva? non
deve confondersi con quest'altra: la
fisica che Parmenide di VELIA espone nel suo poema ha o no un De pari, anim, meno pesante, e alla sommità il legno perchè
più leggiero di tutti gli altri materiali. Non è semplicemente la teleologia e
il carattere dialettico della filosofia di Platone e di Aristotile che mettono
questa filosofìa in opposizione a quella dei fisici. Vi ha fra di èsse
un'antitesi fondata su due concezioni
della natura, di cui la meno metafìsica non è, in tutti i punti, quella dei
fisici. Senza dubbio le speculazioni sul principio formale o essenziale sono
strettamente legate in Aristotile con la sua teoria della definizione che, come
abbiamo visto, è un'applicaziono di quella forma di valore reale? La risposta a
(questa seconda (lulstlone. Io credo, non pòtrebbe essere In o«;nI caso che negativa: Parmenide di
VELIA dichiara categorieimeute che nel suo poema ej?II non esprime le sue
proprie opinioni, ma dello opinioni che gli sembrano erronee. Cereamente
Parmenide di VELIA (luallfica pure come una semplice opinione del volgo la
realtà d^lla nioltlpllcità e del
cangiamento Versi, luogo; Teofrasto ap.Alex. In Phil. pr. Aristotells, e perciò
potrebbe credersi che la realt{\ ch'egli
attribuisce alla fisica del suo poema sia necessariamente eguale a quella
ch'egli attribuisce al multiplo e al cangiante. Ma non è cosi. Se Parmenide di
VELIA ha ammesso, come ci sembra più
A-erlsImile, l'obbiettività del fenomeno, la realtà del multiplo e del
cangiante è secondo lui Un'opinione falsa. In quanto Vapparensa dell'essere
veramente reale viene presa per l'essere reale stesso; ed egli crede che, se
([uest'oplnlone fosse vera, sarebbe
Indispensabile una fìsica qual è quella del suo poema, fondata sul
principio di una pluralità di sostanze primordiali qualitativamente Immutabili
Arlst. Met. e Teofrasto. Ma egli non chiamerebbe la sua fisica un discorso
fallace, un'opinione che non merita alcuna fede, per la semplice ragione che l
fenomeni di cui essa tratta non sono degli esseri reali, come credono gli
uomini, ma del semplici fenomeni: se questa fisica contiene un'esposizione
esatta del fenomeni, essa è vera, quantunque non abbia per oggetto che del
fenomeni privi di vera realtà. Gli antichi autori Plutarco, Simplicio, ecc. che
confondono la qulstlone del valore della Phys, Plato. Leggi spiegazione
metafisica che abbiamo chiamato filosofia apriorista e con la sua concezione
teleologica del mondo che è un'applicazione dell'altra forma, la più spontanea,
di spiegazione metafisica, implicando, anche in quanto questa teleologia è
immanente, una certa assimilazione delle operazioni della natura a quelle
dell'uomo: a questi concetti Platone ne aggiunge degli altri più spiccatamente
metafisici, cioè la realizzazione delle astrazioni e le altre dottrine
connesse. Ma se noi sbarazziamo dai concetti metafisici con cui è legata,
questa introduzione del principio formale o essenziale come principio cosi
primitivo e irriduttibile nella costituzione degli esseri che quello della
materia, e avente delle leggi proprie così primordiali che quelle della materia
stessa; in altri termini se noi la riduciamo alla proposizione che gli esseri
manifestano delle proprietà che non sono la risultante o la somma delle
proprietà degli elementi materiali che li costituiscono; noi dobbiamo vedere in
questa proposizione il risultato di una semplice osservazione dei fatti scevra
da anticipazioni dell'esperienza e da qualsiasi ipotesi. L'ipotesi dei fisici
che non lascia negli esseri alcun principio di di«i fìsica del poema di
Parmenide di VELIA con quella della obbiettività del sensibile secondo
Parmenide di VELIA, non considerano il vero motivo e 1'origine del sistema VELINO: questo sistema sarebbe Incompatibile col
concetto di una pluralità di sostanze materiali tutte egualmente primordiali,
perchè l'uno dei VELINI, come l'uno degli altri fisici, non ò che 11 sustrato comune
di tutti 1 corpi l'essere, per l fisici e, al fondo, anche pei VELINI, non è
che il corpo, e suppone la convertibilità reciproci^ di tutte le sostanze
materiali. • stinzione, non vedendo nelle loro proprietà specifiche che il
risultato delle proprietà degli elementi materiali e delle forze che agitano
tutta la materia, non è meno metaempirica nella sua origine che le concezioni
teleologiche e dialettiche di Platone e di Aristotile. Questa ipotesi non è
semplicemente legata alla fisica meccanista: certamente il rimprovero di
Aristotile, di distruggere il principio della forma o della specie j
s'indirizza particolarmente ai rappresentanti di questa fisica, a Democrito e
sovratutto a GIRGENTI; ma Aristotile lo estende a tutti i fisici in generale. I
meccanisti^ sia perchè la loro fisica era più moderna e più sviluppata, sia
perchè essi applicavano d'una maniera più netta e rigorosa il principio, che
l'essere non può né nascere né perire, davano più occasione al rimprovero di
Aristotile: ma la concezione della natura a cui esso viene diretto era una
conseguenza del principio stesso che era l'assioma di tutti i fisici, questo
implicando l'impossibilità che l'essenza di un tutto differisca dalV essenza
degli elementi da cui è stato costituito •e in cui si risolve, e per
conseguenza una spiegazione meccanica della vita e della natura in generale.
Quantunque la filosofia posteriore ai fisici potrebbe mostrarci altri esempi
della tendenza filosofica che noi studiamo in quest'appendice, tuttavia siccome
non vi troveremmo dei si L'influenza del principio che Tessere non pnó né
nascere né perire potrebbe ritrovarsi nel concotto della materia dello stesso
Aristotile. Secondo Renan, Aristotile ha ammesso, per la sua teoria stemi in
cui l'impronta di questa tendenza sìa cosi marcata come in quelli di cui
abbiamo parlato ad eccezione, s'intende, delle dottrine che, come quella del
GIARDINO, non fanno che continuare delle dottrine più antiche: così sarà per
noi più interessante di osservare
l'influenza dello stesso sofisma a priori che ha inspirato i fisici nella
filosofia di un altro popolo, cioè degl'Indiani. Le tre principali dottrine
ontologiche della filosofia Indiana, la sanki/a, la vaiseschika e la
vedantina, corrispondono in un certo
modo alle tre scuole in cui possono dividersi i filosofi di cui abbiamo
parlato, cioè fisici unizzanti, fisici meccanisti e VELINI. Secondo Colebrooke,
la sankya la scuola di Kapila ha in comune coi fisici il principio ex nihilo
nihil fit Ciò che non esiste, dicono i filosofi di questa scuola, non può per
alcuna operazione possibile d'una causa ricevere l'esistenza. Così l'olio è
nella semenza del sesamo prima che ne sia estratto. La natura della causa e
dell'effetto è la stessa: un drappo non può differire essenzial della materia, questa psofonda verità: l'Identità
del fondo permanente dello cose, l'eternità dell'oceano di essere, alla
saperficie del quale si svolgono le linee sempre oscillanti e variabili
dell'individualità. Renan Aoerroe e l'averroismo. Ricorderemo pure la singolare dottrina del
Timeo di PIitone, secondo la quale i <jorpi elementari i quali sono dei
poliedri regolari e consistono nelle superficie
da cui sono terminati si trasformano gli uni negli altri per la l»ro
decomposizione nei piani che li costituiscono cuna nuova composizione degli
stessi piani in altri solidi di una forma differente Plato Timeo, Arist. De
Coelo, ecc. È una specie di atDmismo, in cui gli atomi sono non dei corpi ma
delle superficie. mente dalla lana con cui è stato tessuto. Conformemente a
queste premesse, i sanki/as ammettono che il primo principio, da cui le altre
cose derivano, la Prakriti o Pradhana, che è la causa materiale del tutto,
contiene tutto in uno stato indistinto o inviluppato. Tutto esce dal primo
principio, e tutto vi rientra alla fine del mondo, senza che perciò niente di
assolutamente nuovo si produca e niente assolutamente perisca. La uscita o
emissione degli effetti dalla causa e la
riunifìcaziòne del tutto, cioè il ritorno dell'universo al primo principio, ha
per tipo la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa
rientrare di nuovo. Nella vaiseschika scuola di Kanada si trova qualche cosa
come una combinazione della dottrina degli Atomisti e di quella di GIRGENTI.
Come elementi materiali questa scuola ammette cinque generi di atomi, corrispondenti ai quattro elementi dei Greci,
a cui, come alcuni dei Greci stessi, ne aggiunge un quinto, l'etere. Questi
atomi non sono tutti solidi ne destituiti di qualità sensibili, come quelli di
Democrito; ma, come gli elementi di GIRGENTI, ciascuno è dotato delle qualità
che noi osserviamo nella sostanza corrispondente. Secondo l'esposizione di
Colebrooke si può ammettere che questi
atomi sono inalterabili, e che le proprietà dei composti sono la risultante di
quelle degli elementi. L'anima è una sostanza distinta dagli elementi
materiali, come U) Colebrooke Sa(j(jio
sulla flloft. deqV Indiani trad. Frane
Saggio sulla ftlos, deyVImh. lo provano le sue proprietà differenti; ed è, come
essi, imperibile ed eterna. La materia è per se stessa inerte, e il movimento
le viene impresso dallo spirito La
proposizione che condensa la vedanta è: L'essere supremo Brahma è la causa
materiale cosi bene che la causa efficiente dell'universo. Brahma è l'elemento
etereo dal quale tutte le cose procedono e al quale ritornano tutte. Ma
trasformandosi negli esseri finiti, Brahma non perde la sua identità, perchè i
Vedantini non comprendono che l'essere reale possa nascere o perire. Nel Bhagavad-gìtà un
episodio filosofico del Mahà-Bhàrata, che è una delle grandi autorità della
filosofìa vedantina, vi ha questa proposizione: Qiiod vere non est id fieri neqiiit
ut existat, nec ut esse desinat quod vere est. La conseguenza di questo
principio è che Brama è l'essenza unica in cui tutte le cose si risolvono. Già
il Veda dice: Tutto ciò che esiste è Brahma;
tutto ciò che Colebrooke nota di Pautliier, nota di Pauthier, ecc.
Questo panteismo è fondato, come notammo altrove, sul concetto della
materialità doli'anima e di Dio, e della convertibilità reciproca di tutte le
sostanze materiali FiL teoloy. Le ideedegl'Indiani sugli elementi e sull'ordine
della loro conversione reciproca sono analoghe a quelle dei Greci. Secondo il
codice di Manu Schlegel Saggio sulla lingua e la fllos. degl'Indiani, e secondo
i Vedantini Calebrooke, gli elementi, nell'ordine con cui procedono gli uni
dagli altri, sono: l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra. I Vedantini
ora identificano Dio con. l'etere Colebr., ora ne lo distinguono Regnaud in
Rev, phil, e in questo caso fanno dell'etere 1'elemento che procede
immediatamente da Dio o dallo Spirito
sempre concepito nel senso del semi-materialismo dell'animismo
primitivo. 'I noi sentiamo per l'odorato o tocchiamo per il tatto è Brahma. Dio
è sotto forma di schiavi e sotto quella di fuggitivi; egli è l'animale
quadrupede in un luogo, e in un altro è pieno di gloria. La differenza tra la
causa e l'effetto non invalida^ dicono i Vedantini, la identità di Brahma come
causa e come effetto. Un effetto non è
altro che la sua causa; Brahma è unico e senza secondo, egli non separato da se
stesso esistente nel mondo dei corpi. Brahma è come il mare, il quale non è che
acqua, ma in cui si osservano modificazioni distinte, quali la spuma, i flutti,
ecc.; in realtà da una parte niente nel mare differisce dall'acqua di cui esso
è formato, come, dall'altra parte, niente differisce dall'anima universale, di
cui il mondo intero non è che una modificazione. Come causa dell'universo
Brahma è simile ad una pezza di stoffa
inviluppata, ed il mondo è simile a questa stessa stoffa sviluppata, di cui si riconosce la identità
con la stoffa già inviluppata. Ma tali comparazioni le quali suppongono che
nell'essere assoluto vi siano delle modificazioni reali non esprimono d'una
maniera adequata il pensiero definitivo
dei Vedantini: questo è che l'Essere assoluto in se stesso resta immutabile
attraverso tutti i cangiamenti a cui l'universo è sottoposto. Brahma è
impassibile, inaffettato dalle modificazioni del mondo, come il puro cristallo
che pare colorato per il fiore rosso d'un ibisco, ma che in realtà noti cessa
di essere trasparente. En:li è lo stesso
in tutte cose: non vi ha in lui
diversità né variabilità; nev suna moltiplicità. La contraddizione tra
quest'unità e immutabilità dell'Essere che è la sostanza universale, e i
cangiamenti e la pluralità delle cose è risoluta dai Vedantini, cjme dai VELINI,
distinguendo il fenomeno e la realtà: questa distinzione corrisponde a quella
del costante e del transitorio. Brahma, il solo oggetto costante, è distinto da
tutto il resto che è transitorio; Brahma
solo è reale, il resto non è che apparenza. Diverse forme illusorie e diversi
svisamenti sono rivestiti dallo stesso spirito. Il sole luminoso, quantunque
unico, tuttavia, riflettuto nell'acqua, diviene multiplo: tale è pure l'anima
divina increata, per uno svisamento sotto diversi modi. Il mondo sembra reale,
sinché Brahma non è compreso; ma Vyogi, di cui
l'intelletto è perfetto, con l'occhio della conoscenza percepisce che
ogni cosa è Spirito; egli conosce che queste forme corporali delle cose sono
Spirito, e che fuori dello Spirito non esiste niente. Di tutto ciò che è visto,
di tutto ciò che è inteso, non esiste che Brahma: tutto ciò che sembra esistere
fuori di lui non è che un'illusione, come l'apparenza dell'acqua il miraggio
nel deserto. Brahma non si trasforma
dunque che in apparenza: le forme cangianti degli esseri finiti non sono che
vane immagini a cui non corrisponde altro Colebr. Colebrooke, Regnaud Studi di
fllosopa indiana in Rev, phil. Colebrooke Atma-Bodha. Regnaud. Stuli di
filosofia indiana in Rev. phil. Colebrooke. Attna-Bodha ^onosc. dello spirito
di S'ankara, N IT r i^ di reale che Brahma, Tessere immutabile che apparisce sotto queste forme
diverse. Qui si presenta la stessa quistione che pei VELINI. Quando i Yedantini
chiamano il multiplo e cangiante. una semplice apparenza, intendono perciò
ridurre la natura a dei fenomeni puramente subbiettivi, o quest'apparenza è per
loro un'apparenza obbiet» Uva? Il carattere fenomenale delle cose, per i
Vedantini come pei VELINI, non è il
risultato di ricerche sulla natura della nostra conoscenza, dimostranti il
valore relativo e puramente subbiettivo della percezione, ma è la conseguenza
di questa premessa, che l'essere non può cominciare né finire, che le cose non
possono cangiare di natura e di proprietà, unita a quest'altra, che non vi ha
una pluralità di sostanze primordiali inconvertibili l'una nell'altra, ma
una sostanza unica che prende forme
differenti. Dato questo motivo della dottrina, noi dobbiamo preferire
d'interpretarla nel senso della obbiettività piuttosto che in quello della
subbiettività del fenomeno. Quest'ultimo senso sarebbe d'altronde incompatibile
con altre proposizioni dei Vedantini, notevolmente con le altre
rappresentazioni del rapporto tra Dio e il mondo. Quando paragonano Brahma a una stoffa inviluppata e il mondo a
questa stoffa sviluppata; quando dicono che Brahma si trasforma nelle sostanze
corporali come l'acqua in ghiaccio, e che queste sostanze saranno da lui
riassorbite alla consumazione di tutte le cose; quando tra Brahma e le cose
particolari stabiliscono lo stesso rapporto che tra la terra e i vasi fatti di
questa terra o tra l'oro e gli ornamenti d'oro; ecc.; i Vedantini affermano
chiaramente l'obbiettività delle forme finite. Questi concetti potrebbero
difficilmente coesistere con quello di Maga, cioè della fenomenalità degli
esseri finiti, non vi sarebbe tra gli uni e l'altro alcuna gradazione
possibile, se i Yedantini riguardassero il multiplo e cangiante come dei
fenomeni subbiettivi, e non come r apparenza obbiettiva dell'Essere immutabile. Nella filosofia il principio
della immutabilità della sostanza si afferma sin dal risorgimento del pensiero
filosofico. La più parte dei primi filosofi o inaugurano la spiegazione
meccanica della natura o proclamano un panteismo, in cui Dio è concepito come
1'essenza sempe identica a se stessa dogli esseri transitori e variabili. Sotto
la forma unitaria e panteistica, il principio dell'immutabilità della sostanza
si trova, nel modo più accentuato, in Bruno. Nelle esistenze finite egli non
vede che le manifestazioni diverse e cangianti di un essere in se stesso unico
ed immutabile. Quel tutto che si vede di differenza ne li Negli Vpanichad
sezioni finali dei Veda vi ha già il concetto deirimmutabilità di Brahma, non
che quello di Brahma sostanza comune di tutti gli esseri; ma non ancora quello di maya o del
carattere illusorio delle cose sensibili Regnaud Rev. phil. La successione
cronologica dei concetti corrisponde cosi alla loro successione logica Regnaud
mostra che in S'ankara il più celebre commentatore dei vedanta-soutra, che sono
il testo dei filosofi vedantini o negli stessi soutra si trova già il concetto
di mai/ a Rev. hiU, ciò che Colebrooke
avoa negato Colebr Per S'ankara del resta ciò risulta abbastanza dalla
citazione precedente. Manca perciò di fondamento la supposiziono di Colebrooke
che questo concetto sia un impiestito degli ultimi scrittori vedantini a
qualche aUra scuola. H i: i J' N i> t
5 corpi, quanto alle formazioni, complessioni, ligure, colori ed altre proprietadi
e comunitadi non è altro che un diverso volto di medesima sustanza, volto labile, mobile,
corrottibile di un immobile, perseverante et eterno essere, in cui son tutte
forme, figure e membri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimenti che
nel seme, ecc. L'essere primordiale none dunque soltanto secondo Bruno il
sustrato permanente di tutte le cose, di cui tutto ciò che vi ha in queste di
vario e di cangiante non è che un modo di
essere; esso è ancora il seno fecondo di tutto ciò che nasce, in cni
ogni cosa preesiste, per dir così, allo stato latente, in modo che tutto ciò
che viene all'esistenza non viene dal niente, non comincia d'una maniera
assoluta, ma si spicca dal fondo permanente dell'essere, diventa manifesto,
mentre prima era occulto. Bicordiamo la stoffa inviluppata che si sviluppa dei
filosofi indiani, e la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le
fa rientrare. Ogni potenza et atto, che nel principio è come complicato, unito
et uno, ne le altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato. ciò che vi ha di
vario negli esseri si trova nell'essere primordiale, ma fuso insieme, in modo
da formare un'essenza assolutamente semplice e, per cosi, una massa
perfettamente omogenea. L'universo è
tutto quel che può essere, secondo un esplicito, disperso, distinto: il principio
suo è De la causa, principio et uno, ed.
Wagner. unitamente et indifferendemente, perchè tutto è tutto et il medesimo
semplicissimamente, senza differenza e distinzione. La potestà si assoluta non
è semplicemente quel che può essere il sole, ma quel ch'è ogni cosa, e quel che
può essere ogni cosa, potenza di tutte
le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le
anime, essere di tutti gli esseri. Onde altamente è detto dal rivelatore: Quel
ch'è me invia, colui ch'è dice così. Però quel che altrove è contrario et
opposìto, in lui è uno e medesimo, et ogni cosa in lui è
medesima. Noi vediamo qui come Bruno, per conciliare l'unità dell'essere primordiale
con la varietà degli esseri derivati, è
condotto a delle idee analoghe a quelle di Eraclito. Il principio dell'identità
dei contrari, in Bruno, come in Eraclito, non deriva da considerazioni
dialettiche, come nell'idealismo tedesco, ma.dal }frincipio che l'essere non
può venire dal niente. La differenza tra Eraclito e Bruno è che, mentre da questo principio il primo ne
conclude immediatamente che gli opposti sono identici nelle cose stesse, il
secondo immediatamente non ne conclude se non che tutti gli attributi delle
cose devono trovarsi nell'Essere primordiale, e solo mediatamente che in
quest'Essere per conseguenza gli opposti
devono essere identici, senza di che gli attributi reciprocamente incompatibili
delle cose non potrebbero coesistere in un essere unico e semplice. Questo
rapporto con Eraclito è stabilito dallo stesso autore. filosofia con cui il
sistema di Bruno ha uno stretto rapporto è quella dei VELINI, di cui egli loda
e difende le dottrine. Tutto quello, egli dice, che fa diversità di geni, di specie, differenze,
proprietadi, tutto che consiste ne la generazione, corruzione, alterazione e
cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza d'ente e
d'essere, il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima,
vero e buono. Quello che fa la moltitudine ne le cose non è lo ente, non è la
cosa, ma quel che appare^che si rappresenta al
senso ^et è ne la superficie de la cosa. In un altro luogo della stessa
opera 1'universo è chiamato uji simulacro^un'immagine^un'ombra del suo
principio. Ricordiamo che quel tutto che si A'ede di differenza ne li corpi non
è che nn diverso volto di un immobile, perseverante et eterno essere. Noi
vediamo qui quanto Bruno è vicino al concetto della fenomenalità del mondo dei VELINI
e dei Vedantini ammesso che per questi
filosofi questa fenomenalità debba intendersi nel senso obbiettivo, concetto
che solo potrebbe dare un sembiante di soluzione alla contraddizione che vi ha
tra l'immutabilità dell'Uno tutto e i cangiamenti dell'universo. Potrebbe forse
credersi che per Bruno questa contraddizione non esiste, perchè egli non
attribuisce l'immutabilità che all'Uno in se
stesso,. nel suo stato implicito. Ma tale osservazione non toglie la
contraddizione, indica soltanto il punto preciso in cui questa si trova. L'uno
e il mondo non sono, nel sistema di Bruno, che è un panteismo rigoroso, due
esseri distinti -e separati: l'Uno vive nel mondo, vi è contenuto, perchè esso
è la stessa del mondo. Ma Bruno astrae questa sostanza del mondo dai suoi modi
di essere parti<?iolari, e ne fa un
essere sussistente per se stesso, «enza però staccarlo dal mondo, di cui, anche
in questo stato di astrazione, esso continua ad essere la sostanza. L' Uno
esiste dunque simultanea Per questa
facilità a realizzare delle astrazioni Bruno ci rivela la sua posizione storica:
come quasi tutti gli altri pensatori della Rinascenza, egli non é ancora un
filosofo moderno, egli non é che a metl
emancipato dalla scolastica. Molti concetti fondamentali della metafisica di
Bruno portano l'impronta di questa tendenza ad elevare a realt.i sussistente
per se stessa l'indeterminato, ciò che non è che un prodotto dell'astrazione.
Ciò non è vero soltanto del concetto dell'Uno che è una sostanza senza gli
accidenti, quindi un'astrazione, e al tempo stesso una realtà, a cui competono degli attributi opposti a quelli
del mondo, di cui nondimeno è la sostanza. Bruno considera le anime degli esseri
particolari come le individuazioni di un'anima universale unica, la quale non è
già l'insieme delle anime o delle vite particolari, ma il loro principio, che
esiste per sé slesso prima di particolarizzarsi e moltiplicarsi s'intende d'una
priorità logica e metafisica, press'a
poco <'.ome un'idea di Platone. La stossa materia in astratto sembra
talvolta vagamente realizzata. Cosi quando egli dice in un luogo che cita Lange per provare la tendenza materialista di
questo filosofo che la materia contiene nel suo seno tutte le forme, e che
queste escono dall'interiore della materia per l'attività della materia stessa,
la quale le fa uscire da sé, simile alla parturiente, che per i suoi sforzi convulsivi spinge il
figlio fuori del suo seno; allora, accordando alla materia un'anteriorità
metafisic .sulla forma, egli sembra considerarla come esistente per se stessa
mente in due stati contrari: in se stesso, cioè nel suo stato astratto, egli è
il tutto, ma allo stato implicito; nel mondo, egli è ancora lo stesso Uno, ma
allo stato esplicito, disperso, moltiplicato. Ora è e^ vidente che questi due stati opposti non
potrebbero appartenere simultaneamente allo stesso essere, a meno che Bruno non
dica con Platone e con Hegel i quali tra le Idee e le cose stabiliscono lo
stesso rapporto che Bruno tra l'Uno e il mondo che di questi due stati l'uno solo è reale, e l'altro non è che
apparente. In TELESIO il principio dell'immutabilità della sostanza arriva ad
una concezione della natura che è assai
vicina alla spiegazione meccanica, ma che al tempo stesso tiene strettamente
ancora, come i concetti di Bruno, all'ambiente intellettuale di un'epoca, in
cui i prodotti dell'astrazione vengono trattati come degli esseri concreti. Gli
elementi delle cose sono secondo TELESIO una materia indeterminata, senza
qualità, e il caldo e il freddo che determinano
e qualificano questa materia. Il caldo e il freddo sono delle nature
sussistenti per se stesse^che si contendono il dominio della materia: la
materia esiste dunque per se stessa indipendentemente indipendentemente dalla
forma Il principio generale applicato in questi concetti di Bruno é che il
reale, considerato nella sua essenza, la quale si risolve in principii astratti
o indeterminati, é immutabile, e che il
cangiamento non attinge che la superficie dell'essere; di più queste stesse
determinazioni particolari e cangianti, che si producono alla superficie
dell'essere, sono considerate non come prodotte dal niente, ma come tirate dal
suo fondo permanente, che^le contiene in se stesso a^uno stato implicito •
involuto. dalle sue qualità, e queste indipendentemente dalla materia. Le altre proprietà contrarie che
differenziano la materia sono ricondotte alla contrarietà fondamentale del
caldo e del freddo: col caldo sono congiunte la tenuità, la luce, la mobilità;
col freddo la spessezza, l'oscurità, l'inerzia. Le proprietà differenti dei
cori3Ì provengono dunque dalla presenza nella materia dell'uno o l'altro dei
due principi! contrari, o dalla proporzione in cui l'uno e l'altro vi coesistono. Le proprietà medie
sono la risultante del concorso delle proprietà opposte, che abbiamo indicato:
cosi i colori provengono dalla mescolanza del bianco e del nero, cioè della
luce e dell'oscurità. Ogni cangiamento si riduce perciò alla diversa
distribuzione nello spazio del caldo e del freddo esistenti nell'universo:
questi, della stessa maniera che il loro sustrato materiale, non nascono ne periscono, sono sempre gli
stessi e nella stessa quantità, e soltanto passano da un luogo ad un altro.
Così niente si produce di assolutamente nuovo e niente assolutamente si
distrugge: ogni cangiamento qualitativo si riduce al cangiamento nei rapporti
degli stessi elementi, sempre identici a se stessi. Anche nel suo insieme
1'unÌA^erso resta immutabile, perchè i cangiamenti che si producono in un punto sono compensati
da cangiamenti contrari che devono prodursi in qualche altro punto. Il caldo e
il freddo sono forniti di senso: infatti, dice TELESIO, questo non potrebbe
trovarsi negli animali, nei composti, se esso non esistesse negli elementi.
Fiorentino, Telesio, Telesio ci fornisce un esempio molto evidente del fatto
che, tutte le volte che lo spirito umano
cerca di formarsi una concezione delle cose in conformità del principio
dell'immutabilità della sostanza, egli è obbligato a girare, quando non arriva
sino ad essi, attorno ai concetti del meccanismo, che soli permettono di
realizzare questo principio d'una maniera intelligibile. Noi abbiamo già
osservata come gli stessi fisici che ammettevano una sostanza unica cercavano,
come i meccanisti, di ridurre al
movimento tutti i cangiamenti della natura. Le stesse immagini impiegate dai
filosofi monisti i cui concetti sembrano i più lontani da quelli del meccanismo
la stoffa inviluppata che si sviluppa, la tartaruga che spinge fuori le sue
membra e poi le ritira, l'unione e complicazione delle cose nell'Uno e la loro
dispersione ed esplicazione nel mondo, ecc. ci mostrano che tutto ciò che vi ha di rappresentabile
nelle loro oscure concezioni, perchè è la sola base sensoriale o empirica su
cui esse si sono sviluppate, si riduce a quelle stesse esperienze che,
generalizzate d'una maniera coerente, danno origine alla concezione meccanista,
cioè a quelle esperienze che ci offrono come fenomeno il più familiare la
persistenza delle cose nelle loro proprietà e il movimento per cangiamento unico. Cosi niente
di più naturale che il ritorno della concezione meccanica insieme a quello
della chiarezza del pensiero, e la pronta prevalenza di questa concefi) Per
Tìuccanica noi qui intendiamo una concezione deUii natura che consiste ad
ammettere che tutti i fenomeni del mondo ob zione nella filosofia. Già BUONAIUTO Gralileo dice contro
il concetto peripatetico della
generazione e corruzione: Io non son mai restato ben capace di questa
trasmutazione sustanziale, per la quale una materia venga talmente trasformata,
che si deva per necessità dire quella essersi del tutto destrutta, sì che nulla
del suo primo essere vi rimanga, e che un altro corpo, diversissimo da quella,
se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto, e di lì a poco sotto un altro
differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice
trasposizione di parti, senza corrompere o generar di nuovo. Ma è a dei
filosofi un poco posteriori, a Cartesio GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT
PERCEPTION e agli altri celebri pensatori suoi contemporanei, fra cui bisogna
mettere in prima linea Gassendi, il
rinnovatore dell'atomistica, che si deve l'espressione rigorosa di questo
principio, divenuto quasi un assioma nella scienza, che tutti i cangiamenti del
mondo fisico si riducono allo spostamento di parti materiali in se stesse
inalterabili. Fra le due dottrine sull'essenza della materia che possono
servire di base a una concezione mecbiettivo sono dei fenomeni meccanici.
Per conseguenza il significata in cui
usiamo questo ternvine in questo paragrafo e nei due seguenti deve essere
distinto da quello in cui l'abbiamo usato nel capitolo, in cui filosofìa
meccanica è stato por noi l'equivalente di fllonofla impuhionisfa cioè di una
spiegazione della natura in cui non solo tutti i fenomeni del mondo fisico si
riducono a processi meccanici, ma anche tutti i fenomeni meccanici al movimento prodotto per
impulsione. Allora, conlormandoci aU'uso di molti sostenitori di questo
sistema, conia parola meccanica abbiamo designato una npeciCr di cui ora con la stessa parola
designiamo il genere, Dialoghi dei massimi sistemi Giornata l*. liXxxYiir
canica soddisfacente alle esigenze della scienza quella di una materia continua
e perfettamente omogenea in tutte le sue
parti, e quella di molecole separate dal vuoto, omogenee qualitativamente e
inalterabili, e solo suscettibili di differire per la forma o per la grandezza
è l'ultima senza dubbio che noi possiamo rappresentarci d'una maniera più
netta. Quantunque, al punto di vista della possibilità di formarsene una
rappresentazione, il concetto di molecole non aventi altra qualità che restensione
e l'impenetrabilità non manchi anche esso di gravi difficoltà che noi
svilupperemo nella 2. parte di questo Saggio, tuttavia queste non sono €0si
evidenti come quelle inerenti al concetto di una materia continua ed omogenea,
quella sovratutto a cui si va incontro quando si cerca di rappresentarsi il
movimento e delle forme distinte al seno d'una massa continua ed
assolutamente indifferente. Sarebbe
interessante, ma molto al di sopra della nostra competenza, di cercare se sia
stato questo vantaggio della dottrina della discontinuità, cioè, nel fatto,
dell'atomistica, che ha determinato la sua vittoria definitiva sulla dottrina
della continuità, procedente da Cartesio. Ma, comunque sia di ciò, non vi ha
dubbio che l'atomistica non sia stata all'origine, come la dottrina rivale di Cartesio, una speculazione a
priori, cioè derivata dalle tendenze spontanee dello spirito, e non
un'induzione logica tirata dai fatti. Gassendi, a cui si deve l' introduci) il
studio di G. sulla dottrina della materia in Rosmini. zione degli atomi nella
scienza, non intende che risuscitare la dottrina del GIARDINO: così
l'atomistica di Gassendi e dei fisici che lo seguirono, non è ancora essenzialmente che quella del GIARDINO e di Democrito. Gli
atomi di Bojle che introdusse l'atomistica nella chimica sono quasi gli stessi,
dice Lange, che quelli del GIARDINO, quali Gassendi li ha fatto rientrare nella
scienza. Essi hanno ancora delle forme differenti, che influiscono sulla
stabilità e l'inconsistenza delle combinazioni. Un movimento violento ora rompe
la coesione di certi atomi, ora ne
riunisce altri, i quali, come nell'atomistica antica, si appiccano gli uni agli
altri con le loro facce piene di scabrosità, per mezzo di sporgenze, di
dentelli, ecc. Quando avviene un cangiamento nella combinazione chimica, le più
piccole molecole d'un terzo corpo s' introducono nei pori separano due corpi
combinati. Esse possono allora combinarsi con l'uno di loro, grazie alla condelle loro facce, meglio che
questo non era combinato prima col secondo corpo; e il movimento precipitato
degli atomi porterà via le molecole di quest'ultimo. Naturalmente, come osserva
Lange, questa forma dell'atomistica che assimila l'azione reciproca tra le
molecole alle più familiari tra quelle che noi vediamo fra le masse sensibili
dove soccombere allorché fu accettata la
legge di Newton sull'attrazione: allora s'introdussero le attrazioni e le
repulsioni tra le molecole, e le forme svariate di prima non furono più
necessarie per Stor, liei water. IP e.
2". xc ispiegare la loro unione. Ma questa modificazione non sposta la
base logica dell'atomismo: non si potrebbe vedere, sotto il apporto del loro
valore scientifico, una differenza essenziale tra l'atomistica del secolo 17^ e 18^ e quella di
Democrito e del GIARDINO, perchè nessuna delle prove, in cui la scienza
riconosce il fondamento della teoria atomica, era conosciuta prima di Dalton.
Dalton mostrando che nell'ipotesi, generalmente ammessa, degli atomi si poteva
spiegare la regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni delle sostanze
la legge delle proporzioni fisse e
quella delle proporzioni multiple supponendo che gli atomi di ciascuna sostanza
hanno un peso definito, e che ciascun atomo di una sostanza si combina con uno
o con due, ecc., atomi di un'altra sostanza, diede alla teoria atomica la base
che essa ha nella chimica. Così gli atomisti ammettono che è Dalton che fece
entrare la teoria atomica nella sua fase sperimentale: nessuno, dice Naumann, ha dimostrato coi fatti, prima di
Dalton, i dritti e l'utilità dell'atomistica. Noi possiamo dunque, senza
esitazione, classare Tatomistica, prima di Dalton, non meno che quella di
Democrito e del GIARDINO, tra i prodotti di questa tendenza spontanea che ha il
nostro spirito ad ammettere che 1'universo è sostanzialmente immutabile^o, come
dicevano i fisici, che l'essere non può
venire dal non essere, ne ridursi al non essere. Così 1'assioma dei fisici
Elem, di termo chimica, citato da Lange
SL del mai. noi lo ritroviamo
negli atomisti, in termini che ricordano, della maniera più precisa, Anassagora,.GIRGENTI e Democrito. D'Holbach, p. e., dice: A parlar esattamente, niente
nasce e muore nella natura; vi ha solamente una combinazione ed una separazione
di ciò che era combinato. Sembrerà una coincidenza singolare che la scienza sia
venuta a confermare ciò che non era che una semplice veduta a priori dello
spirito, là quale, come tutte le altre ipotesi che si sono immaginate sui così
detti principi i ultimi delle cose, non aveva la sua sorgente che nella
sofìstica naturale dello spirito umano. Potrà anche sembrare più sorprendente
che la conferma del principio degli
antichi fisici che non vi ha né generazione ne corruzione, cioè che le cose non
possono cangiare di natura e di proprietà, sia venuta appunto dalla chimica, la
quale, se dobbiamo stare ai risultati immediati dell'osservazione, ci mostra
invece che tutto cangia continuamente e della maniera più radicale di natura e
di proprietà COMBUSTIONE, poiché il
carattere proprio della combinazione chimica, che la distingue da una
semplice mescolanza^è di far disparire completamente le qualità fisiche delle
sostanze che si combinano, dando luogo ad una nuova sostanza USUALLY ASHES AT
CLIFTON, le cui proprietà, ad eccezione del peso, non po/^sono dedursi dalle
proprietà degli elementi da cui essa risulta. Qui il progresso delle acquisizioni positive della scienza si fa in
una direzione opposta a quella seguita dalle Sist. della nai, p. e. V. xeni sue ipotesi. Mentre i primi
chimici supponevano, conformemente alle tendenze spontanee della credenza, che
il composto dove avere delle proprietà identiche o simili a quelle degli
elementi a priori, noi ci attenderemmo infatti che le proprietà del composto
dovrebbero essere la somma o la media di
quelle dei componenti, ciò che è la suggestione – WHAT IT SUGGESTS THOSE SPOTS
SUGGEST MEASLES delle nostre esperienze più familiari, la chimica moderna
invece, mostrando il contrario, si è formata in opposizione a queste tendenze
spontanee è perciò che il risultato di
una combinazione chimica sembra un fenomeno sorprendente e misterioso: ma la teoria atomica procede
assolutamente nel senso di queste tendenze stesse, riducendo ad una semplice
congiunzione e separazione di elementi, senza cangiamento qualitativo, ciò che
la semplice osservazione immediatamente dà come una conversione di più sostanze
PHILOSOPHER’S STONE in una nuova sostanza unica, e una riconversione di questa
sostanza nelle sostanze primitive. Ciò che si deve osservare è questo carattere
comune che la teoria atomica ha con le dottrine metafisiche, cioè di ricondurre
dei fatti che ci sembrano sorprendenti BIZARRO, perchè relativamente poco
familiari BANALE e si noti, dei fatti generali, delle uniformità della natura,
che potrebbero ben essere dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione ad altri fatti che ci sembrano naturali ed evidenti per se
stessi, perchè estremamente familiari. Noi abbiamo osservato che, quando Democrito
riconduce i fenomeni del cangiamento nello stato fisico dei corpi ai diversi
rapporti di elementi costitutivi invariabilmente solidi, egli da una
spiegazione di questi fenomeni, nel senso popolare o metafisico della parola
spiegazione, cioè riducendo ciò che è
meno famliare a ciò che è più familiare BANALE NON BIZARRO: questa
osservazione si applica pure naturalmente alla odierna ipotesi della
costituzione molecolare della materia, poiché, qualunque sia la differenza del
modo in cui Democrito e di quello in cui il fisico si rappresentano i rapporti
tra le molecole per costituire i differenti stati fisici della materia, e quali
si siano i motivi che il fisico moderno
può avere, in più di Democrito, per ammettere che ww. fluido non è fluido in
tutte le sue minime parti, come si presenta alFosservazione GRICE EDDINGTON’S
TWO TABLES, ma è un aggregato di particole solide; malgrado queste differenze,
vi ha Tuguale risultato di ricondurre dei fenomeni relativamente poco familiari
BIZARRO a un fenomeno estremamente
familiare BANALE, qual è quello, che noi vediamo a ciascun istante, di
corpi che, restando gli stessi, cangiano unicamente le loro posizioni
reciproche. Questa riduzione di ciò che è relativamente strano e non familiare
a ciò che per la sua familiarità sembra assolutamente naturale e non avente
bisogno di alcuna spiegazione, è più evidente ancora nella spiegazione del
chimico che riconduce ciò che per la
semplice osservazione non è che una conversione reciproca di sostanze le
combinazioni e decomposizioni chimiche alla congiunzione e separazione di
particole inalterabili. Non è meno evidente infine che quando il fatto della
regolarità dei pesi secondo cui si combinano le sostanze, viene spiegato,
supponendo che ciascuna sostaiza semplice è costituita di particole eguali indivisibili, e che le
particole pure eguali in cui si divide
la sostanza composta si formano per l'unione di questo particole ultime delle
sostanze elementari, di cui ciascuna conserva la propria integrità; allora il
fenomeno che serve di intermediario esplicativo è, come nelle spiegazioni metafisiche, un fatto
che sembra più comprensibile in se stesso, perchè è più familiare, del fatto che si tratta di spiegare. La
regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni chimiche sembra, per una
necessità psicologica, al chimico stesso, un fenomeno sorprendente e
misterioso, perchè non è un dato della sua esperienza di tutti gl'istanti come,
p. e. l'urto o il movimento volontario),
ma non si rivela a lui che nelle ricerche ch'egli fa nel suo
laboratorio; al contrario, noi siamo perfettamente abituati non meno che alle
esperienze dell'urto o del movimento volontario RYLE HEAD SCRATCHING a vedere
gli oggetti più familiari che ci circondano conservare la loro integrità, e non
cangiare che di posto; e un'esperienza egualmente familiare mostrandoci che
questa facoltà che hanno gli oggetti materiali di conservare la propria
integrità è in rapporto con la loro
durezza, noi troviamo affatto naturale che dei corpi infinitamente duri, come
si suppongono gli atomi, siano anche assolutamente indivisibili. A questo
tratto comune che l'ipotesi L'ipotesi di alcuni fisici della elastlcltfi degli
atomi è evidentemente una deviazione dal tipo, per dir cosi, naturale dei
concetto dell'atomo. L'elasticità degli atomi si ritiene indispensabile per la
teoria CINETICA dei gas, secondo la
quale un gaz è costituito da dartlcole solide che si muovuono continuamente in
tutte le direzioni xcv della costituzione molecolare e atomica della materia ha
con le ipotesi metafìsiche bisogna aggiungerne un altro: è che le molecole intendendo
per questa parola i corpuscoli distinti e separati in cui la materia si suppone
in atto divisa, ma senza includervi possibili. Affinchè dopo gli urti delle
particole 11 movimento non sia perduto, ed esso possa essere perpetuo, le
particole devono essere perfettamente elastiche; se fossero Ine^astlche o
Imperfettamente elastiche, vi sarebbe perdita di movimento ad ogni Incontro. SI
ritiene puro che l'elasticità assoluta dogM atomi sia reclamata dal principio
della conservazione dell'energia; polche la
perdita di movimento nell'urto del corpi duri e iuolastlcl si concilia
con «[uesto principio ammettendo che il movimento della masse diviene un
movimento interiore delle loro molecole; spiegazione natur.almente
inapplicabile nell'urto delle particole ultime della materia, che non sono esse
stesse costituite di particole più piccole HARE SUB-ATOMIC PARTICLES. Ma è
evidente che Tatomlstica non può ammettere il concetto dell'elasticità degli
elementi ultimi della matei-Ia GRICE QUARK, che facendo violenza alle sue
esigente più naturali: sia perchè 1'Indivisibilità dell'atomo INDIVIDVVM non si
spiega e non si concepisce che nell'ipotesi della sua durezza e rigidità
assoluta; sia INDIVIDVVM MOLECVLA perchè la contrazione e la dilatazione del
corpi è, nalla teoria atomica, l'effetto
della diminuzione o dell'aumento del vuoto comproso tra le parti materiali.
Un'idea notevole, jìerchò mostra di una maniera palpabile la contradlzlonl tra
il concetto dell'el.astlcltà dell'atomo e 1 presupposti generali dell'atomismo,
è quella emessa da Lange St. del mater
secondo la quale l'atomo elastico si comporrebbe di sotto atonU, e questi
ancora di sottoatoml inferiori – PROTONE
ELETTRONE NEUTRONE, e co^i all'infinito. È evidente che di questa maniera il
concetto stesso dell'atomo sparirebbe, perchè ogni minima porzione di materia
sarebbe, non solo divisibile EINSTEIN HIROSHIMA NUCULAR, ma divisa già in atto.
Di più noi abbiamo in quest'Idea di Lange la inconcepibilità latente della
divisibilità della materia all'Infinito
resa evidente, e, per dir così, sensibile, per questa sostituzione al concetto
della divisibilità tlel concetto di una divisione attuale, e in parti separate
dal vuoto. Un'altra deviazione dall'atomismo naturale, destinata a risolvere le
accennate ed altre difficoltà della teoria, è l'Ipotesi di Thomson – NON
L’AMICO DI GRICE, secondo cui gli atomi sarebbero del turbini formati da movimenti rotatori in un fluido continuo e
assolutamente omogeneo. In un tal fluido questi turbini sarebbero permanenti. É
una ipotesi fondata sulle ricerche che Helmholtz avea fatte sugli anelli l'idea
dell'indivisibilità di questi corpuscoli e tanto più gli atomi, non sono, come
gli esseri tra-scendenti della
metafisica, delle vere cause GRICE REBEL WITHOUT A CAUSE DECAPITATION
WILLED, nel senso che questi termini hanno nella celebre regola di Newton; vale
a dire si tratta di esseri ipotetici di
una natura affatto particolare, tale che l'esperienza turbini un cottile anello
di Ilciuldo di cui cltìscuna molecola è animata da un movimento di rotazione
attorno dell'anello in un piano perpendicolari» a (jnelio di (luest'anello
.|Ielmoltz mostrò che, se non esistono attriti
esteriori, un tale sistema si manterrà Indefìnitamente in equiUbrlo Heni
loi Ipotesi attuali sulla costituìione della
materia. I/lpotcsi di Thomson è, come si vede una fusione
dell'atomistica con la dottrina ca"teslana d'una materia continua e
assolutamente omo^^^ea, ed essa si conforma alla condizione jjenerale della
teoria meccanica, di ammettere cioè 1'inalterabilità della materia e di ridurre tutti i cangiamenti al movimento. Se
non che ciò che nella concezione di Thomson fa la funzione di materia è una
materia, per dir così, trascendentale, non è la nostra materia: la nostra
materia consiste, nell'Ipotesi di Thomson – NOT J. F. THOMSON – GRICE THOMSON
--, nei turbini, cioè In certi movimenti, che hanno luogo in (luesta materia
trascendentale. Ciò sujrprerlsce una riflessione sulla natura di (|uesta
ipotesi, la quale dimostrerebbe forse che ossa non ha che /// apparenza una
base sperimentale. Thomson dota di certe
proprietà II suo fluido ipotetico per anaioj?la ai nostri fluidi, ai
fluidi dell'esparienza, e da questa proprietà deduce la sua Ipotesi. Ma la
inferenza dal nostri fluidi al suo fluido ipotetico è leggittima? Io credo che
Thomsou non sia autorizzato a trasportare al suo fluido Ipotetico né le
proprietà dei nostri fluidi ne ({ualslasi altra leg^e del mondo materiale. Le
legsji della natura fìsica, cioè della
materia, non possono essere, secondo Tomson, che l'espressione generale del
modo di comportarsi dei suoi atomi turbini nei loro reciproci rapporti in
condizioni determinate. Un'inferenza sperimentale è dunque un'inferenza dal
modo in cui questi turbini si sono comportati in date condizioni al modo in cui
gli stessi turbini o altri turbini analoghi si comporteranno nelle
Identiche condizioni. Dalle proprietà
Avendo bisogno di un termine por indicare il concetto generale che tutti i
corpi, qualunque sia il loro stato fisico, sono costituiti di particole solide
WAVICLE, facendo astrazione della forma
particolai e di questo concotto che vede nelle particole costitutive degli
atomi, cioè delle piccole masse indivisibili, ci serviamo a quest'oggetto della
parola molecola, impiegandola non nel
senso che essa ha nella scien« za, ma in un senso più confórme alln sua
etimologia. non ci fornisce alcun esempio degli attributi di cui questi esseri
si suppongono dotati. La solidità assoluta che si suppone nelle molecole,
questa potenza inlìnita, come dice Bernouilli, di resistenza alla compressione
e alla deformazione, ò un'attributo
sconosciuto airesperienza. Lo stesso
deve dirsi naturalmente di questa potenza infinita che si suppone nell'atomo,
di resistenza a qualsiasi forza tendente a dividerlo. Tra le parti della
molecola o dell'atomo si suppone una forza di coesione di una natura affatto
speciale, una forza la cui esistenza non è stata mai costatata nel mondo
dell'esperienza. della nostra materia fluida o altra che è un aggregato di
turbini, non può niente inferirsi sulle
proprietà di un'altra materia ipotetica,
elle sarebbe altra cosa che un aggregato di turbini. Tra la nostra materia e la
materia trascendentale, che, secondo Thomson, serve ad essa di sustrato come la
nostra materia serve di sustrato al suo proprio movimento, non vi ha identità e
perciò, mi sembra, nessuna inferenza legittima. Le deviazioni dal tipo
normale dell'atomistica di un carattere
assolutamente metafìsico, quale la dottrina che riduce gli atomi a punti
matematici, o, come si dice per li solito, a centri di forze, si rapportano
alla qulstlone del mondo esteriore e noi ne parleremo nella 2*parte. Notiamo
per ora che 11 nome di dinamiche date a queste dottrine non toglie che
anch'esse particolarmente quella sunnominata degli atomi punti o centri di forze siano. In un senso,
meccaniche, conformaìidosi anch'esse al principio generale della concezione
meccanica, cioè la spiegazione del cangiamenti dei mondo fisico per il
cangiamento dei rapporti di elementi in se stessi inalterabili. Naturalmente ó
qui che si è sempre vista la grande difficoltà della teoria. Cosi Thomson
chiama s apposizioni mostruose quelle di frammenti di materia infinitamente duri e infinitamente
rigidi, frammenti di materia di cui alcuni dei chimici più eminenti non temono
d'aff'ermare temerariamente l'esistenza come un'ipotesi probabile citato da
Henriot Ipot, alt, sulla co^itit, della inai, Secondo Du Bois-Reymond 1'atomo
indivisibiley inattivo e, sede di li Un'ipotesi che ricorre a cause non vere,
cioè a forze di cui non si è costatata
l'esistenza nella natura, è necessariamente un'ipotesi illegittima, come
vuole la regola di Newton, o questa circostanza costituisce semplicemente un
grado d'improbabilità intrinseca dell'ipotesi che, per compenso, deve rendere
più esigenti sul numero e la qualità delle sue prove? È una delle più ardue
quistioni della logica, a cui non ci attenteremo di dare una risposta: ma la somiglianza che abbiamo
notata tra la dottrina molecolare o atomica e le dottrine dei metafisici
suggerisce inevitabilmente una riflessione, che io sottometterò al lettore non
senza un'esitazione assai naturale in chi non ha alcuna competenza ne in fisica
jiè in chimica. La teoria molecolare e atomica è, come si conviene dai suoi
stessi fautori, una semplice ipotesi, e un'ipotesi che non sembra
suscettibile di essere moi provata.
Misurare il grado di probabilità forze che agiscono attraverso il vuoto, ó un
controsenso e una chimera (/ limiii
della fllos, naturale in Rev, scient,. Un'idea che meriterebbe forse d'essere
sviluppata, ò che ordinariamente le cause non vere supposte dai fisici, quali
gli atomi, le molecole, 1'etere, i fluidi imponderabili che si ammettevano
prima, ecc. hanno la funzione di
spiegare i fenomeni nel senso metafisico della parola spiegazione, cioè
assimilandoli ai fenomeni più familiari, p. e. a quelli della trasmissione del
movimento por l'impulsione come l'etere, o a quelli, più generali, del
mutamento dei rapporti di spazio senza cangiamento qualitativo ciò che diremo
più giù sui fluidi imponderabili. Nessuno, dice Bain, vede più in questa
teoria l'atomica che una finzione
rappresentativa, che non é suscettibile di alcuna prova, e che non ha altro
valore che di esprimere facilmente i fatti
j(Log. e ìL, Bain chiama finzioni
rappresentative le ipotesi di un'ipotesi quando si conviene d'altronde sul
punto più importante, cioè che quest'ipotesi non è rigorosamente provata è un'operazione
estremamente ardua e delicata del giudizio, che, per essere ben compiuta,
esigerebbe il concorso delle più profonde conoscenze nelle scienze speciali
relative, e dell'abitudine, unita a una preparazione conveniente, di
considerare le quistioni al punto di vista della logica e della teoria della
conoscenza; concorso che è sventuratamente molto raro a trovarsi in un fisico o
in un chimico^ e più ancora in un filosofo. Nel caso dell'ipotesi molecotare
o atomica, la quistione che non possono
essere stabilite come fatti reali, cioè provate, e la cui importanza òche
servono a rappresentarsi i fenomeni d'una maniera sistematica: fra queste
finzioni rappresentative egli enumera oltre la teoria degli atomi, quella della
costituzione molecolare della materia, (luella delle ondulazioni eteree per
ispiegare i fenomoni della luce, la spiegazione dello stato solido, liquido e gazoso per le
attrazioni molecolari e la repulsione dovuta al calore, ecc. Log. Per dimostrare
la proposizioae di Bain che 1'ipotesi degli atomi e tutte le ^Mre flnzioiii
rappretfeìitative non sono suscettibildi diventare delle verità provate, basta
torse la considerazione seiguente. Per provare la realtà d'un ii^otesi sarebbe
necessario di soddisfare a queste due condizioni: di stabilire, in jirimo luogo, che un'ipotesi
è indispensabile, cioti che il fatto che si tratta di spiegare reclama
assolutamente una spiegazione; e in secondo luogo che l'ipotesi che si ammette
è la sola ammissibile, cioè la sola che possa spiegare il fatto. Ma sembra che
le ipotesi scientifiche che Bain chiama finzioni rapprenentative e che sono, su
i)er giù, quelle che suppongono delle cause
non vere, quand'anche potessero soddisfare alla seconda condizione, non
potrebbero mai soddisfare alla prima. Ciò è perchè esse non hanno per iscopo di
spiegare dei fatti isolati e particolari, ma dei fatti costanti e generali,
delle uniformità della natura. Nel primo caso un'ipotesi è indispensabile,
perché è necessario che il fatto sia spiegato, nel senso scientifico, cioè che
sia sott oposto alle leggi generali dei
fenomeni: nel secondo caso (se si ha i ! c della misura del suo grado di
probabilità si complica per questa sua conformità, che noi abbiamo notata, alle
tendenze spontanee del nostjo pensiero, conformità che per se stessa non
costituisce la minima prova in favore di una teoria. Allora si renderebbe
indispensabile una specie di equazione personale, per la quale nella forza con cui Tipotesi ci s'impone,
bisognerebbe fare la parte di ciò che vi ha in essa di obbiettivo, cioè di
dipendente dal valore delle prove sperimentali, e di ciò che vi ha di
subbiettivo, cioè di derivante dalla tendenza spontànea del nostro pensiero,
che, in virtù della conformazione stessa del nostro spirito e delle sue
abitudini prescientifiche, ci spinge ad accettare Pipotesi, indipendentemente dal valore delle suo prove,
n questo stato della questione sembra naturale di demandarsi: il credito di cui
l'ipotesi molecolare e atomica gode nella scienza è assolutamente commisurato
alla forza delle sue prove, o non vi ha un eccesso, di cui bisogna rendersi conto per la forza addizionale di
questo sofisma naturale del nostro spirito, che gli rappresenta il fondo dell'essere come immutabile, e il cangiamento
come superficiale e limitato ai rapporti delle cose, senza toccare le cose
stesse? Tra queste due supposizioni, il fatto ragione di riguardare il fatto
come una vera uniformità, una leggo rigorosamente generale, dei fenomeni
l'esigenza di una spiegazione potrebbe essere illusoria e fondata sul concetto
metafisico corrispondente a t^uesto
termine, poiché la supposizione che il fatto è senza spiegazione cioè
che si tratta di una leggo primitiva della natura non è in contraddizione con
l'assioma dell'uniformità di legge che è queUo ehe nel primo caso ci obbliga a
cercare una spiegazione. CI incontestabile che la teoria era generalmente
ammessa prima che si trovassero le prove che attualmente costituiscono la sua
base logica; la continuità tra la forma
più antica e la forma più moderna dell'atomistica; non è un'indizio che la
verità sta nella seconda? Qaeste domande non sembreranno troppp audaci a quelli
che sono abituati a considerare i concetti dal punto di vista storico. Quegli,
dice Lange, che vede nella storia Findissolubile mescolanza di errore e di
verità; quegli ehe comprende che per avvicinarsi di più in più allo scopo infinilamente lontano, cioè
la conoscenza perfetta, bisogna oltrepassare innumerevoli gradi intermediari;
quegli che vede come l'errore stesso POPPER diviene un agente di progresso
variato e durevole; quegli non concluderà facilmente, dall'incontestabile
progresso del presente, al valore definitivo delle nostre ipotesi. Noi
aggiungeremo infine un'altra osservazione sul
principio generale della concezione meccanico, <5Ìoè che tutti i
cangiamenti della materia si
ridu<?ono al movimento delle sue parti. Il presupposto GRICE
COLLINGWOOD su. cui questo principio è
fondato è la distinzione, comunemente ammessa, tra le proprietà primarie e le
proprietà secondarie dei corpi: le prime, che, secondo Cartesio, si riducono
alla semplice estensione, e, secondo
l'opinione più accettata, all'estensione e alla resistenza o impenetrabilità,
sono obli) Lange Storia del materialismo,
e. P. '\ cu CHI > .? it : ti
biettive; le seconde, cioè il colore e tutte le altre, non sono che
subbiettive. Ma questa distinzione solleva delle difficoltà insolubili, che
hanno dato luogo a tutte le dottrine trascendenti sulla cosa in sé: qui
dobbiamo limitarci ad indicarne sommariamente alcune, riserbandoci di
svilupparle nella 2*parte. Se il solo attributo obbiettivo della materia è la estensione, come pretende
Cartesio, allora è impossibile di distinguere la materia dallo spazio vuoto, e
il mondo corporale si ridurrà a una massa continua e perfettamente omogenea.
Ora non solo ò impossibile di concepire V estensione come esistente per se
stessa non potendo noi pensarla che come un attributo del reale RES EXTENSA E
RES COGITANS e non come lo stesso reale, come un astratto e non come un
concreto ma è di di più impossibile di concepire, al seno di una massa continua
e senza alcuna differenza fra le sue parti, delle forme distinte e del
movimento, perchè queste cose suppongono delle differenze. Concepire il
movimento in una massa continua sarebbe concepire, in questa massa, delle parti
tra loro discernibili, che si scambiano il posto runa con V altra; se queste
parti di cui si afferma che Tuna ha
preso il posto dell'altra non sono discernibili, questo cangiamento, che si
afferma a parole, non è né percettibile né pensabile. In realtà alcun
cangiamento non è possibile in una massa concepita alla maniera cartesiana,
poiché tutti gli stati successivi, in cui essa si trova in tutti gl'istanti
della durata, sono assolutamente
identici fra di loro. Queste difficoltà in apparenza spariscono nella
dottrina della discontinuità della materia, perché allora il pieno e il a noto
ci danno questa differenza indispensabile per concepire la distinzione delle
cose e il movimento; di più, distinguendo la materia dal puro spazio, si
ammette in questa dottrina che vi sia nella materia un attributo diverso
dall'estensione, che si aggiunge a
questa, e fa della materia un concreto, e non un semplice astratto qual è la
sola estensione. Ma la difficoltà é appunto di dire in che consista questo
attributo, distinto dall'estensione e dai suoi modi, che concretista., s'è
lecito dir così, la materia, e la differenzia dalla semplice estensione, cioè
dal puro spazio. Quest'attributo è, si dice, la resistenza o la impenetrabilità:
ma ciò che non si dice né potrebbe dirsi
è che cosa esprimano queste parole resistenza e IMPENETRABILITY impenetrabilità
di più che dei semplici rapporti tra gli estesi se se ne toglie le sensazione
che noi proviamo nelle dita quando tocchiamo, la quale naturalmente non
possiamo trasportare nella materia e farne una qualità obbiettiva delle cose
stesse. La resistenza della materia non è
altra cosa che la difficoltà che vi ha
a spostare le sue parti: essa indica dunque semplicemente che certi
cangiamenti nei rapporti spaziali tra gli estesi non sono possibili.
L'impenetrabilità è l'impossibilità che un esteso occupi la posizione d'un
altro, in altri termini che due estesi si confondano in un'estensione unica,
che cessino di essere due estesi e diventino uno solo Ma ciò non indica altra
cosa che la persistenza di ciascun esteso a conservare la sua propria
estensione; non ci dice qual'è l'attributo che quest'esteso ha in più
dell'estensione stessa. Tutti gli attributi
\fr. =P=s= CIY della materia nella supposizione della non realtà del
colore e delle altre proprietà secondarie non indicano che l'estensione, i suoi
modi forma, grandezza, ecc., i rapporti di posizione, e il cangiamento di questi rapporti; ma noi non
possiamo dire che cosa sia ciò che si estende, ciò che è il soggetto a cui si
attribuiscono questi rapporti di posizione. La materia, si dice, si distingue
dal puro spazio, perchè essa è impenetrabile, divisibile, mobile, ecc.,
attributi che non possono convenire allo spazio: senza dubbio; ma siccome
questi e tutti gli altri attributi che si predicano della materia, non si
riducono inline che all'estensione e alla posizione, attributi che convengono
pure allo spazio, o bisognerà rassegnarsi ad identificare la materia e lo
spazio, come fu costretto a fare Cartesio o bisognerà ammettere, come carattere
che differenzia la materia dallo spazio, non la mobilità, l'impenetrabilità,
ecc., ma qualche cosa di più primitivo che, aggiungendosi all'estensione, costituisce questo concreto
materia, la quale, senza questa qualche cosa, non potrebbe essere né
impenetrabile, ne mobile, ecc., perchè non sarebbe che un semplice esteso, in
altri termini una pura estensione, che niente distinguerebbe dallo spazio
vuoto. Questa qualche cosa che, diffusa, per dir così, qua e là nella pura
estensione senza forme né limiti, ne differenzia le parti, costituisce il concreto materia, e
distingue il reale dallo spazio, cioè dal niente; non è che il colore, o,
in generale, le proprietà secondarie.
Quando si è analizzato sufficientemente il concetto di materia, si vede che lo
spirito umano, se vuole formarsi una concezione netta e coerente del mondo
esteriore, e al tempo stesso restare sul terreno dell'esperienza e
dell'intuizione sensibile condizione che è superfluo di aggiungere, perchè al
di fuori di questo terreno non vi hanno concezioni nette né coerenti è
costretto in quest'alternativa: o il fenominismo di MORE GRICE TO THE Mill e
Bain, che riduce la realtà esteriore a sensazioni e possibilità di sensazioni;
o il realismo naturale non quello di Eeid che non spoglia la materia delle sue
proprietà sensibili, ma accorda
l'obbiettività al colore e alle altre, e non alla sola estensione, la
quale senza le proprietà sensibili non è che il niente realizzato. Ora à
evidente che chi accetterà l'una o l'altra di queste due soluzioni, non ammette
la pretesa della filosofia corpuscolare o di qualsiasi altra forma possibile
della concezione meccanica, di ridurre tutti i cangiamenti dell'universo al
solo movimento. Ad una concezione
meccanica coerente, se essa vuol realizzare completamente il principio che
niente nasce e muore nella natura, non basta di riddurre al movimeato tutti i
cangiamenti del mondo materiale; bisogna ancora che la materia mantenga
invariabilmente le stesse facoltà relativamente al movimento; cioè o che
l'inerzia sia lo stato invariabile della materia, o, se essa è attiva, che quest'attività,
e la forma sotto cui essa si manifesta, siano egualmente invariabili. Su questo
punto Bacone può essere riguardato come il precursore. È evidente, egli dice,
che ogni uomo che cono il stulio di G.
sulla dottrina di Rosmini sulla materia
1. e. e
il Saggio. evi scesse le passioni,
gli appetiti e i processi primitivi della materia, avrebbe per ciò solo una
conoscenza generale e sommaria dei fatti
passati, presenti e futuri. Si deve affermare che la materia è munita,
provvista e formata di tal maniera, che ogni virtù, ogni essenza, ogni atto e
ogni movimento possono esserne delle conseguenze o delle emanazioni naturali. L'idea di Bacone è che tutti i
fenomeni possono dedursi da un fenomeno primordiale, che è il movimento
naturale della materia. Così egli
paragona la scienza ad una piramide o ad un cono, alla cui sommità sta
la legge sommaria della natura, 1'opera che Dio opera dal comineiameno sino
alla fine. Tutte le cose si elevano per
una sorta dì scala all'unità. Questo fenomeno universale, collocato alla
sommità della piramide scientifica, in cui la natura sembra riunirsi in un sol
punto, questa causa di tutte le cause, è l'appetito o lo stinnilns la tendenza primitiva o la forza
primordiale della materia, o, per sviluppare un po'più il nostro pensiero, il
movimento naturale dell'atomo. È questa forza unica, che agendo sulla materia,
forma e costituisce tutti i composti. Ma il meccanismo di Bacone che d'altronde
questo filosofo non sviluppa d'una maniera sistematica. Della saggezza degli
antichi. De Princ, atque Orig, Dignìf, et aagm, acient,. Dd ilignit. et atigm
acient, Saggezza degli antichi Cupidon. fondato sull'idea fantastica di una
materia attiva e vivente, dove cedere il passo all'altro meccanismo, inaugurato
da Cartesio, fondato sul concetto più positivo d'una materia inerte, che non fa
che ricevere e comunicare il movimento per l'impulsione. Abbiamo considerato
questa dottrina alla quale esclusivamente abbiamo dato allora il nome di
meccanica sotto un altro punto di vista,
cioè come una realizznzione del principio delle cause efficienti: ma è evidente
che essa è al tempo stesso una realizzazione del principio dell'immutabilità
essenziale dell'essere almeno deiTessere materiale poiché non attribuisce ai
corpi che la proprietà, sempre e da per tutto identica, di conservare il
movimento ricevuto e di comunicarselo reciprocamente per 1'urto, riducendo ad
una sola e sempre la stessa le forme apparentemente differenti e variabili
dell'energia. Oltre questa forma del meccanismo, fondata sul concetto
dell'inerzia o passività assoluta della materia, non ne è è possibile che
un'altra, che realizzi il principio dell'immutabilità essenziale dell'essere,
ma che al tempo stesso faccia della materia qualche cosa di sia che
quest'attività si attribuisca alla materia per se stessa, sia che si faccia
provenire dalle forze di cui si suppone che la materia è la sede: è la dottrina
che spiega anch'essa tutti i fenomeni del mondo fisico per le leggi
dell'equilibrio e del movimento, ma come cause motrici riconosce le forze,
attrattive e repulsive, inseparabili dagli elementi della materia sia che si
supponga che queste forze sono ad essi essenziali, sia che si supponga che sono
con essi costantemente associate. Queste due forme della teoria meccanica, che
sono le concezioni della natura prevalenti nella scienza, possono far pensare
che questa ha completamente realizzato l'assioma dei fisici che l'essere non
può venire dal non essere né ridursi al non essere ^che non vi ha generazione
ne corruzione; poiché secondo la teoria meccanica, nell'una e l'altra delle due
forme, il reale, considerato nei suoi elementi ultimi, si mantiene sempre
identico a se stesso, e non vi ha mai nelle cose un cangiamento essenziale,
questi elementi, in tutti gli aggregati che essi formano successivamente nei
quali non si manifestano altre proprietà che quello degli elementi stessi essendo invariabili tanto
nella loro sostanza e qualità quanto nel loro modo di agire e di patire. Ma è
evidente che la teoria meccanica, se essa vuol applicare rigorosamente il
principio che la materia non può mai manifestare delle proprietà essenzialmente
nuove, e che perciò le proprietà di un tutto non possono essere che la somma
delle proprietà degli elementi materiali
che lo hanno costituito, deve estendersi anche ai fenomeni della
coscienza, facendo dell'attività psichica una risultante delle attività proprie
agli elementi della mì.teria. Senza dubbio il problemi di ricondurre i fenomeni
della coscienza alle proprietà degli elementi della materia non nasce
esclusivamente al punto di vista del meccanismo, essendo esso una conseguenza
immediata del principio generale che il
meccanismo realizza sotto una forma speciale, cioè che l'essenza delle cose non
può cangiare: ma al punto di vista del meccanismo il problema s'impone con una
forza particolare, appunto perché il meccanismo è l'applicazione più coerente
di questo principio. Applicando il principio dell'immutabilità dell'essenza
delle cose alla quistione della coscienza, lo spirito umano incontra
naturalmente due soluzioni opposte, ma che sono non pertanto 1'una e l'altra
delle conseguenze dello stesso principio. Dal fattD che i fenomeni della
coscienza di GRICE, di cui certi asTSTregati degli elementi della materia sono
temporaneamente la sede, differiscono essenzialmente dalle proprietà di questi
elementi isolatamente considerati, in virtù del principio che le cose non
possono cangiare nella loro natura, lo spiritualista conclude che è necessario
che un altro elemento, differente essenzialmente dalla materia WHAT’S THE
MATTER NEVER MIND, e di cui la coscienza di GRICE è la proprietà immutabile, si
sovraggiunga all'aggregato materiale, e sia con questo temporaneamente
associato. Dal fatto che ciò che è la sede dei fenomeni della coscienza è un aggregato di elementi
materiali, il materialista conclude invece, in virtù dello stesso principio,
che queslii fenomeni non possono essenzialmente differire dai fenomeni che sono
propri agli elementi materiali isolatamente considerati. Ma se la soluzione
spiri filali sta è sem E evidente che il parodosso cartesiano che gli animali
sono degli automi è nna conseguenza rigorosa dello stesso principio,
nell'ipotesi spiritualista; un aggregato non potendo avere delle pròpi'ietà
essenzialmente differenti da quelle degli elementi, la coscienza non può
trovarsi negli animali, in cui non vi ha, come nell'uomo GRICE M-INTENTION, un
elemento ess?nzialmente differente dagli elementi jnateriali,. clic viene ad aggiungersi
all'aggregato. ex plice, la soluzione
materinlìsta è doppia, potendo farsi due ipotesi: che i fiittti della
coscienza non siano dei fenomeni assolutamente nuovi, che si producono la prima
volta negli aggregati che noi chiamiamo esseri animati, ma dei fenomeni
preesistenti negli elementi che hanno costituito questi aggregati e persistenti
in essi dopo la dissoluzione degli aggregati stessi; e che questi fatti non siano
assolutamente distinti dai fenomeni fisici, propri agli elementi che hanno
costituito gli aggregati, ma sostanzialmente identici con essi. La prima delle
due soluzioni materialiste le sole che siano in armonia con una concezione
rigorosamente meccanica dell'universo si trova, oltre che nei sistemi ilozoisti
in generalie, in quei sistemi panpsichisti, in cui, come in quelli di Clifford
. Wundt, Taine, ecc., la psiche
dell'uomo e degli animali è riguardata come una risultante degli elementi
psichici corrispondoiiti a ciò che noi chiamiamo elementi della materia, o in
cui, come in quello di Leibnitz il quale, a parlar propriamente, è una
conciliazione della soluzione materialista con la spiritualista, essa è
riguardata come una delle unitìi psichiche, delle monadi, che costituiscono il
composto che noi percepiamo come
materia. L'altra soluzione la quale consiste nell'afformare un'identità
sostanziale tra i fenomeni fisici processi nervosi che sono le condizioni dei
fenomeni della sensazione e del pensiero e questi fenomeni stessi è stata
ammessa sotto due forme: estendendo ai fenomeni mentali la dottrina che vede
nelle diverse forze fisiche gli aspetti differenti di una forza unica che, identica al fondo, apparisce
successivamente sotto forme diverse, si è ammesso che la sensazione e il
pensiero è un altro aspetto o un'altra forma di questa forza medesima, il
movimento che è l'antecedente della sensazione e del pensiero divenendo
sensazione e pensiero, come il calore suono o l'elettricità luce. 2^ è la forma
che ha incontrato più favore si è ammesso che il fenomeno fisico che è la condizione del fenomeno
mentale e lo stesso fenomeno mentale sono,
non due fatti distinti e 8u«»cessivi, ma un solo e stesso fatto, che
presenta^ due facce differenti, l'interna e 1'esterna, la subbiettiva e
1'obbiettiva, la distinzione non essendo, come dice Lewes, che nel modo di
apprensione, vale a dire, quello che i sensi apprendono come fisico, come
movimento, essendo appreso dalla
coscienza come mentale^ come sensazione e pensiero. Questa identità del fisico
e del mentale l'identità nel senso più stretto, cioè nella seconda forma è stata affermata a tre punti di vista
differenti: del materialismo, cioè subordinando e riconducendo lo spirito alla
materia, come nelle dottrine di Hobbes, Darwin,
d' Hol V. De Carpare. La sensazione non è che il movimento degli organi del senso, e
precisamente quella parte di questo movimento immaginata da Hobbes, che sarebbe
un ritorno dall'organo centrale verso l'esterno, cioè verso i punti della
periferia da cui è partita l'eccitazione ipotesi destinata a spiegare la
localizzazione alla periferia e la proiezione al di fuori delle sensazioni.
NeUa sua Zaonamia definisce l'idea: una contrazione, un movimento o una configurazione delle fibre
– IT SOUNDS RATHER HARSH GRICE -- che costituiscono l'organo immediato del
senso. Le nostre idee, dice RATHER HARSHLY SOUNDING -- egli ancora, sono bach,
Moleschott, Strauss, Spencer, dei movimenti animali (lelForgano
sensitivo. Questa confusione tra il fatto psichico e la sua condizione fisica AGITATED
RYLE’S CATEGORY MISTAKE regna, dice MORE GRICE TO THE Mill, dal principio alla
fine nei quattro voluQii della Zoouomia Mill. Lo(j, . Le sensazioni, le
percezioni, le idee tutte le operazioni delTanima, sono dei movimenti degli
organi dei sensi e del cervella V.
Sitit. della natura 1. p. e.
-D'Holbach ammetto pure la possibilità della soluzione ilozoista. Il pensiero è
un movimento della materia Circolaz,
della vita, lettera IH. V. Vecchia e nuova fede,. ciò che, sotto
l'aspetto obbiettivo o dal lalo estemo, è un cangiamento nervoso un movimento
molecolare, è, sotto il suo aspetto subbiettivo o dal suo lato interno, uno stato di coscienza Frinc. di PhìcoL ; lo spirito e l'azione nervosa sono i
due lati, subbiettivo e obbiettivo, d'una sola e stessa cosa. L'aver
classato la dottrina di Spencer fra
(luelle che riconducono lo spirito alla
materia richiode una giustificazione. In effetto questo filosofo si
difendo d'essere materialista e dichiara illusoria il tentativo di tradurre sia
lo spirito in termini di materia sia la materia in termini di spirito I
fenomeni dello spirito e quelli della materia sono le due facce, subbiettiva ed
obbiettiva, sotto cui si manifesta una
sola e stessa realtà, ma questa realtà ultima non può essere chiamata né
spirito né materia, lo spirito e la materia non essendo che le sue
manifestazioni fenomenali ed essa stessa restando inconoscibile nella sua essenza
Che ragione può aversi allora di chiamare la dottrina di Spencer una dottrina
materialista, che riconduco lo spirito alla materia? Questa ragione è secondo
me, che dei due aspetti sotto cui si
manifesta l'inconoscibile, l'uno, il fisico, è costante, e l'altro, il
psichico, non è che transitorio: esso non apparisce che là dove esiste una
struttura fisica appropriata (lo spirito non è diffuso da per tutto neir
universo, come nelle dottrine panpsichiste o in quella dell'identità del reale
e dell'ideale,.Ne segue che, l'essenza d'una cosa essendo per noi determinata
dai suoi attributi costanti e non dai
suol attributi transitori, e qualsiasi nozione che noi possiamo formarci dell'Inconoscibile dovendo
tirarla dal conoscibile, quest’essenza sconosciuta che si manifesta come
spirito e come materia noi dobbiama necessariamente rappresentarcela in termini
di materia. Ma contro ciò potrà dirsi che questa distinzione tra i fenomeni
della matoria» cxin che sarebbero
costanti, e quelli dello spirito, che sarebbero transitori, non ha al
fondo niente di reale, le manifestazioni fenomenali dell'Inconoscibile essendo
per Spencer tutte egualmente subbiettive e psichiche, poiché il conoscibile, il
fenomeno, non consiste, in ultima analisi, che negli stati della nostra coscienza.
Niente di più giusto che quest'osservazione; ma essa dimostra d'una maniera
anche più diretta che la dottrina di
Spencer riconduce lo spirito alla materia. Se si va al fondo delle cose, la
vera dottrina di Spencer è, non che vi sia una realtà a due facce, l'una
subbiettiva e l'altra obbiettiva, ma che vi ha una realtà, l'Inconoscibile, e
un fenomeno o un'apparenza di questa realtà, lo spirito o gli stati di
coscienza. Lo spirito non è dunque che nnfenomeno; la realtà appartiene all'opposto dello spirito, al fuori di me di
GRICE, a ciò che non ha coscienza di GRICE. L'Inconoscibile non è per Spencer
che la materia e la forza: l'affermazione d'una realtà assoluta inconoscibile
equivale nei Primi principii all'affermazione della persistenza della forza, e
quantunque l'Inconoscibile non abbia in realtà degli attributi spaziali, vi ha
nondimeno in lui un nexus che noi dobbiamo rappresentarci come spazio o
estensione, e Spencer sente così fortemente questa necessità di dare un
fondamento obbiettivo, nell'Inconoscibile, ai rapporti di spazio, che talvolia
sembra considerare ijnesti rapporti come reali, come obbiettivi p. e. nei Pr,
Pritic.. La verità di questa proposizione, che Spencer riconduce lo spirito
alla materia, si mostra della maniera più evidente nelle sue affermazioni relative alla
sostanza dello spirito. La nostanza dello spirito è naturalmente
l'Inconoscibile: ma ciò che bisogna notare è il rapporto che Spencer stabilisce
tra la spirito qual è da noi conosciuto, cioè
l' insieme dei nostri stati di coscienza, e la sostanza dello spirito.
Qaesto rapporto è quello del fenomeno alla realtà. L'esistenza, nel vero senso della parola, appartiene nello spirito a ciò che persiste, alla sua
sostanza; i fenomeni dello spirito, come quelli della materia, on sono che
delle apparenze cangianti della realtà permanente inconoscibile, Princ, di
Psic. Ora se noi domandiamo che cosa sia questa realtà persistente di cui i
fenomeni dello spirito sono delle apparenze, la risposta è che la sostanza
dello spirito, il me di GRICE traascendente non é altra cosa che l'organismo Dire che il me di
GRICE è qualche cosa di più che la serie
delle sensazioni o delle idee che sono date come presenti, è vero o falso
secondo il grado di comprensione che si
dà alla parola. È vero se noi vi comprendiamo il corpo con tutte le sue
strutture e le sue funzioni; ma è falso se noi limitiamo la nostra asserzione
al me di GRICE cosciente. Il me di GRICE sostanziale, inconoscibile nella sua
natura ultima, ci è fenomenalmente conosciuto, sotta la sua torma statica, come
l'organismo; sotto la sua forma dinamica, come una forza che si diffonde
nell'organismo. Il me che sopravvive continuamente come soggetto di questi
stati oxv Lewes, Sergi, ecc.; del panpsichismo j cioè risolvendo la
materia in spirito, come nella dottrina
di cangianti di quest'aggregato di stati subbiettivi che costituisceno il me di
GRICE mentale è questa porzione deirinconoscibile, che è condizionata
staticamente in certe strutture nervose, le quali sono penetrato <la questa
porzione dell'Inconoscibile, dinamicamente condizionata, che noi chiamiama
energia Princ, di PsicoL trad. frane. L'identificazione del mentale e del
fisico, in un sistema che non jiconos«e
altri fatti mentali che quelli che accompagnano le funzioni del sistema nervosoGRICE
I AM HEARING A NOISE I AM SEEING IT AS NOT RED,
e necessariamente una riduzione del mentale al fisico, perchè,
ripetiamolo, l'essenza di una cosa è per noi determinata, non dai suoi
attributi transitori, ma dai suoi attributi permanenti, e perciò questa realtà a
due iacee, che si manifesta come spirito
e come materia, se lo spirito non è riguardato che coune un fenomeno
transitorio, noi dobbiamo necessariamente rappresentarcela, nella sua essenza,
come materia. Noi dobbiamo aggiungere che talvolta Spencer, invece della dottrina
dell'identità dei fenomeni mentali e delle loro condizioni fisiche, sembra
ammettere la dottrina affine della trasformazione delle energie fisiche nelle energie mentali
Primi principi. Lo stato psichico e lo
stato corporale, che ne è la condizione, nou sono due fatti, ma un sol fatto lo
cui si distinguono i due aspetti, come si può distinguere In una stessa linea
r^rva il lato convesso e 11 lato concavo. Per comprendere questa dottrina di
Lewes nel suo vero significato, cioè come una riduzione del mentale al
fisico, bisogna notare che essa non è
che un'applicftzlone del suo pt-lnelplo dell'identità della causa e
dell'effetto THOSE SPOTS ARE MEASLES: un fatto è identico all'insieme delle sue
condizioni, non è qualche cosa che si sovrag^iunge ad esse. Per Lewe^ vale la stessa osservazione che abbiamo
fatta per Spencer: il fisico è 11 costante, e 11 mentale non è ehe 11
transilorlo; perciò questa realtà a due
facce, che si mosti'a come spirito e come materia, non può essere al fondo,
nella sua essenza, che materia. E vero che la dottrina di Lewes che le cose
hanno sempre una doppia faccia, l'una obbiettiva e l'altra subblettlva, Il
mondo materiale, per quanto ne conosciamo, risolvendosi In sensazioni nostre,
non potrebbe essere conslslderata come una dottrina materialista. Ma se noi non facciamo, sino ad un certo pnnto,
astrazione dalle qulstionl gnoseologiche sul xnondo esteriore, diffìcilmente
troveremo tra i filosofi un Materialista, per la semplice ragione che difficilmente
vi troveremo un realista naturale, cioè questa fede ingenua nella realtà
obbiettiva del dati del sensi che 11 materialismo classico accetta dalia
credenza naturale. Il fatto psichico o cosciente è composto di elementi fisici o
incoscienti negli Elementi di Psicologia
e In altre opere; proposizione che evidentemente contiene ridentlfìcazlone del
fatto della coscienza di GRICE con le sne coniizioni somatiche. Tuttavia Sergi
afferma pure che il processo fisico è V antecedente àe\ fenomeno della
coscienza ciò che è Impossibile se sono un solo e stesso fatto, e va anche sino
a pirlare di una trasformazione dei due
fenomeni l'uno nell'altro, sembrando così passare dalla teoria dell'Identità
del fisico e del mentale uel senso più stretto alla teoria vicina della
trasformazione reciproca fra le energie fisiche e le mentali V. Origine dei
fenomeni jisichici e loro significazione BIOLOGICA. É notevole nna coincidenza
senza dubbio fortuita -tra la dottrina di Hobbes e quella di Sergi, Il quale, slmilmente al primo,
spiega la localizzazione delle sensazioni negli organi periferici MY EARS HEAR
A SOUND MY EYES SEE IT AS NOT RED e nello «pazlo esteriore, per l'ipotesi di
un'onda nervea ri/lessa, cioè ammettendo che le onde nervee che partono dalla
periferia, giungendo al centri, si riflettono per la stessa via, e si fermano
al luogo d'eccitazione. Sergi, come
Hobbes, chiama questa riflessione della corrente nervosa una tendenza alla
causa esterna. É evidente che questa non è una spiegazione nel senso scientifico
della parola; polche ammesso anche il fatto dell'onda riflessa, siccome la
coscienza non sa niente dell'esistenza di questo fatto, esso uon potrebbe
essere un motivo di localizzare la percezione al posto in cui arriva l'onda riflessa, che l'esperienza non ha mal trovato
in connessione con la sensazione. Ma ò si familiare questo fatto, che la
sensazione viene Istintivamente localizzata al posto dove si osserva la causa
materiale della sensazione THE PILLAR BOX IS MAKING A SOUND AND IT’S NOT GREEN,
che non si vede, o si dimentica, che questo fatto, apparentemente Istintivo,
sarebbe incomprensibile, se noi non sapessimo che è l'esperienza che ha formato
nal nostro spirito le connessioni mentali corrispondenti. Il proprio del
fenomeni molto familiari è, noi lo sappiamo, che essi sembrano uon aver bisogno
di spiegazione, e poter servire anche di spiegazione agli altri fenomeni. Così
l'identità del luogo in cui si produce
la causa fisica della sensazione GRICE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION, e di quello
In cui la sensazione viene spontaneamente localizzata, sembra un fatto
perfettamente naturale e che si spiega da se stesso: 1'onda nervea, partita da
un certo punto, ritorna a questo stesso punto; è evidente dunque che è là che dobbiamo localizzare la sensazione.
Inoltre, in una concezione materialista
nel senso più stretto della parola in cui 11 fatto psichico è concepito come un
fenomeno dinamico della materia nervosa, non è sorpreaidente che si applichino
al fatti della coscienza 1 rapporti di spazio propri alle loro condizioni
fisiche, e ehe si trovi quindi una connessslone naturale tra il trasporto del
-j. >!'-^ ex VI { k fi Taine e di
altri panpsichisti è sotto un altro
aspetto la dottrina stessa che già abbiamo considerato come una forma della
prima soluzione materialista; e infine del sistema della identità del reale e
dell' ideale Pechner, che non subordina né lo spirito alla materia ne la materia
allo spirito, ma fa del fisico e del mentale i due aspetti paralleli, e
costantemente uniti, dell'essere assoluto. Ma, all'uno o all'altro di questi
punti di vista, il risultato della
teoria è sempre lo stesso: identificare i due ordini di fenomeni, che sembrano
i più essenzialmente differenti, quelli I I nervea dal centro nervoso
all'orjjano perlfei'Ieo e il trasferimenta t'.eHa sensazione dal primo al
secondo punto. Ma quando la sensazione st localizza, non ne11'or<;^anUnio
stesso, mi al di fuori, come uella parcfzione visuale ciò che ordinirlameato si chiama proiezion3
dell'Immagine sensoriale '|uale spiegazione del fatto può dare la teoria
dell'onda riflessa? Ohi ha meditato abbastanza sulla storia del concetti
metafisici, o sa che le analogie più vagli3 e Imprendibili spesso hanno tenuto
il luogo di spiegazioni si forte a 11 bisogno che ha lo spirito umano di una
spieffasionc dei fenomeni nel senso metafisico della parola questi non troverai umoristica, «ih
perfettamente seria, la riflessione che. nel pensiero degli autori della
teoria, vi ha forse qualche cosa come l'idea vaga di uni continuazione ideale
del movimento perceziouale. ((uasl che la percezione avesse qualche analogia
con un proiettile. Il cui movimento, impressogli dalla mano, si continua nella
stessa direzione, anche dopo clie la mano si è staccata da esso. Queste osservazioni,
naturalmente, non tolgono niente al valore reale delle opere di Sergi, come non
tolgono nU nte alla gloria del suo predecessore Hobbes. Un'Idea originale e
Ingegnosamente espressa, anche ((uando è un'Idea metafisica, è sempre una prova
di forza intellettuale: è ciò che alcuni positivisti sembrano non comprendere,
perchè essi non comprendono che la
metafisica ò un fatto naturale dello spirito umano come lo prova anche un certo
numero delle loro dottrine e non un fatto arbitrarlo o Inerente sol» tanto jf un certo grado delia cultura. V.
Ij'IntelUy. cxvir della natura fisica e
quelli della coscienza, in modo €he il più grande saltns della natura, il
passaggio dall'inanimato all'animato, dall'incosciente al cosciente, e
viceversa, si concilii in qualche modo
col principio evidente per se stesso che l'essenza delle cose resta sempre la
stessa e che le proprietà di un tutto non possono essenzialmente differire
dalle proprietà degli elementi. Non vi ha dubbio che, fra le diverse
applicazioni di questo principio alla quistione dell'origine della coscienza,
non sia questa la più conforme alle idee della concezione meccanica,
fiovratutto quando si considera ciò che è certamente il pensiero intimo di
molti sostenitori della teoria il fisico, cioè il movimento, come la realtà, e
il mentale, cioè la sensazione e il pensiero, come una specie di apparenza di
questa realtà. Qui ci troviamo in presenza della seconda delle due difficoltà
insolubili delle teoria meccanica riguardando come la prima l'impossibilità indicata Langwieser, in una polemica contro la conferenza di Du-Bois-Reymond al
congresso di Lipsia, che riconosceva rirriduttibilita dei fenomeni della
coscienza ai fenomeni fisici, e quindi l'impossibilità di applicare ad essi la
spiegazione meccanica, dice: La nostra coscienza non può farci conoscere
l'anatomia del nostro corpo o almeno le fibre del nostro cervello: cosi essa
non è una coscienza nel senso obbiettivo
della parola; perciò noi non possiamo riconoscere subbiettivamente le nostre
sensazioni per quello che sono Lange che riferisce queste parole, le fa
precedere <ia questo commento: LI materialismo si afferra si forte alla
realtà € ai movimenti della sua materia, che un partigiano sincero di questa
dottrina noa esita lungamente a sostenere che ii movimento del cervello è il reale e l'obbiettivo,
mentre la sensazione non è che una specie di ajìparenza o di riflesso
ingannatore dell'obbiettività. Lange Stoi\ del niater, . ci.]di rappresentarci
la materia destituita delle proprietà sensibili. La logica forza la teoria
meccanica ad ammettere l'una o l'altra delle due soluzioni materialiste della
quistione dell'origine della coscienza l'ilozoismo o l'identità del fisico e del mentale: ma è impossibile di
ammettere l'una o l'altra di queste soluzioni senza contraddire ad altre
esigenze non meno imperiose della teoria. Sì ammetterrà la soluzione
materialista propriamente detta, che identifica il pensiero al movimento? non
lo si può, senz'abbandonare quella chiarezza delle idee, quella, quella intelligibilità, che distingue
la concezione meccanica da tutte le
altre concezioni che realizzano il principio comune della immutabilità
dell'es»senza delle cose. Si ammetterà, invece, la soluzione ilozoista? ma
allora la meccanica degli atomi diviene il romanzo degli atomi; la concezione
meccanica perde quel carattere di rigore scientifico che costituisce la sua
superiorità sulle concezioni rivali del
mondo. Sembrerà forse che la soluzione
ilozoista a differenza della soluzione materialista propriamente detta,
cioè della identità del fisico o del mentale ci offra almeno delle nozioni
perfettamente intellegibili: ma se uiò può ammettersi per l'ilozoismo,
considerato in se stesso, non si può ammettere per l'ilozoismo applicato alla
soluzione del problema deirorigine della coscienza. La nozione di un atomo
animato e cosciente è senza dubbia una
rappresentazione perfettamente realizzabile; ma è impossibile di rappresentarsi
che dalla riunione delle coscienze distinte degli atomi risulti la co»scienza
unica che appartiene all'aggregato degli atomi; un nie^ una coscienza unica,
non può essere concepito come la somma di una moltitudine di me di GRICE o di coscienze distinte. L'una e Taltra delle
due soluzioni materialiste della quistione dell'origine della coscienza
mostrano così il tratto distintivo delle concezioni metafìsiche propriamente
dette; cioè, oltre all'assenza completa di prove, l'impossibilità di essere
rappresentate, il racchiudere delle impossibilità intrinseche, delle
contraddizioni. Vi hanno dunque due punti in cui viene a mancare
l'intellegibilità della teoria meccanica: l'uno è la distinzione delle proprietà primarie e
secondarie della materia, che è il fondamento della teoria, e l'altro l'applicazione
della teoria ai fenomeni della coscienza. Le considerazioni precedenti spiegano
perchè la maggior parte dei Jautori della teoria meccanica si sottraggano alla
necessità, per quanto imperiosa, di sottomettere alla teoria i fenomeni delle
coscienza. Il valore assoluto della
teoria meccanica non viene ordinariamente reclamato che nel dominio del
mondo fisico; ma in questo dominio si ammette che l'applicazione della teoria è
illimitata, e che non vi ha altra maniera possibile di comprendere i fenomeni.
Noi possiamo considerare Du BoisReymond come il fedele rappresentante di questa
tendenza filosofica, nella forma in cui essa ha l'adesione della maggior parte dei pensatori che sono alla testa del
movimento scientifico contemporaneo. La filosofia naturale, egli dice, ha per
iscopo di comprendere il mondo materiale, e a questo fine tende a ricondurne i
cangiamenti a dei movimenti d'atomi causati dalle loro forze centrali costanti»
a in altri termini, a risolvere i fenomeni della natura in meccanica degli atomi.
È un fatto d'esperienza psicologica che, tutte le volte, che una tale riduzione
è effettuata con successo, il nostro bisogno di causalità è, per il momento,
completamente soddisfatto. L'autore non ammette che un limite a questa
spiegazione meccanica di tutti i fenomeni della natura: questo limite è il
limite stesso, o più propriamente l'uno dei due limiti, della nostra conoscenza
l'altro essendo l'incomprensibilità
della essenza della materia e
della forza, e consiste nell'impossibilità di ricondurre il pensiero o la
sensazione al movimento degli atomi. Con la prima sensazione di piacere e di
dolore che proA^ò l'essere più semplice^all'inizio della vista animale sulla
terra, s'apri quest'abisso insuparabile; d'allora il mondo divenne doppiamente
incomprensibile. Ma nella quistione dell'origine della vita l'autore non trova un limite della
nostra conoscenza, e perciò nemmeno della teoria meccanica: la quistione non è,
egli dice, che un problema di meccamica estremamente arduo. Quantunque la
meccanica molecolare che presiede alla costituzione degli esseri organizzati,
come quella che presiede alla cristallizzazione e alle reazioni chimiche, non
ci siano, almeno per ora, accessibili;
tuttavia la realizzazione del nostro ideale della conoscenza suppone che
questi fenomeni siano spiegati meccanicamente. Non / Limiti della Filos,
tiatnr. In Rev. sciente vi ha per noi altra conoscenza che quella dei fatti
meccanici: solo le leggi fisico
matematiche sono delle vere leggi, che s'impongono per una necessità logica. Il
lato particolarmente paradossastico della teorìa meccanica, come concezione generale del mondo fisico, è
la sua applicazione ai fenomeni della vita. Qualunque sia il successo della
teoria meccanica nel dominio della natura inorganica, vi sarà sempre, per
questa teoria, la grande difficoltà di identificare due ordini di fenomeni, la
cui distinzione essenziale sembra cosi evidente, quelli della materia bruta e
quelli della materia vivente. Senza
dubbio, la difficoltà che incontra la teoria meccanica nella quistione
dell'essenza della vita, è dovuta in parte a dei pregiudizii tradizionali e
naturali al nostro spirito, di cui la scienza moderna ha fatto giustizia. L'uno
è questa spontaneità del movimento, questa attività caratteristica dell'essere
vivente, per cui egli sembra aviere in se stesso la causa dei propri
cangiamenti; e l'altro questa
teleologia, queste tracce di disegno, che si sono sempre viste
specialmente nella struttura e nelle funzioni degli esseri organizzati. È
conformemente a questi concetti che Aristotile definisce gli esseri che sono
/?^r natura con una definizione che è evidentemente una generalizzazione tirata dalla natura
degli esseri viventi: le cose il cui movimento procede da un principio interno
ed è indirizzato ad un fine o METIER. Ma
la dot Darwin contro Gaìianù Phifs. trina della conservazione dell'energia
mostra che questa spontaneità del movimento è una pura illusione, tutte le
forze che si manifestano negli esseri viventi non potendo essere che
l'equivalente di altre forze fisiche disparse dando loro origine. In quanto
alla finalità degli organismi, Darwin ha dato una spiegazione, che la teoria meccanica può conside^ rare
come un gran passo verso la sua completa realizzazione. Ma con tutto ciò,
deduzione fatta di queste due difficoltà su cui i metafìsici hanno sovratutto
insistito, resta sempre nei corpi viventi un carattere essenzialmente
differenziale, col quale non si trova alcuna analogia nei fenomeni della
materia bruta: è questa persistenza del tipo generico nella successione delle
generazioni e del tipo individuale attraverso gli scambi incessanti della ma^
teria carattere per cui la scienza moderna definisce la vita, con Troviranus:
la vita GRICE PHILOSOPHY OF LIFE è l'uniformità costante dei fenomeni nella
diversità delle influenze esteriori; con Plourens: GRICE PHILOSOPHY OF LIFE la
vita è una forma ser» vita dalla materia; e
meglio ancora con Cuvier GRICE PHILOSOPHY OF LIFE: l'essere vivente è un
turbine a direzione costante, nel quale la materia è meno essenziale che la
forma. Vi hanno nell'essere vivente, dice Bernard GRICE PHILOSOPHY OF LIFE, due
ordini di fenomeni: 1. i fenomeni di
creazione vitale o di sintesi organizzatrice; 2. i fenomeni di morte o di
distruzione organica. Se al punto di
vista della materia e della forza, nel mondo vivente come nel mondo bruto,
niente si perde e niente si crea, non è così al punto di vista della forma.
Nell'essere vivente tutto si crea, s'organizza
morfologicamente. Nell'uovo in isviluppo, i muscoli^ le ossa, i nervi
appariscono, e prendono il loro posto, ripetendo una forma anteriore da cui
l'uovo è uscito. Di questi due ordini di fenomeni, il primo solo è senza analogo diretto,
particolare, speciale all'essere vivente. È una sintesi evolutiva. È ciò che vi
ha di veramente vitale. È la vita. L'altro al contrario è puramente
fisico-chimico. Sono dei fenomeni di morte vera, quando si producono in un
organismo. Ora, ed è ciò che vi ha di più rimarchevole, noi siamo vittime
d'un'illusione abituale, e quando vogliamo caratterizzare la vita^ noi indichiamo un fenomeno di morte.
Noi non vediamo i fenomeni della vita. La sintesi organizzatrice resta
interiore, silenziosa, nascosta,
raccogliendo senza rumore i materiali che saranno spesi nell'espressione
fenomenale. Noi non vediamo dunque direttamente i fenomeni di creazione vitale.
Solo lo istologo, l'embriogenista^ seguendo lo sviluppo dell'elemento o
dell'essere vivente, prende dei
cangiamenti, delle fasi che gli rivelano questo lavoro sordo: qui un deposito
di materia, là una formazione d'inviluppo o di nucleo, là una divisione o una
moltiplicazione, una rinnovazione. Al contrario i fenomeni di distruzione
vitale o di morte sono quelli che ci saltano agli occhi, e per i quali siamo
tentati di caratterizzare la vita. I segni ne sono evidenti, eclatanti: quando il movimento si produce, quando un
muscolo si contrae, quando la sensibilità e la volontà si manifestano, quando
il pensiero 8i esercita, quando la gianduia secerne, la sostanza dei muscoli, dei nervi, del
cervello, del tessuto glandulare si disorganizza, si distrugge e si consuma^ [Di
sorta che ogni manifestazione di un fenomeno, nell'essere vivente, è
necessariamente legata a una distruzione
organica, e sotto una forma paradossale si può enunciare questa verità che io
ho espressa altrove: la vita è la morte. L'opposizione che la concezione
meccanica della vita incontra nella scienza non è dunque dal punto di vista
metafìsico della teleologia, né dal punto di vista prescientifìco che riguarda
quest'attività esteriore dell'essere vivente in cui Bernard non vede che dei fenomeni di morte e che egli riconduce ai
fenomeni generali della materia come il carattere distintivo per cui i corpi
viventi sono separati come da un abisso dalla materia bruta. La quistione tra i
meccanisti e quelli che non ammettono la loro teoria è: il fenomeno
dell'eredità o quest'altro fenomeno analogo della continua restaurazione che fa
di se stesso l'individuo vivente se Le
definizioni della vito, nella
Ilev scieni.Oauthier Origine dell'en'^rgiu negli esseri viventi^ nella
Uev scient,. Ivi l'autore, oltre alle opinioni analoghe di altri naturalisti,
riferisce queste parole di Chevreul: Un corpo organizzato ha in sé la proprietà
di svilupparsi con una costanza ammirabile nella forma della sua specie, e la
facoltà di dar nascita ad individui che riproducono alla loro volta questa stessa forma. È là che si trova per
noi il mistero della vita e non nella natura delle forze a cui si possono
rapportare immediatamente i fenomeni. Bicordo pure delle proposizioni simili di
Matteucci: dopo aver detto che i fenomeni della vita devono ridursi a fatti
fisico-chimici vi ha, nell'organismo vivente, qualche cosa che pare inviluppata
dalla più grande oscurità, e che è senza
analogia coi fenomeni fisici e chimici. Io voglio parlare di questa
grande incognita che si nasconde in un grano, producente sempre la stessa
pianta dal cominciajEuento sino alla fine. Beo, scient» ]condo la forma
determinata che gli è propria restaurazione che dal fatto più ordinario della
reintegrazione degli elementi per la nutrizione va sino alla rigenerazione, in
certi organismi, degli organi più
complessi questi fenomeni essenziali della vita sono riduttibill alle leggi
generali della materia e del moto? La teoria della conservazione dell'energia
non decide la quistione in favore del meccanismo; essa prova semplicemente che
le forze vitali intendendo con questa parola non degli agenti misteriosi, delle
ipostasi, ma un asemplice espressione iir stratta dei fenomeni della vita non possono creare energia, ma solo
trasformarla. La teoria dell'evoluzione fa intravedere la possibilità di
ricondurre tutti i fenomeni svariati del mondo vivente a un piccolo numero di
teggi comuni, ma i fenomeni essenziali della vita, cioè l'eredità e.
generalmente, la persistenza della forma nella continua rinnovazione della
materia, lungi di dedurli, essa li suppone come le premesse ultime delle sue deduzioni. Questi fenomeni
sin qui inesplicabili e che non \ i ha alcuna difficoltà intrinseca a
considerare come dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione ulteriore, ma
solo un'espressione più rigorosa sotto forma di leggi precise avranno mai il
loro Newton, che li riconduca alla meccanica degli elementi della materia? Quello che serabrj, evidente tanto
evidente che r autorità degli eminenti fisiologi che propugnano la teoria
meccanica non è una ragione che deve impedire di dirlo è che sinché questo
Newton non sarà venuto ciò che Kant trova assurdo di sperare -la teoria
meccanica della vita non sarà che un'ipotesi, meno ancora che un'ipotesi, una
semplice congettura sulla scienza avvenire, poiché essa si riduce
all'affermazione che questo Newton verrà
o potrebbe venire cioè verrebbe, se l'ideale della conoscenza umana fosse
conseguibile. L'autorità dei sommi maestri della scienza che emettono
quest'affermazione dà certamente ad essa un gran peso: ma dei fisiologi non
meno autorevoli dichiarano che quest'affermazione è affatto gratuita e senza
fondamento nella scienza, e c4assano la teoria meccanica. Egli è in
effetto assolutamente oerlo che noi non
possiamo a», prendere a -onoscere d'una manle.-a sufficiente, e a più forte
ra-loZr'\7,rl'f '-o possibilità
Interrore per del prlnclpll puramente meccanici della natura; e si p„6 s„,te. nere «ratamente con un'eguale certsz.a
ch'egli è assurdo per de^U yoTlt: •^»
" =' «» ?-"-e qualche ufo. ^o
Newton verrà un giorno a splejja.^ la produzione d'un filo d'erba per legg.
na:arall a cui alcun disegno non ha presieduto Critica del ff,ua.. Come si vede da queste parole W
prezzamento dl Kant è sovratutto fondato su considerazioni d^rd^ne
t^leolog co. Del .^sto, come si sa, lo stesso punto di vista
teleoYogi! co n.„ ha per Kant alcun valore obbiettivo, ma non, foncu" che
sopra una necessità subblettiva della nostra intelligenza. Ne»"
.,u|!«Uone della spiegazione degli
esseri organizzati. 1. nostro Teli si avvolge necessariamente, secondo Kant, In
un antinomia ZS le; perche da una parte
noi non concepiamo che alcuna pro.luzlonc
di n"he"m:T ..''u «'
PU-'-nte ^ca nlche; ma dall'altra
parte, la spiegazione meccanica applicata a clZ produzioni della natura (gli
esseri organizzati, sar.. semi" Ins^! e
ente e d'un'estenslone limitata
(quantunque non possiamo ZZt su dove questa spiegazione possa
estendersi,, e nol'^obbUmo uT^!
sanamente giudicare della natura e della possibilità di qn^sl It dazioni secondo
11 concetto delte cause finali, senza vederi aTcunn^ do possibile d. conciliare
questi due punti di vista 1^, nat vn'n."
bT":"«'-«o'"»'
"eo.-L'altern« l'v^n^
vltablle che Kant suppone tra 11 meccanismo e la teleologia
uZ tra le ipotesi relative alla ricerca delle cause prime, che la
scienza non potrebbe attingere. qul<»tlone della vita, s'incontra pure negli
autori contemporanei, p. «. in Wundt Trattato di Fisiologia umana.
Introduzione, dove stabilisce che l'antico concetto della vita era fondato sul
punto di vista delle cause finali, mentre la maniera di vedere oggi dominante e
che "SJ chiama ordinariamente l'ipotesi fìsica o meccanica,
ha la sua origine nella concezione causale della natura, In quale è da lungo
tempo prevalsa nelle branche affini della scienza naturale, e secondo la tiuale
la natura ò una S9mplice citona di cinse
e d'effetti, le leggi nUime dell'azione causale essendo le leggi della
meccanica, Notiamo quest'affermazione di Wundt che la teoria fisica o
meccanica è la sola che realizzi
l'incatenamenlo causale tra i fenomeni: la stessa affermazione si trova in
altri fisiologi meccanlsti, p.e. in Du Bols Reymond parole citate e In Haeckel
Libera scienza e libero insegnamento. Bernard Definiz. della vita. Sinché il
Newton non sarìl venuto, noi non possiamo sapere se la dottrina meccanica o, in
generale, fisico-chimica della vita ha effettivamente un senso o è una di quello che Spencer chiama
pseudo-idee e quindi nn concetto metafisico nel sen^o più stretto
del termine. Innesta dottrina Infatti si riduce a questa proposizione: le leggi
della vita sono deducii)ili dalle leggi generali del mondo fisico. Ora f*e
questa deduzione, qualunque Ipotesi possa Immaginarsi, è imposi^lbile (non per
1 limiti della nostra conoscenza, ma per la
natura stessa delle cose; se le leggi della vita non possono essere una
conteguenza dolle leggi generali del mondo fisico; affermare che lo sono, che
la deduzione è possibile, è evldentametfte enunciare, non un semplice errore di
fatto, ma un'Impossibilità logica.
Quesla Impossibilità logica o, ciò che è lo
stesso, (luest'assurdltà intrinseca, che potrebbe essere contenuta nella
concezione meccanica, attualmente deve
per necessità sfuggirci, perchè la proposlztone astratta: le leggi delia vita
sono deducibili dalle leggi generali della materia, è, come ognl proposizioni
astratta, un puro simbolo, li cui
significato consiste nelle rappresentazioni concrete corrispondenti. Se una
rappresentazione concreta corrispondente al simbolo al cosi detto concetto
astratto è possibile. Il simbolo ha un
senso, è Intelligibile; se non vi ha una rappresentazione concreta possibile
che gli corrisponda . i\ sìmbolo non ha senso, vi ha un non senso,
un'impossibilità logica. La
rappresentazione concreta corrispondente alla proposizione astratta le leggi
della vita sono deducibili dalle leggi generali della ma[Il foiivlamento della concezione fisica o
meccanica della vita è semplicemente in
un'induzione tirata dall'osservazione che i progressi della scienza si sono
fatti nel senso della spiegazione fìsica dei fenomeni, o si deve ammettere
l'influenza di qualche principio considerato come evidente per se stesso? Se si
riflette all'influenza che il principio che l'essere non può venire dal non
essere, cioè che il reale non può cangiare di natura e di proprietà, ha sempre avuto nella storia del pensiero umano;
alla forza con cui quest'altro principio, che ne è una conseguenza, cioè
l'impossibilità che un tutto abbia delle proprietà essenzialmente distinte da
quelle, riunite, degli elementi fuori del tutto, s'impone al nostro spirito;
infine al carattere assiomatico delle affermazioni dei meccanisti che la
spiegazione meccanica è la sola maniera possibile di comprendere i fenomeni, eh'essa è la sola
che possa realizzare tra questi l'incatenamento causale, che le leggi della
meccanica sono le sole vere leggi, perchè s'impongono con una necessità logica
si troverà verisimile che delle considerazioni a priori non siano estranee ai
motivi che fanno abbracciare questa teoria. Ben feria, «irebbe la deduzione
effettuata. Effettuata questa deduzione,
si vedrebbe al tempo stesso che la oontrezlone meccanica ò intelllglblte
e che e^sa è vera o almeno verisimile, se questa deduzione si ottenessa
Immaginando qualche agente Ipotetico, Il cui modo d'azione però fosse conforme
alle leggi generali della materia e del moto FRANKENSTEIN. Ma sinché questa
deduzione non sarà effettuata, o non sarfi provato che una tale deduzione
è Impossibile, noi nou possiamo sapere,
non solo se la concezione meccanica è vera
o falsa, ma nemmeno se ossa ha un senso o è un non senso, se è uu'Idea
vera, nel sen^o lelbuitziano, o una Idei falsa, cioè un'lmposslbllltìi logici.]più,
noi troviamo nei suoi fautori delle affermazioni più esplicite e precise. Se
nei corpi viventi, dice Preyr, la materia possede altre fotze fisiche o di
qualsiasi natura che nei corpi non
viventi allora gli elementi costituenti la materia dovrebbero possedere ora
tali forze, cioè a dire tali proprietà ora tali altre; perciò gli elementi non
sarebbero più invariabili e immutabili, essi non sarebbero più delle sostanze
elementari, ciò che implica contraddizione. Lo stesso pAsupposto, cioè che gli
elementi devono essere invariabili, e che perciò un composto non può avere delle proprietà che non siano
la risultante di quelle dei suoi componenti, A^ediamo nel seguente ragionamento
di Huxley. Dopo aver parlato delle proprietà fisiche e chimiche dell'acqua e
del ghiaccio, tra le quali e quelle dell'idrogeno e dell'ossigeno non esiste la
più leggiera rassomiglianza, egli continua: Questi fenomeni e Rev, scient. Le
forze dei corpi viventi. In verità
Preyer crede che alPInfuori delle loro affinità, qualche cosa d'essenzialmente
differente da tutte le forze fisiche e chimiche quali si considerano oggi,
l'eredità, deve determinare il modo secondo cui reagiscono le une sulle altre
le combinazioni chimiche esistenti nell'uovo, come anchd l'ordine e la
disposizione delle loro molecole, In maniera che un embrione di un essere
vivente che rassomiglia, al generatori dell'uovo, se ne sviluppi, e che, anche
con una composizione degli uovi qualitativamente e quantitativamente slmile,
degl'individui differenti possano risultarne. Ma l'eredità si spiega per la
memoria inconsclente della materia
vivente, e per mettere d'accordo questa spiegazione col fatti della
fisica e della chimica, bisogna attribuire la stessa facoltà a tutta la
materia. Io non so se questa possa dirsi una spiegazione fisica della vita; ad
ogni modo essa si conforma al principio generale della spiegazione fisica, cioè
che le proprietà del corpi viventi non differiscono essenzialmente dalle
proprietà della materia In generale.] molti
altri così curiosi costituiscono ciò che noi chiamiamo le proprietà deir acqua,
e noi non esitiamo a credere che, d'una maniera o d'un'altra, queste proprietà
risultano da quelle dei suoi elementi componenti. Noi non supponiamo una forza
misteriosa, chiamata acquosità, che entra in scena e prende possesso
dell'ossido d'idrogeno tosto ch'esso è formato, e guida in seguito le particole acquose Terso i posti
eh'esse devono occupare sulle faccette del cristallo o ilei mezzo delle
foglioline della brina. Noi viviamo al contrario colla speranza e la confidenza
che un giorno, grazie ai progressi della fisica molecolare, noi potremo passare
dai costituenti dell'acqua alle preprietà dell'acqua stessa, così facilmente
che oggi possiamo dedurre il movimento
di un orologio dalla forma delle sue parti e dalla maniera in cui esse
sono disposte. Vi ha altra cosa allorché dell'acido carbonico, dell'acqua e
dell'ammoniaca dispariscono, e al loro posto nasce, sotto l'influenza del
protoplasma già esistente, un peso equivalente di materia vivente? Ciò che
dobbiamo pure notare nelle parole citate di La confidenza di Huxley non è
divisa dal due più eminenti logi(5l suol
connazionali. Nell'azione chimica, dice Baln, non si può predire 11 carattere
del composto dal caratteri degli elementi La composizione delle cause è la
legge, considerando la causa come un potere motore, una forza: ma nelle azioni
chimiche non si tratta di una composizione di forze, ma di sostanze Logica MORE
GRICE TO THE Mlll: È Impossibile di
dedurre tutte le verità della chimica e
della fisiologia dalle leggi o proprietà delle sostanze semplici o agenti
elementari Logica È interessante di notare di l'attitudine dei rappresentanti
della filosofia dell'esperienza verSD la teoria meccanica come concezione
generale della natura. La base fisica della vita, nella Rev, seleni. »er. I
Huxley è l'alternativa che esse propongono tra l'ipotesi dGÌVacqnosifn e quella che le proprietà dell'acqua
sono deducibili dalle proprietà dei suoi
componenti, cioè, facendo l'applicazione della similitudine, tra l'ipotesi
della foi'^a rifa/e e quella che le
proprietà degli esseri viventi sono deducibili dalle proprietà degli elementi
materiali. Abbiamo osservato che le ipotesi contrarie dello spiritualista e del
materialista, per rendere conto dell'origine della coscienza, partono egualmente dallo stesso
principio, cioè che le cose non poscono cangiare nella loro natura: di là lo
spiritualista conclude che la coscienza, non trovandosi negli elementi
materiali, deve essere apportata da un'altro principio distinto da questi e di
cui essa sia la proprietà immutabile; il materialista ne conclude invece che la
coscienza che apparisce nel tutto non può
essere essenzialmente distinta dalle proprieià degli elementi
costitutivi. Dalle <iiffìcoltà delle ipotesi materialiste lo spiritualista
argomenta la necessità della sua propria ipotesi, e viceversa dalle difficoltà
dell'ipotesi spiritualista il materialista la necessità della sua. Così ora
possiamo osservare che l'ipotesi fisica o meccanica e l'ipotesi vitalista sono
l'applicazione di un principio comune alla quistione dell'origine e
dell'essenza della vita, cioè dello stesso principio che la natura delle cose
non può cangiare. Dall'osservazione che i fenomeni dell'essere vivente sono
essenzialmente distinti dai fenomeni degli elementi materiali che 1'hanno
costituito, il vitalista conclude, in virtù di questo principio ammesso come
evidente per sé stesso, che la vita è apportata da un'altro elemento distinto dagli elementi materiali
che viene ad aggiungersi al composto (diciamo: un elemento distinto dagli
elementi materiali, quantunque il principio vitale sia stato spesso concepito
come una specie di fluido, p. es. la matiera vifae diffusa di Hunter, di cui un
autore quasi contemporaneo ha potuto dire che in Inghilterra essa è una parte
della religio medici• ma è evidente che
in questo caso, come in quello dell'animismo primitivo, a una sostanza
materiale particolare si attribuiscono delle proprietà essenzialmente
differenti da quelle della materia comune. Dall'osservazione che i corpi che
manifestano i fenomeni della vita non sono che. aggregati degli eie*menti della
materia bruta, e finiscono per risolversi in questa materia bruta, il
meccanista conclude invece, in virtù
dello stesso principio, che le proprietà degli esseri viventi non possono
differire essenzialmente dalle proprietà della materia bruta. Dall'assurdità di
un principio vitale sostantifìcato si argomenta da una parte la necessità della
spiegazione fisico chimica o meccanica della vita, come pall'altra parte
dairimpossibilità di questa spiegazione, che distrugge la differenza essenziale tra la materia A^ivente e la materia morta, si
argomenta la necessità di una sostanza speciale, che si associ agli elementi
materiali, e aggiunga ad essi, finché dura l'ossociazione, le nuove proprietà
della vita. Dall'una e dall'altra parte la terza ipotesi che rompe la pretesa
necessità dell'alternativa, ipotesi che non Bence Jones Materia e forza fn Rer.
scifut* «er l"anno png.. suppone niente ma si limita a costatare il fatto,
cioè che la stessa materia in condizioni differenti possiede delle proprietà
essenzialmente differenti, viene respinta a priori\ ciò che è perfettamente
naturale, perchè essa è contraria alla tendenza spontanea del nostro spirito a
ricondurre il meno familiare BIZARRO al più familiare BANALE, e per conseguenza
a spiegare i fatti per la supposizione
che il reale persiste nelle stesse proprietà, questa persistenza essendo per
noi un fenomeno assai più familiare BANALE che il cangiamento delle proprietà.
Evidentemente ciò ohe abbiamo detto in questo paragrafo e nel precedente, non
si applica soltnnto alla coiicozlona meccanica del mondo, ma a tutte le forme
dulia concezione fisico-chimica. Noi non ci slamo limitati a parlare della prima che perchè ne è la
forma più <»omunemeatc ammessa, e quella che sembra la conseguenza più
naturale del principio della fisica che tutti 1 cangiamenti del mondo fisico si
riducono al movimento degli elementi di una materia che non ha altre qualità
che l'ostenslone e rimpeuetrabllitfi IMPENETRABILITA: ma è eridente che la
identificazione del fenomeni della materia vivente e cosciente a quelli della
materia bruta è una conseguenza del concetto generale che riduce tutti I
fenomeni a (luelll fisico-chimici, e non <lella forma particolare di questo
concetto che riduce inoltre tutti l fenomeni fisico-chimici a (luelli
meccanici. Questo elemento specifico, differenziale, della concezione meccanica
(la riduzione di tutti i fenomeni fisico-chimici al feuomani meccanici) non ha avuto nel testo
alcuna spiegazione. E In effetto esso non potrebbe riguardarsi come una
semplice applicazione del principio che noi abbiamo formulato con 1© parole
nichil oritnr^ nichil iuterit. Cosi, se vogliamo spiegare anch'esso per questo
processo d'inferenza incosciente da cui derivano 1 concetti metafìsici, e
quelli in generale che si ammettono d'una
maniera assiomatica ma che 1'osservazione non potrebbe giustificare, noi
dobbiamo carcame l'origine pare In uni suggestione deli'esperienza più
familiare, ma indipendente da quella a cui si devono i concetti di cui parliamo
in quest'Appendice. E evidente che 11 principio su cui è fondata la teoria che
tutti 1 fenomeni del mondo fisico, anche <iuelli della chimica, non possono
essere [La metafisica dei metafisici non quella che i fisici fanno senza
saperlo, come il borghese geutiluomo fa della prosa senza saperlo -- ci mostra
altre applicazioni del principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che
unite alle precedenti, ci possono far concludere che l'influenza di questo
principio, nella storia del pensiero umano, non è stata quasi meno universale
che quella del principio di causalità
efficiente. Noi indicheremo, d'una maniera generale, i seguenti gruppi di
sistemi: I sistemi di atomismo metafisico, in cui agli atomi, cioè masse
indivisibili ma estese, dei fisici, coche l'effetto dAlle lejrgl della
meceanlca, almeno quando non si Muppoue che 11 movimento deve spiegarsi
unicamente per 1'Impulsione è che tutta la materia, al fondo, deve avere
un'esrnenza e delle pròprletfi Identiche. É facile di vedere In (lutsto
principio una sujrprestlone delle esperienze plìi familiari, se si tlen conto
di questo fatto die la scienza moderna, nej,'aiido l'obbiettività delle qualità
sensibill le secondarle, e componendo tutti l corpi di elementi di una solidità
e di ima durezza assolute, sopprime. In definitiva, ogni caratiere differenziale
tra materia e materia. Un elemento
materiale nin potrebbe differire da un altro che per la grandezza e la figura.
Noi possiamo supporre, è vero, che essi siano dotati <li energie
partlcolarl, che l'uno abbia un modo d'agire e di patire che gli è
assolutamente proprio e pe. cui si distingue essenzialmente dallaltro- ed
è m ciò che dovrebbe consistere la
differenza fra gH elementi chimici, supponendo che essa sia primordiale e Irrlduttlblle. Ma ciò
che appunto è contrarlo alla suggestione delle nostre esperienze più familiari,
òche del frammenti di una materia qualitativamente omogenea noi potremmo dire:
della stessa materla-l quali non differiscono che per la grandezza e la figura
In cui, per dir cosi, sono stati tagliati possano avere del modi di agire e di
patire radicalmente differenti. Noi abbiamo osservato tante volte che le
diverse porzioni di una stessa specie di stoffa o di legno o d'un'altra materia (lualslasl, se differiscono per la
grandezza e per la figura, non hanno perciò una natura e delle proprietà
differenti, salvo quelle proprietà che sono una conseguenza della figura e
della grandezza stesse. Se noi chiamiamo statiche 1^ me unità costanti o
elementi del reale, vengono sohstituiti degli esseri semplici o
inestesi monadi, sia nel senso panpsicliista sia nel senso dinamista, forze o
centri di forze, atomi semplici o punti materiali, ecc. i cangiamenti del mondo
fenomenale essendo spiegati, come nell'atomismo, pei cangiamenti dei rapporti
tra le unità elementari. I sistemi di atomismo metafisico non sono al fondo che
delle forme trascendenti della
concezione meccanica, tutti i cangiamenti del mondo materiale essendo
ridotti, in questi sistemi, al cangiamento nelle relazioni di spazio, sia che
in queste relazioni si veda un attributo reale degli esseri semplici ciò che è
certamente una contraddizione nei termini, poiché un essere semplice, cioè
inesteso, non occupando uno spazio, non potrebbe essere nello spazio sia che
non si veda in esse che delle
manifestazioni fenomenali d'un ordine reale intelligibile. In questo gruppo è a
segnalare il sottogruppo dei sistemi panpsichisti, nei quali, col dualismo
dello spirito e della materia, viene soppresso il più profondo dei
cangiaproprlelà per cui sogliamo distinguere le diverse sostanze secondo 11
giudizio Immediato del sansl, e dinamiche quelle che esse manifestano In circostanze determinate, noi possiamo
formulare il risultato delle nostre esperienze più familiari cosi: delie
sostanze identiche nelle loro proprietà statiche non possono differire nelle
proprietà dinamiche tranne In quelle che non potre')bero riguardarsi come
caratteri differenziali nelle sostanze, quali sono quelle che sono una
conseguenza della grandezza, della figura, della posizione ecc.) Il concetto fondamentale della
spiegazione meccanica, per cui essa si dlstlnijue dalla semplice sple^^azlone
fisico-chimica, cioè l'identità essenziale di tutta la materia, sarebbe
l'estensione di questa conclusione agli elementi della materia, dato li
concetto moderno della materia, che sopprime tra le sostanze, materiali ogni
differenza nelle qualità statiche. ]nienti della natura, e perciò la più evidente contraddizione che il
principio che l'essere non può venire
dal non essere incontra nell'esperienza. I sistemi monisti che risolvono tutte
le cose in una sostanza unica, sempre identica a se stessa, sia che di questa
sostanza facciano un che di spirituale, come Dio, l' Idea Hegel, la Volontà
Schopenauer, l'Incosciente in cui sono associate la volontà e Fidea Hartmann,
ecc.; sia che ne faccia-io un che di differente dallo spirito e dalla
materia vale a dire da tutto ciò che conosciamo, come la Forza inconoscibile di
Spencer, ehe egli si rappresenta come qualche cosa di cui le forme cangiano,
mentre la sostanza resta sempre la stesa. Come si vede, noi impieghiamo qui il
termine monismo in un senso più stretto di quello che esso ha il più
abitualmente nella lingua filosofica, secondo il quale indica tutti quei
sistemi che non ammettono la dualità dello spirito e della materia. In questo
senso il monismo equiA^ale il più spesso sia all'ilozoismo sia alla dottrina
dell'identità del fisico e del mentale: noi abbiamo già parlato di queste
applicazioni del principio dell'immutabilità. La scienza obbiettiva non può
spiegare ciò che noi chiamiamo il mondo esteriore senza riguardare i suoi
cangiamenti di forma come delle manifestazioni di qualche cosa che rimane
costante sotto tutte le forme Primi
principii. Qui Spencer non parla che dei cangiamenti del mondo
esteriore: in quanto ai cangiamenti del mondo interiore, noi abbiamo visto che
questi si distinguono fenomenalmente da quelli del mondo esteriore, ma
realmente sono identici con essi cioè con quella parte di essi che
costituiscono le condizioni fisiche dei fenomeni psichici. Il Realismo, che
risolve le cose in un sistema di concetti realizzati, cioè di entità astratte e
generali Platone, Spinoza, Schelling, Hegel, Taine, ^cc. Queste entità astratte
e generali essendo ciò che vi ha di permanente e d'immutabile nella natura le
leggi eterne e le forme eterne degli
esseri -e il cangiante, il particolare, essendo riguardato come
Yapparenza obbiettiva di quest'Essere immutabile, la conseguenza del Eealismo è
che l'essere non nasce né perisce e che non vi ha nel reale alcun cangiamento.
Il Criticismo, Vi ha, secondo questo sistema, nella varietà delle nostre
conoscenze, un elemento invariabile: è la forma stessa della nostra conoscenza, che, nella sua applicazione agli oggetti conosciuti, si
manifesta come legge generale del mondo dei fenomeni. Quest'elemento
invariabile della nostra conoscenza, che è ciò che vi ha di permanente nella
scena perpetuamente cangiante delle apparizioni, è la forma inerente al
soggetto stesso conoscente, la funzione invariabile per cui egli coordina la
A^arietà delle impressioni sensibili. È evidente che, secondo il criticismo, se la forma della
nostra conoscenza fosse variabile, se le funzioni e la natura del soggetto
conoscente cangiassero, Tordine della natura conosciuta sarebbe alterato, non
vi sarebbe più in essa un corso uniforme. Così a questa quistione: perchè vi ha
un ordine uniforme o delle le«roji costanti nei fenomeni? il criticismo
risponde: perchè la forma di cui il soggetto
conoscente impronta gli oggetti conosciuti è sempre la stessa, perchè la
natura di questo soggetto conoscente è costante. Facendo questa risposta, il
criticismo applica non in verità il principio che l'essenza delle cose è
immutabile ma un altro principio più fondamentale di cui questo è la conseguenza, cioè che la
persistenza degli oggetti nella stessa essenza o nelle stesse proprietà è una cosa naturale e che si comprende da sé
stessa, e che quindi può servire di base alla spiegazione dei fenomeni.
Spiegando l'ordine uniforme o le leggi costanti dei fenomeni per la
invariabilità della forma della conoscenza, e quindi per la costanza della
natura del soggetto conoscente, esso suppone infatti che questa costanza, come,
in generale, la persistenza di una cosa nella stessa natura e nelle stesse proprietà, è un fatto che si
comprende senza bisogno di spiegazione, e che perciò può servire
d'intermediario esplicativo del fatto che ha bisogno di essere spiegato, cioè V
esistenza di leggi costanti, di un ordine uniforme, nel mondo dei fenomeni, o
delle apparizioni. A ciò che abbiamo detto potrebbe farsi un'obbiezione: il
principio che la persistenza delle cose nelle stesse proprietà è comprensibile mentre il cangiamento
delle proprietà non lo è, non può applicarsi alle cose se non in quanto si
concepiscono nel tempo questa persistenza non essendo che una permanenza nel
tempo. Ma, nel criticismo, il tempo essendo una forma subbiettiva della nostra
conoscenza, questo principio perciò non può applicarsi al soggetto conoscente,
considerato come soggetto e non come
oggetto della conoscenza, cioè come semplice apparizione perchè questo
soggetto, considerato in sé stesso, non è sottomesso alla condizione del tempo.
La stessa obbiezione può farsi riguardo al gruppo antecedente cioè ai sistemi
rea/isti] le Idee di Platone e di Hegel e le altre astrazioni realizzate
congeneri essendo anch'esse al di fuori del tempo. La risposta a quest'obbiezione è che per la costituzione stessa della nostra
intelligenza, è impossibile di formarci, come abbiamo spiegato nel Saggio, una
rappresentazione rea/e del sovrasensibile, del non fenomenale. Ne segue che,
mentre il metafìsico parla di cose non sottoposte al tempo e alle altre condizioni
del sensibile e del fenomeno, è sotto queste condizioni nondimeno che egli è
costretto in realtà a rappresentarsele.
L'analogia dalle sue rappresentazioni rea/i con le esperienze che sono le
premesse della sua inferenza incosciente, basta a quest'assimilazione che
costituisce la base e il valore esplicativo dei concetti metafisici. La nostra
osservazione sul criticismo, che esso spiega l'uniformità dell'ordine della
natura per la costanza delle proprietà del soggetto conoscente, si applica,
meglio ancora che a Kant, ai sistemi posteriori di criticismo, nei quali
l'elemento propriamente idealista del kantismo cioè l'attività, 1'efficienza
causale, dell'intendimento e dei concetti puri nella formazione del mondo
dell'esperienza è lasciato nell'ombra o è anche sparito, come in Renouvier, in
Lange e in altri filosofi p. e. Forrier
che si riattaccano più o meno da vicino a Kant. In questi sistemi non resta del criticismo
originale che la dottrina. «•^ del
doppio elemento della conoscenza, l'uno
nvariabile ed essenziale al soggetto conoscente, la forma cioè la legge,
l'altro variabile ed avventizio; la materia cioè le sensazioni; e questa
dottrina, destinata evidentemente alla spiegazione dei fenomeni, non potrebbe
spiegare, come il criticismo originale, che perchè i fenomeni non si succedono all'azzardo, ma vi
ha in essi un ordine stabile ed uniforme. Fra i sistemi a cui abbiamo accennato,
ve ne ha alcuno nel 1*^ gruppo atomismo metafìsico che merita un'attenzione
particolare. Tale è sovratutti quello di Herbart. Non vi ha forse nella
filosofìa moderna un altro sistema che porti cosi spiccatamente l'impronta del
sofisma a priori che studiamo in
quest'Appendice. Grli elementi ultimi delle cose non sono per Herbart degli
atomi fisici la materia della fìsica non essendo per lui che un'apparenza, un
fenomeno subiettivo ma essi sono calcati della maniera più evidente sul
concetto dell'atomo fisico. Herbart chiama il suo sistema un atomismo
qualitativo^perchè le qualità semplici che costituiscono gli esseri. i quali
sono qualitativamente differenti e non omogenei come gli atomi vi tengono il
posto dei frammenti indivisibili di materia dell'atomismo. L'essere di Herbart
è assolutamente semplice: non solo esso è senza estensione ed indivisibile, ma
non vi ha in esso una pluralità 'di proprietà; un reale non ha che una qualità,
o, a parlar propriamente, non è che una qualità unica e semplice. Le
sostanze ^qualità di Herbart sono, come le sostanze materiali degli
atomisti, assolutamente immutabili: non vi ha nel reale alcun cangiamento
interiore, in altri termini niente cangia negli elementi considerati in se
stessi; il cangiamento, ciò che accade, non è che un cangiamento nei rapporti
degli elementi, nella loro disposizione, o, come dicono gli herbartiani, nel
loro collegamento. Quando il meccanismo vuol
ridurre tutti i cangiamenti al Cangiamento dei rapporti nellospazio
GRICE ACTIONS EVENTS WRIGHT, la più grave difficoltà è per esso di rendere
conto dei cangiamenti interni che deve riconoscere in alcuni esseri, cioè i
fenomeni psichici: un meccanismo rigoroso non indietreggia innanzi alla
conseguenza che questi fenomeni sono anch'essi movimento, per quanto
questa proposizione sia evidentemente
inintelligibile. Ln stessa difficoltà si presenta nel sistema di Herbart, ma
d'una maniera più ge La sostanza vale a dire ciò che vi ha di permanente nelle
cose non è, nel concetto coniuno, che l'esteso, ciò che persiste nello spazio:
Herbart toglie al reale l'estensione, ma fa delle sue qualità delle sostanze,
vale a dire attribuisce loro quella permanenza assoluta che ordinariamente non
si attribuisce che a ciò che occupa lo spazio e in quanto occupa lo spazio. Una
conseguenza di questa trasformazione di qualilà inestese in Hontanse è che la
coesistenza di più (jualità in un essere é impossibile. Una qualità, riguardata
come un che di assolutamente permanente, è già supposto d'altronde che essa
possa concepirsi per se stessa una sostanza: di più noi non possiamo concepire
che una di questo qualità inerisca in un'altra o tutte e due ineriscano in un
soggetto comune, poiché noi non possiamo rappresentarci altrimenti la
coesistenza di più qualità p. e. odore, sapore, calore non sono le qualità di
Herbart, ma il sovrasensibile non può modellarsi che sul sensibile in uno
stesso soggetto, se non rappresentandocele come inerenti tutte egualmente in une stesso esteso. I»« fi' ■«•4 nerale. Non solo egli ammette ciò di
cui non potrebbe fare a meno degli stati interni nella monade anima, ma tutte
le monadi, tutti i reali, hanno secondo lui degli stati interni, i quali ci
sono sconosciuti nella loro natura, ma che, come osserva Lotze, non bisogna
credere molto dissimili da quelli dell'anima. È da questi stati interni, da
questa attività interiore delle monadi, che derivano i cangiamenti delle cose
nello spazio. Questo concetto non deve sorprenderci in un sistema din^mista
quale quello di Herbart: noi vediamo in esso un altro osempio di questo vago
antropomorfismo che abbiamo più volte segnalato in cèrti concetti metafìsici, e
il cui germe si trova già nell'idea comune della forza nel senso trascendente
di questo termine. Supponendo degli atti
interni anche negli elementi della materia, di cui egli ammette uon pertanto
l'assoluta immutabilità, Herbart non introduce una contraddizione nuova nel suo
-sistema questa esiste dacché la
coscienza ci obbliga a riconoscere in noi stessi dei cangiamenti interiori ma
non fa che generalizzarla. Herbart pretende che gli stessi cangiamenti negli
stati interni delle monadi non sono che
semplici cangiamenti nei rapporti fra di esse, nel loro collegamento, come il
meccanista conseguente pretende che la sensazione e il pensiero non sono che
movimenti degli atomi. La conseguenza rigorosa del principio di Herbart che non
vi ha, nell'essere reale considerato in se stesso, alcun cangiamento possibile,
sarebbe di non accordare al
caniriamento, almeno al cano;iamento interno, che un valore puramente
fenomenale^di non vedervi, come i VELINI, che una semplice apparenza della
stessa maniera che il priniùpio del meccanismo che ogni cangiamento, e quindi
anche il pensiero, si riduce al movimento di elementi immutabili in se stessi,
condurrebbe a nen vedere nel pensiero che un'apparenza illusoria del movimento. È così che talvotta è stata
interpretata la dottrina di Herbart; ma tale non è veramente il suo pensiero.
Egli non nega che i cangiamenti interni siano reaU,, ma afferma al tempo stesso
ciò che contraddice a questa proposizione che tutti i cangiamenti si riducono a
quello della relazione tra gli esseri. Una cosa, egli dice, può cangiare, per
la sua relazione con altre cose, senza
cangiare in se stessa: così una stessa nota musicale può essere giusta o
falsa, secondo i rapporti in cui si trova con altre note; una stessa retta è
una tangente relativamente ad un cerchio, e diviene una secante relativamente
ad un altro cerchio. A questo concetto inintelligibile, che gli stati in terni
delle cose non esistono assolutamente, ma non sono che semplici relazioni fra
queste cose, si riati^acca pure la
dottrina delle perturbazioni e degli atti di conservazione di sé, per cui
Herbart pretende di ri' solvere il problema della possibilità del cangiamento.
Gli stati interni delle monadi, come le
rappre Psicol, flsiol, trad. frane, Diz, fllos. di Frank, artic.
Herbart. sentazioni dell'anima, sono degli atti di conservazione di sé di
questi monadi, per cui esse reagiscono contro le pertubazioni prodotte da altre monadi. Quando
due monadi, aventi qualità contrarie, s'incontrano a uno stesso punto, nasce
fra di loro un'opposizione, una lotta, essendo impossibile la coesistenza di
qualità contrarie: ciascuna monade resiste all'invasione dell'altra, fa uno
sforzo per conservarsi quale essa è, cioè nella sua propria qualità. Questa
mutua opposizione importa in ciascuna delle due monadi una passione è la
perturbazione e un'azione è Tatto di conservazione di se. La periurbazione può
panigonarsi a una pressione, la conservazione di se a una resistenza. Pressandosi o turbandosi
reciprocamente, ciascuna delle due monadi eccita V altra alla resistenza, a uno
sforzo di conservazioiie di se: ma le due sostanze, con tutto ciò, non provano
alcun mutamento; come, pressando l'uno contro Taltro due atomi, ciascuno si
opporrebbe all'invasione dell'altro, manifestando la sua forza di resistenza,
ciò che sarebbe uno sforzo contro lo sforzo contrario tendente a comprimerlo,
ma senza che perciò i due atomi cessassero un istante di restare nel loro stato
invariabile. Come dal rapporto particolare in cui gli atomi sono posti, nasce
questo sforzo di resistenza di ciascun
atomo, che è un avvenimento ma che non importa alcun cangiamento reale
nell'atomo stesso, non essendoA^ stato in realtà altro cangiamento che nella
posizione reciproca dei due atomi, cioè in una loro relazione; così dal
rapporto particolare in cui le monadisono poste, nasce l'atto di consei'vazione
di sé di ciascuna monade, che è un avvenimento ma che non importa alcun cangiamento reale nella monade
stessa, non essendovi stato in realtà altro cangiamento che nelle relazioni,
nel collegamento, delle monadi. Ciò che vi ha di particolare nel sistema di
Herbart, ciò che mette questo sistema in contrasto con la concezione meccanica,
e che diffonde su di esso un'oscurità a cui non è comparabile quella che può
trovarsi in alcuni punti della
concezione meccanica, è l'unione di questi due punti di vista
incompatibili, quello dell'assolufa immutabilità della sostanza e quello della
sua attività interiore, in altri termini, di un concetto dinamico e di un
concetto meccanico che riduce tutti i cangiamenti del reale ài cangiamento
nelle relazioni tra le unità costitutive. La stessa unione di questi due
concetti si trova nel sistema del
filosofo siciliano NON ITALIANO CORICO (vedasi), che fu senza dubbio un
pensatore distinto, e merita anch'egli di essere ricordato. Il concetto
fondamentale di Corleo è ciò che egli chiama la rettificazione dell'idea di
sostanza. Bisogq^ rigettare l'idea conmune che vede nella sostanza qualche cosa
di uno e al tempo stesso di multiplo: la
sostanza reale non è il soggetto d'inerenza
di una pluralità di fenomeni accidenti, non è qualche cosa che ha la
potema di fare successivamente degli atti differenti, di ricevere
successivamente delle modificazioni diverse. Una sostanza semplice non
racchiude alcuna potenza: la sostanza non è che atto, sempre lo stesso atto, un
atto identico ed invariabile. La rettificazione dell'idea della sostanza
consiste dunque nel togliere alle
sostanze reali, agli elementi ultimi delle cose, qualsiasi mutamento,
qualsiasi successione di stati, qualsiasi moltiplicità. Ma la sostanza,
quantunque immutabile come Fatomo, non bisogna perciò concepirla come 1'atomo
dei fisici. Prima di tutto la sostanza è assolutamente indivisibile, senza
parti, senza estensione la divisibilità
all'infinito della materia essendo un'idea contraddittoria: inoltre essa differisce ancora dall'atomo,
quale lo concepiscono i fisici, perchè mentre questo è un che di passivo e
d'inerte, il cui attribuito non è che la sua proprietà di occupare uno spazio,
e la cui realtà non è che la sua presenza nello spazio; al contrario la
sostanza reale è essenzialmente attiva, l'attività essendo 1'essenza stessa
dell'essere reale. A parlar propriamente, non vi hanno due cose, la s(>stan>'<a e la sua azione – GRICE: HE WAS IN JAIL ALL
DAY, DOING NOTHING --: 1'azione non si
distingue dalla sostanza, sostanza ed azione sono due termini equipollenti;
l'essere reale è un^n^ione sostantiva o una sostanza^azione. 11! azione non
bisogna concepirla come una modificazione della
sostanza ^n vi hanno modificazioni nella sostanza ^ come una seccessione di stati; ma come lo stato
immanente, sempre lo stesso, della sostanza. La contraddizione tra il concetto
dinamico, e il concetto meccanico dell'assoluta immutabilità dell'essere ehe
nel sistema di Herbart si manifesta come contraddizione tra il concetto di un essere senz' alcun cangiamento interiore e
quello di una moltiplicità di stati di cui quest'essere è successivamente
il soggetto qui prende un'altra forma:
l'aziono, che noi non possiamo rappresentarci altrimenti che come un
cangiamento, una successione, è concepita come uno stato permanente,
immutabile. L'idea della semplicità assoluta della sostanza assenza di ogni
moltiplicità interiore, che Corleo ha in comune con Herbart, deriva, per il
primo, come per il secondo, dai due concetti riuniti dell'assoluta immutabilità
della sostanza che esclude il moltiplico come successivo e della sua inestensione e indivisibilità che
lo esclude come coesistente. Lra sostanza essendo assolutamente invariabile,
come si deve comprendere dunque 1'esistenza del fenomeno, cioè del variabile,
nella natura? È la concezione meccanica naturalmente che offre il tipo su cui
Corleo modella la spiegazione del
cangiamento. Ogni cangiamento non è che un cangiamento nelle relazioni, nella
posizione reciproca degli elementi, ciascuno di questi in se stesso restando
invariabile. Non bisogna credere che gli elementi per il loro concorso possano
mai produrre qualche fenomeno nuovo, che sia qualche cosa di più o di diverso
che la somma delle proprietà degli elementi stessi: il rapporto tra il fenomeno, vale a dire ciò che
esiste d'una maniera transitoria, e la sostanza, vale a dire ciò che esiste
d'una maniera permanente, è il rapporto tra il composto e il semplice, tra
W.piìi e Viino, La sostanza è un'azione semplice, un'azione sostantiva; il
fenomeno è un'azione composta, un insieme di azioni sostantive o di sostanze
azioni. È la composizione che muta e passa,
non i singoli atti sostantivi che sono sempre gli stessi. Ciò si
ai3plica al pensiero: esso non è una serie di modificazioni di una sola
sostanza ciò che sarebbe incompatibile, con rimmutabilità della sostanza ma è
una azione composta di quest'azione sostantiva che noi chiamiamo anima, e delle
azioni sostantive che noi chiamiamo elementi materiali; esso cangia e si
muta^perchè il composto cangia e si
muta, per Paddizione,^ sottrazione, o trasposizione degli elementi. La
sostanza, lo sappiamo, non è per Corico come un atomo, inattivo in se stesso, e
che può, sotto l'azione di forze a lui straniere, manifestare successivamente
forme differenti di attività: al contrario, la sostanza è per essenza attiva, e
quest'attività è immutabile, costituendo l'essenza stessa della sostanza. Ne segue che il contingente, per
dir così, di azione, che esiste nel mondo, è quantitativamentee qualitativamente
invariabile: le azioni possono comporsi, decomporsi, ricomporsi in aggregati
differenti, ma ciascuna delle azioni elementari, cosr bene che il loro totale
esistente nel mondo, restano sempre invariabili. La natura, considerata nei
suoi stati successivi, è sempre, al
fondo, identica; non soltanto identica come il mondo degli atomisti,
composto sempre degli stessi atomi, ma identica ancora in quanto le azioni
elementari, e quindi anche le azioni composte, cioè i fenomeni, dello stato
antecedente, sono sempre identiche, al fondo, a quelle dello stato susseguente.
In altri termini, vi ha identità tra i fenomeni antecedenti e i fenomeni
conseguenti, tra le cause e gli effetti:
l'effetto, il conseguente, non è che la somma delle sue cause – GRICE REBEL
WITHOUT A CAUSE --, dei suoi
antecedenti, ed è identico con esse. Se la causa e l'effetto ci sembrano due
cose differenti – those spots mean measles, those spots ARE measles --, è che noi, per una sorta di sezione
arbitraria, stacchiamo\ dall'insieme una delle condizioni del fenomeno, e la consideriamo come causa del fenomeno,
senza tener conto delle altre concause che con essa contribuiscono al risultato: ma e tutte le cercassimo e le
ponessimo sotfc'occhio, l'identità
dell'effetto totale con tutte le concause che lo producono e lo fanno essere
quel che è, risulterebbe evidentemente. Vi ha tra il sistema di Corico e quello
di Herbart una somiglianza si colpente, che si
è creduto di vedere nel primo un plagiario del secondo: la supposizione
di un legame tradizionale, per ispiegare i punti di contatto tra i sistemi, s'impone,
quando si vede nei concetti metafìsici
qualche cosa di fortuito e di arbitrario. Ma noi sappiamo che la metafisica è
un tatto naturale dell'intelligenza umana, e che il metafisico, anche nei suoi
concetti i più apparentementi lontani dal
pensare comune, non fa che sviluppare certi germi che tutti gli spiriti
naturalmente portanoin se stessi. I tratti comuni tra Herbart e Corico si
spiegano, io credo, sufficientemente, senza bisogno di supporre che questi li
abbia imprestati da quello. La dottrina della semplicità assoluta della sostanza
risulta, come abbiamo notato, dai concetti della sua immutabilità e della sua
inestensione e indivisibilità: questi costituiscono il carattere comune
dell'atomismo metafisico che, come vedremo, è una delle forme naturali che
prende il realismo nella sua inevitabile evoluz ione; quello è, come abbiamo
visto, un prodotto di questa tendenza naturale del nostro spirito che
costituisce la base ultima della metafisica a ricondurre tutti i fenomeni a
quelli che ci sono i più familiari.
Questa tendenza spiega, nel tempo stesso che il concetto
delPimmutabilità della sostanza, quello di ridurje il fenomeno, il variabile,
al cangiamento dei rapporti tra le sostanze: il tipo per questi concetti era
per altro esibito dalla teoria meccanica. La dottrina dell'identità della causa
dell'effetto che noi abbiamo già
incontrato in Corleo ci fornirà Tultimo esempio del sofisma a priori
che studiamo in quest'appendice,
applicato a una concezione generale dei fenomeni. Questa dottrina non bisogna confonderla né
col principio di alcuni filosofi, che il simile non può agire che sul simile,
né con l'altro, più analogo che la causa deve essere simile all'effetto. Questi
due principii sono delle generalizzazioni eccessive dell'esperienza, assai
comprensibili in uno stadio primitivo della
ricerca scientifica; ma non potrebbero riguardarsi come concezioni metafìsiche,
se si vuol dare a questa parola un senso definito. Mancano ad essi l'uno e
l'altro dei tratti generali che caratterizzano le concezioni metafìsiche; essi
non sono, come la dottrina stessa dell'identità della causa e dell'effetto,
delle nozioni irrappresentabili o implicanti delle impossibilità intrinseche;
e, quel ch'è più, non sono nemmeno il
prodotto di alcuna di queste tendenze spontanee^e quasi fatali, dello spirito umano,
che noi chiamiamo con MORE GRICE TO THE Mill sofismi a priori. Al contrario, la
dottrina dell'identità della causa e dell'effetto si riattacca della maniera
più evidente a queste tendenze spontanee dello spirito di cui la principale é
quella che ci spinge a ricondurre tutti
i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari, non essendo che uno
degli sviluppi più estremi del principio che il reale é nella sua essenza
invariabile, o, come dicevano gli antichi fisici, che l'essere non può venire
dal non essere né ridursi al non essere.
Ascoltiamo Hamilton: Quando noi
apprendiamo^ egli dice, che una cosa comincia ad esistere, noi siamo
costretti dalle leggi della nostra
intelligenza a credere ch'essa ha una causa. Ma che vuol dire
quest'espressione: avere una causa? DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE Se
analizziamo il nostro pensiero, troveremo che ciò significa semplicemente che,
poiché noi non possiamo concepire il cominciamento d'una nuova esistenza,
bisogna che tutto ciò che si vede apparire sia esistito prima sotto un'altra
forma. Noi siamo affatto incapaci di concepire che il contingente d'esistenza
possa aumentare o diminuire. Da una parte noi siamo incapaci di concepire che
niente divenga qualche cosa^ e d'altra parte che qualche cosa divenga niente.
L'aforisma: ex niliilo nihil, in nihiliim nil posse reverti, esprime nella sua
forma più netta il fenomeno intelletuale della causalità. Si concepisce dunque che un effetto e le sue
cause sono una sola e stessa cosa THOSE SPOTS ARE MEASLES. Noi crediamo che le
cause contengono tutto ciò che è nell'effetto, e che l'effetto non
racchiude niente di più che ciò che era
contenuto nelle cause. Omnia mutantnr, niìiil interit, é questo quello che noi
pensiamo, che noi dobbiamo pensare. È là il fenomeno mentale della causalità:
noi neghiamo necessariamente che la cosa che sembra cominciare ad assere
cominci in realtà; e identifichiamo necessariamente là sua esistenza presente
con la sua esistenza passata. Questa idenitficazione dell'esistenza poesente
della cosa che sembra cominciare ad
essere con la sua esistenza passata consiste ad ammettere che, come dice
l'autore, le cause continuano sempre ad esistere attualmente nei loro effetti,
e che un effetto non è niente di più che la somma o totalità di tutte le cause
parziali di cui il concorso costituisce la sua esistenza. La dottrina della
causalità di Hamilton ha la adesione di Spencer. Io penso, egli dice, d'accordo in ciò con Hamilton, che la
nostra credenza alia necessità delle cause viene dalla nostra impotenza a
concepire un accrescimento o una diminuzione
La dottrina di Hamilton contiene due proposizioni che bisogna
distinguere: Tuna ha una portata ontologica, e afferma l'identità della causa e
dell'effetto; l'altra ha una portata psicologica, e afferma che il principio di
causalità che Hamilton riguarda, non
come un'acquisizione dell'esperien/a, ma come una legge o una necessità del
pensiero si deduce da un principio o da una necessità del pensiero più
primordiale, cioè l'impossibilità di concepire die l'essese venga dal non
essere. Di queste due proposizioni, la prima è una concezione metafìsica, nel
senso più rigoroso della parola essa è un prodotto di una tendenza spontanea e generale, di un sofisma
a priori DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE, dello spirito umano; la
seconda non potrebbe riguardarsi, secondo me, come una concezione metafìsica
propriamente detta, noi sei:.so rhe non può
riattaccarsi alle tendenze generali sofìstiche a priori del nostro spirito,
quantunque il suo punto di partenza, l'apriorità del principio di causalità; sia un prodotto del
sofisma a priori xaT^ è^OXYjV della
psicologia, di cui diremo in questo Saggio, e perciò una vera dottrina
metafìsica. La pretesa deducibilità del principio di causalitl
dall'inconcepibilità di un cominciamento assoluto dell'essere ha lo scopo di
ricondurre la legge mentale della causalità a una legge più generale, quella
del condizionato, che è secondo Hamilton
la legge fondamentale dell'intelligenza, e consiste a stabilire che il solo
concepibile è il condizionato, e questo sta fra due incondizionati egualmente
inconcepibili, che sono 1'uno l'illimitato e l'altro l'incondizionalmento
dell'essere considerato nella sua totalità. Cosi nei Primi prindpii egli deduce
il principio di causalità da quello della persistenza della forza cioè
dell'immutabilità della quantità del reale, dedotto, alla sua volta,
dall'impossibilità di concepire che il niente diventi qualche cosa o qualche
cosa niente. Ricordiamo infine la dottrina di Lewes. L'effetto e la causa non
si distinguono che logicamente. Un fatto è identico alle sue condizioni e non è
niente di sovraggiunto ad esse. Non vi hanno due cose da una parte un grnppo di
condizioni cause e d'altra parte un risultato
effetto ma una sola e stessa cosa vista differentemente. Ciò che noi chiamiamo
le condizioni di un fatto sono i fattori analitici che noi abbiamo scovorti nel
fatto: questi fattori, considerati analiticamente, si chiamano cause; la loro
limitato rincondizionalmente limitato sarebbe un tutto assoluto, limitato, che
non fosse una parte di uu tutto più grande come dovremmo concepire l'essere, se potessimo concepire un
cominciamento assoluto, ovvero una parte assoluta, che non fosse divisibile in
parti minori V. nei Frammenti tradotti da Peisse Filosofia
deW assoluto. La legge del condizionato è, come si sa, la dottrina che dà un
carattere personale alla filosofia di Hamilton. Cosi la sua deduzione del
principio di causalità dalla legge acl
condizionato é un esempio utile a mostrare che sofisma a j^riori e
sofisma naturale non sono due termini perfettamente equivalenti. Facendo questa
deduzione, Hamilton fa un'applicazione troppo estesa d'una sua idea favorita:
questo ó un sofisma naturale, ma non è un sofisma a priori come quelli su cui è
fondata la metafìsica, perchè non dfi luogo a delle conclusioni che
s'impongono al nostro spirito come
verità evidenti per se stesse. Saffffi scientifici, Obbies, e risp, sui primi
principii, Conclas, // conoscibile
Obbies, e risp, sui pr, princ, Conclns, somma, considerata sinteticamente, si
chiama effetto. La teoria dell'identità della causa e dell'effetto fa riscontro
alla teoria d'Eraclito dell'identità dei contrari. Se noi facciamo astrazione
del modo in cui viene concepita la legge
del divenire che il filosofo antico si rappresenta come un passaggio continuo
da uno stato al suo stato opposto, mentre i filosofi moderni se la
rappresentano per l'idea più scientifica di un rapporto definito tra ciascun
cangiamento e dei cangiamenti antecedenti determinati legge della causalità le
due dottrine si riducono egualmente a
questa proposizione, GRICE ACTIONS AND
EVENTS BECOMING che il reale divenendo incessantemente altro, resta nondimeno
costantemente Io stesso, cioè che il diverso è identico, che il cangiamento non
è un cangiamento. È per altro a questa formula, a questa contraddizione nei
termini, che arrivano egualmente tutti gli sviluppi più estremi del sofisma r//?m;7 che fa l'argomento di
quest'appendice, la dottrina dei VELINI,
dei Vedantini. di Bruno, dei filosofi realisti nel senso degli
scolastici, che riduce il cangiamento ad un'apparenza, non meno che la dottrina
dell'identità degli opposti o quella dell'identità della causa e dell'effetto
se il cangiamento è un'apparenza, Fapparenza di una realtà immutabile, il can-^
giamento è dunque in realtà un non cangiamento^ il diverso l'identico. Ciò che
diciamo della dottrina
dell'identità della causa e dell'effetto
può pure naturalmente riferirsi alFapplicazione particolare di questa dottrina
ai fenomeni psichici l'identità del fisico e del mentale; anche qui
pretendendosi identificare dei termini che non possiamo rappresentarci che come
essenzialmente ed assolutamente differenti. Forse si dirà che se la dottrina
dell'identità della causa e deireffetto, presa
alla lettera, non è che una flagrande contraddizione, ciò prova
semplicemente ohe questa dottrina non deve intendersi nel senso rigorosamente
letterale. Ma se noi non cerchiamo in questa proposizione che dei concetti
perfettatamente intellegibili, non tardiamo ad avvederci che la proposizione
non è, in questo caso, suscettibile di un senso qualsiasi. Quando si dice che
la causa e l'effetto sono la stessa
cosa, che la causa continua ad esistere nell'effetio, noi dobbiamo intendere
per le parole cause DECAPITATION WILLED ed effetti i cangiamenti del reale
poiché la legge della causalità non è che la legge dei cangiamenti. Ora è
assurdo di attribuire la persistenza a dei cangiamenti, di dire con Hamilton
^-he la cosa che noi vediamo esistere attualmente come effetto non comincia ora ad esistere, ma è già esistita
prima come causa di quest'effetto. Se questa persistenza, che la dottrina
dell'identità della causa e dell'effetto attribuisce alle cause e agli effetti,
noi vogliamo limitarla a questo elemento del reale che noi possiamo
effettivamente rappresentarci come persistente, allora noi non ammettiamo più
in alcun modo un'identità tra le cause e gli effetti, poiché la legge della causalità non si
applica all'elemento persistente, ma all'elemento cangiante del reale. E'
l'obbiezione di MORE GRICE TO THE Mill contro Hamilton. Hamilton, dice MORE
GRICE TO THE Mill, scambia l'uno per l'altro due dei quattro sensi distinti che
la parola causa ha nella filosofia peripatetica la causa materiale e la eausa
efficiente: nei suoi esempi egli mostra
che un composto è identico ai suoi elementi materiali; ma gii elementi non sono
le cause del composto, perchè la legge della causalità non si applica alla
materia, ma ai suoi cangiamenti, e perciò le cause sono le azioni che hanno
determinato una nuova posizione degli elementi, e l'effetto la nuova posizione
di questi elementi. In favore della dottrina dell'identità della causa e dell'effetto potrà invocarsi la teoria della
persistenza e trasformazione dell'energia. È press'a poco in questo senso che
Bain dice che Hamilton ha dato, per la legge di causalità, una formula che
equivale esattamente al principio di conservazione dell'energia. Si può dire,
continua Bain, che egli ne ha scoverto il primo l'espressione E in So si ammetto la teorÌB. atomica o
aXmQno molecolare déìÌRxniK' teria,
l'elemento persistente del roale, che resta fuori del dominio della legge di
causalità, sarà un che di qualitativamente invariabile di cui non cangiano che
i rapporti spaziali tra le sue parti; e, considerando il mondo dal punto di
vista obbiettivo, tanto gli effetti fjuanto le cause non saranno che dei
cangiamenti di posizione. Se invece si respingesse questa sostanza qualitativamente invariabile come nn
prodotto dei sofismi a priori del nostro suirito, allora l'elemento persistente
del reale si parla naturalmente della realtà fìsica non avrebbe altro
d'invariibile che U massa, cioè, al fondo, la costanza con cui la stessa
materia riceve la stessa velocità dall'. izione di forze eguali. Ma che vi
siano nella materia dei cangiamenti qualitativi o interiori, come in quest'ipotesi, o che tutti i cangiamenti
della materia siano puramente esteriori e si riducano al cangiamento di
posizione, resta sempre che è ai cangiamenti, e non a ciò che permane durante i
cangiamenti, che si applica la legge della causalità, e quindi i termini di
causa e d'effetto. Log, I fatti, tutti i
cangiamenti della materia ridicendosi a delle forme dell'energia, e l'energia
non creandosi né annichilandosi mai,
sembra che cosi potrebbe darsi un soxiso intelligibile all'affermazione che la
causa continua ad esistere nell'effetto, ed è identica all'effetto. Non vi ha
dubbio che questo concetto non sia uno dei fondamenti della dottrina, se non
nel pensiero di Hamilton, in quello degli autori posteriori. Ma per istabilire
la dottrina sul principio della conservazione e
trasformazione dell'energia, è necessario di comprendere questo
principio in un senso trascendente, metaempirico. Al punto di vista empirico,
questo principio non fa che stabilire dei rapporti quantitativi definiti tra i
fenomeni: per la costatazione di questi rapporti questi fenomeni non hanno
cessato di essere distinti e differenti gli uni dagli altri. Quand'anche si
ammetta la teoria dell'unità delle forze
fisiche nel senso non trascendente, cioè quello secondo cui tutte le azioni
fisiche vengono ridotte alla trasmissione del movimento per l'impulsione,
siccome il movimento, nella sua circolazione incessante nella materia, cangia
continuamente, non solo per questo mutamento del suo su strato meteriale, ma
nella velocità, nella direzione, in tutte le qualità per cui un movimento può
differire da un altro movimento; cosi non si potrebbe dire, anche in
quest'ipotesi, che i movimenti antecedenti le cause sono una sola e stessa cosa
eoi movimenti conseguenti gli effetti. Per affermare che, nella trasmissione e
trasformazione dell'energia, vi ha qualche cosa che persiste sempre la stessa,
bisognerà fare della forza un quid di sostanziale, di cui non cangia che la
forma prendendo alla lettera la parola
trasformazione^come se si trattasse d'un
oggetto materiale e l'associazione con una porzione determinata della motoria.
Ma \\\questo caso si abbandonerà il dominio del sensibile e del rappresentabile
al di fuori del quale sarebbe evidente per tutti che non vi ha niente
d'intelligibile, se non fosse questa tendenza fatale che spinge lo spirito
umano ad oltrepassare l'esperienza
tendenza di cui noi cerchiamo l'espressione generale e la spiegazione
psicologica -.Di più, se noi ammettiamo questa sostanza forza, che migra di
corpo in corpo, e prende successivamente delle forme differenti, la forza
entrerà, con la materia, a far parte di questo elemento persistente del reale,
a cui non si applica la legge di causalità; la legge di causalità, e i termini cause ed effetti, non sarebbero
applicabili a ciò che della forza è sempre identico, alla sostanza, ma a ciò
che di essa passa e si muta, ai cangiamenti della sostanza trasmigrazioni,
trasformazioni, ecc.; sicché ne anche allora si riuscirebbe a dare un senso
alla proposizione che le cause sono una sola e stessa cosa coi loro effetti,
che vi ha identità fra questi e quelle. Sembra dunque vano ogni sforzo per rendere intelligibile la
proposizione. Noi non possiamo, relativamente a questa dottrina, che ripetere
press'a poco un'osservazione che abbiamo fatto relativamente alla dottrina
dell'identità degli opposti di Eraclito. Essa non contiene la soluzione di una
quistione, ma il postulato che la quistione è solubile, il postulato, cioè,
che, quantunque il principio a priori vale a
dire ammesso in virtù delle tendenze spontanee della credenza che il
reale è in sostanza invariabile, che non vi ha mai nelle cose un cangiamento
assoluto, essenziale, sembri e sia effettivamente, per noi in contradizione coi
cangiamenti dati dall'osservazione; nondimeno i fatti dell'osservazione devono
necessasiamente conciliarsi col principio, che è evidente per se stesso; e che questa conciliazione suppone la
possibilità d'identificare i cangiamenti
successivi della natura coi cangiamenti con cui hanno una relazione costante.
Ma la dottrina non ci mostra come la conciliazione sia possibile: questa
identificazione, che si suppone come una condizione per ottenerla, è
irrealizzabile nel pensiero. Se noi la prendiamo alla lettera, lungi di
risolvere la contraddizione, essa non fa
che darle una forma più palpabile: se ci rifiutiamo a prenderla alla lettera,
noi cerchiamo inutilmente quale possa essere il senso definito che si debba
annettere alla proposizione. Il concetto deiranima. Parlando dell'animismo
primitivo, abbiamo visto che in esso^ col concetto dell'animazione della natura
– THOSE SPOTS NATURALLY MEAN MEASLES --,
o, più generalmente, con
l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attività umana, è
implicato il concetto della dualità, della distinzione di duo sostanze, neir
uomo e nelF essere animato. Questo secondo elemento della metafisica dell'uomo
primitivo restò allora senza spiegazione: ma ora siamo in grado di ricercare
quale sia il suo rapporto con le tendenze naturali dello spirito umano da cui
derivano generalmente i concetti della
metafisica. È evidente che se vi ha una dottrina a cui convenga il nome di
metafisica nel senso definito in cui noi intendiamo la parola GRICE STRAWSSON
PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS, comprendente il concetto che la dottrina ha la
sua base nella costituzione stessa della intelligenza umana questa è senza
dubbio la dottrina animista come ipotesi
sulla natura degli esseri animati, che noi incontriamo in tutti i luoghi, in
tutte le epoche, in tutte le razze, in tutti i gradi dello sviluppo della
cultura. Questa considerazione deve farci rigettare quelle spiegazioni dell'idea
à^Wanima che ne cercano l'origine, non in un lato permanente dello spirito
umano, ma in un certo stato intellettuale dell'umanità preistorica, che per
noi, uomini attuali, è un mondo
interamente scomparso, e che noi diflìeilmente potremmo oggi riprodurre in noi
stessi, GRICE CAN! anche in
immaginazione. Tale è la spiegazione di Spencer, secondo la quale Tidea
dell'anima è nata dalla interpretazione, grossolana e infantile, che l'uomo
primitivo da di certi fenomeni, sovratutto le ombre e le immagini viste, per
esempio, nell'acqua NARCISSO e le rappresentazioni del sogno. Spencer, partendo
dal fatto che alcune popolazioni selvagge identificano l'anima con l'ombra del
corpo umano o con la sua immagine, ammette che l'uomo primitivo, scambiando
questi fenomeni per oggetti reali, ne conclude che ciascun essere ha un
duplicato. I fenomeni del sogno confermavano e danno una forma più definita a
questa concezione di un doppio, di un
altro sé dell'uomo; Tuonio primitivo ò incapace di distinguere il subbiettivo e
Tobbiettivo; non avendo ancora ridea di un mondo interiore, egli realizza
necessariamente i suoi sogni. Cosi, non solo le immagini viste nel sogno sono
per lui i duplicati degli esseri reali conosciuti nella veglia, ma egli suppone
che, mentre 1'uomo è immerso nell'immobilità
del sonno, l'anima, il duplicato che è la stessa cosa che, l'ombra o
l'immagine va vagando qua e là, facendo le azioni e visitando i luoghi che gli
appariscono nel sogno. Per conseguenza, quando l'individuo è in uno stato
momentaneo d'insensibilità di sincope, di apoplessia, di catalessi l'uomo
primitivo crede che l'altro se siasi momentaneamente assentato: questa stessa
assenza dell'altro se, prima creduta
temporanea perchè l'uomo primitivo, secondo Spencer, comincia per isperare
nella resurrezione poi definitiva, spiega l'insensibilità della morte. Ora,
ammettendo che questo sia il processo psichico da cui è risultata
primitivamente l'idea dell'anima processo che non potrebbe concepirsi se non
nello stato selvaggio il più estremo come spiegare la persistenza
dell'animismo, quando non si tratta più
delle razze inferiori e del grado infimo dello sviluppo della civiltà? Secondo
l'ipotesi di Spencer e le altre analoghe sull'origine della teoria animista,
questa non potrebbe essere, nelle razze pervenute a un certo grado di sviluppo
intellettuale io non dico semplicemente negli attuali popoli inciviliti che la
sopravvivenza, dovuta a una cieca tradizione, di una vecchia idea non più adattata al nuovo ambiente
intellettuale; una superstizione nel senso dell'etimologia che alcuni, al punto
di vista dei concetti moderni, assegnano a questo termine ciò che persiste
delle antiche eià'^ in una parola, una
specie di organo rudimentario neir organismo sociale. Ma noi non possiamo
considerare la dottrina animista, nei popoli inciviliti, ed anche nei popoli
barbari, come un semplice organo
rudimentario: l'energia vitale di questa dottrina, la sua influenza, dimostrano
che la sua forza deriva da un'impulsione attuale, e non da un'impulsione già
una volta ricevuta, e il cui effetto per Principii di socioì*. I »-^siste per
un'inesplicabile inerzia dello spirito umano. Forse si dirà che nei popoli
pervenuti a una eerta maturità, o piuttosto che hanno sorpassato il cerchio d'idee della prima infanzia, la
base delFanimismo non è più nelPintelligenza, ma nel sentimento soltanto: ma
allora sarebbe stato più coerente di assegnare lo stesso fondamento anche
all'animismo primitivo. Spencer e gli altri pensatori che studiano le idee di
quest'ordine al punto di vista antropologico^hanno ragione, io credo, di
considerare l'animismo come una vera teoria
filosoflctty cioè come un'ipotesi destinata sovratutto a rendere conto
dei fenomeni: quantunque 1' uomo sia certamente portato a realizzare le sue
speranze e i suoi timori, questa tendenza del nostro spirito non basterebbe per
sé sola a spiegare l'origine delle credenze umane, la speranza e il timore
stessi supponendo che l'intelligenza ha qualche motivo per ammettere
1'esistenza o la verisimiglianza di ciò
che si spera o si teme. Ma se si ammette che l'idea delFaninia è un concetto
filosofico allo stesso titolo che l'altro elemento della teoria animista, cioè
la concezione antropomorfistica della
natura, non si può considerare l'animismo dei popoli pervenuti a un
certo grado di cultura come una semplice superstizione; e allora si deve
ammettere che i motivi e il fondamento
dell'animismo primitivo non possono essere essenzialmente differenti da quelli
dello spiritualismo moderno, e che l'idea dell'anima è, sin dalle prime origini
della civiltà, il prodotto di una tendenza naturale ed essenziale dello spirito
umano come abbiamo visto che l'autropomorfìsma del filosofo selvaggio è il
prodotto di quella stessa tendenza, naturale ed essenziale al nostro spirito, che spinge il filosofo
incivilito alla più parte delle sue concezioni metafisiche. Se noi cerchiamo i
motivi della filosofia spiritualista, quali essi possono desumersi dallo studio
storico della quistione, noi possiamo, con Lotze, riassumerli insomma nei tre
seguenti: La sensazione, il pensiero, il desiderio, in una parola i fatti della
coscienza, sono dei fenomeni essenzialmente differenti dai fenomeni della
materia dal movimento e dagli aitai cangiamenti di cui i corpi inanimati sono
suscettibili. Per rendere conto dunque dell'apparizione di questi fenomeni e
della loro scomparsa dopo la morte, è necessario di ammettere l'intervento e la
separazione d'un principio distinto dalle sostanze che costituiscono il corpo,
e la cui natura possa spiegare la natura speciale di questi fenomeni. Osserviamo che
quest'argomento non è semplicemente impiegato dagli spiritualisti moilerni per
cui 1'anima è dna sostanza spirituale nel senso stretto della parola: noi lo
incontriamo pure presso gli animisti antichi che, come vedremo, riguardavano
l'anima come qualche cosa di semi-materiale. Così CICERONE dice: Non è
possibile di trovare sulla terra un'origine
per l'anima: essa non può essere formata da alcuno degli elementi che
noi conosciamo, perchè in questi non si trova il pensiero. E i filosofi
ortodossi indiani rrìtic. di pnic»
fUiol, e. 1. Ta,sviilane.
opponeyano ai materialisti che il sentimento e il pensiero non appartengono ai
corpi, agli elementi materiali. La materia inanimata è inerte, passiva: nel suo
movimento obbedisce alle leggi del
meccanismo, ed è necessariamente determinata da oause esteriori. Ma gli esseri
animati hanno in se stessi il principio del movimento: essi possiedono
un'attività spontanea, possono da se stessi dar cominciamento a una nuova serie
di cangiamenti nel mondo materiale, di cui essi sono la causa prima. Questa
facoltà prova, della stessa maniera che
la facoltà precedente, la presenza,
negli esseri animati, d'un principio distinto dagli elementi della
materia. Quest'argomento della necessità di un principio attivo che si
sovraggiunga alla materia inerte, sembra a Leibnitz praferibiie, per provare
l'esistenza dell'anima come principio distinto dalla materia, all'argomento
antecedente, cioè alla differenza del pensiero e della sensazione dai fenomeni
materiali. Qui è applicabile la stessa osservazione del numero precedente.
Questo motivo conviene tanto allo spirìtualiswo moderno quando al
semi-materialismo degli antichi a Colebrooke Sayuio sulla flloi, deuV IndUini traci, fran. In Lotze
rargomento e condotto in modo da sui)i>orre il Ubero arbitrio. Io ho creduto
più conforme ai dati storici di presentarlo sotto una forma più generile, cioè
come implicante semplicemente l'attività
spontanea HEAD SCRATCHING, la libertà fisica REBEL WITHOUT A CAUSE FREE FALL,
la quale esisto necessariamente se e quando esiste la cos'idetta libertà morale
il libero arbitrio, mentre al contrario l'esistenza della prima non suppone
necessariamente l'esistenza della seconda. Opera ed. Dutens
Responsiones nil Stahlianas observatioties, ecc. U J nimisti. L uomo, a tutti i gradi del suo sviluppo
intellettuale, ha sempre distinto l'animato dall'inanimato per la sua attività
spontanea, e l'animista ha sempre trovato nella natura dell'anima la causa di
quest'attività. Si sa che Platone, il gran sistematizzatore della filosofìa
animista, dà come essenza o definizione dell'anima ciò che muove se stesso, e
stabilisce che 1'anima è il principio del movimento nel mondo dei corpi, ciò
che prova che essa è indipendente da questi, ed è loro non posteriore, come
pretendono i materialisti, ma anteriore. Con ciò Platone non fa che compiere
uno sviluppo naturale del concetto dell'anima nella filosofìa: Aristotile
osserva infatti che uno dei caratteri per cui i filosofi in generale aveano
distinto l'anima era di concepirla come causa di movimento nel corpo per il suo proprio
movimento. L'unità della coscienza non permette di rapportare Tattività
intellettuale a un aggregato di elementi uniti fra loro: il soggetto delle
sensazioni e dei pensieri che co-^tituiscono una coscienza, unica deve osseine
semplice, indivisibile, e quindi immateriale. Se questo soggetto fosse la
materia, questa ha delle parti, e perciò le sensazioni e i pensieri dovrebbero dividersi tra le sue
parti: ma da ciò non potrebbe risultarne l'unità della coscienza. Naturalmente
io non pretendo che questa sia una enumerazione completa degli argomenti dei
filosofi Fedro, Let/f/i X.
Arist. De An,. spiritualisti; ma sono questi quelli che sono stati
impiegati più frcquentamente e che sembrano avere più forza probante. Tuttavia,
queste tre prove della filosofia .9^/ritualista non potrebbero
essere riguardate tutte egualmente come motivi A^ÌVannnisìuo. Distinguiamo tra
animismo e spiritualismo: il primo è un genere, di cui il secondo è una specie.
Tylor ha soddisfatto a un'esigenza indispensabile della lingua filosofica,
servendosi del primo di questi due termijii per indicare la riconoscenza, in
tutte le razze umane, dell'anima come
sostanza distinta, uso a cui il secondo termine non sarebbe stato proprio,
perchè legato al concetto dell'assoluta immaterialità di questa sostanza.
L'anima non è una sostanza spirituale nel senso moderno della parola, cioè
assolutamente immateriale, che nella fase più recente deUa teoria animista: è
bisognato che l'intelligenza umana si fosse lungamente esercitata
all'astrazione filosofica, e
familiarizzata con le idee astruse del sovrasensibile, prima di ammettere un
concetto a cui non corrisponde niente di sensibile né d'immaginabile. Così la
dottrina della dualità anima e corpo non è all'origine, come dice Baia, che un
doppio materialismo: la sostanza spirituale è opposta alla sostanza corporale,
non perchè la seconda è materiale e la prima no, ma perchè la seconda è
costituita di una materia più grossolana, e la prima di una materia più
sottile. Le razze inferiori, come ancora fra di noi gli uomini privi di
coltura, concepiscono per il solito l'anima come qualche cosa di vaporoso o di
etereo avente la forma umana, ordinariamente impalpabile e invisibile, ma che
può manifestarsi ai sensi in certe
occasioni, p. e. nel sogno e nella visione. A questo concetto è talvolta
illogicamente associato quello di una materialità più grossolana, come lo
indica, p. e., il costume molto diffuso di spargere della cenere o della farina
per potervi osservare le impronte NEL CASTELLO SANTANGELO lasciate dai passi
degli spiriti: quest'uso esiste anche presso gli Ebrei,
e può tuttora incontrarsi nell'Europa incivilita. L'esistenza che
l'anima conduce nell'altra vita non è
che una copia dell'esistenza attuale: essa può mangiare, bere, PARLARE, camminare,
e darsi alle occupazioni solite nella Aita corporale. Questo stosso doppio
materialismo, che caratterizza l'animismo popolare, è ammesso pure generalmente
dai filosofi. Senza dubbio noi troviamo una tendenza crescente a distinguere lo
spirito dalla materia tendenza la quale deve finalmente arrivare al concetto
delF immaterialità assoluta. Aristotile osserva che uno dei caratteri per cui i
suoi antecessori hanno definito l'anima è Tincorporeità cioè la composizione
dalla materia più sottile. Fra gli elementi materiali è l'aria o il fuoco
questi due elemonti non sono nettamente distinti presso i primi fisici che i filosofi, i quali
ammettono quasi Lo spirito e il corpo e. Tylor
La civili -.zuz.primif, e. <2)
De nn. i
f^ tutti la distinzione deir
anima e del corpo, riguardano preferibilmente come sostanza deiranima. Nel
mondo antico, queste non erano delle concezioni materialiste: gli stoici, che
nella filosofia antica rappresentano evidentemente la tendenza
anti-materialista, considerano 1'anima
come del fuoco o come uno spirito 7uv£0tj.a caldo, ciò che è l'essenza
dell'elemento divino che penetra e governa tutto l'universo. Similmente CICERONE
DA ALL’ANIMA GL’ATTRIBUTI DI DVINA, IMMORTALE, ED ANCHE SEMPLICE; MA CIO NON
ESCLUDE LA SUA MATERIALITA: l'anima si eleva in alto sino agli astri per la sua
purezza e leggerezza; noi non conosciamo
la sua forma, la sua grandezza, la sua sede; noi non sappiamo se possa cadere
sotto i sensi o vi sfugga por la sua sottigliezza; egli non sa comprendere cosa
possa essere un Dio assolutamente incorporale. Quegli stessi filosofi, che
stabiliscono la più recisa opposizione tra lo spirito e il mondo dei corpi, non
hanno ancora la nozione di una sostanza
spirituale, cioè inestesa: secondo Anassagora il nous è la più sottile
di tutte le sostanze, e si fraziona nei diversi esseri animati, nei quali si
trova in maggiore o minor quantità; secondo Platone, l'anima è invisibile,
almeno per noi, ma ha una grandezza, e si muove
ontinuali) Cicero. Tnscul,
Pluf. Flac. ecc. TuHcuì,
Nai. Deor, Muli.
Muli. Ft\ ; Arist.
De An. Leyyi . Fedone
mente, comunicando ai corpi il
proprio movimento, come potrebbe farlo, un corpo ad altri corpi. In verità
potrebbe credersi che il concetto della spiritualità si trovi già in Aristotile,
perchè il nous separato è per lui indivisibile, senza grandezza, senza materia:
ma per poter attribuire ad Aristotile la nozione della sostanza spirituale, nel
senso moderno, bisognerebbe che questo filosofo avesse ammesso nel nous, al di
là del pensiero, un quid come substratum del pensiero, ciò che non è, il nous
non essendo che una semplice attività intellettuale, un'intelligenza identica
all'intelligibile, in cui ciò che pensa e ciò che è pensato non è che il
pensiero stesso. Noi possiamo dunque affermare che nel periodo veramente
classico della filosofìa, la nozione di sostanza spirituale resta ancora sconosciuta. Il doppio materialismo è
pure la dottrina dominante presso i primi padri della chiesa, quantunque presso
i filosofi, notevolmente i neoplutonici, si fosse già iniziata la dottrina
della immaterialità. I primi padri della Chiesa avevano due motivi per
ammettere che l'anima è materiale: primo, ciò che non è materiale non è una
sostanza, e secondo, se lo spirito non fosse
corporale, esso non potrebbe essere affettato dalle ricompense e
sovratutto dalle punizioni dell'altra vita. Se l'anima non Plato
Le(ji]i X.., Timeo, Aristotile De an., ecc. Phy8..; Met,, ecc.
De An. De an.
Mefaf. ecc. è un
corpo, chi è, domanda Tertulliano, quest'essere che discende agl'inferni dopo
la morte, e vi resta sino al giorno del
giudizio? L'anima? ma ciò è impossibile se
l'anima è niente: ora ciò che non è un corpo non è che niente.
D'altronde un essere incorporale non potrebbe soffrire prigionia, e sarebbe immune
da pena: se l'anima è capace di sentire il tormento e il piacere, in mezzo al
fuoco dell'inferno o nel seno di Abramo, ciò dimostra la sua corporalità,
poiché una cosa incorporale sarebbe necessariamente impassibile. Non vi ha
niente, dice S. Ilario, che non sia
corporale nella sua sostanza; e Arnobio domanda chi sarà tanto imbecille e
illogico per ammettere che delle animo inestese o per loro natura
incorruttibili possano essere toccate dalle fiamme e sottomesse agli altri
tormenti dello inferno. L'anima, dice L*eneo, ha degli occhi, UNA LINGUA, delle
dita, ed è di una forma simile in tutto a quella del corpo, ma non è un corpo. L'ultima proposizione non include la
sua assoluta incorporalità; essa è incorporale comparativamente ai corpi
grossolani dei mortali. Taziano ammette, come IL PORTICO, che lo spirito umano,
non che quello degli animali, delle piante, degli astri, ecc., è una parte
dello spirito divino, diffuso da per tutto nelle natura. Cosi lo spirito è
secondo lui divisibile: Tortull. Lib, de Anima
e. Ilar su S. Matt. Adv. Geiit,,. Iren..
L. V.. cLXxm d'altronde se
l'anima non avesse delle parti e non fosse divisibile, essa non potrebbe essere
diffusa per il corpo, Alcuni padri ammettevano la materia-lità tanto di Dio
quanto dell'anima, altri, come Ambrogio, non accordavano l'immaterialità che
alla sostanza divina. La dottrina dell'immaterialità dell'onima non oomineiò a
prevalere per opera sovratutto di alcuni
padri platonizzanti, fra i quali bisogna assegnare il primo posto a Agostino.
Questa rapida escursione nel dominio della steria ci mostra che un argomento
che conclude alla semplicità o spiritualità dell'anima non potrebbe essere uno
dei fondamenti (\e{V animismo^ considerato come la lilosofla generale e
spontanea del genere umano: di più, siccome il
concetto della spiritualità è, come mostreremo, il risultato naturale
dell'evolulusione della teoria animista, potenzialmente implicato nei
pré^supposti stessi dell'animismo primitivo, noi non potremmo vedere nemmeno in
un tale argomento il motivo reale della filosofia spiritualista. Così delle tre
prove indicate come motivi della dottrina della sostanzialità dello spirito,
noi non possiamo riguardare come veri fondamenti della dottrina che le prime
due soltanto, ed escludere la terza, quella che conclude dall'unità della
coscienza alla semplicità e indivisibilità del soggetto pen Oi'it. Ade, Ci'.
Atnbr. da A'n\i.'f
i u sante. Ora è evidente che le due prove non
sono che due casi particolari d'un'argomento più generale, nel quale perciò
dobbiamo riconoscere la vera base
dell'animismo, e che potrebbe formularsi così: Certi corpi che si
chiamano animati, ai fenomeni generali della materia aggiungono altri fenomeni
d'una natura affatto speciale, e sono perciò nettamente opposti ad altri corpi,
che, per l'assenza di questi fenomeni speciali, si chiamano inanimati; ora
siccome i corpi animati si formano dagl'inanimati, e ritornano dopo un certo
tempo allo stato inanimato, non essendo
cosi che per un tempo limitato Quest'argomento ò fondato suUa falsa
assimilazione delle diverse parti dell'organismo SENZIENTE a dei soggetti SENZIENTI
distinti e separati. Se una sostanza che pensa, dice Bayle, non fosso una che
come un globo é uno, essa non vedrebbe mai un albero intero, non sentiiobbe mai
il dolore eccitato da un colpo di bastone HIT BY A CRICKET BAT. Ecco un mezzo
onde convincersi di ciò. Considerate la figura delle quattro parti del mondo sa
di un globo; voi non vedrete in questo
globo cosa alcuna che contenga tutta l'Asia o anche un fiume intero, il
luocro che rappresenta il regno di Siam, e voi distinguete un lato drirto 0 un
lato sinistro nel luogo che rappresenta l'Eufrate. Nasce da ciò che, se
questo globo fosse capace di conoscere
le figure di cui è stato adornato, non conterrebbe cosa alcuna la quale potesse
dire: io conosco tutta VEuropa, tutta la Francia, tutta la città di Amsterdam
CORSICA, tutta la Vistola: ciascuna parto del globp potrebbe solamente
conoscere la parte della figura che le sarebbe caduta in sorte; e come questa
parte sarebbe si piccola che non rappresenterebbe luogo alcuno
per intero, sarebbe assolutamente inutile che il globo fosse capace di
conoscere; da questa capacità non risulterebbe alcur. atto di conoscenza, o per
lo meno sarebbero atti di conoscenza molto diversi da quelli che noi
sperimentiamo, poiché i nostri rappresentano un albero intero, un intero
cavaUo. Prova evidente che U soggetto colpito da tutta l'immagine di questi
oggetti non è divisibile in molte parti; e perciò che Tuomo, in quanto pensa^
non è corporeo o materiale o composto di molti esseri. Se egli fosse tale,
sarebbe niente sensibile ai colpi del bastone CRICKET BAT, poiché il dolore H:
\i fi la sede di questi fenomeni che caratterizzano lo stato animato, se ne
deve concludere che, durante questo tempo limitato, al corpo, alla materia
visibile e tangibile, è associata
un'altra sostanza, invisibile e intangibile, che è l'agente e il soggetto reale
di questi fenomeni. Le due prove particolari applicano l'argomento generale
all'uno e all'altro dei due caratteri più salienti, che distinguono l'animato
dall'inanimato, cioè la coscienza e l'attività spontanea HEAD SCRATCHING: l'una
e l'altra prendono per punto di partenza la differenza essenziale di questi due ordini di fenomeni,
caratteristici dello stato animato, dai
fenomeni 8Ì dividerebbe in tante particelle quante ve ne sono negli
organi colpiti. Ora questi organi contengono un'infinità di particelle, e cosi
la porzione del dolore che converrebbe a ciascuna parte, sarebbe si piccola che
non si sentirobbo affatto. Diz, art. Leucippo. E GALLUPPI, dopo aver citato Baj-lo, aggiunge:
La coscienza dell'unità sintetica della percezione comprende dunque la
percezione dell'unità o della semplicità del me DI GRICE che sintetizza.
Meditando sul paragone che noi facciamo degli oggetti che agiscono su dei
nostri sensi, sui giudizi ai (inali danno luogo le loro impressioni, il
sentimento dell'unità semplice, indivisibile, immateriale dell'essere pensante
risuUcrà'luminosamonte. Quando voi vi riscaldate la mano, è sicuro che provate
una sorte di piacere: se nel tempo medesimo venga avvicinato al vostro naso un
odor piacevole, sentirete uu'altraspecie di piacere. Se io vi domando quale di
questi due piaceri maggiormente vi piaccia, voi mi risponderete quello o questo:
voi dunque paragonate insieme questi due piaceri e giudicate di essi nel tempo
medesimo. Se dopo esservi riscaldato e di avere odorato, io vi faccia gustare
una vivanda, voi potrete certamente dire quale di questi due piaceri sia il
maggiore; bisogna dunque che ciò che in voi giudica abbia sentito tutto ciò.
Questo stesso io DI GRICE che giudica, conosce se un piacere dei sensi sia
maggiore del piacere della scoverta di
una verità, o di quello che reca l'esercizio della virtù, e sceglie fra queste
due cose; il medesimo soggetto, dunque, il quale prova i piaceri sensibili,
prova altresì gli spirituali, e giudica e vuole: è questa una prova che la
coscienza del me DI GRICE, che si sente af dello stato inanimato, e
(lall'identità della materia, che passa alternativamente dall'uno alFaltro di
questi due stati, concludono, 1'una che ciò che fa che Tessere animato senta e
pensi o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto della sensazione e del
pensiero, l'altra che ciò che fa che Tessere animato sia dotato di attività
spontanea o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto di quest'attività
spontanea non è il corpo, mi un quid distinto dal corpo e con questo
temporareamente associato. Ma in che consiste il legame fra tale conclusione e
i dati su cui essa è fondata? come si giustifica il passaggio da fetto da tutte
queste sensazioni, e che opera in seguito, non ò mica la coscienza del vostro
naso che sente gli odori, uè della vostra mano che sente il calore; poiché come
la mano o il naso sono due cose assolutamente distinte, egli è tanto possiìiile che V una senta ciò che sente
l'altro, quanto è possibile che noi sentiamo in questa camera il piacere che
ora sentono quelli i quali sono al teatro; bisogna dunciuo che la coscienza che
avete del me DI GRICE il quale sente l'odoro ed il caloie nello stesso tempo,
non solo non sia la percezione del naso e della mano; ma bisogna altresì che
sia la percezione di un soggetto unico, semplice e privo di parti; perchè se
avesse i)arti, runa sentirebbe l'odore, mentre l'altra sentirebbe il calore, e
non vi sarebbe giammai il sentimento di una cosa, la quale sentisse in sieme GRICE
MOLYNEUX 1'odore ed il calore, li paragonasse, e giudicasse che l'uno è più
piacevole dell'altro Eleni, di ftlos,.Tutta la forza dell'argomento svanisce,
se noi togliamo la supposizione che la mano il naso o, secondo la fisiologia,
le diverse parti del cervello in cui
sarebbe la sede dei fenomeni fisici che sono i supposti antecedenti della
sensazione e del pensiero sono, secondo il materialista, dei soggetti SENZIENTI
e pensanti distinti, come noi che Miamo in queata camera e le jìersone che «mio
al teatro. Ma chi nega la sostanzialità dello spirito non è perciò obbligato a
concepire le diverse cellule o molecole del cervello corra altrettante persone distinte. Ciò che
sente o pensa non è la mano o il naso – ALTHOUGH HE THINKS WITH HIS DICK --, né (juesta o quella porzione della corterrcia
cerebrale, ma GRICE 1'uomo, all'occasione di un contatto della mano o del naso,
o, supponiamolo, d'un movimento molecolare in questi a quella? Se noi
rivolgessimo queste domande ad alcuno dei filosofi spiritualisti che fanno quest'inferenza, egli
risponderebbe forse che il legame fra i dati da cui s'inferisce la differenza
essenziale dei fenomeni dello stato animato da quelli dello stato inanimato, e
la identità del sustrato materiale che è ora nelT uno ora nell'altro di questi
stati, e la conclusione che se ne inferisce, è evidente per se stesso, e non ha
bisogno di una giustificazione ulteriore. Ma noi che sappiamo, che la evidenza
intrinseca non può essere il fondamento ultimo di una connessione tra le nostre
idee, e che qualche parte del cervello. Supponiamo queste parti isolate, fuori
del concerto organico, non vi sarebbe più né sensazione né pensiero. Non
bisogna, per altro, prestare gratuitamente al materialista l'assurda
immaginazione che il fatto della coscienza abbfa una località,.nel senso
stretto della parola, come p. e. il movimento o la figura e in una parola ciò
che può essere oggetto della percezione visuale. Bayle, nella sua finzione del
globo che prende conoscenza delle figure su di esso dipinte, suppone tra le
percezioni e le differenti parti del globo lo stesso rapporto che tra queste e
le figure: cosi «gli immagina la coscienza divisa in frammenti e sparsa nelle
diverse parti della materia, e anche divisibile, come la materia, all'infinito.
Quando si dice che 1'uomo – AND NOT THE ANIMALS WHO CAN’T SIGNIFY! GRICE --, quale oggetto della percezione esteriore, è
il soggetto della coscienza, si vuol dire semplicemente che tra i fenomeni
materiali, cioè esistenti in un luogo, i quali hanno la loro sedo nel corpo
dell'uomo, e i fenomeni spirituali, cioè non esistenti in alcun luogo, i quali
costituiscono la coscienza o il me DI GRICE mentale dell'uomo E NON
DELL’ANIMALE CHE NON PUO SIGNIFICARE --, vi ha una corrispondenza secondo
rapporti definiti di simultaneità o di successione. E quando si dice che le
porzioni differenti di questa coscienza o di questo me DI GRICE mentale il
quale non è, è vero, che una serie di
stati di coscienza, ma una serie che bisogna concepire, non come un aggregato
di elementi separati ed aventi ciascuno un'esistenza indipendente, ma come un
tutto uno « continuo, in cui non si distinguono delle porzioni separate che per
una sorta di astrazione corrispondono a dei fenomeni fisici esistenti in
porzioni differenti del me della percezione esteriore, tutte le connessioni
mentali quelle almeno che hanno per oggetto l'esistente derivano, in ultima
analisi, dall'esperienza, dobbiamo cercare se vi sia^un principio generale,
fondato sull'esperienza, che il ragionamento sottintende IMPLICATURA, e che è
un altro antecedente logico indispensabile per giustificare il pasdagli
antecedenti enunciati della conclusione alla conclusione stessa. Questo
principio generale supposto, questo altro antecedente logico che noi cerchiamo,
non è che il principio stesso su cui sono fondati tutti gli altri concetti
metafìsici che noi abbiamo percorsi in quest'Appendice, vale a dire il cioè del
corpo, non si stabilisce ha i due ordini di fenomeni che un semplice rapporto
esteriore, non si rompe 1'unità e continuità del me DI GRICE mentale,
spargendone i frammenti tra le diverse parti del me DI GRICE fisico. Il me DI
GRICE mentale può essere concepito come una semplice serie di stati di
coscienza? È un'altra quistione, a cui più giù avremo occasione di toccare.
L'argomento che dall'unità empirica della coscienza conclude all'unità assoluta
del substratum della coscienza, è talmente diffuso tra i filosofi
spiritualisti, e questa scuola gli dà tanto peso, che noi non possiamo vedere
in esso un semplice sofisma artificiale, ma dobbiamo vedervi l'espressiona di
un sofisma a priori o ìiaturale, I sofismi di questa natura, che stabiliscono
come intrinsecamente evidente l'impossibilità di una connessione obbiettiva,
suppongono una inconcepibilità relativa, una difficoltà subbiettiva a formare
la connessione ideale corrispondente, e questa difficoltà non può essere che un
risultato dell'esperienza. Ma, in questo caso, sembra diffìcile di spiegare in
che consista e donde abbia origine l'inconcepibilità, poiché non vi ha un
concetto più abituale e fondato su esperienze più familiari che quello che la
coscienza ha la sua sede in un substratum, la cui unità non esclude la
moltiplicità, e che le diverse senzazioni sono localizzate nelle parti
differenti di questo substratum la mano, il piede, l’area di Brocca l’emisfero
musicale ecc. Noi abbiamo però la conoscenza di un fenomeno psicologico che può
venirci in aiuto; noi sappiamo cioè che i fatti più familiari diventano
incomprensibili BIZARRE, NOT BANALE dopo
che la scienza THE DEVIL OF SCIENTISM ha mutato il modo prescientifìco di
cojicepire questi fatti. L'in principio secondo cui le cose non possono
cangiare di natura, e una stessa sostanza non potrebbe, in tempi differenti,
avere delle proprietà essenzialmente differenti. Ammesso questo principio, se
si riconosce d'altra parte che vi ha una differenza essenziale tra le proprietà
dell'essere animato e quelle della materia inanimata da cui esso procede e a
cui esso ritorna, non se ne deve concludere che le proprietà differenziali
dell'essere animato, il sentimento, il pensiero, l'attività spontanea
SCRATCHING MY HEAD, ecc. suppongano la cooperazione col corpo di un'altra
sostanza distinta dal corpo e con esso temporaneamente congiunta? non se ne
deve concludere inoltre che quest'altra sostanzar è il soggetto reale, il
vero possessore GRICE STRAWSON
NON-POSSESSION, del sentimento, del pensiero e delle altre proprietà distintive
del concepibilità o piuttosto l'incomprensibilità, su cui è fondato Par»gomento
degli spiritualisti, potrebbe derivare da questo, che la teoria corpuscolare ha
sostituito al concetto naturale di un corpo unoe continuo, quale sede della
coscienza, quello di una moltiplicità di corpuscoli separati e, nella forma più ordinaria della
teoria, non solo senza continuità, ma anche senza contiguità o, neU 'atomismo
metafisico, di una moltiplicità di
monadi. Allora, l'idea dell'unità della coscienza essendo per noi strettamente
associata a quella dell'unità del corpo, una coscienza unica che sia la
proprietà di un aggregato di corpuscoli ci sembra cosi incomprensibile CONDUTTA
MOLARE come se questa coscienza unica si attribuisse ad un gregge o ad un
esenùto THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL. Io credo che sia questa la difficoltà
che costituisce la forza probante del sofismti, quantunque, nell'espressione
dell'argomento, questo punto possa talvolta esser perduto di vista, e, per dare
all'argomento una portata generale, non si distingua tra una materia continua, e una materia, quale si
ammette effettivamente, costituita di corpuscoli separati. Si ricordi l'idea di
Diderot che, per evitare la difficoltà dell'unità della coscienza, al punto di
vista dell'ilozoismo ZOISMO DI GRICE, crede necessario di ammettere la
continuità materiale e non la costituzione molecolare dell'organismo. l'essere
animato, in modo che, come è essa che le ha apportato nel corpo, cosi è ad essa
che spettano dopo avvenuta la separazione dal corpo, quando questo è ricaduto
neirincoscienza e nell'inerzia della materia inanimata? Non bisogna però
dimenticare che l'inferenza del filosofo animista non è ordinariamente, come le
altre inferenze su cui sono fondati i coiicetti della metafisica, che
un'inferenza incosciente. Il principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che la conclusione
suppone, non determina questa come un principio coscientemente invocato e
riconosciuto; l'inferenza, espressa sotto la forma logica del ragionamento
cosciente, avrebbe bisogno di questo principio; ma invece di esso è la massa
delle nostre esperienze passate di cui esso è la generalizzazione, che agisce
d'una maniera cieca e puramente
organica, e la conclusione che esse determinano è o può essere la sola
cosa di cui si abbia coscienza. Noi comprendiamo così come il filosofo animista
può non ammettere in tutti i casi il principio generale che^praticamente, egli
ammette nel caso speciale; e comprendiamo pure come, per giustificare la
conclusione, siano spesso impiegati dei ragionamenti capziosi e puramente
artificiali^ invece del ragionamento
naturale di cui essa è il risultato. Una conferma della spiegazione data
dell'origine dell'animismo la troviamo nel fatto che le altre soluzioni dello
stesso problema, che lo spirito umano incontra naturalmente quando respinge la
soluzione animista, sono fondate sullo stesso principio su cui questa, secondo
noi, è fondata. L'ilozoi•;i V smo e la dottrina dell'identità del fisico e del mentale le soluzioni
differenti dell'animismo del problema dell'origine della coscienza riconoscono
anch'esse con 1'animismo, il principio che l'essenza delle cose non può
cangiare; ed essi non evitano la conclusione animista che negando il dato di
fatto che ne è la premessa, cioè la differenza essenziale, assoluta, tra il
cosciente e l' incosciente. Lo stesso fatto si osserva, passando dalla quistione della coscienza a
quella dei caratteri puramenti fisici che distinguono i corpi animati: quando,
per la spiegazione di questi caratteri, non si accetta il concetto dell'anima o
altri concetti analoghi, si ammette invece la teoria meccanica, o più
generalmente fisico-chimica, della vita FISIOLOGIA ZOISMO che nega la
differenza essenziale tra i fenomeni della materia animata e vivente e quelli
della materia bruta, salvando cosi il principio eh'esso ha in comune con le
dottrine rivali, dell'impossibilità di un cangiamento neiressenza delle cose.
Quest'osservazione ci conduce a una considerazione generale sui concetti
diversi, e apparentemente opposti, che lo spirito umano si forma delle forze e
della loro relazione con la materia, e sull'influenza che il principio dell'invariabilità essenziale del
reale ha su questi concetti. Sarebbe una ripetizione inutile, se insistessimo
sull'analogia, da una parte, tra la teoria animista e la teoria vitalista la
quale, sia detto per incidente, si presenta pure, come la prima, sotto le due
forme distinte della materialità fluido vitale e concetti simili e
dell'immaterialità forila vitale propriamente detta GRICE SURVIVAL OPERANCY e
dall'altra parte, tra le dottrine materialiste opposte all'animismo e al
vitalismo FREE FALL, il carattere comune delle quali è l'identificazione dei
fenomeni caratteristici dell'animato e del vivente a quelli dell'inanimato e
del non vivente. Ciò che ora dobbiamo notare è che, anche nei limiti del
dominio della semplice materia bruta, noi troviamo, insieme all'antao:onismo di
una concezione materialista che unisce inseparabilmente la forza alla materia,
e una concezione dualista che fa della materia e della forza due entità
distinte e separabili, l'accordo, tra le due concezioni antagoniste, sopra un
principio comune, che è lo stesso nel quale convengono le soluzioni opposte dei
problemi della coscienza e della vita, cioè l'invariabilità dell'essenza delle
cose. Quando la materia presenta dei fenomeni nuovi che prima non presentava,
quando viene riscaldata, illuminata, elettrizzata, ecc., e cessa poi FLOSTIGON di
presentare questi fenomeni, è una vera concezione dualista, analoga a quella CAteGORY
MISTAKE dell'anima o della forza vitale BEHAVIOURISM DI RYLE, di spiegare il
fatto, ammettendo, come già facevano i
fisici, dei fluidi imponderabili speciali, la cui presenza o assenza è la causa
della presenza o assenza nella materia delle proprietà corrispondenti. Si
suppone che il calorico o l'elettrico entrassero nei corpi, producendovi lo
stato particolare <»he si chiama con lo stesso nome di calore o di
elettricità, e poi ne uscissero, alla cessazione dei fenomeni corrispondenti
quantunque in verità si fosse costretti
ad ammettere che i fluidi potessero trovarsi nei corpi d'una maniera occulta o
dissimulata, cioè senza manifestarvisi con dei fenomeni sensibili, come il
calore che si dice latente, o l'uno dei due fluidi elettrici che si suppone
neutralizzato dal fluido di natura contraria, come lo spirito o la forza vitale
sono supposti entrare in altri corpi per produrvi la coscienza e la vita, e poi separarsene, alla cessazione di
questi stati particolari. Dal principio che una sostanza non può cangiare di
natura e di proprietà, si conclude nell'un caso, come si conclude neir altro,
che il cangiamento del corpo era dovuto alla presenza e all'assenza di un'altra
sostanza distinta dal corpo stesso, la sostanza supposta ritenendosi anch'essa
come invariabile nella sua essenza, donde
la necessità di distinguere una pluralità di fluidi, ciascuno non
potendo produrre che un ordine di fenomeni, senza di che si sarebbe rinunziato
al principio dell'invariabilità dell'essenza. Questo dualismo in fisica sembra
definitivamente abbandonato, almeno sotto la forma semimaterialista, perchè
sotto la forma, per dir cosi, spiritualista ALLA WOLLSTONECRAFT che sostituisce
delle forze immateriali ai fluidi imponderabili, esso ha ancora dei
rappresentanti fra i fisici, come Hirn, che partendo dalla diversità dei
fenomeni per concludere alla diversità delle cause, riconosce nel mondo fisico
l'esistenza di tre elementi almeno, specificamente distinti dalla materia,
capaci di manifestarsi come potenze dinamiche questi elementi sono, oltre alla
forza gravifica, che non ha rapporto
alla presente quistione, la forza elettrica DELL’ANGUILLA e la forza calorica
di HARRY POTTER. Ora la fisica non ha potuto abbandonare questa concezione
dualista del rapporto tra la forza e la materia, prima di identificare le varie
categorie di fenomeni, già attribuite ciascuna a ciascuno di questi agenti
distinti, che erano supposti per rendere conto dell'apparizione, a un certo momento, di fenomeni nuovi, prima
non esistenti, nella materia FLOGISTON, e dei quali perciò non potè farsi a
meno se non quando comincia ad ammettersi che i fenomeni non sono
essenzialmente nuovi, cioè che la materia, cominciando a manifestarli e poi
cessando dal manifestarli, non cangia perciò di proprietà secondo la
spiegazione meccanica GRICE MECHANISM di questi fenomeni, che riducendoli tutti
al movimento che i corpi si trasmettono secondo le leggi dell'urto, non vede
nella materia che la proprietà, sempre invariabilmente la stessa, di
appropriarsi il moA^imento ricevuto per
impulsione e di trasmetterlo per lo stesso
mezzo. Così è salvo^ nella teoria, il principio dell'invariabilità
dell'essenza delle cose, che già avea condotto all'ipotesi degli imponderabili
come agenti specificatamente distinti; e noi vediamo anche qui, come nella
quistione della vita e in quella della coscienza, da una parte una concezione
materialista cioè che non fa la forza separabile dalla materia, fondata sulla
identificazione dei fenomeni differenti che la materia in condizioni differenti
manifesta; dall'altra parte una concezione dualista per cui la forza è
separabile dalla materia --ROBERTI TORRICELLI,
che suppone degli agenti speciali per ispiegare la presenza e assenza
alternativa di speciali fenomeni nella materia; e l'una e l'altra delle due
concezioni opposte fondata sul principio comune che l'essenza delle cose è
invariabile. Ciò che può servire a mostrare quanto vi sia di vero neir
osservazione di Bacone, che le opinioni
più opposte io non dirò, com'egli effettivamente dice, le illusioni più
opposte derivano il più spesso da una sorgente comune. D'una maniera generale,
l'ipotesi dei'anima è destinata a spiegare il passaggio della materia, sia
dallo stato inanimato allo stato animato, sia dallo stato animato allo stato
inanimato: ma noi non potremmo attenderci dall'intelligenza dell'uomo primitivo
che egli si fosse proposto il problema
della vita sotto una forma rigorosamente generale. Probabilmente il filosofo
selvaggio non si dice che la materia che costituisce l'essere vivente è la
stessa materia che è già esistita allo stato di materia bruta, e che perciò la
trasnaturazione di questa materia, la acquisizione delle nuove proprietà
vitali, necessita riiitervento di un altro principio. Ma ciò di cui egli non
può mancare di essere colpito è il fenomeno della morte, l'opposizione fra il
cadavere e l'uomo già un istante prima ancora vivente. Egli ha visto, dice
Huxley, il guerriero pieno di una feroce energia, il capo dispotico della sua
tribù forse, rovesciato da un colpo inatteso. Un fanciullo può insultare impunemente V uomo
che era, non è già che un istante, sì terribile; una mosca riposa tranquillamente sulle sue labbra da
cui uscivano degli ordini sempre ubbiditi. Pertanto l'aspetto fisico di
quest'uomo sembra pressoché lo stesso che allorquando egli dormiva, e che
dormendo si immaginava esso stesso staccato dal suo corpo ed errare nella terra
dei sogni. Non è che questa qualche cosa che è l'essenza dell'uomo, è stata
costretta in effetto di partire, e d'errare al di fuori per la violenza che le si è fatta
subire, e ci trova ora incapace, ovvero il -' « dimentica, di ritornare nel suo
inviluppo? Non conserva alcuni dei poteri che possedeva durante la vita?
Confrontiamo questo ragionamento, che noi prestiamo, con Huxley, al filosofo
selvaggio, col ragionamento di un filosofo incivilito. L'aspetto di un
cadavere, dice Schopenhauer, mi mostra che là ogni sensibilità, irritabilità, circolazione,
riproduzione, ecc., hanno cessato. Io ne concludo con certezza che il principio,
a me sconosciuto, che mette tutto ciò in attività, cessa di asire: che esso se
ne è dunque separato. La nostra spiegazione dell'origine dell'animismo si
accorda sino ad un certo punto con quella di Tylor, di cui ecco il riassunto
con le parole stesse dell'autore: L'intelligenza umana, ad uno stato di coltura ancora poco
avanzato, sembra sovratutto preoccupata di due categorie di problemi
fisiologici. Cioè: primo ciò che costituisce la differenza tra un corpo Aivente
e un corpo morto, la causa della veglia, del sonno, della catalessia, della
malattia, della morte. Poi, la natura di queste forme umane che appariscono nel
sogno e nelle visioni. Meditando su questi
due ordini di fenomeni gli antichi filosofi selvaggi devono essere stati
portati, al principio, a questa induzione tutta
naturale cli^vi ha ili ciascun uomo una vita e un fantasma. Questi due
elementi sono in istretta connessione col (^orpo. La vita lo rende atto a
sentire, a pensare, ad agire; il fantasma è la sua immagine, un secondo se
stesso. Tutti e due pure sono ì •t
// poslt, e la se. contemp. iu
Rei\ sciente sei-,
// mondo come volontà e come rappresentazione, . nettamente separabili
dal corpo, la vita è suscettibile di ritirarsene, di lasciarlo insensibile o
morto; il fantasma può apparire a persone lontane. TJn secondo passo ci sembra facile per questi selvaggi,
se noi consideriamo l'estrema difficoltà che provano le genti incivilite a
romperla con questa dottrina. Esso consiste semplicemente a combinare la vita e
il fantasma. Tutti e due appartengono al corpo: perchè non apparterrebbero pure
l'uno all'altro? Perchè non sarebbero le manifestazioni d'una sola e stessa
anima? Si considerano come uniti? si ottiene per risultato questa concezione
ben conosciuta, che si potrebbe chiamare la dottrina àéWanima apparmonaie
o ^\V anima-fantasma. Tale, in effetto l'idea che le razze
inferiori si fanno dell'anima personale o spirito. È un'immagine umana,
sottile, immateriale, un vapore in qualche sorta, una nebbia, un'ombra; essa è
la causa della vita e del pensiero nell'individuo che anima, la padrona
indipendente della coscienza e della volontà THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL
del suo possessore corporale, presente o
passato; essa può lasciare il corpo dietro di sé e trasportarsi
rapidamente di luogo in luogo; generalmente impalpabile e invisibile, ma
suscettibile anche di manifestare qualche proprietà fìsica, apparisce agli
uomini, nella veglia HAMLET o nel sonno, come un fantasma separato dal corpo ma
di cui conserva l'apparenza; dopo la morte di questo corpo continua ad esistere
e ad apparire, ed ha la facoltà di
penetrare INCUBO SUCCUBO, di dominare e d'agire nel corpo d'altri uomini,
d'animali, ed anche nel seno d'oggetti inanimati. Senza dubbio, questa maniera
di comprendere l'anima non potrebbe essere universalmente applicata; ma essa è
sufficientemente generale per ben renderci l'idea tipo, che non fa che modificarsi
in ciascun paese con divergenze più o meno
pronunziate. Perchè queste idee DI JUNG, che si ritrovano dappertutto
sulla terra, non sono delle produzioni puramente arbitrctrie e convenzionali COME
IL DEUTERO-ESPERANTO dello spirito umano. Sono delle teorie che derivano
forzatamente dalla testimonianza indubitabile dei sensi, quale la interpreta
una filosofia primitiva realmente conseguente e razionale. D'altronde, l'animismo originale rende conto così bene
dei fatti, ch'esso ha conservato il suo posto nelle sfere più elevate della
coltura. Modificato, rimaneggiato dalla filosofia classica, da quella del medio
evo, trattato con più libertà ancora dalla filosofia moderna, esso ha si
chiaramente conservato le tracce del suo carattere primitivo, che, nello
psicologia attuale del mondo incivilito, le prime età potrebbero riconoscere e reclamare il loro
bene. Come si vede, Tvlor conformemente d'altronde alla maggior parte dei
pensatori contemporanei che hanno considerato la quistione dal punto di vista
deiretnologia annette un'importanza capitale, per la spiegazione dell'animismo,
alla interpretazione realista del sogno. Ma, si può domandare, tale
interpretazione è veramente il principio, o
è piuttosto la conseguenza della dottrina animista? Ciò che fa pensare
che uno dei punti di partenza dell'idea dell'anima sia l'oggettivazione delle
immagini viste Civilizsnz, primitiva nel
sogno, è specialmente questo tratto dell'animismo popolare per cui Tylor lo
chiama la dottrina dell'anima fantasma RYLE, vale a dire il concetto che
l'anima ha la forma stessa dell'uomo, e ne è come un'immagine. È sullo stesso
fatto che è fondata la idea di vedere un altro dei punti di partenza
dell'animismo nell'oggettivazione dell'ombra e dell'imagine riflettuta; p. e.,
dall'acqua. NARCISSO Ma se noi pensiamo alla grande importanza che il semplice
principio dell'associazione delle idee senza niente che abbia la rassomiglianza
più lontana con un'inferenza logica ha
avuto nella formazione delle credenze
umane, si ammette forse che questo principio può dare una spiegazione
soddisfacente del fatto in quistione. Se si esamina, dice MORE GRICE TO THE Mill,
in che si accordano la più parte delle cose che in differenti tempi e da
diverse nazioni e razze sono state considerate come dei presagi di qualche
avvenimento importante^ felice o infelice, si troverà che esse offrono generalmente questa
particolarità, che fanno nascere nello spirito GRICE MEANING l'idea del fatto
che sono supposte annunziare. Tylor stesso estende questa spiegazione alle arti
magiche ed alle scienze occulte in generale. Ciò che ci dà principalmente, egli
dice, l'intelligenza delle scienze occulte è questa osservazione che esse
riposano sull'associazione delle idee,
facoltà che si ritrova alla base stessa della ragione umana, come a quella della sragione. Logica . fiXO L'uomo, benché in uno stato
intellettuale ancora molto inferiore, dopo essere perv^enuto ad associare nel
suo pensiero delle cose che l'esperienza gli ha insegnato essere materialmente
con nesso, arriva per errore a intervertire questo rapporto e a concludere,
dalla loro associazione subbiettiva,
un'associazione obbiettiva corrispondente. Egli ha cercato così d'indovinare
DARK CLOUDS MEAN RAIN, di predire e di
provocare degli avvenimenti per mezzo di processi di cui noi possiamo oggi
riconoscere il carattere puramente immaginario DARK CLOUDS MEAN RAIN. Un vasto insieme di testimonianze preso nel
mondo selvaggio barbaro e incivilito, mostra che le arti magiche risultano da
questo errore che fa prendere un'associazione ideale per un'associazione reale.
È evidente che molte idee dell'animismo popolare non hanno un'origine diversa:
sarebbe inutile, p. e., di cercare, per la credenza generalmente diffusa che
gli spiriti frequentano i cimiteri, o la casa che essi abitavano quando erano
congiunti col corpo, un'altra ragione
che quella assai naturale che questi luoghi sono i più propri a sugrerire
l'idea degli spiriti dei morti. Quando un'associazione d'idee è molto intima,
noi abbiamo qualche cosa che si avvicina ad una vera necessità mentale, a un
sofisma naturale o a priori il risultato diquesto Saggio sarà di mostrare che è
in ciò che consiste 1'essenza di questo processo psicologico a cui sono dovuti i concetti metafìsici in
generale. L'associazione tra delle facoltà psichiche che noi non abbiamo
sperimentate che nell'uomo o nell'animale e una forma esteriore d'uomo o
d'animale è talmente intima, che noi potremmo vedere quasi, nell'idea di
associare a un'entità che è supposta godere della personalità umana, una forma
umana, il prodotto di un sofisma a priori del
nostro spirito: non solo questa era un'immaginazione naturale, ma
l'intelligenza dell'uomo primitivo STONE-AGE PHYSICS doveva trovare più facile
a comprendere che questa materia, di cui lo spirito era costituito, potesse
sentire, pensare, ecc., avendo la forma umana, che se essa avesse avuto invece
una forma con la quale il sentimento, il pensiero, ecc. non erano stati mai
trovati associati nell'esperienza. Senza dubbio l'associazione che lega Tidea
dello spirito d'un individuo a quella della figura di quest'individuo non era
talmente forte da agire d'una maniera simile sull'intelligenza del selvaggio:
ma ammesso una volta il principio che lo spirito aveva una forma umana, niente
di più ovvio che di attribuirgli quella stessa forma individuale con cui era
associato nelTimmaginazione.
Naturalmente il sogno alimenta l'idea, quantunque nata sopra un altro terreno,
e l'allucinazione originata dall'idea stessa, veniva a darle la riconferma più
evidente. In quanto all'identificazione dell'anima con l'ombra, che s'incontra
in alcune popolazioni – ME AND MY SHADOW ALL ALONE AND FEELING BLUE, e ad altre
idee analoghe^ si potrebbe vedervi delle
interpretazioni posteriori, brutalmente letterali, di espressioni destinate al
principio ad indicare l'incorporeità dell'anima e la sua forma umana, per un
caso di quella malattia della lingua, in cui Muller vede il processo
fondamentale della formazione dei miti. Tra le idee essenziali della metafìsica
dei popoli poco coltivati non si trova quella dell'immortalità assoluta
dell'anima, non si trova almeno come
credenza generale: la credenza alla sopravvivenza al corpo alla quale è spesso
unita quella alla preesistenza è quasi
universale, ma è molto diffusa pure V idea che V anima può subire una seconda
morte. E' evidente tuttavia che il concetto dell'immortalità è il prodotto
naturale e necessario d'un animismo conseguente. In effetto il presupposto
dell'animismo è la impossibilità che ciò che sente, pensa, agisce, ecc. divenga
insensibile, incosciente, inattivo, ecc., e viceversa: ora la conseguenza di questo
principio è di stabilire fra queste due forme dell'esistenza un dualismo
radicale, in modo che 1'una sia assolutamente inconvertibile nell'altra. Allora,
non sono possibili per un animista realmente conseguente che due dottrine:
s'egli non ammette la possibilità di una
creazione e d'un annientamento assoluti, deve pensare che l'anima nella sua
sostanza almeno, se non nella sua esistenza individuale è senza cominciamento
né fine, eterna è la dottrina di molti filosofi, come Platone, i Platonici, i
Vedantini e le altre celebri scuole indiane GRICE STAAL, filosofi che noi
possiamo considerare come i rappresentanti della forma più sviluppata dell'animismo nel mondo antico; o
s'egli ammette la possibilità della creaci) Tylor Colebr. trad. Panth, Regnand
in Sei;. phiL. Y. Colebr. trad. Panth. sankhya, nyaya, vaisechika. !' H I I
zione e dell'annientamento assoluto, egli deve pensare che l'anima non può
cominciare ad esistere cha per creazione né potrebbe finire d'esistere che per
un annientamento assoluto é la dottrina
dello spiritualismo SIR NOEL COWARD BLITHE SPIRIT. Ma l'uomo primitivo
naturalmente non é capace né di stabilire dei principii generali né di
sviluppare sistematicamente un'idea sino alle sue conseguenze ultime: egli può
ben immaginare una spiegazione per un fenomeno particolare da cui é vivamente
colpito, qual é la morte del suo simile; ma^ quantunque nel caso particolare
egli ammetta praticamente il principio che il cosciente e attivo non può
trasformarsi nell'incosciente e inattivo, egli non pensa che, per la stessa
ragione, l'anima non deve mai morire; perciò egli dovrebbe concepire la
quistione sotto una forma universale^e applicare la sua meditazione a un
soggetto troppo L'anima, dice Agostino, è la vita, e 11 principio della vita:
per ogrni essere vivente. Essa dunque
non può morire: perchè, se potesse essere senza vita, non sarebbe Tanlma, ma
una cosa animata che non ha la vita per se stessa, ma la deve alla presenza
dell'anima. De immortalit, aniniae L'argomento di Agostino che non è al fondo
che quello di Fedone fPhaedo: 11 solo, tra tutti quelli del dialogo che Platone
dia come decisivo, svolto, dalla mescolanza con la dottrina delle Idee, ed espresso sotto una
forma più propria e più vibrata è perfettamente concludente: l'alternativa
della vita e della morte nell'anima sarebbe In contraddizione con l'Ipotesi
dell'animismo che quest'alternativa negli esseri viventi deve spiegarsi per la
presenza e la separazione del principia della vita. Secondo quest'Ipotesi,
l'anima stessa non potrebbe perdere la vita che
perchè 11 principio della vita si separa da essa: ma allora la vera
anima sarebbe qnesto principio della vita dell'anima, e questa sarebbe, come
dice Agostino, non V anima, ma un che di animato. lontano dalle sue percezioni
attuali per poterla sollecitare. D'altra parte, l'esistenza futura delPanima
egli non l'immagina che sul tipo dell'esistenza pregente conformandosi a questa
tendenza naturale del nostro spirito ad
assimilare il non conosciuto e il non familiare al conosciuto e al familiare. L'anima nell'altro mondo mangia,
beve, danza, caccia, lavora la terra, combatte, ecc.; i suoi beni e i suoi mali
sono i beni e i mali stessi di questa vita: spinto da questa tendenza
assimilatrice, il selvaggio finisce per ammettere che l'anima può essere
annegata, uccisa, ecc., senza accorgersi
che perciò egli si mette in contraddizione col suo punto di partenza. L'idea
antica della materialità dell'anima sembrerà certamente ad alcuno strana ed
antifìlosofìca tale è la forza dell'abitudine: per noi invece il problema è,
non di spiegare come sia nata Tidea della materialità dell'anima, ma come sia
nata quella della sua immaterialità. Il concetto della materialità si spiega
da se stesso, poiché è evidente che noi
non possiamo concepire se non una sostanza materiale, l'idea di sostanza cioè
di un quid permanente che sia il sustrato di fenomeni cangianti essendo per
l'intelligenza umana affatto equivalente all'idea di corpo. Ma bisogna
riconoscere nondimeno nel concetto dell'immaterialità il risultato naturale
dello sviluppo della filosofìa animista. Questo
sviluppo ci mostra, vcome dice Spencer, una dismaterializzazione
progresa y. Tylor e XUI. _sìva dello
spirito, di cui il primo passo, inevitabile per non mettersi in una
contraddizione troppo diretta con l'esperienza, si fa già nella fase più antica
della dottrina, concependo l'anima come un che d'impalpabile ed invisibile. Noi
abbiamo visto inoltre che la conseguenza logica dell'animismo è di stabilire un dualismo radicale tra
l'anima l'essere cosciente e attivo e il corpo l'essere incosciente e inattivo,
in modo che non sia possibile il passaggio dall'una all'altra di queste due
forme della esistenza. È un altro passo considerevole verso l'opposizione
assoluta tra le due sostanze, il quale nella Btoria della filosofìa è
rappresentato dalle teorie di Anassagora e di Platone: ma questo dualismo non è ancora incompatibile con
l'idea che l'anima sia una cosa estesa nello spazio, una sostanza materiale
particolare, distinta ed opposta a tutte le altre. L'ultimo passo il più
importante al punto di vista della teoria della conoscenza, perchè si tratta di
varcare il confine che separa il dominio del rappresentabile da quello
dell'irrappresentabile è anch'esso un portato naturale dei presupposti generali della concezione
animista: l'idea della materia ordinaria è già strettamente associata nel
nostro spirito a quella della incoscienza e della inattività; quando lo stesso
corpo vivente diviene, per usare l'espressione di un filosofo spiritualista un
^orpo di morto^ in cui la vita non risiede che come in un ricettacolo, allora
il concetto di materia finisce Malebranche Ricerca della verità, Schiarimento. OX per essere
1'equivalente perfetto di una sostanza, incosciente, morta, inattiva, e
insuscettibile di mai acquistare la coscienza, la vita, l'attività. Questi
attributi non sono soltanto legati alla materia per un'associazione intima tra
le idee; il legame è anche logico; se tutti
i corpi dell'esperienza sono incoscienti e inattivi e incapaci di
divenire il contrario, non se ne deve
concludere che il corpo in gènerale è incapace di coscienza e di attività? Ne
segue che l'anima non può essere una sostanza materiale, e il dualismo iniziale
arriva così al concetto iperfisico della sostanza spìnto, della stessa maniera
che, nel dominio della natura inanimata, il dualismo analogo dei corpi
concepiti come assolutamente inerti e passivi e di qualche cosa che deve
ad essi sopraggiungersi come principio
di ogni attività arriva al concetto analogo di forze trascendenti, immateriali,
l'idea di forza divenendo necessariamente incompatibile con quella di
materialità, dopo che a questa si è legata l'idea opposta della assoluta
inattività. Ma ciò che dobbiamo notare è che tra le due forme successive
dell'animismo la materialista e la spiritualista 1'opposizione
non è cosi assoluta, come pare a prima vista: tutti i vari modi di
concepire la sostanza dell'anima, dalla grossolana materialità di quelle
intelligenze primitive che cercano le impronte dei passi degli spiriti, sino al
più puro spiritualismo del filosofo che nega che l'anima sia in un luogo, non
sono che dei gradi differenti di un'evoluzione continua, in cui vediamo
all'opera un processo di sottilizzazione
e di astrazione progressiva applicato al concetto della materia, quale esso
risulta immediatamente dai dati della percezione sensibile, cioè di uia cosa
che può essere vista e toccata. Quando il filosofo animista ha soppresso, nella
sostanza dell'anima, la visibilità e la palpabilità, ma lasciandovi sussistere
altre determinazioni della materia, quali l'estensione, il movimento ecc., una tale sostanza non è più una
materia, secondo l'idea primitiva che i sensi <;i hanno dato della materia, ma, siccome, sin da
Cartesio, noi siamo abituati a fare dell'esteso 1'equivalente esatto del
corporeo, noi non esitiamo a riconoscere che la sostanza anima di un tal
filosofo non è al fondo che un corpo. Ora, quando il filosofo spiritualista,
dal concetto grossolanamente materialista
dello spirito, oltre la visibilità e la palpabilità, toglie anche
l'estensione, ma lasciando sussistere la sostanzialità CICERONE RES COGITANS,
l'operazione è in questo secondo caso della stessa natura che nel primo; si
tratta di una nuova astrazione operante sul concetto primitivo della materia; e
il residuo è, nel secondo caso, una determinazione della materia, come nel
primo, poiché la categoria di sostanza,
per dirla con Kant, non è applicabile che ^g'ì oggetti dell'esperienza
esteriore, o a ciò che ci è dato in una intuizione nello spazio BUNBURGY
DISINTERESTEDNESS. Il concetto della sostanza spirituale non può dunque essere
modellato che sul tipo delle sole sostanze che noi conosciamo e possiamo
rappresentarci, le materiali: Analit, trascendente Scoi, gener. al sistema del prinelplt edlz.
Dlalett, trascendent, Paralog della rag.
jfara. In fine del capit. e Confutai, dell'argom, di Mendelsohn, 'I cxcYiir
l'elemento positivo di questo concetto la sostanzialità non è tratto che della
materia NOTHING CAN BE RED AND GREEN ALL OVER NO STRIPES ALLOWED; il semplice,
Finesteso e il resto che si aggiunge alla parola sostanza, non sono che degli elementi negativi, esprimenti
che si intende fare astrazione di certe determinazioni della materia. L'idea che lo spirito è una sostanza
OFTEN ABUSED, cioè che oltre alle
sensazioni, sentimenti, pensieri, volizioni, ecc., vi sia qualche cosa di
permanente materiale o immateriale come sustrato di questi fenomeni, è prima di
tutto una conseguenza necessaria dell'ipotesi
animista, che vede nella vita il risultato della congiunzione dei due
elementi di cui l'uomo e ogni essere animato si suppone composto, e nella morte
il risultato della loro separazione. Non vi ha altra rappresentazione possibile
di due elementi capaci di stare ora uniti ed ora separati che quella di due
sostanze materiali, di due corpi, che possono cangiare il loro rapporto nello
spazio ciò che ci mostra sotto un altro
aspetto la verità d'un'osservazione antecedente, vale a dire la comunanza di
origine tra l'animismo e la teoria meccanica, le esperienze familiari che
servono di tipo all'una delle due dottrine potendo riconoscersi per le stesse,
al fondo, che quelle che servono di tipo all'altra. Così, quando il doppio
materialismo primitivo è stato rigettato, questa rappresentazione non potrebbe più considerarsi come adequata
alla realtà, ma resta il concetto astratto di due sostanze capaci di unirsi e
di separarsi, concetto che non è più un'idea rappresentabile dopo che runa
delle due sostanze finisce di considerarsi come un corpo e come capace di
entrare con l'altra in rapporti di spazio, JONES IS BETWEEN SMITH AND WILLIAMS
ma che, come tutti i concetti
trascendenti, cioè oltrepassanti il sensibili e r immaginabile, non è
modellato che sul sensibile e l'immaginabile, vale a dire, nel nostro» caso,
sulla rappresentazione primitiva di due corpi che si uniscono e si separano, e
trova in questa rappresentazione per esprimerci sotto una forma che non
implichi una teoria determinata sulla natura dei concetti trascendenti
un'approssimazione e un simbolo
indispensabili. Ma, oltre l'animismo come spiegazione della VITA GRICE
FILOSOFIA DELLA VITA e della morte, l'idea che lo spirito è una sostanza ha
un'altra sorgente. Per dilucidare questo punto, dobbiamo entrare in alcune
considerazioni che non hanno un rapporto molto stretto col nostro presente
argomento, ma che non possiamo evitare, essenda esse, oltre alla loro importanza per la quistione del valore
dell'idea della sostanza spirito, indispensabili per comprendere certi sviluppi
di quest'idea, che ci presenta la storia della metafisica. Tutte le volte che
lo spirito è concepito come esistente per sé, separatamente dal corpo, noi abbiamo
una tendenza quasi invincibile a considerarlo, come una sostanza, cioè a
supporre, al di sotto della, serie fluente
degli stati di coscienza che costituiscono lo spirito quale fenomeno
dell'esperienza, un quid permanente come loro sustrato – THE I OF GRICE. Ciò
può aver luogo anche indipendentemente dalla teoria animista, del che possiamo
trovare un esempio in alcune^ proposizioni di MORE GRICE TO THE Mill. MORE
GRICE TO THE MILL non è uno spiritualista – MODERATE MENTALISM, e nondimeno
egli non ammette che lospiriso sia una semplice serie di stati di coscienza. ce
Noi siamo forzati, egli dice, di riconoscere che ciascuna parte della serie è
attaccata alle altre parti mediante un legame che loro è comune a tutte, e che
non è la catena dei sentimenti per se stessi: e €ome ciò che è lo stesso nel
primo e nel secondo, nel secondo e nel terzo, nel terzo e nel quarto, e così di seguito, deve essere
lo stesso NEL PRIMO E NEL CINQUANTESIMO, quest'elemento comune è un elemento
permanente GRICE AVOIDS NUMBERING THEM!. Quest'elemento permanente, distinto
dalla catena degli stati di coscienza, non può essere altra cosa che la
sostanza spiritoTHE PURE EGO DI BROAD dei filosofi spiritualisti, quantunque
Mill, poco prima del luogo citato, neghi
di adottare la teoria comune che riguarda lo spirito come una sostanza GALLIE
GRICE SELF AND SUBSTANCE MIND. Noi dobbiamo prima di tutto sbarazzare la
quistione da un possibile equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality
thesis]. La proposizione che lo spirito, il me di GRICE, è una collezione O
COSTRUZIONE LOGICA di sensazioni
intendendo naturalmente per sensazioni
tanto i dati della percezione esteriore quanto quelli del senso intimo
non è che la semplice espressione dei fatti dell'esperienza interiore, senza
mescolanza d'ipotesi o interpretazione di qualsiasi natura: ma essa non deve
intendersi come se queste sensazioni che costituiscono la collezione, fossero
altrettanti elementi aventi ciascuno un'esistenza propria e indipendente, come degli atomi, fra di cui non vi fosse che il rapporto
puramente esteriore di una semplice juxtaposizione WENT TO BED AND TOOK OFF HIS
BOOTS URMSON ATOMISM. Tra le cose esteriori non vi hanno altri rapporti che
quelli di tempo e di spazio: ma tra gli Filo8,
di Hamilton Appendice. COI stati
di coscienza che costituiscono un me di GRICE, una coscienza unica, oltre i
rapporti di TEMPO, cioè di successione e
di simultaneità qui naturalmente non è a parlare di quelli di spazio, vi ha un
rapporto più intimo, che non ha niente di analogo nelle cose del mondo
esteriore, ma che se noi vogliamo indicare con un termine che nel suo senso
proprio e originario TOTAL TEMPORARY MNEMONIC STATE non può convenire con\e,
quasi tutti quelli che appresta la
lingua, che alla realtà esteriore, lo possiamo fare con le parole PROUST:
continuità della coscienza. La coscienza è un tutto uno e continuo INTERLOCKING,
non un aggregato di elementi indipendenti: è questo un fatto evidente
dell'esperienza interiore, di cui lo stesso HAUGELAND o lo stesso Hume sarebbe
convenuto, se la quistione gli si fosse presentata in questi termini – AS IT
WAS!. Stabilire un rapporto tra le nostre Idee, fare un ragionamento VAGARIES
OF PERSONAL IDENTITY, avere la
percezione di un tutto complesso HUME’S VAGARIES ON PERSONAL IDENTITY, sarebbero degli atti impossibili, se fra le
idee successive o simultanee da cui essi risultano, non vi fosse che un
semplice rapporto di simultaneità o di successione, come quello che esiste tra le idee di Se, di coscienze,
differenti. Se tra queste idee che appartengono a me IL ME DI GRICE che
stabilisco il rapporto, ragiono, percepisco SIGNIFICO il tutto complesso, non
vi fosse un legame particolare, che non esiste tra le idee di spiriti distinti
WHAT DO YOU MEAN, sarebbe altrettanto possibile in questo caso IF YOU KNOW WHAT
I MEAN che questi elementi si riunissero
per costituire l'atto unico del rapporto, del ragionamento, della percezione,
quanto nel caso che ciascuno di essi fosse uno stato di coscienze differenti.
Prendiamo per esempio un semplice rapporto di succesgione o di coesistenza ai
quali si riducono, in ultima analisi, al punto di vista semplicemente
obbiettivo, tutti i rapporti che noi possiamo stabilire fra le nostre idee. Noi non percepiamo le successioni e le
coesistenze obbiettive che per delle successioni e coesistenze fra le nostre
percezioni, e non ci rappresentiamo questi rapporti che per dei rapporti
corrispondenti tra le nostre rappresentazioni in quanto alle coesistenze vi
sarebbero delle riserve da fare, ma non importano alla quistione presente. La
conoscenza della successione e della
simultaneità è dunque la coscienza della successione e della simultaneità
delle nostre idee, cioè la coscienza delle nostre idee come successive e simultanee. Ora avere coscienza della successione o simultaneità delle idee A
SOMONE IS HEARING A NOISE AT TIME T1 e B
SOMEONE IS HEARING A NOISE AT TIME T2, o di queste idee come successive SOMEONE
IS HEARING A NOISE AT TIME T1 SOMEONE IS HEARING A NOISE AT TIMET2 o simultanee
ACTIONS AND EVENTS, importa uno sguardo unico della coscienza, una coscienza
unica che riunisce la coscienza di T T S
A e
quella di T T S B. La coscienza di T T S A e quella di T T S B, prese ciascuna
isolatamente e succedentisi Funa all'altra, non potrebbero dare la coscienza
del rapporto di successione tra A e B: questa coscienza non è dunque una semplice juxtaposizione, un aggregato, delle
due coscienze successive di A e di B, ma
è una coscienza – META-COSCIENZA -- unica, continua^ in cui le due coscienze
successive sono comprese. Ma costatare l'unità della coscienza, la continuità
tra i suoi stati GRICE STATE successivi,
non è costatare l'esistenza di un
elemento permanente, accompagnante elafi)
Saggio . ceni scuAO di questi stati GRICE STATE successivi, e che
persiste, sempre lo stèsso, dal primo all'ultimo di questi stati e che esiste
anche negl'intervalli in cui alcuno stato di coscienza non esiste. Sono due
cose differenti, di cui la prima è un fatto d'esperienza interna, la seconda
un'ipotesi metafìsica. È evidente che
quando Mill conclude dall'una delle due cose all'altra, come fanno i metafisici
COME LOCKE REID GALLIE BROAD GRICE FLEW JONES, egli si allontana dai principii
fondamentali della sua filosofia, cioè di quella dell'esperienza. Il principio
supremo di questa filosofia è che non bisogna niente ammetterà in virtù di una
semplice evidenza intrinseca, spesso fallace,
ma tutto provare senza altra eccezione che i portulati indispensabili ad
ogni operazione detta ragione, che è impossibile di stabilire col ragionamento,
perchè ogni ragionamento, li presuppone, e provare non è che estendere a nuovi
casi particolari un rapporto di sequenza, di coesistenza, ecc. già costatato
per l'esperienza nei casi identici, tutte le volte che quest'esperienza è tale
che la generalizzazione del rapporto ne
sia garentita. Nel nostro caso, alle difficoltà logiche che solleva il criterio
della evidenza intrinseca, se si ammette che il Me di GRICE trascendente è
CDnosciuto a priori, per un'intuizione della ragione, si unisce l'impossibilità
psicologica di porre nello spirito un'idea di cui non potrebbe trovarsi
l'origine nell'esperienza UNLESS IT’S WUNDT’S – O LA DI LOTZE!. Ma noi non
possiamo nemmeno ammettere che l'atto dello spirito, per cui il Me di GRICE trascendente
è conosciuto, sia un'inferenza lofigira. LA COSTRUZIONE LOGICA Questa
proposizione: la continuità della coscienza richiede l'esistenza di un Me di
GRICE sostanziale, permanente, stabilisce fra le due cose un legame che se si
ammette che esso è una semplice
inferenza r esperienza non ha mai potuto in alcun caso costatare. THEN
IT’S ANALYTIC! Questa proposizione non può essere un caso particolare di una
proposizione più generale già induttivamente stabilita, perchè il fatto di cui
si tratta, la continuità della coscienza, è un fatto unico nel suo genere, di
cui l'esperienza non presenta un analogo. Ad una sola condizione pòtremmo
noi dunque inferire dalla continuità
della coscienza la cosa che si pretende con essa legata, cioè il Me di GRICE sostanziale,
alla condizione cioè che noi conoscessimo dei casi in cui il legame tra le due
cose fosse, non una verità d'inferenza, ma un dato dell'osservazione. Non vi
ha dunque che un mezzo per rendere la
proposizione conciliabile coi principii del metodo sperimentale, cioè con quelli della logica: è di supporre, come
fanno una gran parte dei filosofi spiritualisti, che il legame è effettivamente
un dato dell'osservazione, che il Me di
GRICE sostanziale non s'inferisce, ma si esperimenta, si percepisce. Ma, per
questa supposizione, l'accordo coi principii del metodo sperimentale non è che
apparente. La percezione è uno stato di coscienza del soggetto percepente, che può interpretarsi sia come un
fenomeno puramente subbiettivo, che non esce dal soggetto percepente, sia come
un atto che oltrepassa questo soggetto ed attinge 1'oggetto percepito, che
perciò si suppone presente nella coscienza. Ma per preferire questa seconda
interpretazione, come fa l'ipotesi di cui parliamo, non vi ha che questa
ragione da poter addurre, che la portata
obbiettiva della percezione, la presenza dell'oggetto nella coscienza, è
una credenza naturale, irresistibile, che accompagna la percezione. E cosi
l'ipotesi presuppone il principio in cui noi abbiamo riconosciuto l'antitesi di
quello del metodo sperimentale, cioè che la semplice evidenza intrinseca è un
criterio sufficiente, che la credenza è una prova della realtà della credenza
stessa. Ben più, in questo caso, il
rimedio è peggiore del male perchè l'evidenza intrinseca della proposizione che
l'unità della coscienza suppone un Me di GRICE permanente, sostanziale potrebbe
forse ammettersi come fatto psicologico, se non come criterio logico O DI
COSTRUZIONE LOGICA, ma non quella della proposizione che questo Me di GRICE è
una percezione immediata della coscienza.
Quando la teoria della percezione immediata si applica agli oggetti del mondo
esteriore di GRICE E MOORE, essa si giustifica per un appello alla credenza
naturale del genere umano; ma la teoria della percezione immediata della
sostanza Me di GRICE non è una credenza naturale del genere umano; non è che
un'ipotesi di alcuni metafisici COME LOCKE REID BROAD GALLIE GRICE JONES FLEW, immaginata per ispiegare la possibilità della
conoscenza di questa sostanza. E un'ipotesi delle non meno strane, che presenta
delle inconcepibilità come queste: Si ammette generalmente che la sostanza
dello spirito è un che HUME HAUGELAND GRICE di sconosciuto e d'inconoscibile, e
la divergenza delle opinioni dei metafìsici GALLIE E GRICE sulla natura di
questa sostanza è una prova che essa non può essere l'oggetto di una conoscenza
immediata; come la natura di una cosa immeliatamente presente alla coscienza
potrebbe restare assolutamente sconosciuta? La percezione suppone una dualità
di termini SELF-AWARENESS, un soggetto percepente – GRICE -- e un oggetto
percepito – SOMEONE --, mentre qui non vi
sarebbe che un termine unico che sarebbe al tempo stesso il soggetto e
Toggetto LA FERITA NARCISSISTA DI FREUD SOTTO PEARS. Sembra nondimeno che
quando noi consideriamo il Me di GRICE, il complesso dei fenomeni della
coscienza, separatamente dal suo sustrato corporale, l'idea di una sostanza, d'una cosa che permane durante la successione
di questi fenomeni, sia una suggestione
naturale, che noi non possiamo impedire che ci venga – HE IMPLICATED HE
SUGGESTED -- allo spirito, per quanto possiamo respingerne il valore
obbiettivo. È un fatto d'osservazione psicologica JAMES, e di cui MORE GRICE TO
THE Mill può fornirci un esempio, quest'idea dovendo avere in lui un motivo
indipendente dallo spiritualismo o, generalmente, dall'animismo, che potrebbe
essere appunto MENTALISMO MODERATO MORE
GRICE TO THE Mill non si fjnda, per istabilire V esistenza del me di GRICE permanente,
suir unità della coscienza direttamente y ma sul fatto della MEMORIA come
implicante l'affermazione deirunità di coscienza, cioè, per dire la cosa con le
sue stesse parole, la credenza che le sensazioni rammentate hanpo formato realmente una parte
della stessa catena MNEMONICA INTERLOCKED di coscienza di cui IL RICORDO DI
BENJAMIN E DI BROAD di queste sensazioni è la parte attualmente presente. Il
solo fatto, egli dice, che rende necessaria la credenza a un Me DI GRICE, il
solo fatto che la teoria psicologica la quale risolve lo spirito, come la
materia, in sentimenti e possibilità di sentimenti non può spiegare, è LA MEMORIA
GRICE PERSONAL IDENTITY. La nozione del Sé è perciò secondo lui un
accompagnamento LOGICAL CONSTRUCTION delle operazioni di questa facoltà, ma
egli non vuol decidere se noi ne abbiamo direttamente coscienza neir atto di
ricordarci, o se, non avendo coscienza di un So, noi siamo forzati d*ammetterlo come una condizione
necessaria della MEMORIA; in altri termini, se noi conosciamo il sé di GRICE por
una percezione immediata o per un'inferenza Filos, di Hamilton. Non vi sarà
certamente alcuno che metterà in dubbio li fatto questo, che, negando la realtà
obbiettiva della materia, egli deve rappresentarsi lo spirito separatamente da
un sustrato materiale. Ora quale può
essere la spiegazione di questo fenomeno psicologico? Ciò che deve mostrarci la
via in questa ricerca è il principio che le illusioni naturali, i sofismi a
priori del nostro spirito, sono il risultato di coesioni mentali puasi
inseparabili, coesioni mentali che non hanno potuto essere formate se non
dall'esperienza: ora la sola sostanza, la sola cosa permanente, con cui
l'esperienza ci mostra associato lo
spirito o la coscienza, e con la cui
idea l'idea che LA MEMORIA IMPLICA LA CREDENZA CHE IO STESSO, L’IO CHE
RICORDA, E NON UN ALTRO, HO AVUTE LE SENSAZIONI RICORDATE, né la realtà di
questa credenza: ma questa credenza non è che la semplice affermazione di ciò
che noi
abbiamo chiamato unità della coscienza. Ammettere che essa
contiene inoltre la nozione di UN ME PERMANENTE a meno che per QUESTO ME
PERMANENTE non s'intenda la persona fisica, la cui rappresentazione in effetto
è un accompagnamento abituale del ricordo delle sensazioni passate non è che un
caso di queir errore, tante volte rimproverato al metodo introspettivo nella
ricerca psicologica, di vedere nella coscienza dei fatti che non vi sono, prendendo per fatti
della coscienza le proprie interpretazioni di questi fatti. L'esistenza di UN
ME PERMANENTE e trascendente cioè cha non è né i fenomeni della coscienza né la
persona fisica che li accompagna é poi cosi poco la condizione necessaria della
MEMORIA e della sua realtà, che, nella supposizione di QUESTO ME, niente vi La
di più naturale che il dubbio di LOCKE E
REID E BROAD E GALLIE CITATO DA GRICE, «e l'identità della persona, cioè della
coscienza, non possa continuare, malgrado che la sostanza che pensa non sia più
la stessa, e se questa sostanza rimanendo la stessa, non possano esservi
nondimeno più persone o coscienze distinte infatti è perfettamente concepibile
che una sostanza abbia la convinzione di
aver fatte certe azioni o avute certe sensazioni BENJAMIN BROAD CITATO
DA GRICE che un'altra invece ha realmente latte o avute, come anche che questa
sostanza REID CITATO DA GRICE perda totalmente THE OFFICER’S THREE FORGETTINGS il
sentimento della sua esistenza passata ciò che non sarebbe una pura ipotesi, ma
un fatto dell'esperienza Saggio
sulVinUnd, um. ccyiu dello spirito o
della coscienza ha una coesione strettissima, quasi inseparabile, è IL ME fisico,
il sustrato materiale di questa coscienza. È vero in un senso che la concezione
del me non è semplicemente quella di una COSTRUZIONE LOGICA di una serie di
sensazioni, pensieri, volizioni, ecc., ma comprende inoltre la nozione di
qualche cosa che perdura e resta sempre la
stessa LOCKE DON LOCKE ME MYSELF durante lo svolgersi di tutta la serie,
e che questa cosa che perdura ce la rappresentiamo come il soggetto, in cui le
sensazioni, i pensieri, le volizioni, ecc., ineriscono. L'io, che nella lingua
dello psicologo non è che il nome dello spirito, della coscienza, nella lingua
ordinaria significa invece Del resto lo stesso Mill conviene che il fatto
della memoria e quello della previsione
in cui egli vede pure un motivo per ammettere un me permanente, ma che egli
riconduce al fenomeno della memoria resta egualmente inesplicabile tanto se si
ammette la teoria che il me non è che la serie dei sentimenti, quanto se si
ammette la teoria che esso è altra cosa che questa serie. La verità, egli dice,
è che noi siamo in faccia all'inesplicabilità
finale, alla quale, come lo fa osservare Hamilton, arriviamo
inevitabilmente quando tocchiamo ai fatti ultimi; e in generale si può dire che
una maniera di formularla non pare più incomprensibile di un'altra che perchè la
lingua intera è appropriata all'una, e si accorda si male con l'altra, che non
si trovano per esprimere questa che delle parole che la negano. La vera pietra
d' inciampo è forse meno in una teoria del fatto che nel fatto stesso. Ciò che
vi ha di realmente incomprensibile è forsa che una cosa che ha cessato
d'esistere, o che non ha ancora cominciato ad esistere, possa nondimeno essere,
in eualche sorta, presente: che una serie di sentimenti, di cui l'infinitamente
più gran parte è passata o avvenire possa essere raccolta, per cosi dire, in
una sensazione presente accompagnata
dalla credenza nella sua realtà. Una proposizione di Mill ha per noi tanta
importanza che non possiamo farla passare senza discuterla, quantunque il luogo
possa sembrare inopportuno, ammettiamo che il fatto della memoria lo spirito e
il corpo insieme, anzi il corpo a preferenza dello spirito GRICE THREE SENSES
OF “I”. È evidente infatti che il PRO-NOME
me – or someone -- y della stessa maniera che un NOME designante
un se qualsiasi GRICE PRO-VERB, non è la
rappresentazione della serie degli stati di coscienza che richiama
immediatamente al pensiero, ma quella della persona fisica I WAS HIT BY A
CRICKET BAT. Di più, come nel modo abituale di conce|lire i fenomeni psichici,
la persona fisica è il soggetto di questi fenomeni, cosi è mediante la rappresentazione
dell'unità e IDENTITA della persona fisica, che noi concepiamo ordinariamente
l'unità e identità della catena di cui questi fenomeni fanno parte. Ciò è
evidente quando si tratta di altre persone: come noi non possiamo attribuire un
fatto psichico GRICE DAVIDSON DISIMPLICATURE EXTENSIONAL INTENSIONAL He’ll ruin
the department a con le credenze che essa implica, sia un fatto ultimo, cioè
che essa non possa ricondursi a della legge psicologica più generale; ne segue
che esso è, come tutti i fatti ultimi,
inesplicabile; ma ne seguirà pure che esso è incomprensibile? Ciò sarebbe
contrario all& teoria della conoscenza, i cui principii sono stati
solidamente stabiliti dallo stesso Mill. Se noi ammettiamo che il fenomeno è l'unica esistenza di cui possiamo essere
certi, bisogna ammettere pure che la parola incomprensibile, quando si applica
ai fatti ultimi, costanti, generali, della natura o dello spirito, non ha senso,
che essa non indica niente almeno che abbia un valore obbiettivo, quantunque
possa indicare un fatto psicologico reale. Un fatto particolare è
incomprensibile, se esso non è stato sin qui
ricondotto alle leggi generali, ai fatti ultimi: ma i fatti ultimi essi
stessi non possono presentare questa specie d'incomprensibilità, la sola che
abbia un valore obbiettivo; per essi, incomprensibile non può significare se
nonché ohe vi ha qualche cosa che oltrepassa l'esperienza e i fenomeni, l€t
quale, se la conoscenza umana potesse attingervi, spiegherebbe i £Bi>tti in
quistione. Noi abbiamo stabilito che
questa specie d'incomprensibilità non è che un fenomeno psicologico,
senz'alcuna portata obbiettiva. Ma nel caso presente può sembrare difficile di
assegnare l'origine d«ll'incomprensibilità WHAT DO YOU MEAN BY OF?, perchè questa accompagna i fatti poco o
niente familiari. Come un fenomeno così familiare qual è la*. ccx un me
determinato che rappresentandocelo in
connessione con un individuo fisico determinato, cosi non possiamo attribuire
due fatti psichici successivi a uno stesso me determinato che
rappresentandoceli entrambi in connessione con uno stesso individuo fisico
determinato. Quando si tratta di noi stessi, fors# la regola non è così assoluta HAUGELAND: I
WROTE IT, NOT GRICE! : ma io credo che ciascuno può osservare in se stesso che
ordinariamente non si rappresenta come sua una situazione psicologica in cui,
in un passato più o meno lontano, si è trovato, che rappresentandosela
congiuntamente al suo proprio individuo fisico; e che una parte almeno di
questa credenza accomqagnante ogni atto della memoria, che io stesso, e non un
altro, sono quello che ha fatto l'azione o
provato la sensazione ricordata SOMEONE IS HEARING A NOISE IFF A HEARING
OF A NOISE IS --, è Taffermazione
dell'identità del me fisico, che era il sogggtto di quest'azione o di memoria
può dunque sembrare incomprensibile? quando lo afferma un persatore come MORE
GRICE TO THE Mill, noi dobbiamo ammettere che, se esso non è realmente
incomprensibile, bisogna almeno che
quest'apparenza d'incomprensibilità sia reale. Io credo che questa difficoltà AVRAMIDES
WISDOM OTHER MINDS si risolva, ricordando il principio che i fatti stessi più
familiari diventano incomprensibili quando la interpretazione scientifica di
questi fatti è differente dalla loro intoipretnzione prescientifica THE DEVIL
OF SCIENTISM e, per dir cosi, naturale, e riflettendo che questo principio trova la sua applicazione anche nel
fenomeno della memoria, la quale, secondo la credenza naturale, non è una
rappresenrazione, un'immagine della cosa ricordata, come ammettiamo noi, ma
attinge e involge LA COSA STESSA BENJAMIN, come ammette Reid CITATO DA GRICE che
pretende essere il restauratore delle credenze naturali. Ciò che non si vede però ò come questa
incomprensibilità della memoria, cos'i intesa, possa servire a provare
l'esistenza di un me trascendente; ma Mill riconosce che l'incomprensibilità
sussiste egualmente tanto se si respinge quanto se si ammette questa ipotesi.
questa sensazione, col me fisico che è il soggetto delle mie azioni e sensazioni
attuali. Il me fisico dunque, oltre che è concepito come il soggetto, il substratum necessario,
dei fatti psichici, rappresenta, nel nostro pensiero, l'unità e identità della
coscienza NOT A SPLIT PERSONALITY, e dà la coesione alla collezione delle
sensazioni, formando la base comune a cui tutte stanno attac<;ate: ne segue
che, quando noi concepiamo lo spirito, la serie dei fatti della coscienza, come
separato dal corpo, ci sembra che questi
fatti siano quasi delle astrazioni realizzate, degli accidenti senza sostanza,
e che la collezione delle sensazioni abbia perduto ciò che ne costituiva il
legame e la continuità. Di là lo sforzo di restitufre alla serie il suo
substratum e il principio della sua coesione, in altri termini, di sostituire
un equivalenie al me fisico soppresso. Il me trascendente è dunque un
succedaneo della persona fisica, che il
metafisico immagina naturalmente, per conformarsi il più che è possibile a
un'abitudine quasi irresistibile della nostra intelligenza abitudine che genera
una corrispondente tendenza a credere, per la legge psicologica, segnalata da
Mill, che noi tendiamo a credere necessariamente legate le cose stesse le cui
idee sono necessariamente legate, dopo che quest'abitudine non può essere più
soddisfatta nella forma primitiva e genuina, per la separazione dello spirito
dalla sua base materiale. Noi sappiamo infatti ciò di cui la forma secondaria
della nozione di causa efficiente ci ha mostrato un esempio evidente che il
nostro spirito, tutte le volte che una circostanza qualunque viene a
contrariare le sue tenclenze naturali, e che così esso è costretto ad abbandonare le prime concezioni che si era
spontaneamente formato dei fenomeni, è inclinato a modellare le sue concezioni
ulteriori e riflesse intorno a questi fenomeni sulle spontanee e primitive. Ora
il me trascendente L’EGO DELLA APPERCEZIONE non si concepisce che per analogia
alla persona fìsica COGITO ERGO SUM: esso è,
come questa, una sostanza, cioè un essere che sussiste d'una maniera permanente ed è
sempre lo stesso nella successione dei fenomeni psichici; il soggetto o
snbstratum, a cui questi fenomeni ineriscono; e ciò la cui unità e identità è
la base dell'unità e identità della persona THE CONCEPT OF A PERSON AYER
STRAWSON. È sempre il fantasma del corpo, per quanto le forme sotto cui il
filosofo lo concepisce possano essere lontane dall'antica teoria dell'anima fantasma.
Quando la sostanza spirito è concepita come: immateriale, e al tempo stesso
come un che di distinto dai sentimenti, pensieri, ecc., in una parola dai fatti
della coscienza, si ha necessariamente l'idea di una sostanza sconosciuta e
misteriosa di cui non ci è possibile di formarci alcuna nozione, tutte le
nostre nozioni reali non avendo altri
oggetti che i corpi, le presentezioni dei sensi esterni, e i fatti del
senso intimo, della coscienza: inoltre la dottrina ha questo difetto evidente,
al punto di vista della logica, di supporre una forma dell'esistenza che non ha
alcuna analogia nell'esperienza. Così la dottrina dei cartesiani e di altri
filosofi, che la sostan Il filosofo
spiritualista somiglia al re Lear di Shakespeare, comanda: Chi sa ^i essi chi sono io? za dell'anima consiste
nel pensiero ovvero nel sentimento, nella percezione, ecc. quantunque essa sia
quella che si allontana di più dalla forma naturale della teoria della sostanza
anima, vale a dire dal doppio materialismo primitivo, e dalle esperienze
familiari su cui la teoria in generale è modellata, e, per conseguenza, non
possa dare che una soddisfazione meno completa alle tendenze dello spirito che
l'hanno fatto immaginare pure si spiega, non solo come uno sforzo assai naturale
di penetrare l'essenza delle cose, ma ancora per questo vantaggio che e^sa ha
sullo spiritualismo ordinario, di non ammettere altre forme della realtà che quelle che sono date
dairesperienza. Ma è strano che, sia che si tratti dell'essenza dello spirito
sia che si tratti di quella della materia, delle due ipotesi tra cui il
metafisico può scegliere quando le concezioni, più spontanee sono state
abbandonate, e di cui l'una consiste ad ammettere una forma della realtà
assolutamente sconosciuta ed inconoscibile, e l'altra a non riconoscere altra forma della realtà che quella che, è
data nella conoscenza immediata, nella coscienza modo di vedere che, applicato
alla materia, dà luogo al panpsichismo oppure all'idealismo, e applicato allo
spirito, alla dottrina che la sua sostanza consiste ilei pensiero o nel
sentimento ecc. è strano, dico, che delle due ipotesi è la più sperimentale che
è il punto di partenza della metafisica più astrusa e più arrischiata. La prima
conseguenza che si offre allo spirito e senza dubbio la meno allarmante della
dottrina che la sostanza deiranima consiste nel pensiero qui la parola pensiero
deve intenders come il sinonimo di stato di coscienza in generale è la
proposizione cartesiana che l'anima pensa sempre. In effetto ima sostanza deve
esistere d'una maniera continua; così se in
questa sostanza non vi ha altra cosa che il pensiero, o piuttosto se
essa non è altra cosa che il pensiero, non può mai darsi un istante in cui essa
non abbia qualche pensiero. Se l'anima cessa un istante di pensare, la sostanza
sarebbe allora annichilata, e una nuova sostanza sarebbe creata, quando l'anima
ricomincia a pensare. TJn'alra conseguenza è la teoria delle idee innate.
Questa teoria è già virtualmente
contenuta nella dottrina che l'anima pensa sempre. È ciò che Locke comprese
perfettamente, quantunque egli sembri
non aver visto che il punto essenziale a decidere tra lui e ì cartesiani era
precisamente se, come egli 1'assume senza provarlo, la sostanza dell'anima dove
riporsi in qualche cosa di sconosciuto, ovvero in ciò che solo è attestato
dalla coscienza. Se l'anima pensa
sempre, domanda Locke, quali sono le idee che si trovano nell'anima d'un
fanciullo, prima della, sua unione col corpo, o al momento preciso di questa
unione, prima d'aver ricevuto alcuna idea per la via dei sensi? Bisogna allora
che lo spirito abbia delle idee che gli sono naturali, e che egli non ha
ricevuto per l'intermediario del corpo. In verità dalla supposizione che1'anima
pensa sempre, non ne segue, come osserva il traduttore francese
Coste,.Saggi snirintend, JHqti. che l'anima abbia avuto delle idee
prima di essere stata unita al corpo, poiché essa potrebbe aver cominciato ad
esistere nel momento stesso eh'essa è stata unita al corpo: ma Coste non
dovrebbe concludere da quest'osservazione che sin dal primo momento
dell'esistenza dell'anima, i sensi possono fornirle delle idee, comunicandole
le impressioni degli oggetti esteriori. Prima che l'anima abbia una sensazione,
il corpo deve comunicarle l'impressione ricevuta dall'oggetto esteriore; la
sensazione è la reazione dell'anima che segue all'azione del corpo su di essa
nell'ipotesi che il corpo e l'anima siano due sostanze; dunque l'anima deve
esistere prima di sentire. Ma inoltre la
necessità che vi sia nello spirito qualche cosa che non sia dovuta al corpo, è
una conseguenza necessaria del concetto che lo spirito esiste indipendentemente
dal corpo, senza di che esso non potrebbe essere una sostanza. Se tutto ciò che
vi ha nello spirito di reale non è che un effetto, sia immediato, sia mediato,
dell'azione del corpo, allora l'esistenza stessa dello spirito sarà una
conseguenza dell'azione del corpo, lo spirito, per esistere, dipende dal corpo,
non esiste per sé stesso, e per conseguenza non sarà una sostanza. La necessità delle idee innate
deriva per Cartesio dalla definizione stessa della sostanza una volta che egli
concepiva lo spirito come una sostanza, e come una sostanza consistente nel
pensiero: una cosa che non ha bisogno se non che di se stessa per esistere, o,
per non pregiudicare alla dipendenza delle cose finite da Dio, che può esistere
senza l'aiuto d'alcuna cosa creata. E la definizione cartesiana è perfettamente
esatta: i fenomeni, cioè i cangiamenti, delle sostanze, vale a dire dei còrpi,
dipendono dall'azione di altre sostanze, di altri corpi; ma l'esistenza stessa
dei corpi è indipendente da quella di altri corpi. Deve esservi dunque nella
sostansa anima, come nei corpi, qualche cosa di proprio che le appartentenga
per sua natura e che non sia una conseguenza dei suoi rapporti con altre
sostanze: ma niente resterebbe all'anima di proprio e appartenente ad essa por
sua natura nella supposizione che tutto ciò che vi ha in essa non è che
pensiero se tutte le sue idee fossero nate dai sensi, e, quindi, aA^ventizie e dipendenti dal corpo. Princijnì
della filosofia, Ecco come l’anonimo
cartesiano, autore del Trattato della natura dell'anima e dell'origine delle
sue conoscerne contro il sistema di Locke e dei suoi partigiani, stabilisce che
vi sono delle Idee che i-uomo riceve da Dio prima che 1 sensi possano agire su di lui: L'anima essendo
essenzialmente spirituale, essendo stata creata
pensante, bisogna necessariamente che sin da questo primo Istante vi sia
<iua]che 1 roale al qiiile es=ja pen^a; perchè potrebbe dirsi che
In questo primo momento Tanlma pensa a nulla? Pensare a nulla e non pensare
affatto è la stessa cosn. Se dunque si ammette che Tanima pensa tosto che essa
comincia ad esistere, si deve indlspensabilanente convenire ancora che essa ha
sin d'allora un oggetto a cui essa
pensa. Lelbnitz obbietta a Locke: Questa tavola rasa di cui tanto si parla non è a mio avviso che una finzione Quelli
che parlano tanto di questa tavola rasa, dopo d'averle tolto le Idee, non potrebfcero dire che cosa le
resti Mi si risponderà forse che questa tavola rasa dei filosofi vuol dire che
l'anima non ha naturalmente ed originariamente che delle facoltfi nude. Ma le
facoltà senza qualche atto, in una parola, le pure potenze della scuola, non
sono ^he Il concetto delle idee innate non è così innocente al punto di vista
della correttezza intrinseca come quello della continuità del pensiero
nell'anima. Se, come abbiamo visto nel saggio, è dell'essenza stessa del
pensiero di risolversi in elementi sensoriali, un preteso pensiero che non
constasse di elementi sensoriali, non sarebbe un pensiero secondo il solo
concetto concepibile che noi possiamo formarci del pensiero: la teoria delle
idee innate è dunque un concetto metafìsico nel senso più stretto, non essendo
un semplice errore di fatto, ma un'impossibilità logica. Ma quand'anche non
fosse così, questa teoria mefiu2ionl, che la natura non conosce, e che non si
ottengono che facendo delle astrazioni N, S, sull'intend, Le idee innate in
Lelbultz rlposcino sulla base stessa che In Carlerlo: quantunque talvolta egli
si o;ipongi alla dottrina cartesiana nella sostanza dell'anima p. e. neW Esame
di MelebrancUe, ed.Dutens, ove dice: lo spirito non è 11 pensiero, come dicono
i c^rteslanl, ma un soggetto o un concretnm che pensa, tuttavia la sua propria
dottrina, in ottima analisi, non differisce essenzialmente da quella di
Cartesio. Nelle monadi non vi ha altra cosa che percezioni ed appetiti; anzi,
le monadi non sono altra cosa che rappresentazioni di lenomeul col transito a nuovi fenomeni, cioè che
percezicnl ed appetltl. E iu queste proposizioni che dobbiamo vedere
l'espressione del vero pensiero pi Lelbultz, perchè la monadologia, come tutte
lo altrevarietà del panpsichismo, suppone il principio che non si può ammettere
altra forma della realtà che quella che è data nella esperienza immediata,
nella coscienza. Citiamo infine Rosmini: I filosofi che immaginano 1'uomo a
principio piivo di ogni sentimento, lo fanno veramente una statua: e quando in
questa statua, che non è un soggetto sensitivo, pretendono che al toccamento
del corpi esterni nascano le sensazioni, sebbene nella statua nulla ci sia di
simile, descrivono allora un procedimento GRICE PROCEDURE Inesplicabile, un
mistero contrario all'ordine consueto della natura. Dico un procedimento GRICE
PROCEDURE inesplicabile, perchè si fatta origine del sentimento, che comincia
di tratto a trovarsi là dove punto non c'è, oltrepassa l' Intelligenza nostra
({uanto la creazione dal nulla.Tale Ipotesi è altresì contro l'ordine costante
della natura, la quale HiU ^ i riterebbe sempre di avere un posto nella storia
dei concetti metafìsici in questo senso più stretto, in grazia almeno della
dottrina della visione ideale^di cui essa è uno dei punti di partenza. Tutte le
volte che si ammettono nello spirito delle conoscenze indipendenti
dall'esperienza, nasce il problema di
spiegare la possibilità e l'origine di queste conoscenze; e una delle soluzioni
che si presenta naturalmente al metafìsico è che queste conoscenze vengono da
una percezione sovrasensibile, intellettuale. Questa spiegazione si conforma
perfettamenfe al tipo generale delle spiegazioni metafìsiche, che consiste a
ricondurre il fatto a spiegare, vero o supposto, alle nozioni che ci sono più
familiari. Ciò è tanto vero che la dottrina della intuizione ideale suppone che
l'oggetto intuito è immediatamente presente al pensiero intuente, della stessa
maniera che il realismo naturale suppone che 1'oggetto percepito dai sensi è
immediatamente presente nella percenon opera per salto; e eerto vi sarebbe un
saUo, ove noi . al tocco che di uol fa un corpo esterno, passassimo dil non
sentir punto noi stessi, a senti, e di repente e noi stessi e qualche cosa
fuori di noi. Contemporaneo a quel movimento esterno, che non ha nulla di
slmile con la sensazione, si sarebbe, per così dire, acceso in noi e creato uno
spirito; polche quale idea ci possiamo noi formare deUo spirito privo al tutto
di qualunque sentimento e di qualun ine pensiero? Lo spirito non ha estensione
né altre qualità di corpo; togliete a lui anche le qualità dello spirito, che
sono il sentire e l'intendere, e voi l'avete annullato, o certo nella vostra
mente l'idea di uno spirito è al tutto svanita; purché supplendo voi a quella
con un giuoco della vostra immaj?Inazione, non v'immaginiate poi, o fingiate
d'Immaginarvl, uno spirito d'una specie
quale non è data nò
dali'osservazlou» uè dalla coscienza, e noi mettiate nel luogo dello spirito
vero del quale avete cancellata l'idea N S, snll'orig, delle idee. zione
sensibile, quantunque la gran maggioranza dei filosofi rigetti, su questo
punto, la credenza naturale, sostituendole la teoria che ciò che lo spirito
percepisce immediatamente è, non l'oggetto stesso, ma una rappresentazione
dell'oggetto VISUM GRICE WARNOCK. Ora la prevalenza, nella scienza, della
teoria rappresentativa non impedisce che la maniera più familiare di concepire
il fatto della percezione in cui lo stesso filosofo rappresentazionista lo concepisce spontaneamente tutte le volte
eh'egli ha una perceziona sia appunto quella del realismo naturale. Così è su
questa, non sulla nozione scientifica della percezione rappresentativa, che
il metafisico modella la sua visione
ideale: Malebranche non dubita della dottrina generalmente ammessa dai
filosofi, che noi non percepiamo i corpi che per l'intermediario di una rappresentaziene
VISUM GRICE WARNOCK; ma se egli avesse ammesso, in conseguenza, che è di questa
stessa maniera che noi vediamo le idee in Dio, la visione ideale non sarebbe
stata più per lui una spiegazione delle
idee innate, perchè egli non avrebbe ricondotto, allora, il fatto da spiegare
alle nozioni più familiari del nostro spirito, La dottrina che lo spirito è una
cosa che dura La dottrina delle idee innate può essere cosi bene li principio
che la conseguenza, della dottrina dell'Intuizione intellettuale. Quando
troviamo la dottrina deli'intuizione intellettuale unita a quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o
ad un'altra analoga sulla sostanza dell'anima, la quale supponga che questa
contenga in sé delle idee anteriormente all'esercizio dei sensi come p. e. nel
sistemi di Matebrauche e di Rosmini, evidentemente noi dobbiamo considerare
come uno almeno dei punti di partenza della dottrina ccxx continuamente che
esso pensa sempre, e quella che esso
esiste per se, che, per esistere, non dipende dal corpo, avvicinano certamente
la nozione dello spirito, concepito come non contenente in se altra cosa che il
pensiero, alla nozione di una sostanza: ma perchè V assimilazione dello spirito
alla sostanza sia la più completa possibile, bisogna anche ammettere in lui un
fondo permanente, un elemento che persiste sempre lo stesso, nel mutamento continuo dei fenomeni, e che sia il
sustrato in cui questi fenomeni cangianti ineriscono. È questa la proprietà più
caratteristica della sostanza, per cui noi V abbiamo definita. Ora, nella
supposizione che nello spirito non vi sia altra cosa che pensiero, o
sentimento, ecc., in una parola che tutto il suo contenuto debba essere
concepito per analogia ai dati della coscienza, questo fondo permanente dello spirito, questo
sustrato dei suoi fenomeni cangianti, non può essere altra cosa che
delMntult3 li dottrina delle idee
innate, e quella j^ulla »o«itanza
dell'anima come punto di partenza più lontano. Ma la dottrina dell'intuito non
è stata immaginata soltanto per ispiepai-e le idee innate: considerata In
generale, essa ha per oggetto di spiegare le idee e le contS'tnie che si suppongono indipendenti
dall'esperienza, qualunque sia 11 motivo che faccia ammettere delle idee e
dello conoscenze di questa specIe. È evidente che questo motivo non è
unicamente una certa dottrina sulla sostanza dell'anima: quasi tutti i
metafisici, qua» iunque siano le loro idee sull'essenza dello spirito,
ammettono che le verità che ci sembrano intrinsicamente evidenti, sono Indipendenti dall'esperienza, opinione, che
può riguardarsi corno 11 risultato di un'inclinazione naturale del nostro
spirito. Alla tendenza spontanea che ci fa conslderai'e le verità che sembrano
intrinsicamente evidenti come a priori, si aggiunge questa forma di
speculazione metafisica, che abbiamo studiata qualche pensiero, o sentimento,
ecc., in una parola qualche cosa di analogo ai
fatti reali della ooscionza. Di là il concetto che la sostanza dello
spirito è un sentimento o un pensiero sostanziale, cioè immanente e continuo
GRICE PERSONAL IDENTITY, di cui tutti i fenomeni transitori della coscienza
sono dei modi di essere, come tutti i fenomeni transitori del corpo sono dei
modi di essere della sostanza del corpo, che persiste GRICE PERSONAL IDENTITY al
di sotto di questi cangiamenti. I Cartesiani non potevano mancare di sviluppare
in questo senso la dottrina del maestro. L'essenza dello spirito, dice
Malebranche, non consiste che nel pensiero, come l'essenza della materia non
consiste che nell'estensione Per questa parola pensiero io non intendo lo
modificazioni particolari dell'anima, tale o tal altro pensiero, ma il pensiero
sostanziale, il pensiero capace di ogni
sorta di modificazioni o di pensieri, come per l'estensione non s'intende una
tale o tal altra estensione^ la rotonda
e VII., il cai oggetto ò di convertire Ife verità o pretese verità Induttivo in
verità intrinsicamente evidenti, e quindi a priori. Ciascuno di questi motivi
della teoria delle conoscenze a priori può avere per effetto mediato la
dottrini dell'intuito razionale, e
quella delle idee innate che ne è la conseguenza. Un altro motivo che produce
la dottrina delle idee innite per la mediazione di quella dell'intuito, può
trovarsi nella stessa teoria ordinaria sulla sostanza dello spirito, che
considera questo come un che di di«tinto dai fenometil della co^clenzi, e di
sconosciuto nella sua essenza spiritualismo. Quando il filosofo spiritualista
ammette la dottrina della po;'ceeione
immediata degli oggetti esteriori ciò che è la regola nella filosofia
spiritualista - egli è naturalmente portato ad estendere per nnalogla la stessa
dottrina alla sostanza me, ciò che Implica Videa innata del ME DI GRICE come
sostanza almeno quando si «uppoue, come sembra il più naturale, che questa
percezione che IL ME DI GRICE HA DI SE
STESSO è Immauante, o la quadrata, ma
l'estensione capace dì ogni sorta di modificazioni o di figure. L'autore
paragona altrove le differenti percezioni particolari dell'anima di GRICE,
relativamente alla sostanza dell'anima di GRICE, cioè alla percezione o
pensiero sostanziale che ne costituisce l'essenza, alle differenti figure che
può ricevere la cera, relativamente alla cera stessa. Regis definisce l'anima:
un pensiero che esiste in se stesso e che è il soggetto delle diverse maniere
di pensare. Egli distingue il pensiero, che costituisce la sostanza dell'anima
di GRICE, e i pensieri particolari, che non ne sono se non delle modificazioni
differenti: vi ha questo divario tra il pensiero, che costituisce LA MIA NATURA
DI GRICEl, e quelli i quali non sono che dei modi di essere, che il primo è un
pensiero fisso e permanente, e gli altri sono cangianti e passeggieri.
Ma il pensiero che costituisce LA MIA NATURA DI GRICE non è il pensiero in
generale una semplice astrazione ma un pensiero fìsso, singolare e determinato,
che è il soggetto dei pensieri particolari. Arnauld dice: I cangiamenti che
avvengono nelle sostanze semplici non le fanno essere una cosa diversa da quella che erano. Ciò è appunto quello,
per cui le cose o le sostanze si distinguono dai modi o maniere di •essere, che
si possono anche chiamare modificazioni. Ma le vere modificazioni non potendosi
concepire senza concepire la sostanza di cui esse sono modificazioni; se LA MIA
NATURA DI GRICE è di pensare, ed io posso I
Rie. della ver. Rie. della ver..
Plouquet Esame del fatai, e. H'*.
pensare a diverse cose senza cangiare di natura I AM THINKING OF HITLER, è necessario clie questi diversi pensieri non
siano se non che differenti modificazioni del pensiero che fa LA MIA NATURA DI
GRICE. Porse vi ha IN ME GRICE qualche pensiero che non cangia, e che si
potrebbe prendere per l'essenza DELLA MIA ANIMA DI GRICE. Io ne trovo due che
potrebbero credersi tali: il pensiero dell'essere universale, e quello che
1'anima ha di se stessa; perchè sembra che 1'uno e l' altro si trovi in tutti
gli altri pensieri: quello dell'essere universale, perchè tutti i pensieri
raccliiudono l' idea dell'essere IL SUM DI GRICE, non conoscendo L’ANIMA NOSTRA
DI GRICE alcuna cosa se non sotto la nozione di essere RES COGITANS RES EXTENSA
o possibile o esistente è il germe della dottrina di Rosmini sull'essere
ideale; e il pensiero che L’ANIMA NOSTRA DI GRICE ha di se stessa, perchè di
qualunque cosa io conosca, conosco che la conosco, per una certa riflessione
virtuale, che accompagna tutti i miei pensieri GRICE PIROTOLOGY INCORRIGIBILITY
PRIVILEGED ACCESS. L'esempio più notevole di
quest'applicazione del concetto di sostanza ai fenomeni della coscienza
si trova senza dubbio nella filosofia di SERBATI: la sua dottrina sul sentimento fondamentale e
quella sull'intuizione dell'essere ideale non hanno altro scopo che di trovare
tra i fenomeni del sentimento e del pensiero la sostanza dell'anima di GRICE,
cioè questa cosa permanente GRICE PERSONAL IDENTITY, di cui i pensieri e i sentimenti successivi GRICE
PERSONAL IDENTITY non sono che dei modi di essere. Ma per l'importanza di
questa dottrina nel sistema di Rosmini, e l'importanza di questo sistema nella
fìlo. Delle vere e delle false idee^sofia nazionale ITALIANA, ne faremo
un'esposizione particolareggiata in un Supplemento: è ad esso che rimandiamo
per una maggiore delucidazione di questa
forma del concetto di sostanza anima, che cerca questa sostanza nei fatti
stessi della coscienza. Qui termineremo per un'osservazione generale sulle
diverse forme di questo concetto: è che i diversi modi in cui è stata concepita
l'essenza della sostanza anima non sono, al fondo, che quelli stessi in cui è
stata concepita l'essenza della materia. La materia è stata concepita: Come materiale mi si permetta di
esprimermi così, cioè conformemente alla nozione ordinaria e naturale che gli
uomini si fanno della materia, come una cosa estesa, visibite, palpabile, ecc.,
ciò che è la sola rappresentazione reale che lo spirito umano può formarsi
della materialità questo concetto della materia ha il suo riscontro nella forma
primitiva della dottrina animista, che
Bain chiama il doppio materialismo. Come una cosa sconosciuta e inconoscibile
J’AI NE SAIS QUOI, punto di vista al quale devono anche ricondursi le dottrine
cosi dette dinamiche, che risolvono la materia in elementi semplici, cioè
assolutamente indivisibili e inestesi a questa concezione della materia
corrisponde lo spiritualismo ordinario. Come consistente in percezione e appetito monadologia di Leibuitz o volontà
Schopenauer, Biran, ecc: o tendenza, ecc:, in una parola come analosfa alla
realtà che ci è data nella coscienza è, d'una maniera generale, la dottrina che
abbiamo chiamato panpsichismo, alla quale corrisponde quella che la sostanza
dell'anima consiste nel pensiero, o nel sentimento, ecc.. Che i tre soli modi
possibili di concepire la materia si ino
pure i tre soli modi possibili di concepire la sostanza dello spirito, non è un
fatto sorprendente, anzi è necessario, perchè noi non possiamo pensare che con
le idee che abbiamo, e l'idea della materia e quella della sostanza, che ciò si
riconosca o no, non sono due idee distinte, ma una sola e stessa idea. Ma prima
di finire non sarà forse inutile di mettere in guardia il lettore contro
un possibile malinteso. La dottrina che
non ammette che lo spirito sia una sostanza^ non sopprime l'opposizione
radicale tra lo spirito e il corpo, anzi è una conseguenza di questa opposizione,
perchè se si nega la sostanzialità dello spirito, è appunto per l'impossibilità
di applicare allo spirito un concetto, che non conviene se non alla materia. Da
ciò che lo spirito non è una sostanza non si
deve concludere che lo spirito è niente ONTOLOGICAL MARXISM, o che la
materia ha una realtà piti grande che quella dello spirito. Al contrario, tutti
coloro per cui lo sviluppo della filosofia, da Cartesio sino ai nostri giorni,
non è il libro chiuso dai sette sigilli, sanno che lo spirito è un fatto mentre
la materia non è che un'ipotesi, e un'ipotesi che presenta le più gravi
difficoltà che noi svilupperemo e
discuteremo, perchè sono esse che danno l'impulso alla evoluzione della
concezione realista del mondo esteriore GRICE MOORE, determinando le forme
metafisiche di questa concezione. La dottrina di Rosmini sulla sostanza
dell'anima è una conseguenza del principio fondamentale della sua filosofia
principio in se stesso rigorosamente sperimentale che la realtà è costituita dal seutimento. Cosi il suo
concetto della sostanza dell'anima si ottiene fondendo insieme queste due idee
incompatibili, quella di un sentimento e quella di una sostanza. L'anima, dice
Rosmini, è un sentimento originario e stabile, principio e soggetto di tutii
gli altri sentimenti. è un sentimento sostanziale o un sentimento sostanza: fio
d' una persona GRICE PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON è il sentimento proprio e
incomunicabile di questa persona GRICE PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON. La
facoltà, di sentire è costituita da un atto primitivo e permanente GRICE
PERSONAL IDENTITY che è la base e la radice di tutti gli atti avventizi e
mutabili di questa facoltà: quest'atto originario – SOMEONE IS HEARING A NOISE
--- e immanente del senso Rosmini lo chiama il sentimento fondamentale, ed è in
esso che fa consistere la sostanza del principio SENZIENTE, dell'anima
puramente sensitiva. Le prove di cui Rosmini si vale per istabiLro
l'esistenza del sentimento fondamentale, sono generalmente Psic, ecc.;
ecc. N. S, Psic KB.Tc^os.
ecc. fondate sul con(3etto della
sostanzialità deir anima non che su
quello dell'unità e dell'IDENTITA DEL ME GRICE PERSONAL IDENTITY, lo' quali
suppongono secondo lui 1'unità e L’IDENTITA
DEL NOSTRO SENTIMENTO NELLA PLURALITA E IL CANGIAMENTO DEGLI STATI DELLA NOSTRA
SENSIBILITA, in modo che sia sempre LO STESSO – FLEW JONES SAME SELF THE SELF sentimento
nei suoi diversi modi. Il sentimento fondamentale è IL SENTIMENTO DELL’IO
PERCETTIVO DEL PROPRIO CORPO: esso è unico, ma comprende, come due poli opposti
e inseparabili, un principio e un termine, cioè un soggetto che percepisce e
una cosa che è percepita THE SOUND
SOMEONE IS HEARING, Questa cosa che è
percepita THE NOT RED OF THE PILLAR BOX col sentimento fondamentale è il proprio
corpo: il nostro corpo o almeno tutte le parti sensitive del nostro corpo
SOMEONE IS HEARING A NOISE WITH HIS EARS AND NOT SEEING THE RED PILLAR BOX WITH
HIS EYES è da noi abitualmente e uniformemente sentito d'una maniera intima che
non bisogna confondere con le percezioni dei scusi esterni, quantunque questo
sentimento, per essere coniiuuo e sempre
il medesimo GRICE SAMENESS, suole sfuggire alla nostra osservazione. Questo
sentimento intimo, per cui ranima percepisce il proprio corpo, è, nel suo stato
normale, un sentimento di piacere blandamente e equabilmente diffuso in tutta
Testensione del corpo almeno del corpo sensitivo, o più propriamente V estensione di questo corpo è
una proprietà, un modo del sentimento
stesso poiché secondo Rosmini il corpo MY HEAD WAS HIT BY A CRICKET BAT non è se non in quanto è sentito, e non esiste
se non nel sentimento BERKELEY WARNOCK AUSTIN GRICE. Ps., eco. Ps. m TI,, N.
^, ecc. N. S, eoo.
Ps, eoo. <5) N.
S, sez. il studio
di G. suUa dottrina di Rosminr sull'essenza della materia Notiamo che
questa dottrina e quella del sentimento
fondamentale sono intimamente connesse, e si suppongono l'una con Il sentimento
fondamentale è a noi innato THAT BABY IS HEARING A NOISE, perchè esso è rio, e noi siamo innati a noi
stessi; esso non ci manca mai, in alcun momento della nostra esistenza, perchè
noi non possiamo mancare a noi stessi; infine esso persiste nel flusso continuo
degli altri fenomeni avventizi dello spinto, perchè IL ME, LA PERSONA, GRICE, persiste
ed è sempre identica a sé stessa. Ma è evidente che questa persistenza del
sentimento fondamentale, nella successione dei sentimenti avventizi e transitori, non sarebbe
sufficiente per se sola a riguardare questo sentimento come il me o la sostanza
dell 'aI l'altra. Mentre, da una parte, senza la i)ermanenza del sentimento
fondamentale la permanenza, e quindi la nmltà, del corpo sarebbe impossibile,
dall'altra parte, senza l'inesistenza del corpo nel principio senziente, senza
il panpsicltlsmo di Rosmini, la sua dottrina sulla sostanzialità dell'anima
sensitiva sarebbe senza motivo. Perchè Rosmini cerca una sostanza, un quid
permanente, che sia il sustrato dei fenomeni dell'anima sensitiva? Perchè
questo sustrato non può essere pia per lui IL ME FISICO GRICE PERSONAL IDENTITY
THREE SENSES OF I -- , il corpo: infatti come i fenomeni dello spirito
potrebbero avere per sustrato 11 corpo se
questo non è esso stesso che un fenomeno dello spirito? L'ipotesi della
sostanzialità dell'anima in Rosmini non ha per oggetto, come nel'animismo
primitivo, di spiegare l'origine della vita e il passaggio dalla vita alla morte: la vita, per Rosmini, non sorge, né si
perde, nel seno della materia bruta; tutta la materia è per lui animata, e le
anime degli elementi materiali che costituiscono un individuo vivente, organizzato, sono degli
elementi costitutivi dell'anima di quest'individuo. L'esempio di Rosmini ci
mostra della maniera più evidente l'importanza capitale del secondo dei due
motivi che noi abbiamo assegnato alla dottrina che lo spirito è una sostanza cioè
quello risultante dall'associazione intima dell'idea dello spirito con quella
del corpo per ispiegare le forme della
dottrina che ripongono questa sostanza negli stessi fenomeni della
coscienza. N. S., ecc. N. S,, Psic.
IGS., eco., Teos., eoe. Dima: perciò è
necessario ancora che questo sentimento abbia con gli altri fenomeni della
sensibilità lo stesso rapporto che la sostanza ha coi suoi accidenti o modi di
essere. In effetto se il sentimento fondamentale non fosse in tale rapporto con
gli altri sentimenti, se esso non fosse il soggetto a cui questi si
riferiscono, l'ipotesi del sentimento fondamentale non farebbe che aggiungere
un'altra sensazione a questa collezione di sensazioni, in cui fanno consistere
IL ME DI GRICE quelli che non ammettono che IL ME E UNA SOSTANZA – GRICE BROAD
PURE EGO THEORY: mentre Rosmini cerca ciò che dà l'unità alla collezione delle
sensazioni, questa sostanza ME DI GRICE che
tutte le raccoglie ed unizza, perchè tutte in essa ineriscono. Il sentimento
fondamentale è così chiamato da Rosmini, perchè è in esso, secondo lui, che
sono fondate tutte le altre sensazioni e fra queste bisogna comprendere le
riproduzioni che fa V immaginazione delle sensazioni passate. Il sentimento
fondamentale è dunque la sede delle sensazioni avventizie, e queste ad esso si attengono come a loro
sustrato. E in effetto l'estensione del nostro corpo da noi continuamente
percepita col sentimento fondamentale, è la sede in cui tutte le sensazioni
avventizie vengono percepite; poiché secondo Rosmini l'estensione è un dato
comune di tutte le sensazioni, l'estensione percepita di ogni sensazione
essendo l'estensione stessa dell'organo in cui essa ha la sua sede. Ciò non è vero soltanto delle
sensazioni Interne, che noi localizziamo in punti determinati del N. S, Teos.,
Ps., eco. Psic. Ps., Teos. N. S., Ps., Teos. B.
eoo. V nostro corpo: ma le stesse sensazioni esterne, che ci danno le
nozioni degli oggetti esteriori, hanno un'estensione identica a quella
dell'organo percipiente, poiché tutte le percezioni dei sensi esterni si
riducono secondo Rosmini al tatto, e noi
non percepiamo che la superficie dei corpi esterni, in quanto essa coincide e
s'identifica con la superficie dell'organo percipiente, sicché V estensione
immediatamente percepita nelle sensazioni esterne non è che l'estensione stessa
del sentimento fondamentale. Di più, siccome il sentimento fondamentale, che è
naturalmente un sentimento di piacere, ma
che può variare, rendendosi più o meno piacevole o anche doloroso
secondo i cangiamenti del corpo, sostiene e contiene tutte le sensazioni
avventizie, cosi il piacere o il dolore accompagna, in qualche grado, tutte le
sensazioni, se pure non voglia dirsi che tutte le sensazioni sono dei modi del
piacere e del dolore. Potrebbe dirsi che il sentimento fondamentale è nella
costituzione dello spirito ciò che lo
scheletro o il nucleo nella costituzione dei corpi: ma Rosmini trova che queste
comparazioni non sono adequate. Queste comparazioni, in effetto, non danno
un'idea esatta della natura del rapporto tra il sentimento fondamentale e le
sensazioni avventizie: questo rapporto non è di quelli che possono correre tra
fenomeni distinti e separati, fra atti distinti e separati dello spirito. Vi è al contrario una relazione
d'inerenza reciproca tra il sentimento fondamentale e le sensazioni avventizie,
perchè il sentimento fondamentale è IL ME DI GRICE o la sostanza dello spirito, e perciò N. S.
N. S., eco. Teos..la relazione
fra esso e gli altri fenomeni dello spirito è quella che vi ha fra la sostanza
e gli accidenti, fra Tente e i modi di essere dell'ente. Le sensazioni avventizie e tra esse bisogna comprendere lo
rappresentazioni deirimmaginazione sono delle modificazioni del sentimento
fondamentale: quando una sensazione nuova sopravviene nello spirito, essa non è
già nuovamente creata, ma è una nuova forma che prende il sentimento
fondamentate preesistente, è il sentimento fondamentale stesso eccitato e
modificato, il quale divenendo una nuova
sensazione, il sentimento non muta r essere, ma il modo doir essere. La
sostanza dello spirito, cioè del sentimento, resta la stessa, non cangia che la
forma: è, per ripigliare la similitudine di Malebranche, la stessa cera che
prende un'altra figura. Per conseguenza Rosmini va anche sino ad affermare che
le sensazioni avventizie preesistono, quantunque in un modo diverso, nel sentimento fondamentale cioè nel sentimento
abituale e primitivo deiranima per cui essa percepisce se stessa in unione col
proprio corpo. In questo sentimento originario che costituisce la sostanza
delTanima si contengono tutte queste appendici ch'es5>a prende poscia nel
suo sviluppo. Perchè il senziente resti identico a se stesso, egli deve avere
inerente, sin dal principio della sua
esistenza, un sentito nel quale virtualmente si compreu'lano tutte le
future sensazioni. S., Ps, tav. sinott.
del senso, Teos. eoo. Ps, Ps., Teos. 5.,
iV. S., eoo. Il principio SENZIENTE prima di sentire GRICE SENSING attualmente
la nuova sensazione, la sentiva dunque virtualmente. Ma che cosa vuol dire
sentirla virtualmente – it’s like when Grice says that he has the absence of
experiencing the red pillar box as blue -- ? Se per sentire virtualmente s'intende non
sentire niente affatto, dimodoché vi avesse un passaggio tra il non sentire
affatto e il sentire attualmente NONDISPOSITIONALLY, in tal caso con la nuova
sensazione sorge un principio nuovo di sentire, non resta il precedente
identico; la sensazione nuova non e modificazione di un sentimento ]»i
ecedente, sarebbe un sentimento del tutto nuovo ella s:« ssa Conviene dunque dire che la nuova
sensazione preesiste in un altro modo . quasi nascosta e confusa in un
sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l'energia propria del
principio senziente Secondo questo concetto della virtualità sensitiva un
principio senziente, un soggetto, contiene in sé sentimento fondamentale tutte le sensazioni di cui è suscettivo
restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l'ultima
perfezione dell'atto, in un primo grado di atto, a cui manca l'ultimazione.
Laonde fé si considera quale operazione si faccia nell'anima nostra allorché
noi ascoltiamo un concerto di musica, converrà dire che tutta quell'armonia che
si sente SOMEONE IS HEARING A NOISE si svoglia ed eccita nell'anima stessa,
dove si trova latente; ella dimora nel sentimento fondamentale e sostanziale
adunata insieme e fusa con tutte le altre possibili sensazioni formanti un
sentimento solo che è appunto il fondamentale, manchevole dell'atto ultimo e
distinto, al quale venne provocato dall'organico eccitamento. Le sensazioni non
sono dunque create di nuovo quando cadono
nella nostra coscienza, ma si estrin
Teos. secano, da implicite diventano esplicite, il sentimento non cangia
Tessere, ma il modo deir essere. Nei luoghi citati e in più altri Rosmini si
rappresenta la mutazione del sentimento, che avviene alla nascita di una
sensazione avventizia, come un passaggio dall'implicito allo esplicito,
dairinvoluto all'evoluto – BERGSON L’evolution creatrice --, dallo stato latente alla manifestazione
esteriore Noi abbiamo visto che è a simili rappresentazioni che si è
generalmente ricorso per mostrare come nei cangiamenti apparenti delle cose
l'essere in se stesso resti nondimeno identico ed immutabile. E cosi che i
Vedantini per far comprendere come l'universo è identico a Brama da cui esso è
uscito usano Timmagine di una stoffa
inviluppata che si sviluppa – GRICE MYRO RELATIVE IDENTITY -- o della testuggine
che fa uscire le membra dalla sua scaglia. Vi ha un'altra immagine usata dai
filosofi vedantini che può fornirci una rappresentazione conveniente del
rapporto che Rosmini stabilisce tra il sentimento fondamentale e le sensazioni
avventizie. I Vedantini comparano Brama al mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano dei flutti,
della spuma e altre modificazioni dell'acqua. L'acqua del mare rappresenta per
essi l'essere primitivo, e i flutti, la spuma, ecc.; l'universo creato. Noi
possiamo invece rappresentare per quella il sentimento originario e abituale
dell'anima, e per questi le sensazioni avventizie. Come i flutti, la spuma,
ecc., non sono fuori del mare, ma in esso,
cosi le sensazioni avventizie non sono fuori del sentimento
fondamentale, ma in esso: e come i flutti, la spuma, ecc.: non sono che l'acqua
stessa modificata, cosi le sensazioni avventici Psic, . zie non sono che lo
stesso sentimento originario e immanente dell'anima modificato. Rosmini spinge
sino al limite estremo l'assimilazione dello spirito i fenomeni della coscienza
ad una sostanza; egli applica al mondo interiore della coscienza l'assioma
degli antichi filosofi che Tessere non può venire dal non essere GRICE NEGATION
AND PRIVATION, che niente nasce e muore, che il reale è, al fondo, immutabile;
principio che é una generalizzazione dei fenomeni r»iù familiari
dell'esperienza, ma semplicemente dell'esperienza esterna; ma una volta che
Rosmini concepisce lo spirito come una sostanza, il soggetto come un oggfMto,
non deve trovarsi strano ch'egli applichi al mondo subbiettivo un principio che
i filosofi ordinariamente non applicano che al mondo obbiettivo. Il sentimento
fondamentale, quale T abbiamo sin qui descritto, rioti esiurisce tutta la
sostanza dell'anima. L'anivna umana non è solo un principio SENZIENTE: se non
fosse che questo, essa non potrebbe
sopravvivere alla morte del corpo; perchè T attività del senso è condizionata
dalle funzioni degli organi e quindi dall'esistenza del corpo vivente. L'anima
sensitiva non perisce del tutto secondo Rosmini alla morte dell'animale, ma essa perde la sua individualità: come essa
si è formata, con la formazione del corpo vivente, per la composizione delle
anime degli elementi materiali di cui il
corpo è stato composto, cosi essa si discioglie in queste anime elementari, con
la dissoluzione dei corpo nei suoi elementi. O piuttosto, siccome la vera
sostanza non è per Rosmini che T anima', il corpo non essendo che un sentito, e
non esistendo che in e per il principio SENZIENTE, cosi è l'anima sola Psic, eoo.
V. il studio di G. sulla dottrina dell'essenza della materia in Bosmini. 6 in realtà che sì
compone e si diacioglìe, queste anime elementari di cui essa si compone e in
cui si discioglie, essendo al pari di essa dei sentimenti sostanziali, in
ciascuno dei quali inerisce come suo termine uìì corpo. L'anima sensitiva è
dunque in un senso immortale secondo Rosmini: ma questa immortalità non è quella che il dogma religioso
attribuisce allo spirito umano. Per
salvare l'immortalità individuale dello spirito umano Rosmini unisce neiruomo al principio SENZIENTE
un principio intelligente: questo sopravvive alla dissoluzione delr animale
umano, e può avere un'esistenza separata dal corpo, perchè T attività
dell'intelligenza secondo Rosmini è condizionata necessariamente come quella
del senso a degli organi corporali. Come il principio sensitivo è costituito da
un atto originario ed immanente del sen^o, così il princìpio intellettivo è
costituito da un atto originario ed immanente dell'intelligenza. Un atto
primitivo ed essenziale dell'intelligenza, un pensiero essenziale, è dunque il
sustrato di tutti i pensieri avventizi, come un atto primitivo ed essenziale
del senso è il sustrato di tutte le sensazioni
avventizie. Questo pensiero essenziale, in cui tutti i p-^nsieri sono
contenuti e che tutti suppongono, come tutte le sensazioni sono contenute nel
sentimento fondamentale e lo suppongono, è la più universale o la più astratta
di tutte le idee, l'idea dell'essere. L'intellezione dell'essere è la sostanza
del principio intellettivo, come il sentimento fondamentale del principio
sensitivo. LMdea dell'essere
indeterminato che y, S. S.
Ps, . il principio intellettivo ha inerente sin dall'origine della sua
esistenza, contiene virtualmente tutte le intellezioni future, come il
sentimento fondamentale, tutte le future
sensazioni, perchè tutte le intellezioni possibili non sono che delle
determinazioni dell'idea dell'essere. Que8t'idea è perciò innata, non è un
risultato dell'astrazione, non viene
all'anima dal di fuori per il canale dei sensi: tutte le altre idee sono
acquisite, e nascono dall'unione deir idea dell'essere con una percezione dei
sensi che dà a quest'idea una determinazione particolare. Rosmini paragona l'idea
dell'essere, che costituisce la natura stessa dell'intelligenza, alla tavola
rasa d'Aristotile, 0 ad una pagina bianca su cui le esperienze dei sensi
vengono ad imprimere dei caratteri. La
natura dell'intendimento, dice Rosmini, consiste in uno sguardo continuo che
mira V essere, e che vede tutto ciò che spetta alla ragione dell'essere, come
sono le condizioni e determinazioni dell' essere stesso. L'ente indeterminato
che sta a noi continuamente ed immobilmente presente è come la carta bianca ove
il nostro spirito mira e riguarda. Ora le determinazioni di quest'oggetto non sono che un'aggiunta
accidentale al medesimo, una scrittura sulla detta carta. Quindi con queir atto
medesimo col quale vediamo l'essere, vediamo ancora in lui, e giammai senza
lui, le sue determinazioni, come guardando la carta, noi vediamo pure con lo
stesso sguardo tutti 1 caratteri che vengono in essa tracciati. Pi, , ecc. N,
S, N. S.. N. S. y. S. -7n L'atto
del principio intellettivo, considerato
per se solo, consiste nella semplice apprensione dell'essere universale e
indeterminato: ma l'apprensione dell'essere rivestito delle determinazioni
particolari somministrate dal senso, non è r atto del solo principio
intellettivo, come non è quello del solo principio sensitivo, ma è l'atto di
questa unica e semplice anima dell'uomo, che è al tempo stesso intellettiva e
sensitiva, perchè in essa si comprendono, unificati, tanto il principio
sensitivo quanto l'intellettivo. Rosmini chiama 1'anima dell'uomo, questa unità
del principio sensitivo e del principio intellettivo, IL PRINCIPIO RAZIONALE,
perchè, come H. P. Grice, egli considera la ragione come una risultante
dell'unione della sensibilità e dell'intelligenza KANTOTLE Gli oggetti
che cadono sotto la nostra conoscenza constano secondo Rosmini di due
elementi: un elemento che viene dalla pura intelligenza; è l'essere universale,
r idea del quale costituisce la forma stessa dell'intendimento, e deve perciò
trovarsi in tutti gl'intesi e un elemento che viene dal senso; sono le determinazioni
o differenziazioni dell'essere, separate dall'essere stesso. Di là la
distinzione di Rosmini tra la percezione semitiva e la
percezione intellettiva che con più
proprietà egli avrebbe potuto chiamare percezione razionale Sì.-'la percezione
sensitiva non coglie che il secondo elemento degli oggetti, vale a dire le
determinazioni dell'essere senza
l'essere stesso per cui un sentito come puramente tale non è un essere secondo
Rosmini; la percezione Psic,,.V. S, eoo.Y.
S., ecc. P6ic, Teos., eco.
intellettiva completa la sensitiva, aggiungendo a questa il primo elemento,
cioè 1'essere, e contemplando cosi i sentiti nella forma dell'essere, cioè come
esseri. La percezione intellettiva, questa sintesi primitiva del sentito con
l'idea dell'essere, è il talamo in cui il principio intellettivo si congiunge
col principio sensitivo: essa è r atto
primitivo del principio razionale, di
questo principio unico e duplice al tempo stesso, che costituisce 1'essenza
dell'anima umana. Come la sostanza del principio sensitivo è costituita da un
atto immanente del senso, il sentimento fondamentale animale, e la sostanza del
principio intellettivo è costituita da un atto immanente dell'intelligenza, la
apprensione dell'essere universale, così la sostanza del principio razionale, risultante dall'unione dell'uno
con r altro, è costituita da un atto immanente, che è la sintesi dell'atto
immanente del senso con l'atto immanente dell'intelligenza. L'atto immanente
del principio razionale è una percezione intellettiva, il cui oggetto è il
sentimento fondamentale animale, cioè il principio SENZIENTE congiuntamente al
suo termine corporeo: questa percezione
intellettiva fondamentale si distingue dal sentimento fondamentale
animale, in quanto ciò che nel sentimento animale è puramente sentito, diviene
inteso nella percezione razionale, cioè viene appreso nella forma intellettuale
dell'essere o come essere. Quantunque SERBATI affermi energicamente l'unità
e Ps. X S. Psic. ,
ecc. Ps, la semplicità dello
spirito umano, è evidente tuttavìa che la sua dottrina ò al fondo un vero
dualismo: il principio sensitivo e il principio intellettivo sono associati
durante la vita, ma essi si separano alla morte dell'uomo. Alla quistione come
questi due principii possano costituire un soggetto unico e semplice, Rosmini
risponde che ciò avviene per la percezione che Tun principio ha dell'altro.
Questa percezione è immediata, cioè il percepito si percepisce in se stesso, e
non mediante una sua rappresentazione: per essa avviene runificazione dei due
principii, perchè, quando un principio sente un altro principio, siccome il
principio sentito non è altra cosa che un sentimento, e si tratta di una
percezione immediata^ cosi il principio percepiente s'identifica col principio
percepito, e si veritìca la massima che ex percipiente et percepto fit unum. Questa percezione
uniàcatrice dei due principii non è che la stessa percezione fondamentale che
costituisce la sostanza dell'anima razionale: nella percezione immanente del
sentimento fondamentale animale, Rosmini considera questo come il percepito, e
il principio intellettivo che, secondo lui, è il portatore dell'identità del
soggetto umano come il percipiente.Il
principio intellettivo, che mira continuamente l'essere, vede anche in
esso la sua determinazione particolare, cioè il sentimento fondamentale
animale: questa percezione che il principio intellettivo ha del sentimento
anici) Ps, Psic. . J, Teoa., eoo. Ps. Teos, Psic, ecc.
Psic, Teos, male si concilia, secondo Rosmini, con la dottrina, la quale
esige che, perchè un principio conservi la sua
identità, ciascuno dri suoi atti deve essere virtualmente compreso
nell'atto primo che ne costituisce l'essenza; poiché, il sentimento animale
essendo una determinazione particolare dell'essere, esso è virtualmente
contenuto nell'essere universale, e quindi la percezione del sentimento animale
è virtualmente compresa nella percezione dell'essere universale che costituisce
la sostanza del principio intellettivo.
Noi dobbiamo aggiungere che, mentr*^ da una parte, Rosmini spiega Tunificazione
dei due principii mediante la percezione intellettiva, dall'altra parte egli dà
l'unità del soggetto umauo come ragione e fondamento di questa sintesi del
sensibile e dell'intelK ttualo, che ha^uogo nella percezione iutelleitiva. Cosi
la p rcezione intellettiva è spiegata
per l'unità dello spirito umano, e
questa alla sua volta è spie^fata per la p^^rcezione intellettiva: Rosmini non
spiega dunque l'unità del nostro spirito, essa è inesplicabile nel suo s stema, che, come abbiamo detto, è un vero
dualismo; »ppure la dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'anima aveva lo
scopo di dare un fondamento all'unità e all'identità del mq ! Cosi qui accade
questo fatto strano, che non è pertanto
nuovo nella storia delle dottrine metafisiche, cioè che il fenomeno stesso, che
l'ipotesi è destinata a spiegare, diviene un'obbiezione invincibile contro
questa ipotesi. La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'ain'in \ non 8i
limita a dare una risposta a questa quistione particolare della psicologia
metaempirica: al contrario essa è i Psic. >.iV. S. r'
il punto di partenza di una
moltitudine di speculazioni tanto psicologiche, quanto ontologiche,
sicché il sistema filosofico di Eosmi DÌ non è in gran parte che uno sviluppo e
una conseguenza di questa dottrina. La teorica dell'essere ideale è il
fondamento, non solo di una psicologia arbitraria perchè Rosmini vuol mostrare,
per la analisi delle operazioni dell'intelligenza umana, che esse suppongono
tutteTidea innata dell'essere, ma anche
quello di una metafìsica non meno arbitraria, quest'idea innata dell'essere,
affinchè essa possa avere un valore
obbiettivo, e si comprenda la sua presenza nel nostro spirito indipendentemente
dall'esperienza, supponendo, secondo Rosmini, che lo spirito umano abbia
l'intuizione immediata dell'oggetto reale corrispondente a quest'idea l'essere
universale 0 indeterminato, che noi
predichiamo di tutti gli esseri, è un attributo divino, che viene comunicato
agii esseri ereati; noi percepiamo in Dio quest'attributo, ma senza percepire
la sostanza divina; quebta percezione è immanenie, e costituibcc l'idea
dell'essere continuamente presente al nostro spirito. Di là un'ontologia delle
più .ardue, che non è se non il contracolpo dell'ideologia rcsminiana.
La dottrina dell'essere ideale è ciò che vi ha di più caratteristico
nella filosofia di Rosmini, e ne è ordinariamente considerata come la parte fondamentale; ma chi studia i
concetti metafisici per darsi ragione sovratutto del loro perchè e della loro
origine, non può vedere altra cosa in questa dottrina e in tutti i suoi
sviluppi psicologici e ontologici che una conseguenza di un risultato a
cui Rosmini è pervenuto nella sua
ricerca della sostanza dell'anima. La dottrina giobertiana dell'intuito ohe
sostituisce all'essere ideale o astratto di Bosmini l'essere reale o concreto,
cioè Dio stesso e non uno dei suoi
attributi ha dei motivi in parte analoghi alla dottrina rosminiana. Gioberti
ammette, come Bosmini, che in tutte le facoltà dell'anima vi hanno due stati o
due modi di esercitarsi, l'uno immanente
e continuo, l'altro successivo e discontinuo: il primo è la baso e la radice
del secondo. Il sentimento fondamentale di Bosmini è lo stato immanente del senso;
l'intuito di Dio è lo stato immanente del pensiero o il pensiero immanente. Il
pensiero immanente non è mai assente dallo spirito umano; esso si trova nel
fanciullo, nel dormiente, ecc.; e, se si parla di questo pensiero, è vero di dire che l'anima pensa
sempre. Il pensiero immanente non è un atto particolare del pensiero, ma la
stessa attività pensante, l'essenza stessa del pensiero analogamente, il
sentimento fondamentale non è una sensazione particolare, ma la stessa facoltà
sensitiva, e il simile per le altre facoltà dello spirito. Esso è dunque una
potenza, ma non nel senso ordinario della
parola, che fa della potenza una semplice astrazione, ma una potenza nel
senso leibnitziano, quae conatum involvitj
un ohe di concreto e perciò includente un principio di azione. Il
pensiero immanente essendo l'atto iniziale che costituisce la potenza di
pensare, ne segue che il pensiero successivo non è che un'applicazione,
un'attuazione particolare determinata, del pensiero immanente. Il pensiero immanente ha per oggetto l'ente
universale, il pensiero successivo, le esistenze particolari; quello percepisce
Dio come ente puro, questo percepisce Dio come ente in relazione con le
esistenze, cioè Dio creante gli esseri finiti Protoh, Intuiz. e rifless. E siccome la creazione è secondo GIOBERTI
(vedasi) l'individuazione delle idee generali
Inlrod. Milano, Err, filos.
di Rosmini Brusselle)
che tutte sono comprese
nell'Idea, cioè in
Dio, noi possiamo
dire anche che il
pensiero immanente ha
per oggetto l'Idea
pura, e il
pensiero successivo l'Idea individuantesi o
esplicantesi esteriormente.
Ciò che vi ha di comune tra la dottrina
di Gioberti e quella di Bosmini è il concetto di un fenomeno stabile,
immanente, dell'at"tività psichica, che è il substratum dei fenomeni
transitori. Applicato all'attivila intellettuale, questo concetto importa la
necessità di ammettere un'idea o delle idee essenziali allo spirito e perciò
innate. Per giustificare poi il valore obbiettivo di queste idee innate, quindi
indipendenti dall'esperienza, e spiegare la loro coincidenza con la realtà,
tanto Gioberti quanto Bosmini ammettono un'intuizione ragionale dell'oggetto
intelligibile. Ma le dottrine dei due filosofi non si fondano sovra un
principio assolutamente identico. Il principio della dottrina di Bosmini è che
la sostanza dell'anima oonsiste nel sentimento o, con un termine più generale,
nel fenomeno della coscienza; ciò che è
un'applicazione partioolare del prìneipio più genera/e ohe il reale è
oostitoito daj seniimeuto. Ma non è questo prinoipio o un principio analogo che
può essere il fondamento della dottrina di Gioberti. Perchè, quantunque la
filosofia delle opere postume di Gioberti aia un panpsichismo che risolve ogni
essere nel pensiero e quindi anche la sosttknza
dell'anima, la prima forma della sua filosofia invece riguarda le
sostanze, e per conseguenza anche la sostanza anima, come delle forze
sconosciute, dichiarando la loro essenza
assolutamente inescogitabile. Ora, nella prima forma della filosofia di
Gioberti, si trova già non solo la dottrina dell'intuito razionale come atto
immanente dell'intelligenza e quella del
sentimento fondamentale, ma anche il
concetto ohe quest'intuito costituisce la sostanza aterina dell'intelligenza Il
pensiero è l'intuito dell'Idea; senza questo, esso non sarebbe pensiero, Intr,
Mil. Il possesso intuitivo dell'Idea forma la nostra intelligenza; la
creazione della intelligenza non è altra cosa ohe la comunicazione,
nell'intuito, deU' Intelligibile divino. Errori
Filos, di J^oamini Brusselle,
ecc.. Il fondamento della dottrina
giobertiana deve essere cercato in questa tesi: che la potenza non è
un'astrazione, ma una cosa reale e conereta, e consiste in uno sforzo
spontaneo, in un atto incoato Proleg, del Primato ed. napoletana, ProtoU Napoli. Questa tesi è secondo Gioberti una
conseguenza della concezione dinamica delle cose. E infetti questa concezione
di cui spiegheremo l'origine risolvendo
il reale in forze senza materia, toglie dalle cose questo substratum permanente
che fa si che noi le chiamiamo sostanze poiché la sola idea che noi abbiamo
della sostanza si riduce alla materia.
Ma per un effetto di questa inconscia tendenza che ci spinge ad assimilare
tutte le nostre idee a quelle che ci sono le più familiari, il metafisico dinamista si sforza
di restituire agli esseri la loro
sostanzialità, ristabilendo, sotto un'altra forma, questo substratum
permanente\,oh'essi hanno perduto nella sua dottrina filosofica: in altri
termini, egli cerca di rappresentarsi la forza, cioè l'attività, la potenza,
come una sostanza. Di là risulta, primo, l'idea che la potenza non è mai
inattiva poiché la sostanzialità importa la continuità dell'esistenza; e,
secondo, perchè la SOSTANTIFICAZIONE
GRICE sia più completa, la supposizione di un continuo, immanente, quale
substratum degli atti transitori della forza o potenza, substratum che è alla
sostanza forza ciò che là materia alle sostanze corporee vale a dire il fondo
permanente su cui appariscono successivamente i fenomeni variabili. Questa 1
tesi, ohe ogni potenza è un atto primo e costante, da óul risultano degli atti secondi e variabili, è
comune anche a SERBATI N, S,: ma per
SERBATI essa risulta dal principio che il concettò di realtà è sinonimo di
quello di attività psichica, di coscienza; per Gioberti invece dal principio
che il concetto di realtà sinonima, non con quello di attività psichica, ma con
quello più generale di attività. Dalla fusione del concetto di attività con
quello di sostanza nasce, per l'uno e
per l'altro di questi filosofi, l'idea di un atto immanente come substratum
degli atti transitori di ciascuna potenza: ma l'uno si rappresenta ciascuno di
questi atti immanenti come un fenomeno stabile della coscienza, perchè ogni
attività è per lui attività psichica, coscienza; per l'aitro il concetto di
atto immanente è più esteso che quello di fenomeno stabile della coscienza, perchè il concetto di
attività è più esteso ohe quello di coscienza. Ne segue che per Rosmini i
fenomeni stabili della coscienza, che egli si rappresenta come il substratum
dei fenomeni variabili, esauriscono la sostanza dello spirito, questo, come
tutti gli altri esseri, non essendo per lui che coscienza: per Gioberti invece
questi fenomeni stabili della coscienza non possono costituire tutla la sostanza dell'anima,
perchè egli suppone, al di là dei fenomeni della coscienza, un principio
sconosciuto, da cui essi derivano, che egli
chiama 1' é?8senza dell'anima. Cercando un substratum permanente ai
fenomeni successivi dello spirito, affinchè sia possibile di concepire questo
come una sostanza, e cercandolo in qualche atto continuo e immanente, Gioberti,
come Rosmini, non può trovare altro di
rappresentabile che dei fenomeni della coscienza, immaginati coll'attributo
della continuità e della stabilità; ma per Rosmini questo rappresentabile è
tutta la sostanza dell'anima; per Gioberti invece vi ha di più in questa
sostanza un nucleo oscuro, una cosa ohe sfugge assolutamente alla
rappresentazione, e si chiama l'essenza. Circoscritta nei limiti delle forze di cui possiamo formarci una
rappresentazione cioè le potenze psichiche che sono le sole forze immateriali
di cui abbiamo l'idea-^la dottrina di Gioberti che la potenza consiste in un
atto immanente e per conseguenza l'applicazione di questa dottrina alle facoltà
del nostro spirito riposa dunque sullo stesso fondamento che quella di Rosmini:
la differenza tra i due filosofi è che
mentre il secondo non vuole ammettere delle forze d'una natura diversa da
quelle di cui può formarsi una rappresentazione donde il suo panpsichismo, il
primo estende al di là dei limiti del rappresentabile il concetto di forza
immateriale, e, con esso, quello di un atto immanente quale substratum degli
atti transitori di questa forza.Noi dobbiamo aggiungere infine, perchè non si
dia alle oonsi u derasiom che precedono un'importanza troppo
assolata, che, mentre la dottrina di
Rosmini delle idee innate cioè dell'idea innata dell'esfiore, e quella
connessa dell'intuizione intellettuale, non sono che un risultato delle sue
speculazioni sulla sostanza dell'anima, noi non possiamo, al contrario, vedere
in quest'ordine di speculazioni il motivo unico delle dottrine
corrispondenti di Gioberti. Evidentemente
Gioberti, e gli altri fìloslfi che, come Yoi, ammettono un'intuizione razionale
di Dio e della verità in Dio Agostino, FIDANZA,
Malebranche, Cousin, ecc., ciò che vogliono spiegare per questa dottrina, è, in
generale, la possibilità delle conoscenze indipendenti dall'esperienza, la loro
coincidenza colla realtà. In Rosmini, l'intuizione razionale non spiega
che l'idea innata dell'essere; in questi
filosofi, oltre le idee innate, spiega anche i giudizi a priori. Cosi essa è
anzitutto in questi filosofi una conseguenza dell'apriorismo e dei sofismi
naturali da cui esso deriva. La dottrina delle idee innate è, in tutto o in
parte, una conseguenza di questa conseguenza. Come prova dell’immanenza noi
possiamo addurre in primo luogo i termini di cui Platone si serve per indicare l’idee. Questi sono:
lòéoL specie, forma, il suo sinonimo sl8o^,
yéyoi; genere, cpóot^ natura^, oùaCa essenza ed altri simili: p : e: T
ISéa forma o essenza del pari Fedone,
l'sISog forma o essenza della conoscenza
Crat., gli st^yj specie del piacere Filebo, il y^vos deirinfinito Fil., la
^ùoit; del bene Fil., Voùoioi, del colore Crat.. Questi termini non si
riferiscono sempre alle Idee, ma solo
quando denotano Tuniversale, come negli esempi citati, indicando sia le diverse
specie di esseri l'uomo, Tanimale, il bianco, IL SHAGGY, ecc. considerati in
generale, sìa Tattributo o insieme di attributi comuni a Bammentiamo che,
neirinterpretazione del sistema platonico, bisogna guardarsi dal lasciarsi
influenzare dal senso che la parola idea ha nelle lingue moderne, Come nota Martin e tanti altri
espositori di Platone, e IL PORITICO i primi ohe danno a questo termine un
senso psicologico e analogo a quello che ci è familiare . I neo-platonici,
conformemente alla loro interpretazione del sistema di Platone, intendeno per
idee i pensieri dell'intelligenza creatrice, cause esemplari delle cose, e la
parola ritenne lungamente questo significato
neoplatonico e teologico, per tutto il periodo della scolastica, ed
anche dopo la rinascenza. La diffusione del termine nel senso attuale si deve a
Cartesio, e Locke si scusa di usarlo in questo senso, come di un nelogismo Sag.
sull'int. um. Preamb.. ciascuna specie rumanità, Tanimalità, la bianchezza,
considerati pure in generale. Naturalmente vi ha un'infinità di luoghi in cui
questi termini sono impiegati con questo
significato generale, e in cui è evidente che ri8éa, Velòoz, il Yévo^, ecc., di cui si tratta, non sono delle entità
trascendenti, cioè poste fuori delle coso di cui si dicono I8éa, el8og, vévog,
ecc.: se non che, l'in per es., per il
termine elfio^ : Polit. Sof.
Fil. Teet. Crat. Fedro Conv. Meno. Eutiphr. Rep. Tim. Leggi ;
a; Parm. di VELIA le Idee sono chiamate le
specie degli esseri: s18y) xc5v òvt(i)v); eco. Per n termine lÒéoi,:
Fil. Fedo. PoUt. Sof. Fedro
Eutiphr. Crat. Conv. Tim. Rep. Parm. di VELIA le Idee sono chiamate lòéoLi XCDV
OVXODV pure perciò Ar. Met.; ecc. Per la parola yévoc: Sof. Fil. Polit.
Tim. Aristotile chiama le Idee platoniche ^ivY]
iffiv ÒVX(i)V Met. IliriII). Per
la parola cpóot^: Fil. Crat. Teet. Fedro
Tim. Polit. Leggi Per la parola oòaCa:
Fedo Crat. Il termine oùoCa nel significato di essenza prova, d'una maniera più
palpabile che gli altri, rinerenza delle Idee nelle cose: come terprete che
ammette la trascendenza delle Idee plaloniche, dirà, in molti casi in cui
questo significato immanente è indiscut'bile, che i termini I5éa,
slSog, ecc. non vengono usali nel senso tecnico, e non designano le Idee. Ma questa scappatoia dell'interprete
trascendentalista^ la quale per altro non è possibile in tutti i casi, potrà
valergli ben poco anche per quelli in cui crede di potervi ricorrere, perchè è
un principio platonico che l'oggetti d^l concetto e della conoscenza generale è
TIdc», e quin«li, tutte le volte che alcuno di questi termini indica il punto
di vista generalo, noi dobbiamo presu.mere
ch'esso si riferisce all'Idea. Senza dubbio, è possibile che Platone
abbia alcune volte usato questi termini oon un significato generale, senza
pensare perciò a fare dell'univrrsale a cui sì riferivano, un'entità unirà
sussistcnt •? or sé stessa; è certo anzi che vi' hanno diM ca?i
eccezionali, in cui il significato generale non potrebbe affatto
implicare la supposizione di un'entità generale
corrispondente; e l'interprete trascendentalista potrà anche aggiungere,
a difesa della sua proposizione, che, nell'ipotesi stessa della trascendenza
delle Idee, Platone sarebbe stato tuttavia costretto, in un gran numero di
casi, cioè quando egli voleva indicare il punto di vinta generale nella
cons'derazione delle cose, ad impiegare i termini Idèa,
sl8og, ecc. in un senso immanente, perchè la lingua non gli offre altri termini per
s'gniinfatti l'essenza potrebbe essere concepita fuori delle cose di cui è
l'essenza? Che le Idee siano per Platone le essenze delle cose, è poi
confermato da Aristotile in Met.. Per es. quando l'universalità delle
cose fenomenali o un genere di queste cose vengono opposte alle loro Idee, come
nel Tim. e nella Bepubbl. '? J r m
«I ficare l'universale nelle
cose, che quegli stessi che nel senso tecnico particolare, proprio
esclusivamente del suo sistema, significano Tuniver^^ale fuori delle cose.
Quest'espressione: l'universale fuori d^lle cose, è evidentemente un
controsenso; ma l'interprete trascendentalista ha bisogno di questo controsenso
per definire le Idee platoniche. Ma cosi egli confesserà che, nell'ipotesi della
trascendenza, Platone, oltre che sì metterebbe persistenmente in
contraddiziono, col suo principio che il concetto generale SHAGGY si riferisce
all'Id'^a, userebbe i termini I5éa, el^og ecc; quando essi designano le Idee: in
un senso affatto diverso dal loro significato più ovvio, e che è quello stesso
in cui vengono usati il più abitualmente da lui stesso. I termini designanti
ciascun'Idea, cosi bene che quelli, di cui abbiamo parlato, designanti le Idee
in genere, provano l'immanenza. Le stesse parole che indicano le cose, indicano
pure le loro Idee: il movimento, lo stato, la somiglianza, la dissomiglianza,
ecc., senz'altro, significano l'Idea del movimento, dello stato, della
somiglianza, della dissomiglianza, ec3. Qual è il criterio per distinguere
quando il nome indica l'Idea e quando le cose? non ve ne può essere che un
solo: quando il nome AGGETIVO SHAGGY
SIGNIFICA il concetto generale l'uomo, il movimento, ecc.,, noi dobbiamo
presumere ch'esso si riferisce all'Idea; quando il suo significato viene
ristretto a denotare degli oggetti particolari quest'uomo, il movimento di
questo corpo, THE HAIRY-COATEDNESS OF SMITH’S DOG FIDO ecc.,, allora non
può riferirsi Pannen, di VELIA, Fedo.,
RepnhhL, Tim,, Fedro, eco. che alle cose. Non è questa la prova più
palpabile che le Idee non sono separate dalle cose, ma sono le cose stesse
considerate in ciò che vi ha in esse di generale? Gli aggiunti, quali aùxó,
aùxó xaG'aOxó, 8 Ioti, che si uniscono al nome della cosa, quando occorre un
segno per dile Idee dalle cose particolari, non possono mutare il significato
immanente del nome a cui si uniscono, perchè essi non indicano che il punto di
vista dell'astrazione: aòxè àvGpwTiog
l'uomo stesfio vuol dire l'uomo in generale, considerato negli attributi che costituiscono il stesso di
uomo, astrazion facendo da tutte le difTeronzo individuali, di nazionalità, di
razza, ecc.; aùxò TÒ xaXóv il bello stesso vuol dire la beltà in generale, la
stessa beltà che è l'oggetto del nostro concetto di beltà, astrazion facendo da
tutti gli altri attributi che, insieme alla beltA, si trovano negli oggetti
particolari a cui questo concetto si riferisce, cioè, che si chiamano belli;
L'aÙTÓ, dice Aristotile Eth.Eud. si aggiunge per indicare il concetto generale.
Il significato di OLÒzó^ risulta della maniera più netta da un luogo della
Repubbl. La sete, in quanto è sete, si dice in questo luogo, non è che l'appetito
deUa bevanda, e non di una bevanda molta o poca, calda o fredda, ecc.» in una
parola, di una certa bevanda. Se per la i^apoDota della moltitudine la sete è
molta, sarà l'appetito di molta bevanda, se è poca di poca; se alla sete si
aggiunge il calore, si avrà l'appetito di una bevanda fredda, se si aggiunge il
freddo, l'appetito di una bevanda calda: ma la sete stessa aÙTÒ òi'])OQ)t
n^n è che l'appetito della bevanda sfossa aÙToO 7l(i)[iaxog), l'animo di chi ha sete, in
quanto ha sete, non vuole altra cosa che bere. E in generale, per le cose relative ad altre
cose, ciascuna cosa stessa xà aùxà
Sxaaxa è relativa soltanto a ciascuna cosa stessa aùxoO éxàaxou, ma quelle che
sono a un certo modo determinato sono relative a cose che sono pure a un certo
modo determinate: p. e. il maggiore semplicemente è relativo al minore
semplicemente, ma il molto mag-140 loTc xXCvT], 8 laxiv àyaGóv, ecc.
fciò che è letto, ciò che è bene, ecc., vuol dire ciò che è propriamente
significato dal nome letto, dal nome bene, dal NOME AGGETIVO SHAGGY, ecc., e
che non è altro se non quello che ciascuno di questi nomi propriamente
significa, ciò che noi propriamente chiam'amo letto, bene, ecc., nelle cose
particolari a cui applichiamo questi nomi, cioè quell'attributo o insieme di
attributi che i termini letto, bene ecc. connotano, astrazion facendo dagli
altri attributi con cui e.«si Fono congiunti nelle cose particolari che questi
termini denotano, cioè ancora il letto in generale, il bene in generale, ecc.
Il significato di giore è relativo al molto minore. Cosi per le scienze: la
soienza stessa èmaXTQjiY) OLÒZ'h è
scienza dello scibile stesso jia9TQ|iaT0g tt'^TOi), ina una certa scienza
determinata d'nn certo scibile determinato: p. e, essendovi una scienza di
edificare le case, si distingue da tutte le altre scienze particolari,
prendendo il nome di architettura; essendo d'una cosa particolare e
determinata, anch'essa si fa particolare e determinata. Cosi pure la s'iienza
dei salubri e degl'iasalubri, essendo scienza non dell'oggetto stesso di che è
scienza la scienza semplicemente^, madi
un certo oggetto particolare, cioè il salubre e l'insalubre, anch'essa si fa
determinata e particolare, e si chiama perciò, non scienza semplicemente, ma,
per l'aggiunzione d'una determinazione particolare, scienza medica Rep. GRICE
ICHTYOLOGY. Non è evidente cha aùxè
SC^^OC stessa^ OLÒZÒ Tz(ò\iOL
la bevanda sftfssr», aÙTYj èmoTT^fiY]
la soienza sf<?s8a> aòxò |iòc0Y][ia, lo scibile stesso non
designano delle entità trascendenti fuori delle cose, ma quello stesso che noi
chiamiamo sete, bevanda, scienza, scibile, considerati in astratto? Questo
significato di aÙTÓ^ si trova anche abbastanza chiaro in Teet.; Pam. Di VELIA;
Crat.; Fedone; Rep., Eutifr.;
Ipp. magg.; ecc. Crat.,
Parm. di VELIA, Fedone, Rep.,
ecc. 3f<?no. Per compiendere bene il valore di 3 laxt, aÙTÓ^ e simili nella lingua platonica, è
utile di tener presente aùxd xaO'aGxó è il medesimo che quello di 8 loxt e del
semplice aùxó: il xaB'aOxó per se stesiiO si aggiunge per indicare d'uua
maniera più energica che dell*oggetto, designato dal nome, non deve prendersi
che quel solo la disiinzione tra la denotazione e la connotazione dei nomi. Secondo questa distinzione che i logici
peripatetici ìacevano nel significato dei nomi e che Mili MORE GRICE TO THE
MILL ha introdotto nella logica, il nome denota ciascuno degli oggetti concreti
appartenenti a una classe, e connota l'attributo o gli attributi astratti
comuni a questa classe se non tutti, quelli almeno che entrano nella
definizione delia classe. Per un vero nominalista, il vero significato del nome
consiste nella sua denotazione; ma per un concettualista consiste invece nella
sua connota; infatti, neir ipotesi dell'esistenza di concetti generali, un nome
generale è il segno d'un concetto generale DISINTERESTEDNESS, e questo è
costituito dall'attributo o insieme di attributi comuni a una classe o per cui
la classe si definisce. Tale è la dottrina dello stesso Mill il quale, quantunque si dia per nominalista, è in
realtà un concettualista Saggio: la siguiìicazione reale d'un nome generale non
è secondo lui che la sua connotazione, questa consistendo negli attributi
inclusi nel concetto Log e una
proposizione, i cui termini sono dei nomgenerali, non afterma che una
relazione tra attributi Log., Fa, di Hamilton, ecc. Ora se al concettualismo,
come teoria psicologica, si aggiunge il
rea/umo^ come dottrina ontologica, in altri termini se si ammette che ai
concetti astratti e generali corrispondono delle entità astratte e generali,
allora il vero significato dei nomi si riferirà a queste entità, perchè esse
non sono che i concetti, cioè le connotazioni dei nomi generali, realizzate. In
effetto secondo Platone i nomi sono
propriamente i SEGNI delle idee – utterances that we use to signify this
or that Grice --, e le cose prendono la denominazione di queste per la loro
presenza e partecipazione Fedo, Parm. di VELIA, Meno, Sof., Lach.,
ecc. Arist. Eth. hud,
Met,, ecc. È questa, al fondo, la
dottrina dei concettualisti, secondo cui i nomi sono i SEGNI – utterances by
which we signify – Grice --- degli attributi come SHAGGY, e
vengono dati agli oggetti in vista degli attributi che essi possiedono
IZZING HAZZING, tradotta in lingua
realista. Vi ha tuttavia tra la dottrina di Platone e la concettualista questa
difìerenza: secondo Platone, i nomi generali SHAGGY sono i nom| delle Idee; il
concettualista invece, quantunque ^X\
ammetta che i nomi N attributo 0
insieme di attributi che
costituisce ìa nozione generale di quest'oggetto, lasciando in disparte tutte
le particolarità individuali, tutti gli attributi concomitanti che
differenziano i concreti, tutto ciò, in una parola, che non è incluso nel
concetto generale. Senza dubbio 3 generali concreti, p. e. uomo, animale,
bianco, buon SHAGGY, ecc. significano
propriamente gli attributi SHAGGY SIGNIFIES HAIRY COATED – SHAGGY SIGNIFICA
HAIRY-COATED perchè la loro applicazione agli oggetti indica la presenza di
certi attributi, e viene fatta in ragione di questi attributi HAIRY-COATED, non
dirà però che questi nomi SHAGGY sono i
nomi degli attributi . perché gli attributi vengono denotati, non da essi, ma
dai nomi astratti che ne derivano, p. e. umanità, animalità, bianchezza,
bontà, SHAGGINESS THE BLUE SHAGGY – a Devonshire breed eec. Sicché
mentre secondo Platone le cose prendono il nome delle Idee, secondo il concettualista
a! contrario sono gli attributi che prendono il nome SHAGGY delie cose» perchè
animalità SHAGGINESS viene da animale SHAGGY, bianchezza da bianco, HORSENESS ecc.
La ragione di questa differenza é che
secondo il concettualista gli attributi sono semplicemente degli
attributi che non si concepiscono per sé stj non per una astrazione della mente
e non allo stesso tempo delle 80stan2e, cioè delle realtà sussistenti per se
stesse; per conseguenza non può applicarsi ad essi un nome concreto CAMBRIDGE
BLUE, perchè questi nomi non denotano che le sostanze SMITH’S DOG OR BUNBURY,
NOT DISINTEREDNESS. Ma le Idee sono per Plat.ne non solo attributi delle cose
che ne partecipanoma anche sostanze, potendo darsi per definizione dell'Idea
ch'essa è un attributo sostantificatc; SHAGGINESS DISINTERESTEDNESS HORSENESS
per conseguenza egli può denotare gli attributi quali esistenti per sé. cioè le
Idee, coi nomi concreti FIDO BUNBURY PAUL GRICE IS CALLED PAUL GRICE BECAUSE HE
IS PAUL GRICE. Si osservi che la dottrina platonica di cui parliamo è una prova
evidente della immanenza delle Idee, perché é chiaro che ciò che i nomi propriamente SIGNIFICANO non può
essere che gli attributi delle cose nelle cose stesse, e non delle entità trascendenti /i*oW delle cose. Toroando ora al significato
di o SOTt, aùxóg, ecc. nella lingua
platonica, noi possiamo formularlo brevemente, dicendo che questi termini,
aggiunti a un nome, identificano la denotazione di questo nome alla sua
connotazione, indicano che ciò che ii nome denota non è che quello stesso che
esso connota. Parm. di VELIA,
Meno,, liep., ecc.
Hep, in CUI si oppone al solido
in movimento che è l'oggetto
dell'astronomia, il solido a'JXÒ
xaO'aOxó che é l'oggetto della geometria. L'aOxò xaG'aùxó e il femminile
aOxY] xaO'aòxT^v), oltre che ai nomi
delle coil i'p laxi xXCvT), aòxó xaXóv, xaXòv
aòxó xa9*a6xó ecc., non significano solamente che il letto,
il bello, e ogni altra cosa di cui è quistionf* SHAGGINESS, devono concepirsi
d'una maniera astratta DISINTERESTEDNESS, ma di più chVssi hanno un'esistenza
reale in questo stato astratto, ch'essi sono delle sostanze nel tempo stesso
che delle astrazioni DISINTERSTEDNESS
DOESN’T EXIST. IT DOES – IT’S IN THE OTHER ROOM SMITH IS DISINTERESTEDNESS
PERSONIFIED la determinazione della sostanzialità -è chiaramente espressa
sovratutto dal termine aOxò xaG'aòxó,
perchè e^s^re xaG'aOxó significa
sussistere per se stesso – AS DISINTERESTEDNESS does not --, essere non un
semplice predicato – come SHAGGY, ma un soggetto -- come FIDO o BUNBURY: ma da
ciò V interprete trascendentalista non deve affrettarsi a concludere che il
letto, il bello, ecc., di cui si tratta, sono delle entità situate in un altro
mondo SUPRALUNARE, al di fuori dei letti, delle
cose belle cose CIRCOLARE, ecc.,
particolari. La quistione non è già se Piatone abbia o no concepito le Idee
come sostanze; ma se queste sostanze IPOSTASI
egli le abbia o no considerato al tempo stesso come inerenti nelle cose e
costituenti i loro attributi. Non vi ha dubbio che queste due nozioni, essere
delle sostanze, e inerire nelle cose come loro attributi, sembrino al nostro
punto di vista contraddittorie, ma è in questa contrad dizione che sta
l'essenza della dottrina delle Idee e del realismo in generale, e il significato
di aùxò xaG'aOxó e degli altri termini
equivalenti designanti le Idee HORSENESS riunisce appunto queste due nozioni, per noi incompatibili. Amse, può
essere aggiunto ai termini glSog, OÙaCa e altri designanti le 1dee in genere,
per indicare che le forme o essenze di
cui si tra Uà devono essere considerate ciascuna per sé sola, astrazion facendo
dalle altre forme o essenze con cui si trova mescolata nelle cose come pure
che, cosi considerate, esse non sono deile semplici astrazioni, ma anche delle
realtà delle astrazioni realizzate. La stessa osservazione per OLÙzÓQ. Arist.
Magn. Mor..Net. Mei. Anal. Post -i
mettere che le Idee platoniche sono
fuori delle cose è ammettere che, quando si pensa e quando si parla, i nostri
coDcetti e i nostri nomi generali si riferiscono a delle entità poste fuori
delle cose. Ma se si conviene che, quando si pensa e quando si parla, 1 nostri
concetti e i nostri nomi generali si riferiscono agli attributi esistenti nelle
cose stesse, bisogna anche convenire che le Idee platoniche esistono nelle cose
stesse come loro atiributt. In effetto i valore dei termini aòxó, aùxò
xaG'aOxó, o éoxt e simili è precisamente
questo, di far significare ai nomi, a cui essi si aggiungono, quello stesso
appunto quello stesso, non qualche cosa di s
mile o di eguale a coi i nostri concetti e i nostri nomi generali, tutto
le volte che pensiamo o che parliamo, si riferiscono, in quanto questi concetti e questi nomi sono i SEGNI e i
rappresentanti, non delle cose concrete, ma degli attributi di queste cose. li
senso immanente di questi termini è abbastanza chiaro negli esempi cne abbiamo
citato nelle note, e gli altri che si potrebbero aggiungere, per illustrare il
loro significato nella lingua filosofica di Platone. Contro alcuno di questi
esempi l'interprete irascendenfaiisla
potrebbe fare l'obbiezione che non vi si parla delle Idee: e sia pure!
ma ciò non invaliderebbe la forza dell'argomento, perchè se aùxóg e gli altri
termini equivalenti designano, quando non sono impiegati in un senso tecnico,
cioè implicante la realizzazione dei concetti THE HORSE ITSELF, gli attributi
delle cose stesse considerati nella loro generalità e nella loro purezza
astratta, essi non possono designare
altra cosa, quando il loro senso è tecnico, cioè quando implica questa
realizzazione dei concetti. La cosa designata nei due casi deve essere la
stessa: salvo che nel primo caso non si pensa, come nel secondo, ad elevare
questa cosa, cioè quest'astrazione., al grado di entità reale DISINTERESTEDNESS
HORSENESS, sussistente per sé stessa Una prova del significalo immanente dei termini platonici
aÙXÓ e xaG'auxÓ si ha anche nell'uso che fa Aristotile di questi termini,
quando se ne serve, come Platone, per indicare il punto di vista
dell'astrazione, perchè è certo che i concetti che essi esprimono in Aristotile
non possono rappresentare delle entità trascendenti. per ciò De
6'o0/o Como può ridoa, che è uni,
identificarsi chi gli attribuii dell», coso particolari, che sono
multiple?.Comc può Tuno essere nei moti? Certamente ciò è difficile a
concepire; ma lo stesso Platone confes-a
clic qu sta è la grande diffi»,oltà del
sistema dell»? \iet., ecc. È sovratutto
notevole ii primo dei luoghi citati, in cui distingue la forma sUssa per se
slessa aOxTQ xaG'aOxr^v e questa forma
mescolata con la materia: p. v. la forma
gen^.'-aie e astraila del CIRCOLO GRICE CIRCLE e un circolo parcicolare, quella della slera e
una sfera particolare, quella del <-ielo che potrebbe ritrovarsi in una
moluiudiuc di cieli possibili e quest'unico cielo reale che noi osserviamo La
stessa distinzione un po'piii innanzi espressa con le parole: il cielo sleao
aOx(j) OÙpavq) e questo cielo, in altri
casi Aristotilo usa questi termini iti
un senso identico quasi assolutamente al platonico cioè indicante, oltre
aU'aslrPzione, anche la sostanzialità: è quando essi gli servono ad esprimere
dei concetti di altii filosofi che, come Platone, hanno realizzato – A TRACE OF
OUR ENDEAVOURS CAN BE GRASPED IN HIS INDIVIDUALS -- delle astrazioni; ed anche in questi casi
il significato immanente «* indubitabile,
perchè i filosofi di cui si tratta hanno incontestabilmente consi(icrato
le loro astrazioni realizzate come inerenti alle cose, e non come (ìa.la ^iniiik trascendenti. Cosi vengono chiamati
aOxÓ i'Tno, il Finito e l"Infinito
dei Pitagorici Phys Met, Mei,
IH, <"fr. lì, dicendo che questi filosofi consideravano
queste astrazioni, non come s<'mplici attributi degli esseri concreti,
ma come realtà sostanziali in
Ph»/s, aOxó viene anche applicato al
l'Essere dei VELINI, perchè anche questo era in un certo modo la realizzazione
del concetto astratto dell'essere: e llnfinito degli stessi Pitagorici viene
anche detto, per questa ragione, xaG'aOxó .
l^h^'s , confermando la nostra osservazione antecedente che la
determinazione della sostanzialità espressa da questo termine non porta come conseguenza quella della
trascendenza. Ad aòxó, xaB'aOxó, 0 èaxi corrispondono gli epiteti, dati alle
Idee, di xaBapÓV pure; Fedone, TU, Conv., slXlxpivé; schietto Fedone, Conv,
dt|llXXOV -i f Prima di passare a un altro ordine di prove, segnalerò
una formula di cui Platone si serve per indicare brevemente la sua dottrina: il
beHo o il bello stesso o il bello stesso
per se stesso è qualche cosa, il buono, il giusto e ciascuna specie
degli esseri è qualche cosa; vuol dire: si deve ammettere un'Idea del bello,
del beno, della giustizia e di ogni altro attributo generale delii cose. La PREDICAZIONE
è qualche cosa attribuisce al bello, al buono, al giusto, ecc., in astratto, la
realtà, afferma che essi non sono puri nomi né semplici concetti, ma entità
reali aventi ciascuna un'esistenza
propria e distinta. Ora m queste proposizioni: e il bello, il buono, ecc. è
qualche cosa, questi astratti, di cui Platone afferma la sussistenza reale,
sono, per lui, delle entità immanenH o trascendenti V sono gli attributi del'e
cose ndl^ cose stesse, o gli esemplari di questi attributi posti fuori delle
cose V È una semplice quistione grammaticale. È evidente che la proposizione il bello, o il buono, ecc.
immisto Couv., FU.,
|X0V02t5éc uniforme frdone,
Conr,, ecc.: questi termini significano, come quelli, che noi dobbiamo
rappresentarci l'Idea per un concetto
rigorosamente astratto, isolando ciascun attributo generale delle cose FANG
FENG da tutte le circostanze concomitanti, PERCEIVED OR POTCH AN OBBLE AS FANG
OR FENG, non perchè esista realmente isolato da esse, ma perchè, concepito
astrazion facendo da esse FANG FENG, ha tuttavia una realtà propria,
un'esistenza distinta e indipendente. P.
e. nel Fedone. Diciamo che il giusto è qualche cosa o niente? Qualche cosa, per
dio! E
il bello, e il buono, sono qualche cosa?
E come no? Hai visto mai alcuna
di queste cose? Giammai, disse O forse l'hai
percepito per qualche altro dei sensi corporei? io parlo di tutte, della
grandezza, della sanità, della, e in una parola dell'essenza di tutte le cose –
THE ESSENCE OF SHAGGY, vale a dire di
ciò che è ciascuna cosa. anche Fedone.
Crai, fppia maity,,
Protay., Rep,, eco. I è qualche cosa è una proposizione, non
verbale e analitica, ma reale e sintetica, vale a dir»», in cui la nota,
espressa dairattributo, non era contenuta nel com;etto del soggetto, ma
gli è aggiunta neir atto stesso che
viene attribuita al soggetto. L'essere qualche cosa, cioè la realtà, la
sussistenza per sé stesso, è dunque una nota che non è compresa nel significato
del soggetto il hello^ il buono, ecc.;
il bello, il buono, ecc., quale semplice soggetto della proposizione, designa
semplicemente V astratto, ma non ancora astratto sostantificato DISINTERESTEDNESS HORSENESS \ la determinazione della sostanzialità è
aggiunta posteriormente air enunciazione del soggetto. Ma se il bello, il
buono, ecc., come semplice soggetto della proposizione, non designa V astratto
sostantificato SUBSTANTIATION, cioè V
Idea platonica, cosa designerà? non altro che lo stesso astratto che nella lingua comune è significato d«lle
parole IN LATINO NEUTRO il bello PULCHRUM to agathon, il buono, ecc. QUESTO neutro ( dacché queste
parole non possono qui essere comprese nel senso tecnico, qualunque esso sia,
particolare alla dottrina delle Idee; vale a dire V attributo della beltà,
della bontà, ecc. nelle cose stesse, considerato d'una maniera, non solo
astratta, ma anche generale. Per
conseguenza è a questa beltà, bontà, ecc, che sono nelle cose, considerate
d'una maniera astratta e generale, che, nelle proposizioni di cui parliamo,
viene attribuita la sussistenza per se stesse; e le Idee platoniche sono gli
attributi generali delle cose, sostantificati, ma nelle cose stesse, e non
degli attributi simili o eguali, fuori delle cose, quali sarebbero neir interpretazìo'* trascendentalista. Nel Timeo
la quistione tra il realismo e il nominalismo, contenuta nella domanda della
nota precedente, è posta in termini, per noi moderni, più netti. Il faoco
stesso in se stesso, domanda III. È, come ^ìh accennammo, nn principio
platonico che il concetto e la conoscenza generale si riferiscono ali'Idea. Ciò
risalta in primo luogo dalle prove per cui Platone dimostra resistenza delle
Idee, di cui la più aiparte non sono che delle applicazioni di questo
principio. Tali sono le seguenti: Il concetto si riferisce aWuno nei molti, a qualche cosa che SI
PREDICA di tutti i singolari come uno e lo stesso in tutti, senza identificarsi
con alcuno di essi: ma ciò a cui si riferisco il concetto è; vi hanno dunque,
oltre:• singolari, le Idee Il concetto
non si riferisce alle cose particolari, peichè queste periscono, mentre
esso permane e resta sempre lo stesservi ha dunque, oltre le cose particolari e
feribili, qualche cosa che permane e resta sempre la stessa, e a cui il
concetto si riferisce; è V Idea Non vi ha scienza dei singolari, perchè es^si
sono infiniti di numero e indeterminati; la scienza invece non può avere che un
oggetto finito e determinato; questo è
ridea. La medicina, la geometria, ecc. Timeo, e tutte le altre cose di cui
diciamo che sono aOxà xaB'aOxà, hanno
veramente un'esistenza reale, o una tale esistenza non conviene che agli
oggetti che vediamo e percepiamo con gli altri sensi, e non vi ha niente oltre
di questi, ma vanamente diciamo esservi un sl5og intelligibile di ciascuna
cosa, mentre esso non è che una parola?
rt/i<t'o 51 b-o. È di uno stesso
slòoi che qui si domanda se ha una sussistenza reale, come pretende Platone, o
se è una parola GRICE WORD-MEANING, come vuole il nominalismo: dunque, l'siSo^,
che, secondo il nominalismo, è una parola WORD-MEANING, essendo nelle cose,
cioè l'universale; l'siSog, che ha una sussistenza reale, deve essere pure
nelle cose, cioè anch'esso l'universale. Se fosse fuori delle cose, l'sISog che
Platone ha di mira, quando dichiara che è un'entità reale, non sarebbe queir
sldog stesso, che il nominalista ha di mira,
quando dichiare che è un nome WORD-MEANING. I i sono la scienza, non
della sanità di questo o di quellO| ma della sanità semplicemente, non di
questo o di quel cerchio THE GRICE CIRCLE, di
questo o quel commensurahile, ma del cerchio e del commensurabile
semplicemente; vi ha dunque la sanità stessa, il cerchio stesso, il
commensurabile stesso, ecc. La scienza non si riferisce ad alcun
particolare, ma air universale, a ciò
che è uno e lo stesso in tutti i particolari: ma ciò a cui si riferisce la
scienza è; vi ha dunque l'Idea. La prova antecedente ò fondata suU' a strattezza
della scienza, questa sulla sua universalità, La dimostrazione suppone che ciò
di cui si dimostra è: ma non si dimostra di alcun particolare, ma
dell'universale, di alcun che di uno e lo stesso che si dice di molte cose; la
dimostrazione suppone dunque che vi hanno nelle cose OTidpxetv èv
xor? ouai Arist.
An. Post. delle nature universali
a cui essa si riferisce . insistiamo
sull'espressione aristotelica
Oiiòcpxstv Iv •cote oyot
che, se non è ia riproduzione esatta d'una formula platonica, è
certamente modellata sulle formule platoniche, nemmeno sulla desift-nazione
dell'oggetto del concetto cioè dell'Idea come qualche cosa che è una e la
stessa in tutti gli oggetti particolari: sono degli esempi di altre prove
dell'immanenza che esamineremo a suo luogo. Per ora dobbiamo limitarci a questa quistione: i nostri
concetti e le nostre scienze cioè le nostre conoscenze generali si riferiscono
agli attributi generali dello cose nelle cose stesse o a degli attributi simili
fuori delle cose? questa sanità, p. e., che è 1'oggetto della medicina, è la
sanità degli uomini e degli animali, o un'altra sanità per queste prove Arist.
Met., ecc., e il commento di Aless. Aprod. in phil. pr. Arist. al primo di questi luoghi. Arist.
Anal. Post. V i inori degli uomini
e di ogni altro essere reale? A
ciò r interprete trascendentalista risponderà che i nostri concetti e le nostre
scienze si riferiscono agli attributi delle cose nelle cose stesse, ma che
Platone parla, non dello oggetto a cui si riferiscono efTettivaniente i
concetti umani e le scienze umane in generale, ma dell'oggetto a cui essi devono riferirsi, se si vuol salvare
la loro verità, dopo che si è riconosciuto
che questa verità non può fondarsi sulla loro relazione con gli oggetti sensibili. Le prove platoniche
delle Idee conterrebbero dunque, secondo questa
interpretazione, una teoria della conoscenza, la quale rettificherebbe
quest* illusione naturale, per cui gli uomini riferiscono spontaneamente i
loro concetti e le loro conoscenze
generali agli attributi delle cose nelle cose stesse, e sostituirebbe a quest^
oggetto immanente un oggetto trascendente. Ma Platone non dice: i concetti e le
conoscenze generali, che gli uomini erroneamente riferiscono agli attributi
stessi delle cose, essi dovrebbero riferirli invece agli esemplari dì questi
attributi fuori delle cose quali sono le Idee neirinterpretazione
trascendentalista. Al contrario, egli suppone che gli oggetti a cui gli uomini
riferiscono e non: a cui dovrebbero riferire i loro concetti e le loro
conoscenze generali, sono le Idee È ciò che noi vediamo, non solo negli arca) Naturalmente Platone non pretende
che tutti qucll i che hanno una nozione generale sanno che l'oggetto di questa
nozione è un'Idea: tutti ntenscono le loro nozioni generali agli attributi
generali delle cose agli astratti, e questi sono Idee; ma solo il filosofo sa
che sono Idee, ciocche ciascuno di questi astntti ha un'esistenza propria e
distinta; e per ciò della sola conoscenza
filosofica è vero di dire, nel senso stretto . che ha per oggetto le
Idee. Cosi non vi ha contraddizione tra il principio che ogni nozione generale
si riferisce alle Idee, e V opposizione che Platone stabilisce tra l'opinione,
che ha per oggetto i fenomeni -anche quando 14 gementi per V esistenza delle
Idee che ci sono pervenuti per il tramite, di altri autori, ma in una
moltitudine di luoghi degli scritti
stessi di Platone. Cosi egli dice che i fabbri del letto, della mensa, della
spola fanno le loro opere, guardando alle Idee di queste cose, a ciò c?ie è
letto, ciò che è mensa, ciò che é spola Rep:, Crat.; che il facitore dei nomi
impone i nomi, guardando a ciò che è nome Crat.; che il geometra si serve di
figure visibili come di immagini, ma il suo pensiero è diretto a quelle di
cui queste sono le immagini, al quadrato
stesso e alla diagonale stessa, non al quadrato e alla diagonale particolari
eh'egli descrive Rep.; che V aritu. etico ragiona sui numeri sfessi ^ e non sui
numeri aventi corpi visibili e palpabili
cioè: non sulle cose concrete a cui i concetti dei numeri si applicano Rep.;
che lo spìrito, distinguendo gli attributi contrari delle cose l'uno, il multiplo, il grande, il piccolo, ecc. che sono confasi
nella percezione sensibile, e contemplandoli separatamente gli uni dagli altri,
si eleva dal sensibile e dal fenomeno air intelligibile e air essenza Rep. Se
si afferma di due cose. essa si riferisce al generale, come p, e nel Fibbo e nel Timeo la scien7a, nel senso
stretto cioè la dialettica, che sola ha per oggetto le Idee. Platone dà le Idee
per oggetto alla dialettica, perché
queste due parti del sistema platonico, la dottrina delle Idee e la dialettica,
sono fatte Tuna per Taltra, talmente che la realizzazione dei concetti
resterebbe senza valore e senza scopo, se fosse scompagnata dal metodo
dialettico. È perciò che alle proposizioni generali del tilosofo stesso ^
quando esse non sono il risultato del metodo dialettico, vengono dati per oggetto, non le Idee, ira i fenomeni, come si
vede nel luogo citato del Timeo. Il metodo empirico il quale non può dare per
risultato che la semplice opinione studia le coesistenze e sequenze
cronologiche tra i fenomeni, e perciò ha per oggetto i fenomeni; il metodo
dialettico che è deduttivo, e dk quindi per risultato la scienza vera studia le
sequenze logiche-anteriorità e posteriorità di
natura tra le Idee, e perciò ha per oggetto le Idee. - p. e. dnl moto e
dello stato, che tutte e due .sono, Platone ne conclude che sì pone per il
pensiero una terza entità, r Essere, comn contenente lo due prime Sofista.
Il principio è espresso poi d'una maniera generale nel Fedro, secondo il quale
alcun*anima non può vonre in un corpo umano, se non ha contemplato le Idee,
perchè è il proprio dell'uomo di
comprendere secondo la specie, raccogliendo la moltitudine dei sensibili in una
unità razionale, ciò che è la reminiscenza delle Idee che l'anima ha
contemplato. A questi luoghi, per non moltiplicare inutihr.ente le citazioni,
non ne aggiungerò che un altro: è nella Rep., in cui dice che lo spirito del
filosofo a<?pira ad abbracciare l'universo, a comprendere tutto il divino e l'umano, e ch'egli contempla tutto
il tempo e tutto V essere, riferendosi a quella che ha detto un poco prima,
cioè che il filosofo studia l'essenza che sempre è le Idee, e tuffa questa
essenza. Ciò prova, non solamente che la scienza si riferisce «He Idee, ma
ancora, della maniera più diretta, che la scienza delle Idre è la scienza delle
coso stes-e. E questo d'altronde un punto su cui troviamo le informazioni più esplicite nello
stesso Aristotile, il quale attribuisce ai partigiani delle Idre il principio
che avere la scienza delle cose è avere la scienza delle specie secondo cui le
cose si dicono. MQt. ecc. 1j. If Per indicare il punto di vista del. a teiria
delle Idee Platone dice nel Fedone eli egli ha ricorso ai concclfi sl^ XOÙ^
XÓYOOg guardando in éSsi la verità
derrli esseri è 1'equivalente di ciò che
e» dice Aristotile, cioè che la scienza delle cose è la scienza delle Idee
.secondo esse si dicono: e poi oppone quello che guarda gli esseri nei concetti
a quello che li guarda n^i tatti Sono gli stessi esseri che vengono guardati
ora nei tatti nell'esperienza ora nei concetti: il mondo intelligibile e il
mondo sensibile noi sono che Io stesso mondo, guardato da di\e
punti di vista ditt'erenti; ciò che ali*intelligenza apparisce come un
mondo di entità astratte, non v che quello stesso cke ai sensi apparisce come
un mondo di cose concrete. Rendiamoci ora un conto esatto della teoria della
conoscenza che gl'interpreti trascendentalisti attribuiscono a Piatone, secondo
la quale i concetti si riferiscono, non agli attributi stessi delle coso, ma ad
altri attributi simili separati dalle
cose. Ciò è tanto più importante, che gì'interpreti trascendentalisti, vedendo
l'assoluta inutilità delle Idee trascendenti per la spiegazione delle cose,
danno per iscopo alla dottrina delle Idee, non di spiegare le coso, mi di
salvare la realtà della conoscenza. Vediamo come la teoria in quistione salva
la realtà della conoscenza. I predicati dei giudizi, ci dicono i logici, sono in generale delle nozioni
astratte, dei concetti; i soggetti possono essere sia dei concetti sia delle
rappresentazioni concrete e particolari. Il giudizio afferma che al genere o
all'individuo GRICE SMITH’S DOG, a cui si riferisce il concetto SHAGGY o la
rappresriitazioiio particolare che fa da soggetto, inerisce V attributo SHAGGY
a cui si riferisce il concetto HAIRY-COATEDNESS che fa da predicato.
L'interprete trascendental'sta di Platone aggiunge che, secondo Platone, gli attributi,
a cui si riferiscono i concetti che fanno da predicati SHAGGY cioè le Idee non
ineriscono nelle cose, a cui si riferiscono le rappresentazioni particolari che
fanno da soggetti SMITH’S DOG. Di più, siccome gli argomenti che provano
1'immanenza delie Idee nelle cose sono quegli stessi che provano l' immanenza
delle Idee più generali nelle Idee più particolari, e gli argomenti chn secondo
V interprete trascendentalista proverebbero la separazione delle Idee dalle
cose, proverebbero pure la separazione delle Idee più generali dalle Idee più
partidolari; così egli aggiunge ancora che gli Attributi, a cui si riferiscono
i concetti che fanno da predicati, non ineriscono nei Generi a cui si
riferiscono i concetti che fanno da soggetti. Uomo non inerisce sl Socrate,
Animale non inerisce ad Uomo. Ma se è cosi, come possiamo affermare che Socrate
è uomo, che 1'uomo è animale? La conseguenza della teoria che gì*interpreti
irascendent alisi i attribuiscono a Piatone ciò è tanto evidente che alcuni di
questi interpreti lo hanno apertamente riconosciuto è il paradosso di quegli
eristici di cui Platone si ride nel Sofista, e contro cui é diretto ciò che si
dice in questo dialogo della comunione o mescolanza dei Generi i quaM
permettono che il buono pia buono e 1'uomo sia uomo, ma non soffrono che sì
dica di un uomo che è buono. Lo stesso giudizio ANALITICO GRICE STEAWSON, che
né Hume crede possibile di attaccare, né Kant necessario di giustificare, sarebbe impossibile secondo
Platone interpretato dagl'interpreti trascendentalisti^ e non ci resterebbero
che le proposizioni puramente identiche, cioè tautologiche. La definizione
secondo Platone si riferisce airidea, e solamente all'Idea. Questa dottrina non
solo è implicitamente contenuta nel principio che il concetto e la conoscenza
generale si riferiscono all'Idea, e in
quello che la dialettica di cui la definizione è un elemento essenziale versa
nelle Idee, ma é espressamente attribuita a Platone da Aristotile, che la dà
anzi come il fondamento del sistema delle Idee. Noi dobbiamo dunque ammettere
che quando un dialogo platonico ha per oggetto la ricerca della definizione,
quest'i definizioni che Platone cerca, o che egli dà, sia comm definitive sia come semplici tentativi,
si riferiscono alle Idre: in effetto, lo scopo di Platone in questi dialoghi è
dì illustrare con esempi la teoria della definizione, e sarebbe inconcepibile
che in p. e. TOSCO (vedasi) Ricerche
platoniche. I Megarici, e seconflo
l'opinione dì alcuni storici che io ritengo erronea anche i Cinici. Met. questi
esempi egli si mette in contraddizione con
uno dei principii fondamentali
della teoria di cui essi devono fare Papplicazione. D'altronde, che
l'oggetto della definizione sia r Idea,
é quello che Platone dichiara esplicitamente in molti di questi dialoghi. Così
nelPEutifrone Socrate domanda al suo
interlocutore: cosa è il santo che é lo stesso in tutte le azioni sante,
e lo prega di spiegargli, non uno 0 due dei molti Fanti, ma quell'aÒTÒ xò slòog, queir cesa unica, per cui tutte le
cose sante sono sante, affinchè possa servirsene come di un paradigma neir
applicazione del nome: santo. Neil' Ippia maggiore comincia per istabilire che
tutte le cose belle sonò belle per il bello, e questo è qualche cosa noi
sappiamo il significato di questa formula platonica, e domanda al sofista: che
é questo bello? che é il bello stesso, di cui tutti gli altri belli sono adorni;
che quando è presente sl una cosa qualunque, pietra, legno, uomo, dio, ecc., a
questa appartiene di esser bella? ^ la presenza napowoia é uno dei termini
soliti di cui Platone si serve per indicare il rapporto dell'Idea con le cose.
Nrl Menone la virtù, di cui si cerca ciò che essa sia, é Pel^oc che hanno lo
stesso tutte le virtù, la virtù che é una e non molte, l'uno in tutti, la Yirtù che è una e la stessa in
tutte le virtù e in tutti i virtuosi, ciò che corrisponde propriamente a questo
nome: virtù tutte queste designazioni, per cui Platone suole indicare le Idee,
provano chiaramente la loro immanenza, ma noi supporremo per ora ch'esse
potrebbero convenire indifferentemente tanto alle Idee immanenti quanto alle
trascendenti; lo stesso vale per la presenza
dell'Ippia maggiore; e per giustificare la poFsibilità della ricerca
contro Tobbiezione di Menone che sopprime ogni conoscenza, s'invoca la dottrina
che la conoscenza é una reminiscenza. ciò che suppone che la virtù, che si vuol conoscere, è quella
stessa virtù, che T anima ha intuito^vale a dire ridea della virtù. Nel
Politico, si avverte che le dieresi, che devono condurre alia scovorta dell'arte politica e del politico, hanno per
oggetto le Idee, e nel Sofista si dice che 1 oggetto della ricerca è l'Idea del
sofista. Ma, da un altro lato, è incontestabile che le definizioni li Platone
si riferiscono alle cose stesse. Cosi nel Sofista, in cui si cerca la
definizione del Sofista e dell'arte sofistica, questo sofista, di cui si vuol
conoscere ciò ch'egli è, è quello stesso che successivamente apparisce: come un cacciatore mercenario di
uomini ricchi, come un mercante di conoscenze che si rifVriscono all'anima,
come un rivenditore in dettaglio di queste conoscenze, come un venditore di
prima mano delle stesse, come un atleta nella lotta di parole, il quale si
arroga l'arte eristica, come un purgatore dell'anima dalle opinioni che le
impediscono l'acquisto della scienza, ma
sovratutto come contraddittore e maestro agli altri di questo stesso;
che ha una scienza appaiente, ma non vera; che, quando noi affeimiamo ch'egli
ha un'arte fantastica, e lo chiamiamo un facitore di simulacri, ci domanderà
cosa sia un simulacro, e s». noi gli risponderemo citandogli le immagini degli
specchi, dell'acqua ecc., sì riderà di noi che gli parliamo come ad un uomo che
vede, fingendo di lion a\ cr visto mai né specchi ne acqua e di non
sapere nommeiio che cosa sia la vista, e infine ci costringerà a confessare che
ciò che non è, in un certo modo é; che nega che si dia il falso, poiché ciò che
non é non può partecipare all'essere, e, dopo che si è visto che partecipa
all'essere, forse, dirà che alcune specie partecipano del non essere e altre
no, e l'opinione e il discorso sono di
quelle che non ne partecipano; ecc. E l'arte sofistica è quella che ha questo
stesso ai fista ecc; Parte che fa profissione di disputare in grazia della
virtù ed csìgf^ danaro per mercede; la caccia ai ricchi; l'arte per cui si
possono incantare con discorsi i ricchi e ancora lontani dalla verità,
mostrando loro delle immagini, in parole, di tutte cose, in modo da far loro
credere che si dice la verità e si e il
più sapente di tutti gli uomini in tutte le cose; un'arte n;enzognera da cui la
nostia anima è tratta ad opinare il falso; ecc. Nel Politico, la scienza regale
o politica, di cui si ricerca ciò che es?a è, è una che non può trovarsi nella
moltitudine né dei ricchi né di tutto il popolo, ma in uno o due o pochissimi,
che si devono chiamare re, sia ch'essi comandino o che vivano da privati, che
comandino ai volenti o ai nolenti, con leggi scritte o senza, ecc.; questa
scienza non comporrà di buon grado lo stato di buoni e di cattivi, ma quelli
che possono formarsi ai costumi saggi li rimett rà a persone capaci di
educarli, essa dando degli ordini e presiedendo a tutto, gli altri li
condannerà alia morte o all'esilio, o li tottometterà alia schiavitù, e tra i
buoni naturali prenderà i caratteri
forti, simili ai fili dell'ordito, e i modelati, simili a quelli del ripieno, e
li intreccerà gli uni con gli altri, Icrmendone il più bello di tutti i
tessuti; ecc. E il politico che ti tratta di definire è quello ci e ha questa
scienza; a cui bisogna consegnare le redini dello stato; che ha cura del gregge
umano come un pastore; ecc. 11 bello dell'Ippia maggiore è quel bello che é bello per tutte le coso e iu tutte le
circostanze, e Socrate propone di definirlo: ciò che ha la potenza di produrre
qualche bene; e: ciò che ci reca diletto mediante 11 senso della vista o
dell'udito. NeirEutifrone, Eutifrone risponde alla domanda di Socrate, che il
santo è ciò che è aggredevole agli dei (6
ej, e Socrate dice che infine ha risposto com'egli desidera vale a dire
che questa risposta definisce, beue o
male, il santo stesso^ la specie; e in seguito si propongono queste altre
definizioni: il santo è la parte del giusto che ha per oggetto la cura degli
dei; é la scienza delle domande e dei doni che bisogna fare agli dei. Nel
Menone, la virtù, di cui si domanda ciò che essa sia, é la stessa virtù, di cui
si domanda come essa sopravvenga agli nomini, se possa insegnarsi o no; e si propongono queste definizioni: la
virtù é il saper comandare agli uomini; è il desiderare le belle cose e
potersele procurare. Nello stesso dialogo Socrate, per dare dei modelli d'una
definizione secondo la sua intenzione, definisce la figura: in ogni figura dico
essere figura ciò in cui termina il solido; e il colore: un fiusso di figure
proporzionata alla vista e
sensibile Evidentemente, questo colore, questa figura, questa virtù,
questo santo, questo bello, questo politico e arte politica, questo sofista e
arte sofistica, di cui si ricerca ciò che eiascona di queste cose è, sono le
cose stesse che tutti chiamiamo con questi nomi SHAGGY, e non dalle entità
trascendenti: e lo stesso deve dirsi della giustizia della Repubblica -- H. P. Grice,
Philosophical Eschatology and Plato’s Republic -- della scienza del Teeteto, della fortezza del
Protagora e del Laches, dell'amico del
Lisis, della temperanza del Carmide, e in una parola di tutto ciò di cui
Platone dà o cerca la definizione in tutti i dialoghi che hanno per oggetto
questa ricerca. Ma se le definizioni platoniche non si applicano che alle cose
stesse, come può Platone affermare ch'esse si riferiscono alle Idee, e solamente alle Idee? Nell'ipotesi i della
trascendenza delle Idee, ciò sarebbe incomprensibile; ma nell'ipotesi
dell'immanenza, si comprende perfettamente. Piatone sostiene che la definizione
ha per oggetto l'Idea, e Tldea sola, perchè quello che si definisce, quello di
cui si vuol sapere ciò che esso è, non è l individuo l'individuo, considerato nella
sua individualità, è indefinibile, e ad
ogni modo egli non è quello stesso che dice la definizione comune; Tizio
GRICE SMITH’S DOG FIDO IS SHAGGY ha, ma non è, questo gruppo di attributi che
costituisce la nozione dell'uomo, la sua definizione; per dire ciò che egli è,
bisognerebbe aggiungere agli attributi di uomo le particolarità individuali che
gli sono proprie; quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, è l'essenza comune degli
individui, l'oggetto della nozione generale, e questo è, secondo Platone,
l'Idea. É perchè quest'essenza, che è l'oggetto della definizione, è l'essenza
comune degl'individui, e non si trova altrove che negl'individui stessi, che la
definizione si applica alle cose; ma indirettamente, e in quanto, e solamente
in quanto, queste partecipano alle Idee, vale
a dire, in quanto si considera in esse, non l'elemento indivuale, ma
l'elemento comune; Tizio – SMITH’S DOG FIDO IS SHAGGY GRICE si
definisce, non corno Tizio, ma come uomo; Protagora non come Protagora,
ma come sofista. Quando poi la
definizione si applica, non a questo o quell'individuo, ma a tutti gl'individui
della classe, p. e. a tutti gli uomini,
a tutti i sofisti; allora, per il fatto
stesso che si emette una proposizione generale, l'elemento individuale
sparisce, e non resta che Telemento comune, qu^^llo a cui si applica
direttamente la definizione, l'Idea; perchè, secondo Platone la conoscenza
generale si riferisce all'Idea. Per conseguenza, cercare o dare la definizione
degli uoniiui o dei sofisti, non è altra cosa che cercare o dare la definizione
dell'Idea dell'uomo o di (|uella del
sofista; dire ciò che è l'uomo o il sofista considerato in generale, è dire SS
mm ciò che è ridea dfU'uomo o quella del solista; porche ruomo e il sofista,
considerati in generale, non sono altra cosa che l'Idea dell'uomo e l'Idea del
sofista. In verità, noi potremmo, per la stessa ragion», riguardare tutte le
proposizioni generali che si trovano negli scritti platonici, qualunque sia il loro contenuto, come
altrettante prove dell'immanenza dello Idee, perchè, da una parte, è evid^^nte
che queste proposizioni si riteriscoDO allo cose, e d'altra parte, secondo i
principi! platonici, ogni nozione generale non può avere per ogget o che
l'Idea. Ma io non ho creduto potermi avvalere di questo genere di provo, perchè
non è rara nei filosofi uua contraddizione
tra la teoria e la prat ca: ma
una tale contraddizione sai ebbe inammissibile, quando questa pratica è
precisamente un esempio destinato a mettere in azione la teoria. Cosi noi non
cercheremo un'altra prova analoga del rimmanenza che nflle dieresi platoniche.
La dieresi è la divisione del genere nelle sue specie; essa piende per punto di
partenza uno dei generi più vasti, lo divide nei generi immediatamente inferiori HAIRY-COATED
SMOOTH-COATED cioè meno est si, qursti in quelli ancora immediatamente
inferiori, e cosi di Feguit'^, sinché si trovino le specie infimo SHAGGY, che
sono quelle di cui si cerca la definizione HAIRY-COATED. Tutta la dialettica
platonica sta nella dieresi: la definizione stessa vi è compresa, per che non
ne è che il termine e il risultato. Il
metodo della dieresi è praticato nel Sofista e nel Politico, e lo dieresi di
questi due dialoghi hanno appunto per iscopo, come ci avverte lo stesso
Piatone, di dare degli esempi di questo metodo, che, come abbiamo detto, non è
che la dialettica stes-ia. Noi dobbiamo ammettere, per conseguenza che le
dieresi del Sofista e del Politico si applicano alle Idee cioè che i generi
divisi e le specie in cui si dividono
sono delle Idee, perchè è l'Idea che è p*oggetto proprio ed unico della
dialettica. È quello el resto che Platone dice espressamente nei luoghi di
questi due dialoghi superiormente citati a proposito della definizione come
anche in uno dei luoghi del Politico che riporteremo tra poco. Intanto è
evidente che le dieresi del Sofista e del Politico si riferiscono alle cose stesse, e non ad entità iperfisiche. Non
per provarlo perchè ciò non ha bisogno di essere provato ma perchè il pensiero
possa fissarsi su qualche cosa di concreto, e non siresti nel vago
dell'astrazione, io darò qualche esempio. Ecco dunque la prima dieresi del
Sofista; L Osp. VELINO. Delle arti, si può dire, tutto, vi hanno due specie.
TebTETo: Quali? L'Osp. El.: L'r gricoltura,
e ogni lavoro relativo a
qualsiasi corpo corruttibile, e quello relativo a ogni oggetto fabbricato che
noi chi^^miamo suppellettile, e l'arte imitativa, tutto ciò potreble a buon dritto
chiamarsi con un sol nome Teet.: Cerne, e con qual nome? L'Osp. El.: Per tutto
ciò che prima n^n era e poi viene Polii.
Per la dottrina che le Idee sono l'oggetto, e l'oggetto unico, della
dialettica, V. FU., Rep. Parmen di VELIA
Fedone d-ioo a. So/,, ecc. Per l'identità della dialettica e della
dieresi v, oltre l'ultimo dei primi indicati, ciò che ne abbiamo detto nel cap.
Aristotile dà come motivo della dottrina delle Idee, non solo la proposizione
che la delinlzione non può a ere per loggetto che le Idee e non le cose, ma
anche quella più generaie che a dialettica cioè tanto la definizione quanto
la dieresi non può avere che
quest'oggetto, Mei. e il commento d'Aless. d'Afrod. a questo luogo Del resto,
che le dieresi di Platone si riferiscono alle Idee, é provato abbastanza dalle
prove stesse che dimostrano che le sue definizioni si riferiscono alle Idee;
poiché ciò a cui si applica la definizione non SODO che le sezioni ultime,
gl'indivisibili a cui arriva la dieresi. SHAGGY ' 1 t. 1 portato airesistenza,
noi diciamo di quello che lo porta all'esistenza, che fa, e di quello che vi è
portato, che è fatto. Tebt.: Giustamente L'Osp. El.: È questo l'oggetto della potenza ch^ hanno
tutte le arti che nbbiamo -TEET: Si, è questo L'Osp. El.: Noi le chiameremo dunque in generale l'arte di fare Tebt : Sia L'Osp. El: Poi, ogni specie di disciplina
e di scienza, il negozio e la lotta e la
caccia, siccome non producono niente, ma, tra le cose che esistono e sono state
prodotte, delle une s'impadroniscono por la potenza del discorso e dell'azione,
le altre difendono contro quelli che vogliono
impadronirsene, cosi tutte queste parti potrebbero riunirsi
convenientemente sotto il titolo di arte di acquistare. Le due ultime dieresi
dello stesso dialogo: L'Osp. El.: L'imitatore
opinante è moltiplice; perchè Tuno è| uno sciocco che crede di sapere le
cose che opina, ma la specie dell'altro, per la volubilità dei suoi discorsi,
dà molto a sospettare e a* temere che ignori le cose THE LADY DOTH PROTEST TOO
MUCH GRICE, che innanzi agli altri si dà l'aria di conoscere Tebt.: Ve ne ha
certamente dell'uno e dell'altro genere che hai detto -L'Osp. El.: Chiameremo dunque l'uno imitatore semplice, e
l'altro imitatore simulatole?- Teet.: E con ragione -L'Osp. El.: E il genere del secondo;', diremo unico o
doppio? Teet.: Veditu -L'Osp El'Ì Guardo,
e due me ne appariscono: vedo l'uno capace di simulare in pubblico con lunghi
discorsi alla moltitudine, l'altro in privato, con brevi discorsi, costringendo
l'interlocutore a mettersi in
contraddizione con se stesso La prima dieresi del Politico: L'Ospiste:
Come trovare la via della scienza politica? vale a dire: in quale classe di
scienze dobbiamo cercare questa scienza V)
bisogna scoprirla, e separandola dalle altre, imprimerle un'Idea unica,
e le altre direzioni segnando d'un altra Specie unica, far concepire al nostro
spirito tutte le scienze come essenti due Specie L'aritmetica e altre arti
consimili non sono scevro da ogni azione, e non esibiscono una semplice
conoscenza? Socrate: Cosi è L' Osp: Ma
quelle, che spettano alla fabbricazione e ad ogni altra operazione manuale,
possiedono invece una conoscenza che si rapporta naturalmeate all'azione, e
fanno gli oggetti materiali a cui danno 1'esistenza, e che prima non erano
Socrate: è chiaro L' Osp.: Cosi dividi tutte le scienze, chiamando l'una attiva, l'altra semplicemente speculativa
Socrate: Siano queste le due specie della scienza, u7ia essendo tutta la » Nello
stesso dialogo: L'Osp.: Prima consideriamo due arti, che sono circa tutte le
cose che si fanno. Socr.: Quali?- L'Osp.: L'una, con causa della produzione,
l'altra la causa stessa Socr.: Come? L'osp.:Tutte quelle, che non fabbricano la cosa stessa, ma somministrano
ai fabbricanti gli strumenti, nella cui assenza ciascuna arte non potrebbe
compiere l'opera che le è assegnata, chiamirmo eoncause, quelle che fanno la
cosa stessa, cause E .ó e,
distinguendo la politica dalle arti più
affini l'oratoria, la militare e la giudiziaria: L'Osp.: Quella poi che
presiede a tutte queste, e veglia alle leggi e a tutti gli affari dello stato, e tutte cose rettamente contesse,
denotandola sua facoltà Notiamo le
parole in corsivo. Socrate risponde cosi, per mostrare ch'egli ha
compreso che la dieresi si riferisce alle Idee come l'ospite VELINO ha detto al
principio del luogo citato. È perchè la dieresi si riferisce propriamente all'
if no l'Idea e non ai molti le cose, che nel Politico e nel Sofista i nomi
designanti i generi ohe si tratta di dividere, e le specie in cui vengono
divisi cioè i nomi comuni degli oggetti appartenenti a questi generi e a queste
specie, si trovano, di regola, al singolare. col nome comune, chiameremo giustametìte, mi sembra,
scienza politica. Io devo avvertire il lettore, che non conoscesse questi due
dialoghi e un'avvertenza analoga avrei potuto fare sulle definizioni che non è ia questo o in quel punto isolato, ma è dal
principio sino alla fine, che le dieresi del Sofista e del Politico ci mostrano
con la più grande chiarezza che esse si applicano, non ad entità iperfisiche, ma alle cose stesse: ciò è tanto
evidente, che nessun interprete trascendentalista certamente oserebbe sostenere che in queste
dieresi si tratta delle
làQQirascendenti] forse però alcuno dirà che in esse non potrebbe
nemmeno trattarsi delle Idee immanenti, perchè anche queste sarebbero al
postutto dfìlle entità ultrafenomenali, metaempiriche, mentre è incontestabile
che le arti e le scienze, di cui si fa
la divisione nel Sofista e nel Politico, sono le scienze, e le arti fenomeni, e
fenomeni egualmente, cioè oggetti della nostra esperienza, sono gli oggetti su
cui versano queste arti e queste scienze, e i soggetti in cui esse risiedono ai
quali si applica pure la divisione. Che le dieresi di Platone si applicano alle
cose nel tempo stesso che egli afferma che hanno per oggetto le Idee e quindi che le Idee per lui
si identificano con le cose non si vede solamente dai dialoghi destinali a
mettere in pratica il metodo di divisione, cioè dal Sofista e dal Politico^ ma
anche da quei luoghi degli altri dialoghi, in cui, inculcando la divisione come
regola generale di metodo, ne dà qualche esempio particolare; perchè in questi
casi, mentre nella regola si parla di
una dieresi delle Idee, negli esempi si tratta invece di una dieresi
delle cose. È così che si fa nel Fi'Icho, dove si deduco dalla costituzione
stessa degli esseri eterni cioè le Idee, di cui ciascuno è al tempo stesso uno
e molti, che bisogna in ogni ricerca stabilire un'Idea unica per tutto, e
sforzarsi di scoprire il numero d'Idee comprese sotto di quella, e poi quello
ohe è compreso sotto ciascuna di queste,
e cosi di seguitò, siiichè Ma. quegli che facesse quest'obbiezione, mostrerebbe
ch'egli non sa porsi esattamente al punto di vista delTipotesi dell'immanenza.
Le Idee non sono che le cose considerate d'una maniera astratta e generale, e
le cose considerate d'una maniera astratta e generale non sono che le Idee. La
dieresi avendo per oggetto, non delle cose particolari, ma i generi eie specie delle cose, ha perciò
per oggetto le Idee, anche quando Platone non parla esplicitamente che di una
divisione delle cose; perchè secondo Platone, ogni NOZIONE generale
direttamente non si riferisce che alle Idee. Come i concetti e i nomi, che sono
i SEGNI GRICE -- SIGNIFYING -- dei
concetti, non si riferiscono
direttamente che alle Idee, cioè agli Attributi SHAGGY SIGNIFIES, e alle
cose solo indirettamente, in quanto partecipano dogli Attributi; cosi ogni
proposizione generale, ch'essa sia una definizione, o una dieresi, o che abbia
un altro contenuto qualunque, non ha per oggetto che le Llee; essa si riferisce
pure alle cose, ma indirettamente, in quanto queste possiedono GRICE IZZING
HAZZIG gli Attributi, i cui rapporti,
astrattamente considerati,
costituiscono il vero significato della proposizione. Ogni proposizione
generale é dunque, in certo modo, per Platone, un'espressione a doppio senso:
essa significa al tempo stesso le cose e le Idee; questo doppio senso non si
scopra tutta la moltitudine compresa nell'unità primitiva; e si danno come
applicazioni di questo metodo la divisione delle lettere ohe fa la grammatica, e quella dei suoni che fa la musica le quali
certamente non trattano di suoni e di lettere trascendenti, e si esorta ad
applicarlo al piacere e alla saggezza, cioè incontestabilmente al nostro
piacere e alla nostra saggezza, perchè si tratta di quel piacere e di quella
saggezza, di cui si ricerca se il bene questo bene la cui possessione GRICE
IZZING HAZZING deve renderci felici consista
nell'uno o nell'altra È cosi che si fa pare nel Fedro ì lì W' è che il doppio significato dei
nomi, la connotazione NOTAZIONE, che si riferisce all'astratto e al general»*,
e la denotazione NOTAZIONE, che si riferisce al concreto e al particolare.
Supponiamo, per chiarire il punto di visto di Platone, che vi hanno r* almrnte, come ammettono la più parte dei
filosofi, dei concetti, cioè delle
rappresentazioni astratte e generali. Quale sarà per un filosofo logico, che
ammette la teorica dei concetti, il vero significato di una proposizione
generale? Una proposizione generale è l'espressione di un giudizio generale, e
un giudizio generale consta d'idee generali, di concetti; dunque la proposizione
generale non può riferirsi che a ciò a cui i concetti si riferiscono, cioè
agli attributi, agli astratti;
direttamente, essa non può riferirsi alle cose particolari e concrete, perché,
quando facciamo il giudizio, non vi hanno
nel nostro pensiero le rappresentazioni di queste cose particolari e
concrete, ma i loro concetti, cioè delle rappresentazioni astratte, delle
rappresentazioni di attributi. Il significato diretto della proposizione sarà
dunque TafiTermazione di un rapporto tra
attributi: p: e : Tuomo è un animale, significa propriamente che Tattributo
animale fa parte del gruppo di attributi uomo. Ma Avverto una volta per tutte
che quando, per rendere conto delle idee dei metafisici realisti, parlo delle
operazioni del pensiero in termini che implicano la teoria dei concetti, io non
intendo fare adesione effettivamente a questa teoria. Non intendo decidere se la verità stia m essa o nella
teoria contraria che non ammette altre ideo che rappresentazioni di cose
concrete e particolari. Ma mi attengo alla teoria dei concetti, primo perchè è
conformemente a questa ttoria che i metafisici di cui si tratta si
rappresentano necessariamente le operazioni deli' intelligenza; e poi perchè
questa è la dottrina stabilita e la sola, pei conseguenza, che abbia a sua
disposizione una lingua già fatta che permette di essere breve e di farsi
facilmente comprendere. Mill. GRICE TO THE MILL Log. Pil. di Hamilton, oftp.
saUa fine,. sul principio, eoo. Siccome il gruppo di attributi uomo non si
trova altrove che negl'individui concreti e particolari, cosi la proposizione
si riferirà pure a questi, ma non direttamente, perchè non é alcun
individuo né tutti d'indivìdui che noi
ci rappresentiamo, affermando che Tuomo é un animale, ma semplicemente l'uomo
astratto, Toggetto del concetto. Aggiungiamo ora aUMpotesi concettualista
l'ipotesi realista: supponiamo, cioè, che gli oggetti dei concetti, vale a dire
gli attributi, gli astratti, abbiano ciascuno un'esistenza propria e distinta,
ch'essi siano, parlando la lingua di Piatone, delle Idee. Quale sarà il significato diretto di
una proposizione generale? sarà l'affermazione di un rapporto tra Idee. SMITH’S “DOG” IS “SHAGGY” L'uomo è animale,
affermerà l'inerenza dell'Animale nell Uomo. Ma siccome l'Uomo non si trova
altrove che negli uomini, cosi la
proposiziono si riierirà pur^i agli uomini, cioè agl'individui concreti e
particolari; ma questo secondo
significato sarà indiretto, perchè, affermando che l'uomo é animale, non
è quest'uomo né quello, né la totalità
degli uomini, che si trova presente al nostro pensiero, ma semplicemente
l'Uomo, l'astratto. Cosi, che Platone affermi che delle proposizioni, ch'egli
riferisce evidentemente alle cose definizioni, dieresi, e in una parola tutte
le proposizioni generali si riferiscono alle Idee di queste cose, é una conseguenza logica della
teoria dei concetti, unita alla realizzazione degli oggetti di questi concetti:
ma quést'affermazione implica l'identificazione delle Idee con le cose, cioè
con le cose considerate d'una maniere generale ed astratta. Essa sarebbe
un*inconcepibilità nell'ipotesi della
trascendenza^ che sopprime l'identità tra le Idee e le cose, e f *i del
sensibile e dell'intelligibile, del
concreto e dell'astratto. due realtà assolutamente differenti e separate Tuna
dall'altra, e non, come vuole Piatone, una sola e stessa vista da due laii
differenti. L'idea platonica essendo T oggetto del concetto, sostantificato, i
caratteri dell'Idea sono i caratteri stessi del concetto, cioè 1'astrattezza e
Tuniversalità. Ora di questi due caratteri, l'interpretazione trascendentalista
ammette il primo, ma nega, in sostanza, il secondo Dico m sostanza, perchè gP
interpreti trascendentalisti, trascinati dalla forza stessa della verità,
chiamano, come noi, le Idee platoniche universali; essi convengono del nome se
non della cosa; ma è evidente che bisognerebbe cangiare radicalmente il
significato di questo nome prima di poterlo applicare convenientemente alle
Idee platoniche quali essi se le
rappresentano. Universale vuol dircelo che può essere attribuito a tutti
gl'individui di una classe, l'attributo comune di tutti questi individui; ma 1
Idea, per l'interprete trascendentalista, non è un attributo di questi
individui, né di.tutti né di alcuno, perché attributo inerisce nel soggetto,
mentre l'Idea, secondo lui, non inerisce nelle cose, ma è fuori di esse. L'interprete trascendentalista parla con più
proprietà se dice che le Idee platoniche sono, non gli universali, ma 1
contenuti CONTENUTO CONTENUTO PROPOSIZIONALE PEACOCKE GRICE MYRO dei concetti
universali, realizzati; perchè secondo la sua interpretazione, le Idee
corrispondereb' bero ai concetti nella loro comprensione solamente, ma non
nella loro estensione; ora
l'universalità si rapporta ali estensione, e non alla comprensione. Sicché la
quistione sull'immanenza o trasceudcnza delle Idee si riduce al fondo, a
questa: l'Idea è semplice rr ente l'astratto o è anche l'universale? Ma per
l'abuso che gl'interpreti trascendentalisti fanno della parola universale, noi
dobbiamo sostituire a questa parola una perifrasi, e formulare la quistione
cosi: l' Idea platonica è o no un
attributo comune delle cose, che Platone si rappresenta come uno e Io stesso
nel senso più stretto di queste parole in tutte le cose che possiedono
quest'attributo? il bianco stesso, il bello stesso, l'uomo stesso, è una
bianchezza, una bellezza, una umanità fuori degli uomini, degli oggetti belli e
degli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi, o é questa bianchezza,
questa bellezza, quest'umanità che è
1'attributo comune degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti bianchi,
ma concepita come qualche cosa che è una e la stessa e non semplicemente simile o uguale in tutti
gli uomini, in tutti gli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi?
L'universalità cosi definita delle Idee platoniche è sufficientemente
dimostrata dalle prove antecedenti; ma vi hanno
delle prove ancora più esplicite, che passeremo in rassegna in questo
numero. Tra queste prove io non comprenderò i lunghi numerosi, in cui
Aristotile afferma esplicitamente o suppone che le Idee platoniche sono
universali, ch'esse si predicano universalmente
o in comune di tutte le cose cioè di tutte le cose appartenenti a una
classe determinata, che sono i generi degli esseri, ecc., perché rinterpetre trascendentìlista potrebbe
dire, e con qualche apparenza di ragione, che Aristotile fa qui del termine
universale e dei suoi sinonimi Tuso improprio che abbiamo rimproverato a lui
stesso; mi limiterò per conseguenza ai soli testi di Platone,
« di Aristotile non aggiungerò che alcuna di quelle indicazioni il cui
significato non può lasciar luogo ad alcun dubbio. II modo in cui Platone mette in antitesi l'Idea e le
cose prova che l'Idea é l'universale, perché le cose sono opposte ad essa come
particolari: p. e: « il fabbro, non la
Specie del letto, ma qualche letto; ma Kep. Dio il Bene produce il letto che realmente é, e non
qualche letto; il vero amante della scienza aspira all'essere vero, e non si
ferma ai molti singolari che sono creduti essere; < invoco di considerare lo Stesso stesso cioè l'Idea
dello stesso, abbiamo considerato i singoli stessi cioè le cose particolari a
cui conviene il predicato: stesso; bisogna prendere chiaramente o il bene cioè
senz'alcun dubbio, l'Idea del bene, o qualche forma di esso; ecc. Se Tldea
fosse trascendente^ mancherebbe la ragione deirantitesi; al particolare deve
corrispondere il suo opposto, il generale. 2«
Astrarre, generalizzare, è, secoudo Piatone, riunire il multiplo
neiruno, cioè le cose neiridea, ole Idee specifiche nell'Idea generica. Cosi
nel Sofista dice che il dialettico vede acutamente un'Idea unica sparsa per una
moltitudine di cose, separate le une dalle altre, e molte Idee distinte
contenute sotto un' Idea unica, e un'Idea unica per molti tutti cioè sparsa per
molte specie in uno raccolta Sf
oXwv tcoXXcSv èv Ivi g'jvyjjiiiésvyjv; nel Fedro, che bisogna ricondurre ciò che è qua e là disperso, guardandolo con una
veduta d'insieme, ad un'Idea unica, e chiama questa riconduzione delle cose all'Idea, o delle
Idee più particolari a un'idea più generale, una riunione ouvarcovii^ ; nello
stesso dialogo rifiuta la perizia nell'arte del dire a chi non è capace di
dividere gli cs-^cri per ispecie e di nuovo comprendere i singoli in un'Idea
unica; nel Po^i7 raccomanda di
racchiudere tutto ciò che è affine den Alcib. Filebo a. tro una somiglianza
unica o rivestirlo dell*essenza d'un certo genere; nel Filebo Socrate si sforza
di guardare prima il finito e l'infinito ciascuno diviso in molti e disperso, e
poi di riunire ouvaYstv nuovamente in uno, per vedere come l'uno e l'altro é al
tempo stesso uno molti; ecc. Tutte
queste espressioni potrebbero anche essere impiegate da un concettualista o da
un nominalistama è ciò precisamente che prova l'immanenza delle idee
platoniche: in quelli, non sarebbero che dele metafore un po'ardite, in Platone
devono prendersi il più letteralmente possibile; l'unità, in cui si racchiude,
o a cui si riduce, il multiplo, non è,
per quelli, chf». un'unità mentale, trasportata, per metafora, nelle
cose, ma por Platone è un'unità reale; unificare, identificare, per quelli non
è che r similare, per Platone si tratta d'una unificazione e d'una
identificazione nel s^nso più strétto di queste parole. Sui luoghi citati e gli
altri che si potrebbero aggiungere, si deve osservare ch'essi possono dividersi
in due categorie: in tutti vi ha il concetto dell'unificazione del multiplo; ma
in alcuni quest'unificazione ò il riconoscere che l'attributo comune che é in
molte cose p. e. il bianco che é in questa
carta, quello che è nella parete, quello che è in questo libro, ecc. è
un'entità unica, e non tante entità quante vi hanno cose che possiedono GRICE
IZZING HAZZING l'attributo; negli altri
ciò che si tratta di unificare sono le cose stesse o le Idee che possiedono GRICE
IZZING HAZZING l'attributo comune, o,
più propriamente, gli attributi omonimi SHAGGY,
e non semplicemente questi attributi Per somiglianza óiiotoTYjg bisogna
intendere non la relazione tra gli oggetti simili, ma il fondamento di
questa relazione, il carattere loro
oomune par cui ossi sono chiamati simili. e. omonimi; vale a dire non sì dice
semplicemente che Tumanità che è in me, in voi, in quello, ecc. è un'umanità
unica, che Tanimale che è nell'uomo, nel cavallo, nel bue è un'Animalità unica,
ma ancora che tutti gli uomini diventano uno neirUomo, tutti gli animali uno
nell'Animale, ecc. Questi due aspetti della riduzione del multiplo neir uno si
vedranno più chiaramente nei due numeri
seguenti. La risoluzione degli attributi omonimi di tutte le cose in un'entità
unica è espressa da Platone sotto due forme un po'differenti, ma equivalenti di
signifìcato. Uno è il bello, uno il buono, uno il grande, uno è, in una parola,
tutto ciò che è coìinofato da ciascun nome generale, e questo bello, questo
buono, questo grande, ecc. è Tldea del bello, del buono, del grande, ecc. Cosi
nella Bep.: Poiché il bello e il contrario del brutto, questi sono due; ed
essendo due, ciascuno è uno. E lo stesso
deve dirsi del giusto Un'altra distinzione che si potrebbe fare è dei luoghi
che si riferiscono al rapporto tra l'Idea e le cose e quelli che si riferiscono
al rapporto tra l'Idea generica e le Idee specifiche. Non ho creduto necessario
di fare questa distinzione, sia perchè nella più parte dei casi Platone ha di
mira tanto la unificazione del multiplo reale nell'Idea, quanto quello del
multiplo ideale in un'Idea superiore; sia perchè un'interpretazione coerente
del sistema delle Idee deve ammettere tra le Specie e le cose lo stesso
rapporto, o d'immanenza o di trascendenza, che ira i Generi e le Specie. La
stessa osservazione vale per il num. Come genelizzare è per Platone astrarre
l'Idea comune a molte cose, che è riguardata come una e la stessa in tutte;
così ragionare per ana'ogia è per lui trasferire la stessa Idea, già costatata
e determinata nell'oggetto da cui si tira
l'analogia, nell'altro oggetto la cui natura si vuole rischiarare per
quest'analogia. Pulii, Hep.. e dell'ingiusto, del bene e del male e di tutti
gli sXSy): ciascuno é uuo esso stesso,
ma per la xotvcDvCa cioè la partecipazione ad osso delle azioni e dei corpi e
la reciproca la partecipazione degli
sXòri gli uni agli altri, da per tutto apparendo, ciascuno pare molti. E:
Che ci risponda dunque questo buon uomo,
che iion crede al bello stesso, né ammette che vi sia alcuna Idea del bello
sempre la stessa, ma crede molti i belli; quest'amatore di spettacoli che non
accrrderà mai che uno è il belio, uno il giusto, e cosi ogni altra cosa. E: Il
volgo crede uiai o soffrirà che si dica che vi
ha GRICE IZZING HAZZING il bello stesso, ma non molti belli, e qualsiasi
stesso cioè il bene stesso, il giusto
stesso, il grande stesso, e non molti qualsiansi cioè molti beni, molti giusti,
molti grandi, ecc.? Se le Idee del bene,
del bello, del giusto, ecc. fossero trascendenti, come potrebbe dire Platone
che vi ha un solo bene, un solo bello, un solo giusto, ecc.? In questo caso vi
sarebbero altrettanti beni, belli, giusti, ecc., quante vi hanno cose che
possiedono questi attributi, più il bene
stosso, il bello stesso, il giusto btcf^so, ecc. E a questa prima forma con cui
viene espressa l'unificazione degli attributi omonimi delle cose, che noi
possiamo rapportare pure una delle prove, riferita da Alessandro d'Afrodisia,
per cui si dimoitra l'esistenza delle Idee: Ciò che noi aifermiamo come vero è;
ma
noi affermiamo come vero che vi hanno cinque concenti, tre armonie, ecc.: dunque ciascuno di questi concenti é
realmente uno, ciascuna di queste armonie è realmente una, ecc., e vi hanno le
Idee di questi concenti, di queste armonie, ecc. Alessandro d'Afrodisia
presenta In phil, pr. Arisi, quest'argomento un pò diversamente, ma che Platone
lo presenta pressa poco nella forma che abbiamo detto, è anche confermato dal
cominciamento del primo dei luoghi citati, che ne è una variante, o piuttosto
una applicazione particolare. La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi,
la bellezza che è in tutti gli oggetti
belli, è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezza, ecc., e
questa grandezza, questa bellezza ecc.,
una e la stessa in tutti, è la Idea della grandezza, della bellezza, ecc. Così
nel Parmenide di VELIA: Io penso, dice a
Socrate il filosofo VELINO, che tu credi che ciascuna Specie è una, per
questo: quando molte co.^eti semb-ano grandi, forese, contemplandole, una certa
Idea unica la stessa ti sembra essere in tutte, e perciò ammetti che la
grandezza è una. E poco dopo, quando Socrate, confuso dalle obbiezioni del
filosofo, batte in ritirata, e passando dal realismo al concettualismo, dice
che, forse ciascuna specie è una NOZIONE,
e non esiste altrove che nelle nostre anime, Parmenide di VELIA, che in questo
dialogo è il vero rappresentante della teoria delle Idee, gli domanda: Ma che?
Ciascuna di queste NOZIONI, che è una, è LA NOZIONE di niente? Socrate: Ciò è
impossibile Parmenide: E dunque LA NOZIONE DI qualche cosa? Socr.: Si Parm. VELIA: Di qualche cosa cosa esistente o
non esistente? Socr.: Esistente Parm. VELIA: Non è di qualche cosa di uno, che QUESTA
NOZIONE concepisce come presente in tutti gli oggetti, ed essente una certa
forma unica? Socr.: Si Parm. VELIA: E
non sarà un'Idea questa cosa che si concepisce essere una, essendo sempre la
stessa in tutti gli oggetti? Nelle Uggì, I'Ateniesb: 4c Si può più esattamente
esaminare checchesia che guardando ad un'Idea unica dai molli dissimili? Clinia.
Forse -L'Atemfsk: Non forse, ma certamente non vi ha metodo più luminoso di
questo per lo spirito umano. Ci bisogna dunque, sembra, obbligare i custodi
della nostra divina città a vedere prima esattamente cos' è che per tutte
quattro le virtù è lo stesso, che essendo uno nella fortezza, nella temperanza,
nella giustizia e nella prudenza, giustamente chiamiamo con un sol nome, virtù ANDREIA
Philosophy is, like virtue, entire GRICE. Nel Convito si chiama una demenza il
non credere che uno e Io stesso è il bello in tutti i corpi; nel Mmom si cerca
che coea sia la virtù ANDREIA unica Philosophy is, like virtue, entire. Grivce
-- che è per tutte le virtù; che cosa sia la figura che è la stessa in tutte le figure; nel Sofista che cosa sia il
simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc.: Nella Metafisica Aristotile
domanda Se la diade è una e la stessa nelle diadi corruttibili e le molte ma
eterne, perchè non sarà pure la stessa nella diade stessa e nelle particolari?
qui Aristotile fa a Platone l'obbiezione del TERZO UOMO, ma ciò che c'importa è
ia proposizione che gli attribuisce, cioè che la diade è una e la stessa in
tutte le diadi; nel 1. Ili fa appoggiare la dottrina della realtà degli
universali suirargemente che in t«nto conosciamo tutte le cose, in quanto vi ha
un che di universale, un che di uno e lo stesso, e che non vi sarebbe scienza,
se non vi fosse un che di Rep, I numeri
matematici, che, nell'ultima forma del suo sistema, Platone fa intermediari Ira
il numero ideale e i numeri sensibili.
Sup2jtem. uno in tutti; e in una moltitudine di luoghi afferìma esplicitamente
o indubbiamente suppone che i Platonici chiamavano Tldea Vuno nei molti. Noi
sappiamo pure da Alessandro d'Afrodisia, che certament'^ lo aveva attinto da
Aristotile, che uno degli argomenti, e di quelli tenuti in magior conto, per dimostrare Tesistf^nza delle Idee, era
questo: che gli oggetti che sono simili tra di loro cioè che hanno questa
somiglianza definita cui si riuniscono in una stessa classe non possono estali
che perchè partecipano a qualche cosa la stessa che è propriamente quello che
viene predicato in comune di questi oggetti, e questa cosa è Tldea. Met, eco.
In Metaph. Arisi,. Alessandro d'Afrodisia c'informa anche di una variante di
quest'argomento, ch'egli espone cosi: che vi ha una causa delle cose
costantemente farsi, e farsi secondo un tipo costante; e questa causa è l'Idea
comune a queste cose. Anche esposto sotto questa forma che non sappiamo se sia
esattam ente quella con cui Platone lo propone, quest'argomento prova
l'immanenza dell'Idea, cioè che la Idea è l'Attributo che è uno e lo stesso in
tutti gli esseri della stessa specie. Infatti, se l'Uomo fosse una semplice
causa esemplare degli uomini, posta al di fuori di essi, essa non ci
spiegherebbe perchò uno stesso tipo si riproduce costantemente in esseri
distinti fra di loro; per la semplice ragione che l'Idea separata non sarebbe
una causa efficiente, vale a dire una causa che a priori si riconosce capace di
produrre l'effetto che le viene attribuito e
naturalmente nemmeno una causa empirica, cioè la cui azione è stata
dimostrata dall'esperienza. Al contrario, se si ammette che l'Idea è nelle
cose, la somiglianza delle cose che partecipano alla stessa Idea può essere
dedotta a priori da questa partecipazione a una stessa Idea; tra la causa e
l'effetto vi ha un legame necessario; e perciò, dato l'effetto la somiglianza
di tutti gli uomini noi possiamo inferirne la causa la partecipazione a una
Idea comune, perchè questa causa è una causa che noi già sappiamo essere capace
di produrre l'effetto, ciò che è la condizione in A questi dati non aggiungerò
alcun commento. L'espressione più netta sotto cui può formularsi l'ipotesi
daWimvianenza e precisamente questa, contenuta nelle citazioni precedenti, che
gli attributi omonimi di tutti gli
esseri non sono in sostanza che un Attributo unico, e questo è l'Idea; che
quest'Attributo inerisce, uno e lo stesso, nella moltitudine degli esseri dei
quali predichiamo dispensabile di qualsiasi ipotesi, fisica o metafisica, vera
o falsa, che lo spirito umano possa fare sulle cause dei fenomeni. L'argomento
di Platone che gli oggetti simili non possono essere tali che per la partecipazione a qualche cosa comune,
suggeriva agli avversari della sua teoria 1'obbiezione del ^tco uomo, della quale gl'interpreti
trascendentalisti delle Idee platoniche
fanno gran caso, perchè essa prova, secondo essi, che la teoria contro cui era
diretta, era quella delle Idee trascendenti. L'obbiezione del terz'uomo è
questa: se tutti gli uomini sono simili perchò partecipano a uno stesso, all'Uomo in sé, l'Uomo in sé e gli
uomini debbono pure essere simili perchè partecipano a qualche cosa di comune;
vi ha dunque, oltre l'uomo fenomenale e l'Idea dell'uomo, un terzo uomo
distinto dal fenomeno e dall'Idea; e l'obbiezione continua pretendendo che la
somiglianza del terz'uomo con gli altri supporrebbe un quarto uomo, a cui tutti
gli altri uomini partecipassero, e cosi
di seguito all'infinito per quest'obbiez. Plato. Parmen VELIA, Arist. Met, e
Aless, d' Afrod. commento al primo di questi due luoghi. Non vi ha dubbio che,
perchè quest'obbiezione fosse logicamente inappuntabile, essa dove essere
diretta contro le Idee terascendenti se l'Idea è nelle cose, non vi ha motivo
di domandare la causa della somiglianza tra le Idee e le cose, perchè l'Idea
non è altro che questo punto di coincidenza comune per cui tutte le cose simili
si dicono simili ma resta a provare che l'obbiozione del terz’uomo era
logicamente inappuntabile. Nella dottrina delle Idee immanenti vi ha quel tanto
che, so non è sufficiente perchè quest'argomento sia perfettamente concludente,
basta perchè esso abbia quella plausibilità necessaria a un argomento perchè gli avversari di una teoria ne facciano uso.
In effetto, Platone ha un bell'affermare che le Idee, quantunque siano sostanze
per se stesse, inori-, aoono nondimeno nelle cose, e ohe, quantunque ciascuna sia una, .% t \
rattiibuto. Certamente questa prova deirimmanenza che in verità non è una prova, ma la
ripetizione, in termini più chiari, della tesi stessa che si tratta di provare non
sembra con tutto ciò soddisfacente a^Finterpreti trascendentalisti: ma che si
può fare di più? non altro che pregare questi interpreti che cerchino di
rappresentarsi nettamente la tesi deirimmanenza delle Idee, vale si trova
nondimeno simultaneamente in una moltitudine: queste determinazioni sono
incompatibili, noi non possiamo
rappresentarcele insieme; noi non possiamo concepire che una sostanza inerisca in altre sostanze
come un attributo, che un essere unico si trovi al tempo stesso, senza
frazionarsi, in una moltitudine di esseri differenti. Ne segue che delle
sostanze quali Platone finge le Idee, non potremmo rapjìresentarc'ìe che
esistenti separatamente dalle cose; l'Uomo in sé, in quanto noi possiamo
immoijinarlo, non lo possiamo che come un uomo particolare, distinto e separato dagli altri uomini,
questi nati e peribili, esso eterno: è questa la base dell'interpretazione trascendentalista
delle Idee platoniche, e la chiave per comprendere tutte le vicende di questa
teoria. Cosi, se l'obbiezione del terz’uomo non vale contro le Idee quali
Platone le afferuia, direbbe egli, quali oggetti dell'intelligenza, poiché egli
afTeruia che esse sono nelle cose; vale
però contro le Idee quali noi possiamo rappresentarcele, quali oggetti,
direbbe Platone, d' un'immaginazione circoscritta nelle condizioni del
sensibile; perchè noi non \)0^ siamo rapp/É'StfM/arftf/t' che separate dalle cose:
é quanto basta alla vis probante dell'obbiezione del terz'uomo, quantunque
quest'argomento, in sostanza, non sia che un SOFISMA I metafìsici hanno un mezzo assai comodo per superare tutte le difficoltà: é di
distinguere tra inmufjinare ed intende^-e.
Se noi troviamo le loro teorie inconcepibili, essi rispondono che ciò é
perchè si pretende d'immaginare ciò che non si può se non intendere, come se si
volessero vedere i suoni o udire i colori Vedi Cartesio ed. Cousin, Leibnitz N,
S, sulVint, um., De ipsa nat.
sire de vi ins, r, Epist. ad P,
Des-Iiosa. ed.
Dutens, Spinoza De intelL emend.,
ecc. Tra l'empirismo e la metafisica tutta la quistione è, al fondo, se questa
distinzione deve ammettersi o no. 2^3 a dire la dottrina che le Idee sono,
delle sostanze sì, ma inerenti nelle cone come loro nttributi nozioni
certamente incompatibili, io sarò il primo a convenirne, e di fare per un
istante la supposizione che tale sia stata realmente la dottrina di Platone ciò eh? non è chiede'
poco, perchè si può essere sicuri che la più parte degrinterpreti trascendentalisti,
per non dire tutti, non hanno fatto mai seriamente questa supposizione, e poi
di saperci dire come, in questo caso, Platone avrebbe potuto esprimere la
sua dottrina d'una maniera più chiara e
più c-^plicita che dicendo che in tutti gli oggetti grandi la grandezza è una
e la steFsn, e questa è Tldea della grandezza, e cosi la bellezza in
tutti gli rggetti belli, l'umanità in
tutti gli uomini, HORSENESS l'anim^^lità
in tutti gli animali, ecc. Negare che la dottrina di Platon^, sia realmente quello
che essa suona, perchè questi dottrina, cosi intesa, ci sembra racchiudere una
impossibilità logica, prima di tutto non è conforme ai criteri di una buona
ermeneutica; e poi, oltre che per
assolvere Platone da una contraddizione gliesene addrssenbboro cento altre, si
otterrebbe per risultato, che si fn recherò dire a Platone delle assurdità
perchè chi vorrà snstenere che la dottrina delle Idee, immanenti o
trascendenti, non sia un'assurdità? senz'alcun motivo né scopo, perchè il
sistema delle Idee trascendenti non spiegherebbe niente, non conterrebbe
alcuna di queste vedute ardite e
geniali, che scusano e fanno comprendere gli errori dei grandi pensatori
metafìsici, perchè di natura da s<
durre rintelligenza con la prospettiva di una spiegazione universale e
radicale delle cose, cui la scienza positiva si dichiara incapace di attingere.
D'altronde Platone ha avuto cura di togliere al l'interprete trascendentalista
qualsiasi pretesto per rifiutargli la
dottrina che le idee sono gli Attributi generali delle cose, ciascuno
dei quali inerisce, uno e lo stesso, in
tutte le cose aventi degli attributi omonimi, fondandosi sulle
difficoltà logiche contenute in questa dottrina: noi sappiamo infatti dallo
stesso Platone che queste difficoltà sono precisamente quelle stesse che gli
avversari obbiettavano alla teoria delle Idee. Ecco come esse vengano proposte
nel Parmenide di VELIA: Parmenide: Dimmi dunque, pensi tu, come dicevi, che vi
hanno certe Specie, da cui le cose, partecipandone, prendone le loro denominazioni?
che p. e. le cose sono simili per la partecipazione della somiglianza, grandi,
belle, giuste, per quella della grandezza, della bellezza, della giustizia? Io
ne sono persuaso, disse Socrate Ora ogni cosa che partecipa della Specie, non è
necessario che partecipi o di tutta la Specie o di una parte? o vi ha, oltre di
questi, un altro modo di partecipazione? E come ve ne potrebbe essere un altro?
Credi tu che la Specie sia tutta in ciascuno dei molti, una essendo, o
altrimenti? Che cosa può impedire, o Parmenide, disse Socrate, che inerisca
tutta? È che essendo una e la stessa, inibirà tutta simultaneamente in molte cose che sono separate le une dalle
altre, e cosi essa stessa sarà separata
da se stessa Ma no, disse Socrate; come
il giorno, essendo uno e lo stesso, esiste simultaneamente in molti luoghi, e
non è perciò separato da se stesso; cosi niente impedisce che ciascuna Specie
esista simultaneamente, una e la stessa, in tutti gli oggetti, senza separarsi
da se stessa. Bei » è il tuo, o Socrate, di far esistere una sola e stessa cosa
simultaneamente in molti oggetti! è come se comolti uomini con un velo, tu
dicessi che Tuno è tutto intero nei molti. Non è vero che dici qualche cosa di
simile? Forse, disse Socrate Ma il velo sarà tutto intero in ciascuno, o
soltanto una parte in uno, e un'altra parte in un altro? Una parte soltanto Le Specie dunque, o Socrate,
saranno divisibili, e le cose che
partecipano di esse parteciperanno di una parte, e non vi sarà più in ciascuna cosa tutta la Specie,
ma una parte soltanto Cosi pare.
Vorresti dunque, o Socrate, che la Specie sia veramente divisa? e sarà ancora
una dopo questa divisione? No, affatto Vedi in effetto: se tu dividerai la
grandezza stessa, ciascuno dei molti grandi sarà grande, non per la grandezza,
ma per una parte della grandezza,
necessariamente più piccola della grandezza stessa; ora ciò non ti sembra
assurdo? Assolutamente. In che modo dunque, o Socrate, le altre cose
parteciperanno alle Specie, se non
possono riceverle né in parte né in totalità? Questa stessa obbiezione del
Parmenide di VELIA si ritrova, in riassunto, nel Filebo, dove Socrate spiega
quali siano le controversie quando si
stabilisce un Uomo, un Bue, e il bello uno, e il buono uno, e altrettali
unità: Prima di tuto, egli dice, si contesta se si devono ammettere questa
sorta d'unità come realmente esistenti; poi si domanda come ciascuna di esse,
essendo una e sempre la stessa, e non ammettendo né generazione né corruzione,
possa tuttavia essere immutabilmente una e la stessa; e in seguito se negli
esseri generati e infiniti di numero
deve porsi divenuta molti e frazionata, 0 tutta intera in ciascuno, separata
essa stessa da se stessa, ed è questa che sembra la cosa più impossibile
dol mondo, che un solo e lo stesso
essere sia allo stesso tempo in uno ed in molti. Potrebbero tali obbiezioni
dirigersi alle Idee trascendenti? se il rapporto tra l'Idea e le cose non fosse
che quello tra l'esemplare. Che
difficoltà potrebbe trovarsi nell'essere l'Idea una e sempre la stessa, se essa
fosse fuori delle cose? ìA .n. / » e le
copie, che ditìScoltà vi sarebbe a concepire che uno stesso esemplare potesse
servire di modello a molte copie? sarebbe perciò necessario di ammettere o che
l'esemplare si trova tutto intero in ciascuna delle copie, o che esso si
fraziona in tante parti quante sono le copie,
e che una di queste parti esiste in una delle copie, e un'altra in
un'altra? Non è evidente che queste obbiezioni non possono comprendersi
altrimenti che come lo sviluppo delle impossibilità logiche contenute in una
dottrina, che afferma che un solo e stesso Attributo inerisce simultaneamente
in una moltitudine di soggetti? Senza dubbio Platone dove pensare che queste
obbiezioni non toccavano il segno, e che
la sua dottrina sfuggiva al dilemma proposto nel Fileho e nel Parmenide di
VELIA: ma tutto ciò che possiamo concluderne è che queste difficoltà non
sembrano a Piatone insolubili come sembrano a noi. Quale sia la soluzione egli
non lo dice né nel Parmenide di VELIA né nel Fllebo: ma egli ne ha immaginato
una; noi la troviamo in uno dei luoghi citati: Il Alcuni interpreti credono che la parte
dialettica del Parmenide di VELIA contiene una dottrina riposta destinata
appunto a risolvere le obbiezioni del principio del dialogo: per me io non
posso vedervi se non quello per cui Platon'e la dà manifestamente, cioè un semplice esercizio dialettico di cui
nel cai). 2J abbiamo mostrato la relazione con la dialettica platonica. Del
resto le ipotesi ohe trovano nella
seconda parte del Parmenide di VELIA le soluzioni delle obbiezioni contenute
nella i)rima, non fanno al nostro caso, perché esse sono state immaginate nella
supposizione che le obbiezioni siano dirette contro le Idee trascendenti,
quantunque tra queste obbiezioni una sola, quella del terz'uomo, possa essere
interpretata a questo modo; ma basta che Platone dichiari che le Idee esistono per se stesse cioè come
sostanze, o che egli le distingua dai fenomeni, perchè 1'interprete
trascendentalista ne concluda immediatamente che esse sono separate dalle cose.
bello, il brutto, il giusto, l'ingiusto e ciascun altro sUog è uno in se stesso, ma apparendo qua e
là, nelle cose e negli altri sT5y] che ne partecipano, ciascuno pare molti. E
in effetto, la quistione, ridotta ai
minimi termini, è questa: L'esperienza ei mostra il bello, il brutto, in una
parola, ciascun attributo generale delle cose, non come uno, come suppone la
teoria delle Idee, ma come multiplo, l'attributo che è in un soggetto essendo
numericamente distinto dallo stesso attributo HORSENESS che é in un altro
soggetto. Come risolvere questa contraddizione Ira l'esperienza e la teoria delle Idee? se le Idee sono immanenti;
poiché è solo in quest'ipotesi che la moltiplicità dell'attributo nella
moltitudine dei soggetti esclude Tunità dell'Idea. Il concetto vago che una
delle due contraddittorie, cioè il dato dell'esperienza, la moltiplicità dell'attributo,
non è che un'apparenza un'apparenza, s'intende, obbiettiva àk^ non una soluzione reale della contraddizione
perciò bisognerebbe sopprimere realmente
l'una delle due contraddittorie, dichiarando la moltiplicità dft 'attributo una
vera apparenza, cioè un'apparenza subbietiiva, ma un sembiante di soluzione,
per questa vaga assimilazione del fatto, che è in contraddizione con la teoria,
ad un'illusione senza realtà, assimilazione vaga che è tutto il significato del
termine apparenza, quando esso non ha il
suo significato proprio di apparenza subbiettiva o semplice illusione.
Su questo concetto della dottrina platonica dovremo ritornare in uno dei numeri
seguenti. L' astratto e il concreto non sono due cose differenti, ma una sola e
stessa cosa a gradi differenti di Rep I
determinazione: l'astratto è il concreto,
ma indeterminato; il concreto é
l'astratto, determinato. Siccome poi r astratto è suscettibile di più
determinazioni distinte e divergenti l'animale, determinandosi, diviene nomo,
cavallo, ecc:; l'uomo, quest'uomo alto o
basso, dotto o ignorante, ecc:; cosi il movimento di concretizzazione o
determinazione progressiva dell'Idea perchè l'Idea non è, per dir cosi inerte,
ma vivente –GRICE TRANSUBSTANTIATION HUMAN BECOMES PERSON, e la sua vita, il
suo sviluppo, nel sistema di Platone come in quello di Hegel o di qualsiasi
altro filosofo realista, è il suo passaggio continuo da uno stato più
indeterminato, pili astratto, anno stato più determinato, più concreto questo
movimento è al tempo stesso una moltiplicazione progressiva, per cui ciò che è
unità nel momento anteriore, nel momento posteriore diviene moltiplicità si
tratta, ben inteso, di un'anteriorità e posteriorità, non cronologica, ma
logica e metafìsica. Di là la formula platonica che tutto cioè tutto ciò che
corrisponde a un nome generale: l'uomo, l'animale, il bene, ecc. è al tempo
stesso uno e molti un Genere e molte Specie, ovvero una Specie' e molti
individui o ancora uno, molti ed infiniti un Genere, molte Specie ed infiniti
individui. Nel Filebo, in cui questa formula principalmente è impiegata, dopo
che si è convenuto tra gl'interlocutori che vi hanno molte specie del piacere e
della scienza, Socrate dice: Fermiamo ancora di più per una confessione mutua
questo principio, che cau8a grandi imbarazzi a tutti gli uomini, ai volenti ed
anche qualche volta ai nolenti. Io parlo del principio in cui ci siamo
imbattuti, e che è di una natura ben sorprendente; è in cfiVitto una cosa
strana a dire che ìiiolti sono uno e che uno è molti', ed è facile di muovere
controversia a chi sostiene in ciò il prò o il contro. Filebo crede che Socrate
alluda alla dif14o.fìcoltà, divulgata presso gli eristici del tempo, come ad un
soggetto unico possano inerire molti attributi; ma Socrate si spiega,
soggiungendo che la difficoltà di cui egli parla, nasce non quando l'uno è
preso tra le cose soggette alla nascita e alla morte quando si tratta di un
tale uno, si conviene che non bisogna
disputare in ciò con alcuno ma quando sì cerca di stabilire un uomo, un bue, e
il bello uno, e il bene uno vale a dire quando il multiplo fenomenale si
risolve nell'uno ideale; è su queste unità e le altre della stessa natura che i
sentimenti sono divisi e vi ha della contestazione. Io dico che lo stesso,
fatto uno e molti dalle ragioni, si trova da per tutto e sempre, per il
passato come oggi, in ciascuna delle
cose di cui si parla dalle ragioni vuol dire: dalla dialettica; questa
trasforma continuamente l'uno in molti, per la dieresi, e i molti in uno, per la
auvaYwyì^; e Socrate intende dire che questo fatto, che la stessa cosa diviene
per la dialettica ora uno e ora molti, è un fatto generale: ciò non cesserà
mai, e non è ora che incomincia, ma è,
mi sembra, una proprietà,
immortale e incapace d'invecchiare, delle ragioni stesse Gli antichi, che erano migliori di noi, e stavano
più vicini agli dei, ci hanno tramandato quest'oracolo, che tutte le cose che
si dicono esistere eternamente le specie constano di uno e di molti, ed hanno
insite in sé la finità e l'infinità constano di uno e di molti, non è che
un'altra maniera di dire che ciascuna è uno e molti; Piatone si serve di questa espressione, perchè cerca una
forma che possa convenire tanto alla sua propria dottrina quanto a quella dei
Pitagorici, nella quale, cioè nell'afiìnità dei suoi concetti con quelli del
platonismo, sta tutto il fondamento storico della supposizione fantastica di
una dottrina, tramandata dagli antichi eotto la forma oscura di un oracolo, e
il cui senso riposto era la teoria delle Idee
e la dialettica. Egli può attribuire ai Pitagorici la proposizione che
tutto consta, non solo dell'uno ma anche dei molti, perché questa seconda
entità fa parte di una delle loro due serie di elementi contrari. E che, tale
essendo l'ordine di queste cose, noi dobbiamo sempre, nella ricerca di ciascun
oggetto, stabilire un'Idea unica per tutto; e si può ritrovarla, perchè vi
esiste; scoverta questa, cercare se dopo
una ve ne ha due, o, se non due, tre o qualche altro numero; e ciascun uno di
questi cioè ciascuna di queste Idee esaminare ancora cosi, sinché si veda, non
solo che T^no primitivo è wno e moZ/f ed infiniti, ma anche quanti è cioè
quante Specie comprende l'Idea da principio stabilita; e non si deve applicare
alla moltitudine l'Idea dell'infinito, prima di vederne ogni numero che s'interpone tra l'infinito e l'uno
cioè non si deve considerare la moltitudine infinita, vale a dire gl'individui,
prima di considerare successivamente tutte le moltitudini determinate, vale a
dire tutte le divisioni e suddivisioni 'del Genere stabilito in principio; p.
e. se questo genere è l'Animale, e Platone ammettesse la classificazione dei
naturalisti moderni, prima di enumerare i
Tipi, le Classi, gli Ordini, le Famiglie, i Generi, le Specie; solo
allora si può lasciare ciascuno di tutti gli wm andare a disperdersi
nell'infinito Ciò che ho detto è chiaro nelle lettere, e puoi vederlo nelle
cose che hai appreso nell'infanzia. La voce che ci esce dalla bocca è una e al
tempo stesso infinita in moltitudine, per tutti e per ciascuno. Ma per nessuna
delle due cose diveniamo sapienti, né perchè conosciamo della voce l'infinito,
né perchè conosciamo l'uno, ma ciascuno di noi diviene grammatico perchè
conosce quanti e quali essa é cioè, come spiega, perchè nell'infinito della
voce sa discernere i diversi generi e specie di suoni. È per la stessa cosa che
si diviene musico: una è la voce anche per quest'arte; pure bisogna porne due,
il grave e l'acuto, e terzo il tono
medio MEZZO ed è a questo modo che bisogna esaminare tutto ciò che è uno e
molti. Posto questo principio generale, Socrate vuol farne l'ap.phcazione alla
sapienza e al piacere: Uno diciamo essere ciascuno di essi: ora il discorso
precedente ci chiede come ciascuno è uno e molti, e come ciascuno non è subito
infiniti, ma V uno e 1'altra hanno un certo numero prima di divenire infiniti. Filebo, comprendendo
Tinterrogazione di Socrate, dice: Socrate sembra domandarci 86 il piacere ha o
no delle specie, e quante e quali siano e cosi similmente per la sapienza. E
Socrate: È come dici: in effetto, come ha mostrato il discorso precedente, di
noi sarà di alcun valore in checchesia, se non è capace, di rispondere a questa
domanda su tutto cho è uno e simile e lo
stesso e il contrario vale a diro: su
tutto ciò che é al tempo stesso uno e molti, e perciò anche lo stesso e
diverso, simile e dissimile. Poi, il principio viene applicato ai quattro
generi, in cui Socrate divide tutti gli esseri che sono nell'universo, o
piuttosto a tre di questi generi, il finito, l'infinito e' il composto dei due:
Socrate ricerca come ciascuno di essi è uno e molti, riunendolo come dice
nel luogo riportato in uno, dopo averlo
guardato diviso in molti e disperso. La formula che lo stesso è uno e molti,
non si trova solamente nel Flleho. Così, nelle Leggi l'Ateniese dice: Giacché
vi hanno quattro specie di virtù, ciascuna è una, poiché sono quattro: e
tuttavia abbiamo chiamato uno tutte queste; diciamo infatti la fortezza virtù,
la prudenza virtù, e cosi le due altre, come se
realmente siano non molti j ma
quest'wwo solo, virtù. E: Io t'ho
spiegato come la prudenza e la fortezza sono differenti e due: tu spiegami come
sono uno e lo stesso. Figurati che tu devi dirmi come, essendo quattro, sono
uno; e domandami, dopo avermi insegnato che sono uno, che io t'insegni come
sono quattro l'Ateniese domanda insom al suo interlocutore la defììiizione
comune della virtù). E: Ma che? non
diremo noi lo stesso del bello e del buono? i nostri custodi devono sapere
soltanto come l'uno e l'altro sono molti, o anche come sono uno? Nel Menone, dopo che Menono, interrogato cosa sia
la virtù ANDREIA, risponde quale sia la virtii dell'uomo ANDREIA, quale della
donna, quale del fanciullo, quale del vecchio, ecc., Socrate dice che, cercando
una virtù, ha trovato presso di lui uno
sciame di virtù, e lo esorta a lasciare
la virtù intera e sana, e a cessare di fare di uno molti GRICE, PHILOSOPHY IS,
LIKE VIRTUE, ENTIRE. In questi luoghi il molti rappresenta le Specie rispetto
al Genere: ma altrove rapprrsenla gl'individui, le cose, rispetto all'Idea.
Cosi nella Rep.: Diciamo che vi hanno molti belli e molti buoni e
similmente ogni altra cosa, e li distinguiamo
col discorso; e poi il bello stesso e il buono stesso, e cosi tutti quelli che
ponevamo come molti, di nuovo ponendo secondo un'Idea Unica di ciascuno, come
unica, chiamiamo ciascuno ciò che è; e quelli diciamo vedersi, ma non
intendersi, le Idee intendersi, ma non vedersi. Ora io domando al lettore: 1® è chiaro o no che nei luoghi citati l'uno
è identificato coi molli, e i molti con
l'uno? che i molti sono riguardati, non come un'altra cosa dall'uno, ma come
l'uno stesso, e l'uno non come un'altra cosa dai molti, ma come i molti stessi?
che l'uno e i molti sono, non due cose completamente differenti e separate, da
una parte l'uno, da un'altra parte i molti, ma una sola e stessa cosa, che si
considera sotto due aspettì differenti, ora
come uno, ora come molti? 2^ è chiaro o no che quest'uno e questi molti
sono l'Idea e le cose, ovvero l'Idea generica e le Idee specifiche? 3^ é chiaro
che, questi due punti ammessi, ne risulta un terzo, cioè che l'Idea e le cose,
l'Idea generica e le Idee specifiche, sono una sola e stessa realtà considerata
sotto due aspetti differenti, e non due realtà completamente differenti e
separate? Ora se le Idee platoniche sono
immanenti, se e«se sono gli universali nel senso rigoroso della parola, cioè i
concetti generici e specifici, realizzati, ma nelle cose stesse; è questo
appunto che deve avvenire: che l'Idea generica, quantunque distinta dalle Idee
specifiche, e sussistente per se stessa, deve identificarsi nondimeno con
queste Idee specifiche, cioè con la loro totalità, e l'Idea specifica, quantunque distinta dagli individui, deve non
pertanto identificarsi eon la totalità degli individui; perchè l'universale e
il particolare, l'astratto e il concreto o, più generalmente, il più astratto e
il più concreto non possono essere, anche nel S'stema realista, che una cosa
stessa a gradi differenti di determinazione gradi differenti di determinazione
che, per noi, non sono che delle vedute
m(ntali differenti Fotto cui il medesimo oggetto viene considerato MODO
DI PRESENTAZIONE DEL SENSO FREGEIANO GRICE, ma che il metafisico realista, con
quella confusione sistematica tra l'obbiettivo e il subbiettivo che è il
carattere proprio di questa forma di metafisica, trasporta nell'oggetto stesso,
e ne fa degli stati differenti, dei momenti diversi di sviluppo non successivi, ma simultanei di un solo e stesso
essere. L'identificazione dell'uno coi molti, risultante dalla inevitabile
identità fra l'astratto e il concreto cioè fra il più astratto e il più
concreto tiene nel sistema platonico un posto più cospicuo che ne gli altri
sistemi analoghi, per Tirr.portanza suproma che la dialettica platonica dà alla
relazione tra i generi e le specie; ma è evidente ohe questa identificazione ha luogo in tutti i
sistemi realisti. L'Idea dell'essere, p. e., non si identifica, per Hegel, con
tutte le altre Idee, le quali non sono che TEst^ere primitivo, che riceve
successivamente nuovi gradi di determinazione? e ciascuna di queste Idee, una
in s. stessa, non apparisce infiniti nello spazio e nel tempo? Quest'Essere è
dunque, come V Essere di Platone, uno, molti,
rd infiniti allo stesso tempo. Ma questa conseguenza inevitabile del
realismo non ha luogo che quando le astrazioni obbieitivate dal realista si
suppongono nelle cose stesse supposizione che d'altronde fanno tutti i
realisti; il proprio dall'interpretazione trascendentalista, cioè di questa
forma dell'interpretazione trascendentalista che vede nelle Idee platoniche
tutt'altra cosa che i pensieri della
divinità, è di attribuire a Platone una dottrina che non trova riscontro in
alcun'altra dottrina conosciuta; se le Idte platoniche non fossero che gli
archetipi delle cose fuori delle cose, e le Idee generiche che gli archetipi
delle Idee specifiche, egualmente separati da queste, il rapporto tra le Idee e
le cose, tra le Idee generiche e le specifiche, sarebbe esclusivamente un
rapporto di differenza, e non questo
rapporto ambiguo, di differenza al tempo stesso e d'identità, che i filosofi
realisti sono obbligati di supporre tra l'astratto e il concreto o più
propriamente tra il più astratto e il più concreto, appunto perchè i loro
astratli non sono fuori dei concreti, ma i concreti stessi GUARDATI dal punto di vista d^irastrazionc.
Evidentemente, Platone trascendentalista avrebbe calunniata la sua dottrina, facendone uscire
la conseguenza ch'egli si contenta di chiamare strana, ma che è in verità
inconcepibile e contraddittoria che l'uno e molti e i molti sono uno: questo corollario del
sistema platonico è cosi chiaramente connesso con l'immanenza delle Idee, che
l'interprete trascendentalista potrebbe a buon dritto farne una delle più forti
obbiezioni contro Tinterpietazione delle
Idee come immanenti, se Platone l'avesse dissimulato, invece di proclamarlo
arditamente, come ha fatto, sventuratamente per Tinterpretadone
trascendentalista. L'identità tra i molti e l'uno suppone l'assorbimento dei
molti nell'uno, cioè delle cose nell'Idea, e delle Idee specifiche nelF Idea
generica. Dire che tutti gli animali sono l'Animale THE ALTOGETHER SAILOR THE
ONE AT A TIME SAILOR THE ALTOGETHER NICE GIRL THE ONE AT A TIME NICE GIRL, e
che l'Animale è tutti gli animali, è risohere tutti gli esseri animati in
un'essenza unica, l'Animale. Ora siccome tutte le Idee sono, secondo Platone,
subordinate ad un'Idea suprema, la più universale di tutte, che tutte le
abbraccia nella sua universalità, ed é l'eiSo^ di tutti gli
£t$Yj, l'Idea di tutte le Idee, ne segue che tutte le Idee, e quindi
tutte le cose, si risolvono in questa essenza universalissima GENUS
GENERALISSIMVS, che Platone chiama il Buono, l'Essere, l'Uno, ecc. Quest'Idea
è, come dice SCHELLING del suo assoluto, l'universo concentrato in un punto: il
mondo delle Idee e delle cose non sono che il Buono o l'Essere allo stato
esplicito, e il Buono o l'Essere è il
mondo delle Idee e delle cose allo stato implicito.IMPLICITURA È a questa
dottrina della risoluzione del tutto in una Lenità suprema, che si riferisce
(juesta indicazione d'Aristotile in Met: E, ciò che sembra facile, dimostrare
che tutto è uno, non riescerpoiche dall'astrazione sxBeaic; non risulta che
tutti sono uno, ma risulta semplicemente (jualche cosa in sé qualche
Idea nna, se pure si concedono tutte le loro supposizioni: ma nemmeno
ciò, se non si concede che ogni universale è genere; ora questo per alcuni
universali è impossibile. Aristotile fa qui alla proposizione di Platone due
obbiezioni: una ò la seconda che Platone non ha il dritto di htabilire un'Idea
unica comune per tutte le cose di cui si predica Tessere H. P. GRICE
MULTIPLICITY OF BEING IN ARISTOTLE o Timo, perchè queste cose, quantunque loro si applichi lo stesso nome
BEING, non costituiscono un genere; e Taltra la prima che, ancorché si fosse
autorizzati a stabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si
predica Tessere H P GRICE MULTIPLICYT OF BEING IN ARISTOTLE o l'uno cioè per
tutte le cose, perchè di tutte si predica Tessere H P GRICE ARISTOTLE ON THE
MULTIPLICITY OF BEING e T uno, ne
seguirebbe semplicemente che vi ha
un'Idea delTes^sere o dell'uno, ma non che tutte le cose si risolvono in una
cosa unica, l'Essere oTUno. Facendo quest'ultima obbiezione, Aristotile
dimentica la dottrina del Filebo, ciò che in lui non é sorprendente, perchè
tutta la sua interpretazione del platonismo di GRICE E CODE tende ad esagerare
il rapporto di differenza tra le Idee e le cose e tra le Idee generiche e
spccifiche a scapito di quello à' identità: ma, qualunque sia jl valore delle
obbiezioni d'Aristotile STUDIATA DA GRICE SEQUENDO A OWENS, ciò che risulta
incontestabilmente dal luogo citato, è che Platone tira dal sistema delle Idee
la conseguenza che tutto è uno. Ora
questo monismo sarebbe inconcepibile, se le Idee fossero separate dalle
cosi^ e le une dalle altre: in questo
caso il mondo ideale sarebbe, non un'unità multipla, ma una moltiplicità senza
unità; e s'ì p^r un'inconseguenza si
ammettesse che le Idee, pur essondo fuori dello cose, si riducono all'unità in
un'Idea suprema, questa supposizione non basterebbe ancora a rendere conto della proposizione platonica riferitaci da
Aristotile, perchè ciò che è affermato da questa proposizione è che tutto è
uno^ e non semplicemente che tutte le Idee sono uno. Su qu'^sto concetto di una
Unità suprema che contiene virtualmente il tutto, rimandiamo a ciò che abbiamo
detto parlando della dialettica platonica. Per indicare il rapporto tra T
attributo e il soggetto, noi diciamo che
l'attributo è nel soggetto, e che il soggetto HA GRICE IZZING HAZZING l'attributo. Questi termini e i loro sinonimi
sono in un certo modo dei traslati, come tutti quelÙ i esprìmenti delle
concezioni astratte, 1 quali
primitivam*»nte non significano che delle idee più concrete, ma che
hanno con queste concezioni astratte una certa analogia su cui è fondato il
passaggio dall'uno all'altro dei due
significati. Nel nostro caso, questo significato primitivo e più concreto è,
per i teruìini che indicano il rapporto dell'attributo al soggetto, la PRESENZA
IZZING locale, e per quelli che indicano il rapporto del soggetto
all'attributo, IL POSSESSO HAZZING GRICE IZZING HAZZING. Nel sistema realista,
in cui gli attributi vengono considerati come sostanze, inesistenti nei soggetti, ma aventi, in essi, un'esistenza
propria e distinta, queht'analogia tra il significato primitivo e più concreto
dei termini indicanti il rapporto tra il soggetto e l'attributo IZZING LA
PRESENZA, 0 il significato nuovo e più
astratto in cui vengono applicata è naturalmente più grande. Per conseguenza
Platone, per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, preferisce, fra i
termini che esprimono il rapporto tra il
soggetto e l'attributo, quelli che, anche usati in questo nuovo significato,
suggeriscono più vivamente le idee del loro significao primitivo, vale a dire
della presenza locale e del possesso. Di pin, il possesso dell'attributo
essendo, nel sistema realista, comune a molti soggetti, noi possiamo attenderci
a priori che, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, cioè dei soggetti agli Attributi, verrà data la
preferenza a quei termini che esprimono, non solo il possesso, ma la comunanza
nel possesso. Di là, nel platonismo, i termini tecnici presenza^ esser
presente Tiapo'jo£a, uapsìvat e
sinonimi, per indicare la relazione delle Ilee alle cose, e partecipare,
partecipazione [xexéxeiv,
jjlsTaXajjipavetv,
xoivwverv, ecc., e i nomi corrispondenti ixéGsgi^, jiexaXYj'^^ig, xotvwvia,
ecc. per indicare la relazione delle cos^ alle Idee. Naturalmente questi termini non
sono i soli che Platone impieghi per denotare il rapporto tra le Idee e le
cose: degli altri, alcuni esprimono il concetto dell’immanenza d'una maniera
anche più energica. L'oso di tutti questi termini parusìa, partecipazione e gli
altri è cosi naturale nell'ipotesi d»*irimaianenza dello Idee, e diviene SI IMBARAZZANTE in
quella della trascendenza, che basterebbe di enuoeiarli per provare la prima
delle due ipotesi: ma siccome il 80g<>etto è stato molto discusso, e le
lunghe discussioni hanno per risultato di spargere del dubbi sulle cose più
chiare, cosi noi siamo obbligati ad un'e8poii;izione più minuziosa, per il comodo della quale li
divideremo in due gruppi, riunendo gli
altri attoroo ai due termini tipici parusia e partecipazione. Quando Platone
dice che gli oggetti sono bianchì per la presenza napouoCal, in «ssf, della
bianchezza, belli per la presenza della bellezza, ecc., chi vorrà negare che
Tidea che ci suggerisce immediatamente la parola presenza sia la presenza deirattributo nel soorgetto?
Noi saremmo autorizzati a cercare un
altro significato, se ciò che si dice essere PRESENTE non fosst) la
bianchezza, la bellezza, ecc., in una parola se le Idee platoniche fossero
altra cosa che degli attributi realizzati. So si trattasse p. e. delle divinità
delle specie di alcuni popoli selvaggi – NELLA ANGILA E NELLA BRITANNIA, a cui
Tylor ed altri paragonano le Idee platoniche, ch'essi intendono, alla
maniera tradizionale, come degli
archetipi, noi dovremmo intendere per la parola parusia la DIMORA di uno
spirito feticcio in un oggetto; p. e., una cosa è bella per la presenza
dell'Idea del bello, significherebbe allora che essa è bella perchè è posseduta
dallo spirito che presiede alla specie delle cose belle. Ma l'Idea del bello
essendo, non uno spirilo feticcio, nò una divinità, né una forza, né alcun altro degli agenti iperiisici Tylop
Xa aivilizsaz, primit,, suU»
tìne. che sono stati riguardati come cause efficienti dei fenomeni, ma
l'attributo bell-zzi, considerato come un'entità reale HORSENESS, è ragionevole
cercare alla proposizione un altro significato che questo si ovvio, che la cosa
è bella perchè ineri-^ce in essa l'attributo
Bellezza V Alcun interprete trapcendentalista non ha mai detto, per quel che io sappia, d'una
maniera preei'^a quale sia il significato della parola parusia Fecondo questa interpretazione: ma il
paragone di Tylor ci suggerisce l'unica soluzione che l'interprete
trascentalista possa darà al problema problema nell'ipotesi della trascendenza
della parusia platonica. Le Idee di Platone, potrebbe dirsi, sono presenti
nelle cose come noi diciamo che Do è
presente nel mondo: la parola presenza, trattandosi di un oggetto inesteso che non è nello spazio WHERE
IS BUNBURY? WHERE IS DISINTERESTEDNESS?,
non potrebbe avere alcuna significaz'ono precisa; essa indica
semplicemente una vaga assimilazione, che si tenta di fare, del rapporto tra
due oggetti, che si suppongono tra di loro nella relazione di causa e di effetto, di agente e di paziente, a quel
rapporto locale, che solo può fflr comprendere la possibilità dell'azione di una
c^sa su di un'altra, lo spirito uma o avendo sempre trovato incoucc|ibile che
una cosa agisca dove essa non è. ACTION AT A DISTANCE I WILLED THAT THE CHAIR
RISE I FAILED Per quanto questa interpretazione della parusia platonica sia
intrinsecamente inverisimile e in
effetto l'attitudine di un modello, quale l'Idea nell'interpretazione
trascendentalista, a produrre delle copie, è altrettanto inconcepibile
nell'ipotesi d'un'AZIONE A CONTATTO quanto in quella d'uu'AZIONE A DISTANZA - sicché Platone avrebbe senza alcun profitto
complicato il suo sistema d'un'ipotesi tanto onerosi, che introduce nel sistema
delle Idee trascendenti qml'a stessa
es'stenza simultanea dell'uno nei molti, che è la più grave difficolta del
sistema delle Idee immanenti pure è tutto quello, io credo, che Tiuterprete
trascendentalista può dire per rendere
cont^ deiTaso che Platone fa del
t'armine parusia e degli nitri dello stesso ordino. Per conseguenza, è in
questi termini che io proporrò la qu'stione deir interpretazione della parusia platonica: la presenza delle Idee nello cose è la
presenza delPattributo nel soggetto, o e una presenza quad locale, per cui le Idee, separate dalle cose, quantunque non
siano in alcun luogo, pure si trovano in un certo modo DOVE SONO LE COSE SANZIO
non ì/i loco sed ubi, come dicevano gli scolastici deiranìma, d'una maniera
che. del resto, è impossibile di dire con pm precisione? Tra le due interpretaziooì il lettore potrà
giudicare dagli esempi segu*^Jìti. Ipp.
Mago.: Il bello stesso, di cui tutti gli altri belli le co«?e belle sono
orwrt/i xooiisrxaO, e appaiono belli, tutte le volte che è
/^msew^c TcpoorivyjTai quella specie Le
erse belle potrebbero essere ornaf^ di un bello, che non è una loro PROPRIETA
HAZZED? lutante questo bello di cui si
cerca la definizione è certamente l'Idea
del bello. Ih. : Il conveniente per cui si è proposto dì definire il bello,
diremo che è ciò che, essendo presente Tiapavsvóiievov, fa par» r bello ciascuno degli oogetti a cui è presente
uap^, o ciò che lo la essere bello? Se il conveniente fa parere le
cose più belle di quel che sono, il conveniente è una sorta d' inganno intorno
al bello, ò non è ciò che noi cerchiamo. Poiché noi cerchiamo ciò per cui tutte
le cose belle sono belle – and pigs pigs and rightly so-called Crome Yellow --, come è per recce5?so che tutte le erse grandi
sono grandi: per esso infatti tutte sono grandi, e, quand'anche non sembrino
tali, purché eccedano, è necessario che siano grandi Ippia dice Ma il
conconveniente, o Socrate, fa le cose ed essere e parer belle, quando è
presente irapóv; a cui Socrate: É dunque
impossibile che le cose realmente belle non sembrino belle, essendo presente
Tcapóvxo; ciò che le fa parere tali
(2> Parmen VELIA: 4 Se o TUno
avesse piccolezza e le «Itre cose grandezza, o ITJno grandezza e le altre cose piccolezza, quella
delle due specie a cui fosse presente TrpooeCrj la grandezza non sarebbe
maggiore, quella a cui la piccolezza,
minore? Necessariamente Sodo dunque queste due spi eie, la grandezza e
la piccolezza? se infatti non fossero, non sarebbero contrarie fra di loro, e
non inerirebbeio èxy^x'^oia^y negri! esseri. Il seguito mostra più chiaramente
ancora che la grandezza e la piccolezza di cui si tratta sono delle Idee,
delle astrazioni realizzate. Filebo e.
e La
qj'Jatg del bene in ciò d
fferisce dalle altre, che
chiunque dei viventi a cui è presente jiapeCr) sempre, in tutto ed
assolutamente, non ha più bisogno di niente altro, ed ha tutto ciò che gli
Qaesto conveniente è pure un'entità trascendente? ma chiamandolo un inganno,
Socrate suppone evidentemente oh'esso entra nella sfera delle nostre percezioni
HORSENESS. Quest'eccesso è anch'esso un'entità trascendente? dovrebbe
esserlo se il bello lo è, poiché Socrate
dice che le cosa grandi sono grandi per l'eccesso, come le cosa belle sono
belle per i\ bello. Intanto qui è evidente ohe la proposizione: le cose grandi
sono grand[ per l'eccesso, signiftoa
puramente e semplicemente ch'esse sonotaU perchè eccedono. Ippia, cha
non sa niante dalla teoria dalle Idee,
può intendere altro per la presenta del conveniente che la presenza di un
attributo nel soggetto? anche Socrate quindi deve intendere la stessa cosa, se
tra i due interlocutori non vi ha un
equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice:
aequi-vocality thesis]. \0 -^ basta perfettamente
Rep.: Socr. : La séte in quanto è sete, non è Tappetito, neiranima, di
qaal che cosa di più che ciò che noi diciamo cioè la bevanda non è, p. e., l'appetito di una bevanda calda o fredda molta 0 poca, in una
parola di qualche bevanda determinata; ma se alla sete si aggiunge npoQ% il
calore apporterà di più Tappetìto del freddo, se si aggiunge il freddo, del
caldo; e se per la presenza 7:apoiio(av del molto la sete è molta, apporf^rà
l'appetito del molto, se « poca, del poco; ma la sete stessa non é l'appetito
di altro che di ciò di cui lo è per sua natura,
vale a dire della bevanda stessa; e cosi la fame del cibo. Cosi è, disse
Glaucone; ciascun appetito in se stesso é V appetito solamente dell'oggetto per
se stesso a cui rsso si riferisce per sna natura; Tesserlo di un tal oggetto o
tal altro oggetto determinato sono delle cose che si aggiungono. Carmide: E,
chiaro che se in te è presente Tzdpto-zi la temperanza, tu hai di che formarti
un'opinione intorno ad essa. È
necessario infatti che inerendo IvoDaav essa apporterà, s'è vero che imrisce
iveottv, qualche sentimento di so stossa, da cui ti verrà un'o Il bene, di cui
si tratta nel Fileho è incontestabilmente una Idea, un concetto realizzato,
come si vede, p. e., a in cui è chiamato il primo bene
denominazione per cui si designa l'Idea Arist. fra gli altri, Kth, Knd., e gli
è assegnata una natura eterna ciò che è
il carattere distintivo delle Idee. Si negherà che la <^ùotg del bene, di
cui si parla, sia la stessa cosa che il primo bene, di cui si parla? Ma perchè?
Il primo bene, l'Idea, non può essere che ciò che corrisponde al concetto, cioè
appunto la ^ùai^ del bene. Questo molto di cui vi ha la parasia nella sete è
dunque una nuova circostanza, come il caldo e il freddo, non compresa nel concetto di sete, e che si
aggiunge alla sete considerata secondo il concetto, cioè in astratto, come una
differenza. I plnione su ciò che sia e quale sia la temperanza. Non lo credi?
Lo credo E avendone un'opinione, poiché sai parlare greco, potrai dire ciò che essa ti sembra. Forse Dicci
dunque che cosa sia, secondo la tua opinione, la temperanza, affinchè
possiamo congetturarne se essa inerisce
svsoxiv in te o no. Questa temperanza èToggetto a cui si riferisce la
definizione, per conseguenza ridea della temperanza. Lisis Alcune cose dico
essere tali quale è ciò che è ad esse presente xò Tiapóv, alcune altre no. Cosi
se un oggetto si tinge d*un certo
colore, prc*c/i/e (Tiixpeoxt, mi sembra, a ciò che si è tinto ciò con cui si è tinto. È presente
Ma ciò che si è tinto è allora dello
stesso colore di cui è ciò che
glMnerisce xò éiióv? Non
comprendo Cokì forse comprenderai. Se i tuoi
capelli, che sono biondi, si tingessero con la biacca, sarebbero
bianchi, o piuttosto lo sembrerebbero? Lo sembrerebbero Eppure sarebbe presente
TiapeCrj in essi la bianch(^zza SI Con tutto ciò non sarebbero più bianchi di
prima, presente Tiapoùor^g la bianchezza non sarebbero né bianchi ne
neri. È vero Ma quando, o amico, la vecchiaia apporterà questo stesso colore,
allora saranno tali quale è ciò che sarà presente xò Tiapóv, bianchi per la
presenza izol^omoìol del bianco. E come no
V Ora questo io ti domando: ciò a cui é presente iiap^ qualche cosa, è
sempre tale quale è la cosa che e presente xò Tiapóv? ovvero lo è, se questa cosa è presente iiap^ in un certo modo, se
no, no? Cosi piuttosto, disse Qui Platone distingue la parusia in due specie,
di cui Tuna, la più intima, è evidentemente V inerenza dell'attributo nel
soggetto. Ora è questa sola specie di parusia che rende ciò a cui una cosa è
presente tale quale è questa cosa: cosi è questa la specie di parusia che
compete air Idea, perche la parusia dell'Idea rende le cose tali quale è l'Idea. NaturalmeOte
T interprete trascendentalista dirà al
suo solito che in alcuni dei luoghi
precedenti o forse anche in tutti Platone non parla delle Idee. Ma
perchè, se è un principio platonico che il concetto generale si riferisce
all'Idea? A questo perchè egli non potrebbe dare che una sola risposta: che nei
casi in cui evidentemente si tratta d'una realtà immanente, noi non possiamo
ammettere che Platone parli delle Idee, perchè un'Idea platonica non pnò essere
che un'entità trascendente. Ma non è questo un mettersi al di fuori di ogni
discussione, e sostituire alle prove il proprio capriccio? Sì può sfidare V
interprete trascendentalista a separare nettamente i casi in cui Platone parla
delle Idee e quelli in cui no -tutte le volte, s'intende, in cui si tratta d'un concetto generale; a dirci, limitandoci
alla quistione presente, per esempio, come noi possiamo distinguere i casi, in
cui la parusia significa l'inerenza deirattributo nel soggetto, da quelli, in
cui significa non si sa qual rapporto misterioso tra un'entità trascendente e
un oggetto della natura. L' impossibilità di fare questa distinzione dovrebbe
renderlo accorto che il significato di questo
teimine non può in un caso differire sostanzialmente da quello che
chiaramente ha in un altro. Gli esempi seguenti come anche in parte alcuno del
precedenti, segnatamente il penultimo si riferiscono, non ai termini TiapoooCa,
Tiapstvat ed equivalenti, ma ad altri analoghi, che esprimono l'inerenza delle
Idee nelle cose d'una maniera anche più ch'ara. Cratilo subito dopo aver detto
che, se si rompe la spola, il fabbro
guarderà, per farne un'altra, non alla spola rotta, ma all'sISog, a ciò che è
spola: Quando si tratta di fabbricare delle spole per delle stoffe fine o
grossolane dì filo o di lana o di
qualsiasi altro genere, non è necessario che tutte abbiano S/s'-v V stéos della
spola?,, EìUHf.: Che cosa dici essere il santo e l empio neiromicidio e in ogni
altra azione? non è lo stesso il santo
in tutte le azioni? e 1'empio, il contrario del santo? non è lo stesso e simile
e avente Ix^v un Idea unica, secondo l'empietà, tutto ciò che è empio? Menane:
Le virtù, quantunque molte e diverse, ìianno Ix^'^ai tutte un certo sISo^ lo
stesso per cui sono virtù, al quale bisogna guardare per rispondere alla
domanda: che cosa è la virtù?(lì. Filebo: Non potendo prendere il bene m un Idea unica, prendiamolo in tre Idee, la
beltà, la proporzione e la verità qui tutti gl'interpreti convengono che si
tratta del bene Idea. Compariamo ciascuna di queste tre col piacere e
l'intelligenza, e vediamo se Tuno o l altra ha più affìoità con esse-Parlì della
beltà, della verità e della scienza? Si. Dopo la verià, considera la misura, se
il piacere {^possegga xéxxr.Tai più della s
ipienza o la sapienza più del piacere Anche questa quistione è facile a
risolvere Io penso che non vi ha niente
di più smisurato che il piacere e la gioia, uè di più misurato che
l'intelligenza e la scienza Ottimamente. Rispondimi anCora sulla terza cosa:
l'intelligenza partecipa della be à più che il piacere, in modo che
l'intelligenza sia più bella del piacere, o al contrario? Il piacere non e dun Gai vi ha la paratia dell'Idea generica
nalle Idee speoifi-,a 1^ p"ova che
questa é una partecipazione nel senso teenico, cioè quella delle cose alle
Idee. qne né il primo né il secondo bene: ma il primo bene é circa la misura e
il misurato e l'opportuno e quaut'altre cose tali devono credersi aver sortito
una natura eterna. Non è chiaro che questa misura e questa beltà che
VinteìUgenzA possiede o a cui partecipa più del piacere, sono delle Idee?.
Fedone: Allora nella prima prova dell'Jmmortalità si dice che dalla cosa
contrai ia viene la contraria, ora si dice invece che il contrario stesso non
può mai divenire contrario a se stesso, né quello in noi p. e. la mia 0 la
vostra piccolezza, la mia o la vostra grandezza né quello nella natura la
piccolezza e la grandezza in generale,
cioè le Idee del piccolo e del grande. Allora, o amico, si parla delle
cose che hanno èxóvxwv i contrari e che chiamiamo cel nome di questi, ora di
questi stessi, dei quali vierenti èvóvxwv le cose prendono il nome con cui le
chiamiamo: è di questi stessi che dicianio che l'uno non può mai divenire
Taltro,: 'Vi ha qualche cosa che ch'ami Caldo e qualche cosa che chiami Freddo?
OTtaraente È forse un caldo quale il fuoco e un freddo quale la neve? No, per
dio! Ma un Caldo che é altra cosa che il fuoco e un Freddo che è altra cosa che
la neve? Si (3J Ora tu ammetterai, io credo, che giammai la neve, ricevuto
aegaiiévYjv il Caldo, resterà quale era prima, ma, venuto carta, nota Cosi
tanto il contrario in noi quanto quello nella natura sono inerenti nelle cose,
e il contrario nella natura non può
inerire in essa che nel senso stesso in cui t'inerisce il contrario m noi, cioè
come un attributo nel soggetto. Distingue il Caldo e il Freddo Idee, che sono
propriamente gli oggetti a cui si riferiscono questi nomi, dalle cose fredde e
caldo, dai partecipanti. 7:pootóvxotì ad essa il Caldo, è necessario che si
sottragga o che perisca Senza dubbio E similmente il fuoco, venuto ad esso il Freddo, deve o sottrarsi o
perire, ma giammai potrà, ricevuto il Freddo, restare ciò che era prima È ve o Tale è dunque la natura di ceit^ cose come queste, che non solo VelòoQ
stesso deve essere chiamato sempre dello stesso nome, ma anche qualche altra
cosa, che non è quello, ma ha sempre, sinché è, la forma di quello. Ciò che io
dico sarà forse più chiaro con questo
esempio: r Impari rsISog stesso non è necessario che jibbia sempre lo stesso
nome? È necessario Ora io ti domando: è la sola cosa che abbia sempre questo
nome, o vi ha anche qualche altra cosa, che senza essere ciò che è l'Impari,
tuttavia deve sempre chiamarci, non solo col suo proprio nome, ma anche con
quello d'impari, perchè tale è la sua natura che non può mai essere abbandonata à7:oXs(u£oeat dall'Impari? Se la
parus'a deirimpari non fosse quella deir attributo nel soggetto, il non CFsere
mai abbandonata dairimpari sarebbe una ragione per chiamare sempre una cosa col
nome deirimpari? Per esempio, la triade non deve sempre chiamarsi e col suo
proprio nome e cen quello dell'Impari, quantunque questo non sia la stessa eosa
che la triade? ma tale é tuttavia la
natura e della trìrde e della pentade e della metà di tutti i numeri i che
ciascuno, quantunque non s-a ciòche è rimpari,
è nondimeno sempre impariti. Ecco dnnqm c<ò che io voglio dimostrare: che
non solo ì contrari non si ricevono où 56xó[ieva fra di loro, ma ancora tutte
quelle erse che, senza e.«^sere reciprocamt^nte contrarie, Queste ultime parole
spiegano ciò che vuol dire flou ^aaere
mai abbandonata daìV Impari. hanno Ixst GRICE IZZING HAZZING sempre i contrari,
non ricevono mai quella Idea che è contrarla a quella che è in esse év aOior^
oìjo^y, ma venendo sTitoóor^c questa, o periscono o si sottraggono. I tre, per
esempio, noa diremo noi che periranno 0 accadrà loro checchesia, avanti di
divenire pari, mentre sono tre? L'esempio spiega che una cosa ricevere ridea
contraria a quella che è in essa, significa: questa cosa acquistare V attributo
contrario a quello che ha. Non solo dunque le Specie contrarie non soffrono
Vaccesso reciproco oùx ùnoixéyti éTcìóvi'àXXyjXa, ma anche certe altre cose sia
Sp-cie sia cose particolari non sofsoffrono Vacc^esso dei contrari ciré delle
Specie contrarie Queste cose sono quelle, le quali forzano ciò che occupano xaTàax^2
ad avere ta/eiv GRICE IZZING HAZZING, non solo la propria Idìn, ma anche quella
di qualche contrario. Come dici?- Corae dicevamo poco fa: sai infatti che ciò
che occupa Tldea del trp, è necessario, non solo che sia tre, ma anche dispari
L^esempio, al solito, prova che la parusia dell'Idea non è che il possesso
dell'attributo - Certamonte Ora iodico che in una tal cosa neiridea del tre non
entrerà IX9oi mai l'Idea contraria alla forma che è la causa di ciò Giammai
Questa forma è la dispari Si La contraria ad essa è quella del pari Si Nel Tre
dunque non entrerà ifjgeO mai l'Idea del pari Giammai CoM il Tre é privo
àtaoipa del Pari Privo Dunque è impari Si Vediamo dunque come possiamo
determinare quali siano quollo cose, che, quantunque non siano contrarie a una
certa cosa pure non ricevono 5éXsxaO mai questa; come la Triade, cho, pur non
essendo contraria al Pari, non riceve mai il Pari, perchè sempre apporta
éTitcpépet il contrario di questo; e la Diaie il contrario dell'Impari, e il
fuoco quello del Freddo, e cosi via via. Vedi se possiamo determinarle cosi:
non soIvO il contrario non può ricevere il contrario, ma ancora quello chQ
apporta qualche contrario alle cose in cui va Trj non può ricevere il contrario
di quello che apporta Io ricomincerò a farti delle domande, e tu rispondimi,
non quello stesso che io ti domando, ma un'altra c^sa, seguendo lo esempio che
io ti darò: io voglio dire che oltre quella risposta sicura che abbiamo
stabilito in principio cioè che le e se belle sono belle per il Bello, le cose
grandi grandi perla Grandezza, ecc.: ì, ne vedo uuh altra che nasce dalle cose
che abbiamo detto ora. Per esempio, se tu mi domandassi cosa è che trovandosi
in uno oggetto (j) àv zi è'^yé'^rizoLi questo diviene c^ldo, io non ti darei
quella risposta sicura ed ignorante che è il Caldo, ma un'altra più dotta, che
segue da quello che abbiamo detto ora, cioè che è il fuoco. Similmente se mi
domandassi cosa è che trovandosi nel corpo, questo diviene malato, non ti
risponderei che è la Malattia, ma che è la febbre; e se mi domandassi cosa è
che trovandosi nel numero, questo è impari, non ti rispond^^rei che è l'Impari,
ma che è l'unità; e cosi per le altre cose. Intendi Ciò che l'Idea apporto alle
cose in cui ra, è evidentemente un attribnto di queste cose; ma è anche
un'Idea, perchè i contrari in tutto questo ragionamento sono considerati come
delle Idee; per conseguenza noi dobbiamo intendere questo apportare sTCìcpépStv
nel senso più letterale, o meglio più etimologico, possibile, cioè come se
l'Idea porta nelle cose in cui ra il suo proprio attributo quella delle Idee
contrarie a cui ossa partecipa della stessa maniera ohe noi, entrando in un
luogo, vi portiamo con noi ciò che teniamo addosso. Questo senso realista della
parola è perfettamente conformo al carattere delle altre espressioni di cui
Platone si serve in tutto questo luogo, e prova l'identità numerica
dell'attributo nell'Idea che apporta il contrario e nelle cose in cui lo
apporta, Questo caldo, questa malattia, questo impari sono le Idee; se no,
rispondere che un oggetto è caldo per il caldo, ecc. non sarebbe quella
risposta ignorante e sicura stabilita nel principio, perchè questa consiste a
spiegare l'essere e il divenire delle cose ciò che voglio dire? Perfettamente
Rispondimi dunque: cosa è che trovandosi sYyévYjxat e. «. in un corpo, questo è
vivente? L'anima È sempre cosi? Sempre. L'an'ma apporta dunque sempre in ciò
che occupa xaxàaxTQ, la V^lta? Senza dubbio Vi ha un contrario della Vita, o
non ve ne ha? Vi Iia Qual è? La Morte Dunque Tanima non riceverà mai il
contrario di ciò che essa apporta sempre, secondo il principio d| cui sopra
siamo convenuti Senza dubbio Ma come abbiamo chiamato poco fa ciò che non può
ricevere Tldea del pari? Impari E ciò che non può ricevere la Morte, come lo
chiameremo? Immortale MaTanimanon può ricevere la Morte No L'anima è duncjue
immortale? Immortale. Bisogna ora fare alcune osservaz'oni su tutto il
contesto. La prima è che non potrebbe esservi alcun dubbio che i nomi cho io ho
scritti con la maiuscola o che sono preceduti dalla parola Idea, non designino
realmente delle Idee, delle astrazioni realizzate. Ciò non è solamente provato
dairevidente realismo delle espressioni indicanti la parusia: andare, venire,
entrare, occupare, ecc. come potrebbero questi termini applicarsi a delle
semplici astrazioni, se queste astrazioni non fossero considerate come delle
realtà? e dagli altri indizi su cui ho richiamato ratteuzionc in alcune delle
note o ohe il lettore ha per la parasia e partecipazione delle Idee. Aggiungiamo
ohe questa Malattia, quest'Impari, questo Caldo devono trovarsi nelle cose
nello stesso senso in cui ri si trovano la febbre, l'unitji e il fuoco giusta
la dottrina fìsica qui ammessa da Platone, secondo la quale il calore sarebbe
l'effetto della presenza interiore del fuoco, vale a dire presenti non d'una
presenza esteriore, ma interiore, come quella di una parte nel tutto. potuto
notare da se stesso; ma è dichiarato esplicitamente dallo stef-so Platone. E in
effetto egli fa precedere questa prova deirimmortalità, che ritiene la più
rigorosa, da una esposizione della teoria delle Idee, perchè per ottenere una
tal prova è necessario, egli dice, di esiminare a fondo la causa della
generazione e della corruzione, o questa causa è la presenza o partecipazione
delle Ideo e la loro sottraziono; e Socrate dico a Cvìbete che, se questi gli
accorda Te sistenza dt*lle Idee, egli gli dimostrerà che Tanima è immortale.
Qual è il legame tra questa dimostrazione deirimmortalità dell'anima e la
teoria delle Idee? È cho questa teoria appresta la base, per dir cosi,
induttiva al principio che è il cardine deirargomento, cioè che una cosa che
conferisce sempre un certo attributo alle cose che essa occupa, non può mai
avere l'attributo contrario. Platone fa vedere prima che questo principio si
verifica nel rapporto tra le Idee e le cose, che il Tre, p. e., che rende
sempre impari tutto ciò che occupa, non può mai essere pari; è ne conclude per
analogia che il principio deve pure verificarsi nel rapporto tra Tanima e il
corpo, per conseguenza che Tanima, la quale rende sempre vivente tutto ciò che
occupa, non può mai morire. Co>i tutta la forza delTargomcnto sta
nell'analogia tra la parusia dell'Idea nelle cose e quella dell'anima
nel!'ess»^re vivente secondo la dottrina auimista: se l'astratto non fosse nel
concreto come raninia è nell'essere animato, vale a dire come una realrà avente
un'esistenza propria e distinta; se il Tre, p. e., fosse un semplice attributo
delle cose che si dicono tre, e non un attributo elevato al grado di realtà
sostanziale; 1'aoa^ogia non esisterebbe, e mancherebbe all'argomento ogni forza
probante. L'argomento suppone dunque la dottrina delle Idee la re«»lizzazione
delle astrazioni, e al t'^inpo stesso che le Idee siano presenti nelle cose,
come Tanima è presente neU'eesere animato. Qualche dubbio potrebbe forse
sorgere relativamente alle Idee dei contrarli: caldo, freddo, pari, impali,
ecc. Siccome Platone ha distinto un po'sopra il contrario in noi e il contrario
nella natura Tinterprete trascendentalista potrebbe obbiettare che nel nostro
contesto il caldo, il freddo, il pari, V impari, ecc. corrippondono forse al
contrario in noi, e non al contrario nella natura, e che non è necessario che
siano il caldo, il freddo, il pari, lo impari, ecc. Idee. Ma quest'obbiezione
non varrebbe niente, perchè per il contrario in noi Platone intende Tattributo
considerato, non nel suo concetto generale, ma come PROPRIETA di una cosa
particolare, fenomenalmente^ quantunque non realmente^distinta dalle proprietà
omonime delle altre cose particolari; e Tattributo considerato cosi, cioè
individualizzato, fenomenalizzato, Platone non lo considera come avente una
realtà propria e distinta; questa non compete che all'attributo considerato
secondo il concetto generale, airidea Ora nel nostro luogo il caldo, il freddo,
il pari, l'impari ecc., designano incontestabilmente ciò che corrisponde al
concetto generale, e delle entità reali: quindi non può trattarsi che del Caldo
e del Freddo, del Pari e dell'Impari, ecc. nella natura, vale a dire delle
Idee. In secondo luogo si deve osservare che tale è l'energia dei termini
designanti la parusia delle Idee venire andare, entrare, occupare, essere in,
ecc. da parte delle Idee, e da parte delle cose o delle Idee inferiori avere,
ricevere, ecc.), © la comparazione con la presenza dell'anima neiressere
vivente è tal V. n. Vili. mento indispensabile all'argomento di Platone, che so
per questa parusia non si deve intendere la presenza dell'attributo nel
soggetto, non ci resta che di ammettere che Platone paragona la presenza delle
Idee nelle cose a quella dell'anima, non nell'essere animato, ma nel corpo, o,
prendendo quest'analogia nel senso più stretto, che le Idee sono presenti nelle
cose d'una presenza locale, come i*anima nel corpo, e che esse sono la causa
della generazione e della corruzione entrando nelle cose ed uscendone,
precisamente come la teoria animista suppone che l'anima è la causa della vita
e della morte entrando nel corpo ed uscendone la presenza di Dio nel mondo a cui
abbiamo paragonato la parusia delle Idee secondo l'interpretazione
trascendentalista, è una comparazione troppo inadequata alla energia delle
espressioni di cui si serve Platone e al parallelo con la presenza dall'anima
nel corpo Io credo che non vi sia alcun interprete che voglia dare questo
significato alla parusia platonica, prestando a Platone un concetto, che oltre
a dotare le Idee dilla prodigiosa facoltà, attribuita a certi santi del
cattol'cismo e di altre religioni, di trovarsi al tempo stesso in molti luoghi,
sarebbe in contraddizione con le affermazioni dell'autore, il quale diirhiara
che le Idee non sono in alcun luogo naturalmente noi non possiamo dare alcuna
importanza alla frivola distinzione degli scolastici non in loco, sed uhi,
perchè queste parole significano semplicemente che l'anima è in luogo e non lo
è; ma pe ve ne fosse qualcuno, bisognerebbe fargli riflettere che
quest'in'^onspguenza di dare una posizione nello spazio a ciò che è immateriale
GRICE STRAWSON BUNBURY DISINTERESTEDNESS, se si comprende Tim. L«3 Idee non
sono in alcun luogo, quantunque le cose, di cui sono gli attributi, sono in un
luogo, perclic Tessere iu un luogo non compete che a ciò che è esteso. quando
Tessere immateriale di cui si tratta è uno spirilo, sarebbe inammissibile
trattandosi di entità come le Idee platoniche. Ciò è perchè questo quid, questo
substratum sconosciuto, che si chiama sostanza nello spìrit>, noi non lo
concepiamo che sul tipo di ciò che si chiama sostanza nel corpo, vale a dire di
questa cosa che persiste nello topazio, della materia; e tutto ciò che ci
suggerisce di rappresentabile la parola sostanza nel senso della parola in cui
si dice che Tanima è una sostanza Cl), no a e che la sostanza materia, ciò che
riempie lo spaz'o; nou è dunque strano che, anche dopo che la concezione,
affatto materialista, dciraniraismo primitivo è stata sostituiti da concezioni
più raffinate, si cont'nui ad attribuire allo sp'rito, considerato come una
sostanza, delle determinazioni che non competono se non alla materia. Ma
Platone nou potrebbe rappresentarsi le Idee come aventi una posizione nello
spazio, psrchò egli non immagina in esse niente di analogo a questo substratum,
concepito sul tipo della materia, che lo spiritualista immagina nello spirito;
poiché Tldea platonica non è che il contenuto del concetto realizzato,
l'attributo considerato, nella sua astrazione, come avente un'et^istenza
propria e distinta, e niente altro di più. SI osservi, in terzo luogo, ch^, se
la paru ia dell'Idea non è l'inerenza dell'attributo nel soggetto, il
ragionanamento di Platone non può avere alcuna pretesa a quell'evidenza
dimostrativa eh l'autore si propone. L'^proposizioni che Platone stabilisce
come evidenti per se stese non sono tali che nell'ipotesi dell'immanenza delle
Idee. Per esempio, egli stabilisce il principio che le cose che hanno sempre
l'uno di due attributi contrari non poFSono aPa parte prima. mai ricevere
l'Idea contraria a quella che é in e'^se: che p. e. il fuoco, essendo
e8<?enzialmente caldo, non può ricevere l'Idea del freddo GRICE STRAWSON THE
UNDERDOGMA, il Tre, essendo dispari, quella del Pari, ecc.: nell'ipotesi dell'
/mrwanen^a, nient'^ di più evidente di questo principio, perchè esso non è che
l'enunciato, in termini realisti^ del pi nei pio di contraddizione. Ma
sel'Ideaè trascendente, quale inconseguenza io parlo d'un'inconseguenza
assoluta, d'un'impossibilità logica vi sarebbe a supporre che in una cosa possa
esservi la parusia dell'Idea corrispondente all'attributo contrario a qu'llo
pof^seduto ^'a qu'^sta cosa? e perchè la paiusiadi un'Idea sarebbe
incompatibile con quella simultanea dell'Idea contraria, se queste Idee fossero
separate 1'una dall'altra e tutte e due dalle cose a cui si dicono essere
presenti? Similmente, quando Socrate dice: E necestrario che le cose che occupa
l'Idra del tre siano, non solo tre, ma anche impari,,, si potrebbe
rispondergli: Ma perchè? Perchè le cose a cui è presente l'Idea del tre se
questa presenza deve intendersi nel senso trascendentalista non sarebbero
invece quattro e pari? In effetto, neir ipotesi della trascendenza, non vi
sarebbe alcuna connessione necessaria, visibile a priori, tra la parus'a
dell'Idea e l'inerenza dell'atribuo corrispondente a quest'Idea. E della stessa
maniera che, in quest'ipotesi, si perderebbe 1'ev'denza delle proposizioni che
servono di premesse al ragionamento, si perderebbe egualmente quella della
crnnessicne tra una preposizione ed un'altra, perchè questa connessione è il
più delle volte fondata sulla sostituibilità reciproca tra la inerenza
dell'attributo e la parusia dell'Idea corrispondente. Dalla propos'zione che in
un numero non vi può essere la parusia del Pari non si potrebbe concludere co7i
necessità che questo numero è dispari; dalla proposizione che nell'anima non vi
può essere la parusia della Morte non si potrebbe concludere con necessità che
l'anima è immortale, perchè non vi sarebbe alcuna contraddizione a supporre
simultaneamente in una cosa la parusia dell'Idea e Tinerenza dell'attributo di
nome coiit'*ario. Ma per vedere la giustezza della nostra osservazione, basterà
di restringersi alla proposizione m cui s'incardina tutto il ragionamento di
Platone e che noi abbiamo chiamato la brse induttiva di questo ragionamento,
cioè che un'Idea non può avere l'attributo contrario a quello che essa
conferisce alle cose con la sua parusia. E indubitabile che Platone riguarda
questa proposizione come evidente per se stessa, e non avente b'so^no per
essere ammessa che di essere enunciata e ccmpre?a si rilegga la pai te del
luopio citato in cui questa proposizione viene stal'ilita; e tale è in effetto
nell'ipotesi delFimmanen/a delle Idee: ma nell'ipotesi della trascendenza, in
cui la coinciHpiìza tra la parusia dell'Idea in una cosa e la partecipazione,
di questa cosa all'attributo omonimo e quindi a ciascuno degli attributi più
astratti ì acchiusi in quest'attributi è, non è vnx connessione necessaiia ed a
iriori, ma un mistero inesplicabile, la proposizione diviene una pura
aflermazioue dommatica. Senza dubbio, purché si ammetta il principe che la
paru'-ia df^ll'Idea ó la causa per cui le coso possiedono l'attributo dello
stesso nome, il ragionamento di Platone corre, anche neiripot<»si della
trascendenza: ma s'ccome questo principio è, in questa ipotesi, non un assioma,
ma un postulato nel senso aristotelico della parola postulato GORDON LAKOFF
CONVERSATIONAL POSTULATES -- e questo postulato ò Fottinteso a ciascun paFso
del ragionamento, questo perde ogni chiarezza, e non può più aspirare ad essere
una dimostrazione, come Platone evidentemente pretende. i li n Se le Idee sono
gli attributi generali delle cose nelle cose stesse, ma considerati come entità
reali, di cui ciascuna è una e la stessa in tutte le cose di cui l'attributo
viene predicato, l'impiego della parola partecipazione jiéOsgis e sinonimi, per
indicare il rapporto delle cose alle Idee, uon è meno naturale che quello della
parola presenza e sinonimi per indicare il rapporto delie Idee alle cose.
Partecipare ad una cosa lett<^ralmente significa averne una PARTE, o avere il
tutto, ma in comune con altri; e ciò, quando questa cosa è un Attributo, qual è
l'Idea anche secondo l'interpretazione trascendentalista, non può voler dire
altro se non che essere uno dei soggetti ai quali quest'Attributo è comune. Di
più questo significato adempie all'altra condizione, a cui deve conformarsi il
significato di questo termine, che è di assej^nare, nel tempo stesso che indica
il rapporto tra le cose e le Idee, la ragione per cui le cose sono ciò che
sono: in effetto, la causa per cui una cosa è buona, è bella, è grande, ecc.,
è, secondo Platone, perchè essa partecipa all'Idea del buono, del bello, del
grande, ecc. La partecipazione delle Idee e la stessa osservazione vale anche
per la parusia è una causa che spiega, nel senso metafisico della parola
spiegazione, perchè le cose hanno i loro attributi; tra la causa la
partecipazione o paraci AggiungiMio che, secondo grinterpreti
trascendentalisti, questo postulato non ha per Platone, almeno nel Fedone, che
il valore di una semplice ipotesi. In efletto il luogo del Fedone in cui
Platone suppone la parusia delle Idee come causa alle cose dei loro attributi,
sembra riguardare la parusia e 'a par'ecipazione come due ipotesi distinte, di
cui si può ammettere luna o l'altra, per ispiegare rassimilazione delle cose
alle Idee. Noi vedremo più giù che il vero senso del luogo non è quesio,
|>erchc la parusia e la partecipazione non sono due cose diverse, ma due
espressioni che signifn:ano una sola e stessa cosa; ma l'inerprete
trascendentalista d«'ve necessariamente intenderlo cosi, perchè, per dare di
questi due termini un'interpretazione conlorrae all'ipotesi della trascendenza,
egli <• obbligato ad attribuire ad essi due significati diil'erenti. Bl sia
deiridea e l'efFetto la possessione dell'attributo corrispondente essendovi un
legame necessario e visibilo a priori^ e senza questa condizione la ragione che
si assegna di un fatto non potendo essere, per un metafisico, una spiegazione
di questo fatto. Ma non solo questo significato del termine par^ecipazione cioè
la possessione di un Attributo che si ha in comune con altri soggetti è quello
che è il più naturale, ma è anche il solo che da alla parola un senso reale,
vale a dire che le faccia esprimere un concettj determinato. Neir ipotesi della
trascendenza delle Idee, non vi lia tra le cose e le Idee altro rapporto
immaginabile che la somiglianza: dicendo che le cose partecipano alle Idee,
Platone vuol dire, fecondo Tinterpretazione trascendentalista, che le Idre,
separate dalle cose, comunicano a queste degli attributi simili ad osse; che le
cose divengono somiglianti alle Idee, per un'influenza delle Idee sulle cose.
Ma quale è il modo di questa comunicazione? in che consiste questa influenza?
Il come dellVffìcienza delle Idee trascendenti è inconcepibile; noi non
possiamo formarci alcun'idea di quest'azione per cui esse ren È evidente che,
qnainìo Platone dice che una cosa partecipa al bello, al buono ecc., nel
significato di queste propo:^izioni è contenuta ratiei inazione che la cosa è
IZZING HAZZING bella, è buona ecc.. Ma non e meno evidente che le stesse
proposizioni assegnano al tempo stesso la c^usa per cui la cosa è bella, è
buona, ecc.: se no come potrebbe egli dire che la cosa <^ bella per la
partecipazione del bello, buona per la partecipazione del buono, ecc. Il
termine partecipazione significa -aX tempo stesso un fatto la possessessione di
un certo attributo, e la causa di questo fatto. Ciò è perchè qui il fatto e la
sua causa non sono due fatti distinti e separati; la causa del fatto vale a dire
la partecipazione o parusia dell'Idea non e che il fatto stesso la possessione
GRICE IZZING HAZZING dell'attributo corrispondente interpretato secondo una
teoria particolare, tradotto, dalla lingua comune, nella lingua della dottrina
reclista. 'ij*j t derebbero le cose simili a se stesse. Platone, con la parola
partecipazione, intende indicare nn rapporto tra le erse e le Idee, che
contenga una ragione dell'essere delle cose e dei loro attributi. Ma supposta
la ^ra,sce^^n^en2a delle Idee, non può tra le cose e le Idee immaginarsi a^cun
rapporto che spieghi perchè le cose sono ed hanno i loro attributi; tanto meno
quindi potrebbe immaginarsene qualcuno che aggiungesse a questa condizione
quel'a di poter essere denominato con la parola partecipazione: ne segue che,
mila supposizione della trascendenza, non vi ha alcun concetto determinato che
possa corrii-pondere a questa parola. Ciò è tanto vero che gì' int^ rpreti
trascendentalisti sono obbligati a convenirne: Platone, dicono
quest'interpreti, non ha determinato la vera natura del rapporto tra le Idee e
le cose, egli non ha detto che cosa è la metessì, la parusia, ecc.; e in prova
della loro tesi citano certi luoghi d'Aristotile, che io devo mettere sotto gli
occhi del lettore, per fissar bene lo stato della quistione
sull'interpretazione della metessi platonica. Ecco dunque questi luoghi. Mei.:
I Pitagorici dicono che gli esseri sono per 1"imitazione dei numeri;
Platone, mutando il nome, per la partecipazione delle Specie; ma che cosa sia
questa imitazione o questa partecipazione, vattel'a pesca àcpsìaav sv xoivw
^Yjxsrv: Volendo dire la sostanza delle cose sensibili, poniamo noi platonici
altre sostanze; ma come queste siano sostanze di quelle, lo diciamo vanamente
dia xsv^g, polche 'a partecipazione, come abbiamo già detto, è nien0)
Chiappelli. V intcrpretaz. panteist, di P/alone, ecc. te : t Ì)ire che le
Specie sono degli esemplari e che le altre cose ne partecipano, è pronunziare
delle parole vuote di senso xsvoXoystv PIROT e fare delle metafore poetiche YOU’RE
THE CREAM IN MY COFFEE. Sui due primi di questi luoghi dobbiamo osservare che
la critica che essi contengono non ha necessariamente il senso che le danno
gì'interpreti trascendentalisti, vale a dire che Platone non attacca alla
parola partecipazione alcun concetto preciso. Forse gl'interpreti
trascendentalisti hanno ragione d'intenderla così e di ammettere ch'essa
suppone nel concetto d'Aristotile la trascendenza delle Idee: ma questa critica
Aristotile GRICE CODE IZZING HAZZING ARISTOTELIANISM PLATONISM avrebbe potuto
farla, anche supponendo l'immanenza delle Idee; in questo caso essa vorrebbe
dire, non che la parola partecipazione non significa alcun concetto
determinato, ma che la partecipazione. la cosa corrispondente al concetto
significato da questa parola è un che d'inintelligibile cloche ò perfettamente
vero, perchè non si comprende, e Platone non ha fatto niente per fare
comprendere, come una sostanza può inerire in altre sostanze quale attributo,
come l'uno può esistere simultaneamente nei molti, e tutte le altre
impossibilità della dottrina delle Idee, Che il senso della critica sia (juesto
o sia piuttosto quello che vogliono grinterpreti trascendentalisti, è ciò che
io non oserei affermare; perchè, come vedremo a suo luogo, le testimonianze
d'Aiistotile sulla Notiamo che V indicazione contenuta in questo luogo, cioè
clie per la partecipazione i | latonici intendevano spiegare come le Idee
fossero le sostanze delle cose, è una prova che il signiti^'ato della parola
partecipazione è quello che noi diciamo: se infatti la paitecipazione non
sigiiilicasse r inerenza del partecipato nel partecipante, come Platone avrebbe
potuto pretendere di spiegare per la partecipazione come le Idee, cioè i
partecipati, fossero la sostanza delle cose, cioè dei partecipanti t quistione
dell'immanenza o trascendenza delle Idee solió incerte e discord*; e per
conseguenza, per alcune delle sue critiche, è difficile decidere se esse sono
fatte nella supposiz'one dell'immanenza o In quella della trascendenza 0
abbracciano Puna e l'altra supposizione com'è probabilmente il caso per quella
di cui parliamo In quanto all'ultimo dei luoghi citati, il rimprovero ch'esso
contiene è diretto senza dubbio alle Idee t'ascendenti; perchè Aristotile
suppone che il rapporto tra le Idee e le cose non sia che quello tra il modello
e le copie vedi tutto il contesto MeL ; e ci dice nettamente che, con o senza
la confessione degl'interpreti trascendentalisti, sarebbero, nella loro
interpretazione, la partecipazione e tutti gli altri termini indicanti il
rapporto tra le Idee e le cose: delle metafore poetiche e delle parole vuote di
senso. Forse il lettore dirà ch'egli non comprende quale sia la d Gerenza tra
una parola vuota di senso PIROT e una cosa inintelligibile; e che, se è vero,
come io lo confosso, che la partecipazione, nel senso che io attribuisco a
questo termine, è un che d'inintelligibile e racchiude delle impossibilità
logiche, non si vede qual vantaggio abbia l'interpretazione che io ammetto, tu
quella degl' ioter Ai luoghi citati d'Aristotile possiamo aggiungerne un altro
che é in Afei,, in cui dice che i platonici sono incerti nel determinare che
cosa sia la partecipazione e quale sia la sua causa. Ma dobbiamo noi realmente
ammettere nei platonici quest'incertezza che loro attribuisce Aristotile? o
dobbiamo supporre piuttosto che Aristotile, esitante sul significato della
dottrina platonica, attribuisce alla dottrina stessa queir incertezza che è nel
suo proprio si)irito^ Ciò é tanto più verisimile che questa dottrina, oltre di
riunire degli elementi fra di loro incompatibili, è vestita talvolta, come nel
Timeo, di certe rappresentazioni che, se l'ossero prese alla lettera, sarebbero
in contraddizione ooi concetti filosofici di cui esse non sono che
un'espressione simbolica. preti irascendentalisH^ che confessano che a questo
termine non cosrisponde alcun concetto determinato. Non è qui il luogo di
determinare d'una maniera rigorosa la differenza tra una parola vuota di senso
cioè a cui non corrisponde alcun concetto determinato PIROT e nna cosa
inintelligibile: ma, airiogrosso, possiamo dire che vi ha questa differenza
che, mentre delle parole vuote di senso non indicano alcnn* id^a, almeno
alcunMdea precisa, delle parole che significano una cosa inintelligibile,
indicano delle idee determinate, precise, ma queste idee sono tra di loro
incompatibili, non possono fondersi in una rappresentazione unica. Per mo, e
per tutti quelli che ammettono 1 princìpii della filosofia d^ir esperienza,
ogni ipolesi metafisica o, più generalmente, metaempirlca ridea di Hegel o la
Sostanza di Spinoza o V Assoluto della metafisica ordinaria, ecc., della stessa
maniera che lo spazio pseudosferico o a n dimensioni degli odierni metagcometri
ò una cosa inintelligibile, in questo senso deUa parola inintelligibile; e il
perchè è facile a dirti: è che rappresentarsi per noi equivale ad immogivare, e
noi non possiamo immaginale se non ciò che può essere roggetto dei nostri sensi
o della nostra coscienza, 0 che ha con gli oggetti dei nostri sensi o del»a
nostra coscienza una somiglianza definita. Per tutte le idee che 1 metaempirìci
pretendono di farci concepire, essi no prendono gli elementi nel mondo delP
esperienza, cioè dei sensi e della coscienza; ciascuno di questi elementi è un
predicato generale che conviene a una classe di oggetti sperimentabili o almeno
immaginabili; ma non vi ha alcun oggetto, né sperimentabile né immaginabile, a
cui tutti questi predicati generali, presi insieme, possano convenire. Macon
tutto ciò nessuno pretenderà seriamente che Spinoza, Hegel e tutti 1 metafìsici
e i metaempirìci in generale non sanno quello che si dicano: ora quando io dico
che la partecipazione è una cosa inintelligibile, io affermo semplicemente che
Platone, come tutti i metafisici e metaempirìci, ha detto delle cose che non
possiamo immaginare, ma quando Tinterprete trascendentalista afferma, sulla
testimonianza o pretesa testimonianza d'Aristotile, che la partecipazione è una
parola a cui non corrisponde alcun concetto determinato, che Platone non ha
detto che cosa sia la partecipazione, la parus'a, ecc., ciò che questo
significa, in lingua povera, è appunto che Platone, il divino Platone come lo
chiamano quest'interpetri, non sa quello che si dica. Premesso ciò, diamo degli
esempi deir uso che Platone fa del termine nif tessi e sinonimi: da essi il
lettnre potrà vedere che il senso di questi termini è chiarissimo- quantunque
implichi delle impossibilità logiche e che noi non siamo ridotti alla
necessitàdi ammettere che essi sono delle parole vuote di senso come vooliono
gli interpreti trascendentalisti. Naturalmente il solo impiego di questi
termini che ci interessa, e a cui si limiteranno i nostri esempi, è quando la
cosa a cui sì partecipa è un astratto, e la cosa che partecipa riceve, per
questa p^irtecìpazionc, il predicato corrispondente a quest^ astrato. Neir
immensa maggioranza dei casi di quelli, s'intende, in cui l'uso dei termini è
questo che ho d tto T immanenza del partecipato nel partecipante è evidente;
ma, il p. ispesso, non lo è altrettanto che il part:^c:pato sia unldea, cioè
che esso sia considerato da Platone come un'entità sussistente per se stessa
quantunque ciò possa presumersi, in viriù del principio platonico che Toggetto
del concetto i generale è lìdea. Ma anche allora il luo^o non é senza importanza
come prova del significato della metcssi: perciò alcuni dei nostri esempi
saranno presi da questa numerosa classe di luoghi, in cui il senso immanente è
incontestabile, ma si può dubitare che Platone consideri come un'Idea
l'astratto a cui si partecipa; e comincelemo da essi: Leggi per provare che gli
dei hanno cura degli aifari umani. Gli affari umani non partecipano |isTéxei
della cfóoig animata, e di tutti gli animali non è Tuomo che venera
massimamente gli Dei? Certamente Ora tutti gli animali mortali appartengono
agli Dei, a cui appartiene tutto l'universo spiegando la distinzione tra la
fortezza e la prudenza l'una la fortezza si riferisce al timore, e ne
partecipano fisxéxst anche le bestie e i costumi dei piccoli fanciulli; infatti
per natura e senza ragione l'animo diviene forte; al contrario senza ragione
l'animo non fu né è né diverrà mai prudente e dotato d'intelligenza, ciò essen
lo un'altra cosa. In qualche caso vi haano anzi delle circostanze che sembrano
esludere che Platone pensi a realizzare l'astratto a cui egli dice che una cosa
partecipa, P. e. nel Polìtico, dove dice che la natura corporea partecipava di
molto disordine prima di essere ridotta ali ordine presente; o nel Filebo, dove
parla della specie di lettere che partecipano, non della voce, ma di qualche
suono in questi esempi, le parole molto e gualche, particoiarizzando il
concetto, indicano che il disordine e il suono a cui si partecipa, non devono
essere prtsi nella loro ge»ieralità, e non possono, per conseguenza, essere
delle Ideoj Nel Parmen. lZZ v b, in cui, distinguendosi gli attributi fenomeni
dalle Idee, si dice che le cose partecipano ai pruni ma non alle seconde, la
parola partecipare nsxéYS-v ha un significato dill'erente dal! ordinario e
affatto speiiale a questo luogo isolato. Tim, per provare che l'intelligenza e
l'opinione vera sono due generi differenti l'una nasce in noi per l'istruzione,
l'altra per la persuasione; Tuna è sempre accompagnata dalla vera ragiono,
l'a'tra è senza ragione; runa non può esser mutata per alcuna persuasione,
l'altra è soggetta a questo mutamento; dell'opinione vera partecipa iisiexci
ogni uomo, dell'intelligenza gli dei e solo un piccolo numero degli uomini.
Sof, Noi abbiamo stablta come sufficiente, questa definizione dell'essere, cioè
quando in qualche cosa è presente Tiap^ la potenza di patire o di agire
rapporto a qualche altra cosa, anche la minima. Si. Ma a ciò rispondono gli
amici delle Ideo che il divenire è partecipe Ysvéoei jiéisaxi della potenza di
agire e di patire, ma questa potenza non conviene all'essere Ed hanno ragione?
A ciò noi diremo che li preghiamo di dichiararci più nettamente se consentono
che l'anima conosce e l'essere è conosciuto. Essi lo confessano Ma che? il
conoscere o tesser conosciuto chiamate voi aziono o passione o l'una e l'altra
cosa? o l'uno passione e l'altro azione? o dite che né l'uno né l'altro
partecipano jisxaXajipàvsiv ad alcuna di queste due cose? liep: Se troveremo
quelle sia la giustizia, esigeremo forse che l'uomo giusto non debba niente
differire da c^sa, ma essera assolutamente quale ò la giustizia? o basterà se
si approssima ad essa e ne partecipa [lexéxK/ più di ogni altro? liep.: Non
abbiamo detto sopra che fc qualche cosa ci apparisse tale che fosse e non fosse
al tempo stesso, questa sarebbe media tra il puro essere e il non essere
assoluto, e non le spetterebbe né la scienza DÒ Tignoranza, ma ciò che
apparirebbe medio tra la scienza e r ignoranza? Si Ora media tra di queste ci
apparve ciò che chiamiamo opinione. Si. Quello che ci resta dunque a trovare è
ciò che partecipa {isxéxov dell'uno e dell'altro, cioè dell'essere e del non
essere, e che non può rettamente chiamarsi ne essere puro né puro non essere,
affine di chiamarlo a buon dritto, se noi lo troveremo, op'nabile, attribuendo
il med'o al medio e gli estremi agli estremi In seguito mostra che questo medio
tra 1'essere e il non e>ssere sono le cose sensibili, perchè di esse può
dirsi al tempo stesso che sono e che non sono. Rep.: per provare ehe i piaceri
dello spirito sono più veri che quelli del corpo. Qual riempimento è più vero,
quello che si fa per le cose che sono più cioè, come spiega in seguito, che
hanno più essere, o quello che si fa per le cose che sono meno cioè che hanno
meno essere? Senza dubbio quello che si fa per le cose che sono più. Ora quali
generi credi che partecipino iisTéxs'.v più al puro essere, quelli del cibo e
della bevanda e di tutto ciò di CUI il corpo si nutrisce, o l'elSog
dell'opinieoe vera, della scienza, dell'intelligenza e in una parola di tutte
le virtù? É corì che devi giudicarne: ciò che è congiunto al sempre simile e
immortale e alla verità, e tal è esso stesso, e in un tale nasce, ti sembra
essere più, che ciò che è congiunto al mortale e non mai simile, e tale è esso
stesso, e in tale nasce? Di gran lunga è superiore ciò ihe è congiunto al
sempre simile E l'tssen/a dei sempre simile partecipa liexéxsi più all'essere
che alla scienza? No O che alla verità? Nemmeno Se partecipasse meno alla
verità, non parteciperebbe meno all'essere? Necessariamente In generale dunque
i grneri che spettano alla cura del corpo partecipano iiexéx^O alla verità e
all'essere meno di quelli che spettano alla cura dell'anima? Molto meno E il
corpo stesso meno dell'anima? Si Dunque ciò che si riempie di cose che p ù sono
ed esso stesso più è, si riempie più realmente che ciò che si riempie di cose
che sono meno e meno è f sso stesso? E come no? Leggi: per mostrare che,
chiamando turpi le pene inflitte ai delitti, ci mettiamo in contraddizione con
la massima che ciò che è giusto è bello se tutte le cose che si attengono alla
giustizia sono belle, nel numero di tutte sono anche le passioni che subiamo,
le qui» li sono pressoché uguali alle azioni che facciamo E che perciò? Ogni
azione che è giusta, quanto partecipa xotvoDv^ del giusto, altrettanto è
partecide fisxéxov L'essenza del sempre simile partecipa alla scienza, perchè
l'esser sempre simi'e è un attributo della scienza. In quest) caso la metessi
ha dunque un senso diirerente dall'ordinario. Ordinariamente è l'individuo che
si dice partecipare della specie, e la specie del genere: ma in questo caso ò
il genere che si dice partecipare della si>ecie, il conctiiio dì sempre
simile essendo più esteso che quello di scienza^e comprendendolo nella sua
estensione. Tuttavia quest'altro senso della partecipazione potrebbe ricondursi
al senso ordinario, in quapto il genere, se non partecipa ne^ senso ordinario
della parola alla specie nella sua totalità, vi partecipa in parte, cioò in
alcuni degl'individui che esso comprende. Si noti che se il genere fosse
separato dagl'individui, come sarebbe nell'interpretazione trascendentalista
del sistema delle Idee, e non immanente in essi, e identico in certo modo con
essi perchè l'uno è i molti e i molti sono l'uno; Platone non potrebbe attribuire
ad esso uu rapporto di partecipazione che in senso rigoroso non conviene che ai
suoi individui. del bello- E come no?-Dunque anche ogni passione che partecipa
xoivtov? del giusto, so converremo che, quanto è partecipe del giusto,
altrettanto è bella, il nostro discorso non sarà discordante È vero Ma se
affermeremo che vi sia alcuna passiono giusta ma turpe, il giusto e il bello
discorderanno, perchè le cose giuste si diranno turpissime. Nessuno negherà, io
credo, che nei lunghi citati e in un'infinità d'altri in cui la parola
partecipare cioè le parole che noi traduciamu cosi viene impiegata d'una
maniera simile, la cosa a cui si partecipa sia un attributo della cosa che ne
partecipa, e partecipare non significhi altro che possedere l'attributo. Ciò è,
sia perchè, come nei primi cinque esempi, vi hanno delle rag-oni che mostrano
che la cosa a cui si partecipa è una PROPRIETA degli oggetti deiresperienza, e
non un'entità trascendente; sia perchè, come negli ultimi tre, se la
partecipazione s' intendesse nel senso dell'interpretazione trascendentalista,
verrebbe inopportunamente interrotta la connessione ddle idee, la quale
richiede semplicemente che alla cosa che è detta partecipare, venga attribuito
un certo PREDICATO; sia per altri motivi. Certamente l'interpr,te
trascendentalista dirà, in questi casi, che la cosa a cui si partecipa non è
un'Idea; e noi confessiamo che non si potrebbe, il più delle volte, né
affermare recisamente, né negare, ehe l'autore pensasse ai elevare lo astratto
di cui parla al rango di entità reale, benché egli avrebbe dovuto farlo per
essere strettamente coerente alle proposizioni cardinali della sua dottrina. Ma
questo dubbio non annulla il valore dei luoghi di cui si tratta come prove del
senso immanente della metessi platonica: in effetti, se nella più parte dei
casi partecipare a un astratto significa per Platone possederlo come un proprio
ATTRIBUTO, non si vede perchè gli si debba dare iun altro significato in altri
casi affatto simili, e solo differenti dai primi per la circostanza che Platone
fa un'applicazione esplicita del suo principio che un astratto è un'entità
reale; tanto più che è impossibile di tracciare una linea di separazione tra i
casi in cui Platone pensa a realizzare le astrazioni di cui egli parla, e
quelli in cui non vi pensa. Nei luoghi seguenti le cose a cui si partecipa sono
incontestabilmente delle Idee. Parm. VELIA per confutare la supposizione che le
Idee, sono dei pensieri: Ma che? non è necesrario, poiché dici che le altre
cose partecipano fisxéxs'.v alle Idee, di ammettere o che ogni cosa costa di
pensieri sx voYjjidxov slvai e tutto pon-^a, o che le cose non pensano, mentre
sono pensieri? Le Idee sono dunque elementi costitutivi delle cose che ne
partecipano. Quando si dice compendiosamente: l'uno è; ciò non significa lo
stesso che l'uno partecipa all'essereV. Potrebbe Platone affermare d'una
maniera più esplicita che partecipare a un'Idea non significa altra L'uno e
l'essere nel Parmenide di VELIA jono seuz 'alcun dubbio delle Idee. Infatti
Tesercizio dialettico sull'uno Tarmenide di VELIA lo dà come un esempio del
metodo di cuj ejjli prima ha parlato in generale, il quale, a differenza della
dialettica di Zenone, che volgeva sul sensibile, dove avere per o^i^etto le
Idee. In quanto all'essere, Platone lo tratta evidentemente, non come una
semplice astrazione, ma come un'entità reale; e in generale questa
realizzazione sembra aver luogo per tutti gli attributi, a cui l'uno e le altre
cose sono detti partecipare p. e. sulla grandezza e la piccolezza. Alcuni dei
luoghi citati si rifeiiscono. non alla partecipazione delle cose alle Idee, ma
a quella delle Idee ad altre Idee: ma ciò non può impedirci di presentarli come
prove della immanenza delle Idee nelle cose, perchè è chiaro che la metessi non
può avere che lo stesso significato, sia che si tratti di quella d'una cosa ad
una Idea, sia che si tratti di quella d'un'ldea ad un'altra Idea. /i > cosa
che la possessione dell' attributo? La stessa affermazione si trova: Essere ò
altra cosa che la partecipazione fiéBcgis dell'essere col tempo presente? Ed
era e sarà sono altra cosa che la partecipazione xo;v(!)v{a dell'essere col
tempo passato e col futuro? Se T uno è . è necessario che anche il numero sia
Senza dubbio Ma, se il numero è, vi saranno più cose e una moltitudine infinita
di esseri :o il numero infinito in moltitudine non è anche partecipe lisxéxwv
dell'essere? Come nel luo^o prccpden!e, partecipare all'essere è riguardato
come l'equivalente di avere l'attributo essere. E se tutto il numero parlccìpa
fisiéxei dell'essere, ciascuna delle sue parti non ne parteciperà jjLSxéxoO
pure? Si L' essere è dunque distribuito vevéfiY]Tai per tutti i molti esseri, e
non è assente àTiooxaxet da alcuna delle cose che sono, s'a la più grande, sia
la più piccola. 0 è assurdo di fare una simile domanda? in effetti, come
l'essere potrebbe essere assente àuooTaTotir) da una cosa che è? In nessun modo
L'essere ò dunque diviso, per quanto è possibile, in parti grandissime e
piccolissime, e di ogni sorta di maniere; esso è ciò che vi ha di più
frazionato, e le sue parti snuo infinite Questo luogo, come tanti altri dei
seguenti e quello del Parmenide VELIA stesso a e che abbiamo già citato,
mostrano chiaramente che la partecipazione d'una cosa a un'I iea non significa
altro che la parusia dell'Idea nella cosa. Una cosa partecipare al Bello, non
vuol dire, come ammettono gì*interpreti trascendentalisti, che l'Ideadel bello
comunica alla cosa uà nttributo simile a se stessa, ma vuol dire semplicemente
che la cosa ricove iéxsxat, ha in sé 1x^0 GRICE HAZZING IZZING I^* bello. È
esattamente lo stesso rapporto che si chiama parusia, quando si prende come
soggetto di esso la Idea o piuttosto, In generale, il partecipato, e
partecipazione, Farm. VELIA: o Diciamo che le altre coso dall'uno ne quando si
prende come soggetto la cosa o, in generale, il partecipante. Dopo ciò che
abbiamo detto sulla parusia, è inutile d'insistere ancora su questo fatto
evidente, che la presenza o inesistenza dell'Essere, del Bello, del Grande ecc.
o dell'Essanza, della Beltà, della Grandezza, ecc., perchè le Idee sono pura
designate da Platone coi nomi astratti negli esseri, nelle cose belle, nelle
cose grandi, 030. non può sigaiticara altra cosa che la presenza o inesistenza
dell'attributo nel soggetto. Tuttavia l'uso che Platone fa del termine che noi
traduciamo per la parola partecipazione, ci fornisce un'altra prova che non
dobbiamo negligere. La partecipazione, abbiamo detto, non significa altro che
la parusia nella cosa o Idea che si dice partecipare, dell'Idea a cai si dice
partecipare. Ma d'altra parte, è incontestabile che la partecipazione significa
la possessione GRICE HAZZING IZZING dell'attributo corrìspondontc all'Idea a
cui si partcipa. È ciò che si può vedere, non solo da questo luogo e dai due precedenti,
ma da tutti i luoghi che abbiamo citati sulla partecipazione; perchè,
quand'anche in alcuno di questi luoghi per Ut cosa partecipata si volesse
intendere un'Idea té'ffureìi dente, ciò che sarebbe assolutamente impossibile
di negare è che, quando Platone dice, p. e., che le cose sensibibili
partecipano dell'essere e del non essere Rep., che le azioni partecipano del
bello altrettanto che del giusto {Le(i.., ciò che egli vuole esprimere è che le
cose Sdnsibili sono al tempo stesso e non sono, che le azioni sono altrettanto
belle quanto giuste, ecc. Ma un'espro{^-;ione il cui significato è la parusia
dell'Idea, non potrebbe significare la possessione dell'attributo, se la
parusia dell'Idea e la possessione dell'attributo non fossero la stessa cosa. Per
infirmare questa conclusione si dirà forse che non è necessario cha la parusia
dell'Idea fosse por Platone l'equivalente della possessione dell'attributo, ma
basta che per lui il secondo «lei due fatti, pur es-jando distiate dal primo,
fosse legato al primo come l'effetto alla causa, perchè un'esprosdone, che
direttamente significava l'uuD dai due fatti la parusia dell'Idea quand'anche
questa s'intendesse nel senso trascendentalista, cioè come una semplice
presenza locale o quasi locala suggerisse pure l'altro fatto che ne era la
conseguenza la possessione dell'attributo E ciò è vero: ma la possessione
dell'attribato non è semplicemente un'associazione dell'idea direttamente
espressa dalle parole partecipare alVen' sere^ al non essere, al bello, al
(jiitsto, ecc.; ma è, come si può ve- sono l'uno né partecipano [isxéxsO
all'uno, so pure sono derlo dai laoghi citali, l'idea stessa che queste parole
esprimono direttamente, il loro suinificatOj ciò che è ben altra cosa che una
semplice suggestiono. Che una parte almeno ed è quanto basta all'argomento
procedente del significato delle parole che noi traduciamo per partecipare e
partecipazione, sia la possessione dell'attributo omonimo all'Idea a cui si
partecipa, è talmente evidente ohe è anche ammesso dagl'interpreti
trascendenralisti: perciò possiamo dispensarci di provare più abbondantemente
questo punto con luoghi scolli a questo scopo; basteranno quelli che ci è
accaduto e ci accadrà di citare, quantunque con un altro scopo, cioè di provare
immediatamente il senso immanente della metessi. La differenza tra noi e
gl'interpreti trascendentalisti è che per questi la possessione dello attributo
omonimo all'Idea partecipata è foIo una parlo del significato della
partecipuzione l'altra parte essendo che quest'attributo è comunicato, non si
sa come, dall'Idea; per noi invece è tutto il significato. Ciò non vuol dire
che esser bello, buono, ecc. e partecipare al Bello, al Buono, ecc., sono delle
proposizioni perfettamente identiche: se cosi fosse, Platone non potrebbe dire,
senza avvolgersi in una vana tautologia, che la causa a una cosa di essere
bella ò la sua pariecipaztune al Bello, né, com'egli spesso fa, inferire, dalla
partecipazions di una cosa all'Idea, che questa cosa possiede l'attributo
corrispondente, e viceversa, dalla possessione dell'attributo, che la cosa che
lo possiede partecipa all'Idea corrispondente. Platone può farlo senza
rimprovero di frivolezza, perchè, quantunque lo due proposizioni: esser bello o
buono, ecc., e: partecipare al Bello o al Buono, ecc., indicano lo stesso
fatto, questo fatto però è considerato a due punti di vista differenti
PLATONISMO ARISTOTELISMO SANZIO: una proposizione lo considera al jìunto di
vista comune, che non implica alcuna teoria particolare, e l'altra al punto di
vista del rrolismoy che considera gli attributi, non come semplici attributi,
ma come attributi-sostanze. Prendiamo qui l'occasione di ripetere sulla
partecipaziene due osservazioni che abbiamo già fatto sulla parusia. Quando
Platone dice che una cosa è bella, è buona, eco. per la sua partecipazione al
Bello, al Buono, ecc., è altrentanto naturale d'intendere ch'essa lo è perchè
possiede l'attributo Bontà, Beltà, ecc. considerate come entità reali, che
quando egli dico che la cosa è bolla por la parusia altre da esso Certamente
Dunque nelle altre nòti inedel Bello, buona per la parusia del Buono, ecc. Ciò
è perchè, come abbiamo tante volte notato, se le Idee non fossero gli attributi
delle cose, non vi sarebbe per le parole metessi e i)arusia alcun senso possibile
che facesse comprendere come Platone possa dare la metessi o parusia delle Idee
come la ragione degli attributi delle cose: è soltanto quando per le Idee
s'intendono gli attributi delle cose sostantificati che vi ha tra la metessi o
parusia dell'Idea e l'inerenza nella cosa dell'attributo corrispondente questo
legame necessario ed evidente per se stesso che deve esservi tra la ragione ohe
si adduce per ispiegare un fatto e questo fatto. È per lo stesso motivo che noi
dobbiamo vedere una prova dell'immanenza delle Idee nei luoghi numerosi di cui
ci asteniamo di dare degli esempi, perchè sa questo soggetto basta ciò chs è
stalo detto p-irlando della parusia nei quali Platone conclude immediatamente
dalla partecipazions all'Idea alla possessione GRICE HAZZING IZZING
dell'attributo omonimo, e viceversa dalla possessione GRICE IZZING HAZZING di
un attributo alla partecipazione all'Idea omonima; come una prova simile
abbiamo già vista nei luoghi in cui Platone procede della stessa maniera
riguardo alle parusia SUBSTANTIATION. IMatone non potrebbe passare
immediatamente dalla premessa alla conseguenza, considerando quest'inferenza
come una cosa che va da so, se non fosse d' un'evidenza immediata che la
molossi o parusia dell'Llea importa, nelle cose, la possassione dell'attributo
omonimo, e questa data la ipotesi dell'esistenza delle Idee la metessi o
parusia dell'Idea omonima: ma questa evidenza non esiste che dando alla metessi
e alla parusia un senso immanente. Bisogna convenire, è vero, che, quando si
tratta della partecipazione, anche l'interprete trascendentalista può rendere
conto di quest'inferenza immediata, nel caso almeno in cui la premessa è la
partecipazione all'Idea e la conseguenza la possessione dell attributo: ma ciò
avviene perchè egli non ammette, contro l'evidenza dei testi, che ciò che la
metessi di una cosa a un'Idea significa, è la parusia dell'Idea nella cosa. Per
gl'ini erprexi trascendentalisti, come per noi, la metessi all'Idea include nel
suo significato la possessione GRICE HAZZING IZZING dell'attributo omonimo: ma
questa inclusione, nell'ipotesi della trascendenza, è inammissibile, se si fa,
com'è necessario, della metessi l'equivalente perfetto della parusia. Una sola
è l'interpretazione trascendentalista possibile, che permettano i testi
evidenti che provano che i termini ohe noi traduciamo per partecipare
jjiexéxsiv, jisxaXafxpocvsiv, ecc. 4lì^. risce evsoxiv il nomerò, non merendo
fiYj évóvxo^ in esse l'uno. Come potrebbe inerirvi? Le altre cose dunque non
sono né uno né due né designate per il nome di alcun altro numero. L'inerenza
delTuno e del numero nelle altre cose é co^i l'inerenza delT attributo nel
soggetto. Diciamo ciò che accadrà alle altre cose, se Tuno è? Beiamolo Poiché
sono altre dall'uno^ esse 1 on sono Tuuo, poiché in questo caso non snrebbero
altre dall'uno È giusto -Tuttavia le altre cose non sono prive axépexaO affatto
dell'uno, ma ne partecipano [isxéxs^^ in qualche modo Perchè? Perché le altre
co-^e dall'uno sono altre da esso, perché hanno delle parti; se non avessero
pai ti, sarebbero assolutamente uno È giusto Ma lo parti non sono parti che di
ciò che é un tutto. Se dunque le altre cose sono per Platone i fiinonimi di
avjre (sx*-^)» fic37are {tix^O^Oi'.^ e altri simili, con cui egli designa
quallo stesso rapporto tra le cose e la Ilea ch'egli indica coi termini esser
presente (napstv ai), inegistere (èvsrvai), ecc., qaanio concilerà come
soggetto di questo rapporto, non le cose, ma le Idee: e di ammettere che la
metessi, come la parusia, significa che le Idee «lono nalle cose press' a poco
come ROBERTI TORRICELLI dice eh 3 la forza è GRICE IZZING HAZZING nella
materia, cioè come in un vaso. Ma è vero però che se l'interprete
trascendentalista accettasse questo senso della metessi, egli si metterebbe in
contraddizione coi testi non meno evidenti che provano che il senso di questo
termine deve includere la possessione GRICE IZZING HAZZING dell'attributo
omonimo all'Idea a cui la cosa è detta partecipare. Cosi la partecipazione di
una coia all'uno è equivalente all'inerenza dell'uno in questa cosa.
Quest'antitesi tra esser privo e partecipare indica che la partecipaziono
iill'uno signitica la parasia dall'u io, Nelle paro'.o che mancano mostra che
la parte non si dice 1 .1 hanno delle partì, partecipano iiexéxsO anche al
tutto e all'uno. Le altre cose dall'uno partecipano jisTaXajipotvsi all'uno,
quando non sono né l'uno né partecipi fjtexéxovxa dell'uno Dunque quando sono
moltitudini, in cui non enemce svi l'uno. La partecipazione all'uno equivale
cosi air l'inerenza deiruno: Diciamo da capo, seTunoé, ciò che é necessario che
accada alle altre cose dall'uno Diciamolo L' uno noi é separato x^)pi^ dalle
altre cose, e le altre cos3 separati cx^P^s dall'uno? Inoltre diciamo che il
vero uno non ha parti. Conivi potrebbe averne? Dunque né l'uno intero sarà
nelle altre cose eir) èv zoi(; dcXXois nò delle parti di cssr, se l'uno è
separato xwpC^ dalle altre erse, e non ha parti Cosi è Le altre cose non
parteciperanno disxéxot) dunque in niun modo dell'uno, non partecipando [xexéxovxa
né dell'uno intero né dì alcuna parte di esso In niun modo, a quanto pare Le
altre cose dunque non saranno in niun modo uno, né avranno in sé alcun che di
uno. parte dei molti che costituiscano un tutto, ma di un certo uno, che è ciò
che si chiama tutto; e dopo ciò concludo immediatamente con la proposizione
seguente. Questa conclusione ci prova che partecipare al tutto e all'uno
significa essere un tutto e un uno, perchè il ragionamento da cui essa è tirata
non stabilisce altro se nonché ciò che ha delle parti 9ome le altre cose, di
cui si ò convenuto che ne hanno deve essere un tutto e un uno. Le oltre cose
partecipare alVuno è equivalente a: Viino essere nelle altre cose^ ed è in
antitesi con: l'uno essere separalo dalle altre cose. Potrebbe provarsi più
chiaramente che la partecipazione a un'Idea non significa altro cha la parusia
o inerenza di quest'Idea? Conseguenza immediata dalla non partecipazione
all'Idea alla non possessione dell'attributo corrispondente. la nota a carta No
certamente Né per conseguenza saranno molte: se fossero molte, ciascuna di
esse, quale parte del tutto, sarebbe una; ma al presente le altre cose dall'uno
non sonò né una né molte né parti né tutto, poiché non partecipano fisTsxeO in
alcun modo dell' uno É giusto Le altre cose non sono dunque né due né tre, né
vi ha in esse alcun che di tale, se sono prive axépsxai affatto dell'uno Così é
Dunque né sono esse stesse simili o dissimili, né vi ha in esse alcuna
somiglianza o dissomiglianza. In effetto se fossero simili e dissimih*, o vi
foss»^ in esse qualche somiglianza e disomiglianza, le altre cose dair uno
avrebbero in sé sxot av év éoLuzolg due specie contrarie fra di loro Co>i
pare Ma é impossibile che partecipi [isxéxs'-v a duo ciò che non può
partecipare fxsiéxoO a nessuno È impossibile Le altre cose non sono dunque né
simili né d ssìmìli né simili e dissimili al tempo hte-^so: poiché se fossero
simili e dissimili, parteciperebbero iiszéxoi ad una una delle due specie; se
fossero simili e dissimili al tempo stesso, parteciperebbero alle due specie
contrarie; ora ciò é parso impossibile E vero Le attre cose dall'uuo non sono
dunqu'^ né le stesse né diverse, né in movimento né in riposo; non divengono né
periscono; non sono né più grandi né più piccole né eguali; né hanno alcun
altro di tali attributi; perché se avessero alcuno di tali atei) Esser prive
rìelPuno equivale a )io)i p<irU'('ipnre all'uno^ ciò che prova l'ideatilìi
di signilicato tra la partecipazione e la parusia. Sinonimia tra parlcciparf a
ìì n'Idea e averla in sé la somif^lianza e la dissomiglianza essendo qui
evidentemente considerate come Idee, e conseguenza imme<liata dalla
possessione dell'attributo alla partecipazione dell'Idea omonima, Conseguenza
immediata, come sopra. I itributi, parteciperebbero fisGégsi ad uno e a due e à
tre, e al numero pari e all'impari, a cui abbiamo visto essere impossibile
partecipare jisxéxstv, eisendoprive oxspofiévot^ interamente dell'uno. Farm.
VELIA: Non cerchiamo noi ciò che deve accadere all'uno se esso non é? Si Quando
diciamo non é, ciò significa altro che l'assenza àTioDoiav dell'essere da ciò
che diciamo che non é? Niente altro (2j Antitesi tra ess^r prive d'tiri'Idoa e
patieviparc a quest'Idea, e conclusione immediata dalla possessione di corti
attributi alla partecipazione delle Idee corrispondenti e delle Idee dei numeri
a cui queste Idee partecipano. Notiamo che se la partecipazione avesse il
significato che le danno l?rinter^-reti trascendentalisti, il ragionam-^nto di
Platone sarebbe impossibile. Platone ragiona cosi: ciò che non partecipa
all'Idea dell'uno ne a quella di alcun altro numero non può essere ne simile uè
dissimile né avere alcun altro attributo, perchè non può partecipare alle Idee
corrispondenti a questi attributi, e la ragione per cui non può parteciparvi ò
che, ciascuna di queste Idee essendo una, partecipa all'Idea dell'uno, e più di
loro prese insieme formando un certo numero, partecipano all'Idea di questo
numero, e per conseguenza ciò che parteciperebbe ad uua o più di (pieste Idee
parteciperebl>e all'Idea dell'Uno o all'Idea di q'jesto numero. Il
ragionamento corre, se per partecipazione s' intende la parusia. perchè e
chiaro che in una cosa, in cui é presente un'Idea, deve ess'^re anche presente
ogni altra Idea che è presente in quest'Idea. Ma se la partecipazione d'una
cosa a un'Idea significasse, come vogliono gì'interpreti trascendentalisti, che
la cosa e fatta ruU' esemplare di quest'Idea, non sarebbe sempre vero che la
cosa che partecipa a un'Idea, partecipa ai>che alle altre Idee a cui quest'Idea
partecipa: nel caso particolare sarebbe falso, poiché l'avere o uno o due o
tre, ecc. esemplari non porta [)er conseguenza l'avere per esemplare l'Idea
deli 'uno, del due, del tre, ecc., della slessa maniera che, per inipiegare un
esemi)io d'Aristotile Mei. 1 avere per esenvlare una cosa eterna, qual e
l'Idea, non porta per conseguenza di avere per esemplare l'Idea dell'eterno. Se
l'assenza dell'Idea significa la stessa cosa che la ptivazione dell'attributo,
la presenza dell'Idea significherà dunque la stessa cosa che la possessione
dell'attributo. Quando diciamo che una cosa non è, intendiamo dire che essa in
qualche modo è e in qualche modo no; o dire non è significa semplicemente
ch'essa non è affatto, e non essendo, non partecipa fisxéxst in niun modo
all'essere? Questo semplicemente Dunque ciò che non è, né potrà essere ne potrà
partecipare ixsTéxsiv in alcun altro modo airessere Non lo potrà Ora divenire e
perire sono altra cosa se non l'uno ricevere fisxaXaiipàvsiv Tessere, e l'altro
perderlo? àTioXXóvai? Niente altro Ma CIÒ che non partecipa 4,..ixéisaxiv per
niente di esso, non potrà nò riceverlo o5t av Xa^tpavoi ne perderlo
oQx'àTzoXXùoi Come lo potrebbe V-All'uno dunque, poiché assolutamente non e,
non conviene nò di possedere o50'éxxsov nò di perdere (o5x'à7raXXexxéov né di
ricevere or^ze fisxaXyjTixéov l'essere in alcuna maniera Pare Dunque l'uno che
non ò non perisce né diviene, poiché non partecipa fxsxsxsO in alcun modo
all'essere. Sof. Diciamo eome diamo ad una stessa cosa più nomi -Apporta un
esempio di ciò -L'uomo chiamiamo con molti nomi, attribuendogli dei colori,
delle forme, delle dimensioni, delle virtù e dei vizi, pei quali attributi e
molti altri non solo lo diciamo uomo, ma anche buono, e altre cose
innumerevoli; e lo stesso fac-, clamo per gli altri oggetti, ponendo ciascuno
come uno, e al tempo stesso come molti per i molti nomi con cui lo chiamiamo È
vero Così abbiamo, io penso, preparato un festino ai nostri giovani e ai nostri
vecchi tardi L'essere che ricevono le cose che divengono, e che perdono le cose
elle periscono, certamente un essere immanente in queste cose ora quest'essere
evidentemente è quello stesso a cui ciò che é partecipa e a cui l'uno che non è
non può partecipare; dunque la partecipazione ò di un'Idea non trascendente, ma
immanente nelle cose che ne partecipano. c D istruiti; ai quali para facile di
obbiettarci che è impossibile che uno sia molti e molti uno, e che sono al
colmo della gioia quando non permettono che l'uomo si dica buono, ma soltanto
che il buono si dica buono, e l'uomo uomo Senza dubbio tu incontri spesso delle
persone, che s'applicano a simili arguzie, e qualche volta anche dei vecchi
che, per povertà di spirito, ammirano queste cose, e credono di avervi trovato
il colmo della sapienza È vero. Afiìnchò il nostro discorso libracci tutti
quelli che si Fono occupati d'una maniera qualunque dell'essere, le n*strc
domanrlc devono intcnder-i come dirette tanto a questi quanto rg'.i altri con
cui abbiamo precedentemento disputato cioè i fisici e gli amici delle Idee
Quali sono queste domande? Se non congiungeremo né l'essere col movimento e col
riposo, nò alcun'altr.i cosa con alcun' altra, ma le ammetteremo nei nostri
discorsi come immiste afitxxa e incapaci di partecipare iisxaXajipaveiv l'uua
dell'altra; 0 le identificheremo tutte, ammettendo che sono tutte capaci di una
comunione reciproca; 0 per alcune lo f»mTnetteremo e per altre no? quali di
questi tre partiti diremo che essi sceglieranno? Io non saprei che cosa
rispondere per loro: perché non fai tu ciascuna dello tre r'sposte possibili,
cercaudo quali conseguenze risultano da ciascuna? Tu dici bene; e supponiamo,
se vuoi, ch\*ssi rispondano prima che non vi hi «Icnua comunione possibile di
alcuna cosa con un'altra; p r conseguenza il moto e il riposo non
parteciperanno fjis252 A Oégsxov in akun modo all'essere? Non parteciperanno Ma
che? sarà l'uno 0 l'altro di essi, non partecipindo (TipogxotvtóvoOv
delTessere? Non sarà Questa confe sione, a quanto pare, ha subito tutto
rovesciato, e idommi di quelli che mett'no tutto in movimento, e di quelli che
lo lasciano in riposo come uno, e di quegli altri che ammettono che, sotto il
rapporto delle loro Idee, gli esseri sono sempreinvaE G2 B riabili e nello
stesso stato: tutti infatti aggiungono Tessere, dicendo gli uni che le cose
sono realmente in movimento, e gli altri che sono realmente in riposo Cosi è E
quelli che ora compongono e ora decompongono il tutto, sia riducendo tutto ad
uno, e facendo uscire dall'uno una varietà infinita, sia decomponendo il tutto
in un numero finito di elementi, e componendolo da questi stessi elementi, sia
supponendo che ciò si faccia a vicenda, sia continuamente, in tutti i casi non
potrebbero dire niente di vero, se non vi ha alcuna mescolanza £ùfi[xigts E
giustoCiò che vi ha di più piacevole è che essi stessi hanno bisogno del
discorso questi che non permettono che di una cosa se ne dica un'altra per la
partecipazione di quest'altra xotvwvia TcaOiìiiaToc éxspou Come? Essi sono
costretti di servirsi a ogni momento delle parole essere^separatamente.dagli
altri, per sé e di mille altre che non possono astenersi di adoperare e di
connettere nei loro discorsi; dimodoché ossi non hanno bisogno di un altro che
li confuti, ma, come suol dirsi, hanno il nemico in casa, e portano da per
tutto con sé stossi il loro contradittore, che mormora dentro di loro, come
quel pazzo di Euricle un ventriloquo che pretende di avere nel ventre un demone
profetico Gli somigl.ano in effetto, e tu dici la verità Ma che? se lasciamo a
tutte cose la facoltà di una comunione reclpioca V Questa supposizione posso
confutarla anch'io Avere il 7ioc0Y)|ia d'un’Idea significa partecipare a questa
Idea. Sofista stesso. Per oonsej^uenza la xoivwvta del TidOr^iJia di un'altra
cosa cioè di un altro Genere, perchè le cose di cui -li tratta qui, sono, come
si dice in seguito, dei Generi significa aver parte a questo raprorto delle
cose col Genere, che Platone chiama ordinariamente partecipazione. B Come? É
ehe il movimento sarebbe in riposo, e il riposo in movimento, se si
raescolassero V uuo coir altro (èTiiYipotaOYjv èic'àXXi^Xwv Ma è assolutamente
impossibile che il movimento sia in riposo e il riposo in movimento E come no?
Resta dunque soltanto la terza supposizione Si Infatti è necessario che sia
vera una di queste tre supposizioni, o tutto mescolarsi aufi|xCYvua9at, 0
niente, o alcune cose si e alcune no. È necessario Ma le |»riine due abbiamo
visto che soni impossibili Si Dunque chi vuol rispondere giustamente deve
ammettere la terza supposizione Certamente Poiché alcune cose possono
mescolarsi e altre no, esse sono press' a poco com»i le lettere, delle quali
alcune possono congiungersi fra di loro, ali re non lo possono. Ma tutti
conoscono quali lettere pò sono associarsi fra di loro, o vi ha bisogno di
un'arte per chi vuol fare ciò d'una maniera conveniente? D'uti'arte Quale? La
grammatica P] non è lo stesso pei suoni gravi ed acuti? Chi ha l'arte di
conoscere quali si accordano e quali no, è musico; chi l'ignora, é straniero
alla musica. Ebbene! poiché siamo convenuti che i generi si mescolano iitSsws
sx^'-v similmente tra di loro, non ha bisogno di procelere nei suoi
ragionamenti con una certa scienza chi vuol mostrare quali generi si accordano
a'j|i(^(!)v£t e quali non si ammettono oO Séxexai fra di loro? E come
chiameremo questa scienza? Dividere per generi. e non prendere la stessa specie
per un'altra né un'altra per la ste-s-i, non é questo l'ufficio della scienza
dialettica? Si Chi é cap-rice di far ciò, vede acutamente un'Idea unica diffusa
pur molte cose Sia uoXXwv. Tiavxy] Siaxsxaixé vT]v che cj^istoiio
Kseparatamente l'una dall'altra, e molte Idee diverse compresa sotto un'Idea
unica, ed un'Idea unica per molli lutti iu uuo raccolta, e molte Idee distinte
e separale fra di loro: ({uesto é saper discernere, per mezzo della divisione
per geneii, quali sono in comunione fra di loro, e quali no € Poiché siamo
convenuti che dei generi alcuni souo in comunione reciproca e alcuni no, alcuni
con pochi, alcuni con C molti, e di altri niente impedire la loro comunione con
tutti intuite», cose, continuiamo la nostra discussimi, non esaminando tutte le
Specie, per non restare confusi dalla loro moltitudine, ma scegleadone alcune
di quelle che hanno una più grande estensione, e vedendo prima qunle sia
ciascuna di esse, e poi quale comunione abbia con B le altre I generi più
estesi, tra quelli di cui abbiamo parlato, sono l'essere, lo etato e il
movimento I più esteiri di gran lunga p] due di essi diciamo che non si
mescolano àiiCxxo)) l'uno con l'altro Certamente Ma l'essere si mescola
jjitxxóv a tutti e due: lutti e due in effetto sono Senza dubbio Essi sono tre
Certamente Dunque ciascuno è altro dagli altri due, e lo ste>so con ^ se
stesso? Si Ma che sono questi lo stesso e altro che abbiamo nominat? sono due
generi diversi dai tre superiori, necessariamente sempre mescolali
gu|ijuYV'j}jiévo) con essi, e così bisogna esaminare cinque generi in luogo di
A tre; o senz'accorgercene, abbiamo chiamato qualcuno dei tre generi superiori
lo stesso ed altro? Forse Ma il moto e lo stato non sono né lo stesso nò
l'altro B Tuttavia tutti e due partecipano iistsxsxov dello stesso e
dell'altro. Poniamo dunque lo stesso come una quarta € specie oltre le tre
specie superiori? Poniamolo. Quinta D deve dirsi la natura deli'altro che é nelle
spec'e(év xor^ E et$£oiv o'joav che noi abbiamo scelte Si E diremo ch'essa é
diffusa per tutie queste 5ta tiocviwv slvai SLsX-rjXueutavj, poiché ciascuna é
ahra dalle altre, non per U natura di se stessa, ma per il partecipare
iiexéxs'-v all'Idea dell'allro. Certamente. Cosi diremo adunque dei cinque
generi riprendendoli ad uno ad uno Come? Primo che il movimento è affatto altro
dallo stato; o non diremo cosi? Cosi Dunque non é lo stato. Giammai Ma è per il
partecipare jxexéxetv all'essere È Ancora il movimento è altro che lo Stesso Si
Non é dunque lo Stesso No Tuttavia si é convenuto tra noi, che è lo stesso per
il partecipare iJLsxsxstv allo Stesso SiBisogna dunque ricoscere sen/a
difficolià che il movimento è lo stesso e non è lo stesso; non è infatti nello
stesso senso che noi diciamo che è lo stesso e che non è lo stesso; ma quando
diciamo che è lo stesso, è per la partecipazione (iisOsgiv dello stesso
relativamente a se stesso cioè in quanto B ^sso è lo stesso con se stesso;
quando diciamo che non è lo stesso, è per la partecipazione xoivoovtav
dell'Altro, per cui, distinguendosi dallo Stesso, è, non questo, ma un altro,
sicché giustamente si dice che non è lo Stesso Senza dubbio Cosi se il
movimento partecipa fjisxaX(X|JLpav£v dello stato, non sarebbe assurdo di
chiamarlo stabile Sarebbe con ragione, poiché siamo convenuti che dei generi
alcuni si mescolano iityvooGai fra di loro D e altri no Sosterremo senza timore
che il movimento è altro che l'essere? Senza il mìnimo timore Dunque è evidente
che il movimento é non essere, ed é essere, poiché partecipa diexéxeO dell'
Passere? È evidente Ne segue che il Non essere è nel movimento èni xs
xivtq05(0^ elvat e in tutti i generi; poiché in tutti la natura dell'Altro,
rendendo ciascuno altro dall'Essere, ne fa un non essere; e perciò tutti diremo
con ragione non ent', e ancora, perché partecipano jjisxéxsO dell'Essere,
essere ed enti A I generi sono mescolati oD|i|iiYV'jxaO fra di loro, e l'Essere
e l'Altro sono d ffusi per tutti e l'uno nell'altro Sia ndvxwv xal ei'àXXrjXtov
SisXyjX'jOóxa; l'Altro, partecipando liexaaxóv dell'Essere, per questa
partecipazione |isOegtv è, ma non é quello di cui partecipa jisxéaxsv, ma
altro; 3 ed essendo altro dall'E^fsere, è evidentemente necessario 'S che sia
non essere; T Essere poi, essendo partecipe |ie TstXiQcpós dell'Altro, ò altro
dagli altri generi, ed essendo altro da essi tutt'', non è ciascuno di e>si
nò tutti sii altri insieme fuori di se s'esso, sicché Tiilssere senza dubbio in
maniere innumerevoli non è, e gli altri generi, ciascuno preso a parte e tutti
insieme, sono in molte maniere e in molte maniere non sono E Voler separare
àTioxwpf^eiv ogni cosa da rgni altra manca di grazia, ed annunzia uno spirito
straniero alle Muse e alla filosofia Perchè? Il separare SiaXOetv ciascuna cosa
da tutte le altre è la distruzione complea di ogni discorso: in effetto noi
abbiamo il discorso per l'intreccio au[i:iXox75v delle specie fra di loro. È
vero A Vedi con quale opportunità abbiamo combattuto costoro, e li abbiamo
costretti a lasciare che .si m€.s(Otino (jitY'^'jaOat) runa con Taltra Perchè?
Perchè il discorso sia anche esso uno dei generi che esistono. Si
sopprimerebbe, se si concedesse non esservi alcuna mescolanza TiiCfiv di niente
con niente. Facciamo alcune osservazioni su questo luogo del Sofista. Siccome
gl'interpreti generalmente cenvengono che in questo luogo si tratta dei
rapporti di partccipazicne tra le Idee, ci limiteremo alla quistione se questi
rapporti implichino o no l'inererza dell'Idea partecipato nell'Idea
partecipante nel senso speciale che questa parola inerenza ha nella nostra
interpretazione del sistema delle Idee. Se noi vedremo che la implicano, ciò
sarà una prova dell'immanenza delle Idee, esendo evidente che se, quando si
tratta della partecipazione d'un'Idea ad un'altra, parledpazione significa V
inerenza del partecipato nel partecipante, essa non può significare il
contrario, quando si tratta della partecipazione d'una cosa ad un'Idea. Come
prove delPinerenza, notiamo prima di tutto le espressioni mescolarsi
[iCYvuaO-at, aujjifiCYvooO'at e mescolanza lAtgt?, gO|i|iigts e quelle che
indicano la diffusione d'una cosa in una moltitudine di altre cose (Ij
tralascio altre espressioni non meno probanti, perchè identiche o simili ad
alcune di quelle che abbiamo già incontrate nei luoghi precedentemente citati
Il termine mescolanza significa, è appena bisogno di dirlo, la parusia. Esso
esprime r immanenza d'una maniera anche più energica, a un certo punto di
vista, che il termine parusia: per questo potrebbe intendersi, come si è detto
sopra, che il partecipato è presente nel partecipante d'una semplice presenza
loca'e 0 quasi locale; la parola parusia non esprime questa unione di due
sostanze in una sola, indicata dalla parola mescolanza sì pensi al significato
di questa parola |xigi^ nella fìsica d'Aristotile, Aggiungiamo che, siccome
Platone considera senza alcun dubbio la mescolanza dì due Idee come
un'espressione affatto equivalente nel hignificato alla partecipazione deiruna
delle due Idee all'altra, noi abbiamo qui la prova più evidente della verità di
un'osservazione precedente, cioè che il senso della parola partecipazione è la
parusia dell'Idea partecipata nella cosa o nell'Idea partecipante, e che, per
conseguenza, sapendo anche che questa parola significa per Platone la
possessione dell'attributo omonimo all'Idea a cui si partecipa, noi possiamo
concluderne che la parusia dell'Idea non è altro che la possessione
dell'attributo omonimo, e quindi che l'Idea e l'attributo sono la stessa cosa.
Senza dubbio, la parola mescolanza è un'espressione E bisogna aggiungere, in
cui dice che il Non essere è disseminato SteoTiapjxévov in tutti gli
esseri.inadequata al concetto che essa significa, come più o meno lo sono
necessariamente tutte le altre di cni PIatone 8i serve per indicare i rapporti
tra le Idee « tra queste e le cose, prr la semplice ragione che questi rapporti
differiFcono toio coelo da tutto ciò che le parole di ogni lingua umana sono
destinate a significare. La parola mescolanza esprime con proprietà questo
canttere del rapporto tra le due Idee, che e-se som delle sostanze di cui l'una
si trova contenuta nelfalira, |ur essendo due sostanze distinte luna dalPaltra
l'Idea delrUomo e quella dell'Animale, quantunque la seconda sia compresa nella
prima come una parte di essa, sono nondimeno due sostanze distinte, poiché
Tldea dell'animale si trova anche fuori delllica dell'uomo, in quella del
leone, del cavallo ecc. Ma ess.ì è in'^satta, fercbr le sostanze che si
mescolano sono comp^etan ente distinto runa dall'altra: l'ura r.on fa parte
dell'altra, come l'Idea partecipata della partecipante. Per conseguenza lo
interprete trascendentalista può dire cho. la mescolanza dei generi del Sofista
indica ben^i un'intima cong unz^one tra le Idee, ma non Viwwarìenza dellldea
partecipata nell'Idea partecipante, poiché per immanenza noi intend'amo
piecisamente questo inrsistere del partecipato nel partecipante come una parte
di e^so, che la parola mescolanza non esprimo. Ma quale sarà allora, secondo
l'interprete trascendentalista, qursta intima congiunz ore tra le Idee che
Platone chiama mescolanza? e che ragione egli ha potuto aveie per ammetterla?
Nell'ipotesi ^^W immanenza la parola mescolanza ha un s^gnificRto perfett«mente
determinato quantunque non sia ^osmbile una rappresentazione corrispondente,
ciò che è un difetto comune a tutte U do trine metafis'che e di cui si trova
fac Imente la ragione nel realismo dell'autore: cioè che, s'ccome le Idee sono
i concetti realizzati, cosi vi hanno tra dì esse gli stessi rapporti di
contenenza reciproca, in comprensione e iu estensione, che si ammettono tra i
concetti. Ma che significherà la mescolanza nell'ipotesi della trascendenza?
qual è il senso, il concetto determinato, che può corrisponde: e a questa
parola, applicata a delle sostanze immatcriali ed esenti dai rapporti di
posizione? Questo stesso vago conato di assimilazione dei rapporti tra le Idee
a questo rapporto tra le sostanze materiali che chiamiamo mescolanza a cui si
ridurrebbe tutto il significato della parola, sarebbe inoltre senza motivo e
senza scopo; poiché quest'assimilazione, né avrebbe alcun legame logico con
Itpolesi delle Idee, né gioverebbe a rendere quest'ipotesi più coerente o più
verisimile o più propria a sp'cgare i IVnomeni, né darebbe alcun soccorso per
rispondere alla quistione, cosi imbarazzante nell'ipotesi della trascendenza,
della possibilità di predicare un concetto di un altro, alla cui soluzione è
destinato da Platone ciò che dice su questo rapporto tra le Idee a cui dà il
nome di mescolanza. Delle considerazioni simili valgono per 1 termini che
e^primoro la diffusione di un'Idea in una moltitudine di altre Idee: questa
parusia dell'uno nei molti, che, nell'ipo'esi deli'immanenz», ha un senso
preciso e di cui si comprende perfettamente il legame con la realizzazione
de^ii Universali, non avrebbe, nell'ipotesi della trascendenza, né significato
né ragione alcuna, e inoltre introdurrebbe gratuitamente nel sistema delie Idee
trascendenti quella stessa inconcepibilità che é la dilhcoltà più grande del
sistema delle Idee imnauinti. La qu'stione a cui Platone risponde con la teoria
della p»ìrtecipazione, è: come noi diamo ad una cosa più nomt^ vale a dire, in
ultima analisi, come possiamo congiungere un soggetto e un predicato. Si sa, in
effttto, che gii altri nomi che si aggiungono al nome soggetto per
determinarlo, possono considerarsi come equivalenti a \ altrettante
proposizioni incidenti di cui essi sono i predicati: e d'alironde la
partecipazione, chVsm s'intenda nel senso dell'immanenza o in quello della
trascendenza, non potrebbe render conto della congiunzione, nel discors*^, di
altre parole che del soggetto e dfl predicato, perchè Platone dice che una cosa
partecipa a un'Idea o un'Idea ad un'altra Idea, quando della ROSA può
predicarsi l'attributo corrispondente all'Idea o della prima Idea quello
corrispondente aUa feconda. La quistione della possibilità di unire un nome ad
un altro è presentata da Piatone in termini generali: es'^a comprende tanto il
caso in cui il nome sog^et oè prrso universalmente p. e. l'uomo o tutti gli
uomini – GRICE OGNI UOMO -- quanto il caso in cui è preso particolarmente p. e.
un uomo o alcuni uomini GRICE: SOME (AT LEAST ONE) MAN -- Tuttavia è evidente
che la partecipazione tra le Idee se almeno noi vogliamo intendere la partf
cipazione nel scns'> ordinario che questa parola ha in Platone non potrebbe
rendei e conto che della possibilità delle proposizioni universali THE
ALTOGETHER SAILOR THE ONE AT A TIME NICE GIRL THE ALTOGETHER NICE GIRL THE ONE
AT A TIME SAILOR: l'Idea dell'uomo non può partecipare a un'nltra Idea HOMO
SAPIENS SAPIENS, il cui attributo omonimo non appartiene HUMAN che ad un uomo o
ad a'cunì uomini; quantunque in questo caso potrebbe dirsi che la specie umana
intesa come la collettività degl'individui uomini partecipa a quest'Idea
RAZIONALE, non potn^bbe dirsi che vi partecipa l'Idea deirUomo, perchè l'Idea
non rappresenta la specie come collettività degl'individui, ma l'insieme degli
attributi comuni MEANING POSTULATES GRICE STRAWSON ADULT a questa collettività.
Platone ha dunque dimenticato di rispondere alla quistione propostasi, per il
caso in cui il nome soggetto è preso particolarmente? o se egli nella sua
risposta ha contemplato anche questo caso, come si applica ad esso ciò che egli
dice sulla coTiunìone dei generi? Sono delle quìstlonì che noi tralasceremo,
perchè non hanno una relazione molto stretta col nostro soggetto, e ci
limiteremo al caso che Platone ha, se non esclusivamente, almeno specialmente,
di mira, cioè alle proposizioni universali e alla partecipazione tra le Idee
come fondamento della possibilità di queste proposizioni. Noi abbiamo già
notato che, nell'ipotesi della trascendenza delle Idee, la congionzìone del
soggetto e del piedicaio tarebbe impossibile, perchè, gli oggetti dei concetti
essendo le Idee, e il rapporto del predicato col aogg€tto essendo quello
deirinerenza dell'uno nell'altro, quésta congiunzione suppone l'inerenza delle
Idee nelle cose e nelle altre Idee subordinate; e che perciò la conseguenza
logica della dottrina della trascendenza sarebbe la tesi erisica che non si può
affermare che ^^omo è bur no, ma solo che l'uomo è uomo GRICE WOMEN ARE WOMEN
WAR IS WAR, e il buono è buono; tesi alla cui confutazione è appunto destinata
la teoria della partecipazione dei generi gli uni agli altri. Cosi se la
partecipazione dove intendersi nel ^enso degli interpreti trascendentalisti,
lungi di poter fornire una risposta alla quistione: com'è possibile la
congiunzione di un soggetto e di un predicato? essa renderebbe la quistione
insolubile, questa cougiuazione essendo imposti) Platone stesso dichiara che il
separare ogni cosa da ogni altra renderebbe impossibile il discorso; ciò che
implica la condanna della dottrina che gli attribuiscono gl'interpreti
trascendentalisti dico implica^perchè sarebbe impossibile di trovare in Platone
un rifiuto esplicito della dottrina della Idee separate, per la semplice
ragione ch'essa gli è affatto sconosciuta. La proposisione citata conterrebbe
questo rifiuto esplicito^ se i Megarici, come credono, secondo me erroneamente,
alcuni critici, avessero ammessa qaesta dottrina. sibile in qualsiasi rapporto
tra le Ide e tra le Idee e Io cose che non sia quello d'iramanenzR; e sarebbe
singolare che Platone, per confutare la tesi dei Megarici deirim possibilità di
ogni giudizio non tautologico mettesse innanzi la teoria delle Idee e dei loro
rapporti tra di loro e con le cose, che, nell'ipotesi della trascendenza,
sarebbe precisamente l'appoggio più forte della tesi confutata. Ma ciò che
dobbiamo ancora osservare è che . Platone, nel luogo citato del Sofista, non
solo dà la teoria della partecipazione per il fondamento e la giustificazione
della sintesi tra il soggetto e il predicato, ma, quel ch'è più, identifica il
rapporto di partecipazione d^lle Idee le une alle altre al rapporto che noi
cioè tutti quelli che pensano e che parlano, anche quelli che non ammettono la
teoria delle Idee stabiliamo tra il sozgetto e il predicato, quando formiamo un
giudizio o enunciamo una proposizione. Per es^mp*o, quando Platone domanda se
noi dobbiamo non coogiungere lo sta^o e il movimento con Tessere, né alcun
altro genere con un altro, ma ammetterli nei no tri discorsi come immilli e
incapaci di partcc'pire gli uni agli altri, evidentemente egli considera la partecipazione
dell'Idea del movimento e dello stato a quella delFessere come equivalente al
rapporto che noi stabiliamo tra il soggetto movimento o stato e il predicato
essere, quando congiungiamo lo stato e il movimento con l'essere, cioè diciamo
che il movimento o lo stato è. Similmente quando egli paragona la mutua
mescolanza delle Idee, cioè la partecipazione d«lle une alle altre, al'a
capacità che hanno le lettere di essere unite e all'accorlo dei snoni musicali,
e dice ch'^, poiché i generi alcuni si mes-o'ano fra di loro e altri no, vi ha
bisrgno per (ssi, come ppr lo letlere e i suoni musicali, di una scienzn che
mostri quali si accordano e quali non sì ammettono fra di loro; quest'accordo o
associabilita dei generi per cui naturalmente dobbiamo intendere la possibilità
d« Ha loro sintesi quali soggetti e predicati nelle proposizioni non ha un
significato differente che la loro mescolanza o partecipazione degli uni agli
altri. Ma se le Idee fossero separate dalle cose e ciascun'Idea da
ciascun'altra, come vog'iono gl'interpreti trascendentalisti, le Idee non
potrebbero essere gli attributi dele coso, ma solo gli esemplari di questi
attributi, e parimenti un'Idea non potrebbe essere 1'attributo di un'altra
Idea, ma solo l'esemplare SPECIMEN di quest'attributo SMITH’S DOG IS SHAGGY.
Quando noi congiungiamo l'essere al movimento cioè quando affermiamo: il
movimento è quest'essere che noi congiungiamo al movimento è, secondo
l'interprete trascendentalista, un'imitazione o un simulacro dell'Essere a cui
il movimento partecipa, mentre è evidente che per Platone é qu sl'E^sere
stesso: in efifetto egli direbbe indifferentemente, per esprimere lo stesso
fatto, sia che i due generi possono congiungersi tra loro e si accordano
considerando il fatto sotto il suo aspetto logico sia che essi partecipano
l'uno dell'altro o si mescolano l'uno con Taltro considerando il fatto sotto il
suo aspetto onlogico. Ma questa stessa distinzione di un aspetto logico e di un
aspetto ontologico, sotto di cui le due differenti sorta di espressioni di cui
si serve Platone, considerebbero il rapporto tra i generi, abbiamo avuto forse
torto di farla; poiché il sistema platonico é essenzialmente una realizzazione
dei rapporti logici, per conseguenza il logico e rontologico per Platone
s'identificano; e così, nel caso presente, il rapporto ontologico tra i generi,
cioè la partecipazione di un'Idea ad un'alt'-a, non è altro nell'ipotesi, ben
inteso, dell'immanenza delle Idee che il loro rapporto logico, cioè l'inerenza
dell'attributo nel soggetto, obicttivato. E in effetto, per V immanenza delle
Idee, noi noa intendiamo altra cosa ss non che le Idee ineriscono nelle cose e
le Idee più generali nelle più particolari in una parola i partecipati nei
partecipanti della maniera in cui Tattributo inerisce nel soggetto. Che Platone
consideri il rapporto tra il partecipante e il partecipato come identico al
rapporto tra il soggetto e il predicato, è dimostrato pnre da questa
circostanza, che egli fa della quistione della partecipazione una quistione
comune a tutti i filosofi, anche a quelli che non ammettono la teoria delle
Idee. Quando egli domanda ai Fisici se essi ammetteranno che rè il movimento e
lo stato partecipano all'essere né alcun'altra cosa ad un'altra, ovvero che
ciascuna cosa partecipa di ciascun' altra cosa, ovvéro infine che vi hanno
delle cose che partecipano l'una dell'altra e altre che non partecipano; e
mostra che se non vi ha alcuna mescolanza, cioè partecipazione, i Fisici non
potrebbero dire né che vi ha il movimento ne che vi ha lo stato, e che tutte le
altre proposizioni dei Fisici sarebbero ugualmente false; che si deve intendere
por queste cose, di cui si domandano i rapporti dì partecipazione, e la cui
mescolanza sarebbe indispensabile per la verità delle teorie dei Fisici? Senza
dubbio, queste cose sono nel sistema di Platone le Idee: ma egli non potrebbe
domandare ai Fisici quali siano i rapporii tra le Idee, né potrebbe dire che le
proposizioni dei Fisici in cui si afferma un termine generale d'un altro
termine Per i.idicaP3 questi ognratti, di cai egli domanda ai fisici quali
siano i rapporti di partecipazione, Platone non dice né Idea né specie né
generi nò niente altro di simile, ma si serve semplicemente dall'aggettivo al
ndulro: così io ho tradotto aggiungendo all'aggettivo SHAGGY il termine vago
coso. generale suppongono la partecipazione d'un' Idea ad un'altra, pnichè i
Fisici non sanno niente delle Idee, e non conoscono che la realtà fenomenale.
Per queste cose di cui i-ì domanda quali siano i ra[porti di partecipazione, si
deve durque intendere alcun che che possa essere comune tanto a Platone, che fa
la domanda, quanto ai Fisici, a cui la domanda é fatta: ciò non può essere
altro che gii oggetti dei concetti generali, considerati senza determinare se
(ssi siano delle entità iperfìbiche, conformemente al sistema realista, ovvero
semplicemente le classi degli rggetti fenomenali e i loro attributi,
conformemente all'opinione volgare che è il punto di vista dei Fisici. Per
conseguenza il rapporto di partecipazione di cui è quistione tra Piatone e i
Fisici, deve essere un rapporto che può correre egualmente tanto tra le entità
iperfìsiche del primo quanto tra le classi e gli attributi fenomenali dei
secondi. Ma queste classi e attributi dei Fisici sono, non delle cose
trascendenti, ma immanenti; e perc'ò il solo rapporto di partecipazione che può
esistere fra di loro, é quello deirinerenza del predicato nel soggetto. Dunque
anche il rapporto di partecipazione tra le entità iperfisiche di Platone deve
essere il rapporto d'inerenza del predicato nel soggetto. Allo stesso risultato
si perverrà, CFaminando la polemica con gli erist'ci che negano la validità di
qualsiasi giudizio non identico. Platone attribuisce a questi filosofi di
negare la partecipazione di qualsiasi cosa ad un'altra; cosi egli dice che essi
non permettono che una cosa sia detta di un'altra per la partecipazione di
quest'altra; che essi separano ogni cosa da ogni altra f2); che egli li ha
combattuti e forzati a permettere che una co8a si iLescoli con un'altra. Lo cose
di cui essi negano, secondo Platone, la partecipazione dell'una all'altra, per
loro, come per i Fisici, non possono essere le Idee (2j, ma semplicemente le
classi degli oggetti fenoramali e i loro attributi; e la so'a partecipazione
chi essi nrghino è quella del soggetto al predicato, vale a dire la possibilità
di attribuire questo a quello. Dunque per la partecipazione di una cosa ad
un'altra, che queste cose siano delle Idee ovvero semplicemonte delle ebusi e
degli attributi di queste class», Platone incende che la seconda, la
partecipata SHAGGY ATTRIBUTO, inerisce nella prima, la partecipantp, come il
predicato ATTRIBUTO nel soggetto. L'osservazione precedente ne suggerisca, o
piuttosto ne implica, un'altra, a cui non sarà forse inutile di dare un posto a
sé SHAGGY PROPRIETA, quantunque essa non abbia un'attinenza diritta con la
qiiistione della partecipayion. Le cose, sui cui rapporti di partecipazione
Plato-ie interroga i Fisci, e di cui attribuisce agli eristicl ERITSTICI
EIRENIC che non amm ttono se non i giudizi identici, di negaro questi rapporti,
sono, come abbiamo detto, degli oggetti che P'^ssorio ess'-re con«jiderati di
due maniere dìfferent*, cioè conoe a^trflzioni realizzate, come Idee-da
Platone-, e come sempl ci classi degli oggetti d'esperienza e loro attributi
non ri*8lizzati Hai Fjsici e gli cristici-Ma lo classi e i loro at ributi di
questi filosofi non sono certamente delle cose trascendenti: dunque anch*^ le
Idee platoniche devono essere immanentL E in ett'fiti è evi . Che i Megarici abbiano
ammes«4o la teoria deUe Idee, è una supposizione d'alcuni autori moderni ohe
non ha né verosimiglianza intrinseca né alcun fonlamento storico. Confr. qaesto
Supplemento. dente che quando Platone domanda ai Fisici se essi ammettono o no
che il movimento e lo stato partecipano airessere, egh non può parlare di un
movimento, di uno stato e di uà essere fuori delle cose, ma di questo
movimento, stato ed essere che sono degli attributi delle cose da Piatone
riguardati come Idee, cioè come attributisostanze e dai Fisici come semplici
attributi. Similmente quando agli eristic:*, che non vogliono che si dica che
l'uomo è buono né che un altro predicato qualunque si predichi di un soggetto
differente da esso, Platone attribuisce di separare il buono dall'uomo e ogni
cosa da ogni altra e di non permettere la loro mescolanza, qieste cose che essi
separano e di cui non permettono la mescolanza, non possono essere certamente
gli esemplari trascendenti dell'uomo, della bontà e di ogni altra cosa espressa
dai nomi generali, che questi filosofi ci proibiscono di affermare l'uno
dell'altro; perchè Vuomo è buono e tutte le altre proposizioni che questi
filosofi c'inibiscono, noi non le riferiamo ad esemplari trascendenti delle
cose, ma alle cosa stesse. E in una parola quando Platone dice che il discorso
nasco dalla mutua complicazione o'j|i7iXoxf^ delle specie, per queste specie
che sono evidentemente le Idee noi non possiamo intendere delle entità
trascendenti, perche i nomi generali di cui i discorsi umani si compongono, e i
concetti che ad essi corrispondono, non si riferiscono ad oggetti trascendenti,
ma immanenti. Ma questo è un punto che ese^*, come abbiamo detto,
dall'argomento del presente numero, ed entra in quello del numero. Un'altra
prova evidente ohe i generi, di cui Platone discute nel Solista i rapporti di
partecipazione, sono delle realtà immo>ieii(i, l'abbiamo in ciò che Platone
dice del discorso sulla fine del luogo 70# Nella mescolanza del Sofista vi ha
il ^erme d'un'immagtnp, a cui alcuoi platonici ricorrevano per rappresentarsi
il rapporto tra le Idee e le cose. Alcuno, dice Aristotile Mei,, potrà credere
che le Idee sono causa alle cose deircssere ciò che sono, come il bianco,
mescolato, è causa a un oggetto di essere bianco. Egli attribuisce questa proposizione
ad Eudossio e a molti altri, e la paragona alla dottrina delle omeomerie di
Anasagora. Questa comparazione del rapporto tra le cose e le Idee a cui esse
devono i loro attributi, a quello tra l'oggetti coloralo e la sostanza
colorante, mostra d'una maniera cosi evidente V immanenza del 'e Idee nelle
cose, che Tinterprete trescendentalista, per citato e nel seguito: egU classa
il discorso tra i generi di cai ha discusso qaasti rapi)orti di partecipazione,
e domanda se il non essere si mescoU a questa specie come ha visto che si
mescola alle altre. Ora il discorso di cui Platone parla, è incontestabilmente
il nostro discorso, non l'archetipo di esso: ma se questo genere è una realtà
immanente, gli altri, con cui esso è classato, non possono essere delle entità
trascendenti. Aggiungiamo che il Non essere, che è uno dei generi di cui si
cercano i rapporti di partecipazione con gli altri, e che è anzi l'oggetto
precipuo di tutta la digressione di cui fa parte questa discussione sui
rapporti di partecipazione tra i generi, è riguardato come l'oggetto
dell'opinione falsa della reale, della nostra. Ma l'oggetto dell'opinione falsa
sono i non esseri cioè le cose che non sono e che noi crediamo falsamente che
siano: dunque Platone concepisce il Non esst^re, non come un archetipo dei non
esseri, separato da essi, ma come la loro iorma generale, in essi immanente. È
certamente una stranezza di realizzare, come fa Platone, anche il concetto di
ciò che non è; ma, facendolo, egli non può considerare il rapporto tra questo
concetto realizzato e le cose particolari comprese sotto il concetto di cui è
la realizzazione, come differente da quello fra gli altri concetti realizzati e
le cose particolari subordinate. il comm. d'Aless. Afrod. conciliare
quest'indicazione d'Aristotile con la sua interpretazione, non potrebbe dire
altro se non che la proposizone appartieu's non a tutti i platonici, ma ad una
fraz'one, e questa poteva ben essere una scuola di d'ssident'. Ed è vero che
Aristoti'e Fembra riguardare questa proposizione come una doitrira particolare:
incerto, com'egli era, sulla qnistìone fc il rapporto tra le Idee e le cose
fosse un rapporto d'immanenza o di trascendenza, non è difficile di
corapron^lerc com'egli potasse vedere delle differenze reali nella maniera di
concepire quc-to rapporto là dove non si tratta che di una semplice diiferenza
nell'epprossione dt-llo stesso concetto. Co ì noi 1. 3 e. 2^ e 1. IS'^ e. 1«,
2« e Scegli distingue quelli che ammettono le entità matematictie i Numeri e le
Figure geometriche nelle cose e quelli che le ammettono separate dalle cose:
verosimlrrente non vi era tra gli gli uni egli altri una differenza di
dot:;rina, come afferma Aristotile, ma semplicemente gli uni esprimevano
l'immanenza di queste entità di una maniera più energica che gli altri. La
quistione del rapporto tra le Idee e le co^^e era di troppo momento pfl
significato e lo scopo dell'ipotesi stessa delle l'iep, perchè potes^^e essere
l'o^rgetto di una divergenza reale tra i parcigìanì di qu^st' ipote-i. Nella
proposizi'^ne d'Eudosr!o non bisogna vedere che una rappresentazione materiale
della dottrina ordinaria della partecipazione: anche Platone si serviva Hi
rappre-en•ta'/ioni sim 1', p. e. n^l FéJone, in cui le Id^e si fanno venire
nelle cose e ritirarsene, determinando in La grandezza che è in noi, dice e,
quando viene il suo contrario, si deve credere o ohe fugge e si rilira, o che
perisce. Platone non fa due ipotesi, non intende dire, cioè, che alla grandezza
che è in noi deve avvenire o l'una o l'ai71 esse, per questa veauta e questo
ritiro, V apparizione e la disparizione degli^ attributi corrispoiidenii.
Queste proposizioni evidentemente non potrebbero essere prese alla lettera,
perchè cosi le Idee si sottoporrebbero alle condizioni dell'esistenza nello
spazio, del mutamento, ecc., condizioni che, secondo Piatone, noa competono che
al fenomeno: esse non sono che 1'espressione, sotto una forma sensibile, del
concetto sovrasensibile della partecipazione e della parusia, cioè della
dottrina che gli attributi omonimi di t it i gii esseri non sono in sostanza
che una ì-ola entità, un solo Attributo, uno e lo stesso in tutt'. A (jueste
rappresentazioni m^ter-'ali (^el rapporto tra le cose e le Idee dobbiamo
ug^inogere la descrizione simbolica della formazirne dell'anima nel Timeo. Ivi
Platone racconta che il Demiurgo compose l'anima notiamo, l'anima cosa, non
l'anima Idea, mescolando in una calda'a V essenza inditnsibile e sempre la
stessa con Vessenza che diviene divisibile circa i corpi, e facendo tra di
queste du3 cose, porche ciò non avrebbe alcun senso: ma vuol dire che, quando
una cosa cassa di essera grande, questa perdila dalla grandezza può
considerarsi sotto due punti di vista, cioè sia coma una cassazione
dall'e^iistenza di quest'attributo, sia come la cas-^aziane della parusia dell'
Idaa corrispondente a quest'attributo. In quanto la grandezza che è in una cosa
si considera come t't'trìmeaoj cioè come individualizzata e distinta dalla
grandezza che è nelle altre cose, esija perisce: ma in quanto si considera, nella
sua ffisenza ruale^ cioè cjme la grandezza una e la stessa che è in tutta le
cosa grandi, essa non perisce, ma cessa soltanto la sua parusia nella cosa.
Quest'interpretazione è confermata dall'autorità d'Aristotile, il quale dica ^
Ih' fimcrat. ohe nel Fedone le Idee si considerano come causa etlioienti,
perchè le cose si fanno nascerò per la receziona nsx5tXYj'];tv della Idee e
perire per la loro sottrazione dcTio^oXVjV: quest'ultima indicazione non può
alludere che ai luoghi citati. anche entrare nella mesc( lanza la natura dello
stesso e quella del diverso Tim. Che cosa si debba intendere precisamente per
queste entità di cui il Demiurgo compose l'anima, è controverso. Io intendo:
per Vessenza indivisibile esemjire la stessa l'Idea de' l'anima; per Vessenza
che diviene divisibile circa i corpi la inateteria, di cui Pia one -ncU'ultima
for^na del suo sistema fa un elemento delle cose distinto dalle Idee; per lo
stesso e il diverso le due entità ch^^. egli sempre nell'ultima fjnna del suo
sistema, iu cui .^i avvicina ai Pitagorici riguarda, l'uoa come la forma comune
di tutte le Idee, e per con^e^uonzianijhe delle, c^se, l'altra coni'*, la
materia tanto delle Id'C quanto delle cose, e che chiama pure finito e
infinito, essere e non es-ere, bene e male, uno e dualità indefinita, eguale e
ineguale, ecc.. Ma che si ammetta questa interpretazione o un'altra, è, per la
(jaistione presento, un punto d'un'importanza secondaria; perchè le diverse
interpretazioni si accordano sul pun o più importante, cioè che alcuni degli
elementi, di cui Platone compone l'anima, sono Idee. Ora l'anima della cui
composizione egli p ria, è uni cosa: dunque bisogna anche ammettere che il
rapporto tua le Idee e le cose è quello che vi ha tra gli elementi e il loro
conposto, ciò che è raffVrmazione più en^rg ca deiriininanenzi delle I Ice. La
più parte degl' iuter[»reti t-a ayndeiitnlisti, s(5 non tutti, non
accorderebbero, è vero, eh », l'anima è per Plafone una cosa, cioè una SMnpliee
realtà fenomenale: essi ammettono invece che l'anima fa parte della classe
delle entità matemat'che, che Platone dici) V. per quest'interpretazione
Suppl., TV, A. stingaeva, nel periodo pitagoreggiante, dalle Idee propriamente
dette 0 Duroeri ideali, e che venivano chiamate entità intermediarie tra le Idee
eie co ie; e danno della composzioue delTanima nel T/meo questa
interpretazione, che Platone la compone delle Idee e dell'elemento sensibile o
della materia, f erchò essa è per lui d'una natura intermediaria fra le Idee e
le cose. None qui il luogo di discutere questa identificazione deiranima ad
un'entità matematica: qui basterà di osservare che essa lascia intatta la
contraddizione che vi ha tra la interpretazione trascendentalista delle Idee e
la composizione dell'anima nel Timeo, In effetto, secondo l'interprete
trascendentalista, le Idee devono essere trascendent', tanto di fronte alle
cose, quando di fronte aUe ent'tà matematiche o intermediari^». Tutte le
deterniinazìoni che Platone o Aristotile attribuiscono alle I<le^, di essere
delle sostanze, di essere cia^'cuna aOiò xaB'aOxó, di essere x^P-^'c* o
xs^^ptaiaéva separabili o separate, ecc., che provano, secondo l'interprete
trascendentalista, che le Idee sono fuori delle cose, prov*Tribberò ugualmente
che e^se sono fuori delle entità intermediarie. Per conseguenza 1 interprete
trascendentalista è costretto in quest'alternativa: o di ammettere che le Idee
sono immanenti nelle entità intcrmedia-ie, e allora si avrà Tincongrueuza che
le ste-jse determinazioni significh**ranno ora la trascendenza delle Idee e ora
la loro immanenza; o di ammettere che le Idee sono fuori delle entità
intermediarie, e allora gli elementi di cui l'anima è composta saranno fuori
dell'anima. L' identificazione, che noi abbiamo fatto, tra la meteFsi e la
parusia sembra contraria a un luogo del Fedone, di cui non dobbiamo tralasciare
di occuparci, tanto più che gl'interpreti trascendentalisti vi vedono una prova
della loro interpretazione. Ivi Socrate, dopo avere stabilito che vi ha un
bello, un buono, un grande ecc., per se stesso, e che una cosa è bella perchè
partecipa [lexéxei di quel bello, dice: Dunque io non comprendo più né potrei
comprendere queste spiegazioni sapienti alxia; ao^ot^ che ci si danno: ma se
alcuno mi dice che una cosa è bella a causa dei suoi colorì vivi o della sua
forma o di altre proprietà simili, io lascio andare tutte queste ragioni che
non fanno che turbarmi, e dico a me stesso semplicemente e senz'arte,
fors'anche troppo semplicemente tacog sOi^eoog che non altro fa bella una cosa
se non il bello, per la sua presenza r.apo'ja{a o per la sua partecipazione
xoivoovCa o in qualunque modo esso sopravvenga TipoaytYvsTai; che su questo non
voglio affermare niente, ma ciò che sostengo è che tutte le cose belle sono
belle per il bello. Questa mi pare la risposta più sicura per me e per ogni
altro, e appoggiandomi su questa base, penso di non cader mai, ma di poter
rispondere sicuramente, io e chiunque altro, che le cose belle sono belle perii
bello. Gl'interpreti trascendentalisti vedono in queste parole la prova che
Platone non determinò mai esattamente il rapporto tra le cose e le Idee, perchè
essi le intendono come se la Tiapo'jota, la xoivwvfa e le altre espressioni di
cui egli suole 8»*rvirsi per indicare questo rapporto, significassero delle ip
itesi dift'erenti che possono farsi su di esso, e l'autore confessasse che egli
era incerto a quale di queste ipotesi sì dove dare la preferenza. Ma contro
questa interpretazione sta il fatto evidente che tutte le volte che Platone
allude alla metessi o alla parusia, egli non ne parla come di semplici ipotesi,
ma la sua lingua è intcamente aftermativo. E per vederlo, non è necessario di
uscire dallo stesso Fedone. Nella dimostrazione dell'immortalità dell'anima che
noi abbiamo citato vale a dire un po'più giù del luogo di cui si tratta la
parusia è espressa della maniera più energica, e, certo, non in un modo
dubitativo; e nel luogo smesso di cui si tratta la parola npoo^iy^^zai^ la
quale esprime evidentemente la parusia, deve valere per tutti i casi, qualunque
sia il nome che si debba dare al rapporto delle Idee con le cose. Della metessì
si parla immediatamente prima e un poco dopo di questo luogo stesso due luoghi
strettamente connessi con esso, e se ne parla d'una maniera egualmente
categorica. In quanto allaxoivowia, essa è per Platone, come si vede abbfl
stanza da alcuni dei luoghi citati, un perfetto sinonimo della «jiiGsgic. Ma se
la 7iapo*jaia, la xoivcovCa, la [léGsSi?; non sono delle ipotesi differenti sul
rapporto delle Idee ron le cose, qual è allora il senso del luogo di cui
parliamo V Queste parole e tutte le altro espressonì di cui Platon^ si s rve
per indicare il rapporto tra le cose e le Idee, hignificano lo stesser
concetto, ma nessuna di esse lo esprime d'una maniera adequata. E che questo
rapporto essendo una cosa unica nel suo genere, non vi ha, come abb'amo già
detto, alcuna parola che possa esprimerlo. Ciò che vi ha sovratutto
d'inesprimibile è naturalmente il carattere di questo rapporto che è la ccusa
principale dell'oscurit\ del sistema delle Idee, vale a dire l'es'stenza
s'muUanea dell'uno nei molti. Questo carattere essendo necessariamente assente
da tutti i fatti osservabili o semplicemente rappresentabili, che le parole
7:apot>a£a, iiéOsgi?, xoivcDvCot, ecc. potevano evocare all'inmaginazioce, ciò
basta perchè queste parole fosseio giudicate impossenti ad esprimere la
relazione tra le cose e le Id(e. La parusia ha il vantaggio di esprimere del^a
maniera [nù e-nergica l'inesistenza delle Idee nelle cose; ma non implica, anzi
esclude, l'esistenza simultanea di una stessa Idea in molte cose, perchè la
presenza di una cosa in un luogo che è il fatto rappresentabile corrispondente
alla parola parusia circoscrive l'esistenza di questa cosa nei limiti di questo
luogo particolare. La [léGegig e la xoivwvCa hanno sulla Tiapouota il vantaggio
di esprimere che una stessa Idea è comune a molte cose: ma i fatti
rappresentabili significati da queste parole si distinguono dal rapporto delle
cose con le Idee, perchè, quando più erse partecipano r»d una sola, é necesFario
che questa si divida in più parti, o, se resta indivisa, è impossibile che la
cosa partecipata entri a far parte della sostanza delle cose partecipanti, come
l'Idea delle cose. Platone non dice dunque, nel luogo di cui parliamo, che la
TiapouaCa, la xoiv(!)v{a, ecc. sono delle ipotesi diverse che possono farsi sul
rapporto tra le Idee e le cose, e che egli non intende affermare
categoricamente nessuna di queste ipotesi; ma che il rapporto fra le cose e le
Idee potrebbe in certo modo classarsi tra gli uni o gli altri di quelli che i
Greci indicano con le parole TiapouaCa, xoivwvta, ecc., ma egli non intende
affermare che esso debba classarsi tja gli uni o gli altri, per la semplice
ragione che queste classazioni sono tutte inesatte. Che que.Nto rapporto,
qualunque sia il nome con cui si debba chiamarlo, sia un rapporto d'immanenza,
è del resto ciò di che il nostro luogo porta in se stesso delle prove
sufficienti. Il Bello deve essere causa della beltà delle cose belle nei senso
stesso in cui lo sono le altre cause sapienti che Platone non approva e a cui
viene messo in opposizione, vale a dire i colori vivaci, la forma, ecc.; ma
queste non sono delle cause esteriori, ma delle proprietà delle cose che fanno
si che si dia ad esse il predicato bello: dunque il Bello, dovendo essere una
causa della stessa natura, non può essere una causa esteriore alle cose belle,
ma una proprietà di queste cose. Un'altra prova evidente dell'immanenza é
l'opposizione che Plalone stabilisce tra le spiegazioni che egli non approva e
quella che egli prorone: le prime sono delle spiegazioni sapienti; la sua è una
spiegazione sicura, con cui non si rischia di ingannarsi, ma semplice,
senz'arte e quasi quasi un'ingenuità. La stessa opposizione è ripetuta un
po'più giù, dove dice: Ma che? j-e si aggiunge uno ad uno, non avrai timore di
dire che è l'addizione la causa di divenire due, o che questa cau a è la
divisione se 1'uno si divide in due? e ron dichiarerai altamente che tu non
conosci altro modo con cui una cosa si produca che partecipando iiexaoxóv al'a
essenza a lei propria, della quale partecipa jisxdoxr^, e che per conseguenza
tu non sai altra causa di divenire due, che la partecipazione disxdoxsaiv della
dualità, e che è necessario che partecipi iisxaoxsìv di essa tutto ciò che
diviene due, come dell'unità tut o ciò che diviene uno? non abbandrnerai le
addizion*, le divisioni e le altre sott-gliezze di questo geuerr,
lasciandt>le a dei più sapienti di te? per te, temendo, come suol dirsi, la
tua^ombra e la tua ignoranza, non risponderai co.-ì, contentandoti della
ipotesi sicura che abbiamo stabilita? Sulla stessa idea m* ritorna: ivi
Socrate, domandando a Cebet^ qual è la cosa, che quando sovraggiunge a un
oggetto, questo si liscalda, dice a costui che non deve rispondergli con quello
stesso che egli domanda, non deve dargli quella risposta sicura, ma ignorante,
stabilita al princip'o, cioè che questa cosa è il caldo, ma una risposta più
dotta, cioè che è il fuoco. Ora Platone non potrebbe parlare cosi, se ìe cose
belle sono belle per il bello volesse dire ehe esse sono tali pò: che sono
state fatto ad imitazione dell'Idea trascendent<3 del bello, perchè questa
spiegazione sarebbe più ric^rcat», o come dice Platone, più sapiente di
qualsiasi altra: le parole di Platone al contrario sono naturalissime, se la
Idea è un attributo delle cose, perchè in questo caso la spiegazione ha tutta
Tarla di essere una mera tautologia, somigliando a quella del medico di Molière
che l'oppio fa dormire perchè ha la virtù dormitiva. E qui il luogo di parlare
dì un epiteto che Aristotile dà alle Idee platoniche, e in cui gl'interpreti
trascendentalisti vedono una delle prove più forti della loro interpetazi«no.
Quest'epiteto è x^ptaxó^ separabile o separato, e Aristotile Io dà alle Idee
per indicare il loro rapporto sia con le cose sia tra di loro. Quantunque noi
non troviamo questa parola negli scritti platonici, tuttavia l'uso frequente
che ne fa Aristotile, quando parla delle Idee, non lascia pressocchè alcun
dubbio che si tratti di un'espressione platonica, tanto più che in certi casi
jn cui egli Tusa, ha tutta l'aria di riprodurre le proposizioni di Platone o
dei platonici con le loro proprie espressioni. Gl'interpreti trascendentalisti
intendono per questa parola che le Idee sono separate dalle cose e ciascuna da
ciascun'altra: ma noi dobbiamo cercare per essa un signiiìcato che non sia in
contraddizione coi risultati evidenti a cui conduce sulla quistione
dell'immanenza o trascendenza dello Idee V esame imparziale degli scritti
platonici. Noi cerchiamo, ben inteso, non il significato che Aristotile dà alla
parola ciò riguarda direttamente, non la dottrina di Platone, ma
l'interpretazione aristotelica di questa dottrina, ma quello che esso ha potuto
avere per lo stesso Platone. Un primo dato che può metterci sulla via per
trovare qupsto significato, noi lo abbiamo nel luogo della Repubblica in cui
Platone distingue le percezioni dei sensi che eccitano l'intelligenza alla
ricerca e quelle che p. e. Eth. End. Vili. ;f non lo fanno. Le seconde sono quelle
che non inviluppano una contrarietà: p. e. alla vista di tre dita,
Tintelligen^a non è obbligata a ricercare cosa sia il dito; il seoso lo giudica
sufficientemeDtp, perchè ciò che apparisce come dito non apparisce al tempo
stesso come il contrario del dito. Le prime invece inviluppano qualche
contrarietà: p. e. noi non possiamo percepire una cosa molle che non ci sembra
al tempo stesso dura, una cosa grande che non ci sembri al tempo stesso
piccola, e viceversa. Il senso non dichiara che la cosa sia ciò piuttosto che
il suo cjntrario, e la stessa percezione viene annunziata alFanima come
percez'one al tempo stesso del molle e del duro, del grande e del piccolo, ecc.
In tali cose, continua Socrate, l'anima eccita la ragione e Tintelligenza a
ricercare se ciò che le viene Annunziato sia una sola cosa ovvero due Glaucome:
E come no? Sock. E se appaiono due, ciascuna delle d'ie non apparirà differente
ed una? Glauc.: Si Socr.: Se dunque ciascuna appare una e amendue due, queste
due penserà separate xsxwptoiiéva: se le pensasse non separate àxt&ptaxa,
non penserebbe due cose, ma una sola Gl.: È giusto Socr.: La vista, noi
diciamo, vedeva il grande e il piccolo; ma non come un che di separato
xexwpiafxévovì, ma come un che di confuso o'jYxsxu|iévov. Non è vero? Glauc.:
Si Socr.: Ma per rischiarare ciò, l'intelligenza è costretta a vedere il grande
e il piccolo, non confusi ooYxsxujisva, ma distinti ÒKop'.afxéva, al contrario
del senso- GLAUC.: È vero -SrcR.: E non siamo cosi eccitati a ricercare cosa
sia il grande e cosa sia il piccolo?- Gl.: Certo- SocR.: Ed è pure oo^i che
abbiamo distinto l'intelligibile dal sensibile- GL.: Giustamente. Qui
cvidentemente la parola xsx(opia|iévov non significa che il grande e il piccolo
esistono isolatamenle l'uno dall'altro e dalle cos<-, ne la parola àxwpioxov
il contrario di questo isolamento: qui non si tratta di altra separazione che
di quella che r intelligenza opera nella formazione dei concetti; separato
xsxwptaiiévov vuol dire semplicemente astratto, e vedere il grande e il piccolo
separati xsxwptajjiéva vuol dire considerarli in astratto, cioè nei loro
concetti^ del resto questo grande e questo piccolo che V intelligenza, cioè
l'astrazione, vede distinti e separati, lungi di essere dogli ogjyetti
trascendenti, sono quello stesso grande e quello stesso piccolo che il senso
vede inseparati e confusi nella percezione degli oggetti concreti. Aristotile
usa pure spesso le parole lopioxó^ e xexwpia[xévog nel senso di astratto^ e
x^p^^^siv nel senso di aHtrarre, Cosi egli dice che gli oggetti della
matematica, vale a dire i numeri e le grandezze, sono per il pensiero Xwp'.axa
dal movimento; che il matematico x^pi^si questi oggetti; che li pone come
xsxo)pia|iéva dagli accidenti cioè dagli attributi concomitanti con cui esistono
nelle cose; o semplicemente che li apprende o li contempla come
xextópt<^|AÌva o come x^ptaxcc. Similmente la forma elSoaj è per Aristotile
x^Pv secondo il concetto, quantunque non lo sia nella realtà; e cosi pure la
materia. Il senso delia parola x^ptaióg per Platone, per metterlo d'accordo coi
concetti di questo filos-^'fo che nni conosciamo dalle sue proprie opere, deve
essere determinato in conformità di questi dati; e allora noi otteniamo per
questa parola un significato presso Phis, MeL De an, Met. Phys. Met. ecc. JJe
Geu. 1. I, V. G. :jt, "Vche identico a quello dell'espressione aOxè
xaO'aOtó. XtopioTÓg che noi dobbiamo tradarre non per separato, ma per
separaò/7e~.8ignifica che ciascuna Idea, cioè ciascun attributo, a cui questo
nome viene applicato, può isolarsi, per il pensiero, da tutti gli altri
attributi con cui esso coesiste nelle cose, e che, concepito in questo
isolamento, è ancora una realtà, perchè, essendo una sostanza e non
semplicemente un attributo, la sua esistenza è indipendente dall'esistenza
degli altri e da quella delle cose in cui coesiste con gli altri. Lldea ò detta
separabile dalle cose e dalle altre Idee e dalla materia, che, nell'ultima
forma del sistema platonico, è un elementi delle cose distinto dalle Idee -come
iu un oggetto materiale una parte si dice separabile dal tutto e dalle altre
parti con cui forma questo tutto; c'oè perchè avendo un'esistenza propria e
distinta, il pensiero può rappresentarsela come separata, quantunque in fatto
non lo sia. Anche secondo il concettualista noi possiamo rappresentarci ciascun
attributo separatamente dagli altri, staccandolo per il pensiero dai tutti
concreti nei quali coesiste con essi: ma il concettualsmo non ammette che gli
attributi esistano nel tutto concreto di cui sono le parti concettuali, di
un'esistenza propria e distinta come vi esistono le parti materiali. Per
conseguenza il concettualista Aristotile non può attribuire all'sleos il nome
Xcoptaxóv senza fare delle riserve: è che questo nome non gli conviene
propriamente che nel sistema realista di Platone, perchè dire uoa cosa
separabile importa, non solo che essa può essere concepita separatamente, ma
che può essere concepita separatamente come reale. Delredto, quantunque il
termine xop'.axós, applicato alle Supplem. entità platoniche, implichi spesso,
nell'uso che ne fa Aristotile, la separaz-ofie di queste entità nel senso del
l'interpretazione trascendentalista per la ragione che egli n'n può concepire
che ciò che è una sostanza sia al tempo stesso un attributo e un attributo
comune a molte cose, pure non mancano nello stesso Aristotile degli esempi che
confermano che il senso del termine per Platone è quello che noi abbiamo detto.
Cosi egli chiama xwpiaxóv lo spazio che secondo i Platonici costituisce la
materia dei corpi e non esiste altrove che nei corpi stessi, e dice che Platone
nel Timeo non ha spiegato se ciò che riceve tutto xò TravSsxé?: si separi
XwpiCisxa'. dagli elementi il ^xavesxés a cui allude Aristotile è la materia
<iuale viene rappresentata nel Timeo, in cui Platone la det'^rmina d'una
maniera che l'avvicina al'a materia aristotelica, e sembra per conseguenza
farne un principio distinto dallo spazio. Siccome la materia platonica è
certamente un principio immanente, cosi in questi casi non può trattarsi di una
separazione rea'e, nel senso trascendentalista, ma di questa separabilità
ideale che nel sistema realista compete all'astratto, quantunque questo sistema
non lo consideri che come un elemento del concreto. Xwpiaxóv è chiamato pure da
Aristotile V infinito che secondo Platone è la materia tanto delle cose quanto
delle Idee p. e.: in MeL; ed anche questa è senza dubbio una entità immanente,
come lo stesso Aristotile attesta nei termini più chiari nella Fhys., in cui
dice che per Platone T infinito è nelle cos3 sensibili e nelle Idee. Phys. De
general, V. pare il nanxero seguente. Il senso che noi diamo alla parola
x^P'-oxo^ risulta anche nettamente dalla Met.: ivi Aristotile domanda come il
numero venga dagli elementi (rUno e la Dualità indefinita; sesia per la
mescolanza l^'-È'-s o per la composizione aùvOsais di questi elementi. Nel
primo caso, egli obbietta, l'uno non sarebbe xwptaióv. Qui xwp'.oTÓv non deve
intendersi nel senso trascendentalista, perchè allora l'obbiezione
sussisterebbe anche nell'ipotesi che il numero venisse dagli elementi per
compos'zione; mentre per Aristotile essa non sussiste che nell'ipotesi in cui
esso ne viene per mescolanza. Il senso dell'obbiezione d'Aristotile è che nella
mescolanza gli elementi non conservano un'esistenza propria e distinU come
nella composizione, perchè il proprio della mescolanza fiig- è l'annullamento
delle sostanze mescolate come sostanze distinte e la sostiiuzione ad is^e di
una nuova sostanza; per conseguenza se il numiro venisse dalla mescolanza
dell'Uno e della Dualità indefinita, questi elementi non potrebbero esistere
nel numero di una esistenza propria e distinta come vuole Platone. Aggiungerò
infine che in Met., facendo duo ipotesi sul rapporto tra le Idee generi.rhe e
le specifiche, di cui l'una è che l'Idea generica esista, numericanente una e
la stessa, in ciascuna delle Idee specifiche, applica a quella il termine
x^P'-^xó^ tanto riguardo a queste quanto riguardo agV individui in
quest'ipotesi stessa, che è evidentemente quella dell'immanenza. L'uso che
Aristotile e Platone stesso nel luogo citato deUa Repubblica fanno del verbo
x^p^^stv edeisuoi'derivati, ci autorizza a supporre che questo verbo era un
termine tecnico di cui Platone si serviva per denotare quest'operazione del
pensiero che noi chiamiamo astrarre, con questa differenza, beninteso, che,
mentre per noi l'astrazione è un artifizio puramente subbiettivo che non ha
alcun ìli riscontro nella realtà, al contrario per Platone, come pertutti i
filosofi r**fl listi, essa è l'organo per cui lo spirito apprende la real'à
vera, e quindi l'operazione dove includere, per Platone un momento di più che
per noi, vale a dire l'afiVrmaz'onc dell'esistenza indipendente dell'oggetto
che ne era il risultato. E certo almeno che Platone usa in questo senso delle
espressioni analoghe, p. e.à^aipsìv l'Idea del bene da tutte le altre,
à^opi^sLv , ecc. Quest'uso della parola x^'^P-Jstv spiegherebbe perfettamente
quello di x^pt-aióg, che significherebbe, secondo la sua etimologia, astraibile
o astratto, implicando naturalmente nel senso di queste parole l'idea
dell'esistenza per sé, che secondo noi è agli antipoii dell'astrazione, ma
secondo Platone ne era inseparabile. Oltre all'ep'teto di xwp'-axóg, Aristotile
dà alle entità platoniche quello di xsxwpiajiévos che però non usa cosi spesso
come il primo. Sul senso di questa parola bisogna fare una distinzione: l'sl^os
può es<=»ere detto o y.Byoyp\.Gliv^o'^ seniplicemente, o xsxwpiajiévov dalle
cose sensibili, dagli esseri, ecc. Il primo di questi due casi non presenta
alcuna difficoltà: nell'ipotesi dell'immanenza, cosi bene che in quella della
trascendenza, ciascuna Idea è separata dalle altre Tcioè non da tutte, ma da
tutte quelle di cui non è né un genere né una specie e dalla materia,
quantunque unita con esse negli oggetti concreti in cui essa è presente; perchè
l'Idea è una sostanza, e una sostanza esiste in se stessa e al di fuori delle
altre. In quanto al secondo caso, xsxwp'.ajxévog dalle cose potrebbe
significare: che è stato separato j9er il jyensiero dalle cose; e in Rep.
L'Idea del bene è l'sido; degli sl^r^» e perciò si trova in tutte le Idee.
Parmen. VELIA <" ; 1 f questo senso l'espressione si applicherebbe alle
Idee considerate, non assolutamente, ma in relazione all'operazione dello
spirito che noi chiamiamo astrarre^ e che Platone avrebbe chiamato xcopJJsiv.
Il bello, il buono, il grande, ecc. xsxwptojiéva dalle coj^e vorrebbe dire il
bello, il buono, il grande, ecc. concepiti in se stessi, cioè quali appariscono
al pensiero dopo che questo ha isolato ciascuno di essi dagli altri attributi e
da tutte le circostanze particolari che lo accompagnano negli oggetti concreti.
Ma Aristotile applica questa e simili espressioni alle Idee, considerandole
evidentemente, non in relazione alToperazìone dello spirito per cui l'Idea
viene appresa in se stessa, ma assolutamente: p. e. egli dice: secondo alcuni
le entità matematiche sono xsxwpiaiJisva dai sensibili, secondo altri nei
sensibili stessi. Quest'uso della parola xsx^opto|jL£voc; sembra implicare la
t'-ascendcnza deMe I Ice, ed affettivamente Aristotile la impiega in questo
senso. Ma siccome non vi ha alcuna ragione per ammettere che le espressioni
d'Aristotile siano la riproduzione fedele di quelle di Platone, cosi non può
farsi di quest'uso del'a parola xsxwpiaiisvoj un argomento diretto a favore
della trascendenza, a parte quello, certamente grave, ma indiretto, che può
tirarsi dall'autorità d'Aristotile come interprete del sistvima platonico. Il
rapporto tra le Ide3 generiche e le Idee specifiche non può essere che identico
a quello tra le Idee e le cose: se il primo rapporto è d'immanenza, il secondo
non può essere di trascendenza. Ciò risulta prima di tutto dall'indole stessa
della teoria delle Idee. Gli stessi motivi che Platone aveva per ammettere l'immanenza
dei Generi nelle Specie, dovevano anche fargli ammettere la immanenza delle
Specie negl'individui: s'egli riguarda i Generi come inerenti nelle Specie, ciò
non poteva essere che per questa ragione assai semplice, che il gene-rale non
si trova altrove che nel particolare; ma per la stessa ragione egli dove
riguardare le Specie come ine-renti negl'individui. Dall'altra parte, tutte le
inconcepibilità legate, nella dottrina dell'immanenza, alla sostantificazione
degli universali, esistevano egualmente, tanto nel rapporto tra le Idee e le
cose quanto in quello tra le Idee generiche e le Id^». specifiche. Se Platone
avesse ammesso la trascendenza delle Idee rispetto alle cose pfr evitare
l'assurdità che una sostanzi inerisca in altre sostanze come attributo, che
l'uno si trovi simultaneamente in ciascuno dei molti, ecc.; per gli stessi
motivi egli avrcbbc dovuto ammettere la trascendenza delle Idee dei generi
ri^^petto alle Idee delle specie. Per conseguenza tutte le determinazioni delle
Idee, che all'interprete trascendentalista sembrano una prova della separazione
delle Idee dalle cose, proverebbe! o pure la separazione delle Idee generali
dalle Idee più particolari. Se i termini ov, oOata, aOxò %a(i'aOxó, e gli altri
attribuiti alle Idee per indicare la loro sussistenza per s^ stesse,
significano, nonsolo che l'Idea è una sostanza, ma che è una sostanza che
esiste separatamente da ogni altra; l'Idea sarà separata tanto dalle cose
quanto da tutte le altre Idee. Se il Xcopiaió; e il x£x^'>?-^IJ'*voc; d'Aristotile
prov^ano la trascendenza dell'Idea di fronte all'oggetto riguardo a cui questi
termini le vengono attribuiti, essi proveranno la trascendenza delle Idee
gen'^riche di tronte alle Idee spe-ifiche, j eichè Aristotile li attribuisce
alle prime a riguardo delle seconde. Se quando le Idee si dicono Met, Xni, Klh.
End., y[el., ecc. i essere :iapà ì sensibili, noi dobbiamo intendere, non solo
che esse sono delle sostanze distinte dalle sensibili, ma ancora che esistono
al di fuori di queste; bisogDerà ammettere pure che le Idee dei gi neri sono al
di lucri delle Idee delle Specie, perchè le prime hoio dette essere Tiapd le
seconde (Ij. E in una parola, tutte le prove che secondo grinterpreti
trascendentalisti dimostrano la trascendenza dille Idee di fronte allo cose,
dimostrerebbero egualmente quella delle Idee più generali di fronte alle Idee p
ù part colarì, perchè queste prove si riducono, jn uliima analisi, alla
sostantificazione delle Idee e alla loro dist'nzione dall^*. cose. Ag^riungiamo
che gli stessi termini e le stcss^, formule di cui Piatone si serve per
indicare il rapporto tra le Idee e le cose, gli servono ugualmente per indicare
il rapporto tra le Idee più generigli e le Idee più particolari. Cosi, quando
Platone chiama la generalizzazione una oDvaYcoYTp cu è una riduzione del
multiplo liirunità; quando chiama l'Idea l'uno nei molti; quando dice che Tuno
è molti e i molti sono uno; quest'uno di cui ej^li parla è tanto l'Idea
rispetto alle cose, quanto la Idea generica rispetto alle Idee sprcifiche, e i
molt», tanto le cose rispetto all'Id^^a quanto le Idee specifiche rispetto
all'Idea generica (2j: ora, la relazione che Platone stabilisce tra TYino e i
molt', non può nei due casi essere difiFerenie. Così pure la p'irola
partecipare cioè le parole gre. 'he che le corrispondono non può avere due
sensi differenti, quando Piatone dico delle cose che partecipano alle Idee, e
quanio dice delle Idee che partecipano ad à'tre Idee più generali. Ari-;t. Met.
FJth. lùid., Vili, Plato. Sof. Segue da ciò che abbiamo detto che ciò che prova
immediatamente l'immanenza delle Idee più generali nelle Idee più part'colari,
prova anche mediatamente l'immanenza delle Idee nelle cose. È a questi clas?e
di prove che appartengono, almene in parte, alcune di quelle esposte nei numeri
precedenti notevolmeilte la comunione dei generi del Sofista, l'identità tra
l'uno e i molti del Fllebo, la «-eneralizzazione considerata come una riduzione
del multiplo all'uno: le prove che esp^rr^mo nel presente numero appartengono
pure alla stessa classe. Il rapporto fra le Idee generali e le Idee particolari
è considerato da Platone a un doppio punto di vista», corrispondente al doppio
punto di vista sotto cui possono considerarsi i concetti, (juello
dell'estensione, e quello dell'intensione. A Considerando i concet*;i, e quindi
le Idee, che non sono se non i concetti realizzati, al punto di vista
delPestensione, le Idee specifiche sono contenute nelle Idee generiche. Questo
punto dì vista è naturalmente quello della dialettica, poiché la dialettica
platonica è la divisione del genere nelle specie, e considera quindi il genere
nella sua estensione. Siccome nella divisione diaipsT.; le specie sono
riguardate come parti del genf^re, e l'oggetto proprio di questo metodo sono
esclusivamente 1^, Id'e, cosi la dialettica vale a dire 1'uno dei due elementi
costitutivi df Ila teoria delle Idee ha p«»r bas^. il concetto che le Idee
specifiche ^ono^Mr/ideiridea generica. Per la prova della proposizione che
l'oggetto proprio ed esclusivo della divisione sono le Idee, rimando al num.:
in quanto alla proposzione che nf^lla divisione le specie sono riguardate come
parti del genere, sembrerà una puerilità di credere che sia necessario di
prov<irla. Tuttavia siccome può esservi (jualche lettore che noa abbia alcuna
V nozione della dieresi platonica, e questi potrebbe immaginare che Platone
nelle sue dieresi non riguarda le specie in cui il genere viene diviso come
parti di esso ciò che infatti sarebbe la conseguenza inevitabile dell'ipotesi
della trascendenza, cosi non sarà torse inutile di provare coi testi 'anche
questa proposizione. Perciò basteranno i due luoghi seguenti: Polii,: Lo
straniero riprovando una divisione di Socrate: Non separiamo una pi«cola parte
per opporla ad altre grandi e numerose, né prendiamo una parte soìza la specie,
ma la parte abbia al tempo stesso specie. E bello di separare subito da tutto
il resto ciò che si cerca ma vale di più andare dividendo per metà, e meglio
cosi scopriremo le Id'»e; ora è ciò che importa sovratutto in ogni ricerca
Socr.: Ma come si può i atendere più chiaramente che la parte e la specie non
sono la stessa cosa, ma due cos^ difieren^iV Lo stran.: Ottimo fra gli uomini,
non è lieve ciò che mi domandi Guardati bene però di pensare di aver udito da
me alcuna cosa determinata intorno a questo Socr.: Intorno a che? Lo «tran.:
Che la part^ e la specie siano due cose differenti Socr.: Perchè? Lo STRAN.: La
specie v necessarìamente^ una parte di ciò di cui si dice che è una specie, ma
non è necessario che una parte sia al tempo stesso una specie. Non dimenticare
mai, 0 Socrate, che io cerco di dividere di questa maniera cioè par parti che
sono specie anziché delPaltra cioè per semplici parli. Fedro: Vi hanno due cose
che sarebbe interessante che un uomo abUe potesse trattare con arte. Prima, di
ricondurre ad un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, lutto ciò
che è sparso da una parte e dall'altra e poi di sapere di nuovo dividere per
ispecie come per altrettante articolazioni naturali, cercando di non mutilare
alcuna parte come farebbe un cattivo scalco. Cosi poco fa i nostri due discorsi
fatti l'uno in lode, e Paltro in biasimo dell'amore hanno cominciato per
prendere la specie generale del delirio, e come un sol corpo si compone di
membra doppie, chiamate con lo stesso nome, cioè le destre e le sinistre,
similmente essi hanno considerato il delirio come una specie unica, e Puno,
dividendo la parte sin^'stra e suddividendola, non si è fermato che dopo aver
trovato un certo sinistro amore, ch'esso ha colmato di rimproveri ben meritati;
l'altro, avendo preso la destra del delirio, vi ha trovato un altro amore,
simile al primo di nome, ma divino, che ha colmato di lodi, vantandolo come
l'autore dei più grandi beni. Per me, o Fedro, io sono amante di queste
divisioni e riunioni aovaY0)Yó5v, per essere più in grado di ben pensare e di
ben parlare; e se credo di scorgere in alcuno la capacità di guardare all'uno e
ai molti, io seguo le sue orme come quelle d'un dio. Quelli che hanno questa
capacità, dio sa se a torto o a ragione, io li chiamo sin qui dialettici. In
questi luoghi non potrebbe supporsi che Platone, mentre riguarda le specie come
parti del genere diviso, dimentica il suo principio che l'oggetto a cui si
applica la dieresi sono le Idee ciò che è la sola risorsa a cui potrebbe
ricorrere l' interprete trascendentalista per negare che le Idee specifiche
siano considerate come parti dell'Idea generica Infatti in essi è affermato
esplicitamente che il vero oggetto della dieresi sono le Idee: e oltre di ciò
la supposizione potrebbe al più essere ammissibile nei casi in cui questo
metodo non è che praticato; la pratica, potrebbe dirsi in questi casi, non
corrisponde alla teoria; ma nei due luoghi citati Platone si mette al punto di
vista teorico, dandone nell'uno delle regole, e nell'altro inculcandolo come
metodo generale, e ciò con un'enfasi che basterebbe essa sola a provare che
egli lo -considera nella sua applicazione alle Idee, poiché è in
quest'applicazione che esso diviene una soluzione del problema delle cause,
efficienti, e acquista perciò il pregio inestimabile in cui è tenuto da
Platone. Del resto, oltre alle dieresi e ai luoghi relativi a questo metodo,
che Tlatone riguardi le Idee sprcifiche come parti deir Idea generica, risulta
anche da altri luoghi, nei quali non vi ha alcun dubbio che le specie e i
generi di cui si tratta sono le Ideo. Cosi nel Sofista: La ^ùgk; del diverso mi
pare essere frazionata xaTa/.sxspfxaxio^aO come la scienza. Questa è pure una;
ma ciascuna parte di e^^sa, riferendosi a un soggetto particolare, prende un
nome particolare; e perciò vi hanno molte arti e molte scienze Senza dubbio Non
vale la stessa cosa per le parti .uópia della y-Jx^ del diverso, un-> in Fé
stessa V Forse, ma spiega in che modo Vi ha una parte iiópiov del Diverso, che
si oppone al Bello? Si Ha qualche nome o non ne ha V ~ Lo ha; perchè ciò che
chiamiamo non bello non è che ciò che è diverso dalla cpóac; del bello Bisogna
porre nel numero degli esseri il Non hello non meno che il Bello? Non meno E
bisogna pure dire che il Non grande è similmente che il OrandeV Similmente
Dunque anche il Non giusto porremo di fronte al Giusto, come se il primo non
esis a meno che il secondo V Certamente E lo stesso vale per le altre cose,
poiché noi abbiamoo visto che la cpjot; del diverso è nel numero d^gli esseri;
e ammettendo che essa è, bisogna anche ammettere che le sue parti ixópiaj sono
E come no V Per conseguenza Topposizione di una parte jióp.o'j della (f'jG.g
del diverso a quella dell'essere non è meno un essere che l'Essere stesso; e
significa, non il contrario di questo, ma solamente il diverso Evidentemente
Come la chiameremo V È chiaro che è il Non essere, che noi cerca v^amo pin
causa del sofif1sta Noi abbiamo non solo dimostrato che i non esseri sono, ma
spiegato ancora che cosa sia la specie del non essere; poiché avendo provato
che esiste la cpóots del diverso, e che si trova divisa xaTaxsxspiiaxtaiiévYjv
in tutti gli esseri, nella loro relazione reciproca, abbiamo osato di dire che
la parte iiiòp\.o^) di essa, opposta a ciascun essere, è realmente il Non
essere. Nel 7imeo si cerca quale sia Tanimale l'animale Idea, non "animale
cosa a somiglianza del quale il mondo è stato f'atto. Quest'animale, dice
Timeo, non può essere uno (<i quelli che sono nel genere della parte jiico';
cioè che sono delle parti, perchè ciò che è fatto a somiglianza delT imperfetto
non può essere bello; ma è l'animale <f di cui tutti gli altri animali,
presi per generi e per individui cioè ppr ispecie, perchè gì'individui di cui
qui si tratta sono Idee, sono delle parti jidpia. Esso contiene in sé iv éaoxò
TispiXagòv sxet tutti gli animali intelligibili, come questo mondo contiene noi
e tutti gli animali visibili». Per conseguenza essendo fatto sopra un tale
esemplare, il mondo è unico: poiché quello che contiene xò Tispiexov tutti gli
animali intelligibili non può essere un secondo con un altro; perché allora
esisterebbe necessariamente un altro ancora, di cui ciascuno dei due sarebbe
una parte népo;, e il mondo sarebbe stato fatto a somiglianza, non di questi
due, ma di quest'altro che conterrebbe rwspié/ov tutti e due. Affinché dunque
questo mondo fosse simile per la sua unità all'animale assoluto TiavTSAsì, il
suo autore non ne ha fatto né due né un'infinità, iva non ha prodotto che
questo solo cielo, che è e sarà unico. Cominciando a narrare la produzione
degli animali, Timeo dice che il mondo, in quanto al resto, somigliava al
modello alla cui imitazione è stato fatto, e ma non racchiudendo tutti gli
animali che sono nati nel suo seno, per questa ragione era ancora dissimilt;
perciò il Demiurgo aggìuDgcva ciò che gli mancava, riproducendo la natura del
suo modello. Per conseguenza, quali e quante specie V intelligenza vede
inesistenti rivo'iaa^ in ciò che e animale xòi '6 iaii ?;tr)ov), tali e tante h
labili che questo mondo dovesse riceverne». Quest'animale assoluto o intero,
che contiene tutti gli altri animali intelligibili come delle parti, non può
essere che l'Idea generale dell'animale. In effetti, quando un nome (FIDO) si
riferisce alle Idee (FIDONESS), non può significare nella lingua di Platone che
l'Idea delle cosr a cui questo nome appartiene. Ciò è coul'ermato inoltre
dall'argomento con cui Platone dimostra che quest'animale ò unico, cioè 'he se
ve ne fossero due, ve ne sarebbe anche necessariamente un altro, che li
conterrebbe amendue, e sarebbe questo l'animale assoluto. Lo stesso argomento
si trova nel'a Rep, per dimostrare che non |,uò esistei e che una sola Idea del
letto; e sotto una forma generale può svilupparsi cesi: per tutti i molti
compresi sot.o un concetto comune vi ha un'Idea ciò che è dimostrato dalla
prova per l'esistenza delle Idee, e non può esservene che una sola, poiché, se
ve ne fossero di più, queste farebbero parto dei molti compresi sotto il
concetto eoinuiu', perciò al di bopra dì questa nini-' liplicità bisognerebbe
cercare aucora un'unità, e sarebbe «iuella, e non le precedenti, l'Idea dei
molti compresi sotto ifconcetto comune. Infine ciò che toglie ogni dubbio è la
denominazione di o sar. ^coov, perche o san equivale ad aOxó, e significa che
il -lome acuì si aggiunge viene applicato all'Idea delle cose denotato da
questo nome. Platone può riguardare T Idea dell'animale come l'esemplare del
mondo, perchè, siccome egli ammette l'animazione delle piante, della terra e
degli astri, cosi ogni sostanza è per lui un essere animato o almeno una parte
di un essere animato; e per conseguenza, tutti gli oggetti dei nostri concetti
essendo con. U'uuti nelle sostanze, le Idee degli esseri animati, cioè le parti
dell'Idea dell'animale, esauriscono in un certo modo tutto il contenuto del
mondo ideale. La relazione di tutto e parti stabilita tra l' Idea generale e le
Idee particolari subordinate presenta una difficoltà. La specie è certamente
uux parte del genere, se por genere e per ispecle s'intende la collettività
degl'individui: ma V Idea non «• la collettività degl'individui, ma solamente
l'attributo o insieme d'attributi comune a questa collettività GRICE
EXTENSIONALISM AS bete noire MINIMALISM. Ora l'insieme degli attributi
specifici non è contenuto come una parte nell'insieme degli attributi generici.
Sembra dunque che il concetto che l'Idea specifica abbia con l'Idea generica la
relazione della parte col tutto, sia incoaapatibile, tanto con l'ipotesi della
trascendenza delle Idee, quanto con quella della loro immanenza. Per risolvere
questa difficoltà bisogna ricordarsi della formula platonica che l'uno è i
molti e i molti sono Tuno, e della sp'egazione che ne abbiano data. Tra l'uno e
i molti cioè tra il (ien^re e le Specie, tra la Specie e gl'individui vi ha una
relazione che è al tempo stesso di differenza e d'identità. L'uno e i molti,
nell'ipotesi dell'immanenza, s'identificano necessariamente, perchè sono la
stessa co3a, il primo in astratto (dog, shaggy), i secondi in concreto –
Smith’s dog Fido is shaggy --; quantun(|ue al tempo stesso si distinguano,
perchè l'astratto e il concreto non sono solamente due punti di vista
subbiettivi sotto cui la stessa cosa viene considerata, ma due gradi o momenti
successivi logicamente dello sviluppo dell'essere, che, pur conservandosi
identico a se stesso, passa continuamente questa è la vita dellldea da uno
stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più
determinato. Questa determinazione o concretizzazione progressiva dello stesso
essere, ammessa necessariamente in tutti 1 sistemi che realizzano gli
universali, nel sistema di Platone, per la maniera in cui egli concei)isce la
d'aJettica, cioè il metodo di dedurre le Idee metodo che non è altra cosa, in
Platone come negli altri metafisici realisti, che la riproduzione subbiettiva
di questo stesso processo per cui Tessere si sviluppa por una concretizzazione
progressiva è al tempo stesso una divisione progressiva, ciò chs nel momento
anteriore, più indeterminato, è wno, nel momento posteriore, più determinato,
trovandosi molti, Platone chiama dunque ciascuno dei molti una parte deir^mo,
poiché i molti non sono che Vuno stesso che, det'^rminandosi, si divìde.
Certamente questo concetto non è facile a comprendere, «nzi, per dire la cosa
com'è, é assolutauif^nte inintelligibile; ma è la conseguenza inevitabile de'la
reaMzzazione degli universali. Questa conseguenza però non ha luogo che quando
dell'universale si fa un'entità immanente, vale a dire quando, realizzanlos»,
esso non cessa di essere veramente un universale, cioè la proprietà cornine dei
particolari. Ma se l'Idea è trascendente, essa non è più, a parlar
propriamente, Tuniversile, non è più le cose stesse considerate dal punto di
vista dell'astrazione: allora l'astratto e il concreto, l'uno e i molti, sono
solamente distinti, e non al t-^mpo stesso distinti e identificati. Il rapporto
di tutto e parti stabilito tra l'Idea generica e le Idee specifiche ci fa
comprendere certe locuzioni che al punto di vista ordinario sarebbero strane.
Platone chiama le specie di un genere parti jiipr^, iióP'.a, T»jn^naxa, ecc.
dell'oggetto deao'aco dal nome generico, e qu^^sto tutto oXo;, ;, ecc.
relativamente alle specie del genere. Cosi, oltre agli esempi di queste locuzioni
nelle dieresi delle arti e delle scienze del Sofista e del Politico, dice: le
parti del delirio Fedro, dell'imprudenza Alcib., dell'ignoranza Sof. Jìl, della
figura ML, ecc., intendendo le loro specie; neWEutifr. J; oL P^^^'1 Sì^^^o; nel
Font., eh egli ha diviso tutto quanto l'animale domestico e vivente in gregge;
nel Conr., che un sl5o; part colare dell'amore é chiamato col nome del tutto
amore; ecc.. Il delirio, il piacere, la figura, ecc., non significano la
collettività delle cose o dei fenomeni chia-mati con (luesti nomi, ma il
concetto della cosa o del fénomeno la generale: cosi le loro specie non
potrebbero, al punto di vista comune, esserne chiamate delle parti' Se Platone
lo ia, è perchè, secondo luì, il concetto si ri^ ferisce all'Idea, e le Idee
specifiche sono parti deiridea generica. Per conseguenza, per questo delirio,
per questo piacere, per questa figura, ecc., bisogna intendere la Idea del
delirio, del piacere, d^lla figura, ecc.: e siccome nella più parte di questi
casi, se non in tutti, è evidente che Platone non parla di entità trascendenti,
ma del delirio, del piacere, della figura, ecc. in noi e nelle cose, cosi noi
dobbiamo vedervi un'altra prova immediata dell'immanenza delle Idee. rn'altra
maniera di formulare il rapporto tra l'Idea più generale e le Idee più
particolari ad essa subordinate, è di riguardare la prima come contenente e le
seconde come contenute. K ciò che si vede nei luoghi citati del 7meo e in tanti
altri, tra cui basterà d'indicare Sof. luogo citato al num. carta e Sof., Jydro
, l'olit. luoghi citati al n. «)! Evidentemente Platone non può dire che l'Idea
generale co atiene le Idee particolari che nello stesso senso in cui noi
Menane, luogo citato a carta, e: / diciamo che il concetto generale contiene i
concotti particolari; vale a dire in quanto le sfere, in estensione, delle
seconde cadono dentro la sfera, in estensione, della prima. Ora l'estensione
GRICE EXTENSIONALISM non è una proprietà che appartiene agli oggetti dei nostri
concetti, agli astratii, considerati in se stessi, cioè nel loro coiìtenuto
intrinseco; ma appartiene ad essi in ragione degli oggetti, i concreti, di cui
essi sono gli attributi. Noi diciamo che animale è PIU ESTESO di uomo^ e lo
contiene, in quanto gli oggetti di cui si predica animale, sono più numerosi di
quelli di cui si predica uomo, e la totalità dei secondi è una parte della
totalità dei primi. In assenza di oggetti, di cui uomo e animale siano gli
attributi, non potrebbe parlarsi, per essi, di estension'^, non potrebbe dirsi
che il secondo è più esteso del primo e lo contiene. Ora, secondo gFinterpreti
trascendentalisti, non vi hanno, \ov Platone, oggetti, di cui uoìno e animale^
considerati come Idee, siano gli attributi: Tldea dell'uomo non è un attributo
degli uomini, Tldea delP animale non è un attributo degli animali, ne degli
animali cose, ne degli animali Idee. Per conseguenza, Platone non potrebbe dire
dell'Idea dell'animale ch'essa contiene l'Idea dell'uomo e degli altri animali:
le Idee, separate dalle cose e le une dalle altre, avrebbero semplicemente
INTENSIONE, non avrebbero estensione. lo ho creduto di dover distinii*ip Noi
dobbiamo vedere perciò una prova dell'immanenza delle Idee in lutti i casi in
generale in cai Platone attribuisce ad esse un'estensione. P. e. nel Sof. luogo
citato nel numero |)recedente, dove chiama le Idee dell'essere, «iello stato e
del movimento i generi pia grandi {isyiaia tra quelli di cui egli ha parlato:
non potrebbe chiamarli cosi, se non li riguardasse come contenenti, nella loro
estensione, un più gran numero di oggetti che sVi altri. guere la proposizione
che l'Idea generica contiene le Idee specifiche da quella che le Idee
specifiche sono parti dell'Idea generica, quantunque in certi casi, come nei
luoghi cH«iti del Timeo, le due proposizioni siano evidentemente equivalenti,
perchè la prima non include necessariaiaente nel suo significato questa
identificazione dell'uno coi molti inclusa nel significato della seconda. Per
rappresentarsi un'Idea come inviluppante, nella sfera della sua estensione,
un'altra Idea, Platone non ha bisogno di riguardare la seconda come una parte
della prima, ma solo di riguardare la totalità degli oggetti in cui /rova la
seconda come una parte della totalità degli oggetti in cui st trova la prima.
Considerando le Idee al punto di vista dell'intensione, le Idee generali sono
contenute nelle Idee particolari. Una delle prove più palpabili di questa
proposizione ci è fornita dallo stesso Aristotile, malgrado la sua innegabile
inclinazione verso l'interpretazione trascendentalista: è la dottrina dei due
elementi delle Idee e delle cose dottrina appartenente alle ultime speculazioni
di Platone, e per la cui conoscenza noi siamo ridotti quasi unicamente
all'autorità d'Aristotile Secondo questa dottrina, tutte le Idee sono costituite
da due elementi oToixsta che corrispondono al Fine e Infinito dei Pitagorici, e
che Aristotile chiama talvolta con questi stessi nomi, ma il più ordinariamente
con quelli di Essere e Non essere o al punto di vista della teoria dei numeri,
ai quali le Idee venivano identificate di Uno e Dualità indefinita o Grande e
Piccolo. L'uno o essere era la essenza oOaia o forma o specie zllo^ di tutte le
Idee; la dualità indefinita o non essere ne era la materia. Mot. Il nome dì
elemmii dato ai due prìncipìì ultimi delle cose non deve farci illusione sul
vero significato di questa dottrina: queste due entità non sono al fondo che
due Idee generiche, a cui tutte le altre sono subordinate come loro specie,
vale a dire dei predicali universali, comuni a tutti gli esseri, considerati
come delle sostanze per cui vengono loro applicati i termini aOxó, xaH'aóió,
x^ptoTóv, indicanti lastrattezza dell'Idea e insieme la sua sostanzialità, e
ciascuno come uno nel molti. In verità Piatone non considera rome Idea di
genere nel senso stretto che quello dei due elementi che fa da sl5o;, e che non
è altra cosa che T Id*>a del bene (4j, che nella Rep. daU come il principio
dell'essere e della conoscenza è questo, come vedremo a suo luogo, un artifizio
destinato a conciliare la dottrina, dovuta ai Pitagorici, di una dualitii di
principii con l'esigenza della dialettica, cioè della dieresi, la quale
richiede al vertice della piramide che costituiva il mondo ideale, non due
Idee, ma una Idea unica come genere supremo: ma la denominazione stessa di
materia delle Idee data all'altro elemento, per distinguerlo da un'Idea di
geaere propriamente detta, ci dice Met. a. pel Xon essere Plato. Suf, . Phys.
Mct. EUi. Eud. 1. I. vnu 14, eoo. abbastanza che anch'esso è al fondo un
predicato generale, comune a tutte le cose meno, s'intende, l'elemento opposto
poiché il nome d'una materia il legno, l'oro, ecc.: è un nome generico
applicabile alle cose che sono fatte interamente di questa materia. Per
conseguenza tra i due elementi e le Idee deve esservi lo stesso rapporto,
d'immanenza o di trascendenza, che vi ha tra le Idee dei generi e «juclle delle
specie, e questo non può, come abbiamo detto, differire da quello che vi ha tra
le Idee delle specie e le cose individuali. Tanto piti che il rapjorto tra i
due elementi e le Idee è designato dagli stessi termini che designaao quello
tra le Idee generiche e le specifiche o tra le Idee e le cose: p. e. le Idee
sono dette partecipare ijlstsxsiv agli elementi, e questi sono chiamati
separabili o separati xwpiaia o y.sy/oP'.ajjiéva. (Jli stessi termini, come
abbiamo più volte o^^servato, non potrebbero indicare, in un caso, un rapporto
d'immanenza, e in un altro, un rapporto di trascendenza. Ora non vi ha dubbio
che il rapporto dei dtie principii con le Idee sia quello dell'immanenza: se
non fosse cosi, non potrebbero essere chiamati elementi, e l'uno materia,
l'altro forma o essenza, delle Idee. E si noti che Aristotile prenie la parola
elemento nel senso stretto: cosi egli fa inerire OTcocpxstv, svjTiapxstv, slvai
sv i dae principii negli esseri derivati; chiama questi, rapporto ad essi, dei
composti aóvS'cxa 4j; paragona MH, Mei, ^fcL . m. Phys., eoe. Mt't. '\ n modo
in cui essi formano gVi esseri a quello in cui le lettere formano le sillabe;
li considera entrambi come materia dei composti; e fa l'obbiezione che, se
ciascun elemento è uno di numero come dice Platone, e non semplicemente di
specie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi. Un'osservazione
analoga vale per il nome di materia dato all'uno dei due principii: questo
principio è per Aristotile il sustrato j-oy.s:jisvov, nelle Idee, al quale la
forma inerisce; paragona il rapporto delle I lee con esso a quello della meusa
col legno di cui è fatta; considera la sua funzione nel sistema platonico come
identica a quella che ha la materia nel suo proprio sistema (, tranne che
Platone confonde la materia con la privazione, menti e egli le distingue; e lo
riguarda come la potenzialità di tutte le cose, come il tutto allo stato
indetermina^r», prima di determinarsi per la partecipazione delle for.aiih). La
proposizione che il principio materiale è gli esseri stessi in potenza è
attribuita anche a Platone stesso; e vediamo una singolare applicazione di
questo concetto nella formazione dei numeri, le uiità del primo numìro che
viene formato, cioè della dualità definita, essendo ri^-uar MeL eoe Met. Met,
Met, L'oUmauto matoriale è anche detto luogo xwpa del'eleinento formale Mei,
ciò ohe prova rimmanenza dell'uno e dell'altro. Met. Phys. Met. Phys, Met. Met.
IN > P" dale da Platone come le unità stesse della dualità indefinita
il Grande e il Piccolo, eguagliate. In quanto a'Telemento che serve di forma,
la conseguenza naturale della teoria dei numeri <> di fargli qualche
volta rappresentare una parte ch^ convif^ne alla materia piutosto che jilla
forma; la <,nal cosa, fc dissimula la fcnziono e il significato reale di
questo principio, è jcrò la prova più palpabile c'era sua immanenza. Aristotile
osserva che i platonici cocsiderano Puno al Uml>o f-tosho come i*( mia e
specie dei numeri perchè ciascun numero è uno e come parte e materia di essi
lerchr i Lumeri .^ono composti di unità. È a (juesta funzfrne deiruno come
materia dei tiimeri che può riferirsi pure l'obbiezione che le unità che
compongono i diversi numeri non possono diffeiire, come vogliono i platonici,
perchè essi parlano dell'urio in se, da cui tutte le unità sono costituite,
come se questo fosse un elemento di parti similari e|iO'.o|i£pé; come il fuoco
o rac<jua(o); e Pindicazìone che nella formazione dei numeri (dairuno in se
e dalla dualità indefinita) l'Uno in sé era riguardato come l'unità media nei
numeri impari i numeri di cui si tratta in tutti questi cas', non bisogna
obliarlo, non sono allra cosa che le Id'^e . Infine, come prova dell' immanenza
dell'uno o essere, citerò l'argomento con cui Platone dimostra l'esistenza. La
dualità iiidcliiiita era Jiiiche chiMiiiala l'iiiegualo, e l'uno, alla cui
partecil»aziouo era dovuta la l'orinazione dei numeri, l'eguale. Met, I del non
essere l'a-tro elemento; cio'^ che se non esistesse il non essere, non potrebbe
darsi una moltìplicità di esseri, poiché allora tutti gli esseri sarebbero un
solo essere, Tessere slesso. Platone non potrebbe dire: tutti gli esseri
sarebbero l'essere stesso, se l'essere fosse fuori d^^^ìì esseri. Il senso
deirargomento è che, se insieme aliVssfre cioè all'attributo connotato da
questo nome non vi fosse negli esseri ciò che non è l'essere, vale a dire il
non ev sere, tutti gii esseri non sarebbero altra cosa che l'essere; e
Targomeoto suppone, prr crnseguenza, che tanto l'essere stesso quanto
l'elemento opposto siano negli fsseri. Negli scritti platonici, l'immanenza
dell'Idea de' bene che, come abbiamo detto, corrispmde al princij ^o che
Ariiitotile chiama l'uno o Trs-Jere nelle altre Idee n* n è meno evidente: ersi
nella liepublica si dice e h^^ non ha alcuna conoscenza del bene chi non sa
definirne lldea, astraendola da tutte le altre; e quest'Id»»« é chiamata V
ottimo negli esseri, // jnl: chiaro e il piii felice e) delV essere i t'essere
siirniliea ìì*1ì rsseri, vale a dire le Idee, considnate gencralment •, cioè
nel loro concetto comune, e per conseguenza, il piìi chiaro et il più felice
delV essere vuol dire: ciò che vi ha di più chiaro e di più felice negli e.^seri,
cioè nelle Idee. Aggiungiamo che, se al punto di vista dell'intensioni', i due
Generi supremi sono nelle Specie, al punto di vista dell'estensione invece
(lueste sono in quelli: e in effe to Platone dice tanto dell'Uno quando della
Dualità indefinita che essi contengono Tiep'.éxstv tutti gli esseri. Platone
non considera solamente come elementi delle t . « I <i <Idee i due
Universsli supremi, ma tutti i Generi sono da lui riguardati corre elementi e
parti delle loro Specie. Infatti Aristotile agita la quistione se bisogna
riguardare come elementi axoixsìa degli esseri gì'ingredienti materiali di cui
le cose si com|.ongono, ovvero i generi, considerando la seconda opinione come
legata alla realizzazione degli universali e alle proposizioni proprie della scuola
platonicache ciascuna cosa m conosce per la definiziono, e che avere la scienza
degli esseri non è che avere quella della specie. K nella Metafisica, in cui
spiega i significati dei teimini filosofici, dice che alcuni chiamano elementi
axoixs^a i geueri (e. III. 5-aggiungendo subito che, in tutti i significati
dati alla parola, l'flemento è riguardato come inerente (IvuTiapxov) nelle cose
di cui si dice eleoicnto); e che, mentre a un punto di virata la specie è
chiamata parte jiépo^ del genere, a un altro punu> di vista è il genere che
è chiamato parte iiépo; delia specie fc.. I filosofi che fanno quest'uso delle
parole parte ed eie7nento non possono essere che i platonici, perchè
evidentemente esso implica la realizzazione dei concetti: il genere, considerato
come la collettività degl'individui, non potrebbe essere chiauato parte ed
elemento della specie, perchè, in questo senso, il gen(^.re non è contenuto
nella sp'^cic; e considerato come una semplice astrazione come il complesso
dfgli attributi che costituiscono il concetto generico, non lo potn bbe
nemmeno, perchè le parole parte ed elemento implicalo la realtà della cosa a
cui vengono applicate. Altrove Met., dopo aver obbiettato ai platonici che, si5
si ammettesse la realtà degli universali, in una sostanza individuale vi Met.
Jl. AUl., /'//A'. 1. in. vi. Vgpecialmeiito Afct. I sarebbero più sostanze,
mentre è impossibile che una sostanza consti di più sostanze che le ineriscano
in atto; Aristotile si propone questa diMcolcà: ma « so alcuna sostanza non può
risultare da universali, né comporsi di più sostanze attualmente esistenti, la
sostanza Farà allora ijualche cosa di non composto, e non sarà possibile di
darne la definizione. Ciò suppone che alcuni filosofi riguardavano la
definizione come una decompos'zione del definito nei suoi elementi costitutivi
il genere e la differenza, e che (laesti elementi erano, secondo essi, degli
universali e delle sostanze. Questo concetto era infatti naturalissimo al punto
di vista delia teoria delle Idee; poiché, quantunque Platone non elevasse al
grado d'Idea che il genere solo, e non la differenza perchè il multiplo, per
lui, deve sempre poter ricondursi all'uno, pure, se si ammette che il Genere
esist.» nella Specie d'un'eslstenza propria e distinta, la conspguenza
inevitabile sarà che anche la diff'erenza vi esi-iterà d'un'esistenza propria e
distinta. Infine, che Platone chiamasse i U) Siccome Platone stabilisce tra le
Idee \n\\ Kcnerali e le più panicolari ad esse subordinate un rapporto di
priorità e posteriorità (perclic la dialettica platonica è l'ondata sul
principio che il più particolare deriva, logicamente e ontologicamente, dal più
generale, cosi egli ammette che la sostanza consta di elementi di cui gli uni
sono anteriori e gli altri posteriori. È a questo concetto platonico che allude
evidentemente Aristotile in Mei, dove dice: Nella sostanza non vi ha alcun
ordine: intatti che senso ha il dire che in essa una parte <• anteriore e
un'altra è posteriore "i » Ciò prova almeno che Platone riguarda le
Id<*e più generali come elementi costitutivi delle Idee più particolari
ammettendo che (|ui per sO' stanze Aristotile intenda, non le cose stesse, ma
le loro essenze, poiché egli parla della sostanza quale og<^etto della
delinizione. Infatti, se le Idee, a cui una sostanza ld**a o cosa partecipa,
l'ossero separate da essa, non vi avrebbe ragione di compone questa sostanza di
parti distinte, corrispondenti alle Idee a cui partecipa, inoltre il rapporto
di priorità e p/istej iorità deve essere esclusivamente [iroprio alle Idee,
perchè esso signifìca, come abbiamo accennato, un processo, logico e al tempo
stesso ontolegico, di tiliazione, che non ha luogo che nelle Idee. Generi
elementi, ò confermato da un luogo del Politico, in cui spiega forche si deve
ricorrere ad esempi per illustrare i soggetti difficili. Noi sappiamo, egli
d'C, che i fanciulli, mentre imparano a leggere, riconoscono assai bene
ciascruna delle lettere axotxera nelle sillabe più corte e più facili, e sono
capaci di parlarne con giustezza. Ma se essi incontrano queste stesse lettere
in altre sillabe, restano incerti, e ne giudicano e parlano falsamente. Ora la
maniera più facile e più bella di condurli a ciò che non sanno ancora, non
sarebbe questa? Bitogn^rebbe prima ricondurli alle sillabe in cui hanno opinato
rettamente su queste stesse lettere, e, riconducendoveli, porre a lato le
sillabe che ancora non sanno, o mostrare, conia comparazione, che in entrambi i
composti vi ha una stessa somiglianza e una stessa natura, sinché le sillabe in
cui hanno opinato rettamente, essendo state comparate con tutte quelle non
sapute ed essendo divenute degli esempi, loro apprendano, per ciascuna di
queste lettere, in tutte le sillabi», in cui si trovarw, a designare come
diversa quella che è diver-a dalle altre, e come sempre la stessa « identica a
se s'CFsa quella che è realmente la stessa. Non è abbastanza chiaro ora p^r noi
che vi ha esempio, quando ciò che è lo stesso è appunto riconosciuto come file
in due cose separate, e quando ben inteso e considerato come uno in ([uesti due
casi distinti, ma analoghi, diviene l'oggetto d'una sola e stessa opinione
vera? Dobbiamo dunque sorprenderci se la nostra anima, che è naturalmente nello
stesso stato per gli clementi (axot Sulla parola somiglianza ò|ioióxr^g la nota
a carta y I |.\' ^- Xefa di tutte cose, trova qualche volta ia verità su
ciascun elemento particolare in ceni composti e vi si att'eno, e poi cade
neircrrore su tutti qufsti elementi conM'derati in altri soggetti; se essa si
forma un'opinione giusta su certi elementi quando li incontra incerti tutti, e
li misconosce interamente trasportati nelle sillabe lunghe e difficili delle
cose? Questa realizzazione degli
attribuii generali delle coso, implicata dal nome, che viene loro dato, di
elementi, e dalla comparazione con le lettere, in uà altro autore sarebbe una
semplice metafora; ma in un real's^a come Platone deve prendersi al senso
proprio. Vi ha appena bisogno di osservare che (juesto luogo prova T immanenza
dei Generi, non solo nelle Specie, ma anche nelle cose ste-se. Gli elomenti
delle Idee sono anche per Platone gli
elementi delle cose: l'Uno o E>\sere
èlVss?nzadi tutte le cose cosi bene che di tutte le Idee, ia Dualità
indcilnita o Non essere, la materia. Io non ag0) Arist. Met, Bisogna dHliugaore
in Platona dna princìpii dittorenti, ai quali viene dato eguaiinonte il nome di
materia: cioò la matoriri delle cose e la materia comune tanto alle cose
qua.ilo allo Idea. La prima è lo spazio, al quale Platone riconduca
rost;3nsion 3 dji corpi, e corrisponde a ciò che noi chiamiamo propriamanta
materia; è una determinazione che si trova esclusivamente nallj cose, e mtfcnva
nelle Idee, la <iuali rappresentano solamante la formo ^le cose risultando
cosi dalla sintesi delle Idaa l'orma e dello spazio ma-teria. La materia comune
alle Idea e alle co^e rapprasenta una serie
di determinazioni generali degli esseri p. e.il non essero, giungerò
niente per provare che questi termini dementi, essenza, materia, devono
intendersi nel loro significato naturale, che implica Timmanenza: sarebbe fare
delle ripetizioni inutili, perchè la più parte dei luoghi d'Aristotile, citati
nel numero prf cedente come prove dell'infinito, la moltiplicità, il male, la
diversità, il movimento, ecc. opposte a
quelle di un'altra serie p. e. l'essere, il finito, l'unità, il bene,
l'identità, lo stato, ecc. che vengono riunite nel principio opposto a questa
materia, vale a dire nell'elemento formale. I due elementi vengono il più
abitualmente chiamati Essere e Non essere, ])erohè Platone riguarda le
determinazioni della serie dell'elemento l'ormale come positive, e le
determinazioni corrispondenti della
serie opposta come negativa; e Uno e Dualità indefinita al punto di vista della
teoria dei numeri per questa dottrina Supplemento. La materia propria delle
cose e la materia comune alle cose e alle Idee vengono ricondotte a un
principio unico, la Dualità indefinita, uno dei caratteri del pitagorismo
platonico, come del pitagorismo genuino, essendo questa riduzione illogica a uno stesso numero o a uno stesso
principio di concetti essenzialmente differenti; ma ciò non toglie che le due
materie siano due entità distinto l'una dall'altra Qu andò Aristotile dice che
secondo Platone gli elementi della Idee sono pura gli elementi delle cose,
senza dubbio egli comprende nell'elemento materiato anche lo spazio, quantunque
questo non sia un elemento delle Idee:
ciò è perchè, come abbiamo detto, lo spazio, quantunque sia un'entità distinta
dalla materia delle Idee, viene ricondotto con essa a uno stesso principio.
Sarebbe però un errore di cradere che, anche ammettendo che nelle cose non vi
sia altra materia che lo spazio, baslerebbe questa riduzione dello spazio a uno
stesso principio insieme con la materia delle Ideo, perchè (iue~;ta potesse eisero identificata con la materia
delle cose; o che la |>roposiziona «l'Aristotile che gli elementi dello Idee
sono gli elementi delle co^e non importa
quindi necessariamante, come noi ammottianu, che la materia delle Idee si
ritrova realmente nelle co-se. Certamente tra gli elementi delle cose e gli
elementi delle Idoe non potrabba ossarvi un'identità completa: l'elemento
materiale dello cose deve diflforira in
ogni caso dall'elemento materiale delle Idee, perchè questo non comprendo lo -
I rimmanenza dei due principi! nelle Idee, provano egualmente la loro immancuza
nelle cose. In effetto le in'dicazioni o allusioni d^ Aristotile relative alla
dottrina dei due elementi, si riferiscono il più spesso, non alla proposizione
che questi due princ-pii sono gli elementi delle spazio. Ma l'impossibilità di
prendere una proposifsione in un senso perfettamento rigoroso non è una
ra{rione |)er preterire il mono rigoroso dei sensi di cui essa sarebbe
suscettibile. Ora è questo che noi faremmo per la proposizione d'Aristotile in
questione o a dir meglio por la dottrina di Platone che questa proposizione ci
riferisce, se per l'elemento materiale nelle cose non intendessimo che lo spazio; perchè allora la materia delle
cose e quella delle Idee sarebbero due entità completamente distinte, non vi
sarebbe fra di esse alcuna reale identità, nò totale né parziale. D'ahronde
l'elemento materiale delle Idee deve essere identico all'elemento
corrispondenti^ delle cose nello stesso senso in cui lo è l'elemento formale:
l'Uno non rappresenta due concetti distinti come la Dualità indefinita; noi non potremmo
assegnargliene uno come forma dello Idee, e un altro ditfereate come forma
delle cose; per conseguenza anche l'elemento materiale dove rappresentare uno
<^:tosso concotto nelle Idee e nelle cose. Che sia cosi, è confermato dalle
determinazioni che Aristotile attribuisce alla materia platonica, in luoghi m
cui egli la considera come elemento delle
cose cosi bene che delle Idee: cioè che essa è un genere UT. 5^, che è l'uno nei molti (p. e.
quando fa l'obbiezione che se gli olemouti «logli esseri fossero ciascuno uno
di numero, e non solamente di specie, non vi sarebbero che i soli elementi, che
rappresenta al tempo stesso la parte di materia e di steresi Phiis, che è il
tutto allo slato d'mdeterminazione Met., che è la natura <lel male, che è il non essere (cioè l'opposto
dell'attributo essere-v. Mei.), che ò il contrario dell'altro elemento (v.
Phìjs: Questo determinazioni non potrebbero convenire al semplice spazio, ma
convengono perfettamente sia alla materia dello Idee per se sola, sia a<l
os^a in unione con lo spazio. Idee, e a quella che sono gli elementi
delle cose, considerate l'una a parte dell'altra, ma alla proposizione che sono gli elementi di tutti
gli esseri, cioè delle cose cosi bene che delle Idee. Ciò che si deve notare è
la connessione logica che viene affermato esistere tra la proposizione che i
due principii sono gli elementi dfUe Idee e quella che sono gli elementi delle
cose, «E perchè, dice Aristotile C2), le Specie sono le cause delle altre cose,
gli elementi di quelle credè Platone che
fossero gli clementi di tutti gli esseri. Ora questa connessione non esiste,
evidentemeate, che iif IT ipotesi delT
immanenza de'le Idee. S'j le Idee sono
clementi delle coSi% necessariamente
anche i loro elementi saranno elementi delle cose: ma se le Idee non sono che
dogli archetipi di cui le cose sono le copie, tutto ciò che potrà seguirne sarà
che le cose hanno degli elementi che
sono le copie degli elementi delle Idee, ma non mai che gli elementi
delle cose sono una sola e stessa cosa con gli elementi delle Idee. L'identità
tra questi e quelli non si spiega dunque d'una (1' Indicherò nondimeno un certo
numero di luoghi, la piìi parte oitaii nel numero precedente. V. dunque, per
tutti e due gli elementi: Mei. Per l'elemento materiale: /V///s. Met., ecc. Per 'elemento
formale: .ecc. Mei. Notiamo che Aristotile distingue quattro specie di
cause, di cui una è la causa essenziale,
l'essenza; e che questa è delle quattro specie di causalità la sola che
conviene secon<io lui alle Idee platoniche. Mei. Io stesso cap., 7^ toaniera
naturale che nelìMpotesi deir immanenza delle Idee. Ma non teniamo conto di
questa considerazione: ammettiamo, ciò che non è, cho anche nell'ipotesi della trascendenza delle
Idee possa darsene una spiegazione pausibile. Kesterà sempre r incoerenza di
riguardare alcune entità come immanente, e alcune altre come trascendenti,
mentre queste entità appartengono tutte allo stesso tipo: concetti realizzati.
I due elementi hanno, tutti i caratteri delle Idee: ciascuno è un predicato
universale degli esseri di cui si dice
elemento, riguardato come sussistente per se stesso e come uno e lo
stcFso in tuttiuno di essi è anche certamente da Platone chiamato un Idea,
nello stesso senso che tutte lo altre, porche ciò che neiresposizione
d'Aristotile è detto l'Uno o l'Essere non è che la slessa entità che negli
scritti platonici è detta 1 Idea del bene. Le stesse inconcepibilità che, ne!
sistema dell immanenza, sono legale alla
realizzazione degli altri concetti ~ l'impossibilità di comprendere come una
sostanza sia al tempo stesso un attributo di altre sostanze come r uno.sì trovi
simultaneamente nei molti ree -esi'
stono egualmente per la realizzazione dei concetti rappresentati dai due
elementi. (;ii stessi termini che indicano i rapporti tra le altre Idee e le
cose indicano il rapporto tra 1 due elementi
e le cose, tanto quelli che possono addursi come prove dell'immanenza,
quanto quelli in cui gì'interpreti trascendentalisti vedono una prova della
trascendenza: cosi la relazione degli elementi alle cose ò chiamata parusia, e
quella delle cose agli eleme.iti metessì . gli elementi sono detti essere Tiapa
le cose, e sono chiamati x^P^xa e
xsxwpiajiéva semplicemente o dalle cos^); ecc. Se ammettiamo la trascendenza dello Idee,
dovremmo dunque ammettere necessariamente anche la trascendenza degli elementi;
se ammettiamo, come siamo forzati di farlo, l'immanenza di questi, dobbiamo
anche ammettere, non meno nrc^ssariamente, la immanenza di quelle. Per
l'immanenza di uno dei due elementi noi non abbiamo alcuna prova diretta negli
scritti di Platone, perchè in questi
scritti non si trova la dottrina dei due elememi (tranne, come vedremo, d'una
maniera simbolica nel Timeo: ma l'immanenza dell'altro, cioè dell'Idea del
beno, è naturalmente in Platone più evidenteche nello stesso Arislotile.
Cobl n(
1 Timeo dico che le cause materiali quelle che riscaldano e raffreddano,
condensano e dilatano, e producono altri effetti simili sono dei mezzi di cui
Dio si serve per compiere àTioTsXwv
l'Idea dell'ottimo. Nel Fedone, dopo avere spiegato che per ogni cosa la
causa di essere e di essere nel modo in cui è e non altrimenti, è il bene di
ciascuna cosa in particolare e di tutte in generale, e che questa soluzione del
problema delle cause è la conseguenza logica della dottrina di Anassagora,
rimprovera a costui e agli altri fisici che
non si servono, nella spiegazione dei fenomeni, che di semplici cause
meccaniche, « e la potenza prr cui le cose sono disposta nel miglior nndo in
cui potevano esserlo, né ricercano né stimano che vi sia in essa qualche forza
divina, ma credono di avor trovato un Atlante più forte di questo. i V. p. e. Elh,
Eud, Vllf. lUK
End. Met. ecc Met. ecc. 0) MeL ,
/>/i/yt. I. Iir. V. J,
Klh, Sic,, ecc.v; più immortale e
più capace di contenere ii^XXo^j
grjvéxovxa l'universo, e non ammettono che e il buono zx^olH^ e conveniente
che collega guvSsìv e contiene guvéxetv tutte le cose Io stesso verbo g-jvéxsiv
attribuito prima aWAflanie più forte ecc., e poi al buono e conveniente, prova
che il buono e conveniente é la stessa cosa Q^ieìh potenza per cui tutte le
cose nono disposte ecc., che è l'oggetto con cui VAtlayite pih
forte ecc. viene confrontato. In (lueste parole vi ha evidentemente la realizzazione dell'astrazione il bene
Tàya^óv: ma questo bene non può essere che quello stesso di cui sopra ha
parlato, e d'altronde, se fosse un bene trascendente, non si potrebbe dire di
esso che contiene e collega tutte le cose Ma la prova più forte
dell'immanenza dell'Idea del bene, in Platone, è l'identitìcazione dì
quest'Idea con la felicità degli uomini o generalmente degli esseri viventi.
Quest'identificazione si vede della maniera più sensibile nel Filebo. In qursto
dialogo si cerca che sia il bene xàva^óv: se sia il piacere come ritengono i
più 0 la sapienza fcome ritengono altri, p. e.
i Megarici)' o qualche altra cosa. Filebo sostiene che é il piacere;
Socrate comincia per ammettere che è la sapienza; ma poi muta d'avviso, e
diceche il bene none né runa né l'altra cosa, ma una terza, diversa da esse e
migliore di amendue. In effetti, egli domanda, la condizione del bene non è
necessario che sia il per'fette, 0 deve essere
il non perfetto V-Puotarco Ciò che vi ha di più perfetto, o Socrate
Socu.: Ma che? il bene non è sufficiente per se sfosso?-Prot.: Senza dubbio, ed
è in ciò che differisce da tutti le altre cose^ SocR. Questo ancora mi sembra
sovratutto necessario di affermare di esso, che tutto ciò che lo conosce lo
ricerca e lo desidera, sforzandosi di attingerlo e di possederlo e niente si
cura delle altre cose, faori di quelle che si e ffettuano insieme ai beni
Prot.: A questo i;on si può contrastare SocR.: Esamim'amo dunque e giudichiamo la vita di piacere e la vita
d'intelligenza, prendondole ciascuna a parte
Prot.: In che modo? So.R.: In moJo che l'intelligenza non entri
assolutamente nella vita di piacere, e il piacere nella vita d'intelligenza:
infatti, se l'uoo o l'altra fossero il bene, non avrebbero più bisogno di altra
cosa; ma se 1'uno 0 l'altra sembreranno aver bisogno di qualche altra cosa, non
potranno essere per noi il vero bene.
Risalta, dall'esame del'e due vite, che nessuno vorrebbe una vita con tuiti i
piaceri, ma scnz'alcun'intelligenza, nò con tutta rintclligeiiza ma senz'alena
piacere; e cho la vira che tutti vorrebbero sarebbe quella in cui il piacere
fosse m'^scolato con Tintelligenza. E dunque evidente, che nò V una nò 1'altra
delle due vite (quella di piacere e quella d' intelligenza ha il bene: poiché essa sarebbe sufficiente,
parfctta, e degna della scelta di tutti gli esseri, che potessero vivere per
sempre così. Qui nasce un'altra quistione: quantunqu'^ né il piacere né la
sapienza sia il bene, pure V uno o l'altra potrebbe credersene la causa:
ora Socrate sostiene che, checchesia
ciò che ricevuto dalla vita mista di piacere e d'intelligenza questa si
fa dcsilerabile e buon*», r intelligenza
gli somiglia e gli é affine più che il piacere, e perciò (lucsto non otierrìl
né il primo né il secondo posto. Seguono delle digres-^ioni che non
c'int:'ressano, e sulla fine del dialogo viene ripigliata la quisJone sulla
natura del bene e se esso sia più affine al i lacere o all'intelligenza;
ma prima Socrate, riassumenio il
cominciamento della discussione, dice: Filebo
afferma che il piacere é il fine legittimo di tutti i viventi, lo scopo
a cui tutti devono tendere; che esfo è il bene per tutti, e che questi due
nomi, bene e i piacere, competono alla stessa cosa e aduna cpóat^unicd. Socrate
lo nega, e afferma che, come vi hanno due nomi differenti, co..i il bene e il
piacere hanno nna ^^^,^ differente Tuno
dall'altro, e che la sapienza è più che il piacere partecipe della condizione del bene La qpóa.s
del bene in ciò differisce dalle altre cose che qualunque dei viventi a cui è
presente Tiapsiyj sempre ed assolutamente, non ha più bisogno di altro, ma ha
quanto gli basta perfettamente Ma abbiamo visto che né il piacere nò la
sapienza è sufficiente.. Nò Tuno nò l'altra ò dunque il perfetto, il
desiderabile per tutti, il bene assoluto Bisogna per conseguenza o scoprire il bene
chiaramente o qualche forma tótiov di esso, per vedere, come abbiamo detto, a
chi dobbiamo assegnare il secondo posto
%. Ora, soggiunge Socrate, non
abbiamo noi incontrata una via che conduce al beneP-PaoT.: Quale via?SocR.:
Se alcuno, cercando un uomo, apprendesse
la casa dove egli abita, non avrebbe un grande aiuto per trovarlo V-Prot.: Certo-SocR.: Cosi il presente e Jl precedente
discorso ci avvertono che non dobbiamo cercare il bene nella vita semplice, ma
nella vita mescolata di piacere e d'intelligenza -Prot. È
vcro-Soca.: E abbiamo più speranza di trovarlo in quella che è ben mescolata che
neTopposta.-PROT.; Molto più Socr • Facciamo dunque la mescolanza. Questa si fa
unendo i piaceri veri e quelli che
accompa-nano la salute e la virtù, con le scienze, e facendovi anche
entrare la verità, perchò ciò a cui non si mescola la verità w m
l^t'£o|xsv àXTì9-£tav non
potrebbe esistere; e compiuta cosi la mescolanza, Socrate dice: Se noi
dicessimo di essere pervenuti al vestibolo del bene e della sua abitazione, non
avremmo in certo modo ragione? Prot.: Cosi mi pare-SocR.: Che vi ha dunque in (|uesta mescolanza di più prezioso e che
sembri specialmente la causa dell'essere una tal condiziono desiderabile per
tutti? In ogni mescolanza non ò difficile di vedere quale sia la causa che la
rende pregevole o di nessun pregio Ogni mescolanza che non partecipi della
misura e della cpuoig del proporzionato rovina necessariamente le cose
mescolate e se stessa la prima. Cosi la
natura del bene se n' ò fuggita in quella del bello, perchò la misura e
la proporzione sono da per tutto beltà e virtù Ma roi abbiamo detto che la
verità entra con esse nella mescolanza aOxor;;
sv tv; xpaaei |i£|iiX^a'.- Por conFegucnza, se non possiamo prendere il bene
in una forma ì5éa unica, prendiamolo in tre forme, beltà, mi>ura e verità, e
diciamo che tutto ciò come uno ò la causa
di ciò che vi ha di pregevole nella mescolanza, e perchò é bene, perciò
la mescolanza è pure un bene. Ora ò facile di giudicare se il piacere o la
sapienza sia più affine al bene xoO
àpiaio-j: perciò bisogna comparare l'uno e l'altra con le tre forme in
cui il bene ò apparso. Fatta (juesta comparazione, risulta che l'intelligenza ò
più che il piacere affine alla verità i,
chVssa possiede (xsxTr^xai) di più la misura, e che partecipa iisxsayjqrs
di p.ù alla behà. Così la conclusione di questo paragone e di tutto il dialogo
ò che < il piacere non ò il primo bene xxf^iia nò il Fecondo; ma il primo ò
circa la mi^ul•a, il moderato, l'opportuno e quant'altre cose tali si deve
credere aver sortito la natura eterna citò il primo bene ò riposto nella
misura, nel moderato, ecc., ma nella
misura, nel moderato, ecc. che hanno sortito la natura eterna, vale a
dire gl'ideali, non i fenomenali il
secondo è circa il misurato, il bello, il perfetto, il sufficiente e tutte le
altre co-e di questo genere questa seconda
seria ò il j 94identica alla
prima, ma ciascuno dei termini nella prima significa Tastratto, l'attributo
aOxò xaB'aGxó, nella seconda i concreti, cose o Idee, che partecipano
alTattributo); e nella scala dei beni xiV^iiaxa il piacere ò inferiore alla
sapienza, e occupa Tultimo grado. Ma prima di finire, Socrate, riassumendo
un'altra volta la discussione, dice: Filebo afferma che il bene xàYa0óv è per
noi il piacere tutto intero io indignato deiropinione di Filebo, che è pure
quella di moltissimi altri, ho detto che
l'intelligenza è di gran lunga migliore e più vantaggiosa alla vita umana che
il piacere. Noi abbiamo visto in seguito della maniera più chiara che né l'uno
né T altra é sufficiente Perciò tanto il piacere quanto Tintelligenza essendo
apparsi in questo discorso privi della sufficienza e della perfezione, né Tuno
né l'altra potè essere il bene sfesso aOxó Ma essendo apparso un altro terzo, superiore ad amendue,
Tintelligenza di gran lunga più che il piacere ci apparve affine alla essenza
del vincente. Facciamo ora qualche osservazione. Che il primo bene, di cui si
parla, sia l'Idea del bene, non potrebbe esservi alcun dubbio. Ciò è, non solo
perché alla misura, il moderato, l'opportuno e simili, che sono come tanti
aspetti del bene, viene attribuita la
natura eterna, ma anche perchè noi sappiamo che il primo bene vuol dire
per Platone l'Idea del bene, conformemente all'uso ch'egli fa dei termini
significanti l'anteriorità e la posteriorità, di cui abbiamo detto nel capitolo
VII. Ma non bisogna credere che questo primo bene sia qualchecosa di differente
dal bene di cui si tratta nel resto del dialogo. Che il bene sulla cui natura
si discute tra Soli) Arist. Ehi. Kud,
Vili. crate e i suoi iuterlocutori sia riguardato come un'Idea è ciò che
sarebbe già sufficientemente provato dal principio platonico che il concetto
generale e la ricerca dell'essenza si riferiscono aU'Idea, non che dall'uso dei
termini che nel linguaggio platonico significano le Idee il bene stesso aOxó-,
la cpóai^ del bene, del proporzionato (U
d), dd bello, l'iòéa e il'rapporto tra le Idee e le cose esser
presente 7iapsrvai-, partecipare (}i£xaXa|JL?dv
eiv-. Ma la prova più forte l'abbiamo in una moltitudine di circostanze che
dimostrano che Vti<ivH/Aom',bene è elevata al rango di realtà sussisteute
per se stessa. È a qu-^sta realizzazione che si pensa
naturalmente, quando Platone dice che né la vita di piacere né la vita d'int"l»igenza ha elyz il bene; che è ricevendo Xa3wv il beno, che la
vita mista si fa buona f22 d; che ogni vivente a cui é présente la cpóai; del
bene nm ha bisogno di a'tro; che il bene è ciò che vi ha di più prezioso nella
mesco'anza; ecc..Ma questa rralizzazinne si vede della maniera più evidente
quando Piatone dice che la verità e le altre forme del bene fanno parte della
mes?olanza, e sovratulto quando paragona
il rapporto tra il bene e la vita mista a quello di una persona e la sua
abitazione, e chiama questa stessa vita l'abitazione d9\ Bene. Il bene, di cui
si discute tra Socrate Filebo e Protarco, è dunque incontestabilmente l'Idea
del bene noi sappiamo come le premesse per cui Piatone prova l'esistenza dt-lle
Idee giustificano la stranezza che Filebo e Protarco, i quali non sanno niente
della teoria delle Idee, discutano nondimeno sopra un'Idea: ma questo bene è
quello che alcuni fanno consistere nel piacere, e altri nella sapienza; che chi
lo conosce cerca e appetisce, sforzandosi di attingerlo e di possederlo; che
quando si ha, non si ha più bisogno di altro; ecc.; in una parola lo stato
dell'anima in cui Platone fa consistere la felicità. Aggiungiamo clie
l'immanenza dell'Idea è provata inoltre dalle esprcssoni si-uificanti la
parusia, che noi abbiamo già segnalato in parte come prove della realizzazione
del concetto; p. e. elio la vita mista non potrebbe esistere veramente, se non
VI fosse mescolata la verità -che è una forma del Hcnc; che con la verit/i .s* rmscolam in questa vita le oltre forme
del Bene; che essa é l'abitazione del Bene; che questo è ciò che vi ha di PIÙ prezioso «e//rt
mescolanza év xj S-Jn.u£g6i; eco. Infine, il nomo xx^-ia rposscpso)
con cui è chiamato il primo bette, e la cla.csazione di esso insi-me
agli altri xxYinaxa, cioè la sapienza, il piacere, ecc. (a dove si fa la granduazione dei beni, ci dicono
abbastanza che questo bene è anch'esso, come il piacere, la sapienza e gli
alcri, un beno nostro, un bene che noi
possodiamo o potremmo possedere. La stessa identificazione tra il bene
obbiettivo -l'Idea e il bene subiettivo-la felicità degli uomini-ha luo-o
nella KepubUka, con questa ditferenza
che. m<'ntr(> m-l Fikbo prevale
la^pett) subbicttivo, per cui alcuni i.,lerprcti hanno potuto negare-cni.c
abbiamo vsto, contro levidenza che il bene di cui si tratti il. questo dialogo,
sia l'Idea. invec3 nella Repubblica prevale l'aspetto obb:cttivo.
Ivi il bene 6 presentato come la più alta delc Idee, sovrana del mondo
intelligibile, e principio pI tempo Messo dell'essere e del conoscere. Jla
questo stesso bene 6 il bene nostro, un possessi del unstro fpirit-^. tì ciò che si vede chiaramente dal luogo
seguente: Socuate: La massima disciplin.i è l'Idea del bene (cioè quella che ha
per oggetto quest'Idea), della (juale
(Idea) le cofc gioste e le altre avvalendosi (7ipoax.orìaa;i£va) divengono
vanta»na giose e convenienti cioè le cose giuste e le altre sono vantag-giose
per la presenza dell'Idea del bene Noi non conosciamo sufficientemente
qu^stldea; ma, ignorandola, non ci sarebbe di alcuna utilità di conoscere le
altre erse senza di essa, come non ci gioverebbe di possedere qualche cosa senza il bene. O credi tu che
sia utile di avere qualsiasi possesso, ma non buono? o di conoscere tutte le
altre erse senza il bene, e niente conosci re di buono e di bello? U) Animante:
Non lo credo, per Giove! SocR.: Tu sai che i più credono che il bene sia il piacere,
e altri, più eleganti, l'intelligenza Ad.: Si SocR.: E che questi ultimi non
sanno spiegare che cosa sia
quest'intelligenza, ma infine sono ridotti a dire che è l'intelligenza
del bene Ma che? quelli che definiscono il bene il piacere, non sono neir
errore non meno ch^ gli altri? non sono essi costretti a confessare che vi
h<ìnno dei piaceri cattivi? Ad.: Senza dubbio SocR.: Accade dunque», ad essi
di ammettere che le stesse cose sono al teiwpo stesso buone e cattive E non è
chiaro che mentre molti sarebbero
contenti di agire e di possedere le co-^e giuste e belle apparenti ma non
reali, a nessuno però basterebbe di possedere dei beni apparenti, ma tutri
cercano i reali, e dispregiano in c'ò l'apparenza? Ad. Certamente Socr. : Ora
su questo bene, che ogni anima ricerca, e tuito fa in grazia Xoliamo che
<iaamlo Platone dice: conoscere tutte le altre cose senza il bone la
parola />t';i:> si«^niiìca evid^nl omento l'Idea; danque ancha q-aando
ha dotto: possedere qualche cosa senza il b3n3 questo bene, della cui
])oss3ssione si tratta, deve essere l'Idea. Apjghingiamo che poss.^dere qualche
cosa senza il bene cioè senza l'idea, equivale, non meno evidentemente, ad
avere qualsiasi possesso ma non buono;
per conseguenza il beno non è che il bene attributo delle cose buone. di esso, iii'IovinanJo che è
qualche cosa, ina dubitando e non comprendendo sufficientemente che cosa sia,
ne avendo intorno ad esso una stabile credenza, quale ha intorno alle altre
co^e, per cui perde anche le altre cos^
se vi ha alcun che di utile; su tale e tanto oggetto diremo noi che dovranno
essere ciechi i migliori, a cui dobbiamo affidare la somma delie cose?» Socrate
vuol mostrare con queste parole la necessità che i magistrati siano
istruiti nella disciplina ch^ ha per
oggetto il bene. Convenutosi di ciò,
Adimante gli domanda: Ma tu, o Socrate, credi che il bene sia la scienza, o il
piacere, o qualche altra cosa differente?. Socrate risponde che non ha la
scienza del bene, e non vuol parlarne secondo una semplice opinione; perciò
invece di dire che cosa sìa il bene, parlerà piuttosto del figlio di esso,
somigliantissimo al padre. Questo è il sole, che il bene generò analogo a se
stesso: ciò che esso è nel luogo intelligibile rapporto all'intelligenza e
agrintellìgibili le Idee, il sole è nel luogo visibile rapporto alla vista e
alle cose visibili. L'uno regna noi mondo intelliiiibile, l'altro nel mondo
visibile; come il sole dà agli oo-^-etti visìbili la possibilità di esser visti e insieme la
gi^nesi e raccrescimenlo, cosi il bene dàagrintelligibili la possibilità di
essere intesi e insieme l' e^^sere e l'essenza dì. La dottrina dei due elementi
ha molta analogìa, senza esserle identica, con una dottrina esposta nel Fileho,
che ò anch'essa una del'e prove più evidenti dell'immanenza delle Idee. Io
porrò sotto gli occhi del lettore la parte del Fileho che si riferi«^ce a questa dottrina. € SocR.:
Dividiamo in due, o piuttosto in tre, tutti gli esseri che sono neiruuìvers>
Noi dicevamo che Dio ha insegnato che degli esseri l'uno è illimitato :J:istpov
e l'altro limite jiépac;. Contiamo dunque questi per due specie e mettiamo per
terza ciò che risulta dalla mescolanza di amendue. Per due di questi generi
cerchiamo di vedere come ciascuno di
essi ò uno e molti, guardandolo prima diviso in molti e disperso, e poi
riducendolo nuovamente ad uno. I due generi di cui parlo sono quelli jhe ho
posti dapprima, cioè il limitato fTispas £Xov e rillimitato. Cercherò di
mostrare come l'illimitato è in certo modo molti: il limitato ci aspetti
Considera in primo luogo il pii!i caldo e il più reddo, se scopri in essi qualche limite, o
se piuttosto il più e il meno che si
trovano in ques: e specie, finche vi si trovano, impediscano loro di avere un
fine: infatti sopravvenendo il fine, anch'essi finiscono <'. non sono più
Prot.: È vero Socii.: Del più caldo e il più freddo diciamo dunque che vi ha
sempre in essi il più e il meno Pkot.:
Senza dubbio Socr. : Questa ragione ci
mostra che queste due coee non hanno fine: e non avendo fine, esse sono necessariamente
infinite àicsipo) Il torte e il piano hanno la stessa natura che Per il s3nso
di questa identificaeione dsl bene etico la felicità col bene ontologico la
forma gsnerale di tutti gli esseri. Come si vede, Platone chiama l'uno dei tre
generi l'opposto dell'illimitato ora limite e ora limitato. Anche questa è
un'imitazione dei Pitagorici: intatti questi chiamano pure l'uno dei due elementi dei numeri e
delle cose ora limite o limitante (rcspac;,
Tispalvov ora limitato 7i£7i£paa|iévov V. perciò Fr. di Filolao ap.
Stob. Plato. Fileho, Arist. Met. ecc./ il più e il meno; perche dovunque si
trovino, fanno che la cosa non abb'a una quant'tà d: terminata, ma sia sempre più forte che
nn'alira più ])iuna e p'ù piana che
un'altra più fort<% introducordo in
tu-te li azioni il maggiore e il minore e facendone sparire l quanto.
Infatti, come si ù detto, se non facessero sparire il quanto, ma lasciassero
questo e la misura entrare nel luogo del più e del meno, del forte e del piano,
questi sarebbero respinti dal luogr» che occupavano. Ne il più caldo e il più
freddo rest. rcbbero, se ricevessero il (juanto; poiché jl più caldo e il più
freddo progrediscono sempre senza mai
fermarsi; il quanto invece si è fermato, e ha cessato di progredire. Il più
caldo e il p'ù freddo sono, per cons^'gueoz'^, illimitali Veii ora se
aa.metteremo questo carfittere distintivo della natura deirillimìtato,
p< r non estenderci troppo p-^rcorrenioli
tutti Prot.: Quale carattere VSocii.: Tutto ciò che ammette il più e il meno,
il forte e il piano, il troppo e tutte le qualità simili, bis^giia porl-^, com > in una unità (w; sic;
sv) n^l genere dell'illimitato, conformemente a ciò che si ò detto
sopra, ciré che bisogna, per quanto ò possibile, riunendo (a'jvayaYÓvxas) ciò
che è diviso e disperso, imprimergli il cor.trassegiìo di una natura unica Cosi
tutte le cose che non ammettono queste qualirà ma le contrarie, in primo luogo
V eguale e V eguaglianza, poi il doppio e tutto ciò che è conie un numero ò a
un altro numero o una misura a un'altra
misura, pare che faremo bene riteren Jole al
limite. Quale Idea poi diremo avere il terzo, cioè quello che risulta
dalla mescolanza di questi due? Noi parlavamo poco fa del più caldo e del più freddo Prot.: Si SocrC.. : Aggiungi il
più secco e il p'ù umido, il più e il
meno numeroso, il più veloce e il più tardo, il più grande e il più piccolo, e
tutto ciò che sopra abbiamo posto nell'unità della 7 •I natura che ammette il
piùe il meno -Prof.: Parli della natura
dell'illimitato? Soc?.: Si. Mescola au[xji(YVD ora con essa la progenie del
limite Prot.: Quale progenie? Quella che avr^^mmo dovuto raccoglie e in uno
oDvaYaysLv sic, Iv, come abbiamo fatto per quella
dell'illimitato, ma non abbiamo ancora raccolta li progeiie dell'eguale, del
doppio e di tutto ciò che fa cessare la dissensione tra i duo contrari, e
v'introduce U misura e l'accordo per mezzo d» l numero Prot. Comprendo: mi pare
che tu dica che, se si mescolano insiemi queste due specie, risulteranno da
ciascuna mesco'anza certe produzioni SoCR.: E ti pare giustamente Prot.: DI' adunque SocR.:
Non è vero che nelle malattie la giusta mescolanza di queste due specie produce
la sanità? Prot.: Senza dubbio Sock: Che nell'a'juto e il grave, il veloce e il
taralo, che sono illimitati, la stessa mescolanza introduce il limite, e dà la
pui grande perfezione a tutta la musica? Prot.: Beoissimo Socr.: Similmente,
nel caldo e il freddo, essa fa cessare
il troppo e l'illimitato, e vi sostituisce la misura e la proporzione?
Prot.: Certamente Socr.: Le stagioni, e tutto ciò che vi ha di bello nella
natura, nasce -dunque da questa mescolanza del limitato e dell' illimitato?
Prot.: Senza dubbio Socr. : Lascio da parte un'infinità d'altre cose, quali la
bellezza e la forza con la sanità, e nell'anima altre qualità bellissime e in
gran numero. In effetto la t'ia dea stessa la dea del piacere, cioè Venere, o
bel f'ilebo, considerando la deprav^azione degli uomini e i loro eccessi d'ogni
genere, e vedendo che non vi ha alcun limita nei piaceri e nella soddisfazione
della concupiscenza, vi ha stabilito la legge e l'ordine che sono del genere
del limitato. Prot.: Tu metti, mi
sembra, nellA natura delle cose, primo V illimitato; secondo il limite; in quanto al terzo, non comprendo ancora 4:
sufficientemente quello che vuoi dire Socr.: Ciò è perchè la moltitudine dei
generi di questo terzo ti ha stordito. Tuttavia anche V illimitato presentava
molti generi Ysvr^, ma s'ugnati della nota comune xw yìvsi del più e del meno,
apparvero una cosa unica v ècpavr^ Prot.: É vero Socr.: li limite non ne
present«ava un gran numero, e non
abbiamo avuto difficoltà ad ammettere che fosse ano di sua natura Prot.:
Che difficoltà poteva esservi? Socr.: Nessuna. Di' dunque che io metto per
terzo quest'uno: tutto ciò che é prodotto dalla mescolanza degli aliri due,
tutto ciò che viene all'esistenza per le misure stabilite col limite.
L'interpretazione della dottrina contenuta nel luogo citato p'-esenta
agl'interpreti dello difficoltà,
sovratuto perché essi si ostinano a identificare il limite rcépa? e
l'illimitato àpsipov del Fihbo con altri concetti platonici, conosciuti
indipendentemente da questo dialogo. Alcuni vedono nel Tispac; le Idee, altri
le entità matematiche: l'àTisipov equivarrebbe alla materia, che
nelrespos'zione aristotelica del sistema platonico viene chiamata Non essere o
Grande e Piccolo. Siccome l'immanenza del Ttspac; e dell' àTisipov del Fdebo
nelle cose ò ÌQCont3siabile, e gli stessi interpreti trascendentalisti sono
obbligati ad ammetterla, dall'identificazione del Tiipa; con le Idee segui
necessariamente l'immanenza di queste. Quindi gl'interpreti trascendentalisti
preferiscoin di vedere nel Tispa^, piuttosto che le Idee, le entità matematiche.
Ma l'ipotesi della trascendenza delle
Idee non vi fa un gran guadagno. Infatti le entità matematiche, quantunque
Platone le distingua dalle Idee propriamente dette, hanno nondimeno tutti i
caratteri delle Idee: vale a dire sono degli attributi generali delle cose,
considerati come sostanze, e ciascuno come uno e lo stesso in tutte Je cose di
cui è l'attributo l'uno nei molti La <
.'Iì i m I distinzione delle
entità matematiche dalle Idee, cóme
vedremo a suo luogo, è stata fatta al punto di vista della teoria dei numeri
ideali, ed è una dottrina dell'ultimo periodo della speculazione platonica:
cosi negli scritti di Platone noi non troviamo mai questa distinzione, e in
alcuni luoghi anzi, come nel Fedone, queste entità sono poste chiaramente allo
stesso rango che tntte le altre Idee. Aggiungiamo che gli stessi argomenti che,
secondo gl'interpreti Irascendentalist', provano la trascendenza delle Idee
propriamente dette, proverebbero egualmente quella delle entità matematiche: p.
e. anche le entità mitematiche soud dette essere Tiapa le cose, e chiamate
^(op'.axa e xs^^p'-ajasva da esse. Se le
entità matematiche sono immanenti, le Idee non possono dunqu3 essere
trascendenti: ne segue che se il TiÉpac;
del Filebo e(j[uivalc alle entità matematiche, s'ccome esso è immanente, anche
le Idee devono essere immanenti. Ma io non posso ammettere l'equivalenza del
Tiépag né con le Idee nò con le entità matematiche. Del significato di questa
dottrina del Filebo ci occuperemo in segu'to: ivi vedremo che il uépa^ e
Tàpstpov del Filebo sono speciali a questo dialogo, e non hanno un equivalente perfetto in altri concetti
platonici; e che questa dottrina rappresenta una fase transitoria
nell'evoluzione di Platone verso il pitagorismo, il cui risultato definitivo fu
la teoria dei numeri ideali e dei due Supplem. Arisi. Met. Il'» elementi delle
Idee e delle cose, che noi conosciamo per mezzo di Aristotile. Quello che
c'jmporta per ora è di costatare un fatto che è al di sopra di txUte le contestazioni a cui ha dato luogo
l'interpretazione della dottrina del Filebo, K che tanto le entità che Platone
riunisce sotto il termine comune di :iépac:, quanto le entità che egli riunisco
sotto quello di àTisipov, sono evidentemente delle astrazioni realizzate della
stessa natura che tutte le altre che noi troviamo nella filosofia platonica. Il
più freddo e il più caldo, il più veloce e
il più tardo, ecc. da una parte, e IVguale, il doppio, ecc. dall'altra,
sono degli attributi delle cose elevati, non potrebbe esservi alcun dubbio, al
graio di entità sussistenti per se stesse. Di più que-ti attributi sono, non
solo sostanlificati, ma considerati ciascuno com'»> una sostanza
numericamente unica, della j-tes^a mauiera che tutti gli altri attributi delle
cose che PUtone cliva al grado di sostanze.
E ciò che risulta chiaramente dalle propos'z'oai in cui Platone riguarda il
Tiipa; e l'ànsipov ciascuno come uno e al tempo stesso molti. Iq efTctto
(luest'unità a cui il muliiplo viene ricondotto, non è per Platone un'unità
semplicemente concettuale, ma uu' unità reale. Il T:épa^, e così pure r aTisipov, non è uno
semplicemente nel senso che le entità a cui il termine viene applicato s no comprese in un genere unico; ma
quest'uniu\ importa di più che questo
genere è riguardato come una sostanza unica, come un'Idea. Per conseguenza,
anche e a«?cuno dei molli compresi nell'unità del Tispa; e deira-s.pov
l'f^gualc, il doppio, ecc. da una parte, e il più caldo e il più freddo, V. n. Y, 4.0 il più veloce e il più tardo, ecc. dall'altra è uno nello stesso
senso in cui il Tiépa; e l'aTisipov è
uno: vale a dire ciascuna delle specie del Tispa^ e dell'àTisipov è riguardata
egualinente coun^. una sostanza unica, come un'idea. Ma gl'interpreii
tras-.-endcntalisti sono, come abbiamo detto, obbMgati a convenire che il
Tiépa; e PàTtsipov del Flhbo sono icnmanentì nelle cose: dunque essi devono
anche convenire che le Idee platoniche sono immaneni nelle cose. Tutto il reale per Platone si riduce
alle Idee. Cosi egli chiama le Idee gli ess?ri xà ovia o V essere xó ov, r\ oògìol, e, considerate
in relazione al sog Un'altra prova dell'iinmaiianzi dolio Idoo è che Platone
riguarda la proposjziona che il Tlépac; e l'àpsipov sono gli elementi dille
CD-53 cio3 la dottrina contenuta noi luogo citato com3 equivalente alla
proposizione che il Tlépa^ o V loeipO'^ sono gli elementi dello Idee. In
effetto, sul principio del luogo citalo, dice: Noi abbiamo detto ch3 Dio ha
insegnato elio degli esseri l'uno è àrcsipov e 1'altro zipa^; soggi ungondo
ohe, oltre a questi due, vi ha un terzo genere, cioè quello che risulla dalla
loro mescolanza, e che poi definisce: ciò che viene all'esistenza per le misure
stabilite col limite. Ora questo è un richiamo che si riferisce a dove ha detto
che gli anticld che furono migliori di noi e più vicini alla divinità ci hanno
trasmesso quest'oracolo, che lo cose ohe si dicono essere oternamonto sono di
uno e di molti, e comprendono in sé il limite e rillimilazìone. Le cose che si
dicono essere eternamente sono naturalmonte le Idee. Platone non potrebbe
considerare le «lue proposizioni come equivalenti, se le Idee per lui non si
identificassero in un certo modo con le cose, ciò che sarebbe impossibile
neiripotosi della trascendenza. F,uìro e, ('rat,, Fedoni' Rcp., ecc. Fedro,
rim., Fedone, FU. Sof,, e, liej), Il reale risolvendosi nelle Idee, ciascuna
cosa ixaaxov signi \ getto conoscente, i veri xàXyj^)^^ fi o il vero xàXYjO-é^
, fi aXr^^sia Ciò non si comprende che nell'ipotesi dell'immanenza. Se. le Idee
fossero trascendenti, le Idee e le cose sarebbero due realtà distinte e
separate, e Platone non potrebbe dire che tutto il reale consiste nelle Idee.
Ma se le Idre sono gli attributi delle cose, siccome tutto Tessere si risolve
nei loro attributi, cosi le C08e si risolvono nelle Idee, e queste costituiscono
tuttala realtà. Nell'ipotesi dell' immanenza, il mondo delle Idee e il mondo
delle cose. Vintdligibile e il sensibile^ non sono due mondi differenti, ma,
come abbiamo detto, un solo e stesso mondo visto da due lati differenti: ciò
che Tintelligeuza vede come un complesso di astraiti cioè d'Idee, è quello
stesso che i sensi vedono come un complesso di concreti c:oè di cose. Tra
l'intelligibile e il sensibile vi ha in certo modo il rapporto che vi ha tra il
semplice e il composto: Tintelligenza decompone i concreti in astratti, le cose
in Idee. Platone non può negare che il mondo sensibile differisce dal mondo
m/e/ . ligibile. Se la realtà consiste nel mondo intelligibile, cioè nelle
Idee, ne segue che il mondo sensibile, cioè delle cose, in quanto differisce
dal mondo delle I^^ec», non ha lìca talvolta in Platone: ciascuna Idea. Fedone
G5 e. IhUì, le Idae sono anche chiamate le rose atesse aOxà xà TlpdYriaxa. Noi
abbiamo viste che per dire: V Idea del movimento, deììcf stato, dell'essere,
ecc., Platone si serve semplicemente delle parole: il inovimento, lo stato,
Vesaerey ecc.: ciò suppone evidentemente che le cose per lui si ri-;olvono
nelle Idee. Fedro, liej), Fedone Fedro Jiep. /ee?i>., eoe. Confr. Taine
Posit. imjL JJ. JI., L'InteHùjA, 1. ecc.. H M realtà. É tale è in effetto la
dottrina di Platone. In altri rasi, in cui per verità si deve inteniere la
conoscenza vera, e non l'oggetto di questa conoscenza, la veW^à significa la
conoscenza delle Idee. Altrove la verità vuol dire la condizione degli oggetti
veri, la proprietà che e^si hanno di esser veri, e questa condizione o
proprietà è attiribuita unicamente alle Idee. Cosi l'Idea ò chiamata il vero
essere (ov ovxw;; , TiavxsXw^ ov , xsXéw^ ov , slXtxpivw^ ov, oòoicc ovxo)^
ouaa, àXYjO-toc; cpóai^ 'yKdpy^oDooL, ecc., ciò che implica che l'individuo non
è tale; e questo vero essere e opposto alle cose che son credute essere, cioè
le cose particolari. Il divenire Yèvsa'.c: o ciò che diviene yiY'^óiisvov è per
quest'attributo ch'^ P)atoae caratterizz i il sensìbile è opposto all'essere e
al vero, e sì dice di esso che non è mai realmente, che non è un essere. <1)
Fedro, Fedone Fedro Ti,u,, FU,, R.p. Sof. I^ep, Jiep. Re)). Fedro Tini, Kep,
Fedro Tini, AVj9. J^ep, eco. Tini, Crat. Tim..Nel Sof, dice: i partigiani delle
Specie pongono in queste la vera oùaia: iii quanto a ciò che i Fisici chiamano
veriti\, essi lo chiamano non oùoiOL, mn. una certa genesi fluente. il letto
reale xXCvyj ovxo); o'joa significa V Idea del letto; là bellezza vera {za àXY)8-èG
xaXXXog) l'Idea della bellezza; il vero nimero (6 àXYjGivò^ àpL0|jiós) <^ le
verj figure (xà àXvjH; axTjfiaxa) le Idee dei numeri e de' le figure cioè,
propriamente, le entità mat^natiche. L'individuale non ò un essere, ma qualche
cosa di simile all'essere; noa è né essere né non essere ma partecipa dell'uno
e dell'altro, è un che di medio tra il puro essere e l'assoluto non essere. I
sensi non ci fanno conoscere il vero; il sensibile è credut*) vero, ma nonlo è,
almeno non ha una verità assoluta; questi non si trova che nelle Idee. Tra gli
argomenti per dimostrare l'esistenza delle Idee vi hanno questi: se vi ha
qualche cosa di vero, esistono le Idee, perchè niente delle cose presso di noi
è vero; il numero è degli es>eri, ma le cose presso di noi non sono esseri,
dunque il numero è delle Idee, e queste esistono; le definizioni sono degli
esseri, ma nessuna di queste cose è, Fono dunque le Idee. Le fonr.e che riveste
succrssivarnent.». 1 \ materia sono apparenze ^avxotajjiaxa degli es-^eri veri,
cioè de' le Rf^p, i'Vd/o I?ep. Jiep. Jeep, Fedone a, d, eco. Fedo. Rep, ecc.
Fedo, FU, R^p, 5iU , ecc. Fedo,, FU,, Eep,, ecc. L'Idea è, come il solo essere
vero, cosi pure il solo essere certo (pspaiov V. Tim. Il sensibile noa è certo,
perchè è qualche cosa di ambigno, di cui non può dirsi né che è né che non è*
Aless. Afrod. bi phU . I,,:l|''I fi li Idee; ciascun sltoc, è uno in se stesso,
ma per là partécipazinne ad es'o dei corpi e dello aziou', da per tutto
apparendo (cfavxa^ó|i£vov), pare (cpacvsxat) molti. L'acqua, il fuoco, l'ari
Ji, la terra non sono, ma appariscono cpavxa^sxai; la materia pare ^atvsxai
acqua, fuoco, ecc. secondo che riceve le immagini di questi, cioè delle Idee
dell'acqua, del fuoco, ecc. Platone si esprime cosi, perchè 1'acqua reale, il
fu^co reale, ecc. sono le Idee dell'acqua, del fuoco, ecc. Le cose non sono che
immagini deMc Idee; e chiamandole immagini slxóvsg, stdcoXa, ecc., Platone non
vnol dire semplicemente ch'esse sono fatte ad imitazione delle Idee, ma ancora
ch'esse non hanno una vera realtà; infatti queste stxóvsc, £t5(i)Xa, ecc.
vengono opposti agli esseri veri (le I !ee). Il volgare, che non ammette la
teoria delle Idee, vive coT.c in un sogno, perchè, come colui che Fogna, prende
delle semplici immagini per esseri reali. Ciò che vi ha di reale negli oggetti
che ci mostrano i sen-i, so-no le Idee: della grandezza, della s mìtà, della
robustezza e, in una parola, dell'essenza di tutte le cose, il verissimo non è
ciò che ne percepiscono i sensi, m«a ciò che ne percepisce la ragione, vale a
dire le Idee; 1 sensi c'ingannano, e per conoscere la verità delle cose,
dobbiamo rinunziare, per quanto è possibile, all'uso degli organi del
corp'>, e contemplare con la mente ste sa Tihi. Rep, Tim. Tihi, Fjdè'O Tim.
ecc. Fedro Rep., CjhvUo Rep. Rep, Titn. ecc, Fedone e. i > per se stessa gli
esseri stessi per se stessi, cioè Tintelligibile ed invisibile; a traverso il
corpo, noi vediamo gli esseri le Ider, come a traverso un carcere. Da tutte
queste proposizioni risulta con la più grande evidenza, quantunque
Platon", bisogna confessarlo, ron lo formuli mai nettamente, il concetto
che le cose sono alle Idee ciò che l'apparenza è alla realtà: ciò che è in
realtà un mondo d'Idee apparisce come un mr»ndo di cose, d'individui concreti.
In effetto, se le cose non sono una realtà, saranno un'apparenza: ma
un'apparenza suppone una realtà che apparisce divera da quello che è; per
conseguenza, non essendovi altro di reale che le Idee, la realtà, di cui il
mondo sensibile è l'apparenza, non può essere che il mondo ideale. Se le Idee
fossero separate dare cose, noi non comprenderemmo come possa negare la realtà
del sensibile, e ridurre tutto il reale alle Idee: -na se le Idee sono comprese
nelle cose, e costituiscono la sola realtà, ciò che vi ha di reale nel mondo
sensibile non sarà ch'3 il mondo d'elle Idee, e allora il mondo sensibile, come
tale, sarà l'apparenza del mondo delle Idee. Considerando il mondo sensibile
come un'apparenza, Platone non intende negare la sua obbiettività, perchè egli
non ammette che ciò che i sensi percepiscono sia un semplice fenomeno
subbiettivo. Per Platone, come per Hegel, il mondo che noi chiamiamo reale è
un'apparenza delle Idee, ma un'apparenza obbiettiva. Senza dubbio un'apparenza
oltbiettiva è una contraddizione nei termini; perchè una cosa non reale,
un'apparenza, significa un fenomeno subbiettivo che si prende a torto per IJ! H
n una cn.ca obbiettiva. Una cosa, di cui si riconosce l'obbiettività, non può,
d'una maniera intelligibile, clas^^arsi tra le cose il cui caratterd essenziale
è la mancanza di obbiettività; ma questa classazione ininte]li;;ibile era il
solo mezzo che Platone potesse tentare | er conciliare l'esistenza di un mondo
di cose col principio che ogni realtà consiste neMe Idee. Questa riduzione del
sensibile a una apparenza dell'intelligibile spiega perchè, tra tutte le
filosofie preced«nt', la VELINA DI VELIA fo'^se, dopo la pitagorica, quella di
cui Platone riconoscesse il legame più intimo con la sua propria filosofia: è
che per Platone, come per I VELINI DI VELIA, il mondo mutabi'e, percepito dai
sensi, è l'apparenza obbiettivi d'una realtà immutabile. Il concetto che le
co«e sono 1'apparenza delle Idee sarebbe evidentemente incompatibile con la
dottrina della trascenienza. Primo, perché, come abbiamo notato, se le Idee
f.>ssero separate d^lle cose, Platone non potrebbe ridurre tutto il remile
alle Id'^.e, e non avrebbe alcuna ragione per negare la realtà del sensibile.
Secondo, perchè questo concetto suppone che il mondo delle Idee e il mondo
degl'individui, l'intelligibile e il sensibile, siano, non due cose differenti,
ma due aspoti differenti di una sola e stessa cosa. Noi abbiamo confessato, è
vero, che questo concetto non si trova in Platone nettamente formulato. Ma
l'identità tra le cose e le Idee, che esso suppone, è ammessa della maniera più
netta in molte delle proposizioni da cui lo abbiamo ricavato: p. e. quando dice
che ciò che vi ha di verissimo nelle cose è quello che ne percepisce
1'intelligenza, vale a dire le Idee; ch^ a traverso gli organi del corpo Fedo
Fedo. e. °,l 6.° (2j Fedone, luogo citato. i: noi vediamo gli esseri, ci'^è le
Idee, coinè a traverso un career vi; qiiand) chiama le Idee gli esseri; quando
dice: ciascuna cosa Sxaaxov, per significare: ciascuna Idea; ecc:. Questa
iJenti ;i tra le Idee e le erse, incoucepibile nell'ipotesi della trascenlenza,
è una conseguenza logica di quella dell'immanenza. In effetti, come abbiamo più
volte osservato, l'astratto e il concreto, o, più generalmente, il più astratto
e il più concreto, non sono degli oggetti differenti, ma uno stesso oggetto a
gradi differenti di determinazione; questi gradi differenti di determinazione,
che al punto di vista ordinario non esistono che nella nostra intelligenza,
sono elevati dalla mi^tafisica realista a realtà obiottive; ma questa stessa
metafisica non può non riconoscere l'identità dell'oggetto, di cui essi sono i
gradi differenti di determinazione; e perciò i.e fa degli aspetti o df>gli
stati difft^ reati di uno stfsso essere, che nei gradi successivi di determinazione
che c^so percorre, si conserva nondimeno sempre identico a se stesso. Ci resta
a spiegare perchè quest'ultimo grado della determinazione dell'essere, che è
l'individuo, non abbia per Platone (e in generale per tutti i filosofi che
uniscono al realismo il metodo dialettico che il valore di una semplice
apparenza. La ragione più ovvia per riguardare il sensibile come un'apparenza ò
ch'esso ò in contraddizione con l'altro aspetto deiressere, la cui realtà deve
stare più a cuore a Platone, cioè con l'Idea. Ciascun sl5og è uno, ma noi lo
vediamo come molli, disseminfito nello spazio e nel tempo: di questi due
aspetti contraddittori dell'essere, i i rintelligibiie e il s<jnsìbile,
Platone, sacrificando, come lutti i metafisici, il dato dell'esperienza al
risultato dt-lla speculazione, dichiara che il reale è il primo e il secondo è
un'apparenza, che l'sleo^ è uno in se stesso, ma pare molti. Tuttavia una
consideraz'one più attenti mostra clic questa ragione non basterebbe per se
sola a negare Iri realtà del sensibile. In ette!to questa centra Idizioue tra
l'uno e i molti si trova a ciascun passo della determinazione progressiva
d^irid'ja: come l'Idea specifica diviene molti negl'individui che ne
partecipano, co>i l'Idea generica diviene molti nelle Idee specifiche che ne
partecipano. Quci^ta moltiplicazione dell'Idea nelle Idee più particolari ad
essa subordinate è per Platone anch'essa una semplice apparenza: ciascun sldog
pare molti, tanto per la partecipazione de'lc azioni e dei corpi, quanto per la
partecipizioiic degli altri slòri W Ma Platone non dichiara perciò che le Idee
particolari sono delle semplici apparenze dell'Idi a generale: è che vi ha in
esse, oltre l'elemento generico, che, come molti e diverso nelle diverse Idee,
è un'apparenza dell'Idea generica, un elemento differenziale; e questo è
irriduttibile all'Idea generica, e reale come eséa. Ora anche nell'individuo vi
ha un elemento differenziale, che si aggiunge all'elemento specifico: sembra
perciò che Platone dovrebbe conservare la realtà degrindividui in grazia delle
differenze individuali, come conserva quella della Specie in grazia delle
differenze specifiche. Al cominciamento di questo numero, per ispiegare la
dottrina di Platone che tutto il reale consiste nelle Fedone, loogo citato. Fedone,
luogo citato. Rep, »-r" ' i i I Idee, noi abbiamo detto che gli esseri si
decompongono nei loro attributi, i quali, considerati gen'^ralmeite, sono
d^»lle lie»^. Infntti questa è la sola ragione plausibile, che Platone e ogni
altro nietafis'co che prot 'ssa lastessa dottrina, potrebbe addurre per
giustificarla; ed io ho citato il Taine, il quale ammette effettivamente che il
rapporto tra le entità generali corrispondenti alle Idee platoniche e le cose è
quello che vi ha tra le parti e i tutti, i componenti e i composti. A questo
punto di vista» l'elemento differenziale, che si aggiunge alla Specie por
costituire l'individuo, sarebbe un complesso di caratteri, di cui ciascuno è
generale e corrisponde a un'Idea, e che basta a determinare V individuo, perchè
il conceremo di tutti non ha luogo che in un singolo individuo. Ma questo punto
di vista ò, rigorosamente parlando, inammissibile. Vi ha. necessariamente
nell'individuo un elemento, chi*, è irriduttibile al generale, all'Idea. Prima
di tutto, la posizione in un punto determinato dello spazio e del tempo. Poi,
un cumulo di caratteri generali, per quanto si moltiplichino, non potrebbe
fornire una rappresentazione adequata, precisa, dell'individuale. È perciò che
i realisti del medio evo ammettevano un principio particolare, V ecceità, che
si aggiunge agli Universali per formare l'individuo. Il vero motivo per cui
Platone e gli altri filosofi, i cui sistemi sono costruiti sullo stesso tipo
del sistema platonico, non fanno come i realisti del medio evo, ma risolvono
tutto il reale in entità generali, bisogna cercarlo, non nel realismo per se
stesso, ma nella dialettica. Io chiamo dialettica ogni metodo in generale di
dedurre i concetti realizzati che Platone chiama Idee gli uni dagli altri, allo
scopo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra
la causa e lo effetto. La dialettica non ò un semplice processo subiettivo per
dimostrare le cose, ma è il processo stesso per cui le cose si producono, la
legge della loro causazione reale. Questa legge non determina le successioni
cronologiche dei fenomeni, ma le succe-isioni logiche delle entità in cui la
mot;ifis'ca realista r.solve il reale. Queste entità si deducono le une dall«ì
altre secondo un metodo costante fche, p. e, per Platone è la divisione del
genere nelle sue specie, per Hegel il passaggio dalla tesi all'antitesi e poi
alla sintesi); e il proprio di questa deduzione è che fra le entità che si
deducono e quelle da cui si deducono, non vi ha semplicemente il rapporto
logico di conseguenze e dì principii, ma anche il rapporto ontologico di f
fleti i e di cause, poiché l'essenza della metafisica di cui parlian^o consiste
nella identificazione di questi due rapporti. Il nietfdo per cui procede questa
deduzione essendo, come abbiamo detto, la legge di causazione delle entità
ch<>, secondo la metafi^jica realista, costituiscono il reale, ton può
esservi niente nel reale che non si uniformi a questa legge, cioè che non possa
dedursi secondo questo metodo; della stessa maniera che tra i fenomeni non può
esservene alcuno che non si uniformi alle legji di causazione dei fenomeni. Ora
nessun metafisico potrebbe pretendere di dedurre l'individuale; poiché la
scienza non aspira a onoscere l'individuale, ma solo il generale. L'individuale
non può dunque uniformarsi alla legge dialettica che governa il reale: la sua
esistenza è in contraddizione con questa Ifoge; quardo, nella determinazione
progressiva dell'essere, arriva il momento finale finale almeno nel sistema
platonico, in cui si passa dall'astratto al concreto, dal generale
all'individuale, accade un avvenimento senza causa. Ecco perchè il metafisico
real'sta non conta quest'avvenimento fra i gradi reali dello sviluppo
dell'essere, e dichiara il sensibila una semplice apparenza. Il metafisico
realista non fa che quello che noi stessi farem I. mo innanzi ad un
avvenimento, di cui saremmo eerti che non vi hanno nel mondo esteriore degli
antecedenti capaci di determinarlo: noi lo dichiareremmo un sogno 0
un'illusione, il criterio principale, se non Tutiico, per distinguere il sogno
o V illusione dalla realtà, essendo la possibilità o meno di mettere un
fenomeno in connessione causale cogli altri fenomeni che costituiscono la serie
che noi chiamiamo il mondo reale. Tutti i metafisici che. come Platone,
realizzano i concetti, e ammettono che questi concetti realizzati possono
deduisi gli uni dagli altri secondo un metodo costante che noi chiamiamo
dialettico, perchè cosi è stato chiamato dai più celebri rappresentanti di
questa forma di metafisica, Platone ed Hegel, riguardano il sensibile,
l'individuo, come non reale, ma soltanto apparente. Schelling dice: Non vi ha
passaggio continuo dall'assoluto l'entità suprema da cui tutte le altre
procedono, la pia astratta di tutte al mondo sensibile; non si può concepire
l'origine del mondo fenomenale che per un salto, per una discontinuazione
perfetta dell'azione dell'assoluto. Perche fosse possibile di dedurre
dall'assoluto la nascita delle cose reali cioè che noi chiamiamo tali,
bisognerebbe che esse avessero in lui la loro ragione positiva: ora n^n vi ha
in Dio cioè nell'assoluto che la ragione delle Idee, e le Idee alla loro volta
non producono che delle Idee, e niuna azione positiva procedente da esse o
dall'assoluto può formare un passajrgio da'I'infinito il mondo delle Idee al
finito il mondo dei fenomeni. L:i filosofia non ha alle cose fenomenali che una
relazione negativa: essa hu meno per oggetto di provare che esse sono, che di
mostrare che esse non sono Willm Stor. della fiL aUm. da Kant sino ad Hegel
Hegel nella Logica: L'idea è il vero; perchè il vero consiste nella conformità
tra la nozione e il suo oggetto. Ogni essere reale tira la sua realtà
dall'Idea, e non è che per l'Idea che è un essere reale. L'individuo non
corrisponde alla sua nozione e per conseguenza manca di verità.
Nell'Introduzione all'Enciclopedia: Un'osservazione attenta del mondo distingue
ciò che, nel vasto dominio dell'esistenza interna ed esterna, non è che
un'apparenza fuggitiva ed insignificante da ciò che ba una vera realtà. Dio
cioè l'Idea é la realtà più alta e la sola realtà, e, relativamente alla forma,
l'esistenza è in parte apparenza Zeller, quantunque sia Tuno dei principali
rappresentanti dell'interprctazioDe trascendentalista, riconosce che dalle
proposizioni di Platone sulla realtà delle sole Idee e la non realtà del
sensibile, ne segue il concetto che il mondo sensibile non è che un fenomeno
del mondo ideale. Egli ammette che questo Iato della dottrina platonica è in
contraddizione con l'altro lato che egli le attribuisce, cioè la separazione
tra le Idee e le cose; ma secondo lui esso importa, non l'immanenza delle Idee
nelle cose, ma l'immanenza deUe cose nelle Idee. E in verità si deve convenire
che sarebbe più e in parte realtà. Nella vita ordinai ia, tutti gli
avvenimenti, l'errore, il male e tutto ciò che appartiene a quest'ordine di
cose, come anche ogni esistenza passeggiera e peribile, sono accidentalmente
chiamati delle realtà. Nota di VERA; Vi ha nel'e cose un elemento apparente,
accidentale» esteriore, e un elemento reale, necessario ed interiore. È
quest'elemento che è l'oggetto della filosofia. VERA nell'Introduzione alla
filosofia della natura di Hegel, e.: Il tempo e lo spazio costituiscono il
sustrato e come i due fattori del'a natura; di tal sorta che ciò che è uno vi
ipparisce come molti, e ciò che è simultaneo vi apparisce come successivo. E
questo apparire non è un fatto o uno stato puramente subbiettivo ed esteriore
alla natura, ma costituisce la condizione e la forma stessa della sua esistenza.
Taine nel Posil. intjl.; Questo magnifico mondo in movimento, questo caos
tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita in cessante
infinitamente variata e multipla, si riducono ad alcuni elementi e ai loro
rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dal complesso al semplice,
dai fatt alle leggi, dalle esperienze alle formule. Sinché non guardiamo la
natura che per l'osservazione sola, noi non la vediamo quale è; noi non abbiamo
di essa che un'idea provvisoria e illusoria Essa è propriamente una tappezzeria
che noi non vediamo che dal rovescio. Ecco perche cerchiamo di voltarla. Noi ci
sforziamo di distinguere delle leggi, noi scopriamo delle coppie di entità
astratte noi passiamo dall'accidentale al necessario, dal relativo all'assoluto,
dall'apparenza alla verità. Filos. dei Greci r<esatto di riguardare il
fenomeno come inerente nella sostanza, che la sostanza come inerente nel
fenomeno. È qui dunque il luogo di domandarci se s^a più giusto di formulare il
rapporto tra le Idee e le cose nel sistema platonico, dicendo che le Idee sono
immanenti nelle cose, 0 dicendo piuttosto che le cose sono immanenti nelle
Idee. Effettivamente il rapporto tra le Idee e le cose, o, più generalmente,
tra il generale e il particolare, è concepito da Platone dell'una e dell'altra
maniera. Queste due concezioni corrispondono alle due formule, Vuno nei molti e
Vuno è molti. Secondo la prima, l'Idra generica è contenuta nell'Idea
specifica, e questa negl'individui. Secondo l'altra, l'Idea generica è la
stessa cosa che la totalità delle Idee specifiche, e contiene quinii le Idee
specifiche; e similmente l'Idea specifica è la stessa cosa che la totalità
degl'individui, e contiene quindi grindividui. Vi ha però una differenza tra il
rapporto dell'Idea generale con le Idee più particolari ad < ssa subordinata
e quello dell'Idea con le erse; ed è che nel primo caso l'uno e i molti cioè
Tldea generale e le Ide? particolari subordinate sono riguardati da Platone
come due aspetti o due stati egualmente r«»ali che Tessere attraversa
successivamente neUa sua progressiva determinazione; invece, quando l'uno
r;ipprp.8enta l'Idea e i moiri le cose, di questi duo a-petti dell'essere uno
solo, Vuìio^ è riguardato come reale, e l'altro, i molli^ è riguardato come una
semplice apparenza. Questi rapporti contrari di contenenza reciproca tra il
generale e i particolari non sono al fondo che la doppia re:azione che può
stabilirsi tra i concetti, secondoche si guardano nella loro estensione o nella
loro intensione: guardati nell'intensione – GRICE ESTENSIONALISMO MINIMALISMO
bete noire --, il particolare contiene il generale; guardali neiresiensione, il
generale contiene il11 il ' '1 i particolare. Tuttavia bisogna riconoscere che
queste due maniere di concepire la relazione tra le Idee generali e le Idee
particolari e tra le Idee e le cose non sono perfettamente congruenti: ciò non
è solo per la contraddizione che vi ha a rappresentarsi una cosa come parte di
un'altra, e al tempo stesso quest'altra come parte della prima secondo la formula
dell'immanenza delle Idee nelle cose e dello Idee generiche nelle Idee
specifiche, l'Idea sarebbe nella cosa e l'Idea generica nell'Idea specifica
come una parte (Vx) nel tutto (/\x) ; secondo la formula contraria invece le
Specie sarebbero parti (Vx) del Genere e gl'individui della Spec'e); ma ancora
perchè le due concezioni suppongono in sostanza due concezioni differenti
dell'Idea. Il concetto può considerarsi a due punti di vista differenti: come
rappresentante l'oggetto, a cui si riferisce, considerato d'una maniera
astratta e generale; e come rappresentante l'attributo, per la possessione
GRICE IZZING HAZZING del quale a quest'oggetto viene dato il nome
corrispondente al concetto. Questi due punti di vista corrispondono al nome
concreto e al nome astratto SHAGGINESS; p. e. animale ed animalità.HORSENESS Di
qu?8ti due aspetti o, se sì ama meglio, di queste due forme del concetto, qual
è che realizza Piatone? è la rappresentazione astratta del soggetto animale, o
quella dell'attributo animalUd V L'unae l'altra; e quantunque la realizzazione
dell'una non sia perfettamente identica a quella dell'altra, egli non vi fa
alcuna differenza. Infatti egli chiama indifferentemente l'Idea sia col nome
concreto FIDO THE HORSE ITSELF: p. e. il grande, il piccolo, il padrone, Fedo,
Parm, Parm. Parm. T^ il servo, Tuomo – CICERO: “Greeks add ‘ho’ to anthropos, I
don’t know why”, il bue; sia col nome astratto: p. e. la grandezza, la
piccolezza, la padronanza, la servitù, la 7nen6*aZ//à (xpaTis^óxyjs da
TpocTis^a mensa. Evidentemente, per riguardare Tldea come contenuta nelle cose
e Tldea generica come contenuta nelle Idee specifiche, l'Idea deve essere la
realizzazione dell'attributo, p. e. dell'animalità HAIRY-COATEDNESS; ma per
riguardare le Idee generiche come contenenti le Idee specifiche e queste come
coDt:'nenti le cose, l'Idea deve essere la realizzazione del soggetto, p, e.
dell'animale, astrattamente considerato. Di queste due concezioni dell'Idea è
la prima che prevale, come apparisce da tutte le espressìoni del rapporto tra
le Idee e le cose significanti o implicanti la parusia: è che è cosi che noi
possiamo rappresentarci della maniera possibilmente più netta le Idee e la loro
relazione con le cose e tra di loro; per conseguenza qurl'i che rigettano la
sepaiaiione tra le IJeo e le cose preferiranno sempre la formula
dell'immaneu'za delle Idee nelle co<je. Ma quando Platone si mette più
specialmente al punto di vista della dialettica, egli deve abbandonare questa
concezione per l'altra; poiché è evidente che non è p. e. la sostanzialità
^l'attributo che si divide in corporeità e spiritualità, ma è la sostanza il
soggetto che si divide in spirito e corpo; Parm. FU, redo. Parm, Fedo. Parm.
Parm. Diog. Laert.. I lì / il il H e che non é ^animalità che si divide in umanità
e brutalità e angelita e divinita a planetatita, ma è l'animale che si divide
in uomo e bruto. A questo punto dì vista la formula più giusta del rapporto tra
il generale e il particolare è l'immanenza del secondo nel primo, cioè delle
Idee specìfiche nel'e Idee generiche conformemente al Timeo, in cui Platone
dice che l'intelligenza vede le Specie degli animali inesìstenti (èvouoag)
DeirAnimale in sé e per conseguenza anche delle erse nelle Idee. Bisogna dunque
riconoscere quest'oscillazione dì Platone nel concepire l'Idea: ma non si deve
dimenticare che le due co)icezioni differenti sono l'una e l'altra esclusive
della trascendenza delle Idee; che l'Animale in se stesso, cioè l'astratto, non
è separato dall'animale concreto, ma è identico con esso, perchè runo è i molH,
e i molti sono Vuno'^ e l'Animalità in se stessa non è separata dall'animalità
che è l'attributo dell'animale concreto, ma è questa stessa animalità, perchè
Vuno non è fuori dei molti, ma nei molti, X. La dottrina della non realtà delle
cose sensibili è legata in Platone con quella d( l loro continuo divenire. Egli
ammette la tesi di Eraclito, con gli sviluppi che le aveano dato gli
eraclitizzanti più recenti. Il presupposto su cui erano fondate le conseguenze
che questi tiravano dalla dottrina del maestro era che ciò che cangia di un
cangiamento continuo non è mai, nel tempo in cui cangia, in uno stato
determinato: essi ne concludevano che delle cose, che sono in un contiauo
divenire, non vi ha alcuna conoscenza possibile, poiché niente potrebbe dirsi
di vero di ciò che non è d'una per questa proposizione Append. Le antinomie
della ragione. maniera determiaata. A questa conseguenza della tesi eraclitica,
che Platone restringe naturalmente al sensibile, egii ne aggiunge un'altra,
cioè che eiòche diviene non è, proposizione che senza dubbio viene anch'essa
dedotta dal medesimo presupposto. Per l'esatta comprensione del legame tra la
dottrina del continuo divenire delle cose e le conseguenze che gli
Eraclitizzanti e Platone ne deducevano, io rinvio perciò ai luoghi di qu-^sto
scritto sopra indicati. La quistione che per ora c'interessa è un'altra, cioè:
quando Platone oppone l'Idea eterna e sempre la stessa alle cose che nascono e
periscono e sono in un divenire continuo, parla egli, come intendono
gì'interpreti trascendentalisti, di due mondi separati – POPPER DI TRE -- e
contrari, l'uno sottoposto a un perpetuo cangiamento, e l'altro esento da
qualsiasi cau giamento; o di un mondo solo, che può consiaevarsi a due punti di
vista oppo-ti, comò in un divenire c^nJiauo, guardato in ciò che ess3 ha di
fenomenale, d'individuale, di contingente, e come immutabile, guardato in ciò
che ha di rea^e, di generale, di necessario? Prima di tutto si deve osservare
che questi stossi caratteri di eternità e d'immutabilità, attribuiti allo Idee,
non si comprendono perfettamente che nell'ipotesi dell'immanenza. Le Idee sono
eterne e sempre le stesse non è Arìst. Met. Met. Arisi, Mei, Fedone, Conv. SII,
FU, 7'ui?, ecc. Parm. Conv. Polli, FU, Fedo. Tim, ecc. che la traduzione in
lingua realista di questo risultato dell'osservazione più volgare: che nei
cangiamenti incessanti che avvengono nel mondo, le forme generiche e sjecifiche
d^gli esseri non cangiano; che gl'individui periscono, ma le specie sono
stabili. Per l'eternità delle Idee, Platone esprime lo stesso concetto,
espresso da Aristotile quando egli dice che le forme non nascono né periscono –
ma l’idea di implicatura nasce con Grice -- : l'uno e l'altro alla dottrina ai
terìore dei F.sici di un'origine e di una fine del cosmos attuale gos*iiuiscono
la dottrina più conforme alla tendenza innata del nostro j-pirito di
generalizzare, quanto più è possibile, la nostra esperienza deireternità
dell'ordine presente del mondo. Ma se le Idee non sono le forme generiche e
spcciticbe degli esseri, l'eternità, di cui vengono dotate, è arbi(raria come
tutti gli altri caratteri, che ad c^sc hi attribuiscono: in elìctt'\ il male
radicale e incurabile del sistema delle Idee trascendenti è la loro assoluta
incapacità di esercitare sulle cose un'efficienza qualsiasi; sicché qualunque
ipotesi secondaria di cui venga circondata l'ipotesi della loro esistenza, è,
come questa, gratuita e priva di scopo, la loro causalità restando, in tutti i
casi, egualmente misteriosa. prova dell'immanenza delle Idee è V argofi) Mei,,
ecc. Se non cho per Ari>àtotile la forma non può considerarsi come identica
negl'individui differenti CHE PER METAFORA – He is an ideal pupil; per Platone
invece quest'identità ò reale. Nel Parm, per significare rigeltando la dollrina
delle Idee^ dice: non lasciando che la forma l$£a di ciascuno detjli esseri
cioè di ciascuna specie di esseri sia sempre la stessa. Ciò prova che l'Idea
non è che la forma di ciascuna specie di esseri riguardata come sempre la
stessa, cioè come numericamente identica in tutti gl'individui che rivestono
questa forma. tnento per cui Platone dimostra la loro esistenza dal divenire
continuo delle cose. Conformemente alla tesi degli Eraclitizzanti, è
impossibile di avere la conoscenza di ciò che diviene: Platone ne conclude che
bi90o:na ammettere un essere permanente, che sia il vero oggetto della
conoscenza; questo è V Idea. Quest'argomento che Aristotile dà come il vero
motivo del sistema delle Idee apprezzamento su cui dobbianro fare le nostre
riserve, perchè i sistemi metafisici, secondo noi, non hanno per motivi dei
sofismi artificiali come questo, ma i sofismi naturali dello spirito umano era
fondato, come la più parte degli altri argomen Met. Io credo anzi che si debba
prendere al rovescio il rapporto che Aristotile in un'epoca in cui non potremmo
attenderci che lo spirito umano avesse già acquistato la coscienza delle sue
tendenze metafisiche e dei processi per cui esse si realizzano stabilisce fra
la tesi degli eraclitizzanti e la dottrina delle Idee. La dottrina delie Idee
non e una cnseguenza della tesi degli eraclitizzaìiti, ma è questa che è, in
Platone, una conseguenza di quella. Io non pretendo che Platone ammettesse U
dottrina del continuo divenire delle cose in conseguenza delia sua dottrina
delle Idee, perchè non vi ha tra le due dottrine una oonnessione naturale. Si
deve dunque ritenere che Platone adottasse la tesi di Eraclitoche al punto di
vista moderno è l'espressione esatta della verità, e che anche al punto di
vista antico era un'interpretazione plausibile dei dati deirosservazione per
dei motivi indipendenti dal sistema delle Idee. Ma le conseguenze esorbitami,
che gli Eracletiszanti come CRATILO deducevano da questa tesi, cioè
l'indeterminatezza delle cose, che continuamente divengono, e la loro
inconoscibilità, non dovettero essere accolte da Platone, che perchè egli vi
trova delle prove per dimostrare l'esistenza delle Idee. Similmente, quando
Platone aggiunge, come conseguenza dell'indeterminatezza di ciò che diviene,
che ciò che diviene non è, egli ammette la legittimità di quest'inferenza,
perchè vi vede una conferma della dottrina della non realtà del sensibile,
ch'egli ha dedotta dal sistema delle Idee. / deiresistenza delle Idee tirati
dalla scienza e dal Concetto, sul presupposto che tra le nostre nozioni e i
loro ogcretti deve esservi una conformità assoluta. Per la dottrina
deirindeterminatezza di ciò che continuamente diviene, non potrebbe esservi una
rappresentazione assolutamente conformo, e quindi nemmeno una conoscenza, del
l'individu ile, perchè questa lo rappresenterebbe d'una maniera determinata,
mentre ciò che diviene non è mai d'una maniera determinata. A questo noi
obbietteremmo-ed è in efi'etto l'obbiezione che Aristotile faceva alla tesi
degli Eraclitizzanti che, per conoscere le cos^, non è necessario di formarsi
una rappresentazione esatta, precisa, dello stato 0 degli stati successivi ia
cui si trova l'individuo, ma basta avere la conoscenza della forma specifica,
dell'sISos comune degl'individui; ora questa forma non è attìnta dal divenire,
perchè i cangiamenti dell'individuo, qualunque sia la loro natura, sono sempre
contenuti dentro 1 limiti di essa, e per conseguenza la sui conoscenza, e
quindi quella dell^. cns\ è possibile. Ma di quesfa miniera noi non faremmo la
confutaz'one dell'argomento platonico, invece lo continueremmo: in effetto
Platone soggiungerà che Toggetto di questa conoscenza dell'elSos comune
degl'individui non sono gl'individui la conoscenza che ha per oggetto
l'individuo sarebbe la rappresentazione esatta e completa dello stato in cui
esso si trova, e questa si è dimostrata impossibile ma è TsISos in so
st?ss'>, perchè deve esservi una conformità assoluta tra la nozione e il suo
oggetto, e perciò una nozione astratta e generale, qual è la conoscenza del MeU
Tslaog comune, non può riferirsi che ad un oggetto egualmente astratto e
generale. Ciò che prova che l'argomento di Platone mira a dimostrare un elSog
che è Degl'individui, quantunque separabili xwpioxóv nel senso che abbiamo
spiegato da essi, e non un elòoz che è fuori di essi, è che nel primo caso si
attribuisce a Platone una proposizione incontestabile, cioè che l'oggetto della
scienza non è ciò che vi ha nelle cose d'individuale, ma ciò che vi ha in e -so
di generale; nel secondo caso invece gli si attribuirebbe questa proposizione
stran», che la scienza si riferisce, non al mondo reale, ma ad un mondo
fantastico HOW THE LAWS OF PHYSICS LIE , posto, non si sa dove, al di fuori del
mondo reale. Forse V interprete trascendentalista dirà che Platone non vuole
dimostrare quale sia l'oggetto a cui si riferisce, nel fatto, la scienza, ma
quale sia quello a cui essa DEVE riferirsi. E sia pure. Ma si può attribuire a
Platone V idea che la sclen/.a deve riferirsi a un altro mondo, e non a questo
che ò il solo che cMntcressi di conoscere? Passiamo alle prove dirette,
contenute negli scritti di Platone, che ci mostrano che l'essere, V immutabile,
non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso, come Dio per Hegel Gott in
Werden. La prima è l'attitudine ambigua di Platone verso la tesi eraclitica.
Aristotile dice Mei.: Conversato Platone con Cratilo, e familiarizzatosi con le
opinioni eraclitee che tutti i sensibili continuamente fluiscono e non vi ha di
essi scenza, mantenne anche io appresso le stesse opinioni. E infatti la
dottrina del continuo divenire delle cose noi la troviamo nel Fedone, nel
Fileho, nel Sofista, nel Timeo, ecc. Ma intanto vi hanno altri luoghi in cui
Platone si mostra avversario risoluto di questa dottrina. E ciò che fa specialmente
nel Teeieio. In questo dialogo la presenta come conducente logicamente alla
tesi di Protagora che le cose non hanno in se stesse una natura determinata, ma
sono quello che sembrano a ciascuno, ciò che deve riguardarsene come una sorta
di confutazione per 1'assurdo; e la combatte apertamente a luogo di cui basterà
di cithre il tratto seguente, che è il più importante: SocR.; Tutto si muove,
voi dite, tutto fluiscp. Non è cosi? Teodoro: Si. Socr.: Senza dubbio del
doppio movimento che noi abbiamo distinto, di trasla[ Alcuni vedono nel Teeieio
una testimonianza storica sul rapporto tra Protagora ed Eraclito, e ammettono,
fondandosi su di essa, che la tesi di Protagora deriva realmente dalla dottrina
eraclitica del divenire. Ma che il legame tra le due dottrine sia una semplice
speculazione di Platone, è ciò che egli stesso confessa chiaramente, quando
dice che espone, non ciò che Protagora e i suoi partigiani dicono apertamente,
ma il loro secreto. D'altronde che la deduzione del Teeieio non abbia alcun
valore storico, risulta sufficientemente dalla mancanza di una connessione
naturala tra le due dottrine, poiché è evidente che la tesi di Protagora è
dedotta dal valore puramente subbiettivo delle sensazioni, e questo dalla loro
relatività; ora non vi ha alcun rapporto logico tra questi principii e la
dottrina del divenire continuo delle cose. Aggiungiamo che Ira la tesi di
Protagora e quella d^ Eraclito, non solo non vi ha un legame logico, ma vi ha
anzi unaaperta contraddizione; perchè la prima distruggo l'obbiettività delle
cose, ed è incompatibile con qualsiasi sistema dommatico. Zeller dice, è vero,
ohe Protagora «ha incontestabilmente attribuito alle cose un'esistenza
obbiettiva; ma quest'affermazione non ha altra base che l'esposizione del Teeieio-
poiché Sesto Empirico Purrh che ò 1'altra autorità su si appoggia Zeller, non è
un testimonio diretto, e si fonda anch'egli evidentemente sul Teeieio.
L'antecedente storico della tesi di Protagora deve corcarsi, come ben nota
Lange Sior. del mater,, piuttosto che nella dottrina di Eraclito, nell'atomismo
di Leucippo, perchè questo era il primo passo verso la negazione assoluta del
valore obbiettivo della sensazione. -Ili V; zione e di alterazione? Teod.: E
come do, se sì vuole che tutto si muova perfettamente? Sccr.: Se le cose
cangiassero semplicemente di luogo, e non si alterassero, potremmo dire quale
sia la natura di ciò che fluisce cangiando di luogo. Non è vero? Teod.:
Certamente SocR.: Ma siccome nemmeno è una cosa Ftabiie che ciò che fluisce
fluisca bianco, ma anche in questo vi ha cangiamento, in modo che la bianchezza
stessa fluisce e si muta in un altro colore GRICE ON SEEMING TIES BLUE AND
GREEN, affinchè non si sorprenda in uno stato fisso; è mai possibile di dare a
un colore un nome – GRICE LIGHT BLUE GREEN, EXAMINING A CHAMALEON, in modo che
questa denominazione sìa giusta? Teod.: Come sarebbe ciò possibile, o Socrate,
sia per il colore, sia per un'altra di tale cose, se, mentre parliamo, esse
fuggono, poiché fluiscono continuamente? SocR.: E che diremo delle sensazioni,
p. e. di quelle della vista e dell'udito? che esse permangono nello stato di
visione o di audizione? Teod.: No, s'è vero che tutto si muove SocR. : Non si
deve dunque dire che si vede qualche cosa anziché che non si vede, né che si ha
qualche altra sensazione anziché che non si ha, so tutto è assolutamente in
movimento Teod.: No, senza dubbio Socr.: Ora la sensazione è la scienza,
abbiamo detto io e Tceteto Teod.: Si Socr.: Interrogati dunque che cosa FÌa la
scienza, abbiamo risposto qualche cosa che non è scienza piuttosto che non
scienza Teod.: Cosi p«re Socr.: Abbiamo giustificato la nostra risposta d'una
bella maniera, noi che ci siamo sforzati di mostrare che tutto si muove per far
ved'^re la giustezza di questa risposta: quello che si è visto è, mi sembra,
che se tutto si muove, qualsiasi risposta, su qualunque c<>sa si
risponda, é egualmente giusta, sìa che si risponda che la cosa è co>ì, sia
che non è co>i, o, se ti piace meglio, che diviene cosi, o che non diviene
cosi, affinchè le nostre parole non attribuiscano ad essi ai partigiani della
dottrina del divenire alcuna permanenza NOTHING REMAINS BUT MUTABILITY. Teod.:
Dici bene - Socr.: Tranne in questo, Teodoro, che ho detto così e non così:
queste parole non devono essere usate, poiché, essendo costo non cosìf le cose
non sarebbero più in movimento; infatti né così né non così è movimento. I
partigiani di questo sistema dovrebbero inventare qualche altra parola, po'ché
sin qui non hanno termini adattati alla loro ipotesi, tranne forse quvisto: in
nessun modo. Questa espressione, ripetuta all'infinito, é la più conveniente
per essi. E evidente che qni Fintone non accoglie, ma rigetta come assurda, LA
TESI DI CRATILO che non vi ha alcuna proposizione vera sulle cose ch^ continuamente
divvugono; e che egli la presenta come una conseguenza inevitabile della
dottrina del continuo divenire, per mostrare che questa conduce ad una
conseguenza assurda. Orri come conciliare quest'attitudine ostile coi luoghi
dei suoi i-cr.tti in cui si mostra un propugnatore di questa dottrina, e con la
testimonianza d'Aristotile? La cosa si sp'ega pcrfeitamente, se si ammetto che
l'immutabile e ciò che continuamente divien'3 non sono per Platone due
L'argomento del Teeleto è la definizione della scienza. Teeteto, interrogato da
Socrate, risponde che la scienza è la sensazione. Questa definizione, secondo
Socrate, equivale all'opinione di Protagora, la quale alla sua volta equivale
alla dottrina di Eraclito e degli altri sapienti del divenire continuo di tutte
le cose. Di là l'esame di questa dottrina, allo scopo di confermare o
d'infirmare la definizione di Teeteto. <\ mondi separati ed opposti, ma un
solo e stesso mondo che può considerarsi a due punti di vista opposti: come in
un divenire continuo, nel suo elemento apparente, individuale, e come
immutabile, nel suo elemento reale, generale. Quando si mette al primo punto di
vista, Platone è un partigiano di Eraclito; quando si mette al secondo punto di
vista, è un avversario di Eraclito, e un amico dei VELINI di VELIA. Se il mondo
non presentnss'^. a Platone questi due aspetti opposti, le due attitudini
opposte verso la dottrina del divenire sarebbero incomprensibili. Del resto,
non bisogna credere che quando Platone parla, nelle sue prove per dimostrare
l'esistenza delle Idee, della inconoscibilità dei sensibili, che continuamente
divengono, egli ammetta tale quale LA TESI DI CRATILO che non può enunciarsi di
essi alcuna proposizione vera: la inconoscibilità dei sensibili è una
sottiglie7za di cui Platone si serve per il comodo della twa argomentazione, ed
essa non importa che non possiamo assegnare con verità ad una cosa alcun
attributo, COME PRETENDE CRATILO, ma semplicemente che non è possibile alcuna
nozione adequata e completa dell'individuo, che lo rappresenti esattamente
nella sua fisonomia individuale e, per dir cosi, nel suo colorilo preciso,
perchè questa fisonomia e questo colorito cangia continuamente, e non si trova
mai perciò in uno stato determinato. È questa rappresentazione solamente ch'egli
chiamerebbe una conoscenza dell'individuo, perchè egli suppon che tra la cono
Nel Teeteto, in cui combatte tutti i filosofi precedenti, ai quali tutti
attribuisce l'opinione di Eraclito, non parla in tono amichevole che di
Parmenide di VELIA e degli altri VELINI DI VELIA. scenza e il suo oggetto deve
esservi una conformità assoluta. LA TESI DI CRATILO che non può enunciarsi di
una cosa alcuna proposizione vira, sarebbe in contraddizione con la dotuina che
le cose partecipano alle Idee, perchè che una cosa pariccipa a im'Idt'a vuol
dire per Platone che della cosa può predicarsi V attributo corrispondente
airi'lca. lia presenza dell'Idea nel sensibile inetto necessariamente un limite
al suo divenire continuo, e alla indeterminatezza di'» ne è la conseguenza: le
cose cangiano continuamente, ma questi cangiamenli non oltrepassano nirii i ii
iiiii necessari perchè esse abbiano una essenza deierinin.ita e partecipino ad
attributi determinati. Noi abb'amo giA.visto che, quantunque la definizione non
abbia propriamente per oggetto che l'Idea, tuttavia essa si applc i
agl'individui, perchè l'Idea è l'esscQza coniun»^. degl'individui. Secondo
gl'interpreti trascendentalisti vi ha per Platone, non un mondo solo,
immutabile sotto un aspetto e sotto un altro in continuo divenire, ma due
mondi, di cui nell'uno domina un'assoluta immutabilità e neiraltro un divenire
assoluto. In questa interpretazio^ne Platone ammetterebbe pei f« fa mente la
tesi di Eraclito, limitandola al mondo realeeoe che noi chiamiamo così, e non respingerebbe
che un'applicazione universale di questa tesi per cui essa si estenderebbe
anche al mondo trascendente delle Idee. Ma, è incontestabile che nel Teeteto
non è rigettata la tesi del divenire assoluto, inquanto essa si applicherebbe
al mondo ideale, ma quella del divenire assoluto nel'o stesso mondo sensibile:
è questa che Platone combatte, perchè i partigiani della dottrina del divenire
non avevano parlato di altro mondo che del sensibile, ed egli stesso,
neiresposiz'onc che fa di (juesta dottrina bì, non ha evidentemente in vista
che il mondò sensibile. Quando poi comincia a di 'HU' I, ttumm^mammima
scaterla, egli dichiara che va ad esaminare quest'essenza sempre in movimento
di cui sopra ha parlato: quesVessenzx sempre in movimento non può ai^nìficare
che il mondo sensibile concepito secondo il sistema di Eraclito e dei suol
partio-iaui; e del resto nel tratto di questa discussione che è stato citato,
si vede chiaramente che Pla(;>)ne non esamina quali siano le conseguenze
deiripotobi che tut^o l'essere, vale a dire tanto il mondo delle cose quando il
mondo delle Ide-^, s'a sottoposto al un flusso continuo, ma quali siano le
conseguenze deiripote^i che le cose-cioè le cose particolari,
sensibiii-fluiscano e si muovano continuamente, tanto di un movimento di
tr.ìsla/Jone quanto di un movimento di alter,azione-perchò la tesi eraHilica
incl.ide necessariamenlc l'uno e Taltro di questi due moviuìonti. Aggiungiamo
che la limitazione che la dottrina ddle Id^^e apporta a quella del divenire
continuo, non può salvare questa, se le Idee sono trascendenti, dalle
conseguenze assurde che Platone ne fa derivare: a presenz.^ ch'ile Idee nel
mondo sarebbe incompa-ibih^ coi T indcterminatezzj che la tosi di Protagora e
quella .li Cratilo attribuiscono alle cose; ma Pe-^ist-nza delle hhe
trascendenti sarebbe])ertettamente coiieiliabil.; c^n <iuella di un mondo,
in cui non vi fo^se chj u.i fluire continuo Renza nient^ì di fisso e di
determinabile, come preten(le Cratilo, o delle semplici apparenze senz'éìleuiìa
realtà, come pretende Protagora -a parte nat^ralm-nt; la contraddizione
intrinseca inerente nel concetto di un mondo slmile, considerato per se stesso.
L'opposizione del Tecteio alla dottrina del divenire ò cosi evidente, e la
contraddizione che ne, risulta nella filosofia platonica è cos'i irisolubi.V
nell'interpretazione tradizionale di questa filosofia, che si potrebbe essere
tentati ad ammettere che Platone non adottò la dottrina del divenire che in
un'epoca posteriore a quella in cu^ scrisse il Teeteto, Ma la testimonianza
d'Aristotile Mei. è troppo esplicitamente contraria a quest'ipotesi: e
d'altronde noi vediamo Platone, in uno stesso dialogo, mostrar.d in un luogo un
propugnatore di questa dottrina, e in un altro un avver^^ario. Cosi nel Fedone
oppone alle Idee che sono sempre nello stesso stato le cose che non sono mai
nello stesso stato, ed esorta a guardarsi dall'opinione di quei sedicenti saggi
che non ammettono che niente nò nelle cose (io)v 7ipaY|iaxo)v ne nelle ragioni
sia costante, ma che tutto sia in un flusso e riflusso continuo come l'Euri pò,
e alcuna cosa non restì jìer alcun tempo nello stesso stato; nel Filebo parla
con ironia evidente della bontà della dottrina che tutto si muove continuamente
in ogni senso si tratta dell'applicazione di questa dottrina ai cangiamenti del
nostro corpo, non della sua estensione a un mondo trascendente, e nega che
possa darsi una scienza assolutamente vera delle co.-^e sensibili, perchè esse
non sono, non furono, e non saranno mai nello stesso stato. Queste contraddizioni
non hanno niente di st'-ano, perche corrispondono ai due punti di visti
opposti, da cui le cose, nel sist^.ma platonico, possono considerarsi. Nel
Cratilo mostrando che una moltituiinc di nomi implicano per la loro etimologia
la dottrina del divenire continuo, Socrate dice: Si, per il Cane, io credo di
non aver male indovinato, osservando poco fa che gli antichissimi autori dei
nomi, come la più parte dei sapienti dei nostri giorni, a forza di rivolgersi
in ogni senso ricercando la natura delle cose, sono stati presi da vertigine;
perciò ò avvenuto di parer loro che le cose stesse si volgono e si muovono
assolutamente. E la causa di quest'apparenza essi non l'attribuiscono alla
maniera in cui sono int9riorinente affetti, ma stimano che lo cose stesse
abbiano una tal natura che niente vi sia in esse di stabile e di fermo, ma
fluiscano tutte e si muovano, e si agitino in ogni senso, e sempre divcng-ano.
^leste parole condannano l'applicazione della dottrina del divenire al mondo
stesso dei nostri sensi, e non semplicemente la sua estens'one a un moodo
iperfisico: è ciò di cui si vede la conferma dove, per mostrare a Cratilo che
la conformità dei nomi a [uesta dottrina non prova la sua verità, Socrate gli
fn vedere che molti nomi non vi si contormano, ma indicano invece la permanenza
SHAGGY; perchè questi nomi indicano la permanenza supponendo l'esattezza delle
etimologie fantastiche del Cratilo nelle cose stesse, non m un mondo
trascendente. Nel luo^o citato non vi ha niente di più che nel Teetcto: ma
sulla fine del dialo-o Platone sp-ega chiaramente che, se eg'i rigetta il
divenire assoluto delle cose, è per la presenza, in esse, di un elemento
immutabile, cioè dell'Idea. Socr.: Gli autori dei nomi li hanno stabiliti
secondo il sistema che tutto è in un movimento e in un flusso continuo tale
sembra essere stata la loro opinione- ma quest'opinione, se realmente essi
l'hanno avuta, non è vera, ma sono caduti in un turbine, in cui sono stati
presi da vertigme e in cui trascinano e precipitano noi stessi. Esamina, O
AMMIRABILE CRATILO, ciò che io spesse volte sogno. Diremo noi che il bello
stesso e il buono e eiasenno degli esseri sono qualche cosa? si sa che nella
lingua platonica ciò vuol dire: esiste l'Idea del bello, del buono, e di
ciascun'altra cosa? o lo negheremo V~ Cratilo: Per me, o Socrate, io credo che
sono qualche cosa- SocR.: Noi non cerchiamo se <iuak-h'; viso o qualche
altro oggetto di qu sta sorta ò bello, e tutto ciò sembra fluire; ma
domandiamo: il bello stesso Cl'ldea) e sempre tale qual ù V-CuAr.:
Necessariamente SocR.: Sarebbe forse possibile di rettamente denominarlo
SHAGGY, se sempre fugge, e di dire che esso è e che è ta^e; o sarebbe
necessario che, mentre noi parliamo FIDO IS SHAGGY, esso divenga subito un
altro, e fugga, e non sia più tale? Crat.: Sarebbe necessario Sorc: Come
potrebbe essere qualche cosa ciò che non è mai nello stesso stato? se infatti
vi ha un tempo in cui è neMo stesso stato, è chiaro che per quel tempo non vi
ha in esso il minimo cangiamento; ma se ò sempre nello stesso stato e sempre lo
stesso, come potrebbe cangiare e muoversi, poiché non lascia mai la sua forma
iòsa? CRATILO SPERANZA GRICE: Inniun modo Socr.: Inoltre non potrebbe essere
conosciuto da alcuno: poiché mentre la potenza conoscitiva tenterebbe d’attingerlo,
esso diverrebbe altro, in modo che sarebbe impossibile di sapere che e come
sia, e perciò non potrebbe esservi alcuna conoscenza di ciò che non ò in alcun
modo determinato CRATILO: E come tu dici Socr.: Ma nemmeno si deve affermare, O
CRATILO, che esiste la conoscenza, se tutte le erse si mutano e niente
perniane. Se infatti questo stesso, la conoscenza, non si muta dall'esser
conoscenza, permarrà senq)re la conoscenza, e sarà conoscenza: ma se 1' z^.^o^
stesso della conoscenza si muta, e si cangia in un altro d^o^ di conoscenza,
non sarà neppure conoscenza; se perpetuamente si muta, perpetuamente non sarà
conoscenza. E secondo questo ragionamento non vi sarà nò È evidente che l'
£l5o^ della conoscenza di cui qui ritratta ò la specie o la forma stessa della
conoscenza reale, di questo mondo, non un suo archetipo trascendente; ma non lo
è meno che quest' £t5og è l'Idea, il concetto realizzato, perchè tutto questo
luogo ha per iscopo di mostrare che il divenire continuo delle cose non attinge
le Idee. 'ri'," il conoscente rvtoaóiisvov né il conoscibile
frvwoer^oófievov che non vi sarà, neiripotrsi del divenire assoluto, il
conoscente, lo ha provato nel tratto chi immediatamente precede; che non vi
sarà il conoscibile, lo ha provato sopra, mostrando che, in quest'ipotesi,
niente potrebbe essere conosciuto. Ma se sempre é il conoscente vtYvwaxov e il
conoscibile rtrvo3oxó|xevov e il bello e il buono e ciascuno degli esseri, le
cose che ora diciamo non sembrano io niun modo simili al flusso e al movimento.
Che questo sia il vero o quello che vogliono i partigiani di Eraclito e molti
altri, non è forse facile di decidere; ma non ò di un uomo saggio scttomettere
se stesso e la sua anima all'impero delle parole, e fidando in esse e nei loro
autori, affermare, come uno che sa, e avere di se stesso e delle cose la
cattiva opinione, che niente vi ha di stabile, ma tutto cangia come l'argilla,
e credere che le cose xà TTpaniaxa abbiano la stessa disposizione che gli
uomini malati di flussione, cioè che tutto Tidvxa xpV^Iiaxa sia in uno
scorrimento e m flusso continuo L^ parole Tipar^iaxa e xpv^il^axa e sovratutto
le parole sottolineate di se stesso provano che 7/ hr/lo, il buono r ciascuno
dectli esseri sono ovMantemente lì hello sfesso, lì buono e ciascuna defili esseri,
di cni sopra ha tìomandato se deve dirsi o no che sono qualche cosa, vale a
dire le Idee. Dunque il conoscente e il conoscibile, che appartengono alla
stessa sorio, sono puro della Idee. Ma qvLe^to conosr.'nte e conoscibile non
possono ossero qualche cosa di diverso dal conoscente e conoscibile di cui è
quistione nella proposizione immediatamente i.recedente. Ora in questa
proposiziono si tratta cort amenta del conoscente e conoscibile di questo mondo
reale, non di qualli di un mondo trascendonte. Notiamo elio questo conoscente è
la stessa cosa che la conoscenza e l'siao della conoscenza di cui sopra: si sa
infatti che Platoue dà alle idee ora il nome astratto e ora il nome concreto. N
la dottrina del divenire continuo, che Platone respinge, ò quella del divenire
continuo delle cose sensibili. L'immanenza dell'essere, cioò delle idee, nel
divenire è confermata dal Sofista. Ma prima di mettere questo luogo sotto gli
occhi del lettore, occorrono dello spiegazioni sulla dottrina dell'immutabilità
dell'idea, che, quantunque non abb'ano il legame più intimo con rargcmento del
presente numero, pure non saranno una digressione inutile, pcrclu> il nostro
scopo non ò solo di provare l'immanenza delle idee platoniche, ma anche
d’elucidare, per quanto ci è possibile, la loro nozione. L'idea è il concetto
realizzato, e riguardato come uno ìlei molti. Cosi le determinazioni dell'idea
non sono che le deterniinazioui stesse delle cose subordinate all'idea, cioè
quelle che sono comuni a tutti gì'individui della specie. Bisogna dunque,
rappresentarsi l'idea xome un individuo astratto – THE ALTOGETHER GIRL LOVES
THE ONE AT A TIME SAILOR, vale a dire f-pogliato di quegli attributi cLc non
sono comuni a tutta la specie: quest'individuo astratto – SPECIMEN ASTRATTO --
à presente in tutti gl'individui concreti, uno e lo stesso in tult'. Sarebbe
per conseguenza in contraddizione con la nozione stessa dell'idea platonica il
supporre che degli attributi, che appartengono a tutti grindividui o SPECIMEN
della specie, non appartengano all'idea, ovvero che appartengano all'idea degli
attributi PREDICATO PROPRIETA SHAGGY che non appartengono agl'individui della
specie. Ora ò un attributo comune a tutti gl'individui p. e. della specie umana
di vivere, di nascere, di morire, di svilupparsi, di pensare, di camminare,
ecc. Bisogna dunque ammettere nell'uomo in so, nell'idea, questi attril)iiti e
tutti gli altri simili denotanti un cangiamento, e quindi una successione.
Senza dubbio il cangiamento e la successione che questi attributi denotano
nell'uomo in se, devono dlistinguersi da quelli che essi denotang.amento ed,
una sncccssionc che occupano una portmpo; ...ycce,1 ca„.iaD,cnto e la
suces«ioue che rsi.tono ueir uomo i„ se,,.on possono occupare una po;. rt:,;ro
"^» un te.npo 0, n un altro tempo determinato, N attritermi: tV:'"''
u-^t--n.nviduo terminato, e non alinonio considerato in astratto cioò ne
concetto comune. Vn. successione che no'n 1' U'^JiO n. alcun tempo deternìinato
non è né più né me o jnconcep,bi.e di una, ranc.o.. a che non ha
«'.cu.;:;:'" t.ta determinata o di t, n IZZING HAZZING animale che non è
di alcuna specie determinata URMSON AN ANIMAL IN THE BACKYARD: NOT my aunt or
an ant, but a middle-sized mammal: questa concezione non ùnplica alte T/I.lea.
come Platone .lice noi Ti»<e„ o-HS b è fuori .1«I tempo, La sn„ ote. ni. à
non signiliea Co os.a esis.e .ut h, o i aurjbiito coinun.ì n, tuli
rri'in.llv'U.i; r» i "^t un iv (oli V l^^»' i' loro conc.Uo cornane,
ohUietston. a .n un tom,.o determinato, perchè, «o.ta non oon.pe.e ci, a «n
m.lm.Uu, .lelonninato; né l'esistenza por,„o iUenpo, e .ooncoi.jre 1 I.loa
bisogna . liin.iiij fare astrazione .lol temi.o-consi .orato corno „a porzione
o co„ la .o,,.|là soTintìni^a ::i::;o;rcT;^^ l'e e^i n,Tl, ',^-X"^-'n..-.
Così por .-IVe unVe la ' '"M'I/cemonto ch'essa r jL . i:;a;ir:ci;
;^rr:uo\itmi:;"Mf'"' lempo. Ma occuparo luito il fn»ii.\ una
propnoià, non «IoH'T.Ia.i i„ tom,,,) u impossibilità logiche ciie quelle
inerenti in generale alla r alizzazione degli astratti. É vero però che essa ha
questo (li speciale, di presentare una insuperabile difficoltà verbale. Si dirà
che l'uomo in sé nasce, muore, cresce, cammina, ecc.? QUESTE EXPRESSIONI SONO
IMPROPRIE, perchè esse suggeriscono necessariamente l’idea IMPLICATURA che questi
avvenimenti hanno luogo nel tempo. Si dirà invece che NON nasce, non muore, non
cresce, non cammina, ecc.? L’IMPROPRIETA NON SARA MINORE, perchè ii significato
IMPLICATURA di queste parole esc'ude che questi attiibuti: nascere, morire,
crescere, camminare, ecc. siano rappresantati nel mondo ideah». Siamo in una
REGIONE INACCESSIBILE air immaginazione, e per conseguenza anche ALLA LINGUA,
poiché un pensiero che può essere espresso nettamente suppone una consistenza
logica, che cessa nece-su-iamant3 là dove finisce il dominio dell'intuizione
sensibile – SRAWSON GRENZEN DER SINNLICHKEIT. Quando IMatone dice che lldea è
sempre la stessa (icl ;^ aOxyJ , sempre uniforme Oiovosieà^ àst ov il bello in
sé e ciascun esrjere in sé (2i, sempre allo stesso modo àcì (oaaOxo)^ (:] e nello
stesso stato àsL xaxi xaOxa, che è immobile i àsi xaxà xaOxà i/^ov àxivVixwc;,
che non vi ha ia es a cangiamento o al'erczione alcuna, FU., Pnnìif'n,, Polìt.
(U3 d ro*}i-., rVrrr., ecc. Conv,, Frdom' Fu, Follt, , ('ralA\\'ò o, Tini.2d i\
F.done'lf^ c-, e, HO b, Ik,'p, a, e, oce. ^ /'/'. ,5S a. Polii., Fedone, SO b,
Tim2S a,, y»VjA , o, , ecc. Ti,n, Fedone . S •stSt 5 i ì i ì che non nasce ne
perisce, non cresce ne decresce, non diviene più vecchia nò più giovane, ecc.;
T intenzione di queste e simili espressioiii è sia di escludere dall'idea i
cang'iamenti che avveogono nel tempo, sia di affermare che l'idea si ritrova,
una e sempre la stessa, senza cangiamento o differenza alcuna, in tutti gr
individui successivi che riempiono il tempo. Ma questa maniera di esprimersi,
d'altronde inevitabile, si presta facilmente ad un'interpretazione inesatta
dell'idea platonica, come una forma assolutamente immobile e priva di qualsiasi
attività; anzi, se dovesse prendersi rigorosamente alla lettera, la
giustificherebbe. Per dare forza a questa interpretazione, agli equivoci
occasionati dalle espressioni platoniche, si aggiungerebbero le cs'genze della
nostra facoltà rappresentativa, poiché e evidente che rimmaginazione può
rappresentarsi j)iù ffjcilinente una sostanza immobile e inattiva che esiste
sempre la stessa per tutta la durata del tempo – THE ETERNAL HORSENESS IN
HERSELF --, anziché un'entità nssolutflmente astratta, posta fuori del tempo, e
in cui vi ha del cangiamento e della succ» ssioi;e, ma un cangiamento e una
successione che non avvengono nel tempo. Questa inlerpretaziore delle Idee
platoniche ha avuto effettivamente luogo. È cosi infatti che se le rappresenta
Aristotile -- WITH FRIENDS LIKE THAT H. P. GRICE: in un gran numero di luoghi
egli attribuisce ad esse l'immobirtà, evidentemente in un senso asci) flL,
Tim., Coni-,, Fedujit', SO b, 7iV^>. Coui'Uo Tim, Mei. Top,, Phys,, Kth.
Jùtd,, ecc. soluto che esclude pure questo mutamento estratemporaneo di cui
sopra abb'amo parlato, e le chiama anche le sostanze immobili; ed è notevole è
un'osservazione che potrà giovarci in seguito che esclude esplicitamente da
esse ogni attributo esprìmente una facoltà di ago di patire Tioir^xixòv yj
TiaGyjTixóv. Sembra anche che questo fosse, presso i contemporanei, il concetto
che volgarmente si ha dell’idee: ecco p. e. un argomento, che Alessandro
d’Afrodisia dice impiegato dai sofi t', per concludere IL TERZO UOMO – IL TERZO
UOMO è una obbiezione che i contemporanei fanno al sistema dell’idee, e che
consiste a dedurre dai principii stessi di Platone la necessità d’ammettere una
terza specie di entità, distinte dall’idee e dagl'individui: Quando diciamo
l’uomo cammina non lo diciamo dell'Ideri, che è immobile, nò di alcuno dei
singolari, che sono inconoscibili; LO DICIAMO DUNQUE D’UN TERZO UOMO. Questa
interpretazione dell’idee ò evidentemente incompatibile con le esigenze più
indispensabiii del sistema: il mondo ideale, cosi concepito, rappresenta una
natura, per dir così, morta, non la natura reale. L'uomo in »ò, senza movimento,
senza attività, senza sviluppo, sarebbe, non la leabzzazione del concetto
dell'uomo, ma un'immagine del cadavere umano Nel Sofista Platone respinge
questa nozione delle Idee che ne fa delle sostanze immobili e inattive. Lo
straniero clea'e che è il personaggio che in questo dialogo rappresenta i
concetti dell'autore, dopo aver distinto due classi di filosofi, di cui gli uni
riducono Mt't. Top, Alex. Aphr. in pUit, .tutto il reale al taDgibile e alla
materia, mentre gli altri sostengono che il vero essere Fono certe specie
intelligibili e incorporali, e i corpi di quelli e la loro pretesa realtà
riducono in polvere, ch^'amandola, non cfs. re, ma una certa genesi fluente;
propone questa definizione deiressere, che deve convenire tanto al corporeo,
quanto all'incorporeo: ciò che ha una facoltà qualsiasi di agire o di patire. I
materialisti non avranno difficoltà ad accettare questa definizione; ma come
l'accoglieranno gli amici delle Specie? Essi ci obbietteranno, dice lo
straniero di VELIA, clic la facoltà di falire e di agire xoD 7rdoxsiv xal
Twoistv compete alla genesi, ma all'essere non compete né l'una né l'altra. IL
VELINO combatte questo concetto, dimostrando che anche le Specie ag'scono e
patiscono, e che sarebbe un'assurdità di credere ch'esse siano immobili, o, ciò
che vale lo stesso, di non ammettere del movimento e delle cose mosse in quanto
mosse. Chi sono gli amici delle Specie? Alcuni interpreti credono che si tratti
di qu?»lcuna delle scuole filosofiche contemporanfe o anteriori a Platone; chi
vede in essi I VELINI DI VELIA, chi i Pitagorici di CROTONE, chi i Megarici,
chi qualche altra scuola di socratici distinta da quelle di cui conosciamo le
dottrine. Di tutte queste supposizioni é l’ultima che sarebbe la più logica;
perché la teoria dell’idee, non solo non si ha alcuna ragione di attribuirla ad
alcuna di quelle scuole di cui si conoscono le dottrine, ma sarebbe anzi
assolutamente incompatibile con queste dottrine che se ne conoscono Ma anche
questa supposizione cade innanzi alla testimonianza d'Aristotile, che dà
Jlatone come l'introduttore del sistema dell’idee; obbiezione insupcrabi'e che
é comune a Mi't T Klh. yicoìH,, ecc. tutte, e alla quale bisogna aggiungerne
un'altra, cioè che la teoria dell’idee, vale a dire la realizzazione dei concetti,
suppone la dialettica, vale a dire un metodo che produce la scienza a priori,
deducendo questi concetti realizzati gli uni dagli altri, e non possiamo
attribuire un sim'le metodo a nessuna delle i^cuole filosofiche autcriori o
contemporanee a Platone – GORGIA LEONZIO GRICE. La dottrina dell’idee essendo
csclusivanrnte platonica,^// amici deUe Specie non possono essere altri, per
conseguenza, Uie Platone e i suoi. Noi abbiamo visto che corre un'inesatta
interpretazione del sistema delle Idee, secondo cui queste si concepivano come
delle sos:aiize immobili e prive di qua^iasi facoltà di agire e di patire. Il
Sofista, atiribueiido questa concezione agli amici delle Specie, ci prova che
(lue^t'interpretazione trova anche credito nella scuola platonica. Tuttavia noi
non dobbiamo ammtf.cre che Platone, combattendo nel Sofista l'immobilità delie
Idee e la mancanza in esse della facoltà di agire e di patire, intenda
solamente respingere questa falsa interpretazione della sua dottrina: se cosi
fosse, non si comprenderebbe come egli pò es^e attribuire questa falsa
concezione delle Idee agli amici delie Specie in generale. Senza dubbio, il
su(» intendimento finale é di rigettare !a falsa interpretazione che veniva
data ai suoi concetti; ma subordinatamente a questo, ne ha anche un altro, ci(é
di condannale quelle espiessioni di questi conceiti, che noi iroNianio nei suoi
scritti o di cui aveva fatto uso nel suo insegnamento orale, le quali avevano
dato luogo a questa falsa interpretazione, e anche se dovesseio prendersi in un
senso sirettamente letterale, la giustificherebbero. proposizioni che egli
condanna che le Idee sono immobili e sempre nello stesso stato, che non hanno
la facoltà di agire e di patire, che l'essere vero non vive, non Ili pensa, non
si muove, ecc. possono prendersi in due sensi: come dplle espressioni improprie
del concetto che le Idee non sono soggette ai cangiamenti nel tempo, o in
questo senso appartengono o potrebbero appartenere a Platone stesso; o come
Taifermaziono che le Idee non sono soggette assolutamente ad alcun cangiamento
cioè né temporaneo nò estratemporan'^o, e in questo senso non potrebbero
appartenere che ad ALCUNI degli amici delle Idee – CATEGORY MISTAKE --, perchè
certamente Platone stesso non ha mai potuto pensare cosi. Platone condanna
queste proposizioni, tanto se si considerino come semplici improprietà di
lingua – CATEGORY MISTAKE --, quanto se si con^derioo come affermazioni di un
concetto erroneo; ed è perciò che può attribuire le proposizioni condannate
agli amici delle Idee in genera'e. Premesso ciò, ven'amo ora al luogo del
Sofista che ci ha portati a questa dlsgressione. Esso fa parte delia
discussione contro le Idee immobili, ed è il seguente: Straniero di VELIA: Ma
che? per Giove! crederemo veramente che il movimento, la vita, l'anima, l'
intelli Tanto è vero che Platone condanna, nei parUgiani deU' inattività e
impai^^ibilità delle Idee, le sue proprie espr3«jsioni che hanno dato luogo a
una falsa interpretazione della sua dottrina' ohe, per indicare gli stessi filosofi,
egli si serve pure dello parole: quelli che dicono che gli esperi quanto alle
Idee sono sempre nello stesso stato e allo stesso modo Cxaxà xaÙTà (baaólto^,
riguardando indubbiamente queste determinazioni come equivalenti a quella
dell'immobilità. Le espressioni essere sempre xaxà TaùxQC e ó)aaÓTW^, applicate
alle Idee, s'incontrano ad ogni momento nei dialoghi platonici Questa
contraddizione tra il Sofista che afferma il movimento e l'azione delle Idee, e
gli altri dialoghi che li negano contraddizione, badiamo, meramente verbole
spiega l'indicazione di Diogene Laerzio, che Platone applica allo Ideo dei
termini contrari, chiamandolo non mohili o non in (/uiete Diog, Laert. genza
s^no assenti da quello che realmente è jiavTsXw^ ov, e che cs^o né vive né
pensa, ma sene sta immobile, senza pos-iedere Tau^ustae santa iotelligcnza?
Teeteto: Sarebbe, o ospite, concedere una proposizione troppo strana Stkan.: Ma
diremo che prssedc Tintelligenza, e nou la vita? Teet.: E erme dirlo! Stiian.:
Ma accordandogli runa e l'altra, negheremo ch'egli le abbia nelTanima? Teet: K
in (jual altra parte potrebbe averl»^? Stran.: Ma si può ammefere che abbia
l'intelligenza, la vita e l'anima, ma che Cf^sendo animato sia nondimono
iiiimol)ilc? Teen.: Tutto ciò mi sembra assurdo Stran.: Bisogna dunque
ammettere che il mosso e il movimento sono Thet.: K come no? Stran.: Da ciò
risult», o Tteteto, che se gli esseri fossero immobili, in nessuno, su nessuno
oggetto e in nessun luogo potrebbe esservi intelligenza Teet.: Evidenteirente Questo
non vuol <lire, come intendono alcuni, che si deva attribuire
l'inteMigen/.a, la vita, l'aniina e il movimento alle Ideo in generalo porche
i'Tdoa d'una cosa non può avere che gli attributi stessi che ianuo parte dal
concetto di questa cosa ma solo a quella di cui può essare quistione sa
l'abbiano o no, vale a dire alio Idee dagli esseri intolliganti, animati,
viventi a mobili Sin qui Platona parla evidtuitcmanta dal moviuianto, della
vita, dall'anima e doll'intollig(»nza nello Idee, vale a dire, idaali. ;
L'intelligonza e, per consoguenza, anche il movimento, di vui si parla qui,
sono l'intolliganza e il movimento reali, cioè nello cose, e non |»lìi corno
s()])ra, l'intelligenza e il movimento ideali» cioè nelle Idee: quasi o divarrà
più chiaro dal seguito. Intanto ciò che ri-julla dal ragionamento precedente è,
non che l'intelligenza reale -appone il luovimanto raalo, ma che l'intelligenza
ideale sappone il movimento idealo. Per consaguanza Platone, considerando la
prima di qunta due jii'o posizioni coma il risultalo del ragionamento
pracad'^nto, la riguarda coma equivalente alla seconda; ciò che egli non
potrab])e fare, se il movimento e l'intelligenza ideali fossero par lui
separali dall'intelligenza e dal movimento reali, e non invece identici con
c^si.llt -^ .!' )'Hf.Stran.: Ma se ammettessimo che tutto ò in movimento e in
agitazione ALLA RYLE GRICE, anche coi qiesta proposizione leveremmo
rintelligeiza dagli esseri Teet.: Come? Stran.: Pare a te che senza il riposo
possa mai esistere ciò che è nello stesso stato, della stessa maniera e nello
stesso rappoito? Tbet.: Giammai Stran.: E senza di ciò credi tu che vi sia o vi
sia stata mai in (jiialche luogo jntell'genza? Teet.: No Stran.. Ma si deve
combattere con tutte le ragioni quello che, di^^truggendo la scienza, il
pensiero e l'intelligenza, nft'enni checchesia su qualche cosa Teet.: t^
combatterlo con l'orza Stran.: E dunque necessario che il filosofo e quegli che
tiene in pregio queste cose nò approvi quelli che dicono il tutto immobile, sia
come uno I VELINI DI VELIA sia come molte Specie, nò dia ascolto a qu^l'i che
mettono Tessere in un movimento universale gli Eraclitici, ma voglia, imitando
i fanciulli noi loro desiierii, che l'essere il mondo ideale e il tutto
comprendano tanto le co^e immobili quanto quelle che sono in movimento. Questo
luog" non esclude solamente riminobilità assoluta delle Idte, ma, come il
luogo citato del Tedeto e quelli degli altri dialoghi che hanno la stessa
portata, esclude anche il divenire assoluto delle cose sensibili. Di più, esso
esprime nettamente il concetto dell'immanenza delle Idee nel divenire. Noi
abbiamo già notato che il movimento e l'intelligenza ideali vengono riguardati
come equivalenti al movimento e all'intelligenza reali. Notiamo ancora
l'identificazione tra il mondo idea'c e il tutto contenuta nelle parole sugli
amici delle Idee: quelli che dicono il tutto, come molte Specie, immobile; e
aggiungiamo infine che la stessa identificazione ha luogo, dove ò detto di
essi; quelli che dicono elle gli esseri, secondo le Idee xax's'idr^ sono sempre
Urlio stesso stato e ('ella stessa maniera. Platone non potrebbe esprimersi
cosi, se per gU amici delle Specie vale a dire per lii e pei suoi - il mondo
immu abile delle Idee e quel'o continuamente cangiante delle cose fossero due
monli separati, anziché, come abbiamo detto, due aspetti d'un solo e stesso
mondo, che nel suo aspetto vevo^ cioè come un comples-o d'Idee, è immutabile
con le restrizioni, por Platone, che sopra abbiamo fatte e nel suo aspft^o
apparente^ ci< ò come un complesso d'individui, è sottoposto a un
cangiamento continuo. Noi abbirmo percorso le prove più importanti della
immanenza ddle lice platoniche: ma la nostra dimostrazione sarebbe incompletn,
se non esaminassimo pure le ragioni dell'interpretazione contrariai. Queste
possono ridursi alle seguenti. Il motivo principale deh' intrpre%azione
trascendentalista ò nella natura stessa del sistema delle Id^^e. Quando Platone
chiama l'Idea tó 6v, oùata, aOxò xaO-'aOxó, Xwpoaxóv, ecc.; in una parola quando
mostra chiaramente ch'egli fa delle Idee? Itret^ante ipostasi IPOSTASI GRICE,
cioò che le riguarda come sostanze, di cui ve ne ha una, e una sola, per tutti
gli oggetti che si raccolgono sotto un nome generale come SHAGGY; l'interprete
trascendentalista ne conclude immediatamente che le Idee per Platone srno
separate dalle cos*. Que.ta conclusione è fondata sopra un principio
perfettameite giusto, e oè che una sostanza non puòessere al tempo stesso uà
attributo, e non può, se essa è un ca, iu'^rire simultaneamente in una
moltitudine di FO sgotti. Ma la dottrina di Platone consiste precisamente in
questo, che gli attributi generali delle cose sono elevati al grado di
sostanze, senza cessare perciò d'inerire nelle cose come loro attributi, e che
ciascuna di queste sostanze ò riguarilata come Tudo nei molti, cioè come
presente al tempo stesso, una numricwmente eia stessa, in tutti i soggetti a
cui T attiibuti è comune. Senza dubbio questa dottrina è inconeepib'le e
contraddittoria : dell^ ipostasi IPOSTASIS SUBSTANTIAION come le Idee
platonich'^, noi lo abbiamo più volte confessato, non potrebbero concepirsi,
per quanto la loro coccezione è possibile, che come Feparate dalle c«^se. Altre
inconcepibilità noi troviamo nel sistema delTimmanenzì, se dalla formula Viuio
nei molti passiamo a'ia formula rimo é molfi: è un non seupo di affermare, come
f>i Platone e come è una cnns.»gueuza necessaria della realizz^izione degli
astratti, che il più astratto e il più concreto, il Genere e lo S^pecie, sono
al tempo stesso difterenti ed id.mtici; né Tinconcepibilità è evitata perchè
Tiino e i molti si riguardano com»». duo stati su^c'ssivi n l!o sviluppi
dell'esser», anteriorità e e posteriorità; perciò la huccessione dovnbbe essere
cronologica e non logica soltanto. L'interpret/iz'one trascendentalista ha
dunque il vantaggio, bisogna riconoscerlo, di evitare una gran parte delle
inco-^copiblità inerenti al sistema del'e Idee: ciò spiega la prevalenza di
quest'interpretazione, se sì rifletta alle <l ffi.'oltà di un esame accurato
dei testi e di una su'ficiento intelligenza dei mo ivi del sistema. Ma vediamo
ora gl'inconvenienti, per dir cosi, intrinseci della trascendenza do le Idee.
Prima di tiitt>, qnantunque elevare le astrazioni al grado di realà
esi.stcnti per se stesse sia in tutti i casi un'imposiblità man'fe-Jta, è
tuttavia una conseguenza necessaria del e U'ggi della credenza che di queste
due ipotesi, l'una che ammette che queste astrazioni siano parti integranti
delle cose concrete, e l'altra che ne fa delle ipostasi solitarie collocate al
di fuori dello cose concrete, è la seconda che ci sembra più strana e più
evidentemente impossibile. La ragione è ovvia: è che essa è in una opposizione
più aperta con lo nostre abitudini mentali: la prima ipotesi si conforma a queste
abitudini in due punti importanti, cioè non ammettendo altri esperi che gli
esseri concreti, quantunque questii siano da essa decomposti in elementi
astratt', e facendo dell'astratto, non un'enti'à isolata, ma un che
d'inesistente nel concreto stesso. Ma V inconveniente più grava
dell'interpretiziona trascendentalista è che l'ipotesi delle Idee diviene in
qu-sc' interpretazione senza motivo e senza scopo. Lo scopo di un'ipotesi
qualunque, legittima o illegittima, è di spiegare i fenomeni: ma Tipof^si delle
Idee trascendenti non fa niente per la 8piegaz'on<^ dei fenomeni, perchè non
vi ha tra le Idee e la cose alcuna relaz'ooo immaginabile di causa e di
efiFetto. La capacità delle l^ee a produrra la cose o i loro fenomeni non è uè
una verità o pretesi venta evidente per se stessa, come deve essere pertanto
una connessione cau«=iale propria a fornire una spiegazione metafisica poiché
nessuno pretenderà che vi ha tra l'esistenza delle Id"e e l'i'sistenza
delle cose una di quella connessioni visibili a priori, in cui i metafisici
fanno consistere la effic3nza cansa'e ; e non è nemmeno un'induzione
dell'esperienza, perchè l'esperienza non ci mostra alcun caso, in cui dei
moderi, quali gl'interpreti trascendentalisti si rappresentano le Idee,
producono le loro cjpie. Non vi ha lutanti alcun'ipotesi possibile vale a dire
alcun'ipotesi che lo spirito umano possa ammettere, vera o falsa, probabile o
improbabih~ che non si conformi a questa condizione, cioè la capacità
conosciuta della causa supposta a produrre l'effetto, sia che questa capacità
si ammetta come una verità a priori, sia che si ammetta come un risultato della
esperienza. Le Idee trascendenti non hanno dunque alcun'attitudine a spiegare
le cose: è questo del resto an fatto evidente di cui convengono ^li stessi
interpreti trascendentalisti. Tuttavia Tintcrprete trascendentalista potrà dire
che questa inettitudine alla spiegazione dei fenomeni è anche comune alle idee
immanenti. Senza dubbio, la presenza delle idee nelle cose spiega, come abbiamo
altra volta osservato, porche le cose possiedono gli attributi corrispondenti
alle Idee, e lo spiega nel senso metafìsico della parola spiegazione cioè in
quanto vi ha tra la presenza dell'idei e la possessione dell'attributo una
connessione necessaria e visibile a priori. Ma questa è, come abbiamo
osservato, una di quelle spiegazioni apparenti o illusorie che consistono a
ripetere in altri termini il fatto stesso che si tratta di spiegare; e
quaniram-hv^. non fo so tale, siccome la possessione -- IZZING HAZZING --
dell'attributo è un fatto intelligibile e la presenza dell'idea un fatto
as-olurjim-nto ininteMigibile, cosi non vi avrebbe alcun profitto a introdurre
l'ipotesi delle idee, perchè non si farebbe che spiegare il chiaro per
l'oscuro. Sembra dunque, a questo punto di vista, vale a dire codsderando le
Idee come cause e le cose come effetti, che le Idee immaneuii Questa evidente
inefficaci» delle Idee neH' ini erprci azione trascendentalista, qual è ammessa
daUa più parte dji critici nioderni, vale a dire quella che fa delle Idee
allrettanto sostanze separate, è il fondamento precipuo dell'interpretazione
teislicn, eioò di queU'altra forma dell'interpretazione trascendentalista ohe
vede nelle Idee i pensieri dell'intelligenza creatrice. Quest'interpretazione dà
almeno al sistema delle Idee un motivo, e un motivo assai tacile a comprendere:
se non che essa è interamente arbitraria. L'interpretazione che fa delle Ideo
delle sostanze separate da Dio e dalle cose è anch'essa in contraddizione coi
testi, ma non lo è d'una maniera cosi evidente, oltre che può appoggiarsi,
almeno sino ad un oerto punto, soli'autorità d'Aristotile. non siano più che le
idee trascendenti capaci di fornire una spiegazione della natura: ma per
comprendere la vera causalità delle Idee e come esse diano una spiegazione
della natura, noi dobbiamo metterci a un altro punto di vista. e da questo
vedremo che lo scopo del sistema delle Idee suppone come condizione necessaria
la loro immanenza. Il sistema delle Idee è un realismo dialettico, vale a dire
esso ammette, come un complemputo neccessario della realizzazione dei concetti,
un metodo per iscopriro a priori questi concetti realizzati, deducendoli
progressivamente gli uni dflgli altri, allo scopo di identificare il rapporto
logico tra il principio e la conseguenza in questa deduzione, al rapporto
ontologico tra la causa e r«ffet^o. Platine ha dunque realizzato i concetti,
affinchè rincatenaincuto logico, ch'egli stabilisce fra di essi, possa avi-re
l'aria di un incatenamento causale. Infatti se il principio e la conseguenza
fossero delle semplici nozioni e noa delle nozioni realizzate, il principio non
potri^bbe considerarsi come la causa e la conseguenza come l'effetto, la causa
e l'effetto essendo df»lle cose o dei fa'ti reali e realmente distìnti, e non
delle semplici astrazioni mentali. Ma il principio e la conseguenza essendo
delle ciitità reali, avviene che la loro sequenza logica somiglia a una
sequenza causale, poiché T esistenza dell'entità principio trascina
necessariamente la esistenza dell'entità conseguenza ^ questa esiste perchè
esiste quella. I) principio e la conseguenza essendo, non delle semplici
proposizioni generali, ma le verità obbiettive corrispondenti a queste
propos'zioni, ne risulta che il principia non è semplìceote una premessa per
dimostrare la conscguenza, ma é la condizione reale dalla cui esistenza dipende
l'esistenza della conseguenza: In una parola il principio non è semplicemente
il prinei•K^ u pium cognoscendi, ma é anche il principium essendi.
QaestMncatenamcnto causale tra le nozioni realizzate è una causazione
efficiente, perchè il It^gam ^ tra la causa e reffetto cioè tra il principio e
la conseguenza è necessarlo e visibile a priori. Cosi lo scopo dell'ipotesi
delle Idee é d'introdurre nella natura una causalità, che sia, non un semplice
rapporto di sequenza Invariabile, ma una caumlità efficiente, cioè tale che tra
la causa e Teffetto esista un legame intrinsecamente evidente e necessario.
Ecco perciò come lo scopo deiripotesi delle Idee suppone necessariamente la
loro immanenza. Sq le Idee sono gU elementi costitutivi delle cos^, il loro
incatenamento logico sarà lo sviluppo reale delle cose, il modo in cui le cose
si producono; e la dialettica, cioè la deduzione delle Idee, aarà la
spiegazione della natura. Ma se le Idee sono fuori delle cose, la filiazione
delle Idee non sarà più la prodazione, Tincatenamento causale, delle cose
stesse; e la dialettica non sarà più una spiegazione della natura, poiché essa
avrà per oggetto, non il mondo reale, ma un altro mondo, che non ha sul mondo
reale alcun'influenza immaginabile. Aggiungiamo che, nella ipotesi della
trascendenza, la stessa filiazione logica delle Idee sa-ebbe impossibile,
perchè questa suppone ridentità e non semplcem'-nte la differenzi) t a Tldea da
cui altre Idee si deduzione, e queste altre Idee che se ne deducono. In
effetto, le conseguenze sono le conseguenze del principio, perchè sono
contenuto implicitamente nel principio, vale a dire perchè il principio è le
conseguenze stesse allo stato implicifì. Senza quest'identità tra il principio
e le conseguenze cioè tra lo verità obbiettive che corrispondono alle
proposizioni che si chiamano, al punto di vista ordinario, principio e
conseguenze non vi sarebbe deduzione possibile. Nella dialettica platonica il principio
é V Idea generica, e le conspguenze sono le Idee specifiche: cosi questa
dialettica suppone che tra Tldea generica e \à Ideo specifiche vi sia identità,
e non semplicemente differenza; in altri termini suppone che Vuno sia molti e i
molti siano uno. Ora nell'ipotesi dell'immanenza, in cui le Idee generiche e le
Idee speci6che sono i generi stessi e le specie delle cose quantunque
considerati in a tratto, l'Idea generica è necessariamente identica con le Idee
specifiche. Ma nell'ipotesi del'a trascendenza, in cui le Idee sono separateda
1»3 cose e le une da'le altre, t-a l'Idea generica e le Idee specifiche non vi
ha più identità, ma semplicemente differetrza; l'I Ica generica non è più le
Idee specifiche allo sfato implicito, e Je Id< e specifiche non sono più
l'Idea generica allo stato esplicito; e per conseguenza non vi ha più tra le
Idee rapf orto di filiazione, percl.è la filiazione delle Idee è precisamente
questa esplicazioue progressiva dell'implicito primit'vo. Tra i motivi
dell'interpretazione trascendentalista, dopo la sostanzialità delle Idee e le
inconccpbilità che ut risultano nel sistema dcirimmanenza, dobb'amo assegnare
il secourio posto a un malinteso a cai si prestano facilmente molte
proposizioni di Platon^, in cui egli non fa in realtà che d'stinguere Io Idee
dalle cose Quasi tutti i luoghi degli scritti platoiiic', in cui si pretende
vedo? e u»ia prova diroila della srparaz'one delle Idee dalle cos'%
appartengono a questa casse: là dove Platone iio.i parli che di distinzione^ l'iaterpictc
trascendentalista intende: separazione. In alcuni di qresti luoghi P.'at-^r.c
distingue le I ee V. n. V. 4.0 dalle cose stesse, cioè dalle sostanze, in altri
dai loro attributi. Il primo caso non presenta alcuna difficoltà: le Idee
essendo delie sostanze, è naturale clie Platone parli delle Idee e delle cose
come di sostanze distinte distinte, badiamo, non «ejoaro/e . Quando Platone
distingue questo mondo e il Vivente in sé di cui esso è Tiramagine; questi
belli e il Bello in se stesso; que^ 8ti cerchi CIRCOLO e questa sfera umana e
il Cerchio e la Sfera stessa divina; quando cppone l'oggetto della dialettica,
che si riferisce alle cose che sono sempre le stesse, all'oggetto delle altre
arti che si riferiscono a questo mondo e a queste cose che continuamente
divengono; quando dice che vi hanno tre cose. Tessere l'Idea, il luogo e il
divenire ciò che diviene; che vi hanno due spei-ie di esseri, gl'intelligibili
e i sensibili; che gli oggetti eguali non S( no gli stessi che l'Eguaglianza,
ma questa è un es5sere altro da essi; che oltre (noLpd) le cose sensibili e le
intelligibili che cadono sotto un concetto comune si deve ammettere un'Idea di
quette cose; ecc.: se gl'interpreti trascendentalisti vedono Tim, Conv. FU. FU.
Tim. Fedone Fedone Fedone, Tim., Sof., ecc. Anche Aristotile chiama
l'universale « runa noLpd i molti, che è uno e lo stesso in tutti questi. Anal.
Poster. Talvolta, por indicare la distinzione tra le Idee e le cose, Platone si
serve anche deUa parola x^p^C separatamente. È ciò che fa nel Parmenide di
VELIA, dove il filosofo oleate domanda a Socrate s'egli '•0-? in qìiesti e
negli altri lunghi anàloghi a questi degli argomenti contro l'immanenza delle l
'e , é perchè quelli che anunottono questa seconda interpretazione non hanno
spiegato abbastanza chiaramente che le Idee platoniche, qnantunquenon esistano
fuori delle cose, S'^no nondimeno delle sost^^nze, cioè delle realtà
sussistenti per sq stesse, e non delle semplici astrazioni mentali. Il pronome
questo^ questi 65s, ouiog, indicante il mondo e gli oggetti S'nsibil', in
opposizione alle Idee, non significa che queste sono in un altro mondo, ma che
gli oggetti, a cui esso b\ rift-ridce, smo quelli che stanno presenti alla
nostra vista e chr» noi possiamo mostrare cri dito o con veramonle disling i3
X^P^C certe specie stessa sTSy] aùxà àxxa e X^P^C altro lato i partecipi di
esse; s'egli ere le che vi sia una somiglianza stessa X^P^C parte di quella che
noi abbiamo; un el^o^ dell'uomo j^oopCg di noi e di quanti altri sono come noi;
un elSog del pelo (SHAGGY), del fango, della macchia, ecc., xwpig, altri dal
pelo SHAGGY, dal fango, dalla macchia, che noi possiamo toccare. Nel Sofista
1'ospite di VELIA chiede agli amici delle Idee se essi dicono la genesi e i
essenza XPS distinguendole La parola x^p^C» bi^ogi^a fessarlo, presa in tutto
il suo rigore, significherebbe la trascendenzn ; e certamente Platone si
sarebbe guardato bene di servirsene, se egli avesse potuto prevedere che del
suo sistema si sarebbe data una falsa interpretazione che questo termine e i
suoi deterivati, coi loro corrispondenti nelle lingue moderne, sono appunto i
piii propri a formulara con ocncisione. Ma possiamo noi, foadanioci sa delle
espressioni isolate ed eccezionali, interpretare il sistema platonico in un
se.i-43 cha è in coatraddiziona con tatti i suoi concetti tondamentp'-i,
attarmiiti costantemente in quasi tatti i luoghi dei suoi scritti in cui si
parla delle Idee, quando d'altronde queste espressioni sono, al postutto,
suscettibili di un significato che le metta d'accordo con questi concetti?
Fedone, Tim., eco. y tn altro segno simile, non quelli che si possono, collie
dice Piatone, contemplare soltanto con rinteingenra. Non dobbiamo per altro
dimenticare che la ditinzion'ì tra le Idee e le co^e non è che uno dei due Iati
di questo rapporto ambiguo, al tempo stesso d' identità e di difiFerenzJ», che
il sistema platonico e gli altri costruiti sullo stesso tipo stabiliscono tra
l'astratto e il concreto, o, generalmente, tra il più astratto e il più
concreto. Talvolta Platone sembra negare V identità, come nella Repubblica, in
cui dice che quelli che non ammettono il Bello in sé vivono come in un sogno,
perchè credono che gli oggetti che somigliano al Bello, cioè che ne
partecipano, siano, non semplicemente simili ad cfso, Una delle maniere più
abituali a Platone di esprimere la distinzione tra le Idee e le cose per le
loro determinazioni contrarie, è r opposizione tra l'intelligibile e il
sensibile: essa implica ohe le Idee non sono oggetti dei sensi, ciò che del resto
è affermato esplicitamente nel Fedone, Tim, Hep., ecc. Qaest'opposizione
evidentemente è naturalissima anche nel sistema dell'immanenza: tuttavia
anch'essa si presta all'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis],
e può essere interpretata come una prova della trascendenza. Se si ammette che
le Idee sono in noi, dice Aristotile Top., bisogna attribuire ad esse delle
derminazioni contrarie: perehè, essendo in noi, esse cadrebbero necessariamente
sotto i nostri sensi, poiché per il senso della vista conosciamo la forma di
ciascuna cosa; mentre i partigiani delle Idee affermano che possono percepirsi
per la sola intelligenza. Qui Aristotile dimentica ohe, quantunque l' Idea,
essendo la forma delle cose, sia per conseguenza, in un certo senso, un oggetto
della percezione sensibile, pure questa non la percepisce come Idea, cioè come
sostanza separabile xcopi^XT^ , e perciò, in un altro senso, l'Idea non è un
o«rgetto della percezione sensibile. Peraltro l'identità tra 1'Idea e IL
PERCEPITO dai sensi è chiaramente affermata nella Repubblica, nel Fedone e,
luoghi già citati, ai quali aggiungiamo il Fedro, che citeremo in appresso. ma
la stessa cosa con rsso, mentre bisogna distingnéré l'uno dagli altri. Ma
queste parole non sono dirette che contro la confusione che Topiniono op^o-ta a
quella di Platone, cioè il NOMINALISMO – that bet noire -- , fa tra le Idee e
le cose. IL NOMINALISTA confonde le cose con le Idee, sia perchè prende le
imm^gin», cioè le cose, per esseri reali, mentre gli esperi reali non sono che
le Idee; sia ancora perchè IL NOMINALISMO, an mettendo che il nome generale
SHAGGY non SIGNIFICA altra cosa che gli oggetti concreti e indiv'duali, prrnde
crroneanente questi oggetti per IVggetto a cui ^i r feri-ce realmente il nome
SHAGGY – not just FIDO -- e il concetto generale, cioè ridea. La distinzione
tra la sostanza Idea e le sostanze cose ha pure per effetto di stabilire tra V
una e le altre dei rapporti che nelT esperienza non esistono che tra oggetti
separati. Quando le Id< e sono chiamate cause delle cose come ivi Fedine,
anche in questo può vedersi una prf va della trascendenza, perchè infatii le
cause e gli effetti empirici soi o, non solo discinti, ma anche separati. Ma
ciò mostra sempl'cmrnte che il rapporto tra le Idee e le cose nrn somiglia ad
alcuno dei rapporti che cadono sotto la nostra esperienza. Le Idee non sono
cause delle c<'Se come cause eflficiebtì propriamente dette, come c«use
motr'ci per usare V espressione d'Arié^totile, ma sfno cause nel scnso che la
ragione dell'esir^tere e del modo di esistere deU»^ cose è nclh». Idee.
Similtnen'c qu-«n io le I^ee sono chiamate nodelli ixapa5eÌYfiaxa e le ces^
immagini etxóvs^, stòcoXa, 6[ioiwjiaTa , Tim. e, Fedro, Proclo in Parm, Alcinoo
Intr. in PI,, ecc. D' altronde anche Aristotile chiama la forma
n(X.pdòZl'{[iOL{Y. Met,, Phys. r -^x^ ciò suggerisce naturalmente l'idea della
separazione, perchè tutti i modelli e le immagini che abbiamo visto o che
possiamo rappreseutaref, sono separati, e non sem])licemcnte distinti, gli uni
dalle altre. Il nomo d'immagini dato alle cose, in molti casi, ha evidentemente
lo scopo d'indicare la loro mancanza Ai una vera realtà: ma facendo anche
astrazione da questa circostanza, le Idee possono a buon dritto riguardarsi
come esemplari delle cose anche neir ipotesi dell'immanenza, poiché, immanenti
o trascendenti, Tuomo in sé e il cavallo in sé, che Platone ha creati, sono
sempre c'elle immagini degli urmìni e dei cavalli reali, immagini che,
rovesciando il ra^jporto rrale, egli chiama naturalmente esemplari, perché il
nome di esemplare conviene a ciò che è anteriore, e il nomo d'immagino a ciò
che è posteriore, e le Idee sono anteriori alle cose, non di un'anteriorità
cronologica, ma di un'anteriorità di natura, cioè logica e metaOsica. Le Idee
sono chiamate paradigmi, non solo delle cose, ma anche dei loro attributi È che
Platone distingue le Idee, non solo dalle prime, ma anche dai socordi. È ciò
che egli fa, per esempio, nel Fedro, in cui la bellezza sensibile viene opposta
alla bellezza vera, cioè all'Idea della bellezza. Questo richiede delle
spiegazioni, perchè sembra ia contraddizione col concetto stesso
dell'immanenza, la quale consiste essenzialmente neir identità delle Idee con
gli attributi generali delle cose. L' Idea è il concetta astratto e generale,
realizzato. Per conseguenza gli attributi dille cose sono identici alle Idee,
ma in quanto vengono considerati nel loro concetto generale, in astratto. Ora
perciò essi devono concepirt»i astrazion facendo dai soggetti in cui
ineriscono: la bellezza di questo fanciullo, la grandezza di questa superficie,
la bianchezza di questa carta, ecc. differiscono dalla Bellezza, dalla
Grandezza, dalla Bianchezza, ecc.in se s^e^ce, pe'^chè contengono delle
determinazioni che non esistono nel concetto astratto e generale della
bellezza, della grandezza, della bianchezza, ece. Prima di tutto la bellezza,
la bianchezza, la grandezza, ecc., quali attributi di questi soggetti
determinati, non sono rigorosamente conformi agli attributi omonimi che si
trovano in altri soggetti, ma ne differiscono per il grado, per la quantità e
per tante altre circostanze: cosi esse devono essere distinte dalla bellezza,
bianchezza, grandezza, ecc. quali oggetti dei concetti generali, perché
ciascuno di questi é uno e lo stesso in tutti i soggetti che ne partecipane. Ma
anche considerando la bellezza, la bianchezza, la grandezza in questi soggetti
determinati astrazion facendo dal grado, la quantità e le altre circostanze ìq
cui e se differiscono dagli attributi omonimi in altri soggetti, basta questa
determinazione, di essere l'attributo di tal soggetto determinato, perché esse
noi corrispondano rigorosamente agli oggetti dei concetti generali, poiché
questa d» terminazione non é una nota che fa parte del concetto generale. Ne
segue che tutte le opposizioni, che Platone stabilisce tra le Idee e le cose,
hanno pure luogo tra lo Idee e gli attributi considerati come proprietà
d'individui determinali. La Bellezza in sé è eterna, cioè fuori del tempo, ed
esente dal cangiamento; la bellezza proprietà di un oggetto determinato nasfe,
per sce, cresce, ecc.; la prima é polo intelligibile, perchè il senso non
percepisce a bellezza come sostanza, ma J^olo couìe U'i attributo; la bellezza
individualizzata, ehe è un semplice attributo, è sensibile, perchè il senso la
percepisce quale essa è; quella è una, perchè il concetto della belh zza è
unico; 1^ bellezza che è in un individuo determinato è altra, per la percezione
sensibile. dalla bellezza che é in un altro individuo determinato per CU', mentre
per r intelligrenza vi ha una sola bellezza,' una sola grandezza, una sola
bianchezza, ecc., per la percezione sensibile vi hanno molte bellezza molte
grand^^zze, molte bianchezze, ecc. Queste oppo^izioni^^mettono cipo infine air
opposizione suprema dell'essere reale e del fenomeno: queste molte bellezze che
i sensi percepiscono non sono in sostanza che la Bellezza in realtà unica, ma
cho, apparendo qua e là, por la partecipazione ad essa dolle azioni o dei
corpi' )mre molti. Ma perchè 1'intelligenza risolva queste molte bellezze
fenomenali nella Bellezza reah^unica, essa deve fare astrazione da tutte le
determinazioni che non entrano nel concetto comune come i mo'ti uomini si
risolvono nell'Uomo uno, facendo astrazione dallo difiFerenze individuali; come
i mo'ti Animali si risolvono nell'Animale uno, facendo astrazione dalle diff
renze specifiche; co ì perchè le molte bellez/.c si risolvano nella Bellezza
unica, per la cui parusia i molti belli sono belli, bisogna spogliarle
dall'inerenza in tnle o tal altro individuo determinato e da tutte le altre
crcostanze che le differenziano le une dalle altre. In riassunto, 1'attributo
Idea e l'attributo proprietà di un tal soggetto particolare si distinguono a
due punti di vista: il primo è più indeterminato, il secondo è più determinato,
perchè contiene delle determinazioni che non sono contenute nel concetto
comune, se non altre, quella d'inerire in un tal soggetto particolare; il primo
è l'essere reale, il secondo è il fenomeno, cioè l'apparenza obbiettiva di quest'essere
reale.i i,r Questa distinzione tra l'Idea e l'attributo individualizzato ha por
effetto naturale che, per indicare questa distinzione, Platone 8i serve
talvolta di certe espressioni che sembrano negare la parusia delle Idee nelle
cose. Cosi nel Fedro e distingue la scienza che è nell'esFere vero da q^iella
in cui vi ha cangiamento e che esi^^te diflTercnte nei differenti oggetti cho
ora cioè nella vita terrestre in cui l'anima non percepisce che delle apparenze
chiamiamo esseri. Qui la distinzione è fatta sopratutto al pun»o di vista
dell'opposizione tra la realtà e il lenoneno. La scienza che è nell'essere vero
è l'Idea della scienza, la quale, quantunque sa aùxr] xaG'aux^v, pure é l'atta
inerire in un soggetto, perchè, il mondo delle I ^ee essendo una
rappresentazione astratta del mondo sensibile, ciò che, come la scienza, nel
mondo sensbl'. inerisca in un soggetto, deve inerire inunsoggc to anche nel
mondo delle Idee Nel Convito, dopo aver descritto il progr.sso del ret^o amante
della bellezza, che dall'amore di un bel corpo passa a quello di tutti i b« i
corpi, e poi alTamore e alla contemplazione del!a bellezza delle anime, dei
costu-ni, delle leggi, delle Pcienz, per pervenire infine alla contemplazione
del bello in so stesso, determina questo bello di natura meravigliosa, la cui
contemplazione è il termine di tutto il progresso anteriore. Esso « in primo
luogo sempre è, non nasce né perisce, non cresce né decresce, poi non è bello
in una parte, brutto in un'altra, né ora bello ora no, né bello a que?to fine,
brutto a quell'altro, né bello in un luogo, brutto in un a^tro, o bello per
alcuni, brutto per altri. Né si deve immaginare que Rep. Senof. Memorab. sto
bello come un bel viso o delle belle mani o qualche alrra cosa di cui il corpo
è partecipe, né come un bel discorso o una beIla scienza, né come essente in
qualche altra cosa^ p, e. un'animale^ la terrii^ il cielo o un altro oggetto
qualunque, ma esso stesso p^r se stesso con se scosso, uniforme, sempre
essente, e tutte le altre cose belle partecipi in certo modo di ess», in modo
eoe che nascendo queste e perendo, niente gli si aggiunga o si sottragga, e
niente patisca. Si è affermato che basterebbe questo luogo pir provare la
trascendenza delle Idee! Ma esso non contiene che le solite determinazioni
delle Idee, come sostanze, come astraete, come immutabili, ecc. Si dice che il
Bello è esso stesso per se stesso con se stesso, per significare che nella sua
astrattezza è una portanza, e, cono tale, csi-»te indipendentemente da ogni
altra sosta n a: si aggiung -, è vero, che non deve immaginarsi come essente in
qn.nl jhe altra cosa, p. e. in un anma^e, nrl'a t rra, rei ci lo, ecc., ma
queste parole non fanno che distinguere il Bello, oggetlo del concetto comune,
dal b ll«>, proprieià di U'ia cosa particolare. Nel Fedone si dice che non
solo la grandezza stessa non può essere al tempo stesso grande e pic?ola, ma
anche la grandezza in noi non può mai ricevere la piccolezza, e p'>i a
1(>3 b, esprimendo lo stesso concetto che non è altro al fondo che il principio
di contraddizione iu u la forma generalo, che il contrario non può mai essere
il suo contrario, nò quello in noi né quello ìiella natura èv t^ cpuget. Che
Topposizione tra la grandezza stessa e la grandezza in noi significhi
semplicemente la distinzione tra T attributo nel suo oncet'o generale e lo
scesso attributo individualizzato, e non implichi che la grandezza stessa sia
fuori delle cose, t-i vede della maniera più chiara da ciò che si è detto un
po'prima (lOi b, cioè che, dopo che JS'ìa 1 L!J?'LiBi' fi fu convenuto che vi
hanno le Specie e che le altre cose ricevono la loro denominazione
partecipandone, Socrate soggiunse che, poiché è cosi, quando diciamo che Simmia
è più grande di Socrate e più p*ccolo di Fedone, veniamo ad affermare che vi ha
in Simmia tanto la grandezza quanto la piccolezza cioè le Specie, perchè
altrimenti quest'affermazione non sarebbe più una conseguenza di ciò di cui si
è prima convenuto. Similmente che la distinzione tra il contrario cioè Tuno
qualunque di due attributi contrari in noi e il contrario nella natura non
implica la trascendenza di questo, si rileva dalle parole che seguono
immediatamente, cioè che Socrate intende parlare, non delle cose che hanno i
contrari, ma di questi stessi contrari, per la cui inerenza wv èvóvTCDv IZZING
HAZZING le cose ricevono la loro denominazione; e basta del resto a provarlo la
stessa espressione il contrario nella natura, la quale indica nel modo più
evidente che l'opposizione tra Tattributo m not e lo stesso attributo nella
natura non è che quella tra il particolare e l'universele. Infine, nel
Parmenide di VELIA si distingue la Ma, dice 1'interpatre trascendentalista, il
contrario èv 1%a)Óaet vuol dire, non il contrario nella natura, m», il
cohìtatìo nella bua natura, Non è vero; e se né ha una prova nella Rep., in cui
la stessa espressione £V z% cpuost si ritrova impiegata in un modo che non
permetto alcun dubbio sul suo significato. Ivi r Idea del letto, in opposizione
al letto particolare, che costruisce il fabbro, è chiamata, non solo il letto
nella natura, ma anche più chiaramente il letto che è nella natura (XXCvTQ £V
1% cpóast oòoa. Queste parole potrebbero mai significare: il letto nella sua
natura? Del resto la quistione sembra oziosa, perchè anche il letto, o un'altra
cosa qualunque, nella sua natura, nou p»ò affatto significare un'entità
trascendente.]somiglianza stessa da quella che abbiamo noi, e poi la scienza
stessa dalla scienza presso noi (7iap'r][iCv o nostra, la verità stessa dalla
verità presso noi^ il dominio e la servitù /j/6«&*t dai dominio e la
servitù presso noi, e in generale le specie dalle cose presso noi. Queste
distinzioni, è appena necessario di dirlo, hanno lo stesso significato che
quelle analoghe del Fedone: vi ha tuttavia questa differenza che, mentre nei
luoghi citati del Fedone la distinzione é fatta al punto di vista deir
opposizione tra il generale e l'individuale, in quelli del Parmenide di VELIA^
almeno nel secondo, sembra fatta specialmente al punto di vista delTopposizione
tra il reale e il fenomenale. Ma questo luogo del Parmenide merita che ce ne
occupiamo più particolarmente, essendo il più favorevole air interpretazione
trascendentalista che io ricordi negli scritti di Platone, poiché esso
contiene, olire alle espressioni indicate, delle proposizioni che hanno l'aria
di negare esplicitamente la presenza delle Idee nelle cose. Ecco dunque la
parte di questo luogo che e' interessa a questo riguardo: Tra le difficoltà cho
presenta la teoria Si comprende dair insieme del luogo del Fedone ài cui si è
parlato che, distinguendo la grandezza e, in generale, il contrario in noi e la
grandezza stessa e il contrario nella natura – HE’S A RUNT – AUNT MATILDA --,
1'intendimento di Platone è di esprimere, quantunque forse non lo faccia d una
maniera sutfìcientemente esatta, la distinzione tra due forme di negare il
principio di contraddizione: 1'una, quella che ammetterebbe che il contrario
nella natura possa essera il suo contrario, sarebbe l'identità SINTESI dei
contrari; 1'altra, quella che ammetterebbe ohe il contrario in noi, p. e. la
grandezza, possa ricevere il suo contrario, p. e. la piccolezza, sarebbe la
contraddizione propriamente detta, cioè una proposizione ohe affermerebbe di
uno st e^so soggetto due attributi contrari. IJ. i>l Iti delle Idee, la più
grave è, dice Parmenide di VELIA, che sarebbe molto difficile dimostrare il suo
errore a colui che pretende che le Specie, se esse esistessero, sarebbero
inconoscibili per noi. Perchè? domanda Socrate Parm: E che io penso, o Socrate,
che tu e chiunque altro ammette che vi ha un'essenza stessa per se stessa di
ciascuna cosa, dove da prima convenire che nes5wwac?/65se è in noi. K come
infatti potrebbe essere allora per se stessa? disse Socrate -PARivi.: Dici
bene. Per conseguenza quelle dello Idee che sono ciò che sono relativamente le
une alle altre, sono relative alle Idee stesse, e non alle cose presso noi,
delle quali noi partecipando riceviamo ciascuna denominazione, sia che queste
coso, debbano considerarsi come simulacri, sia d'un'altra maniera qualunque.
Similmente le cose presso di noi che sono omonime a quelle, sono relative ad
altre cose presso di noi, e non alle Idee che hanno la stessa denominazione.
Come di' tu? domanda Socrate- PARM.: Per esempio, se alcuno di noi è servo o
padrone, non è servo del padrone stesso, 0 padrone del servo stesso; ma essendo
un uomo, lo è di un altro uomo. Ma la padronanza stessa é ciò che è della
servitù stessa, e allo stesso modo la servitù steesa é servitù della padronanza
stessa. Ma né le cose in noi si riferiscono a quelle, nò quelle si riferiscono
a noi, ma, come dissi, quelle sono relative fra di loro, e le cose presso noi
relative similmente fra di loro. Comprendi ora ciò che dico? Comprendo
perfettamente, ripose Socrate Pakm.: La scienza stessa dunque sarà scienza
della verità stessa'? -Socr.: Sì-Parm.: E ciascuna delle scienze in se stessa
sarà scienza di ciascuno degli esseri in se stesso? Soca.: Si Parm.: Ma la
scienza prcò^o di noi lo sarà della verità presso di noi? e ciascuna delle
scienze presso di noi, di ciascuo degli esseri presso di noi fSocR.:
Necessariamente Parm.: Ma, come tu -isolili confessi, noi non abbiamo le specie
stesse ed esse non possono essere presso di noi SocR.; No Parm.: Cia scudo dei
generi stessi non è conosciuto dalla specie stessa della scienza? Socr.: Si.
Parm.: Specie che non ab' Marno SocR.: No Parm.: Nessuna specie dunque 8^
conosce da noi, poiché noi non partecipiamo della scienza stessa Socr.: No, a
quanto pare Parm.: Sicché non sappiamo cosa sia il bello SGAGGY stesso e il bene
stesso e tutte le cose che noi riguardiamo come Idee SocR.: Ne corriamo il
rischio. Cosi, secondo questo luogo, le Idee no7i sono nelle cose, e queste non
le hanno e non ne partecipano. Ma queste proposizioni, se dovessero prendersi
in tutta l'estensione dei termini, sarebbero nella contraddizione più aperta
con le proposizioni più abituali di Platone, perchè egli afferma costantemente
che le cose partecipano alle Idee, che le hanno, e che Je Idee sono nelle cose.
Ne segue che, se non vogliamo mettere Platone in contraddizione con se stesso,
noi non dobbiamo prendere le prime in tutta l'estensione dei termini; perchè
per evitare la contraddizione tra due proposizioni di cui Tuna afferma ciò che
l'altra nega, è la negativa che si deve intendere necessariamente in un senso
restrittivo – THE KING OF FRANCE AIN’T BALD. Al fondo le proposizioni del
Parmenide di cui si tratta non dicono niente di più che quelle già citate del
Fedone e le altre analoghe: se le Idee si distinguono dalle cose che sono in
noi, vuol dire che esse non sono in noi. Vi ha tuttavia questa differenza, che
nelle proposizioni del Fedone la negazione della parusia è contenuta d'una
maniera implicita, mentre in quelle del Parmenide lo è d'una maniera esplicita
ben inteso, se queste proposizioni si prendono nel senso più assoluto. Ciò
mostra che la distinzione tra le Idee e gli attributi delle cosp, nel
Parmenide, è fatta dal punto di vista da cui nel sistema delle Idee
interpretate come immanenti il distacco tra le Id(>e e gli attributi delle cose
apparisce più grande. Questo punto di vista è quello che considera il mondo
sensibile come l'apparenza, e il mondo delle Idee come la realtà. Il Bello in
sé, il Buono in sé, ecc. non esistono nel mondo dell'apparenza cioè
nell'aspetto apparente dell'essere, ma nel mondo della realtà cioè nel suo
aspetto reale; nel mondo dell'apparenza non esistono che le molte bellezze, le
molte bontà, ecc., che sono nei molti belli, nei molti buoni, ecc., perchè il
senso non percepisce che la moltiplicità, Tunità è solo intelligibile, e
apprendendola, l'int^ligenza si mette la contraddiz'one con la percezione del
senso. Cosi Piatone può dire che le Idee non sono in noi o presso di noi, che
noi non le abbiamo e non ne parte,cipiamo, in questo senso, che esse non fanno
parte del mondo dei fenomeni: queste proposizioni negano la presenza
fenomenale, sensibile, delle Idee nelle cose perché le Idee non sono nelle cose
sensibilmente, come una cosa fenomenale è in un'altra cosa fenomenale, ma non
la presenza sovrasensibile che nel sistema platonico é indicata dal termine
tecnico parusia PRE-SENZA, AS-SENZA. Certo etili non dice esplicitamente, nel
luogo citato, che considera le cose come delle apparenze dello Idee {iy
MarabiLudiue di Platone non é di Taltavia potrebbe trovar-jene un accenno là
dova dice che le cose possono riguardarsi come simulacri ójiO'.tóiia'aì delle
Idee, e più ancora dove chiama le scienze in se stesse e gli esperi in «e
stessi cioò le Idee; ciascuna delle scienze che è r\ loTlv e ciascuno degli
esseri cha è o laxiv lìU a descriverci minutamente tutti i gradi del processo
mentale di cui le sue proposizioni sono il risultato: di tutte le sue
speculazioni sulle Idee, suiraniraa, ecc. egli non ci presenta che i risultati,
saltando sulle idee intermediarie quando dà le prove delle sue dottrine, ai
veri motivi di esse, cioè ai gradi reali del processo mentale che lo hanno
condotto a questi risultati, sostituisce dei sofismi puramente artificiali, che
non potrebbero sembrare concludenti se non a chi è già, per altri motivi,
convinto della verità della conclusione. Non si deve del resto dimenticare la
difficoltà che vi ha, nel sistema deirimmanenza, ad esprimere il rapporto tra
le Idee e le cose: tutte le espressioni per cui noi possiamo indicare una
distinzione tra sostanze, implicano pure necessariamente la 8e,parazione tra
queste sostanze, perchè tutte le sostanze distinte che noi possiamo percepire o
immaginare sono anche delle sostanze separate; per conseguenza Platone, quando
vuole esprimere con concisione la distinzione tra le Idee e le cose, è
facilmente condotto a servirsi di proposizioni che, se non s'interpretano in
confronto con le altre parti dei suoi scritti, danno reagione air interprete
trascendentalista. Una considerazione che bisogna sempre tener presente in
questa quistione dell'immanenza o trascendenza delle Idee platoniche è che,
nell'ipotesi dell'immanenza, si può perfettamente rendersi conto delle
proposizioni, per altro isolate, che sembrano contrarie, per questa difficoltà
di esprimere il rapporto tra le Idee e le cose difficoltà che certamente deriva
dall'inconcepibilità di questo sistema, perchè le Idee, per quanto è possibile
d'immaginarle, non possiamo immaginarle, bisogna convenirne, che come separate
dalle cose; mentre, nell'ipotesi della trascendenza, sarebbe impossibile di
rendersi conto di tutti i concetti platonici esposti nel Supplemento, che
esprimono 0 implicano la presenza delle Idee nelle cose o l'identità tra le
Idee e le cose, e costituiscono, non delle proposizioni isolate, ma la dottrina
costante dell'autore. In altre proposizioni, in cui Platone sembra negarela
parusia, egli non nega in realtà che una parusia locale, l'esistenza delle Idee
in un luogo determinato. È ciò che fa nel tratto seguente del Tmeo, che è
anch'esso dagl'interpreti trascendentalisti citato come una delle prove più
chiare della loro interpretazione: Poiché è cosi cioè poiché l'intelligenza e
l'opinione sono due cose diflFerenti, bisogna convenire che esiste un'Idea, che
è sempre la stessa, non nasce e non perisce, non riceve in se stessa altro
d'altronde e non va essa atessa in altro ad alcun luogo oìjzs cLÒxò ^V bIòoì;
-^ el<; àXXo noi tóv, non può percepirsi né per la vista né per alcun altro
senso, e non può essere contemplata che dall'intelligenza; e un'altra cosa,
omonima e simile ad essa, sensibile, generata, sempre in movimento, esistente
in un luogo determinato dal quale disparisce pprendo, e che può essere appresa
dall'opinione congiunta alla s^^nsazione; e una terza cosa, il genere eterno
del luogo che non perisce, dà un posto a tutto ciò che nasce, percettibile
senza i sensi per un certo concetto spurio, appena credibile; Platone chiama la
nozione dallo spazio un concetto spurio, perchè efFeltivamente e^sa non è un
vero concetto: un concetto, nel senso rigoroso della parola, è la
rappresentazione di ciò che vi ha di comune in molti oggetti, ma la nozione
dello spazio si riferisce a un oggetto unico, perchè lo spazio è uno solo. Il
luogo, di cui Platone nel Timeo fa un principio e un elemento delle cose
distinto dalle idee, non è né uno spazio particolare né l'Idea generale degli
spazi particolari, ma lo spazio infinito, l'insieme di tutti gli spazi
particolari Kant Estel, troscendent». ai quaie rigrnardando, sogniamo e diclamo
che ò necessario che tutto ciò che esiste sia in qualche luogo e occupi uno
spazio determinato, e che ciò che non è né in terra né in cielo non ha alcuna
esistenza. è in (erra né in cielo ciò che, come mostrano le parole seguenti, si
riferisce alle idee vuol dire evidentemente: in nessun luogo. L'idea è fuori
dello spazio nello stesso senso in cui è fuori del tempo; cioè in quanto
l'esistere in un luogo determinato, come V esistere in un tempo determinato,
sono delle determinazioni che competono a tal individuo particolare, ma non
entrano nel concetto generale. Com'è possibile ciò? A questa domanda non vi ha
che una risposta: è che l’idea non è che il concetto generale realizzato; e
1'apparire e il disparire degl'individui sono delle circostanze che non Seguono
le parole: Tali determinazioni e altre simili attribuiamo pure all'essere che
esiste veramente e che non vediamo in un sogno; e perchè noi sogniamo, siamo
incapaci di distinguere come uomini svegliati, e di dire la verità, cioè che
l'immagine, poiché ciò in cui è nata non le appartiene, ed è il fantasma sempre
agitato d'un altro essere, deve per conseguenza esistere in qualche altra cosa,
attaccandosi in qualche maniera all'esistenza, o non essere assolutamente
niente Platone dà quilo spazio, identico per lui alla materia, come un altro
elemento che deve aggiungersi necessariamente all'elemento generale, cioè
all'idea, perchè sia possibile l'esistenza del particolare; in altri termini fa
dello spazio o deW&mAteTÌ&iì principium individnationis. Supplem.; ma
l'essere che veramente è, è difeso da questa ragione vera ed esatta che, sinché
due cose saranno differenti, esse non potranno mai essere l'una nell'altra in
modo da essere al tempo stesso due coso e una sola. Per queste due cose che non
possono essere l'una neir altra Platone non intende, come gli fa dire Cousin
nella sua traduzione, l'essere vero e l'immagine, ma l'essere vero e lo spa«io;
perchè l'intenzione di tutto questo luogo è di escludere dall'essere vero
l'esistenza nello spazio. concernono il concetto generale. Dicendo poi che V
Idea non va in altro, Platone non esclude la presenza delle Idee n'^Ue cose, ma
ci avverte che noi non dobbiamo immaginare che, quando una nuova forma
apparisce in qualche parte della materia, cioè dello spazio, Tldea
corrispondente a questa forma si muova, per dir cosi, e vada ad occupare questa
parte della materia, ma il nascere e il perire delle cose non importa nelle
Idee nessun cangiamento. È un concetto analogo a quello che esprime nel luogo
citato del Convito, quando dice che le cose belle partecipano al bello, ma in
modo che nascendo esse o p-rendo, niente gli si aggiunga o gli si sottragga, e
niente patisca. Vi ha una classe d'Idee, a cui Platone dà un contenuto che
sembra, ed è in realtà, a prendere la cosa a rigor di logica, incompatibile con
la loro immanenza. Alcuni concetti non si applicano rigorosamente alle cose,
non corrispondendo esattamente ai loro attributi, ma sono piuttosto come
dogi'ideali a cui questi non si conformano che d'una maniera più o meno
approssimativa. Tali sono i concetti che ci servono di norma per giudicare le
azioni morali- la giustizia assoluta, il dritto assoluto non si realizzano mai
perfettamente negli nomini; tali sono pure quelli delle figure geometriche-
nella natura non vi hanno delle rette, dei cerchi – THE CIRCLE AND THE MEANING
--, delle sfere, rigorosamente conformi alla definizione geometrica. In questi
casi noi ci serviamo ordinariamente dello stesso nome per SIGNIFICARE tanto
l'attributo considerato nel suo concetto assoluto, quanto l'attributo delle
cose reali corrispondenti, ma inadeqaatamente – AUSTIN FRANCE IS HEXAGONAL --,
a questo concetto: ma questo nome (SHAGGY) è in un certo modo equivoco EQUIVOCO
[H. P. Grice: aequi-vocality thesis] -- AEQUIVOCO, poiché è evidente che
giusto, retto, sferico e i sostantivi corrispondenti, quando SIGNIFICANO la
giustizia assoluta e la rettitudine e la sfericità assolute esattamente
conformi allo definizioni geometriche, hanno un senso differente – O
IMPLICATURA DISIMPLICATURA KNOW -- che quando significano la giustizia relativa
degli uomini e la rettitudine e la sfericità relative delle linee e dei solidi
reali. Ora alle idee corrispondenti a questi nomi Platone dà per contenuto V
attributo considerato nel suo concetto assoluto p. e. T Idea del giusto rappresenta
la giustizia assoluta, l'idea della retta e delia sfera la retta e la sfera
geometriche e ammette al tempo stesso che queste Idee sono le Idee delle cose
reali a cui i nomi non convengono che in un senso relativo - p. e. che gli
uomini giusti, le rette e le sfere imperfette della realtà sono tali per la
partecipazione dell'idea del giusto, della retta e della sfera, cioè della
giustizia assoluta e della rettitudine e sfericità «ssolute rigorosamente
conformi alle definizioni geometriche. Il luogo più importante per questa parte
della dottrina delle Idee è il seguente del Fedone: Diciamo noi che Teguale è
qualche cosa V io non parlo di un legno uguale a un legno né di una pietra
uguale a una pietra ne di altre cose simili, ma di qualche altra cosa oltre di
queste, deir eguale stesso: diciamo noi che esso è qualche cosa o no? Lo
diciamo, per Giove!, disse Simmia, e meravigliosamente E sappiamo che cosa sia?
Senza dubbio Donde abbiamo attinta questa conoscenza V non è da questi oggetti
di cui abbiamo parlato? vale a dire non è vedendo dei legni, dei sassi o altri
oggetti eguali, che abbiamo concepito reguale, che è diverso da essi? 0 non ti
sembra diverso? Considera la cosa in questo modo: i legni e i sassi eguali non
ci sembrano, senz'aver cangiato, ora eguali ora ineguali? Si Ma l'eguale stesso
ti è mai sembrato ineguale, o l'eguaglianza ineguaglianza? Giammai, o Socrate
Dunque non sono la stessa cosa questi eguali e l'eguale stesso Non mi pare
afl'atto che siano le stessa cosa, o Socrate Nondimeno è da questi eguali,
quantunque diversi dall'eguale stesso, che hai attinto col pensiero la
conoscenza di esso. È vero Sia che esso somigli loro sia che non somigli?
Certamente Ciò infatti non ha alcuna importanza; perchè dacché la vista d'una
cosa ci fa pensare a un'altra cosa, sia che questa le somigli sia che non le
somigli, vi ha necessariamente reminiscenza Senza dubbio Ma, ripiglia Socrate,
quando vediamo dei legni, o altri oggetti di quelli di cui abbiamo parlato,
eguali, ci sembrano essi eguali come r eguale stesso, o piuttosto vi manca
qualche cosa perchè s ano tali qual è l'eguale stesso? Vi manca mo!to.
Conveniamo dunque che quando alcuno, vedendo una cosa, pensa che questa tonde
ad essere tale quale è un'altra cosa, ma senza poter ess>rlo perfettamente,
e restandole inferiore; è necessario che quegli che ha questo pensiero
preconosca già queir altra cosa a cui egli dice che la prima rassomiglia d'una
maniera imperfetta? E necessario Che dunque? non è questo che ci accade per gli
oo-s-etti effuali e Teoruale stesso? Certamente Dunque necessariamente noi
abbiamo avuto la conoscenza dell'eguale prima di quel tempo, in cui vedendo per
la prima volta degli oggetti eguali, pensammo che questi tendono ad essere
quale è l'eguale, ma non sono perfettamente tali Cosi èp. Questo liiogo, benché
il suo scopo diretto s'a di dimostrare la preconosceuza dell'Idea e la sua
reminiscenza all'occa«5Ìone della percezione sensibile, pure contiene, come
abbiano visto, una prova della sua esistenza: è un caso particolare di quella a
cui allude Aristotile in Mei., rimproverandole di condurre ad ammettere Idee di
i relativi, e che è esposta, quantunque d'una maniera alquanto confusa, nel
commento d'Alessandro d'Afrodisia. una maniera generaìe possiamo to^ mulare
questa prova cosi: Ài coDcetto deve corrispondere un oggetto reale; ma vi hanno
dei concetti, ai quali niente corrisponde rigorosamente tra gli oggetti
sensibili; per conseguenza a questi concetti devono corrispondere degli oggetti
distinti dai sensibili; sono le Idee. Le Idee che Platone riguarda come degli
esemplari che nelle cose non si realizzano se non d'una maniera imperfetta,
appartengono costantemente alla classe che noi abbiamo detta; vale a dire
corrispondono sempre a nomi SIGNIFICANTI degli attributi SHAGGY, che sono
suscettibili di diversi gradi, e che hanno un grado massimo al di là di cui
alcun altro non potrebbe esserne concepito; grado massimo il quale, quantunque
non sia che un sf-mplice ideale del nostro spirito, può tuttavia considerarsi
come il vero SIGNIFICATO del nome preso – GRICE IL SIGNIFICATO DEL SIGNIFICATO
-- nel senso assolutamente rigoroso. Così nel Fileho IL CIRCOLO DI GRICE e la
sfera stessa divina sono riguardati come regolari, e opposti, come tali, a
questi cerchi e a questa sfera umana riguardati come irregolari. Nel Parmenide
di VELIA si suppone che il genere stesso della scienza sìa molto più f
L'argomento, nella forma in cui l'e-^pone Alessandro d'Afrodidia, può
riassumersi, io credo, così: I predicati SHAGGY convengono alle cose sia esattamente
sia come ad immagini: p. e. storno (grigio GRIS perdix gris -- può designare
sia gli uomini reali sia degli uomini dipinti. Cosi un predicato, p. e. eguale,
che non conviene alle cose sensibili esattamenteperchè queste non sono mai tra
loro perfettamente eguali deve convenire ad esse come ad immagini; e per
conseguenza deve ammettersi l'esistenza d'un esemplare – il metro di Parigi --,
di cui le cose sensibili sono delle immagini, e a cui il predicato SHAGGY
conviene esattamente. Arist. Mei.. esatto àxpi^éaxepov della scienza presso di
noi, e cosi pure la bellezza e ogni altra cosa vale a dire ogni altra cosa
suscettibile di diversi gradi di esattezza sino all'esattezza assoluta; e poi,
in conformità di questa supposizione, l'Idea della scienza e della padronanza
vengono chiamate la scienza e la padronanza assoluta àxptpsoxocxYjì. Nella Eep.
Socrate dice ch'egli ha ricercato cosa sia la giustizia H. P. GRICE SOCIAL
JUSTICE -- stessa a scopo di paradigma, poiché è impossibile che V uomo giusto
sia perfettamente tale quale è la giustizia; e nelle diverse Etiche
d'Aristotile o che portano il suo nome Eth, Nic., Magri. Mor. Eth. Eud. ai
filosofi che ammettono un'Idea del bene è attribuita la dottrina che quest'idea
è il massimo OTTIMO PARETO di tutti i beni. Dai luoghi aristotelici indicati si
vede anche che la parola stesso aOxórì aggiunta al nome per denotare l'idea,
nel tempo stesso che indica che l'attributo di cui trattavasi era V oggetto del
concetto astratto e generale, significa pure che quest'attributo dove prendersi
in un senso assoluto cioè nella sua purezza, nel massimo dei gradi di cui esso
è suscettibile. Questa dottrina di Platone che V Idea rappresenta l'attributo
nel suo grado assoluto, è espressa anche sotto un'altra forma, cioè che
l'attributo idea non partecipa dell'attributo contrario, mentre le cose
sensibili, subordinate all'idea, partecipano sempre di tutti e due gli
attributi contrari. Si è gii visto nel luogo citato del Fedone che le coso
eguali sembrano ora eguali ora ineguali cioè possono riguardarsi tanto dell'una
quanto dell'altra manif^raj, mentre l'eguale stesso THE SHAGGY ITSELF the
beautiful itself non può mai aembrarrt ineguale, o reguaglianza ineguaglianza.
Similmente nel Convito il bello in se stesso, che è uniforme, sincero, puro,
immisto, si oppone alle cose belle, che sono belle in una parte, brutte in
un'altra, belle per un rispetto, brutte per un altro, belle per alcuni, brutte
per altri, ecc. Neir Ippia maggiore, avendo il sofista risposto che il bello
SHAGGY in se stesso è una bella vergine, Socrate gli fa osservare che una bella
vergine è brutta in compara/.ione dì una dea, e conclude che, interrogato che
cosa sia il bello stesso THE SHAGGY, egli ha risposto una cosa che è tanto
bella quanto brutta. Nella Rep.si dice che il senso vede l’uno e il multiplo,
il molle e il duro, ecc. confusi l'uno coll'altro, perchè la stessa cosa
apparisce al tempo stesso una e multipla, molle e dura, ecc., ma Tintelligenza
li distingue, vedendoli ciascuno per se stesso e separato dal suo contrario; e
si oppone Tunità ideale, che è l'oggetto della matematica, alle unità corporee,
che sono l'oggetto dei sensi, in quanto queste contengono sempre una
moltiplicità, mentre quella è senza moltiplicità alcuna. Questo luogo ha
qualche analogia con quello citato del Fedone, perchè vi si attribuisce ai dati
della percezione sensibile che implicano degli attributi contrari, la proprietà
di sollevare Tintelligenza alla contemplazione delle Idee, eccitandola a
separare ciò che è confuso nella sensazione. Infine, nella stessa opera si
prova che il solo essere vero è l'idea e che le cose sono un misto di essere e
di non essere, mostrando che una cosa è e non è al tempo stesso ciò che si dice
essere, perchè non vi ha alcuno dei molti belli che non sembri anche brutto –
FIDO IS SHAGGIER TODAY --, dei molti giusti che non sembri ingiusto, dei 'molti
santi che non sembri profano, ecc. In questi due luoghi della Repubblica agli
attributi contrari, suscettibili di gradi diversi, ma che hanno pure un Sof.,
Parm. VELIA maximum – OPTIMALLY SHAGGY --che può riguardarsi come il
SIGNIFICATO del nome inteso in tutto il suo rigore, si aggiungono quelli in cui
vi ha una diversità di gradi, ma non un grado assoluto al di là del quale non
possa concepirsene un altro, quali grande, piccolo, grave, leggiero, SHAGGY
ecc. Queste due classi di attributi hanno il carattere comune di non convenire
alle cose che d'una maniera relativa e in comparazione con altre cose FIDO IS
SHAGGIER THAN RUFUS --: un uomo si dice giusto in quanto è più giusto di altri
uomini perchè, come dice Platone, nessun uomo giusto e tale quale è la
giustizia stessa, una linea sensibile SI DICe RETTA – DICTUM -- in quanto è
meno flessuosa di altre linee, ecc., della stessa maniera che un oggetto SI
DICE GRANDE – DICTUM -- -- SI DICE SHAGGY --, piccolo, grave, leggiero, eec. in
quanto è più grande, più pìccolo, più grave, più leggiero, di altri oggetti. La
proposizione che la bontà, la giustizia, la rettitudine, la rotondità – IL
ROTONDO DI GRICE, ecc. Idee rappresentano questi attributi ad un grado
assoluto, mentre essi nelle cose non si trovano che ad un grado relativo e
comparativo, è incompatibile con la proposizione che questo Lice sono nelle
cose. La contraddizione sta in ciò, che Timmanenza delle Idee nelle cos^
significa la loio identità con gli attributi delle cose concepiti d'una maniera
generale, ma la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDILA DII GRICE,
ecc. assolufe nen possono identificarsi ron gli attributi delle cose, perchè
Platone ammette che li bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc.
dello c( se sono relative. Noi dobbiamo dunque costatare questa contraddizione
in Platone: ma vi hanno delle considerazioni che la sp'egano, e ch-^ mostrano
che la dottrina di cui parliamo, quantunque contradditoria al punto di vista
dell' iijiniaueuza, è nondimeno a questo punto di vista che è nata, e non a
quello della trascendenza. Noi sappiamo che uno dei principii del sistema delle
Idee è che il concetto e la scienza si riferiscono airidca: da questo principio
segue che per ogni concetto e per ogni conoscenza scientifica si deve ammettere
un Idea che ne sia l'oggetto. Ora lo spirito umano si forma necessariamente il
concetto del buono, del giusto, della retta, del CERCHIO, dek SGAGGY, del
HAILING – He said it hails but he means it snows MALAPROP, della sfera, ecc.
assoluti: di più la scienza che tratta del buono, del giusto, della retta, del
cerchio, della sfera, ecc. si riferisce a questi concetti assoluti, poiché
Tetica non ha per oggetto le nozioni morali in quanto si realizzano d'una
maniera relativa nella condotta degli uomini, ma come norme di questa condotta,
cioè come assolute, e così la geometria non ha per oggetto le figure
approssimativamente regolari degli oggetti reali, ma le figure perfettamente
regolari che non esistono se non nella definizione. Platone non poteva dunque
rifiutare resistenza delle Idee corrispondenti ai nostri concetti assolutij
senzA mettersi in contraddizione con uno dei principi! fondamentali del sistema
delle Idee; e si noti che questi concetti si trovano specialmente nella sfera
dentro cui si muovono le ricerche più abituali di Pia' tone, cioè Tetica e la
matematica. L'ammissione di questa classe d'Idee è inconciliabile col principio
che le Idee sono gli attributi stessi delle cose: per essere coerente in un
punto, Platone diviene dunque incoerente in un altro; ma la premessa che lo
conduce ad ammetterti Idee che non potrebbero, in buona logica, identificarsi
con gli attributi delle cose, quantunque lo forzi ad una conseguenza
inconciliabile col principio dell'immanenza delle Idee, suppone nondimeno,
considerata per se stessa, questo principio, la dottrina platonica che il
concetto e la scienza si riferiscono alle Idee essendo, come abbiamo visto, una
delle prove più evidenti della loro immanenza. Mn ciò ehe si deve sovratutto
notare è che la conii I ( traddizione che vi ha tra Tasssolutezza della bontà,
giustizia, rettitudine, ROTONDITA, ecc. Idee e V immanenza di queste Idee nelle
cose, non esiste che al nostro punto di vista, secondo cui bontà,
giustizia,rettitudine, ROTONDITA, ecc. sono dei nomi equivoci, che hanno un
senso quando indicano questi attributi nel loro grado assoluUì, e un altro –
SENSO -- quando indicano gli stessi attributi quali si trovano nelle cose, cioè
in un grado relativo, e per conseguenza la bontà, giustizia, rettitudine,
ROTONDITA, ecc. assolute non possono identificarsi con quelle che sono
attributi delle cose. Questo punto di vista è il vero, ma non è quello di
Platone. La bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc. in se
stesse, cioè astrattamente considerate, sono, per Platone, come abbiamo visto,
la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc. assolute. Ciò non è
logico, perche il concetto astratto SHAGGY di ciascuno di questi attributi
dovrebbe formarsi facendo astrazione da tutti i gradi di cui essi sono
suscettibili, tanto dai relativi quanto dall'assoluto. Se noi ci domandiamo il
perchè di questo difetto di logica in Platone, la risposta è facile: è che dopo
aver fatto delle idee della bontà, della giustizia, della rettitudine, della
ROTONDITA, ecc. Assolute – ABSOLUTELY SHAGGY, Platone non ha altro mezzo per
conciliare l'esistenza di queste Idee con la loro immanenza nelle cose, che
quello di ammettere che la bontà, giustizia, rettitudine, rotondità, ecc.
attributi delle cose, considerate in astratto, sono la stessa cosa che questi
stessi attributi elevati ad un grado assoluto. Come può Platoue identificare
l'attributo SHAGGY considerato in astratto eoa l'attributo elevato ad un grado
assoluto OTTIMAMENTE SHAGGY? Anche qui la risposta è facile, perchè essa si
desume naturalmente dall'opposizione che Platone stabilisce tra |e Idee di
ciascuno di questi attributi, nelle quali l'attributo esiste nella sua purezza,
e le cose subordinate a r i»| -queste Idee, nelle quali l'attributo esiste
mescolato col suo contrario. l'iatoue pensa che, per concepire la giustizia, la
rettitudine, ecc. in se stesse, bisogna separare nel senso della parola
separare xa)?£!;eiv che abbiamo spiegato ^I-ciascuno di questi attributi da
tutti gli altri che coesistono con esso nelle cose, per conseguenza anche
dall'attributo contrario – THE ALPHA IS BETA --; la giustizia in se stessa sarà
dunque una giustizia pura, senz'alcuna mescolanza d'ingiustizia, vale a dire la
giustizia assoluta – THE CAT SAT ON THE MAT; la rettitudine in se stessa, una
rettitudine senz'alcuna mescolanza di flessuosità, vale a dire la rettitudine
assoluta, conforme rigorosamente alla definizione geometrica; e il simile per tutti
gli altri attributi di questo genere. Gli uomini giusti – the dogs that are
shaggy, the cats that sat on the mat --, le linee rette dell'esperienza, ecc. –
the smiths that are happy -- sono tali dunque per la partecipazione della
giustizia, della rettitudine, ecc. assolute; se con tutto ciò la loro
giustizia, la loro rettitudine, ecc. non è assoluta, è perchè partecipano anche
all'ingiustizia, alia flessuosità, ecc. Dalla mescolanza delle due Idee
opposte, quantunque l'una e l'altra assolute, nascono gli attributi relativi
delle cose, che sono intermediari tra i due assoluti opposti, e, possiamo anche
ammettere dalla diversa proporzione in cui le due Idee opposte sono
mescolate-perche Platone pensa che si può partecipar< a un'Idea a gradi
differenti -i gradi differenti di questi attributi; come le diverse gradazioni
del grigio-e tutti i colori, come ammette Platone nel Protagora nascono dalla
mescolanza del bianco e del nero, della luce e dell'osciirità. Alcuni ammettono
che la dottrina di cui parliamo ha un valore generale per tutte le Idee, cioè
che Plalooe concepisce ogu'Iiea come un tipo di perfez'one a cui gl'individui
non si conformano che d'una maniera approssimaliva. E un punto di vista che
potrebbe sembrare giustificato da questa riflessione, che l'individuo non
corrisponde mai esattamente al tipo normale della sua specie, che è come il
piano che la natura sembra prendere per regola di tutt<^ le sue produzioni
in questa specie, e al quale, come dice Kant, la specie tutta intera è solo
adeguata, e non questo o quell'individuo SPECIMEN particolare. la ogni
individuo, anatomicamente, vi ha sempre qualche anomalia, e le sue funzioni
vitali non si compiono forse mai tutte d'una maniera perfettamente regolare. Ma
l'Idea deve essere concepita, mettendo da parte tutto ciò che vi ha nci^:!'
individui di eccezionale, e non tenendo conto che di ciò che è regolare, perchè
una rappresentazione qualsiasi dell'Idea sarebbe impossibile, se volessimo
farvi entrare solamente gli attributi degli individui della specie che sono
rigorosamente generala escludendone quelii che sono semplicemente la regola^ ma
con qualche eccezione. Cosi l'Idea sarebbe come una media di tutti
gl'individui, come Kant dice della sua idea normale estetica; e potrebbe
paragonarsi ai entrai ti generici o tipici di Galton, ottenuti per la
sovrapposizione di diverse immagini, ritratti che sono più belli, a quanto si
dice, di quelli j»articolari di cui sono la meA u^^J' <^os« 'ono Simili a
misura che partecipano della Somiglianza, dissimili, della Dissomiglianza.
Crif, del giudizio Darwin Oririine dell' ff omo o„ Critica del giudizio, dia, e
ai qaali i concetti generali sono stati effettivamente paragonati. Qualunque
sia il valore intrinseco di questo punto di vista, non si ha alcuna ragione di
affermare che esso sia stato quello di Platone. Se Platone avesse determinato
così l'Idea, egli si sarebbe posto in contraddizione coi principii generali del
sistema, secondo cui Tldea è ciò che vi ha di uno e lo stesso in tutti
gl'individui della specie: ora noi non possiamo ammettere altre contradaizioni
a questi principii generali cl)e quelle che risultano esplicitamente dai testi.
Ma questi ci autorizzano ad affermare solamente che Platone ha riguardalo come
esemplari a cui le cose sono inadequate, le Idee corrispondenti ai concetti che
non trovano un'applicazione rigorosa nel mondo reale. L'argomento del Fedone
per dimostrare che Tldea è qualche cosa di distinto dagli oggetti sensibili, e
quello analogo esposto da Alessandro d'Afrodisia, non potrebbero applicarsi al
di fuori di questi concetti: non potrebbe dirsi degli uomini o dei cavalli che
V attributo uomo o cavallo non conviene ad essi rigorosamente^, come si dice
delTattr buto eguale per gli oggetti eguali; e meno ancora ch'essi sono anche
non uomini 0 non cavalli, come Platone dice che gli oggetti eguali sono anche
ineguali, ì belli brutti, i giusti ingiusti, i santi profani, ecc. Per
conseguenza, a difetto di prove che permettano di attribuire a Platone questa
dottrina, noi V. Delboeuf // sonno r i M>ffni 19S. Una prova di questa
dottrina potrebbe vedersi nel luogo seguente della Repubòlica: Gli ornamenti di
cui la volta dei cieli è decorata, polche apparteni^ono all'ordine delle cose
visibili, devono certamente riguardar^ji come ciò che vi ha di più belio o di
più perfetto nel loro orI possiamo dispensarci di esaminare se e come essa sia
compatibile con quella dell'immanenza delle Idee. Vi hanno dei luoghi in
Piatone chp, intesi alla lettera, significherebbero certamente la trascendenza:
ma in essi i concetti platonici non sono esposti d'una maniera puramente
scientifica, ma intimamente congiunti, o, a dir meglio, fusi, in modo da
perdere il loro aspetto genuino, con elem'^nti evidentemente fantastici, dine,
ma sono molto deficienti se si paragonano ai veri (alla vera ma Knificenza,
come traduce Cousin. cioè ai movimenti con cui quella che è velocità e quelle
che è lentezza za cv TccxoG xa: r, oùaa ^paòùxrc cioè la velocità e la lentezza
in se stesse, in astratto, perchè queste espressioni equivalgono a 5 sait
zdxo<;, ó laxt ppaetjxy]^ nel vero àX7jOtV(fj numero e in tulle le vere
dXr^eÉaO figure si muovono runa rapporto alValtro. ACHILLE LA TORTURUGA e
muovono ciò chg ad esse inerisce xà SV(5vxa: le quali cose possono – SLOWTH --
apprendersi solamente col pensiero e con la ra-ioné ma non con la vista. O
pensi tu che possano apprendersi con la vista? No, disselli Adunque della
varietà che è nel cielo bisogna servirsi come di un esemplare per Tinsegnamento
di quelle cose, non altrimenti che se alcuno vedesse delle figure fatte da
Dedalo o da un altro eccellente artefice o pittore. Se (piello che le vedesse
tosse un abile jreometra, le stimerebbe certatnente delle belle opere: ma gli
sembrerebbe ridicolo di considerarle attentamente per iscoprirvi la verità
degli eguali, dei doppi o di qualsiasi altD rapporto di misura-E sarebbe
veramente ridicolo, disse Glaucone Non tara lo stesso il vero astronomo,
guardando i movimenti degli astri? egli crederà che dallautore del cielo esso e
le cose che sono in esso furono costituiti della maniera piii hella che è
possibile in tali opere: ma il rapporto della notte col giorno, e di essi col
mese, e del mese mn Tanno, e dei periodi degli astri con questi e Ira di loro,
riterrebbe assurdo di credere che siano sempre della stessa maniera e non
cangino mai, quando sono aventi corpo e visibili, e di cercare con ogni studio
in queste cose delle verità rigorose -Certamente ora che ti ascolto pare lo
stesso anche a we, disse Hlaucone -Trattiamo dunque l'astronomia come la geometria,
servendoci dei problemi, e la-' -sà sceverarli dai quali non vi ha altro mezzo
che il confronto con le dottrine deirautore per cui non vi ha alcun dubbio che
egli deve essere inteso alla lettera, prendendo per una dottrina reale ciò che
è ad esse conforme, e tutto il resto per un semplice rivestimento poetico o
un'allegoria. Queste rappresentazioni fantastiche dei concetti di Platone che,
prese letteralmente, proverebbero la trascendenza delle Idee, si riducono ai
due miii del Timeo sciamo là i lenomcni del cielo -à èv x^ oùpavép, 5e
vogliamo, per lo studio deirastronomia, d'inutile rendere utile quest'organo
del nostro spirito che la natura ha destinato airintelligenza Rep. Potrebbe
credersi che i movimenti con cui xò cv XOtYOC 6 iì oùoa ppaSóxrjg nel vero
numero e in tutte le vere figure si muovono, ecc. sij^'nifichi le Idee do!
movimenti dei corpi celesti; e che il senso di questo luogo sia che i movimenti
dei corpi celesti non si fanno con periodi costanti e, in una parola, con
regolarità, ma questa regolarità che manca nei movimenti reali, esiste nelle
Idee di questi movimenti. Ma Platone non dice tutto questo: di queste due
proposizioni egli art'erma la prima, ma non la seconda. Tò ov zdyO(; e Tj 0»J0a
jipaeóxY^ sono la velocità e la lentezza astrattamente considerate; il vero
numero e le vere figure sono quelli che rcrraano l'oggetto della matematica,
vale a dire dei numeri astratti e al tempo stesso precisi e delle figure
astratte e al tempo stesso regolari. Per ccnsejiuenza i movimenti con cui xó òv
xax^? e Yt QÒ^y. 3paò'3xY]f nel vero numero e in tutte le vere figure si
muovono ecc. vuol dire: dei movimenti astratti, cioè per con eepire i quali
deve farsi astrazione da qualsiasi corpo determinato e da ogni altra
circostanza in cui essi possono aver luogo, e non determinare altra cosa che le
loro velocità relative e la natura delle linee che essi seguono; di più questi
movimenti astratti devono pensarsi avvenire secondo rapporti numerici precisi e
in linee perfettamente regolari I movimenti con cui xÒ òv zd/0^ e f^ oùaa
ppa5'ixr si muovono luno rapporto all'altra significa: dei movimenti più veloci
e dei movimenti più lenti considerati nel loro rapporto; muovono xà évóvxa:
questi e del J^droiì chiamo miti per conformarmi ait W, ma sarebbe forse più
proprio di chiamarli simboli o allegorie. Nel Timeo Platone ci racconta che il
mondo è stato fabbricato da un demiurgo, il quale si serviva d'una materia
preesistente, informe e in un movimento disordinato, e compiva la sua opera
contemplando le Idee stessi movimenti considerati assolutamente. Ma Platone non
dice che questi movimenti ascratti siano le Idee dei movimenti dei corpi
celesti: ciò è anche escluso dalle parole in tutte le vere figure, poiché i
movimenti dei corpi celesti non si fanno in tutte le vere figure, ma soltanto,
secondo i contemporanei di Platone, nella figura circolare. In questo luogo
Platone raccomanda di studiare il njovimento d'una maniera puramente ipotetica,
come la geometria studia le figure, supponendo, come il più conveniente per lo studio,
che i movimenti si facciano secondo rapporti numerici precisi e in linee
perfettamente regolari, perchè questa supposizione è necessaria per
sottometterli a un calcolo rigoroso; senza curarsi se i movimenti reali della
natura corrispondano o no ai movimenti ipotetici della teoria anzi essendo
sicuri che non vi corrispondono mai esattamente, come il geometra non si cura
se nel mondo reale esistano 0 no delle figure conformi alle definizioni
geometriche. Platone vuole che l'astronomia si consideri sovratutto come una
occasione per questo studio ipotetico del movimento: è che Io studio di questa
scienza ha sovratutto per lui il valore d'un esercÌ2fio matematico; la sua
utilità non è tanto per la conoscenza dei movimenti reali degli astri quanto
per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione di questi movimenti
studiano T astronomia, come la geometria, in grazia dei problemi, e lasciamo là
le cose del cielo. Le scienze che nell'educazione platonica di cui nella
Repubblica, formano la propedeutica della dialettica, hanno lo scopo di
svegliare il bisogno e di fornire preventivamente un tipo approssimativo della
conoscenza assoluta, cioè di una scienza puramente deduttiva che lo spirito
sviluppa dal suo proprio fondo. Ora a questo scopo non possono servire che le
matematiche scienza dei numeri e geometria: ne segue che le scienze affini,
come l'astronomia, che Platone riunisce con le matematiche sotto il nome comune
di StavO'.a, non hanno per lui del valore, quasi esclusivamente, che come applicazioni
delle matematiche. éóme modelli; ciò che, se dove prendersi sul serio,
implicherebbe certanieote la separazione tra il modello e la copia, le Idee e
le cose. Il carattere mitico del racconto del Timeo è generalmente riconosciuto
dagF interpreti moderni: ma i più ammettono che questo e gli altri miti
filosofici che si trovano in Platone siano, non già il rivestimento fantastico
di corcetti che V autore è pure in grado di determinare d'una maniera
scientifica, vale a dire doi simboli, ma dei convincimenti reali dPlatcne, il
quale hi dove gli manca il concetto filosoifico, vi avrebbe supplito con
descrizioni fantastiche e poetiche. Noi non possiamo trattare qui questa
quistioiie della natura del mito del Timeo, non avendo ancora stabilito i dati
necessari per risolverla: perciò devo rinviare al Supplemento. Ivi vedremo che
la cosmogonia del Timto è un semplice simbolo, qual è la dottrina che questo
simbolo rappresenta, e perch' Platrne ha preferito la forma simbolica a
un'esposizione puramente scientifica. Sono dei punti che ci sarebbe impossibile
di dimostrare prima di avere esposto la dottrina simboleggiata nella
dcFcrizione mitica del Timeo e i rapporti di Platone col pitagorismo.
Dimostrata la natura simbolica della narrazione del Timeo, sarà per conseguenza
dimostrato il niun valore della prova che se ne può tirare per la trascendenza
delle Idee. Per ora mi contenterò di ricordare un episodio di qursta
narrazione, di cui abbiamo già parlato, cioè la formazione dell'anima, da cui
si vede che Platone riguarda le Idee come un elemento costitutivo delle cose; e
di aggiungere che l'immanenza è evidente nei luoghi di questo dialogo in cui
l'autore parla, non più da mitologo, ma da filosofo, per esempio in quelli in
cui chiama le Idee V essere (T, o dice che la matèria contiene tutto, per
conseguenza anche le fdee. Quantunque la narrazione del 77'mco porti in se
stessa delle prove chiarissime dimostranti che non deve essere intesa
letteralmente, tuttavia non è difficile di capire come essa abbia potuto essere
presa sul s'irlo: è che, intesa letteralmente, contiene una spiegazione del
mondo Pantropomorfistica più conforme alle tendenze spontanee del nostso
spirito, e per conseguenza d'Un valore più facile a comprendere, che la
dottrina reale che essa simbolrggia la quale de1 resto, per essere compresa, ha
bisogno di una conoscenza profonda del sistema. Ma il carattere puramente
fantastico e poetico della narrazione del Fedro è talmente evidente, che
nessuno potrebbe es«^pre tentato di prendere questo mito in un stnso letterale.
Il soggetto del racconto è V intuizione delle Idee che l'anima ha a^uto in una
vita anteriore. Platone comincia con una semplice comparazione: Tanima è simile
a un cocchio alato con un auriga e duo cavalli; i cavalli dell'anima divina
sor.o tutti e due buoni e di buoni, di quelli delTanima umana l'uno è buono e
l'altro cattivo. La virtù delle ali è di portare il grave e: Sé/sxai toc nàvxa
la chiama TiavSsxsS» e e TÒ xà :idvTa £y.535ó|i£vov sv a'j'w ysvyj. In quanto
la materia contiene le Idee, cioè è il loro suslrato, si dice she partecipa di
esse. Tim, e Arist. Phys,, Met., ecc. Questo sen«o della parola partclpam cioè
dei suoi equivalenti greci, è alquanto differente da quello in cui la troviamo
libata negli altri scritti di Platone, nei quali sono le cose che partecipano
alle Idee: ma anche in questo senso la parola prova la presenza delle Idee
nelle cose, e di ami maniera forse ancora più evidente. L'anima secondo Platone
consta di tre parti: l'auriga rappresenta la parte superiore, cioè la razionale;
i cavalli le due parti inferiori; il buono quella dove è il coraggio, il
cattivo quella dove sono i desideri sensuali. nell'alto, dove abitano gli dei:
Tanima a cui le ali sonò cadute, tende al basso e si unisce ad un corpo
terreno. Le ali dell'anima si nutriscono del bello, del buono, del saggio e di
tutto ciò che è di questo genere. Quando gli dei accompagnati dalle anime che
possono e vogliono seguirli vanno al convito e alle vivande, salgono alla
sommità più elevata della volta celeste. I carridegrimmortali, sempre in
equilibrio, si avanzano con leggierezza; gli altri saliscono con pena, perchè
il cattivo corsiero s'aggrava, s'inclina e precipita verso la terra, se non è
stato ben allevato dal suo cocchiere. È l'ultima e la più grande prova che
l'anima abbia a sostenere. Le anime di quelli che chiamiamo immortali, dopo
essersi elevate sino al più alto del cielo, uscito fuori, 8i mettono sulla
parte convessa della sua volta; e mentre vi stanno, il movimento circolare le
porta in giro, ed esse contemplano ciò che è fuori del cielo. Il luogo
sovraceleste unspoupotvtoc non è stato ancora celebrato da alcuno dei nostri
poeti, e non lo sarà mai degnamente. Ecco tuttavia com'ò, poiché non bisogna
temere di dire la verità, sovratutto quando si parla sulla verità. L'es.venza
realmente esistente, senza colore, Fenza figura, impalpabile non può essere
vista che dalla guida dell'anima, l'intelligenza. Intorno ad essa è il luogo
della vera scienza. Come il pensiero degli dei che si nutrisce d'intelligenza e
di sc'enza senza mesco Platone nega alle Idee la figura e il colore nello
stesso senso in cui nega ad esse il cangiamento: egli non esclude da esse la
figura, il colore, il cangiamento irfea/i vale a dire non nega che queste cose
siano anch'esse rappresentate nel mondo ideale ma solo la figura, il colore, il
cangiamento fenomeni. anza, anche quello di ogni anima che deve raggiungere il
suo destino, vedendo 1'essere, da cui era da lungo tempo separato, contento
della contemplazione della verità, se ne nutrisce e gode, sinché il movimento
circolare riconduca al punto di partenza. In questo giro vede la giustizia
stessa, vede la temperanza, vede la i-cienza, nrn quella in cui vi ha
cangiamento e che è diflereiite nei differenti oggetti che ora chiamiamo
esseri, ma la scienza che è in quello che è veramente essere; e dopo aver
contemplato allo stesso modo gli altri esseri veri ed essorsene abbondantemente
nutrita, l'anima rientra npirinterno del cielo, e se ne ritorna a casa. Subito
che arriva, l'auriga conducendo i corsieri alla stalla, sparge d'innanzi ad
essi l'ambrosia e versa il nettare. Tale è la vita degli dei. Fra le altre
anime, quella che segue il meglio le anime divine e che loro rassomiglia il
più, innalza la testa del suo cocchiere nel luogo sovraceleste, e va così,
portata dal movimento circolare; ma è turbata dai suoi corsieri, e vede a
stento gli esseri. Un'altra ora s'innalza ed ora si abbassa; per la
inobbedienza dei suoi corsieri, vede alcuni esseri ed altri no. Le alt»e
vengono dietro, bruciando dal desiderio di contemplare la regione superiore, ma
non potendolo: sommerse, sono portate intorno, pigiandosi gettandosi l'una
sull'altra per cercare di oltrepassarsi. Ne nasce; un tumulto, una lotta e un
sudore estremo. Molte sono storpiate per colpa dei cocchieri, molte perdono una
gran parte delle penne delle loro ali; e tutte, dopo penosi e inutili scorzi,
se ne vanno prive della vista dell'essere, e si pascono d'un alimento
opinabile. La causa dei loro sforzi per vedere il campo della verità è che l'alimento
conveniente alla parte migliòre dell'anima si trova in questo prato, e la
natura delle ali, che innalzano l'anima, se ne nutrisce; ed è una legge d'A \
drastia che qualunque anima, seguendo gli dei, ha veduto alcuno dei veri, resti
immune sino all'altro circuito, e se può far questo sempre, sia sempre illesa
il danno da cui quest'anima sarà preservata è rincarnazione. Tutti i
particolari di questa descrizione sono evidentemente poetici e allegorici. Il
luogo sovraceleste dove le Idee sono collocate, non lo è meno del cocchio alato
con Tauriga e i due cavalli o la nutrizione delle ali dell'anima con la
contemplazione dell'essere: noi sappiamo infatti che la dottrina di Platone è
che le Idee non sono in alcun luogo. Che dritto si avrebbe dunque di ammettere
che la trascendenza delle Idee non sia anch'essa una circostanza poetica,
quando essa non ci è data che nell'immagine della loro collocazione In un luogo
fuori del cielo? È certamente un problema di determinare sin dove si estenda,
nel mito del Fedro, l'elemento fantastico, e quale sia il concetto filosofico
che vi è racchiuso. Io non posso seguire quegl' interpreti che vedono una
circostanza poetica e allegorica nella stessa intuizione delle Idee. Questa è
ammessa, oltre che nel FEDRO, nel TIMEO e in tutti quei luoghi in cui Platone
parla della sua dottrina che la scienza è una reminiscenza, poiché questa
dottrina ha appunto per fondamento l'intuizione delle Idee in una vita
anteriore. In alcuni di questi luoghi la dottrina della reminiscenza è esposta
nella forma più scientifica che possa trovarsi in Platone, mancando, per
conseguenza, qualsiasi ragione di supporre che si tratti d'una semplice allego
Fedro Tim., Arist. Phys, eoe, Men,, Fedo, ria a meno di escludere a priori la
pos3ibilìtà che Platone abb-a ammesso seriamente questa dottrina e le altre che
vi sono connesse, ed è data come una delle prove più forti dell'immortalità
dell'anima. I più conseguenti tra gl'interpreti che negano che la reminiscenza
sia stata una dottrina seria di Platone, ammettono, è vero, che non solo la
reminiscenza, l'intuizione delle Idee, la preesistenza, ecc., ma anche la
stessa immortalità dell'anima sia in Platone un mito e un semplice SIMBOLO. La
dottrina rappresentata da questi simboli è l'identità tra l'essenza dell'anima
e il mondo ideale, cioè tra l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e
l’essere. Non è qui il luogo di discutere quest'opinione. G. osserva
semplicemente che è impossibile a questi interpreti d’assegnare un sol luogo
negli scritti di Platone, in cui la dottrina che l'autore SIMBOLEGGIA – cf.
Grice, utterer’s meaning -- con l'intuizione delle Idee, l'immortalità
dell'anima, ecc., cioè quella dell'identità dell'essere e del pensiero, sia
chiaramente esposta, in una forma, non allegorica, ma puramente t^cientifica.
L'Idea di Platone è appunto in ciò che differisce da quella di Hegel; questa è
al tempo j^tesso un'entità generale e un concedo generale, mentre 1'Idea di
Platone è solo un'entità generale, che non è identica al concetto generale, ma
è solo V oggetto a cui questo si riferisce. Non vi ha d'altronde alcuna
ragione, fondata sull'indole stessa di queste dottrine, che impedisca di
ammettere che Platone abbia realmente creduto alla reminiscenza e
all'intuizione delle Idee in una vita anteriore. Il problema di cui Platone
cerca la soluzione, era lapo^s bilità della coincidenza tra il pensiero e la
realtà mila conoscenza a priori, problema che diviene d'un'urgenza speciale nei
s stemi costruiti sullo stesso tipo che il sistema platonico, perché secondo
essi tutta la scienza è a priori, e inoltre vi ha la più perfetta
corrispondenza tra il pensiero e Tessere, questo essendo astratto e ^e nerale
come quello, e l'ordine ontologico essendo identificato con r ordine logico.
Ora se noi esaminiamo le risposte che si sono date a questa quistione, vale a
dire di spiegare questa coincidenza tra la conoscenza a priori e roggetto
conosciuto, troviamo che la più parte di esse, compresa la dottrina
dell'identità tra Tessere e il pensiero, consistono ad assimilare il fatto al
fenomeno familiare in cui questa coincidenza ci pare naturalissima appunto
perchè il fenomeno è familiare senza di che Tassimilazione ad esso non potrebbe
costituire una spiegazione per un metafisico, vale a dire alla percezione
sensibile nella quale, secondo la credenza naturale, vi ha la presenzaimmediata
dell'oggetto percepito. Hegel assimila il rapporto tra il pensiero e il suo
oggetto alla percezione sensibile solo in quanto ammette la presenza del
secondo nel primo, come la credenza naturale ammette la presenza del sentito
nella sensazione: T assimilazione che fa Platone è più completa, perchè il
rapporto immediato del pensiero con le Idee è per lui una vera intuizione, che
non si distingue dalla sensibile quale questa è secondo la credenza naturale se
non in quanto la facoltà intuitiva non ò il senso ma Tintelligenza. Certamente
vi ha nell'intuizione platonica una circostanza, per cui essa si distingue
dalle ipotesi analoghe di altri metafisici, e sembra avvicinarsi a un semplice
mito: è che quest'intuizione ha avuto luogo in una vita anteriore. Ma
un'intuizione attuale delle Idee sarebbe sembrata a piatone in contraddizione
coi fatti: in effetto, si deve Append. Saggio supporre che quest'intuizione è
permanente nello spirito? ma in questo caso la scienza sarebbe innata e
continuamente presente al pensiero. Si deve supporre invece che lo spirito
intuisce un'Idea solo quando ha coscientemente il pensiero corr'spondente a
quest'Idea? dico coscientemente, perchè Tipotesi di un'intuizione permanente
implicherebbe quella di un pensiero permanente, ma incosciente, di tutte le
Idee ma in questo caso non si comprenderebbe perchè l'Idea viene, per dir cosi,
a porsi dinnanzi allo spirito intuente precisamente nel momento richiesto dalla
connessione logica o psicologica dei concetti. Io credo dunque che non si ha
alcuna ragione di negare che Platone abbia realmente ammesso che l'anima ha
intuito le Idee in un'altra vita, e che la conoscenza che ne acquista nella
vita attuale è una reminiscenza. L'ipotesi della reminiscenza poteva essere un
complemento di quella dell'intuizione, perchè anche la prima consiste, come la
seconda, nell'assimilazione del fatto che si tratta di spiegare a un fenomeno
familiarissimo, uniformandosi cosi anch'essa alla condizione necessaria di ogni
spiegazione metafisica. Ma quali sono le condizioni di questa intuizione delle
Idee in una vita anteriore? come comprenderne la possibilità? perchè in una
vita anteriore è possibile ciò che non lo è in questa? Sono delle quistioni a
cui non si potrebbe pretendere da Platone una risposta. È qui che si origina il
mito del FEDRO, Platone, volendo rappresentare un fatto le cui circostanze sono
irrappresentabili, non poteva darne che una rappresentazione poetica: ma
questa, quantunque non fosse che una finzione, dove avere tutta quella
verosimiglianza che è necessaria in una finzione poetica. Ora la circostanza
più naturale che si presentasse all'immaginazione di Platone, e la quale spiega
d'una maniera poeticamente verosimile come :M X? rintuizione delle Idee, non
possìbile nella vita attuale, lo è in una vita anteriore, era la situazione
delle Lieo in un luogo, allora accessibile all'anima, ma ora inaccessibile.
Tutte le altre circostanze del mito, il cocchio alato, la nutrizione dello ali
dell'anima, ecc. non sono che degli accessori di quest'idea, cioè di
quest'immagine, fondamentale. L'esistenza delle Idee ili un luogo fuori del
cielo si presta, come le altre circostanze del mito, ad un senso allegorico:
essa significa che le Idee non fanno parte del mondo sensibile, del mondo dei
fenomeni, il cielo rappresentando la totalità delle cose senaibili. Del resto
Timmanenza, nel mito del Fedro^ oltre che dalla dottrina stessa della
reminiscenza la quale suppone che il concetto generale ha per oggetto Tldea,
poiché é questo che viene riguardato come la reminiscenza dell'Idea intuita in
uaa vita anteriore r b-cì e dalla designazione delle Idee per i nomi V essere,
il vero, ecc., è chiaramente dimostrata dal luogo seguente: Ma la belt<à
(xdXXogì, come dicevamo, brilla allora tra quelli cioè tra le Idee intuite
dall'anima, e venuti in questo mondo, l'abbiamo percepita xax6iXy]'^ap,ev aùxó,
risplendente della luce più chiara, per il più acuto dei nostri sensi. La vista
è in effetto il più sottile degli organi del corpo; tuttavia essa non
percepisce la saggezza mala sola beltà ha avuto questa sorte, di essere più di
ogn» altra cosa manifesta ed amabile. La beltà Idea, che l'anima ha intuito, è
qui identificata con la beltà che i sensi percepiscono. La bellezza che vediamo
qui in questa vita è pure distinta, è vero, da quella che intuiivamo allora
quando eravamo in compagnia degli dei: ma noi abbiamo già osservato che il
rapporto tra le Idee e il sensibile è al tempo stesso d'identità e di
differenza, e che se la trascendenza delle Idee spiega la differenza, non può
spiegare l'identità, mentre l'immanenza spiega tanto l'uno quanto l'altra.
Veniamo infine alla prova più forte dell'interpretazione trascendentalista, la
testimonianza d'Aristotile. Io non mi dissimulo la forza di questa prova, e
riconosco che essa costituirà sempre l'ostacolo più grave che incontrerà
Tinterpretazione contraria. E certamente quest'ostacolo sarebbe insormontabile,
se la testimonianza d'Aristotile fosse così chiara e certa, come suppongono
grinteppreti trascendentalisti. Ma essa è ben lungi dall'essere tale.
Osserviamo in primo luogo che l'interpretazione d'Aristotile ha bisogno alla
sua volta di essere interpretata, e gli stessi equivoci a cui dà luogo
l'interpretazione di Platone, s'incontrano naturalmente in quella
dell'esposizione che Aristotile fa di Platone. Nesegue che le prove contro
l'immanenza delle Idee contenute in questa esposizione sono assai minori in
realtà di quante ve ne trovano gl'interpreti trascendentalisti. Noi abbiamo già
visto che molte espressioni per DESIGNARE le Idee e i loro rapporti con le cose
in cui si pretende di vedere gli argomenti più forti della loro trascendenza,
p. e. il x«>?'-^^) 1'? '^^ TioUa, ecc. non hanno necessariamente la portata
che loro si attribuisco. La slessa osservazione vale per certe obbiezioni di
Aristotile contro la dottrina delle Idee, che secondo gl'interpreti
trascendentalisti non sarebbero possibili che nel, :Kripotesi della
trascendenza; p. e. quella del terz'uomo. Noi abbiamo visto che questa
obbiezione si comprende facilmente anche nelTipotesi dell'immanenza, ciò che è
anche provato dal fatto che Platone, nel Parmenide di VELIA, la rivolge contro
la propria dottrina immediatamente dopo quella che mostra la difficoltà di
concepire come Tuno inerisca simultaneamente nei molti. Una prova simile si ha
per il rimprovero che Aristotile fa ripetutamente a Platone di avere
raddoppiato inutilmente gli esseri: questo raddoppiamento degli esseri,
obbiettato alla dottrina delle Idee, dimostra così poco la loro trascendenza,
che noi troviamo la stessa obbiezione rivolta contro la dottrina che ammette le
entità matematiche, non separate dalle cose xexoptoiiéva tó5v alo^xdJv, ma
nelle cose stesse év Toig alo^yjxorg. Si deve notare inoltre che molti luoghi,
in cui Aristotile si rappresenta certamente le Idee come separate dalle eose,
non importano pertanto necessariamente che egli attribuisca a Platone questa
dottrina. L'Idea platonica, come abbiamo più volte osservato, per quanto può
essere un oggetto di rappresentazione, non può essere rappresentata che come
separata dalle cose, perché è imsibile di concepire come una sostanza sia al
tempo stesso un attributo, e inerisca simultaneamente in una moltitudine di
soggetti. Per conseguenza Aristotile poteva ammettere la separazione delle Idee
dalle cose e ragionare su questa premessa, anche riconoscendo che i Platonici
affermavano a parole il contrario a parole, perchè nessuna rappresentazione
reale poteva corrispondere alle loro affermazioni in quanto egli pensa che le
Idee, se esse esistessero, non potrebbero esistere che separate dalle cose. É
chiaro in alcuni casi che è cosi che si devono intendere effettivamente certe
proposizioni in cui Aristotile nega l'inerenza delle Idee nelle eose. Cosi in
Met. dice; Né le Idee giovano alla scienza delle altre cose perche non sono
sostanze di queste, poiché sarebbero in esse-iiè all'essere, non inerendo nei
par ' tecipantf: intatti potrebbe credersi ch'esse sono cause dell'estere delle
cose come il bianco, mescolato, è causa a una cosa di esser bianca; ma è facile
di confutare questo concclLo, che Eudossio ed alcuni altri hanno proposto,
seguendo Anassagora Qui Aristotile mantiene la sua proposizione, che nega
l'inerenza delle Idee nelle cose, anche di fronte alla proposizione di Eudossio
e degli altri, che l'affermano della maniera più energica: è che egli distingue
tra Tipotesi delle Idee considerata in se stessa, vale a dire nelle sue
condizioni necessarie, e le affermazioni verbali dei platonici. Similmente in
Met. dice: L'Uno non può essere una sostanza, per la stessa ragione per cui
nessun altro comune può essere una sostanza. La sostanza, in effetto, non
inerisce che a se stessa e a ciò di cui é sostanza. Di più nino non sarà
simultaneamente in molte cose, ma il
comune esiste simultaneamente in molte cose. Per cui è chiaro che nessuno degli
universali é oltre rcapa i singolari separatamente. Ma quelli che ammettono le
Idee in parte dicono bene, cioè quando le separano x^ptCiovisg, s'è vero che
sono sostanze; in parte dicono mal^, cioè quando chiamano l'Idea l'uno nei
molti. Evidentemente Met. qui la
proposizione l'Uno non sarà
simultaneamente in molte cose non ò una testimonianza sulla dottrina platonica
perchè anzi Aristotile rimprovera ai platonici di asserire che l'Idea è l'uno
nei molti, ma una deduzione dello stesso Aristotile, che nega Tinerenza
dell'Idea nelle cose come logicamente impossibile per le stesse ragioni che noi
abbiamo dette, cioè perchè una sostanza non può inerire in un altro soggetto, e meno ancora in una moltitudine di
soggetti allo stesso tempo. Tuttavia vi hanno dei casi in cui questa
spiegazione è inapplicabile, e nei quali bisogna riconoscere che, parlando
della separazione delle Idee dalle cose, Aristotile non emette un apprezzamento
proprio sulle conseguenze logiche dell'ipotesi delTesistenza delle Idee e le
condizioni della loro rappresentabilità, ma
attribuisce ai piaci M. .Vor. : Bisogaa parlare dell'l'loa del bcìie o no, ma piuttosto di quel bene
coraune ch«» inoriselo in t aiti i bftiìi parlicolari? questo bone, in «ffoltt,
parrà giiist amento Pss«^ro diver:^o
dall'Idea. L'Idea iat'atti è neparabile lympiaTÓv! ftde^isleppr se stessa aOiò
xaft'aùxc, ma il comune inerisco in tutti i particolari. Non è dunque lo stesso
il comune col soparabile, jxjiohò è
impossibile che ciò che è nepHrabile e capace .li caislore per se atesso
inerisca in tutti i particolari. Noir/;/;r
;'"./.!.. la distiu/j.me (k'l*l.lo.i
.lil bone dal bene comune, '»ltr^ che da que-»l 'impossibilità ò'inerire al tempo stesso in molte cose, è
dedotta anche da un'altra ragione, cioè da ciò che il hene cornane inerisce
anche ad un bene mediocre n IS L'Idea
del bene era riguardata come il bene assolato, senz'alcunM inescolanza di mnl.»,.<^ui la necessità
della trascendenza dell'Idea si fa derivare
dalla dt»lori)iÌJiazi(»ne che Platone attribuisce ad al'une Idee, di
rappresentare l'attributo ad un grado assoluto, mentre esso nella cose non si
trova che ad un grado relativo tonici di professare in effetto la dottrina che
le Idee sotio separate dalle cose. Nelle Top. dice: Si deve considerare se si
faccia qualche affermazione SII qualche
soggetto, dalla quale ne seguirebbe che in questo soggetto inerirebbero delle proprietà
contrarie' come se si affermi che le Idee siano in noi. Kcontnua mostrando le
contraddizioni che risulterebbero da questa affermazione, cioè che le Idee
sarebbero al tempo stesso immobìli e mosse perchè noi ci moviamo, intelligibili
e sensibili perchè le formo delle cose si percepiscono coi sensi. Qui Aristotile
sembra sapporre almeno che
Topinionc più abituale di quelli che
ammettono le Idee, o la pili autorevole, sia, non Timmanenza, ma la
trascendenza. Foise però questo luogo potrebbe significare solamente, come
altri di cui ci occuperemo i a s^guHo, che Aristotile ammette la possibilità
delle due interpretazioni contrarie dei sistema delle Idee Ma in alcuni luoghi
non può esservi dubbio che Aristotile non attribuisca recisamente ai partigiani
delle Idee la dottrina della trascendenza. Fra di essi segnalerò: Quelli in cui
le entità ammesse da Platone e dai platonici Idee ed entità matematiche vengono
DESIGNATE come separate dalle cose xsxf>?''.'3jJLsva Te)v
ovxwv, iG)f aìaBy^ifov,
ecc. Quelli in cui la dottrina
platonica sui numeri viene distinta dalla
pitagorica, perchè i numeri pitagorici sono nelle cose e queste constano di essi, ma i numeri
platonici sono separati yoif/.axot o xsxo>p'.a^l6VGl Quelli in cui sì
distinguono due frazioni nella scuola platonica, di cui runa ammette le entità
matematiche nelle cose V. J/W. Mei. SpJX
ì^ e l'altra separate. Si noti che Aristotile obbietta alTopinione che queste
entità sono nelle cose, che in questo cago anche le altre entità, le Idee,
dovrebbero essere nelle cose. E dunque
incontestabile che vi hanno in Aristotile un certo numero di luoghi in cui le
Idee sono chiaramente interpretate come separate dalle cose. Non ne segue però
che la sua testimonianza sia assolutamente favorevole alla interpretazione
trascendentalista, perchè, a iato di questi luoghi, l'esposizione aristotelica
delle dottrine platoniche contiene delle prove cosi forti della Immanenza delle Idee, che
basterebbero, anche nel caso che noi non possedessimo gli scritti di Platone,
per rovesciare l'interpretazione tascendentalista, e restituire a queste
dottrine il loro significato reale. Abbiamo già utilizzato alcune di queste
prove; ma non abbiamo tenuto conto che di quelle la cui evidenza ci sembra al
di fuori d'ogni dubbio, e ci siamo astenuti di servirci di un gran numero di luoghi che, quantunque
probanti per se stessi, potevano nondimeno far nascere qualche esitazione, per
la contraddizione con gli altri, in cui Aristotile sembra ammettere, o ammette
effettivamente, l'interpretazione trascendentalista. Ma cosi facendo, ci siamo
privati di molte prove dell'immanenza delle Idee, che sarebbe tanto meno giusto
di negligere, che alcuni tratti della
dottrina platonica, i quali dimostrano chiaramente quest'immanenza, risultano
più nettamente ancora dall'esposizione di Aristotile che dagli scritti stessi
di Platone, o ancte non si trovano che nel solo Aristotile, perchè appartengono
alla parte non scritta del platonismo Xypa^a
ÒÓY[iaxa. Tali sono: L'universalità delle Idee. L'Idea è, secondo
Aristotile, ciò che si attribuisce a
tutti gl'individui d'una specie 0 di un genere, il comune xoivóv nelle
cose particolari, l'universale xaeóXoi>, il predicato SHAGGY
HAIRY-COATEDNESS in comune xoiv^
xaxYjYopoójisvov o universalmente xaGóXco xax. Si dirà che questo
determinazioni non devono prendersi in un senso strettamente rigoroso, e che
tutto ciò significa, non che le Idee siano realmente gli attritributi generali delle cose, ma che Platone ha
trasformato i predicati generali in altrettante sostanze, in modo che queste
sostanze astratte abbiano lo stesso contenuto che gli attributi generali delle
cose, ma senza identificarsi con essi. E
certamente bisogna ammettere che le espressioni DESIGNANTI Tldea come
l'universale non aveano per Aristotile che un significato vago ed incerto. Ma
si deve notare che Aristotile non dice solamente dell'Idea che essa è
l'universale, il comune, il predicato univer
Mei. su questa distmzione il n. Vi.
MeL Mei. Eih, A'ic. FAh. Eud, MeU
Mei., Eth. Nic., A«. Post. ecc.. Eth. Eud., Met. Met. salmente, ma ancora
ch'essa è universale, che è comane e che si predica universalmente di tutti. Le
ultime forme non sembrano suscettibili, come le
prime del senso improprio che abbiamo detto. Più importante è ancora di SEGNALARE
certe obbiezioni conti'O la
sostantifìcazioue degli universali: p. e. Avistocile dice contro Platone:
l'universale, o il comune, ecc. non può essere una sostanza, perchè è un
attributo, o perchè inerisce in molti. Queste obbiezioni suppongono che i
termini Vuninersale, il comune, ecc. si applicano all'Idea in un senso Rigoroso, perchè esse
non valgono che in questo caso. Aggiungiamo infine che V individuo è chiamato,
relativamente allldea, il soggetto Le
Idee essenze o sostanze oOaCai delle cose. E una determinazione che Aristotile
attribuisce a ogni momento alle Idee. Perciò noi potremmo rivolgere a lui
stesso la domanda che egli fa ai platonici: Se le Idee sono le sostanze delle cose, come sarebbero separate? Met,
Questa domanda, s'intende, si rivolgerebbe ad Aristotile come interprete
trascendentalista: ma vi hanno delle ragioni per dubitare almeno che tutte le
volte ch'egli afferma o suppone che le Idee sono le essenze delle cose, egli si
tenga fermamente al punto Elh, Aie.,
MeL, €>, Kth. yic,, Fih, End. Vili. MeL MeL Met, Met. Mei, Mei, .•>,i di
vista di quest'interpretazione. La prima
è eh'egli identifi(ja continuamente
re.<f»s'enza della filosofìa platonica con Vessenza della sua propria
filosofia salvo, beninteso, che nel suo proprio sistema l'essenza non ha che
un'esistenza concettuale, e si distingue dalla ma Cosi
p. e. in Mt't,: Ancora, se la materia
è. perchè è ingenita, molto piti ragionevole è che sia l'essenza, vale a dire
ciò che la materia diviene. Infatti se
non è nò questa né quella, non sarà assolutamente niente. Che se ciò è
impossibile, è necessario che vi sia oltre il composto Tiapà xò at3voXov la
forma (jiOp^Tj'i e la specie £l$oc;ì. Ma se si ammette questa, è dubbio di
quali cose si debba ammettere, e di quali no. É chiaro che non è possibile di
tutte: non ammetteremo infatti che vi sia una casa oltre (TCapd) 1© f^ase particolari i platonici, secondo
Aristotile, non ammettevano Idee delle cose artilìciali In 3/eM. Ancora vi ha qualche cosa oltre il
composto :iapà iò aiivoXov o no? chiamo così la materia e ciò che è con essa la
forma. Se non vi ha, tutto ciò che è nella materia è corruttibile. Ma se vi ha,
sarà ceriamonte la specie sISol; e la forma pio pcpf/. Questa in quali cose vi
sia e in quali no, è difficile determinare. In alcuno cose è
chiaro infatti che la specie non è separabile ;x(Op'.aiÓv, p. e. nella casa
In Met,
V mentre parla della dottrina della detinizione, o dell'essenza che ne è l'oggetto: Se poi le essenze delle cose corruttibili
siano separabili xcopiaxatj non è ancora manifesto In Met. spiegando che vi ha
identità tra una cosa e la sue essenza, dice che cosi è anche necessariamente nel sistema delle
Jdeo, r-oichè è necessario che il bene in sé, l'animale in sé ecc; siano
identici con l'essenza del bene, dell'animale, ecc. L'essenza d'una cosa,
quando Aristotile fa l'applicazione del prmci|>ìo nel sistema delle Ideo,
non potrebbe avere un altro semso che quando la fa nel suo proprio sistema.
Dunque anche nel sistema delle Idee l'essenza è, come nel suo proprio sistema, un principio
intrinseco alla cosa di cui si dice l'essenza. teria solo logicamente, mentre
nel sistema platonico se ne distingue
realmente, ed ha come entità distinta unNsistenza reale. Questa identificazione esige che
Tespressiene essenza delle cose, applicata alle Idee, sia presa nel suo
significato proprio, e, per conseguenza, che le Idee siano immanenti. Lo
stesso deve dirsi, e a più forte
ragione, dell'obbiezione che Aristotile fa ai platonici, che sejuna è la
sostanza di tutte le cose cioè di tutte le cose subordinate a un'Idea tutte
queste cose saranno una cosa sola, perchè ciò la cui sostanza è una è
necessariamente uno. Qui è applicabile la stessa osservazione fatta al numero
precedente che vale per tutte le formule platoniche neiresposìzione aristotelica, cioè che non deve ammettersi
che Aristotile dia costantemente alla proposizione le Idee sono le essenze
delle cose il suo sigMìficato strettamente letterale, e neanche un senso
determinato qualsiasi, perchè il prenderla nel senso letterale, come Aristotile
sembra fare nei casi di cui abbiamo parlato implica, necessariamente
1'ammissione dell'immanenza delle Idee, e sarebbero quindi inesplicabili i luoghi in cui egli
mostra di ammettere T interpretazione trascendentalista; e d'altra parte,
escluso il suo significato letterale, non ve ne ha alcun altro di cui la
proposizione sia suscettibile. La
materia il soggetto delle Idee. In Mei., facendo 1 esposizione della
filosofia di Platone, dice La materia soggiacente òiioxstfiévY; a cui si
attribuiscono rUno nelle Specie e le
Specie nei sensibili, MeL la
dualità del Grande e Piccolo Conformemente a questa proposizione presa in un senso strettamente rigoroso Aristotile
in diversi luoghi riguarda l'individuo» nel sistema platonico, come il composto
dell'Idea e della materia. E cosi che egli fa nei dne primi della terz'ultima
nota; e a questi aggiungeremo i seguenti: Mei: < £ come la materia (se vi hanno delle
essenze oltre i singolari, tanto
nell'ipotesi.che l'essenza di tutti gl'individui sia una, come vuole Platone,
quanto in quella che siano molte e diverse diviene ciascuna di esse, ed il
tutto oóvoXov è l'una e l'altra l'essenza e la materia? Mei.: Nessuno ha spiegato come il numero sia
uno, o come siano uno l'anima e il corpo e in generale l'eidos e la cosa
evidentemente questo rimprovero non
potrebbe essere rivolto che ai platonici. Mei, : In atto è l'sISoc, se è
separabile (XCDpioxóv), e ciò che è da amendue dall'eldo; e dalla materia, vale
a dire l'individuo; la steresi la privazione dell'elòo^, come l'oscurità o la
malattia: ma la materia è in potenza. Essa infatti è ciò che può divenire
amendue cioè VbIòoq e la steresi Io non vedo come questi luoghi si potrebbero
accordare con l'interpretazione
trascendentalista. Osserviamo che il rapporto delle Idee con le cose e la
materia delle cose non può essere differente da quello dell'Uno con le Idee e
la materia delle Idee. Le Idee devono essere dette e essenze o le forme delle cose e ciò che ai attribuisce alla
materia delle cose, nello stesso senso in cui TUno è detto 1'essenza o la forma
delle Idee e ciò che si attribuisce alla materia delle Idee. Per conseguenza,
l'immanenza dell'Uno nelle Idee e nella loro materia essendo incontestabile,
anche le Idee devono essere immanenti nelle cose e nella loro materia. Il
rapporto dei numeri ideali con le cose.
L'immanenza dei numeri anzitutto è supposta dal mottvo che Aristotile
assegna alla dottrina che essi sono sostanze e principii delle cose. In Mei. dice mettendosi al punto di vista dei
platonici: Ma iJ corpo ò meno sostanza che la superficie, e la superficie che
la linea, e la linea che Tunità e il punto: da queste cose infatti il corpo è
determinato opioxat. E queste cose sembrano pot€^ essere senza il corpo, ma non il corpo senza
di esse in altri termini, secondo il modo di esprimersi che Aristotile
attribuisce il più abitualmente a Platone: soppressa la superficie, o la linea,
o il punto ounitA, sarebbe soppresso necessariamente il corpo; ma soppresso il corpo, non sarebbe soppressa
necessariamente la superficie, la linea, Tunità o punto. Perciò, mentre i più
antichi credono che la sostanza e
Tessere sia il corpo, e le aitr^ cose affezioni di esso RYLEIAN AGITATION,
in modo che i principi! dei corpi siano
i principii di tutti gli esseri; invece i più moderni e riputati più sapienti
ammettono che questi principii siano i numeri. E in Met.: Inoltre sono chiamate sostanze le parti
che ineriscono fiópia évjTiapxovxa in tali erse nel fuoco, la terra, gli
animali, ecc., che le terminano ópC^ovTa, e le quali soppresse, è soppresso anche
il tutto; come p. e. soppressa la superficie, è soppresso, come dicono alcuni,
anche il corpo, 0 soppressa la linea, anche la supertìce: ed associ NeUa
costruzione dell'esteso per i suoi termini e rinteryallo compreso tra di essi,
immaginata allo scopo di ridarre la grandezza al numero, i platonici
riguardavano il punto come una naità, Supplemento per comprendere questa
conseguenza, la nota seguente. lutamente è il numero che sembra essere tale ad
alcuni; niente essere infatti, soppresso questo, e questo termi' nave ópec=tv
tutte le cose questo numero riguardato come sostanza non può essere che il
numero Idea, perchè i platonici non sostantificano che T Idf a, l'universale.
L'immanenza dei numeri è ugualmente supposta a meno che non si vogliano
intendere le parole d'Aristotile in un senso molto lontano dal letterale in
questa obbiezione che egli fa alla dottrina dei numeri: Non si è poi per niente
determinato come i numeri ideali siano cause delle essenze e dell'essere: forse
come termini, Eoco come Aless. Afrod. Comui. in Met. ci spiega, certamente
secondo Aristotile, perchè i platomci ammettevano che i numeri sono i principii
delle cose, e identificavano le Idee con essi: Secondo loro il principio era il
più anteriore e il pi'i semplice, o dei corpi erano più anteriori e più
semplici i piani, dei piani le linee, e di queste i punti che essi chiamavano
unità dello unità non vi era niente di anteriore, e di più semplice. Ora le
unità sono numeri: dunque i numeri erano i prinripu di tutti gli esseri. E
poiché per loro i principii di tutte le cose erano le Idee, non potendo esservi
un principio anteriore ai numeri, non resta, seconde loro, che di ammettere che
le Idee sono numeri .Platone chiama una cosa anteriore ad un'altra, quando il
concetto della soconda racchiude quello della prima; vale a dire il più
astratto era detto da lai auteriore al più concreto. Questo rappono di
anteriorità importa per lui una sorta di causalità della oosa-cioò dell'
entitàanteriore verso la posteriore; poiché il principio della dialettica
platonica è che il più astratto e pii generale è in certo modo la causa del più
concreto e più particolare. IL SEGNO dell'anteriorità d'una cosa su di un'altra
era che soppressa la prima si sopprimerebbe anche la seconda, mentre soppressa
qa..ta, non si sopprimerebbe quella: p. e. ^PP^, /Z^;; ?arobbe soppresso perciò
anche l'Uomo, ma soppresso 1 Lomo, non sarebbe soppresso perciò l'Animale. -11k
quali i punti delle grandezze? o comer armonia è una proporzione di numeri,
così pure V uomo e ogni altra cosa? Ma è chiaro che nel secondo caso i numeri
non sarebbero le essenze né le cause della forma. L'essenza infatti sarebbe la
proporzione; il numero sarebbe la mateda y>. In diversi luoghi poi
Aristotile sembra rappresentarsi i numeri ideali come gli elementi costitutivi
delle gr;indezze. In il/e/, l., dico che quelli che ammettono le Idee fanno le
grandezze dalla materia e dal numero ideale. S'egli non si rappresentasse
effettivamente i numeri come elementi costitutivi della grandezza, non si
comprenderebbero delle obbiezioni come le seguenti: Met dopo aver detto che
secondo i Pitagorici e Platone V Uno è sostanza per se stesso, cioè nel suo
concetto astratto, e non è qualche altra cosa, p. e. qualcuno degli elementi
dei Fisici: Ma come da un tal Uno o da più sarà la grandezza? Sarebbe come se
si dicesse che la linea è composta di punti.: dopo aver detto che per produrre
i numeri, cioè gl'ideali, e le grandezze, alcuni aggiungono airUno in sé un
altro elemento, rineguaglianza Né si vede come dairUno e questa né come da un
altro numero e questa possano farsi le grandezze. Mei.: Se vi hanno le Idee o i
numeri, non saranno causa di niente: certo almeno non del movimento. K poi come
da cose senza grandezza sarà la grandezza e il continuo? In alcuni di questi
luoghi, a dir vero, non si parla delle grandezze sensibili, ma delle grandezze
matemaUche, che erano intermediarie tra le grandezze sensibili e i numeri
ideali: ma questa differenza importa poco, perchè, se le Idee fossero
trascendenti riguardo alle cose, dovrebbero essere anche trascendenti riguardo
alle entità matematiche, Infatti, le stps-e determinazioni che sembrano esigere
la trascendenza delle Idee riguardo alle cose aùxè xaG'a'nó^ Xo>ptox'5v,
ecc. esigerebbero pure la loro trascendenza riguardo alle entità matematiche; e
l'immanenza delle Idee nelle entità matematiche dà luogo alle stesse
inconcepibilità che la loro immanenza nelle cose, non esclusa la più grave che
è quella dell'inerenza simultanea dell'uno nei molti, poiché anche delle entità
matematiche ve ne erano molte, come attesta Aristotile, della stessa specie,
vale a dire partecipanti a un'Idea a un numero ideale unica. Si dirà che tutti
i luoghi d'Aristotile precedentemente citati, se possono provare che le Idee
platoniche sono immanenti, non possono provare però che l'autore se le
rappresentasse come tali, perchè bisogna evitare un'aperta contraddizione tra
questi luoghi e quelli in cui egli è chiaramente favorevole all'interpretazione
trascendentalista; e per conseguenza si deve ammettere che Aristotile riproduce
le formule e le locuzioni platoniche, che in se stesse implicano l'immanenza,
ma senza dare ad esse alcun significato preciso, anzi riguardandole come non
suscettibili di un significato preciso. Ed io riconosco che quest'osservaziene
é in gran parte giusta: essa però non mi sembra applicabile a tutti i luoghi
citati, notevolmente a quelli in cui Aristotile fa delle obbiez'oni che non
hanno valore se non nel caso che le Met, Met. formule platoniche si prendano
nel loro significato proprio, implicante rinimanenza. Ma vi hanno anche altri
luoghi, in cui r immanenza delle Idee, nel concotto d'Aristotile, è più
evidente ancora. Di essi alcuni concernono il rapporto tra le Idee e le cose,
altri solamente quello tra le Idee più generali e le più particolari: ma questa
differenza per noi ha poca importanza, perchè Aristotile non poteva non
comprendere le ragioni di coerenza che esigevano che l'uno dei due rapporti
fosse'identico all'altro, e d'altronde le ragioni prò o contro V immanenza
delle Idee più generali nelle più particolari erano quelle stesse che valevano
prò o contro l'immanenza delle Idee nelle cose. Dei luoghi che concernono il
rapporto delle Idee generali con le Idee particolari, la parte più
considerevole sono certamente quelli che dimostrano l'immanenza nel concetto
stesso d'Aristotile dei due elementi, cioè deirUno o Essere e della Diade
indefinita o Non essere, in tutte le altre Idee questi stessi luoghi, la più
parte almeno, provano pure l'immanenza di queste due Idee le più universali,
che Platone chiama gli elementi, nelle cose stesse. Noi ne abbiamo parlato, e
non occorre ritornarvi. Ma vi hanno anche parecchi luoghi, in cui sono le Idee
generali indistintamente che vengono riguardate come immanenti nelle Idee
particolari. Cosi in Met, l'Idea del genere e quella della differenza si
considerano come parti, e l'Idea della specie come il tutto composto di queste
parti Altrove invoee lo Idee speoiliche souo oonsideraie come parti deU'idea
generica, Met. Noi abbiamo Tisto ohe nel sistema delle Idee immanenti vi hanno
necessariamente al tempo stesso fra i Generi e lo Specie fjuesti due rapporti
apposti. IWd., dopo aver obbiettava alla dottrina dei due elementi che, se
ciascuno di essi è uno di numero come vuole Platone e non semplicemente di
specie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi, agrgiunge che la
stessa obbiezione ha luogo quando, oltre noLpd le Idee aventi lo stesso elfiog,
si ammette alcun che di separato xexfoptoiiévov vale a dire quando si ammette
un'Idea generale oltre le Idee particolari subordinate a un concetto comune:
Tobbiezione vale anche allora, perchò nel sistema dell'immanenza è
inconcepibile p. e. come, TAnimale essendo unico, possano esservi nondimeno
molti animali, TUomo, il Bue, ecc.., dice che se il principio del numero
matematico fosse qualche uno, diverso dall' t/7io che è il principio del numero
ideale, VUno in se stesso sarebbe ciò che vi avrebbe di comune in questi due, e
inoltre si dovrebbe ricercare come VUno potesse essere questi molti. obbietta
alla dottrina dei numeri ideali che l'unità che é nella Dualità è anteriore a questa,
poiché, soppressa essa, si sopprimerebbe anche questa; e per conseguenza tale
unità dovrebbe essere un'Idea d'Idea, essendo anteriore a un'Idea Un'Idea
d'Idea significa evidentemente un'Idea più generale, ossia anteriore, a cui
partecipa un'altra Idea più particolare, o^^ia posteriore. Ora quest'unità che
dovrebbe essere un'Idea deiridea della Dualità, è in questa; perciò Aristotile
si rappresenta l'Idea anteriore, cioè la più generale, come inerente nell'Idea
posteriore, cioè nella più particolare. E in diversi luoghi le parole
ivipapxstv inerire, Oitòlpxstv év essere in vengono impiegate per denotare sia
la re Mei. AH. P<rtt. V Iasione delle Idee generiche con le Idee specifiche
sfa qaella delle' Idee con le cose. L'immanenza delle Idee nelle cose' é pòi
supposta della maniera più evidente dairòtbiezione che Aristotile fa
ripetutamente alla sostantiàcazione degli universali, di condurre all'assurdità
che una sostanza unica sia molte sostanze. Se si astrarrà il predicato in
comune ese ne farà tina sostanza, Socrate sarà moiti animali, egli stesso,
TUomo e l'Animale, s'è vero che ciascuna di queste cose significa Una sostanza
e un che di unico. Ciò che nessuno degli universali è sostanza è chiaro anche
per quésta ragióne, che è impossibile che una sostanza riéulti da sostanze che
le ineriscano in atto. Infatti le cose che in atto sono due è impossibile che
siano uno in atto? potrà essere uno ciò che è due solo in potenza, come il
doppio, ia cui vi hanno in potenza le due metà; è l'atto che separa Per cui, se
la sostanza è qualche cosa di unico, essa non potrà risultare da sostanze
inerenti; e in questo scuso Democrito ha ragione di ammettere che è impossbile
che di due cose se ne faccia una sola o di una due: le sostanze infatti sono
secondo lui le grandezze indivisibili Tuttavia la nostra conclusione presenta
uria difficoltà: se è impossibile che una sostanza risulti da universali,
perchè essi significano delle qualità e non delle sostanze è uu'altra
obbiezione che precedentemente ha fatto alla sostantificazione d'egli
universali, e se una sostanza non può essere composta di più sostanze in atto,
la sostanza sarà qualche cosa d'indecomponibile, e non vi potrà essere de Met,,
finizione della sostanza perchè i platonici riguardanola definizione come una
decomposizione del definito nei suoi elementi. La stessa obbiezione è anche
presentata sotto un'altra forma: La definizione non è T^H discorso unico per la
congiunzione delle parti, come l'Iliade, ma perchè si riferisce ad un oggetto
unico. Cos'è dunque che fa che l'uomo sia uno, e perchè esso è uno e non più,
p. e. l'animale e il bipede, specialmente se vi ha, come alcuni dicono, un
animale in sé e un bipede in sé? perchè l'uomo non è questi, e perchè gli
uomini non sono perla partecipazione, non di uno, l'Uomo, ma di due, l'Animale
e il Bipede? allora 1'uomo l'individuo, sembra non sarebbe Uno, ma più,
l'animale e il bipede Perchè ciò che diciamo essere l'oggetto della
definizione, è uno, p. e. l'animale bipede, à'è questa la definizione
dell'uomo? Perchè ciò è uno e'iibn più, r animale e il bipede? Infatti 1'nonio
e il bianco sono più, quando l'uno non inerisce all'kltro; sono uiio, quando
l'uno inerisce all'altro, e il soggetto l'uomo ha un'affezione la bianchezza. E
allora che ciò diviene ed è uno, l'uomo bianco. Ma nel nostro caso una cosa nou
partecipa dell'altra: il genere infatti non sei»bra»partecipare delle
differenze; poiché lo stesso parteciperebbe dei contrari, le ditterenze per cui
il genere differisce essendo Met. L'obbiezione che la realizzazione degli
universali ha per conseguenza che una sostanza sia composta di pili sostanze, ò
pure accennata a. Seal. Met. contrarie. E quand'anche ne partecipasse, vi
sarebbe sempre la stessa difficoltA, se le differenze sono più, p. e. pedestre,
bipede, implume. Perchè tutto ciò è uno e non molti? che esse ineriscano non è
una ragione sufficiente, poiché a questo patto da tutte ne risulterà una cosa
sola da tutte vuoi dire: da tutte insieme le differenze contrarle che si
producono nella divisione, cioè da pedestree volatile, bipede e quadrupede,
implume e piumato, ecc., perchè tutte queste differenze ineriscono egualmente
nei genere. Forse si troverà che questi due luoghi suppongono Timmanenza del
Genere e della Differenza nella Specie, ma non neirindividao. E sia pure ! ma
come abbiamo osservato, il rapporto tra le Idee generali e leldoe particolari
non potrebbe differire da quello tra le Idee e le cose. Un'altra obbiezione che
suppone V immanenza delle Idee nelle cose, è quella dePa Metafìsica, cif è che,
se vi hanno le Idee, avranno molto più essere le cose p. e. lo sciente o il
mosso che le Idee p. e. la scienza o il movimento in sé, perché le cose hanno
più attualità, mentre le Idee sono le loro potenze. Nell'ipotesi deirimmanenza
le Idee sarebbero effettivamente le cose in potenza, ma solo in quest'ipotesi,
perché il potenziale e l'attuale sono, non due cose separate, ma due stati
d'una sola e stessa cosa, stati che possono succedersi nel tempo, come Nel
metodo platonico, in cai la definizione è il risaltato della divisione per
diootomia Aristotile trova impossibile ohe lo stesso, cioè il genere, partecipi
dei oontrarii, perchè egli ragiona sull'ipotesi ohe il genere sia ana sostanza,
cioè an'idea: in qaest'ipotesi, il genere partecipando di dae differenze contrarie,
si ha l'assordo che ad ana stessa cosa ineriscono dae contrari, Met', il
fanciullo è in potenza l’uòmo, o solo iogicatóenfe, c^iflé, secondo Aristotile,
la materia è tutte le cose in poteiis^a. Nel secondo ctìso, il jotenziale è
Tatiuàle stesso codIbìderato in uno ^tato d'indeterminazione: rra le Idee, se
sono immanenti, sono f recisamente le cose stesse allo stato indeterminato,
cioè astratto. Infine citerò qu'^sfaltra obbiezione della Phys.: Platone
avrebbe dovuto dire com'è che le Idee e i numeri non sono nello spazio, se ciò
che ne partecipa è lo Spazio come egli afferma. L'obbiezione é giusta
supponendo che il partecipato sia, secondo Platone, neZpartecipante. Ma che
significato potrebbe avere neir interpretazione trascendentalista, per cui il
partecipato è fuoH del partecipante? Basterebbe questo luogo per mostrare che
Aristotile non si rappresenta costantemente le Idee come trascendenti, e che la
sua testimonianza sul rapporto tra le Idee e le cose è contradittoria ed
incerta. D'altronde lo stesso Aristotile confessa la sua itìcertezza. Cosi in
Met. dice: A tutte queste cose cioè ai numeri e alle grandezze è comune il
dubbio che vi ha sul rapporto del Genere con le sue Specie, quando si ammettono
gli universali; cioè se 1'animale che è in un animale sia Tanimale stesso o un
altro diverso dall'animale stesso vale a dire se l'attributo anici Tattavia,
malgrado la giastezza dell'ossesvazione d'Aristotile, Platone paò affermare al
tempo stesso che lo spazio partecipa alle Idee e che qneste non sono nello
spazio, perchè lo spazio riaiiisce nel sao sistema dae fanzioni e dae concetti
differenti, qaello di materiale a qaesio panto di vista lo spazio è rigaardato
come l'estensione para e quello di luogo. Lo spazio partecipa alle Idee cbihe
materia; ma le Idee non sono nello spazio, perchè lo spazio è anche il laogo, e
le Idee non sono in un luogo.-malità che e nell^uomo p nel leane ecc. sia
l'Idea delranimale ipotesi deirimmanenza o qualche cosa di diverso da
quest'Idea ipotesi della trascendenza. Non vi ha alcuna ragione di dubitare, se
questo non è separa/o o separabile: xwpioxóv: ma se, come dicono quelli che
ammettono tali dottrine, TUno e i numeri idealij sono separati o separabili,
non è facile di risolvere questa (luistione, se si può^dire che non è facile
ciò che è affatto impossibile. Quando si concepisce l'uno nella diade oin un
altro numero qualunque, é l'uno stesso che si concepisce o un altro uno? E in
Met.: Se esistono realmente le Idee, e 1'animale è nell'uomo e nel cavallo,
deve ammettersi che sia Dell'uno e nell'altro, 0 numericamente uno e lo stesso
ipotesi dell'immanenza, o diverso ipotesi della trascendenza. Dalla nozione si
vede che è uno; poiché esprime la stessa nozione chi lo atribuisce all'uno e
all'altro. Ora se vi ha un uomo in sé, sostanza e separato, è necessario che
anche le cose da cui risulta, quali sono l'animalo e il bipede, siano sostanze
e separato; iJicchò anche l'animale. ..^-A ^ ì i 1 'Il én ijfii^i'.. l !' i y
Come si vede, iMncertezzi d’Aristòìile suV'ry dee più generali ejle Idee più
particolari si estende anche, com'è naturale, a quello tra i due elementi e
tutte le Idee, poichò i duo elementi non sono che le Idee più generali di
tutte. Ciò, malgrado che in altri luoghi sembri indubitabile ch'egli ammetta
l'inerenza dei due elementi nelle Idee e nelle còse Vv(^.^I e VtM)M(0 stosso
dubbio sulla quistione dell'immanenza o trascttiidenza dei due eie menti è
espresso in Met.: dopo aver detto che quellj ohe ammettono che i numeri e gli
esseri in generale risultano dagli elementi, non hanno determinato in qual modo
il numero risulti da essi, se per la loro mescolanza o per la loro composizione
o altrimenti. E poiché, quando una cosa risulta da altre, può risaltarne sia
come da cose che le ineriscono, sia oome da cose che Se dùnque questo è uno e
lo stesilo iieir uomo e nei cavallo, della stessa maniera che tu sei uno e lo
stesso con te stesso, come potrà essere lo stesso in esseri separati? e come
non sarà anche separato da F0 stesso V E se parteciperà del bipede e del
multtpede, ne seguirà una cosa impossibile; poiché i contrari ineriranno
simultaneamente in uno stesso soggetto. Se no cioè se il Genere non partecipa
delle Differenze, com'è che potrà dirsi dell'animale che è bipede o che é
pedestre? 0 forse queste cose il Genere e le Diflerenze si compongonc» e si
congiungono o si mescolano? ma tutto ciò è assurdo sin qui contro l'ipotesi
dell'immanenza. Si ammett'^rà invece che l'animale é diverso in ciascun animale
particolare? ipotesi della trascendenza. Mavì saranno allora un'infinità di
esseri, di cui l'essenza sarà l'animale. E di più l'animale in sé sarà molti
cioè vi saranno molti animali in sé, poiché l'animale che é in ciascun animale
particolare é sostanza. Sicché ciascuno degli non le ineriscono, in quale di
questi due modi il numero viene dagli elementi? Da cose che ineriscono non
vengono se non le cose che sono fatte. Viene forse dagli elementi come da un
germe? ma niente può uscire dall'indivisibile. O forse ne viene come da un
contrario non permanente cioè come una cosa viene dalla sua contraria, quando
questa ha cessato di esistere? ma le cose ohe risultano da altre a questo modo,
risultano anche da qualche altra cosa permanente cioò da una materia, che è il
sustrato dei due contrari, Aristotile cerca una rappresentazione voglio dire
una imnKtffuie di ciò che ò irrappresentabile. Met, 7" quelli che
ammettono che il numero viene dall'uno e dalla pluralità, Speusippo non hanno
determinato il come, e vanno incontro alle stesse difficoltà a cui qualli che
ammettono che essio viene dall'uno e dalla dualità indefinita, sia che si
tratti di generazione, sia di mescolanza, ecc. Plat. Parmen. VELIA imimali ohe
sono ne^i animali particolari -è un «nimale In sé. E questo donde verrà, e come
potrà venire dalridea dell'animale? o in che modo sarà possibile quest'animale
in sè2 oltre l'Idea dell'animale? Queste stesse difficoltà accadono per le cose
sensibili, ed anche WAgglori Le ultime parole ci mostrano che Aristotile era
altrettanto incerto sul rapporto tra le Idee e le cose che su quello tra le
Idee generali e le Idee particolari. Quest'incertezza d'Aristotile sui concetti
fondamentali del suo maestro sembrerà strana: ma non bisogna dimenticare che il
sistema platonico appartiene alla stessa classe che quello al cui autore si è
attribuito di aver detto che nessuno dei suoi discepoli lo aveva compreso.
Qaest'inoertezsa sai rapporto fra le Idee generali e le particolari si vede
an^he in Mei. Se non vi ha affatto Genere oltre napoc quelle ohe sono come le
specie d'an genere o vi ha, ma come materia di esse, è chiaro ohe la
definizione è la nozione che risalta dalle differenze. Qai si fanno due
ipotesi, d coi la prima è che non vi siano assolatamente Idee dei generi, e la
seconda che queste Idee siano immanenti nelle Idee delle specie, Aristotile
ammette perciò tanto la possibilità dell'immanenza quanto quella della
trascendenza. Non è per altro necessario a un metafisico di essere un Hegel o
un Platone o uno Spinoza per essere non compreso o frainteso da quegli stessi
che sembrano nelle condizioni più favorevoli per intenderlo perfettamente. È
una sventura che può accadere anche ai metafisici meno lontani dal senso
comune, e che è infatti accaduta ai filosofi stessi della scuola del senso
comune. La dottrina fondamentale di Reid, che nella percezione noi abbiamo una
conoscenza intuitiva degli oggetti esteriori cioè una conoscenza in cui è
presente l'oggetto stesso, e non una sua immagine mentale è stata intesa al
rovescio da un altro dei più illustri filosofi della scuola scozzese, cioè da Brown,
il quale attribuiva invece a Reid la dottrina ordinaria che nella percezione
noi abbiamo della Del resto le ragioni dell’incertezza d'Aristotile sonò
abbastanza ovvie. Egli vede da una parte che delle entità come le Idee,
platoniche non potrebbero concepirsi che separate dalle cose, e che l'ipotesi
deirimmanenza è una impossibilitrà logica e una contraddizione; ma vede anche
dall'altra porte gli sforzi, benché vani, di Platone per collocare le Idee
nelle cofe, identificandole coi loro attributi. Per risolvere i dubbi di
Aristotile sarebbe bisognato un'esame sufficiente sui motivi e lo scopo del
sistema delle Idee e le condizioni indispensabili per realizzare questo scopo:
ma un tale esame avrebbe supposto un grado di riflessione psicologica, che sarebbe
vano di attendersi, anche da un Aristotile, in un'epoca in cui lo spirito
òomincia appena a prendere se stesso per oggetto. realtà esteriore una semplice
rappresentazione. Vi ha qualche analogia tra il caso di Brown e quello di
Aristotile, perchè Brown, oltre d'essere un discepolo della scuola stessa di
cui Reid fu il capo era in relazioni personali intime con Stewart, il
propagatore delle dottrine di Reid Mill crede che l'interpretazione di Brown
sia la vera, e sostiene contro Hamilton che la percezione per Reid non è
immediata: ma i luoghi di Reid che egli cita per dimostrare il suo assunto-^v.
FU. di Hamilton e, X mostrano solamente che secondo Reid la concezione
dell'oggetto esteriore, nella percezione è suggerita dalla sensazione, che è il
SEGNO NATURALE della presenza dell'oggetto percepito – potched obble -- Senza
dubbio, se chiamando la percezione immediata, si vuel dire ch'essa è un atto
dello spirito che non è preceduto e occasionato da un altro, la percezione per
Reid non è immediata. Ma la quistione non era se sia o no immediata in questo
sensOy ma se per Reid sia immediatamente presente nello spirito che percepisce
lo stesso oggetto percepito, o solamente la rappresentazione di quest'oggetto,
come ammettono la più parte degli altri filosofi – H. P. GRICE THE CAUSAL
THEORY OF PERCEPTION. £ su questo punto che Hamilton Aveva rimproverato con
ragione a Brown di aver fraiuteso Reid. IL PITAGORISMO PLATONICO •d. t Alcune
dottrine di Platone, per cui Ik nostra srirg^oìite' unica o principale è negli
scritti di Aristotile, sam'.bbei'o inesplicabili al semplice puntò dì Vi^tà
defila teoria delle Idee, quantunque mescoUce e fuse con le proposizìoni di
quelita teoria; e noi non po«»siamo spie«j^arlo, cbe per un sincretismo dei
concetti propri dì Platone con quelli del pitagorismo. Queste dottrine sono
assolutamente prive di qualsiagii valore filosofico, ei sarebbe impossibile di
assegnare ad esse Porigino da cui derivano generalmente i concetti metafisici,
vale a dire di dedurle d»«lle illusioni naturali o sofismi a priori del nostro
spirito. Invece o^se appariscono ii risultato di sneculazìoni arbiIr-afie e di
sofismi, puramente artificiali; e, sotto questo rapporto, escono dall'argomento
di questo scritto, che è dt mostrare, hei sistemi che ci p-esenta la storia
della filosofia, lo sviluppo della metafisica naturale dello spirito umano.
Tuttavia è per noi indispensabile di occuparci anche di queste dottrine: senza
di ciò, la nostra in1;erpretazione del sistema platonico lascerebbe dei punti
oscuri, che è necessario di chiarire, perchè potrebbero ritorcersi contro di
essa. Premettiamo alcuni cenni sulla filosofia pitagorica. Le dottrine
principali e più caratteristiche dei Pitagorici consistano in queste due
proposizioni: la prima che le rose sono fatte ad imitazione dei numeri e sono
esse stesse numeri; la seconda che tutto consta di due elementi contrari, che
sene delle astrazioni riguardate come entità sussistenti per se stesse, cioè il
Limite tispag, Tcspatvov o Limitato TisTrspaaiiévov che era idenficato con
1'loipari, e rillimitato ineipov, ehe era identificato col Pari. Sulla dottrina
che le cose souo numeri Hegel dice; <f Ammiriamo quest'arditezza a
distruggere d’un colpo tutto il mondo sensibil»^, e a considerare il pensiero
com^^ l'essenza dell'universo. Per m^, io devo confesf^are che non posso
ammirare altra cosa che la grandezza di quelito non senso; in quanto al
pensiero essenza deiruniverso, è uno di quei concetti che Hegel presta
gratuitamente agli altri filosofi, per fare entrare i loro siatemi nel quadro
artificiale, in cui egli presenta la storia della filosofia. Sulle dottrine dei
Pitagorici devo ripetere l'osservazione fatta sulle dottrine pitagoreggianti di
Platone cioè che io non credo che esse possano essere derivate dai sofismi
naturali del nostro spirito. Io non vedo cha un mezzo per comprendere in
qualche modo la possibilità di dottrine come quelle della filosofia pitagoiica:
è di ammette: e nella formazione di queste dottrine^ rn/ione di un processo
simile a quello a cui si attrib»ii^ce la Aristotile Mt't, Aristr.ssene ap.
Stob., ecc. Ari>;t. Mei., ecc; PI ut. llar. ecc. i'i) Arist. Met, V té
formazione dei miti, ò almeno di lina gran parte di essi, cioè r
interpretazione in un senso strettamente realista di proposizioni che all'origine
non avevano che un senso figurato. Le dottrine religiose potrebbero fornirci
parecchi esempi di credenze che hanno avuto evidentemente quest'origine; e
certo le condizioni del miluogo in cui si forma la filosofia pitagorica si
prestano facilmente all'azione di un tale processo. Questo, oltre che dal
legame tra i discepoli di questa filosofia, che erano i membri della società
pitagorica, e il carattere semi-religioso di questa società, e dall'ossequio
illimitato, che ne seguiva, all'autorità del fondatore personaggio a metà
mitologico, ch« i proseliti riguardavano come un semidio, era favorito anche
dalla circostanza che la dottrina non si tramanda che oralmente. Noi possiamo
dunque supporre che Pitagora si era limitato ad ammettere l'esistenza di grandi
analogie tra le cose i numeri, concetto oscuro e non suscettibile di un
significato preciso, ma che non era un non senso cosi evidente come la
proposizione che le cose SONO numeri; e che questa proposizione non era per lui
che un'espressione iperbolica per denotare d'una maniera energica e concisa
queste pretese analogie delle cose coi numeri, non che il concetto più giusto,
che le ricerche scientifiche della scuola ci danno il dritto di attribuirgli,
della presenza in tutti i fenomeni di rapporti numerici regolari, e
dell'importanza di questi rapporti per determinare la FILOLAO DI TARANTO fu il
primo che mise in iscritto la dottrina pitagorica un secolo e forse più dopo la
fondazione della scuola Zeller natura delle cose. Ma in seguito, per un effetto
della tendenza naturale a prendere in uu senso strettamente proprio le
proposizioni ricevute da un'autorità in cui si ha una fede cieca, si venne
insensibilmente nella scuola a dare alla proposizione il suo significato
letterale di un'identità assoluta tra i numeri e le cose; quantunque a lato di
questa dottrina, per una di quelle incoerenze, di cui i sistemi
tradizionalisti, com'era eminentemente il pitagorico, ci presentano frequenti
esempi, coesistesse pure r altra, più conforme al pensiero del fondatore della
scuola, che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri. Questa spiegazione
deve applicarsi naturalmente, non solo alla formula generale che tutto è
numero, ma anche alle proposizioni particolari che fanno l'applicazione di
questa formula. P. e. le proposizioni il numero due è l'opinione, il numero
quattro è la giustizia, all'origine non significano, come vennero intese in
seguito, l'identità assoluta del numejo due con Topinione e del numero quattro
con la giustizia, ma volevano dire semplicemente: il numero due rappresenta o
simlx>leggia l'opinione, e il numero quattro la giustizia; vale a dire
affermano soltanto l'esistenza di un'analogia tra questi numeri e queste cose.
Aristotile dà pure per motivo alla dottrina dei Pitagorici 2e analogie ch'essi
credeno di vedere tra le cose e i numeri Met, e i rapporti numerici regolari
che osservano nei fenomeni Met. Tuttavia egli parla anche di un altro motivo,
cioè che i numeri sono i primi di tutti gli esseri, sembrando attribuire questo
concetto ai Pitagorici stessi. Ma verisimilmente, cosi facendo, egli presta al
pitagorismo genuino un concetto che non appartiene che al pitagorismo di
Platone e dei Platonici: infatti, che i numeri siano primi degli esseri, è
evidentemente una conseguenza del principio platonico che una cosa, cioè
un'entità, è anteriore ad un'altra, quando, soppressa la prima, si sopprime
anche la seconda: ora non vi ha alcuna ragione per attribuire questo principio
ai Pitagorici. I Pitagorici non dicevano solamente che iuiio e numero^ma ancora
I numeri dei Pitagorici sono evidentemente delle astrazioni realzzat'. Tuttavia
non lo sono d’una maniera cosi assoluta come p. e. le Idee di Platone o quelle
di Hegel. In effetto la preposizione che le cose sono numeri può considerassi a
duo punti di vista opposti: in quanto riguarda come cose reali delle semplici
astrazioni quali sono i numeri, questa proposizione è una realizzazione dì
astrazioni; in quanto non accorda ai numeri un'esistenza distinta da quella
delle cose, e non pone per consegueuza altro di reale che le cos^ stesse, cioè
gli oggetti concreti, essa non lo ò. In una parola, questi numericose dei
Pitagorici sono al tempo stesso astratti e concreti questa contraddiziooe è uno
degli aspetti iu cui si manifesta la contraddizione originaria contenuta nel
loro concetto: coni», numeri, sono astrati; come cose, sono concreti. Ma là
dove il regalismo dei Pitagorici si mostra seuz'alcuna ambiguità, ò nella
dottrina dei due elementi. Il Limitato e rillimitato, come osserva più volte
Aristotile, non designano delle sostanze p. e. aria, act' che tutto e armonia
Arist. Mei.; e in questa proposizione la parola armonia ha un significato
musicale, e DESIGN l'ottava Zeller All'origine di questa seconda proposizione
può applicarsi la stessa spiegazione che abbiamo proposto per la prima; vale a
dire il fondatore della dottrina, dicendo che tutto è armonia, intende
solamente alfermare l'esistenza di analogie proionde tra la costituzione delle
cose e i rapporti dei suoni musicali; l'identificazione assoluta tra le cose e
1'armonia non avvenne cbe in seguito, per un etf'etto della tendenza segna'làta
nel testo, a prendere in un senso strettamente letterale le proposizioni venute
da un'autorità ciecamente rispettata. Met, Phys, acqua o fuoco, a cui questi
termini vengono attribuiti come predicati SHAGGY, ma sono gli stessi attributi
limitato e illimitato che vengono riguardati come sostanze. La stessa
osservazione vale per l'Impari e il Pari: questi termini non DESIGNANO i numeri
impari e i numeri pari, ma delle entità corrispondenti ai concetti astratti
dell'impari e del pari; erano, come il Limitato e V Illimitato, non degli
attributi, ma dei soggetti. Per questa sostantificazione di semplici
astrazioni, la filosofia dei Pitagorici ha una certa aria di somiglianza con
quella di Platone. Vi ha però una differenza essenziale tra il realismo di
Platone e quel'o dei Pitagorici. In Platone, come In Spinoza o in Hegel, il
realismo deriva dai sofismi a priori dello spirito umano, ed è destinato, con
la dialettica che ne è il complemento indispensabile, a dare una soluzione ai
problema delle cause .efficienti. Invece nel isisitema pitéigorico come in
altri sistemi che si sono formati in condizioni analogh<e, vale a dire che
sono 1'opera, non del lilkero esame individuale, ma della tradizione e di un
dommatismo cieco, per esempio nella filosofia degP Indiani o nella scolastica
il realismo è senz'alcuna utilità per la spiegaeione dei fenomeni; e la
migliore ipotesi 0he si possa fare per rendersene conto è, io credo,
di^rioorrere a un processo simile a quello a cui abbiamo attribuito la dottrina
che le cose sono numeri, cioè di ammettere che la realizzazione delle
astrazioni ^iw/a^o, 27' limitato^ impari^ pari sia stata lettetto di malintesi
sul significato di formule antiche, ricevute con, uik^. spirito ciecamente
autoritario, e, come avviene in tal caso, intese d'una maniera troppo
rigidamente letterale. ? -j 1 1 . i. o>; ^ ij: L -. ÀiTa dottrhnr dei àné
eleménti era legata quella deHe dieci opposizioni, che però non era ammessa che
da una parte delia scuola. Queste opposizioni erano: il limite 0 limitalo e
Tillimitato, Timpari e il pari, Tuno e il multipk, il destro e il sinistro, il
mascolino e il femminino, il riposo e il movimento, il retto e il curvo, la
luce e Toscurità, il bene e il male, il quadrato e il rettangolo. Queste d'eci
coppie di opposti erano riguardate dai Pitagorici come t principii degli
esseri. Aristotile osserva eh'essi non determinavano chiaramente a quale delle
quattro cause materia, forma, causa efficiente, causa finale questi principii
dovessero ricondursi: ma risuk» dai frammenti di Filolao che li riguardavano
come elementi costitutivi del reale. Evidentemente, il concetto racchiuso nella
tavola dt^lle dieci opposizioni è la coesistenza da per tutto di cose o di
determinazioni contrarie: ma questo concetto è rivestito d'una forma
assolutamente arbitraria Perchè fra tutte le opposizioni delle cose si scelgono
queste dieci –il decalogo di Grice --, e si elevano al grado di principii ed
eUementi degli esseri? Forse questa dottrina è anch'essa, come la più parte
delle altre proposizioni metafisiche dei Pitagorici, Talterazione d'una
dottrina primitiva più ragionevole, e nel pensiero del primo autore della
proposizione, ch« è poi divenuta la dottrina delle dieci opposizioni quale noi
la conosciamo, queste oppos'zioni determinate non erano che degli esempi
particolari del principio generalo della coesistenza universale degli opposti.
In ciascuna delii) dieci opposiaioni, l'uno dei membri era ricondotto al
Limitato e Taltro airilliniitato. Speiso, in effetto, l'uno dei due concetti
opposti 1'uno, il bene, il riposo, il retto, il quadrato rappresenta qualche
cosa di definito, l'oggetto corrispondente al concetto non potendo essere che
in un sol modr; e l'altro il multiplo, il male, il movimento, il curvo, il
lettangolo qualche cosa d'indefinito, l'oggetto corrispondente al concetto
potendo essere in un'infinità di modi. Questa riflessione però non potrebbe
applicarsi a tutte le opposizioni masc fem dies sini lux obscuritas; e nella
riduzione di queste alla opposiz one fondamentale del Limitato e
deirillimitato, i Pitagorici sono inoltre guidati dal concetto che il perfetto
deve mettersi dalla parte del Limitato 0 Finito, e l'imperfetto dalla parte
dell'Illimitato per r analogia che vi ha tra V idea di perfetto e quella di
Met. Mai. Ap. Stob, Arirft. Eth, Nk. il male è, secondo i Pitagorici,
deirillimitato, il bene del limitato. Kth. Nic. e Met. in cui l'una delle due
serie degli opposti, quella in cui è compreso l'uno, l'impari, il retto, è
chiamata la serie dei beni e la serie del bello; Eudemo ap. Simpl. Ph^/s, i
Pitagorici e Platone portano nel movimento i' infinito^; Aless. Afrod. in Met.,
Plutarco Quaest. rom., ecc. per i Pitagorici l'impari è mascolino, il pari
femminino; Eudoro ap. Simj)!. I*/iys a i Pitagorici chiamano l'uno dei due
elementi impari, mascolino, destro, luce, l'altro pari, femminino, sinistro,
oscurità; eco. Filolao nei Fr. ap. Stob. parla, come di elementi costitutivi
delle cose, di /imt/afi cioè, propriamente l imita nti.^TlBp OLÌ vovia ed
ilUìììitatif al plurale: è ciò che egli non farebbe, se oltre al Limitato e
all'Illimitato unico non ammette molte forme di lindtato e d'illimitato.
Aristotile (Kth. Nie, dice: si può essere cattivi in mille forme, ma non si può
essere buoni che in un sol modo; e appoggia questa proi>osizione
sull'autorità dei Pitagorici, che ponevano il bone nella classe del finito e il
male in quella dell'infinito. . r ' finito. Infatti la nerie del Limitato è
chiamata la serie ouoToix^a del bene e d< 1 btllo. Un'altra proposiz'one iir
portante dei Pitagorici, sia per il loro stesso sistema, hia per l'intelligenza
dei rapporti di esso con quello di Plhtui«e, è che i numeri vengono dall'Uno.
Questa preposizione è troppo naturale, perchè occorrano delle spiegazioni: solo
bisogna avvertire che Aristotile applica all'Uno la stessa osservazione ch'egli
fa sul Limitato e T Illimitato, vale a dire che rUno non significa per i
Pitagorici una sostanza che ha per attributo l'unità^ ma è lo stesso attributo
unità q\ìq è riguardato da essi come una sostanza. Questa sostantificazione
dell'uno è ur a conseguenza naturale della sostantifìcazif ne dei nurreri: ma
nel!'uno il carattere di astrazione realizzata appurisce piùnetto che nei
numeri. In questi è alquanto incerto, perchè essi vengono id< nt'ficati con
le cose stesse: ma V uno, come prinrip'o ed elemento dei numeri, non può
identificarsi con ah una cosa part'colare. Arist. Eth, yic. Eth, Nic. lArist.
Mi't. Mot, I Pitagori, è vero, assegnano l'ano all'intelligenza, air anima,
ecc.: ma il concetto dell'ano ha per loro evidentemente pii estensione che le
cose particolari ch'essi riconducono a questo numero, e non è in quanto
principio ed elemento dei numeri ohe l'uno viene identificato con queste cose.
Come nota giustamente Zeller, un concetto generalo, nella filosofia dei
Pitagorici, riceve in un caso particolare una determinazione speciale, senza
ohe perciò questa determinazione appartenga al concetto generale essenzialmente
o in tutti i oasi. Questa realizzazione di astrazioni è il punto di contatto
più notevole tra il sistema dei Pitagorici e quello di Platone. Ma si deve
anche notare un'altra analogia. I principii degli altri filosofi anteriori a
Platone sono gli elem« nti materiali di cui le cose sono fatte Pacqua, l'aria,
il fuoco, i quattro eh menti di Empedocle di GIRGENTI, gli atomi di Democrito,
ecc. o le forze motrici generali della natura il Nous d'Anassagora, TAmore e 1'
Odio di Emfedocle di GIRGENTI, ecc: questa o.«servazione si applica anche agli
VELINI DI VELIA, perchè l'Uno o Essere di questi filosofi non è che la materia
universale delle cose, con questa differenza che le formo diverse, rivestite da
questa mat<»ria, sono dichiarate delle semplici apparenze. I principii di
Platone invece sono le essenze delle cose, i loro concetti generici e specifici
cioè gli oggetti corrispondenti a questi concetti. Ora i numeri pitagorici
corrispondono anch'essi ai concetti generali delle cose, e rappresentano le
loro essenze. I Pitagorici dicono: la giustizia è il numero quattro, il
matrimonio è il numero cinque, Topportunità é il numero sette, V opinione è il
numero due, ecc; un tal numero è quello dell'uomo, un tal altro quello del
cavallo, ecc. Aristotile, è vero, liconduce i numeri dei Pitagorici tanto al
principio essenziale quanto al principio materiale: ma ciò vuol dire
semplicemente che, a differenza dei numeri ideali di Platone, che rappresentano
le sole forme delle Arist. Met., e Aless. Afrod. in Met. Arist Met., Teofrasto
Mei Met, Met, cose, i numeri pitagorici rappresentano le cose stesse, in
entrambe le parli che cr stitu'scono il loro concetto, cioè, per esprimerci
nella lingua di Platone e d'Aristotile, il composto SINODO della forma e della
maleria. L'ultima forma della filosofìa platonica risulta da una fusione dei
concetti propri del sistema delle Idee coi concetti fondamentali del
pitagorismo, di cui abbiamo parlato. Le dottrine per cui questa seconda forma
del sistema differisce dalla prima, sono conosciute col nome di «Ypa^a SÓYfiaxa
dottrine non scritte, perchè, quantunque alcune si trovino già nel Timeo, nel
loro insieme non sono state esposte da Platone che oralmente, nelle sue conf^rf
nze sul Bene. Queste dottrine si riducono ai punti seguenti: Le Idee, e per
conseguenza le cose, sono numeri. Le Idee e le cose constano di due elementi,
corrispondenti al Limite e Illimitato dei Pitagorici. Le Idee rappresentano la
sola forma delle cose. Cosi. per costituire U c(se, concorre con le Idee un
altro fattore, la materia: questa è identica allo spazio. Le entità
matematiche, ci^ò i numeri che sono Too-getto delTaritmetica e le grandezze
geometriche, quantunque s^ano, come le Idee, drgli universali realizzati, 81
distinguono nondimeno dalle Idee propriamente dette, e costituiscono un terzo genere
di esseri, differenti al tempo stesso dalle Idee e dalle cose, e intermediari
fra le une e le altre. Noi esamineremo successvamcnte queste quattro dottrine.
I niitnrri ideali La proposiziono che le Lire, e quindi le cose, sono numeri
non ha alcun legame nntu-ale col sistema delle Idee es^a non p tnbbe dcdursi né
dalla realizz«izione degli universali né dalla dialetcica, i due punti a cui il
sistema ^i riduce; ed ò d'altronde evidente che Platone non sarebbe arrivato a
questa dottrina senza l'influeaza della filosofia pitagorica. La teoria delle
Idee numeri ci apparisce dunque chiaramente come il risultato di un sincretismo
tra la teoria propriamente platonica delle Idee e quella pitagorica dei numeri.
Ciò è confermato dalla testimonianza d'Aristotile. Questi comincia V
esposizione doli i filosofìa platonica, osservando che in molte cose Platone ni
un seguace dei Pitagorici, ma ne ebbo anche alcune che gli furono proprie; e
poi, facendo la dis-inzione tra ciò che è proprio a Platone e ciò ch'egli deve
ai Pitagorici, la parte che gli attribuisce come propria nella dottrina dei
numeri è l'aver posto questi al di là delle cose Trapàxà ataeyjxa, mentre i
numeri pitagorici erano le cose stesse. Questa differenza significa che per i
Pitagorici i numeri s'identificano immediatamente con le cose particolari, per
Platone invece sono delle entità universali, che non s'identificano
immediatamente che con le Idee, e con le cose solo mediatamente, in quanto
l'essenza dì queste consiste nelle Idee. Aristotile ci attesta inoltre ch3
nella forma primitiva del sistema platonico la dottrina delle Idee non era
legata a quella dei numeri, e che la identificazione delle V. per questa
dottrina Arist. Mei. «ce. Met. Idee coi numeri avvenne in un perfodo
posteriore. Ciò risulta anche, indipendentemente dalla tfstimrnianza di
Aristotile, dair esame delle Fcritlure platonkhe. Se hi eccettui 1'Epinomide
che del resto è di un'autenticità incerta e il Timeo, nel quale la costiuzione
dei corpi per le superficie suppone certamente la dottrina che il reale
consiste rei nume/i, non vi ha negli scritti platonici alcuna traccia di questa
de ttrina. Vi hanno anzi dei luoghi, in vari dialoghi, che escludono l'identità
tra le Idee e i numeri. In tutti i casi in cui è quistione di numeri come entità
tranne néW Epinomide, come nella Repuhlica, nel Fedone, nel FlUhy, nel
Parmenide, Platone non intende per essi che le determinazioni particolari che
costituiscono l'oggetto dell'aritmetica, e non la sostanza stessa delle cose,
com'egli farebbe se ammettesse già la teoria delle Idee numeri. Aggiungiamo che
in parecchi dei luoghi indicati b. attribuita ai numeri la comhinabilUà, cioè
si fanno constare tutti da unità della stessa natura, mentre, conio diremo in
seguito, il carattere dei numeri Idee vale a dire dei numeri con cui tutte le
Idee sono identificateè V incombinabilità, cioè la composizione di ciascun
numero da unità che non sono della stessa natura che quelle di un altro. Né
potrebbe dirsi che i numeri di cui è quistione in questi luoghi sono quelli che
nell'esposizione aristotelica vengono distinti dai numeri Idee col nome di
numeri matematici, e dati come intermediari fra essi e i sensìbili; e che
l'autore, oltre questi numeri, potrebbe anche ammftt^re un altro genere di
numeri gì'ideali, rappresentanti, non H semplici de terminazioni aritmetiche,
ma l'essenzi stns^a delle cos^: è evidente infatti che egli lìon conosce altri
numeriche quelli di cui parla. Ciò rinulta anzitutto da l'impiago in tutti
questi luoghi del nome numero e di q lelli che DESIGNANO i diversi numeri, come
esprimenti, il primo la specie in generale, i secon li la specie riguardata
come entità individuale alla maniera di Platone. Se l'autore ammette già due
numeri, l'ideale e il matematico, l'espressiono generica il numero non potrebbe
significare per lui il solo numero matematico; impiegata per DENOTARE una sola
delle due specie del numero, essa DESIGNEREBBE piuttosto l'ideale, perchè i
numeri ideali erano riguardati come r essenza tanto dei numeri matematici
quanto dei sensibili, e il nome secondo Platone é proprio dell'essenza:
similmente l'Unità, la Diade o la Triade non potrebbero significare che
l'Unità, la Diade e la Triade ideali, tanto per la stessa ragione, quanto
perchè dei numeri matematici dopo la loro distinzione dagli ideali ve ne erano
molti della stessa specie si ammettevano molte unità, diadi, triadi, ecc.
matematiche. Di più: nei luoghi del Fedone i numeri di cui vi si parla sono
chiamati Idee, e posti alio stesso rango delle altre Idee mentre s^ l'autore
ammette inoltre i numeri ideali, ai numeri matematici, cioè rappresentanti le
semplici determinazioni aritmetiche degli esseri, non ASSEGNEREBBE che la
qualità d'intermediari tra le Idee e lecose. In quello della Repubblica questi
stessi numeri che rappresentano 1 soli attributi aritmetici sono chiamati
l'essenza oOoia e la natura cpóai; dei numeri; ricevono, Mei, Supplem. FiUbo
Rep, Parm, VELIA per determinare di quali numeri si tratta, V attributo aùxó;,
che, come sappiamo, si^mifica l'Idea, e che Aristotile, nelle sue allusioni
«Ile dottrine platoniche, impiega per indicare che il nome a cui si riferisce
DENOTA, non le cose né le entità intermediarie, ma la loro Idea; -e vengono
opposti ai numeri sensibili in un modo che esclude la possibilità di una terza
specie di numeri In quello del Filebo infine si distinguono dne sole scienze
sui numeri, quella del volgare, che addiziona unità di natura differente, e
quella del filosofo, che non ammetto che unità tutte della stessa natura il
numero matematico; non vi ha luogo per una terza scienza, che ammette, come
quella del volgare, unità che non sono della stessa natura, ma senza
addizionarle il numero ideale. Aristotile fa menzione di cinque caratteri che
distinguono i numeri ideali, sia dai numeri matematici sia dai numeri dei
Pitagorici: I numeri di Platone sono xwptaioi dalle cose, mentre i numeri dei
Pitagorici sono le cos« stesse. I numeri di Platone sono monadici, vale a diro
costituiti di vere naità, semplcì e incorporea, meatrc i numeri dei Pitagorici
hanno grandezza. Dei numeri matematici ve ne hanno m)lti d.jlla stesm specie
(vi hanno molte uiità, diadi, triad-', ecc. matematiche), ma dei numeri ideali
ciascuno è uno solo Af^i, , ecc. i numeri stessi, non i numeri aventi corpi
visibili e palpabili NUMERIC QUANTIFIER THE THREE GRICES; quei numeri ch«
possono pensarsi, ma non mai toccarsi altrimenti. Pàys,, Mei. Mei. <vi ha
una sola unità, diade, triade, ecc. ideale. I numeri matematici sono
combinabili, cioè composti di unità omogenee, e quindi capaci di addizionarsi
fra di loro, ma i numeri ideali sono incombinabili, cioè le unità che
compongono uno dì questi numeri non sono omogenee con quelle che ne compongono
un altro, e non possono, per conseguenza, addizionarsi con esse. I numeri
ideali hanno fra di loro anteriorità e posteriorità, i numeri matematici no. Di
questi caratteri il P non ha bisogno di ulteriori spiegazioni: esso vuol dire
semplicemente che 1 numeri di Platone sono degli universali realizzati, al
contrario di quelli dei I^itagoricì, che sono le cose stesse particolari. Il
2<^ ò legato alla dottrina che le Idee rappresentano la sola forma delle
cose senza la materia, e il 3"' e il 4<^ a quella che le entità
matematiche si distinguono dalle Idee e sono intermediarie tra di esse e le
co3e: per conseguenza noi potrem-) occupircei3 che quando parleremo di queste
due dottrine. Per ora ci occuperemo solamente del 5®, cioè à}\V anteriorità e p
Miriorità dei numeri ideali. Quest'anteriorità e posteriorità consiste in ciò,
che i numeri ideali si generano progressivamente gli uni dagli altri. Per fare
questa generazione, Platone riguarda Mei., ecc. Mei. Mei. 1^'anterioritÀ e
posteriorità non è propria esclusivamente dei numeri ideali che nel senso che
spieghiamo in seguito, e che è quello ordinario e tecnico che (jaesti
t<irmini hanno nella filosofia platonica. L'aateriorità o posteriorità di
cui in Mei., Eth, Nic. ei Edi. Eud, è tutt'altracosu Sappi; e in quest'altro
senso essa conviene certatnante anche ai numeri matematici. ciascuQ numero come
una combinazione particolare delrUno e della Dualità indefinita è con questi
nomi che vengono DESIGNATI i due elementi delle Idee e delle cose, al punto di
vista della dottrina dei numeri Il numero Due nasce dalla moltiplicazione
dell'Uno per la Dualità indefinita, e il numero Tre dall'aggiunzioGe dell'Uno
al prodotto dell'Uno per la Dualità indefinita; il numero Quattro dalla
moltiplicazione del Due per la Dualità indefinita, e il numero Cinque
dall'aggiunzione dell'Uno al prodotto del Due per la Dualità indefinita; e co^l
di seguito, sempre con questa regola: che il numero pari nasce dal numero
equivalente alla sua metà moltiplicato por la Dualità indefinita, e il numero
impari dall'aggiunzione dell'Uno al prodotto del numero, equivalente alla metà
del numero pari immediatamente inferiore, per la Dualità indefinita. Ogni
numero dunque cioè, se il numero ideale è finito, ogni numero, tranne quelli
che sono generati gli ultimi ne produce altri due: uno pari, che nasce dal suo
raddoppiamento, e uno dispari, che nasce dal suo raddoppiamento e
dall'aggiunzione dell'unità. Il numero che produce è detto anteriore, e i
numeri che sono prodotti, posteriori. Nella formazione dei numeri posteriori
dal numero anteriore, concorrono con esso l'Uno e la Dualità indefinita: ma
questi non Sono qualche cosa di esteriore che viene ad aggimngérsi a questo
numero, ma Fono gli elementi stessi di questo numero, sicché in realtà i numeri
posteriori non vengono prodotti che dal numero anteriore. La Dualità indefinita
è chiamata bisectiva, perche si suppone che, nella formazione dei numeri, essa
raddoppia le unità del numero anteriore, dividendo in due ciascuna dì queste
unità: ciò è per mostrare che le unità che costituiscono i numeri posteriori
non vengono d'altronde che dal numero anteriore. Per rendere conto dell'unità
soverchia dei numeri dispari si dice che in questi numeri V unità media è lo
stesso Uno in sé. Qual è era il significato di questa generazione successiva
dei numeri ideali? Noi sappiamo che 1'anteriorità e posteriorità delle Idee; è il
movimento dialettico per cui le conseguenze si sviluppano dai principi!, cioè
il rapporto tra il principio e la conseguenza essendo identificato a quella tra
la causa e 1'eifetto gli effetti dalle cause; e che l'idea anteriore è il
Genere, e le Idee posteriori le Specie m cui esso si divide. Ora l'anteriorità
e posteriorità dei numeri non può essere altra cosa che r anteriorità e
posteriorità delle Idee corrispondenti a questi numeri. I rapporti di
filiazione tra i numeri Vedi per questa formazione dei numeri ideali Ari^^t,
Afet., eoo. Platone non riguarda un numero impari corno posteriore al numero
pari immadiat amente inferiore, ma considera i due numeri oome nati
simultaneamente dal numero equivalente alla metà del pari; p. e. il Due e il
Tre nascono simultaneamente dall'Uno, il Quattro e il Cinque dal Due, eoo. Cosi
tanto le unità ohe oompongono il Due quanto quelle che compongono il Tre
vengono riguardate oome immediatamente consecutive all'Uno in sé Het. al
contrario di quelle ohe compongono gli altri numeri, le quali non gli succedono
che mediatamente e Aristotile rimprovera a Platone di far produrre a un numero,
da una stessa materia cioè dalla Dualità indefinita, più numeri, facendolo
generare una volta sola, mentre in tutti gli oggetti che si producono, la
materia dell'uno non può mai essere la stessa che quella di un altro, e chi
introduce nella materia 1' bIòoq deve agire tante volte quanti sono gli oggetti
prodotti Met.. Alex. Aphrod. ad Arist, Mat. Arist. Met, rappresentano dunque i
rapporti di filiazione tra le Idee secondo il loro nesso dialettico. Questa
corrispondenza tra la formazione progressiva dei numeri e lo sviluppo
dialettico delle Idee si vedrà subito, gettando uno sguardo sulla tavola
seguente, che noi possiamo chiamare l'albero genealogico dei numeri. La serie
naturale dei numeri, coììì disposti secondo i loro rapporti di filiazione,
rappresenta 1'ordine con cui le Idee corrispondenti si seguirebbero, se si
fajcrse una divisione completa, procedendo dal Genere supremo VEnsere o il Bene
alle Specie infime per tutti i Generi intermediari. La produzioie dei numeri
inferiori dal numero superiore rappresenta la produzione delle Idee particolari
dairidea generale: il numero anteriore ha sotto di se due numeri posteriori,
perchè la divisione platonica è una dicotomia. Non bisogna credere però che
Platone, oell'assegnaro i numeri aUeldee, si tenga scrupolosamente ai concetti
su cui ò fondata la dottrina deUa generazione progressiva dai numeri. Egli fa
talvolta rappresentare a dei numeri che sono fra di loro ne7 rapporto di
anteriorità e posteriorità, delle Idee che non sono fra di loro nel rapporto di
genere e specie. Cosi egli assegna all'intelligenza Il numero uno, alla scienza
il num3ro due, all'opinione il numero tre e alla sensazione il numero quattro
Arist. De an. Met. Ps. Alex, tu Met. Naturalmente ciascuno di questi numeri
riceve diversi impieghi e in effetti noi In questa formazione dei numeri è
accolto il concetto pitagorico che i numeri procedono dalTuno. Come osserva
Aristotile, l'altro elemento V Infinito dei Pitagolici tu ricondotto a una
dualità, per rendere possibile questa generazione progressiva dei numeri, senza
di cui la fusione tra il sistema dei numeri e il sistema delle Idee non sarebbe
stata completa, poiché la dialettica, altrettanto importante per questo sistema
che la realizzazione degli universali, non sarebbe stata rappresentata. Fece
Platone dell'altra natura una diade, affinchè i numeri, dai primi in fuori, se
ne generassero, come da sappiamo che il due è anche il numero della linea, il
tre della superficie, il quattro del solido 7V an. e 3fet. 1. c.-e, secondo
Xenocrate, l'uno della linea indivisibile v. n.V. L'uno rappresenta anchel'
Idea più universale, cioè l'Essere o il Bene, che è (luellaehe gli compete
conformemente alla regola che la filiazione dei numeri corrisponde al nesso
dialettico delle Idee; e cosi il due, il tre e il quattro devono anche
rappresentare delle Idee subordinate a quelle rappresentate dai numeri
anteriori e superordinate a quelle rappresentate dai numeri posteriori.
Neil'applicazione della dottrina dei numeri, Platone non può evitare lo stesso
inconveniente che era accaduto ai Pitagorici Ari6l. MH, cioè di assegnare a uno
stesso numero dei concetti affatto differenti: e in eftetto, per quanto quest'attribuzione
di un dato numero a un dato concetto fosse arbitraria, essa dove essere pure
fondata su <iualche analogia, e accade facilmente che in concetti differenti
si trova un'analogia con uno stesso numero. Questa pluralità di significati data
a uno stesso numero, oltre alla identificazione di coso differenti, porta
necessariamente nel sistema [datonico l'altra inconseguenza che la filiazione
dei numeri non corrispondeva esattamente alla filiazione delle Idee: per
l'esattezza di questa corrispondenza, sarebbe stato necessario che ciascun
numero rappresentasse una sola Idea, quella che nell'albero genealogico delle
Idee occupa lo stesso posto che il numero nell'albero genealogico dei
numeri.un'effigie, comodamente. Per i numeri primi di cui parla qui Aristotile,
bisogna intendere, conformemente airinterpret^zione d'Alessandro d'Afrodisia,!
numeri dispari;>Wwe vuol dire: primi con due; e il senso dello parale dai
primi in fuori è che i numeri dispari non si generano, per mezzo della Dualità
indefinita, così comodomente come i numeri pari. I due elementi ^ono chiamati
il Fine Tiépag e V Infilato àTisipov come quelli dei Pitagorici, e
identificati, come questi, coi Dispari e il Pari. Per questa rome (cr altre
circostanze di cui diremo in seguito, la dottiina platonica mostra un rapporto
evidente di paleutela con quella d<i Pitagorici: ma essa presenta pure delle
differenze eFsenzialt corrispondenti al punto di vista proprio del sistema
delle Idee. Anzitutto i due elementi di Platone sono dei predicati generali
comuni a tutti gli esseri: in effetto essi si trovano presenti in tutti gli
esseri, e secondo il sistema delle Idee la presenza di una entità in molte
cos'^ è la partecipazione in comune di queste cose all'attributo corrispondente
all'entità. A que(j) Arkt. Met. Mct. Arisi. Met, il comm. di Aless. Afrod,
Phys. Simpl. aMAris^P;<i/s.fol. in,Aristoss. Harmonic, eìam, l. II. sul
princ, eoo. Noi sappiamo almeno che quest'identificazione era fatta da
Senocrate. Stob. Fxl. P/sys, e Arist. Mctaph. per il riforimonto del secondo di
questi due luoghi a Senocrate ciò che diremo di lai al num. sta particolarità,
che ha la sua ragione nella dottrina dc'le Idee, se ne può aggiungere un'altra,
che ha la sua ragione nella dialettica, ed è che, ch^'airando le due entità
elementi, Platone non vuol dire solamente che sono gli elementi costitutivi di
tutti gli esseri, ma ancora, per quest'identificazione costante del logico e
dell'ontologico su cui è fondata la sua metafisica, che sono gli elementi
costitutivi della conoscenza di tutti gli cs^'eri, vale a dire i principii da
cui questa conoscenza si deduce. Ma la particolarità più caratteristica della
dottrina di Platone è che i due elementi sono riguardati, l'uno come la forma o
la specie (slSog) di tutte le Idee e di tutte le cose, e l'altro come la loro
materia oxotxsta. Come osservammo altra volta, il concetto di materia ha in
Platone due applicazioni essenzialmente differenti: da una parte le Idee sono
le forme delle cose, e per costituire le cosp, si aggiunge a queste forme una
materia lo spazio; dall'altra parte queste forme che sono Id Idre vengono da
due elementi, una /orma e una materia. Cosi quest'ultima materia che si trova
nelle Idee si trova naturalmente anche nelle cose, perchè le Idee non sono che
nelle cose; ma la prima, cioè lo spazio, è fuori delle Idee, ed è propria
solamente delle cose. L'una di queste materie è evidentemente distinta
dall'altra: tuttavia, per una di quelle incongruenze di cui è piena questa
dottrina dei due elementi, Platone non parla di due matere, ma di una sola
l'Infinito, il Grande e Piccolo, Mi't, Met., in cui si trovji la siùt^gaziono
di quest'uso della parola olomenti. Supplem. Supplem. il Non essere, ecc.
significaDo tanto la materia comnuo alle Idee e alle cose quanto la materia
proprie delle cose riconducendo, sf condo il metodo incoerente dei Pitagorici,
a uca stfssa entità dei concetti assolutamente distinti. L'elemento formale non
è altra cosa che V Idea del Bene. Cosi la modificazione, che la dottrina dei
due elementi apporta nella forma primitiva del sistema, consista?
nell'introduzirne di questa nuova entità, che con un temine che, per quanto
concerne il rapporto dì quest'entità con le Idee, non potrebbe intendersi che
in un significato analogico, è chiamata materia, perchè Platone riguarda ancora
l'Idea del bene come il genere supremo di cui tutte le altre Idee sono le
specie, e per conseguenza dei due elementi non considera come slSog che quello
corrispondente a quest'Idea, e si rappresenta la relazione di quest'elemcDlo
con l'altro come analoga a qriella della forma con la materia. Platone dà ai
due elementi diversi nomi, corrispondenti ai diversi punti di vista della
dottrina. L'elemento formale, oltre che il Tiépa^ e il Bene, è chiamato anche
l'Essere, perchè è l'Idea generale di tutti gli esseri – a cabbage IZZES a good
cabbage – it hazzes GOOD, e, al punto di vista deila teoria dei numeri, l'Uno
3;, perchè è i! principio da cui derivano le Idee-numeri, e i numeri, secondo i
Pitagorici, derivano dall'utio. Per giustificare la riduzione dell'elemento
formale all'Uno, si dice che ciascuna cosa, in quanto è, è una la d'ssoluzione
in molti ne è la morte, e la sua fralvezza consiste nella persistenza in una
stessa Supplom. Arisi. Mei., occ. Mct, . forma, e perciò l'Uno è causa alle
cose deiresseree dell'esser bene. Di quest'identificazioue dell'Idea suprema
con rUno ha potuto anche darsi un'altra ragione, cioè che quest'Idea è l'uno
tatto, vale a dire è il punto di partenza dell'evoluzione dell'essere, in cui
il tutto esiste come uno. L'Ono è riguardato come elemento dei numeri a un
doppio punto di vista, cioè tanto perchè ciascun numero è un tutto unico ciò
che è conforme alla funzione di elfio^ che viene assegnata all'Uno, quanto
perchè i numeri sono composti di unità ciò chb dà occasione al rimprovero
d'Aristotile che l'Uno funge anche da materia. L'Infinito, al punto di vista
della dottrina dei numeri, è chiamato la Dualità indefinita 8uag àóptoxoc, per
rendere possibile la formazione progressiva dei numeri di cui abbiamo parlato;
e il Grande e Piccolo, per mostrare che esso è una dualità, e stabilire cosi un
passaggio dal concetto d'infinito a quello di dualità indefinita. Per
giustificare questa riduzione dell'Infinito al Grande e Piccolo, si dice che
l'infinito si trova tanto nella grandezza quanto nella piccolezza, perchè la
quantità proci) Alex. Aphr.
ad Mei. MeU Arist. Met, Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys, Arist. Met. Al. Aphr. ad Mei., Simpl. ai Phys., ecc.
La riduzione delllllimitato alla Dualità indefinita sì deduce per altro
naturalmente dalla sua identità, nella dottrina pitagorica, col Pari, n Pari
infatti, come concetto generale, è in certo modo una dualità indeterminata;
vale a dire una dualità alle cui unità non si attribuisce un valore
determinato, potendo essere dei numeri qualunque. Arist. Met. cede airinfinito
tanto nelT aumento quanto nella diminuzione. Naturalmente il Grande e Piccolo
non possono essere considerati come elemento se non in quanto 8i riguardano
come predicati attribuiti a tutti gli esperi: tuttavia, quantunque la grandezza
e la piccolezza che si attribuiscono alle cose particolari s^ano
necessariamente una grandezza e una piccolezza finite, Platone riguarda il
grande e il piccolo in sé stessi come infiniti, perchè non vi ha alcun limite
ne nei gradi della grandezza GRICE I LOVE YOU TO THE MOON AND BACK -- né in
quelli della piccolezza. Per indicare il Grande e Piccolo nella sua funzione speciale
di elemento dei numeri poiché il Grande e Piccolo é una decominazione generica
che DESIGNA tanto V demento materiale dei numeri quanto quello delle grandezze
8'impìega la denominazione più particolare di Molto e Poco. Sul Molto e Poco
vale naturalmente la stessa osservazione?he abbiamo fatta sul Grande e Piccolo;
vale a dire essi non sono che dei predicati generali dei numeri, ma quantunque
il molto e il poco che sodo nei numeri siano necessariamente finiti, pure
Platone riguarda il molto e il poco in se stessi come infini imperché tanto
l'uno quanto Taltro progrediscono airinfinito. Per indicare che ai tratta, non
di due entità, ma di una sola, il Grande e Piccolo è chiamato l'Ineguale:
infatti l'ineguagliarza consiste nel più e nel meno, e il grande e il piccolo
sono delle nozioni comparative, una cosa dicendosi grande o piccola in quanto é
maggiore o minore di un'altra. Arist. Phys., Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys. Arist.
Mei. Alex. Aphr. ad MeU Arist.
MeU Alex. Aphr. art MeL, ecc. Uno dei punti fondamentali della dottrina è che i
due elementi sono contrari, e Telemenlo materiale rappresenta al tempo stesso
la materia e la steresi GRICE NEGATION AND PRIVATION cioè la privazione dell'slSog.
Per indicare la seconda funzione, quest'elemento è chiamato il Non essere; e in
generale a un nome impiegato per DESIGNARE T uno degli elementi corriponde il
suo contrario come DESIGNAZIONE dell'altro elemento. Cosi, T elemento
mat'^riale essendo chiamato T Ineguale, T elemento formale riceve il nome di
Eguale. Secondo questo principio, all'uno, nome dell'elemento formale, dovrebbe
corrispondere, come nome dell'elemento materiale, il multiplo, tuttavia Platone
oppone all'Uno il Grande e Piccolo e non il Multiplo, ma considera il Grande e
Piccolo come equivalente al Multiplo. In effetto il Grande e Piccolo, come
elemento dei numeri, cioè delle Idee, è il Molto e Poco; e il Molto e Poco non
è che V espressione del concetto della moltiplicità sotto una forma che Met,,
ecc. Arist. Phys,,
Met. Met,, Phys,, Phys., ecc. Arist. Met,, Alex. Aphr. ad Met,, ecc. Arist. Met,: i platonici oppongono all'uno T
ineguale, riguardando questo come la natura della moltiplicità – H. P. GRICE
.ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. L’equivalenza 'tra il Grande e Piccolo
e il Multiplo risulta anche dalla dottrina che la Dualità indefinita è la causa
della moltiplicità degli esseri Arist. Met, perchè secondo il sistema delle
Idee la causa di un attributo delle cose è la partecipazione all'entità
corrispondente a quest'attributo, e dalla proposizione che il numero partecipa
all'Uno in quanto è alcun che di unico, e alla Dualità indefinita in quanto è
una moltitudine Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phyz, -=r4.r I / fi il Diverso n lo n
Tf '«<'t''e indica più volte Ln/ Diversità come denominazione dell'elemento
materiale. Evidentememe l'elemento formale è ricondotto al concetto dello
stesso, perchè i^ bone^olsl tat;trmr" P«'"dell'^sseTn 'o a„u .,
P'uraiita di mozzi verso uno st«sso l'isaltato come si vede neffli esseri
nro.««{, l IVo^mnU ;,\ organizzati che sono sultare d/ 'T «nitalità. Sembra anche
rimate ia fé e«h che l'elemento opTottV^^rc;'.teresTin,.""a e di P^n
bulorn ""lei lati aner»H dello Stesso e del Diverso o di runl dt
'"P P comprendere come uno degli opposti sia riguardato come la materia e
ra' r^J^TÌÌ "dovi unità «.nza moltiphcità né identità senza diversità noi
Ile dirp il ,./v7 1 u'versita, noi possiamo dando la moltiplicità e Ja
diversità come il so^i^^etto del1 umtà e deindentità. Ma come il Non essere or
ll fere e 1?.^!' -™ '-teria. di cui l'Esessere, 1’Ineguale dcvcaov, ecc. deve
significare per Pia Phys., M^i^,. Ap. Sinipl. ad Arùt. Phys. tone, non il
contrario dell'Essere, delFEguale, ecc., ma ciò che non è V Essere né
partecipa, considerato in se stesso, air Essere, ciò che non è V Eguale né
partecipa, in se stesso, air Eguale, ecc. In altri termini, Fc dallo cose si
sopprime per il pensiero rid-a deir essere, deiregu«le, ecc., ciò che resta,
considerato nel suo concetto generale, si chiama Non essere, Ineguale, ecc., e
si riguarda comft il sustrato a cui Tldea delTe^sere, deiregualo, ecc. inerisce
come una forma. CIÒ non esclude però che il Non essere significhi anche, a un
altro punto di vista, il contrario dell'Essere, Tlneguale il contrario
deirp:guale, ecc: in eflVjtto Telemento materiale non funge solamente da
materia, ma anche da stcresi. Il rapporto di contrarietà stabilito tra i due
elementi spiega perché, nel periodo pitagoreggìante, Platone preferisca, per
DESIGNARE Tldea supn ma, la denominazione di uno 0 essere a quella di bene: è
che, chiamando l'elemento formale il Bene, T elemento materiale dovrebbe essere
chiamato il Male; ma il Male non potrebbe afiPatto riguardarsi come la materia
degli e-seri. L'incompatibilità delle due funzioni ass^^gnate all'elemento
materiale c'indica chiaramente che la dottrina dei Questa supposizione é
confermata dall'argomento con cui Platon^ prova l'esistenza del Non essere,
cioè che se non esiste il Non essere, tutti gli esseri si ridurrebbero a un
solo, l'Essere Met. Infatti il senso di quest'argomento e che, se negli esseri
non vi fossero, insieme all'attributo essere, delle detenninaxioni distinte da
quest'attributo, non esistere che V attributo essere; sicché la moltiplicità
degli esseri e resa possibile dall'esistenpa nelle cose di determinazioni
distinte dair attributo essere. Queste determinazioni distinte dall' K-sere che
si trovano negli esseri, guardate in astratto, LA DIFFERANCE DI DERRIDA cioè
nel loro concetto generale, sì òhiamano Non essere. Anche nel Sofista Platone
dice che il Non essere non è il cjntrario dell'Essere, ma semplicemente ciò che
è altro che GRICE OTHER THAN l'Essere – Grice on negation, privation, and
otherness – Wiggins --.Arist. Mei, -Nf-Hdue elementi è un concetto straniero,
clie fiatone si sforza di adattare alla meglio ai concetti propri del suo sistema.
La contrarietà dei due elementi è data a Platone dalla dottrina dei Pitagorici.
La riduzione dei due elementi air elSog e alla materia ha per oggetto di
conciliare il dualismo della nuova dottrina colle esigenze della dialettica
GRICE OXONIAN DIALECTIC BOLOGNESE DIALETTICA ALLA BOLOGNESE, cioè della
dieresi. Questa suppone, al vertice della piramide ideale, un'Idea unica come
genere supremo di tutte le Idee: la nuova dottrina invece ammette, non uno, ma
due universali supremi. Per conciliare questi due punti di vista, Platone non
riconosce il carattere di genere sommo di tutti gli esseri che all'uno dei due
universali supremi; per conseguenza, siccome egli ammette già, nel nuovo
assetto che dà al suo sistema, che le cose sono composte di sUo; e di materia,
e che il conceìto generale delle cose è rappresentato dalrelSog, cosi trasporta
dalle cos^ alle Idee stesse questa distinzione di dòoz e di materia, e
riconduce V elemento che deve fungere da genere alTelSo^, e l'altro alla
materia. Questa identificazione dei due elementi – TESI E ANTITESI -- dei
Pitagorici con TelSo^ e la materia è d'altronde suggerita dai nomi stessi con
cui vengono DESIGNATI. Se si prende la parola sISoc nel srnso meno astratto,
cioè come indicante la forma visibile degli oggetti materiali, Tiépa? termine
ed sUog sono pressoché equivalenti. Come per un'estensione del loro significato
più concreto la parola slSog e il suo sinonimo jiopcpi^ MORPHE acquistarono il
senso lato che esse hanno nella filosofia di Platone e d'Aristotile, cosi
un'estensione analoga poteva essere data alla parola Tiépa^, in modo che i
significati filosofici di questi termini venissero a coincidere. Quando l'elSog
di cui si tratta non è più la forma visibile degli oggetti, la parola népa^,
PERAS HOROS impiegata come sinonimo di sISo^, riceve certamente un significato
assai lontano dall'originario: tuttavia, Ttldoc essendo ciò che definisce o
de-termina gli esseri, V analogia tra il concetto di definizione o
de-terminazione e quello di fine GRICE METIER o termine basta per giustificare
il passaggio al nuovo significato. Cosi tiépag PERAS HOROS veniva a
significare, ìq un scaso generico, l'eiSog in generale; in un senso speciale,
1'el5og comune di tutti gli ess^^ri; e ciò, non solo per una specializzazione
convenzionale del termine, ma anche porche se uépag PERAS, nome comune,
significa forma, il Tiépa; PERAS, nome proprio d'un'entità unica, deve
significare la forma nel suo concetto generale, cioè il j.ene e di tutte le
forme, 1'elSo; dogli elSr]. Il termine Tiépa^ PERAS voltando dire la form^^ il
termine àiisipov APEIRON vorrà di) e, e ò che è senza forma, cioè la materia.
Aggiungiamo che l'ideotìficaz'one del Tiépag PERAS con l'sldoc comune di tutti
gli esseri, vale a dire con 1'Idea del bene, corrisponde anche a un altro
significato di cui il termine nipcLQ PERAS è suscettibile, quello di fine –
GRICE METIER -- o scopo. Ciò che è stato dett^ trova la sua conferma in
Aristotile. Egli in Met. assegna al termine Tiépag PERAS questi significati: la
forma della grandezza o dell'oggetto aveiite grandezza; il fine o o^ Svaxa la
causa fi(j) Con questo senso qualitalivo de! termine ^TlStpOV coesiste però il
senso guanlilafivo, come si vede nella riduzione dell' aitsipov al Grande e
Piccolo. Il termine ha anche altre applicazioni, più conformi al suo
significato volgare, quello di grandezza superiore a qualsiasi grandezza
finita: è ciò che avviene, qn-indo esso DESIGNA designa la materia delle cose,
vale a dire lo spazio, o quando si afferma che i sensibili sono infiniti per la
materia, cioè per laTlsipOV Arist. ap Simpl. in Artsl. Phys^ in Porfirio, ap;
Simpl.PA.VJ., indica un'altra applicazione dello àueipov in un senso
quantitativo, e oè che la divisibilità airmtìnito della grandezza dimostra che
in ogni grandezza è racchiusa una certa natura d'infinito. 17X Bftlej; r
essenza la causa formale. Nataralmente Aristotile trova questi significati
nella lingua filosofica dell’epoca, e, tra i suoi predecessori, noi non
possiamo attribuire i concetti, che essi suppongono, che a Platone e ai
platonici. Lo stesso Aristotile dalla sua parte identifica talvolta il Tcipac
PERAS con VAòo^ e V&ntipoy con la materia, e chiama anche Tcépa^ PERAS la
causa finale Mei., luogo in cui sembra alludere a un ragionamento dei
platonici. La dottrina platonica dei due elementi, malgrado lo espediente a cui
si ricorre, di non riguardare come slòo<; che un solo dei due universali
supremi, resta sempre evidentemente in contraddizione coi principii della
dialettica dieresi, perchè questi richiedono, alla sommità del mondo ideale,
non due universali supremi, ma uno solo. La contradizione, è vero, potrebbe
essere attenuata ancora da questa rifiessione, che i due universali supremi
essendo ricondotti alla forma e alla materia – il composto del sinodo o sintesi
-- di tutti gli esseri, la dualità è piuttosto apparente che reale, e non vi ha
al fondo che un universale supremo unico, TEssere univeriale, di cui i due
elementi sono la forma e la materia. Ma non cesserebbe con tutto ciò
Tincoerenza di ammettere dae principii primi, mentre la dialettica esige un
solo principio primo, la legge del mondo ideale essendo che ogni plur9 lità si
riduca costantemente ad una unità superiore. La «contraddizione è dunque
insolubile, ed essa ci indica che la dottrina dei due elementi è una
modificaziome posteriore del sistema delle Idee, dovuta a una nuova influenza,
indipendentemente dalla qaale questo sistema si era formato. £ noi abbiamo in
effetto delle D^ Caelo, Phys., e De getter al. . Phys.; M$t, lo. prove che non
lasciano alcun dubbio su questi due punti: cioè, primo, che Platone deve la
dottrina dei due eie" menti ai Pitagorici, e, secondo, che questa dottrina
è assente dal sistema di Platone nella sua forma primitiva, e segna, insieme
alla dottrina dei numeri ideali, un nuovo periodo nella speculazione di questo
filosofò. Nella Metafisica, in cui fa l'esposizione della filosofia platonica,
Aristotile dice: Dopo le dette filosofie venne quella di Platone, che in molti
punti segui questi i Pitagorici, di cui prima ha parlato, ma alcuni altri no
ebbe propri, in fuori della filosofia degr ITALICI. E, accennato alle dottrine
principali di Platone, cioè la dottrina d«lle Idee, delle entità intermediari»,
dei due elementi, e la identificazione delle iJee ai numeri, continua con questo
confronto tra la filosofia di Platone e la pitagorica, in cui indica i punti
comuni lille due filosofie e quelli propri al solo Platone: L'Uno stesso essere
sostanza, e non qualche altra cosa a cui si attribuisca V unità, questo dice
come i Pitagorici; e ancora come essi, che i numeri siano cause alle altre erse
della loro essenza. Ma invece dell'Iofinito come uno porre una dualità, perchè
egli fa V Infinito del Grande e Piccolo, ciò gli è proprio: inoltre egli pone i
numeri oltre i sensibili, ma quelli dicono i numeri le cose stesse, e non
pongono Tentità matematiche intermediarie tra i numeri e le cose. L'aver posto
V Uno e i numeri oltre le cose, e non come i Pitagorici, e l'introduzione delle
Specie fu per lo studio della dialettica della quale gli antichi non orano
partecipi; V aver fatto poi dell'altra natura una dualità fu affinchè i numeri,
eccetto i primi, se ne generassero comodamente, come da un sigillo. Risulta
dunque dalla testimonianza d'Aristotile che Platone ha imprestato il suo
elemento materiale dai Pitagorici, ma apportandovi una modificazione, quella di
ricondurre quest'elemento alla dualità del Grande e Piccolo. Senza dubbio,
questa non è la sola modificazione importantv^ che Platone apporta alla
dottrina pitagorica; Aristotile no passa sotto silenzio un'altra che non ha
un'importanza minore forse perchè la riguarda come una conseguenza del sistema
delle Idee: è la ri luzione dei due elementi alla forma e alla mater'a
universali. Il cangiamen'o risultante da queste e le altre modificazioni, necessitate
dall'adattamento della dottrina pitagorica al sistema platonico, è co^i
profondo, che nasconde r identità fondamentale della dottrina di Platone con
quella dei Pitagorici, e fra le due dottrino sembra non esistere un rapporto
più intimo che quello di una semplice analogia. Ma vi ha un punto che non
bisogna perdere di vista. Qualunque sia stato il senso originario della
proposizione dei Pitagorici che le cose constano di fine e d'infinito, dopo che
queste astrazioni fine e infinito cominciarono a riguardarsi come delle
sostanze di cui le cose sono composte, la proposizione divenne un enigma
incomprensibile, o a dir meglio una formula vuota a cui non era possibile di
attaccare alcun senso determinato: per conseguenza Platone poteva riempire
questa formula vuo'^a d^i suoi propri concetti, e, usando di quella libertà
ch'egli si prende abitualmente coi dati della storia, dare questi concetti per
il senso riposto della dottrina pitagorica, taciuto o forsa anche smarrito dai
più recenti filosofi di questa scuola che re avevano divulgato le dottrine. In
effetto, il pit^igorismo di PUt ne, come vedremo in seguito, non cons'ste
solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, mn anche ad attribuire a
questi i suoi propri concetti. Per altro vi erano nella dottrina pitagorica dei
due elementi certi lati a iS\^i3 cui Platone poteva riattaccare il nuovo senso
in cui egli prende questa dottrina. L'identificazione del uépag alla forma
generale degli esseri e dell'àuetpov alla materia, che è il carattere più essenziale
per cui si distingue la dottrina di Platone, trova certamente un addentellato
in alcuni concetti dei Pitagorici. Cosi, quantunque Aristotile riconduca tanto
Tuno quanti l'altro dei due elementi dei Pitagorici alla materia ciò che egli
fa talvolta anche j^er i due elementi di Platone, prendendo strettamente alla
lettera la parola elemento tuttavia è TtXTistpov che egli considera
specialmente come il principio materiale; e benché l'interpretazione degli
autori posteriori che riguardano il Tiépag e l'àTieipov come corrispondenti ala
forma e alla materia, sia senza dubbio dovuta a una confusione con la dottrina
di Platone, tra le proposizioni conservateci dei Pitagorici ve ne hanno talune
che darebbero a questa interpretazione una certa speciosità. Tali sono
sovratutto quelle in cui essi si rappresentano V illimitato àustpov che è nelle
cose come compreso ientro il limite uépag e limitato da questo: in questa
rappresentazione del rapporto tra il Limite e rilliroitato questi due concetti
sono assai vic'ni a quelli della forma e della materia. Ma il vero punto di
partenza per passare dalla dottrina pitagorica alla propria Platone lo trova
n«ll'nnalogia del concetto stesso di limite Ttépa^ con quello di forma, e,
po-^Fiamò anche aggiungere, del concetto d'infinito àTtsipov con quello
d'indefinito o indeterminatoche per Platone, come per Aristotile, è il (1/ Mei,
Met, Arist. Phys, Met, + . m^fmai^tam^m -.ì :;fi.:a^ carattere distintivo della
materia Egli poteva inoltre fondarsi, per la riduzione del Tiépag al bene, sul
dato che i Pitagorici chiamano la Ferie oDoxotxia del finito la serie dei beni
e si noti che non solo il Finito era uno dei prineipii compresi in questa
serie, ma era anche ad esso che tntti gli altri venivano ricondotti. In quai.to
alle denominazioni di Grande e Piccolo e Dualità indeterminata date
all'elemento materiale, noi abbiamo visto com'esso si riattaccavano a qnePe
pitagoriche d'Infinito e di Pari. Sulle altre modificazioni della dottrina
pitagorica osserveremo: che V identificazione dell'Uno con uno dei due
elementi, mentre i Pitagorici lo facevano risultare da amendue e lo chiamavano
perciò PARIDISPARI, poteva riattaccarsi alla sua classazfone ncMa auoxotx^a del
limitato; e la riduzione dei due elementi alFEssere e al Non essere, al concetto,
emergente dalla tavola delle dieci opposizioni, che tutto consta di
contrarietà, e che queste si riducono tutte a quella del limitato e
deirillimitato infatti in ogni contrarietà Tuno dei termini può considerarsi
come positivo e subordinarsi air essere, V altro come negativo GRICE NEGATION
AND PRIVATION e subordinarsi al non essere; e nelle opposizioni dei Pitagorici
i termini che potevano preferibilmente considerarsi come positivi erano quelli
che venivano posti dalla parte del llmHato. Arist. Mei. PhysA, Alex. Aphr. ad
Mei,, ecc. Cosi Eudemo attribuisc al non essere, nella dottrina pitagorica, un
posto pressoché equivalente a quello che esso ha nella p!atonica: Bene i
Pitagorici e Platone portano nel movimento rindefinito e Io imperfetto e il non
essere ap. Simpl. ad Arist, Ph?/s.. Qui evidentemente il non essere, come
l'imperfetto e Tindefinito, è, per quanto coniarne i Pitagorici, una
generalizzazione dei prìncipii della O'JOTOtX^a deirillimitato. Veliamo ora
alle prove della posteriorità della dottrina. Questa ri>uUa prima di tutto
dagli scritti stessi di Platine. È certo che, quando scrive la Repubblica
Platone non ammette ancora la dottrina di una dualità di principi!. Nella
Repubblica non vi ha, alla sommità del mondo ideale, che un^entità unica: è
Tldea del Bene, sovrana del mondo intelligibile, in cui essa è ciò che il sole
è nel mondo visibile, e principio unico dell'essere e del conoscere. Inoltre la
dottrina dei due ilem^^nii, quale la concsciamo dairesposizione d'Aristotile,
sappone quella dei numeri ideali, perchè Aristotile riguarda come il tratto
essenziale e caratteristico del principio materiale di Platone che esso è fatto
consitst^re Nello stesso dialogo si dà come un carattere delle cose sensibili»
per cui esse sono opposte alle Idee, quello di partecipare al tempo stesso
dell'essere e del non essere. Certamente questo non significa che l'essere e il
n^n essere sono due elementi di cui le cose sensibili solamente, e non le Idee,
sono composte; Platone vuol dire semplicemente che la realtà del sensibile non
è una realtà piena, assoluta: ma è evidente che egli non si esprimerebbe cosi,
s'egli conosce già la dottrina che l'Es sere e il Non essere sono i due
elementi delle Idee e delle cose. Spiegando perchè le cose sensibili
partecipano dell'essere e del non esser», dà un altro carattere per cui esse si
distinguono dalle Idee, cioè che in esse si trovano al tempo stesso degli
attributi contrari. Anche nei Parmenide di VELIA le cose vengono opposte alle
Idee, perchè quelle partecipano simultaneamente di attributi contrari, e queste
no; e liei Fedone si stabilisce il principio che un'Idei non può mai
partecipare a due Idee contrarie MEINONG JUNGLE TRIANGOLO QUADRATO infatti è
impossibile, nel metodo di divisione, di subordinare un'Idea a due Idee
contrarie. Noi dobbiamo perciò ammettere che questi dialoghi sono anteriori
alla dottrina dei due elementi, perchè secondo questa dottrina ciascuna Idea
partecipa delle Idee contrarie dell'Essere e del Non essere, dello Stesso e del
Diverso, del Finito e dell'Infinito, ecc. vedi ciò che diremo appresso sulle
due auoxoDciat di prìncipi! opposti. I m nel Graude e Piccolo: ora, come
osserva lo stesso Aristotile, Platone sostital airinfìnito uno dei Pitagorici
la daaiità del Grande e Piccolo, per far servire questo principio alla
generazione dei numeri ideali Noi sappiamo del resto che la dottrina dei due
elementi di cui è quistionein ArÌ8totile, fu esposta da Platone nei suoi
discorsi sul Bene, in cui egli diede i risultati delle sue ultime speculazioni.
Si potrebbe dire che ciò non esclude la possibilità di una forma anteriore
della dottrina, in cui il principio materiale non sarebbe stato ancora
considerato come il Grande e Piccolo, e che Platone in seguito avrebbe
modificata, mettendola in armonia con le sue nuove dottrine pitagoreggianti. Ma
si leggano i luoghi d'Aristotile relativi a questa d'-ttrina, e si vedrà
chiaramente che Platone non si è mai servito dei due elementi che come di
principii dei numeri, e che Aristotile non conosce altra forma di essa che
quella in cui il principio materiale si fa consistere nel Grande e Piccolo.
Aggiungiamq che in Met. le speculazioni platoniche sulla materia delle Idee
vengono date come una deviazione èxxpoTng dairindirizzo primitivo. Alla
dottrina dei duo elementi è legata in Platone, come nei Pitagorici, quella di
due serie oooToixCat di principii opposti. Ad essa allude Aristotile in Phys.
indicati nelle due note dopo la seguente. Arist. Phys., Simpllc. in Phys,
Alcss. Afrod. zk Met., ecc. Mei,, ecc. Mei., Phy4, ecc. Met. Nel primo di
questi luoghi d cv»: Alcuni dicono che il movimento è la diversità e
rineguaglianza e il non essrre, mentre non vi ha alcuna necessità che gli
aggetti si muovano, se sono diversi né se ineguali né s'», non esseri. Il
mutamento non è né que.'^t » cose la diversità, rineguaglianza, il non essere
né da es-^e piuttosto che dal'e opp-^sto. La ragione per cui hanno riconiotto
il movimento a queste cose é perché sembra che il movimento sia qualche cosa
d'indefinito, e i principii dell'altri s'^ric fooaxotx^a sono indefiniti perchè
privativi; nessuno di essi é infatti un'essenza determiu'ita né una qualità né
alcuna delle altre categorie. Lo stessa quasi parola per parola nel luogo della
Metafisica. Questi luoghi si riferiscono a Platone, perché sappiamo che Platone
riconduce il movimento airelemonto materiale, e che la diversità,
rineguaglianza e il non essere sono dellt^ denominazioni di quest'elemento.
Inoltre vi ha un luogo d'Eudemo, in cui é certamente quistione della stessa
dottrina a cui alludono i due luoghi citati d'Aristotile, e questa dottrina é
attribuita esplicitamente a Platone. Ora, quali sono i priocipii dell'altra
aDoxoix'-a di cui parla Aristotile? e poiché Z'aZ/ra auaxotx^a suppone una
ouaxoixia opposta quali sono i principii della ouaxoixta opposta? Senza dubbio
tra i principii dell'altra auaxotxfa Mei. Eudemo ap. Siinpl. ad Arist. Phys.:
Platone dice che il movimento è il grande e piccolo e il non essere e l'anomalo
e quanti altri riduce alla stessa cosa: ma sembra assurdo dì dire che il
movimento sia questo; infatti l'oggetto in cui è presente il movimento si
muove, ma è ridicolo che, un oggetto essendo ineguale o anomalo, sia necessario
che esso si muova Questo luogo è quello che abbiamo indicato sopia per
dimostrare che l'elemento materiale veniva anche chiamato l'anomalo sono la
Dvarsità, riaegaagliaaza o il Non essere; poiché, qnaado Aristotile dice:
perchè sembra che il movimento sia qualche cosa d'indefinito, e i princìpii
d'ìlTaltra ouaxoix^a sono indefiniti, evidentemente e^li intende assegnare come
raocione dell'aver ricondotto il movimento alla diversità, all'ineguaglianza e
al non essere, r indeterminatezza per cui il movimento somiglia alla diversità,
all'ineguaglianza e al non essere. Di più il movimento fa parte anch' esso dei
principii dell'altra ot>axoix^a: infatti, sq per ragione della riduzione del
movimento al non essere, alla diversità e all'ineguaglianza Aristotile dà la
somiglianza che il movimento ha, non coi soli non esser"., diversità e
inegualianza, ma coi principii dell'altra oooxoixCa in generale, co è parche la
riduzione di una cosa al non essere, la diversità e l'ineguaglianza equivale
per Aristotile alla sua classazione tra i principii dell'altra ouoxoixta. Tra i
principii dell' € altra ouoxotxCa trovandosi dunque il Movimento, la Diversità,
T Ineguaglianza, il Non essere, tra i principii della otioxoix^a opposta devono
trovarsi gli opposti, cioè lo Stato, l'Identità lo Stesso, 1'Eguaglianza,
1'Essere. E siccome VesseTe^Veguaglianza^Videniità lo stesso sono dei nomi con
cui viene designato l'elemento formale, e il non essere, V ineguaglianza, la
diversità dei nomi con cui viene designato Telemento materiale, noi dobbiamo
ammettere che i nomi dell'uno dei due elementi figurano anche come principii
dell'una delle due ouoxoix^ai, e i nomi dell'altro come principii dell'altra.
Ma di là non ne segue che tutti i principii dì una delle due ouoxoix^at
figurino anche come nomi dell'elemento corrispondente: infatti il movimento non
è un nome deir elemento materiale. Però il movimento, quantunque questo nome
non venga applicato a designare l'elemento materiale, è ricondotto, come
abbiamo visto, da Platone all'elemento materiale: cosi devono anche classarsi
tra i principii dell'una o dell'altra delle due atioxotx^at quelle entità che,
senza che i loro nomi vengano impiegati per DESIGNARE – GRICE SHAGGY Smith is
happy -- l'uno o l'altro dei due elementi, sono nondimeno ricondotti all'uno o
all'altro dei due elementi. A queste entità accenna Ari^^totile in generale in
Mei,, con queste parole: Alcune cose assegnano i Platonici ai principii, come
il bere e il male, lo stato e il moto; le altre ai numeri. Il male non è un
nome delPelemento materiale, ma è, come il movimento, ricondotto airelemento
materiale. Che Platone riguardi i diversi nomi ch'egli dà all'uno e all'altro
dei due elementi come corrispondenti a dei principii distinti, è una
proposizione che non deve sorprenderci: è questa anzi la sola interpretazione
che sia conforme allo spirito del sistema delle Idee e alle abitudini della
lingua platonica. Un nome, nella sua applicazione metafisica, non DESIGNA altra
cosa per Platone che il concetto che esso comunemente SIGNIFICA, realizzato:
cosi l'essere e il non essere, l'eguale e l'ineo naie, lo stesso e il diverso,
ecc. non possono DESIGNARE per lui che i concetti dell'essere e del non essere,
delTeguale e dell'ineguale, dello stesso e del diverso, ecc. realizzati. Ma i
concetti dell'essere, dell'eguale, dello stesso, ecc., cosi bene che quelli del non essere, deirineguale, del
diverso, ecc. essendo distinti, ne segue che le entità Er'sere, Eguale, Lo
stesso, ecc. cosi bene che Non essere. Ineguale, Diverso, ecc. devono anche
essere delle entità distinte. Noi non possiamo dunque ammettere che tra
1'Essere, 1'Eguale, lo Stesso, ecc. da una oltre il 1.
e. Mei. t parte, e dalPaltra, tra il Non
essere, V Ineguale, il Diverso, ecc. vi
sia una distinzione, non reale, ma semplicemente nominale, a meno di supporre
che Plaone abbia creduto che ciascuna di queste due serie di nomi SIGNIFICHI
uno stesso concetto. La stessa osservazione vale, a più forte ragione, per il
movimento, il male e le altre cose che Platone riconduce all'uno o air altro
dei due elementi, ma senza dare a questi i nomi corrispondenti: i concetti del mnle e del movimento essendo
distinti tra di loro e dai concetti del non essere, dell'ineguale, del diverso,
ecc., il Male e il Movimento devono essere delle entità distinte fra di loro e
dalle entità Non essere, Ineguale, Diverso, ecc. Tuttavia la distinzione che
Platone stabilisce tra tutte queste entità non gV impedisce di riguardarle al
tempo atesso come identiche. Per le entiià
i cui nomi servono a DESIGNARE uno dei due elementi,
qucst'identificazione risulta sufficientemente da questa stessa applicazione che
viene fatta dei loro nomi. Ma essa non è meno evidente per le altre: roi
abbiamo già visto nel luogo citato di Aristotile e in quello d'Eudemo che il
movimento è la Diversità, l'Ineguaglianza, il Non essere, il Grande e Piccolo,
ecc. Di quest'identità degli altri
principii d'una o-KjToix^a con quelli che figurano come nomi delleh mento
corrispondente ai hanno le prove nella più parte dei luoghi d'Aristotile in cui
è quistione della relazione évi movimento o del
male con l'elemento materiale. In
Met. dice: ln quanto al movimento, se esso é il grande e piccolo, si
muoveranno anche le Idee. Tutte le cose parteciperanno al Phys. Ap. Simpl,
ad ArisU Phys. IL male, salvo
l'Uno, poiché il male in sé é l'altro elemento. Alcuni dei Platonici vale a
dire, per quanto possiamo giudicarne, tutti gli altri tranne Speusippo e i suoi
dicono l'Ineguale la natura del male. Ne segue che tutti gli esseri, salvo uno
cioè l'Uno stesso, partecip'^ranno al male, ecc. Come si può intendere che
delle entità distinte siano al tempo stesso
identiche? Noi ritroviamo qui, mutaiìs mutandis, quello stesso rapporto
ambiguo che abbiamo già incontrato tra l'uno e i molti i molti fcono 1'uno e
Tuno è i molti. Bisogna rinunziare su questo soggetto a qualsiasi concetto
intelligibile. Tutto ciò che possiamo dire di più chiaro è che i diversi
principii di ciascuna delle due ooaTotx^at sono riguardati da Platone come
degli aspetti diversi egualmente obbiettivi deirelemento corrispondente.
L'espressione degli aspetti diversi egualmente obbiettivi è certamente un non
senso fra i diversi aspetti di un oggetto è uno solo che noi possiamo
riguardare come obbiettivo ma essa è forse la più appropriata per rendere
l'oscuro concelto racchiuso in questa dottrina. Ciascuno dei principii dell'una
e dell'altra ouoxoixta é certamente
considerato come un attributo d'una universalità assoluta, prosante in
tutti gli esseri. In effetto Ih più parte di 'questi principii, per quanto possiamo
giudicarne, figurano come nomi dell'uno o 1'altro dei due elementi; ed è
evidente che Platone non potrebbe dire che l'Essere o l'Eguale o lo Stesso ecc.
è la forma di tutte le Idee, e il Non essere o l'Ineguale o il Diverso ecc. la
materia, se l'Essere, il Non essere,
l'Eguale, lo Ineguale, lo Stesso, il Diverso, ecc. non fossero per lui delle
determinazioni comuni a tutti gli esseri. In quanto ai principii che, come lo
Stato e il Moto, non figurano come nomi degli elementi, la loro universalità
assoluta è prorata, oltre che dal'a coerenza della dottrina, dal fatto che gli
attributi corrispondenti a questi priiìcipii vengono riguardati come determinazioni inerenti alla forma o alla
materia universali. È ciò che vediamo per il Movimento. Nel Timeo la materia di
tutti gli esseri è simboleggiata da una massa in un movimento continuo, e
Xenocrate chiama la materia di cui tutte le cose sono fatte àévaov
continuamente fluente Questo stesso
concetto era espret^so da Xenocrate sotto forma simbolica, quando chiama
1'Unità 1’intelligenza e la Dualità indefinita l'anima del tutto: 1 elemento
materiale è simboleggiato dall'ANIMA, perchè qu^s'a è, secondo Platone, perpetuamente in
movimento, e comunica li suo movimento a tutto le altre cose 1’elemento tv
rmaleo il Bene dallintelligenza, erme nel Tiineo, peicbè questa è la sola
attività .mpiri.a che operi secondo il principio delle cuse finali. Per altro
1'universalità assoluta di tutte queste entità è infreute alla hro qualità di
principii, perchè, couformemente alla dialetira platonica, ciò the è di
una universalità solo relativa CIÒ che è
contenuto sotto un'Idea più generale, non potrebbe essere riguardato come
principio. Cosi la dottrina MuUaoh Pr. Stob. Ed. Phys. Muli. Xenoor. Fr. Che U
movimento sia un attributo universale comune a
tutte le cose, risulta del resto dalla dottrina del divenire continuo
dei sensibiU. Per altro non bisogna dimenticare ohe il mofim.nto x{VigoiS ha
nella lingua dei filosofi greci un significato molto lato – DYNAMIC vs. STATIC --,
essendo press'a poco un sinonimo di cangiamento. Platone chiama anche movimento
una relazione transitoria d'una cosa con altre anche che non importi in essa un cangiamento reale; p. e. l'esser
conosciuta è un movimento deUa cosa conosciuta Sof., V delle due ouaxotxtat di
principii opposti dà una risposta alla quistione quali siano propriamente le
determinazioni delle co^e che i due
universali supremi, cioè la forma e la materia delle Idee, rappresentano; la
riunione degli attributi corrispondenti ai principii dell'una o dell' altra
ouoxoix^a ci dà il significato complelo
dell'elemento rispettivo. Qufsta dottrina di due serie di principii opposti è
evidentemente un'imta/ione di quella corrispondente dei Pitagorici. Cosi noi
dobbiamo ammettere che questi opposti non rappresentano solamente le
determinazioni universali dell'essere, ma ancora, come quelli dei Pitagorici,
le opposizioni fondamentali delle cose. È a ciò che deve riferirai Tindicazione d'Alessandro
d'Afrodisia che Platone vede nell'Eguale
e l'Ineguale o V Uno e la Diade indefinita e i principii degli esseri per se
stessi e degli opposti. I principii degli opposti è certamente Fra questi
principii opposti, riguardati come attributi comuni a tutti gli esseri, sono,
come abbiamo visto, il bene e il male. Elevando il male a principio e attributo
universale delle cose, Platone si mette
certamente in opposizione con la forma primitiva del suo sistema: tuttavia
quest'opposizione non è cosi grande come potrebbe sembrare a prima vista. Potrebbe
credersi infatti ohe egli dia al male una parte eguale a quella del bene. Ma
non è cosi. La forma e l'essenza degli esseri è il bene: ne segue che il male
non ò che un accidente; se no, perchè l'essenza
delle cose sarebbe il bene piuttosto che il male? Noi abbiamo già
osservato che il male non è nemmeno riguardato da Platone come la materia.
Evidentemente il concetto di Platone ò che il bene è il tipo che tutti gli
esseri tendono a realizzare, ma che nessuno realizza se non. d'una maniera
approssimativa. Nel Timeo Dio realizza da per tutto l'Idea del bene, ma per
quanto è possibile. Cosi in tutti gli
esseri vi ha a lato del bene il male: ma la regola è il bene, e il male non è
che l'eccezione. Ad MeU Un espressióne inesatta, almeno in un pnnio,
cioè che Platone non poteva rguardare gli altri principi! Delle due
o^ozoix'^oLi come derivati dal T Eguale e l'Ineguale o rUno e la Diade poiché in questo caso non
sarebbero stati anch'essi dei principii] ma gli altri dati che abbiamo su questa dottrina ci autorizzano ad
intendere la indicazione d'Alessandro in questo senso, che Platone riconduce le
opposizioni fondamentali delle cose ai due elementi delle Idee. Questo concetto
dà anche la spiegazione di una dottrina d'Aristotile, che, come tante altre di
questo filosofo p. e. la distinzione de4a
forma e della materia, non si comprende che per il rapporto della sua filosofia con quella di Platone. È la
proposizione che tutte le contrarietà si riducono a quella dell'unità e della
pluralità p. e. lo stato, l'eguale, lo stesso si riconducono all'unità; il
moto, T ineguale; il diverso, alla
pluralità. Questa proposizione, di cui non potrebbe vedersi tilcun
legame coi concetti della filosofia d'Aristotile, si riattacca invece della
maniera più naturale a quelli d'una
filosofia che, come quella di Platone, fa consistere l'essenza delle
cose nei numeri. E in effetto essa è contenuta in germe nella dottrina delle
due ouoxoixCai di principii opposti. Questi principii opposti, al punto di
vista della teoria dei numeri, erano ricondotti da Platone all'Uno e al Grande
e Piccolo, e il Grande e Piccolo, specialmente come elemento dei numeri, cioè
come Molto e Poco, ALTHAM GRICE GEACH equivale
alla Pluralità: cosi, siccome le due serie di principii opposti rappresentavano
le opposizioni fondamentali degli esseri, cioè le più generali e a cui la più
parte delle altre, se non tutte, si riconducono; di là si giun Met. gevà
facilmente alla generalizzazione a Aristotile se l'autore di questa
generalizzazione è stato Aristotile, e non Platone stesso che tutti i contrarli si riconducono
all'unità e alla pluralità. Una conferma del rapporto di questa dottrina
d'Aristotile con la filosofia platonica potrebbe vedersi in questa circostanza,
che Aristotile tratta di essa nel libro sul bene, nel quale espone gli
diypoLcpoL SÓYjiaTa di Platone.
Probabilmente le due ouaxotxfat di Piatoti» comprendevano, come quelle dei
Pitagorici, dieci opposizioni perchè dieci è il numero perfetto, e noi possiamo
supporre con qualche verrsimiglianza che fossero le seguenti: Fine: Finito
Infinito. Unità Moltiplicità. Dispari Pari. Bene-Male. Stato-Moto.
EssereNon Essere. Lo Stesso Diverso.
Egnaìe Ineguale. Regolare-Irregolare òjiaXóv-àv(i)|jiaXov Ordinato Inordinato
xaxxóv-àxaxxov. Di queste Alex. Aphrod. in Met. Slmpl in Phys., in De Anima, Al3s^.
in Met., Filopono in Phys., eco. Arist. Met. Platone,
cerne vediamo nel Filébo, ecc., dove riguardare, all'esempio dei Pitagorici, il
Fine e il Finito come equivalenti. Naturalmente in quest'opposieione Non essere
non significa ciò che non esiste, ma la negazione p. e. non uomo, non bello,
non grande e la privazione p. e.
tenebre, silenzio, cecità – h. P. GRICE NEGATION AND PRIVATION. Senza dubbio,
Platone preferisce per l'elemento materiale la denominazione di Non essere,
perchè, come dice Aristotile, i principii dell’altra Q\}Q\0iyÌ0L sono
privativi, e l'elemento materiale equivale al complesso di questi principii.
Teofrasto Metaf.: Platone e i Pitagorici pongono Topposlzioue dell'uno e della
dualità indefinita: in questa è 1'infinito, opposizioni la prima metà sono comuni coi Pitagorici.
Comparando nel loro insieme la tavola di Platoae e quella dei Pitagorici, la
prima si distingue per un carattere più
astratto; e le opposizioni particolari a Platone possono riguardarsi,
per la più parte, come delie generalizzazioni di quelle dei Pitagorici. Per
giustificare il cangiamento ch'egli apporta nella dottrina dei Pitagorici,
Platone poteva dire che, tra le
opposiz'oni delle cose,' quelle che meritavano di essere elevate al grado di
principi! ed elementi, erano le più generali. II tratto essenziale, per cui la
tavola delle opposizioni di Platone si distingue da quella dei Pitagorici, è
che i principii opposti di Platone sono degli attributi universalissiml comuni
a tutti gli esseri, e che i principii di ciascuna serie, riuniti,
costituiscono uno dei due elementi di
tutte le Idee: le altre differenze dipendono da questa differenza fondamentale.
Essa alla sua volta è una conseguenza della dialettica platonica. Le dieci
coppie di opposti erano per i Pitagorici i principii delle cose: ora un principio è, secondo
Platone, ciò che occupa il grado più elevato nella scala della generalità –
TALE MILETO ACQUA, e che, come tale,
SI trova al punto di partenza della
dialettica, considerando qnesta nella sua marcia descensiva, che è qnella che
corrisronde al progresso reale dell'essere. Per conseguenza, delle entità
distinte dagli Universali Hnpremi cioò dalla forma e dalla materia di tutte le
Ide«, non potrebbero avere, nel sistema di Platone, il carattere di Nel Timeo
l'elemento materiale è rappreseatato da una massa che 81
muove disordinatamente àtoéxxwc ohe il nom:,»i. presenta l'Idea del
bene. ^a pas^ Jar^r^' oS principii perchè sarebbero loro subordinate in
generalità, e deriverebbero da loro: cosi le due oooxotx^at di principii
opposti non potevano essere, in questo sistema, che la decomposizione dei due
Universali supremi in due serie di attributi egualmente universali e aventi
ciascuno una parte della loro
comprensione. Questa modificazione aveva anche V effetto di rendere la dottrina
pitagorica delle opposizioni meno arbitraria. I Pitagorici prendevano
all'azzardo certe opposizioni, e dichiaravano che esse erano gli elementi
costitutivi delle cose: ma come queste oppjsizioni potessero essere gli
elementi costitutivi delle cose, e perchè queste precisamente e non altre, erano delle quistioni che, nella dottrina dei
Pitagorici, restavano senza risposta. A questa quistione Platone risponde con
IVquivalenza tra le due serie di principii opposti presa ciascuna nel suo complesso e i due
elementi delle Idee Il concetto più nebuloso di questa dottrina di Platone,
cioè l'identifìcazione dei diversi principii di ciascuna delle due ouoxotx^at,
aveva per lo meno un addentellato nella
dottrina corrispondente dei Pitagorici. Quando questi chiamano rimpari
mascolino e il pari femminino, e riguardano la ouoToixta del Finito come quella
dei beni e la oDOTO'-x^a dell'infinito come quella dei mali, essi sembrano
considerare il bene e il mascolino erme equivalerti h\l'impari e al finito,
e il male e il femminino come
equivalenti al pari e all'infinito. L'identificazione, nel sistema pitagorico,
di c'aj^cnno dei pr'ncip i dell'una delle due auoTO'-x^at al Fini'o e di quflli
dell'altra all'Infinito risulterebbe anche dall’indicazione di alcuni autori
che i Pitagorici ch'amavano l'uno dei due elementi impari, maschio, luce,
destro, retto, slabile, ecc., e l'altro coi nomi IM
contraTi. Per Platone quest'identificazione era necessaria, s'egli
voleva, ad imitazione dei Pitagorici,
ricondurre questi principii al Fine e air Infinito, e al tempo sti 880 conservare ad essi la loro qualità di
principii. In effetto, oltre quest'identificazione, egli non avrebbe avuto che
un mezzo per ricondurre ai due elementi, cioè al Fino e all'Infinito, le altre
entità facienti parte delle due serie di opposti: quello di riguardare il Fine
e l'Infinito come generi, e queste altre
entità come specie. Ma allora queste entità non sarebbero i^tate più dei principii; poiché, come abbiamo più volte
osservato, nf Hi dialettica platonica, ciò che è subordinato a qualche cosa di
più generale, non è un principio, ma un corollario – H. P. GRICE LE MASSIME
CONVERSAZIONALI COME COROLLARI DELL’IMPERATIVO DELL’AIUTO CONVERSAZIONALE, un essere
derivato. Inoltre esse non avrebbero avuto più coi due elementi il rapporto
speciale che ammette la filosofia pUagorica, ma semplicemente il rapporto
comune che hanno con questi tutte le entità platoniche, tutte le Idee essendo
con gli elementi nella relazione di specie a genere. Del resto, senza V
identificazione dei principe di ciascuna
ouoTotxta, non si vede come Plafone
avrebbe potuto fare coesistere la dottrina di una moltiplicità di
principii con quella dell'unità, almeno con quella dell'unità del principio
formai^, indispeuj'abile alla dialettica platonic?», perchè l'sISo^
supremo ron potrva essere che un. Solo – GRICE L’IMPERATIVO DELL’AIUTO
CONVERSAZIONALE. La dottrina delle due ouoxoixiai di principii opposti -- H. P. GRICE SELF LOVE OTHER LOVE -- suppone
evidenteme». to qu» ll;i dei due.
elementi: per conseguenza le prove che d mostrano che la seconda delle due
dottrine è nata post< rrormente al
sistema delle Idee e della dialettica,
dimos'i-ano qnesta sfessa posteriorità anche per la prima. Sar bbc superflua
qualsiasi osser y. Eudoro ap. Simpl. e Porfirio Vita Pythagorue, vazjone sulla contraddizione di questa dottrina coi principii della
dialettica platonica, e la necessità, che ne segue, di spiegarne l'origine per
una fusione dei concetti primitivi di Platone con un elemento straniero,
indipendentemente dal quale questi concetti si erano formati. Ma
un'osservazione che non possiamo tralasciare è la relazione di questa dottrina
con un luogo del Sofista, che senza questa recezione sarebbe incomprensibile. In questo dialogo l'Essere e
il Non e«8c e e lo Stesso e il Diverso vengono date come
delle Idee d'un'universalità assoluta, a
cui tutte le altre Idee partecipano. Ora, conformemente ai principii della
dialettica platonica, non potrebbe esservi che una sola Idea d'una universalità
assoluta e a cui tutte le altre paitecipino. Questa incoerenza ci indica dunque
che il Sofista è stato scritto nel
periodo pitagoreggiante, e quando Platone ammette già la dottrina delle due
ouoToix^at di principii rpposti. E in effetto
l'Essere e il Non essere e lo Stesso e il Diverso fanno certamente parte
di queste ouoToix^ai. Noi abbiamo del resto altre prove che dimostrano che,
quando Platone Fcriveva il SoJìsta, egli aveva già immaginato la dottrina dei
due elementi. Cosi la più parte
degl'interpreti hanno compreso, indipendentemente dalla nuova prova che noi
apportiamo, che l'Essere e il Non essere di cui si tratta nel Sofista sono
quegli stessi di cui è quistione nella Metafisica di Aristrtile, vale a dire i
due 1( menti d^^lle Idee. Ciò risulta prima di tutto da
un'allusione della Met., cioè che Platone ha identificato il Non essere, vale a
dire la mataia, con la natura del falso
– H. P. GRICE IT IS FALSE THAT THE KING OF FRANCE IS BALD: questa allusione
convii ne perfettamente al Sofista, perchè in questo dialogo Platone sostiene
che il discorso e l'opinione falsa hanno per oggetto il Non essere, e sono i82 TT
-^ falsi ppF la partecipazione del Non essere. Inoltre la
lunga rìi^ressone per dimostrare l'esistenza del Nonessere prova che quesò'entità occupa noi sistema un posto
d'un'importanza speciale: Platone, è vero, dà per iscopo a questa digressione di
stabilire resistenza del falso, difendendola dalle obbiezioni capziose dei
contemporanei; ma è evidente che questo non è che un pretesto per riattaccare
le sue speculazioni alle quistioni del giorno. Aggiungiamo che alla sommità del
mondo ideale sta, nel Sofista, non l'Idea del Bene, ma quella dt^lFEssere 3j.
Il punto di partenza della dottrina sulla materia delle cose cioè sulla materia
e.st'^riore alle Idee e che si aggiunge ad esse per costituire le cose è la
costruzione del corporale II corpo si compone delle superficie e dello Contro l'equivalenza del Non essere del
So/;s/a col Non essero della Metafìsica vi sarebbe l'obbiezione che nel So/ìsta
il Non essere non potrebbe riguardarsi come un principio primitivo, porcUò
vi si dice che quest'Idea è contenuta
sotto quella dal Diverso GRICE WIGGINS NEGATION. Ma quest'obbiezione non ha un
gran valore; perchè, siccome tanto il Diverso quanto il Non essere si trovano in tutte le altro Idee, e
per conseguenza anche l'ana nell'altra, cosi il rapporto di contenenza tra le
due Idee è reciproco, cioè è altrettanto vero di dire eh > l'Idea del non
essere è contenuta sotto quella del diverso perchè del non essere può predicarsi il diverso quanto di dira cha
l'Idaa dBl diverso è contenuta sotto quella del non essere- perche,
reciprocamente, del diverso può
predicarsi il non essera. Se l'Idea contenente dovesse riguardarsi, in questo
caso, come anlerìore all'Idiia contenuta, vi sarebbe per conseguenza
altrettanta ragione di riguardare il Diverso come anteriore al Non essere che
di riguardare il Non essere come anteriore al Diverso: cosi il rapporto logico
di contenente e contenuto non può importare, in questo caso, il rapporto
ontologico di anteriore e posteriore,
spaz'o che es -e racchiudono; le superficie similmente delle linee che le limitano
e dello spazio compreso fra queste linee; e le linee dei punti che le limitano
e dello spazio compreso tra questi punti. Il punto viene identificato con r
unità. Un'esposizione completa di questa costruzione delfesteso non la
troviamo, a dir vero, né in Platone né in Aristotile, MA IN GRICE E CODE. Nel
Timeo vi ha solamente la composizione del corpo dalle superficie. Ma Aristotile
parla spesso dell'opinione che le superficie, le linee e i punti o unità sono
sostanze, e che il punto o unità è più sostanza della linea, la linea più della
superficie, e la superficie più del corpo, opinione che si deve afribuire a
Platone e ai suoi, perchè essa é logrta alla dottrina delle Idee, e fondata sul motivo che so])presso il punto
si sopprimerebbe anche la linea, soppressa questa, la superficie, esoppressa la
superficie, il corpo. E evidentemente alla stessa opinione che allude
Aristotile, quando respinge la proposizione che i punti e le linee sono la
materia dei corpi. Infine Alessandro d'Afrodisia afferma che Platone fa venire
i corpi dalle superficie, le superficie dalle
linee, e queste dai punti, che considera come unità; e che è questa la
ragione per cui Arist. De gen, De Coeìo
MI, l'hijs. Met. questo è, come
sappiamo, il criterio di cui si serve Platone per stabilire che una cosa è
anteriore ai un'altra. Anche Alessandro Afrod. riferisce l'allusione a Platone
ad iJf^/, ])e
gen, i egli ammette che i numeri sono i princìpi degli esseri ad Mei.
Com'è che le superficie vengono dalle
linee e le linee dai punti? Della stessa maniera certamente con cui, nel Timeo,
i corpi vengono dalle superficie. La costruzione del corpo nel Titueo in
effetto, sarebbe da sé sola incomprensibile: essa non si comprende che come
parte di un processo, che ha per risultato di comporre il corpo dello spazio e
delle unità che lo definiscono, cioè del numero. Per le superficie di cui si compongono i corpi
bisogna intendere dei piani, e per le linee di cui si compongono le superficie,
delle rette. La costruzione del corpo, di cui abbiamo parlato, si applica
particolarmente ai corpuscoli elementari; poiché Platone nel periodo
pitagoreggiante ammette la fisica corpuscoUre, e ciascuno di questi corpuscoli
6 un poliedro regolare. Vi hanno cinque elementi corrispondenti ai cinque poliedri rego
Quest'indicazione d'Alessandro d'Afrodisia, al fondo, non ci apprende niente di
nuovo; perchè la formula d'Aristotile, che il punto o unità è più sostanza
della linea, la linea della saporticie e la superfìcie del corpo, signitìca
precisamente che il punto o unità è il principio da cui deriva la linea, la
linea il principio da cui deriva la superficie, e questa il principio da cui deriva il corpo, h
anteriore secondo Platone, ha più essere che ìì posteriore. Cosi Aristotile
menziona pure la proposizione evidentemente dei Platonici ohe i generi sono più
sostanze delle specie M. In alcuni dei luoghi citati Met.; Aristotile dà
anoh'egli la dottrina che i principii delle cose sono i numeri come una
deduzione dall'opinione che le unità e, in generale, i termini del corpo sono sostanze e più
sostanze del corpo stesso. Bisogna anche vedere un'allusione a questa
costruzione del corpo per lo spazio e le unità nella domanda che Aristotile
rivolge ai Platonici: com'è che i numeri sono cause dell'essere e dell'essenza
delle cose? forse quali termini, come i punti delle grandezze? Met. lari: il corpuscolo della terra che e un
cubo, quello del fuoco che è un
tetraedro, quello dell'aria che è un ottaedro, quello dell'acqua che è un
icosaedro, e quello dell'etere che è un dodecaedro. Nel Timeo però Platone non
ammette ancora che quattro elementi, ed esclude esplicitamente il quinto, cioè
il dodecaedro l'etere. La stessa costruzione dei corpi per le superficie, per
le linee e per i punti che li limitano è attribuita dagli storici della
filosofia anche ai Pitagorici. E in
effetto Alesiandro d'Afrodisia per non parlare d'altri autori meno degni di
fede, p. e. Diog. Laerz., i quali confondono sistematicamente le dottrine dei
Pitagorici con quelle di Platone dice tanto dei Pitagorici quanto di Platone
eh'essi derivano i corpi dalle superficie, le superficie dalle linee, e le
linee dai punti riguardati come unità, e che è
perciò che ammettono che i
principii delle cose sono i numi',ri . Inoltre, come nota giustamente Zeller, è
a una costruzione pitagorica del corpo simile a quella del Timeo che sembra
alludere Aristotile, quando egli dice Met. che i Pitagorici non hanno
determinato se è dalle superficie o in qualche altro modo che si è formato il
primo corpo l'uno. È dunqu« probabile che nella sua costruzione drl'a
grandezza estesa Platone )ia seguilo i
Pitagorici: ma per attribuire questa dottrina ai secondi non si hanno
altrettante prove che per atiiibuirla al primo. In quanto alla dottrina che gli
tlnienti sono i poliedri regolari, essa ò dovuta certamente ai Pitagorici.
Tim. e, £>mom., Senocrate /'r. TO Mullach,
eco. Zeller Filos. dei Greci, Bitter Stor. della filos, ant. trad. frane,, eco.
Ad Met. Deducendo il corpo dallo spazio
limìtito dalle unità, Platone ha evidentemente per iscopo di ridurre la materia
al semplice spazio e di risolvere il reale nei numeri. A questa deduzione del
corpo si riattacca la distinzione della forma e della materia, e la riduzione
delle Idee alle sole forme delle cose, separaniole dalla materia. Nella nuova
dottrina di Platon le cose constano
dunque di due elementi: l'Idea, che
rappresenta la forma, e lo spazio. Questo concetto, sviluppato con conseguenza,
condurrebbe a spiegare con lo stesso processo con cui si spiega la grandezza
estesa, o con dei processi analoghi, tutte le altre determinazioni del reale.
Che Platone abbia l'atto eifeltivamente cosi, sarebbe arrischiato di
affermarlo. Tuttavia alcune proposizioni platoniche potrebbero essere
interpretate in questo senso. Nel Timeo
tutte le proprietà sensibili dei corpi salvo, s'intende, la grandezza e la
figura sembrano riguardarsi come dei fenomeni
subbiettivi Però io non oserei attribuire recisamente a Platone
quest'opinione; perchè Teofrasto dice che per le proposizioni del Timeo che
riconducono le proprietà sensibili dei corpi alle impressioni dei nostri sensi,
Platone si è messo in contraddizione con
la sua propria dottrina, che conserva a queste proprietà la loro natura
obbiettiva: De sensu e/ sé'ns. Nel Ttmeastesfeo poi e tìqWq Le(jgi i fatti mentali pare ohe vengano identificati
col movimento. //t'p^i il pensiero e tutti gli atti dello spirito
sono dei movimenti dell’ANIMA; Tim,, ecc., Arist. De Anima l'intelligenza è un
movimento circolare; tim, le sensazioni sono movimenti. É l'opinione dei più
risoluti tra i materialisti moderni di cui non mancano gli antecedenti nelle
dottrine dei Fisici Arist. Mei. salvo che il movimento, con cui vengono
identificati i fenomeni psichici, è attribuito da Platone alla sostanza anima:
ma questa differenza non ha per noi alcuna importanza, perchè Platone riguarda
la sostanza anima come una grandezza estesa.
Sa noi congiungiamo queste due dottrine, vale a dire la subhiettività
delle qualità sensibili dei corpi e l'identità delle operazioni dello spirito
col movimento, noi otteniamo supposto che queste dottrine siano appartenute
realche rappresenta la materia. Ciò che importa sopfAtutto di notare per V
intelligenza dèi motivi di questa dottrina è che sono propriamente le Idee che,
in un senso stretto, vengono identificae ai numeri quantunque Platone dica
anche, in un senso meno rigoroso, che le cose sono numeri, perchè IVlemento che
si aggiunge alle Ide^ per costituire le cose essendo lo spazio, cioè il vuoto,
tutto il realrt si risolve nelle Idee, e per conseguenza nei numeri. Ciò é
tanto vero che Aristotile dà come carattere distintivo tra la dottrina dei
numeri di Platone e quella dei Pitagorici che per quésti le cose constano di
nunaerì e sono esne stesso numeri, ma per quello i numeri sono oltre Tiapac le
cose o separati XwptaxoC o xsx<*>P^afIAévot dalle cose A questa
distinzfonfe ne è legata un'altra, la quale implica anch'eséa che i numeri sono
per Plaione le Idee; cioè che i numeri platonici sono monadici, vale a dire
composti di vere unità, mentre le unità che conpongono i numeri pitagorici
hanno grandezza. I numeri platonici sono moiiiidici, cioè composti di unità
incorportee indivisibili, perchè le Idee costituiscono la soia forma delle
co«p, e Testensione viene a queste dall'altro elemento, cioè dallo spazio: le
unità che compongono i numeri pitagorici hanno grandezza, perchè questi numeri
sono le cose mente a Platone una di queste auddci concezioni, dinnanzi a cui
questo filosofo non era solito d'indietreggiare: cioè tutto il reale ridotto
all'estensione e al movimento, e per conseguenza, mediante la costruzione della
grandezza estesa per lo spazio limitato dalle unità, risoluto nel numero e lo
spazio. Tim., Arist. M-.t, Phys,, eoo. Met, Met. De Coelo Mei, «te^se, i
composti di forma e materia, e da ciò Aristotile ne conclude che le loro unità
sono gli elementi di cai i corpi si compongono, e devono essere anche esse per
conseguenza estese e corporee. Questa differenza fra i numeri di Piatone, e
quelli dei Pitagorici, cioè che 1 primi sono le Fole forme delle cose e i
secondi i composti di forma e di materia, spiega anche perchè Aristotile non
estende a Platone Tobbiezione, ch'egli fa ripetutamente ai Pitagorici, che è
impossibile che la grandezza estesa si componga di unità. Al numero seguente
vedremo un'altra prova di questa proposizione, che sono le Idee, cioè le forme,
che vengono riguardate propriamente come numeri: è la distinzione tra le Idee
delle grandezze o grandezze ideali e le grandezze matematiche. Di questi due
ordini di grandezze le prime sono numeri, perchè rappresentano delle semplici
forme, le seconde no, perchè sono costituite dalle forme e dalla materia: per
conseguenza le prime sono riguardate come Idee, ma le seconde quantunque siano
anch'esse degli Universali come entità intermediarie tra le Idee e le cose. La
dottrina che le Idee rappresentano le sole forme delle cosrt è evidentemente in
contraddzione coi principii del sistema delle Idee. I termini di cui Platone si
serve per designare Vlde& specie, genere, essenza, natura delle cose
particolari-o ch'egli aggiunge al nome per indicare che questo si riferisce
all'Idea aOxó, aOxò xae^aòxó, 6 Ioti; le prove con cui ne dimostra l'esistenza
che quasi tutte si riassumono in questa proposizione: l'oggetto a cui si
riferisce il concetto e la conoscenza generale è ridea; la relazione ch'egli
stabilisce tra le Idee De Coelo, Met., e le cose che l'Idea è l'uno nei molti,
il comune, l'universale, l'astratto xwptoxóv; tutti gli aspetti, in una parola,
sotto cui può considerarsi la dottrina delle Idee, non sono che degli sviluppi
diversi di questo principio fondamentale: l'Idea è il concetto generale
realizzato. Ora il concetto di una cosa non rappresenta la sola forma, ma la
cosa stessa, il composto di forma e materia, concepita d'una maniera astratta e
generale. Se a questa considerazione ne aggiungiamo un'altra, cioè che la dottrina
di una materia che deve aggiungersi alle Idee per costituire le cose non si
trova che nel Timeo, e che questa dottrina, peri' identificazione della materia
con lo spazio, suppone certamente la dottrina dei numeri, perché questa
identificazione non si concepirebbe senza là costruzione del corporale per lo
spazio e le uaità che lo limitano, noi veniamo naturalmente a questa
conclusione che, sinché Platone non ha oltrepassato il semplice punto di vista
del sistema delle Idee, l'Idea ha dovuto rappresentare tanto la forma quanto la
materia, cioè, per servirei dell'espressone d'Aristotile, il sinolo, 9 che la
separazione delle Idee dalla materia e la loro riduzione a delle semplici forme
è una modificazione posteriore del sistema delle Idee, sotto l'influenza d'un
motivo straniero all'origine di questo sistema e legato alle AQUINO (vedasi)
Summa, /, Quaesi. Alcuni hanno creduto che la specie d'un essere naturale è
solamente la forma, e che la materia non la parte della specie. Ma se fosse
c^sl, nelle definizioni degli esseri naturali non dovrebbe entrare la materia.
Per conseguenza bisogna dire invece che la materia è doppia, cioè la comune e
la segnata o individuale: la comune come la carne e l'osso, l'individuale come
questa carne e queste ossa. L'intelletto astrae dunque la specie dell'essere
naturale dalla materia individuale, ma non dalla materia comune. Cosi astrae la
specie dell'uomo da queste carni e queste ossa, che non riguardano la specie,
ma sono part deirindividuo; ma non può astrarla dalle carni e dalle ossa. nuove
dottrioe pitagoreggiauti. Qual^j ha potato essere questo motivo? La risposta ci
è suggerita dal fatto che Platone riconduce ai numeri, non le cose stesse,
immediatamente, ma le loro Idee. Platone crede che vi ha qualche cosa negli esseri
che è irriduttibile al numero, e gli sembra più facile d'identificare ai numeri
le forme astratte dalla materia, che gli esseri stessi, i composti di forma e
di materia. Nel Filebo, che è il primo passo di Platone verso il pitagorismo, e
in cui si trova il germe di tutt^ le dottrine pitagoieggianti posteriori, si
distinguono nelle cose due elementi costitutivi, che corrispondono in certo
modo ai numeri ideali e alla materia voglio dire, alla materia delle cose. Il
uépa; del i^^Vcfòo non sono i numeri, ma dai rapporti numerici: numero rapporto
a numero e misura rapporto a misura. Noi vediamo dunque che Platone non arriva
alla dottrina pitagorica che gli esseri sono numeri che a traverso Tidea che la
natura degli esseri è costituita da rapporti numerici. Nel JnlebOy il ^épag e
TàTieipov non sono ancora identificati alla forma e alla materia: tuttavia il
grave e l'acuto, il caldo e il freddo, ecc., che determinati da certi rapporti
numerici, crstituiscoiio Tarmonia, le stagioni, ree, rappresentano qualche cosa
come la materia, e i rapporti numerici che li determinano, qualche cosa come la
forma. La materia-spazio del Timeo e degli (Jtypa^ a eóyfiaxa discende
direttamente dalTànstpov del Filebo: è, come questo, l'elemento delle cose
irriduttibile al numero. Solamente, nel Filebo quest'elemento è più
comprensivo, rappresenta un più gran numero di determinazioni delle Supplera.
Supplem. Vili, carte -loo, Còse; nel Timeo e negli i^pa^ct aóYJiaxa è ridotto a
ùiì minimum: la differenza tra i due concetti misura il progresso di Platone
verso la dottrina pitagorica dei numeri; ma Platone non fece m%i l'ultimo
passo, quello d'identificare puramente e semplicemente, come i Pitagorici, le
cose coi num »ri. Sembra dalle obbiezioni di Aristotile che ciò che s! trova di
più strano nella dottrina dei Pitagorici era che l'estensione e la corporeità
si facessero cons stero nel numero. Platone, da un lato, evita in parte qtie«ta
difficoltà, facendo d jlla materia uri elemento delle co»<5 distinto dai
numeri; e dall'altro lato, riconducendola materia allo spazio, risolve, come i
Pitagorici, tutto il reale nei numeri. Separando la materia dai numeri, questi
non venivano a rappresentare che le semplici forme. Ma ciò che ha dovuto essere
il motivo preponderante per ricondurre ai numeri le forme delle cose piuttosto
che le cose stesse, è che la forma sembra potersi ridurre ai rapporti numerici
tra i sustrati materiali. Ariptotile infatti, nella sua polemica contro la
dottrina delle Idee, confuta il concetto che le Id^e sono numeri perche 1«
forme delle coss consistono mn rapporti numerici delle parti componenti; e noi
possiamo, per conseguenza, fare rimontire questo concetto allo stesso Platone.
Ccriamente dire che le forme delle cose consistono in rapporti numerici non
equivale a dire che queste forme sono numeri, cioè che tal forma è il numero
due, tal altra il numero t'^e, ecc.: ma Platone trova nella prima di queste due
proposizioni un'idèa media Arist. De Coelo Mei, Mei.-. per passare alla
seconda. Questo passaggio, fondato sulla sostituzione tra due termini non
equivalenti ma semplicemente analoghi, cioè i due concetti di rapporti numerici
e di numeri f era senza dubbio un sofisma assai evidente: ma non era che con
dei processi cosi poco legittimi che poteva arrivarsi al risultato che le cose
sono numeri. Le considerazioni precedenti spiegano perchè non sono le cose
stesse, ma le semplici forme delle cose, che vengono ridotte ai numeri: ma
perchè le Idee vengono ridotte alle semplici forme delle cose? Evidentemente
per identificarle ai numeri. Come spiegheremo in seguito, il risultato a cui
tendono le speculazioni pitagoreggianti di Platone è l'identificazione delle
sue proprie dottrine con quelle dplla filoso6a pitagorica. Per ottenere questo
risultato si mettono in opera al tempo stesso due processi: Tuno è
Tintroduzioue nel proprio sistema dei concetti più caratteristici del sistema
pitagorico, e Taltro un'interpretazione forzata delle formule del sistema
pitagorico per ritrovarvi i concetti più caratterlFtici del proprio sistema. Ora,
da una parte, la proposizione generale della filosofìa pitagorica che gli
es-teri Fono numeri, e le proposizioni particolari che ne fanno l'applicazione,
cioè che Tuomo è un tal numero, un tal altro numero il cavallo, ecc., erano
troppo caratteristiche, perchè Platone potesse non accogliere nel suo proprio
sistema la stessa proposizione generale e delle proposizioni particolari, se
non identiche, analoghp. Queste proposizioni, riferite agli esseri sensibili,
non sono per Platone rigorosamente vere, perchè egli vede propriamente nei
numeri, non le cose stesse, ma le forme delle cose. Ma nel sistema platonico
esse non devono riferirsi agli esseri sensibili, ma alle Idee; perchè gli
esseri sono per Platone le Idee, e una t)roposizione che parla dell'uomo, del
CAVALLO HORSENESS, ecc. in generale, ha per oggetto Tldea dell'uomo, del
CAVALLO HORSENESS, ecc. Cosi, riducendo le Idee a delle semplici forme che sono
del resto il solo reale, perchè la materia non è che lo spazio Platone ottiene,
da una parte, di far entrare nel suo proprio sistema le proposizioni
pitagoriche relative alla identificazione delle cose coi numeri. Dall'altra
parte, l'identificazione tra le Idee e i numori è un mezzo indispensabile per
ricondurre le formule pitagoriche ai concetti proprii del sistema delle Idee.
Attribuendo, com'egli fa è un punto che dimostreremo in seguito agli antichi
filo^^ofi p'tagorici la dottrina delle Idee, Platone si fonda naturalmente
sull'analogia tra questa dottrina e le dotitrine pitagoriche. Quest'analogia è
doppia: primo, i numeri e le altre entità dei Pitagorici sono delle astrazioni
realizzate come le Idee platoniche; secondo, i numeri pitagorici rappresentano,
non la causa materiale o la motrice, come i principii degli altri filosofi
anteriori a Platone, ma, come e Idee platoniche, la specie e il concetto. È
dunque nella dottrina d»^i numeri che Platone crede di scoprire la dottrina
delle Idee: ma se le Idee non fossero anche per lui identiche ai numeri, questa
pretesa scoverta non raggiungerebbe il suo scopo, che è d'identificare la sua
propria filosofia con quella dei Pitagorici, o piuttosto dei loro antichi
predecessori. 11 legame della dottrina della materia, come un secondo elemento
delle cose distinto e separato dalle Idee, con la dottrina dei numeri è dimostrato
dalla identificazione della materia con lo spazio, perchè questa suppone la
costruzione del corpo per lo spazio e i punti che lo limitano, concetto che
evidentemente non poteva nascere che al punto di vista IfiS delle dottrine
pitagoriche sui numeri. ciò si pi^rà obbiettare che Platone ha polnto, nel
periodo anteriore a quello in cui seguiva le dottrine pitagoriche sai numeri,
ammettere la separazione delle Idee dalla materia e questa come un principio
distinto, senza ancora ricondurla allo spazio. Ma noi non troviamo né negli
scritti di Platone né in quelli d'Aristotile alcuna traccia di una dottrina
della materia come principio distinto diversa da quella del Timeo. Dalla
lettura d'Aristotile risulta anzi chiaramente l'impressione eh'egli non conosce
altra Per altro, che la costruzione della grandezza per i limiti eie spa210
racchiuso appartenga alle ultime speculazioni di Platone, é provato dalle
contraddizioni di questa dotttrina coi principii della sua fìsica La
costruzione piato nica non potrebln: applicarsi ad altre superficie che a del
piani né ad altre linee che a delle rette, e per conseguenza essa suppone la
dottrina dei corpusccli poliedrici. Ma questa dottrina richiede necessariamente
l'ammissione del vuoto, perchè, come osserva Aristotile D^ Coeìo Vili. , due
solidi solamente, cioè il cubo e la piramide, potrebbero riempire ccmpletamente
lo spazio. Intanto Platone nega lesi-stenza del vuoto 7im, sSa-c,, Arist. De
gen. De Coelo; e questo è uno dei punti fondamentali della sua fisica, come lo
mostra sovratutto la teoria dell'impulsione circolare 7im., che ha in questa
fisica un'importanza capi(lale, e che Piatone come gli altri filosofi antichi
che negano il vuoto ammettere per ispiegare la possibilità del movimento senza
il vuoto. Questa incoerenza dimostra che Platone non cominciò ad ammettere la
dottrina dei corpi geometrici, e, per conseguenpa, la costruzione del corporale
con cui essa è legata, che dopo che le sue idee generali sulla fisica si erano
già fissate. Un'altra incoerenza non meno grave è la coesistenza nel Timeo
della teoria dei quattro elementi con quella dei corpuscoli geometrici la qnale
suppone che vi siano altrettanti elementi che poliedri regolari Più tardi
Platone è più conseguente, e ammette coi Pitagorici un quinto elemento. Il
carattere provvisorio della dottrina del 7im^o prova ch« la costruzione del
corpo dallo spazio e i piani e, quindi, la dottrina della materia-spazio non
possono datare da un'epoca molto anteriore a quella in cui fu scritto questo
dialogo, nel quale tutti i critici si accordano a vedere una delle ultime
composiiioui di Platone. forcmi doJto, dattrina pl^tQi^ca della mHt0rlaHr ben
jKvtem della materia come entità sussistente per se stessa e distinta realmente
dalla forma che quella che è stata esposta nel Timeo e in cui essa viene
idtntiflcata allo spazio. Inoltre una vera materia cioè una materia covici In
De gen. et corr,, stabilendo ì! principio che la materia è inseparabile dalle
contrarietà il caldo e il freddo, il secco e l'umido e non vi ha una materia
X^P^^^Q <lagji elementi, parla delie dottrine opposte a questo principio, e
tutto ciò che dice di Platone si riferisce alla descrizione che vi ha nel Timeo
della materia come massa informe, prima che essa venga, ricondotta allo tpasio
Ció> poi che è scritto nel Timeo non ha niente di definito; poiché, né si
dice chiararamente se quello che riceve tutto X^P^C^'Cat dagli elementi né si
fa alcun uso di alcun principio tale, quantunque prima si sia detto che vi ha
qualche cosa che serve di sustbato agli elementi come l'oro agli oggetti aurei.
Siccome questa rappreseniaaione delia materia e in conraddiaione eoo la sua
identificazione allo spaaip, Aristotile crede di viti dervi un accenno a un
concetto distinto della materia, in cui essa verrebbe riguardata come un
sustrato reale e non come un semplice spazio vuoto sustrato che, conformemente
alle dottrino esposte nel Timeo, dovrebbe essere X^P^dagli elementi, ma che
Platone non determina come tale, poiché egli invece non riconosce altra materia
che lo spazio. Questo vago acc»nno del Timeo è tutto ciò che Aristotile trova
nei concetti platonici di relativo a una materia X^P^^' inteso, a una materia
X^P concepita come alcun che di reale e non come spazio vuoto. In Phys. dice:
Perciò perchè lo spazia, pare l' intervallo della grandezza Platone dice nel
Timeo che la infiteria e lo spazio sono lo stesso: infatti il partecipante e lo
spazio sono una sola e stessa cosa. Quantunque ivi e in quelli che si dicono
dogmi non scritti chiami il partecipante diversamente, pure egli stabili che
esso è il luogo e lo spazio. E poi: Platone aviebhe dovuto dire perchè le Idee
e i numeri non sono nello spazio, se il partecipante é lo spazio, sia che il
partecipante sia il grande e piccolo, sia che esso sia la maicria. come scrisse
nel Ttmeo; Aristotile non conosce dunque altre dottrine di Platone sulla
materia, quale principio distinto dalle Idee e partecipante ad esse, che quella
del Timeo e quella dei;li fiYP*9* 5ÓY|iaxa la quali TT" rispondente al
concetto ordinarlo della corporeità separata dalle Idee sarebbe inconcepìbile
nel sistema platonico. L'essere per Platone sono le Idee; qnindi egli non
avrebbe potuto ammettere alcun che di reale che non si risolve in Idee. Nel
Timeo può ancora chiamare le Idee Tessere, quantunque con esse coesista nelle
cose un altro elemento, perchè quest'altro elemento non è che lo spazio vuoto.
Tutto nel sistema di Platone deve essere ricondotto a dei concetti realizzati:
nel mondo d^^lle entità platoniche i^n principio che non fosse un concetto realizzato
sarebbe cosi strano, come lo sarebbe un concetto realizzato in mezzo agli
esseri del nostro mondo, di noi che non ammettiamo che delle esistenze
concrete. La materia spazio era conciliabile col sistema dei concetti
realizzati, non solo perchè lo spazio non è niente di reale, ma anche per un
altra ragione: è che lo Spazio può riguardarsi anch'esso come un concetto
realizzato. Trattandosi dello Spazio, V Idea, cioè il concetto realizzato, non
si distìngue dalla cosa stessa HORSE FREGE. L' Idea è V uno nei molt^ vale a
dire è ciò che vi ha di comune in tutti i particolari che cadono sotto uno
stesso concetto generale. Per conseguenza là dove non vi hanno molti, là dove
un concetto non si riferisce che ad un solo particolare, la cosa e l’idea, T
individuo e la specie, si confondono. Ciò non vuol dire che, se vi fossero Idee
d»^gli oggetti concreti unici nella loro specie, quali il sole o la tTra
dovrebbero esservene, secondo la definizione dell'Idea: la causa esemplare di
ciò che vi ha di costante nella natura le Idee di questi oggetti non si
distìnguenon sì distingue dalla prima, che perchè nel Timeo la materia non è
ricondotta al Grande e Piccolo. Proclo in Parm, rebbero dagli oggetti stessi.
Questi essendo sottoposti alla successione e al cangiamento, il molti è in essi
rappresentato dalla moltiplicità dei loro stati successivi; e l'uno nei molti,
cioè l'Idea, sarebbe per essi ciò che vi ha d'identico in questi stati
successivi. Ma nello Spazio non vi ha né successione né cangiamento: per
conseguenza siccome non vi ha che un oggetto unico che corri<4ponda al
concetto dello Spazio vale a d<re dello spazio infinito, di cui tutti quelli
che in un altro senso del termine Tchi amiamo spazi sono delle parti cosi la
Idea dello Spazio e lo Spazio non fanno che una com sola. Perciò Platone,
quantunque dica dello Spazio ch'esso è 1'oggetto di un concetto spurio perchè
un concetto, nel senso stretto del termine, è la rappresentazione dell'uno nei
molti pare lo chiama elòo<; e Yìvo^ . Ma trattandosi della materia voglio
dire della vera materia, l'Idea, cioè il concetto realizzato, e la cosa
sarebbero necessaiiamento distinte. Ora quale sarebbe, nell'ipotesi di una
dottrina della materia diversa dallo spazio, la materia che Platone avrebbe
riguardato come un principio distinto dalle Idee e ch'^ bisogna aggiungere ad
esse per costituire le cose? La materia reale Si potrebbe dire che l'Idea dello
spazio e lo spazio diflerirebl>e:0 in quanto la prima saiebbe, come le altre
Idee, al di fuori del Unipo. Ma se si fa dell'astrazione spazio un'entità, non
si è obbligati quando si pensa che vi hanno delle cose fuori del tt-mpo-ad
ammettere che qm si'entità è nel tempo; né Platone dice mai che lo spazio di
cui egli parla nel limeo, considerato in se stesso aùxò xaG'aOxó, sia sottoposto
alla condizione del tempo, anzi implicitamente lo esclude, quando fa del tempo
una cosa generata e dice che Vera e il satà non devono attribuirsi che alla
genesi e al sensibile Tim. 7im, .r'- ù Udea della materia? Non avrebbe potuto
essere (a materia reale, perchè tutto nel sistema platonico deve riduwj ad
Idee, a concetti realizzati, e per conse^uenza egli avrebbe dovuto ammettere un
Idea, un concetto realizzato, anche per questa materia, e allora il principio
da cui e dalle Idee le cose verrebbero, sarebbe, non la materia reale, ma ridea
della materia. Ma questo principio non ha potuto essere nemmeno Tldea della
materia, perchè è evidente che il principio materiale è per Platone un'entità
astratta si, ma non generale. Se fosse un'entità generale, non si
identificherebbe con lo spazio. Piatene riguarda lo spazio come identico, non
al concetto generale dellVstens one corporea realizzato, ma all'estensione
reale dei corpi individuali. Questo carattere che distingue la materia delle
cose dalle altre astrazioni realizzate del platonismo, di non essere cioè
un'entità generale, fa che essa rappresenta, in <iue8to sistema, il
principium individuationis. Non vi ha per noi niente di più vano che le
discussioni degli scolastici sul principio d'individuazione. È che noi siamo
nominalisti, e la ricerca del principio, cioè della causa, dell'individuazione
suppone se essa ha un senso, che l'essere sia dapprima generale, e poi
s'individualizzi in virtù di questo principio. La quisfone tanto agitata dagh
scolast'ci era un legato del platonismo. La cosa individuale è costituita hi
condo Platone da un elemento che essa ha in comune con altre cosp, cioè l'Idea,
e da M.i, ecc. in cui e|,li riguarda, nel sistema platomco, la forna come
equivalente al generale, e Usinolo cioè 1 composto della forma e della materia,
come equivalente airindividuale-ciò che non farebbe, se la materia fosse
anch'essa un'entità generale come la forma. Uh elemento che le è proprio e
inoomutlicabile con aiti^ co -e, cioè la materia -^perchè la materia di un
ijorpo, vale a dire lo spazio che esso occupa, è necessariamente distinta dalla
materia di tutti gli altri corp^, e per tutte qut\ste materie individuali, cioè
per tutte queste porzioni di materia o di sp>«zio, non vi ha un che di
comune a cui esse si riducano, lo spazio o la materia non risolvendcisi per
Platone, come le altre cose, in un'entità universale: ne segue che la materia
spazio è nel siHiema platonico il principio alle cose dell'essere, come
dicevano gli scolastici, incomunicabili y cioè dell'essere degl'individui e Lon
delle entità comuni. Non è ds^qme da mettere in quistionc ch»^ la materia
funga, nel sisteiua platonico, da principiujn individtéationis t la quisiioue
che potrebbe farsi sarebbe al più se Platone l'ha e.<plic'itameute riguardata
come tale, cioè se egli si è proposto effettivamente il problema della causa
dell'individualità, dando a questo problema l'unica soluzione per lui
possibile, e che era contenuta implicitamente nella dottrina dei due
<lementi, l'uno generale e l'altro indi\iduale, di cui egli compone le cose.
Ora a questa quistione dobbiamo rispondere affermativamente. Noi abbiamo visto
infatti che, nel Timeo, la ragione per cui l'immagine dell'Idea esiste nello
spazio è che essa deve esistere in qualche «Itra cosa, attaccandosi in qualche
manieri aU'tsistenza, o non essere assolutamente niente; e che, nel 'spcsizione
d'Aristotile, la materia è la ciiUsa dcila moltiplicità degli esseri. GRICE
ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. Si noti che Aristotile dà anche la materia
come la causa deila inaici Suppleni. Supplemenco, carta t*m P^ tiplicità delle
unità, e che, discutendo il sistema di Speusippo, suppone che sia una necessità
per questo filosofo di spiegare, per il principio materiale, la moltitiplicità,
tanto delle unità quanto dei punti che per Speusippo differiscono dalle unità:
ciò prova che la materia non é solamente la causa per cui Tessere primitivo si
scinde in una moltitudine di essenze generali, ma anche per cui ciascun'essenza
generale si scinde in una moltitudine di esistenze particolari. La soluzione
che Platone da al problema deirindividuazione era la stessa che poi si presenta
immediatamente agli scolastici, quando si proposero la prima volta lo stesso
problema. Il fatto non è casuale, perchè il realismo e il semi-realismo del
medio evo si riattac»cano al platonismo, sia direttamente sia per i vestigi dei
concetti platonici che si trovano in Aristotile. La dottrina d’AQUINO sul
principio d'individuazione era una riproduzione della platonica, perchè essa si
trova in germe in Aristotile, e questo germe era uscito da Platone. Aristotile
adotta, come si sa, la dottrina platonica che le cose constano di due elementi,
la forma e la materia, salvo che questi due elementi sono per Platone degli
esseri reali e realmente distinti, mentre per Aristotile non sono che delle
astrazioni mentali e non si distìnguono che logicamente. Aristotile riguarda
anch'egli, all'esempio di Platone, la forma eldo^ SPECIES BOEZIO come l'oggetto
del concetto generale della cosa, e perciò come l'elemento comune a tutta la
specie, e la materia come l'elemento proprio e differenziale dell'individuo in
altri termini questa mater'a TOTI TIDE GRICE CODE , che è l'uno dei due
elementi in etti te spirito deco'npone la cosa, none per lui la materia comune,
come l'alt' o elemento, la forma, è la forma comune, ma è la materia, come dice
AQUINO, segnata o Individuale: per conseguenza l'opposizione tra l'elSog in se
stesso e il sinodo, cioè il composto dell'elSog e della materia, equivale per
Aristotile all'opposizione tra il generale e l'individuale. La distinzione
della forma e della materia, per Aristotile, non è che logica: tuttavia come
può vedersi in molti dei luoghi indicati nella nota precedente egli esprime
spesso questa distinzione in termini più appropriati al realismo platonico che
al proprio concettualismo, e, a prendere certi luoghi isolatamente, si direbbe
che le sostanze seconde è cosi che veng^ono chiamate la forma e la materia
siano per Aristotile delle sostanze nel senso stretto della parola, come la
forme e la materia platoniche. Evidentemente Aristotile deve a Platone, non
solo la distinzione tra elòo^ e materia, con le due funzioni diverse di
elemento generale e di elemento individuale assegnate all'uno e alTalira, ma
anche la forma troppo realista in cui egli presenta questa distinzione. È alla
scuola di Platone che Aristotile ha appreso a trattare delle semplici
astrazioni come degli esseri reali: inoltre i suoi Bcritci sono indirizzati a
un pubblico che è stato anche Mei. AJci, Mei. De Coelo, ecc. Sono notevoli
sovratutto i due ul imi luoghi: rultim> l'u 1'occasione della quistione sul
principio d'individuazione; il pcnuUinio è più vicino ancora di questo e di
qualsiasi altro luogo che io ricordi in Aristotile, alla dottrina di AQUINO, e,
VU., 'il Sm kfla scuola di Platone, ed egli deve presentare i auoi ooinoetti
nella forma più prontamente intellig:iblle e più accettabile per il pubblico
per cui scrive. Gli scolastici, anche quelli che non sono francamente realisti,
rincariscooo su questa tendenaa d'Aristotile a trattare dei meri concetti come
realtà: di ìk le discussioni sul principio d’individuazione. Ora, la forma
rappresentando per Aristotile Telemento generico, e la materia l'elemento
proprio e differenziale dell'indi-idiwo, gl'interpreti più fedeli d'Aristotile
non potevano trovave il i»riiicipio d'individuazione che nella materia. Può
parere singolare che i veri realisti, cioè Scoto e 1 aioi, respingessero questa
soluzione, quantunque la più vicina a quella di Platone, al quale essi erano i
più vicini. Ma non vi ha in ciò niente di sorprendente, perchè una materia che
non venga ricondotta a un'entità universale, è, come osservammo, in
contradizione coi postulati fondamentali del sistema realista. Ora se si fa
anche della materia un'entità universale, essa finisce di essere l'elemento
proprio e incomunicabile dell'individuo, e diviene invece, come la riguardano
gli scotisti, ciò che vi ha di più elevato nella scala della generalità. Prima
di passare all'argomento del numero succes«ivo, aggiungiamo qualche
osservazione sui rapporti della dottrina della materia delle cose con le
dottrine dei Pitagorici. Questa dottrina, a parte la costruzione della
grandezza estesa per lo spazio e i limiti, che non potremmo attribuire con
sicurezza ai Pitagorici, poteva Hattaccarsi ai loro concetti sovrututto nei
punti seguenti: tanto Platone quanto i Pitagorici riconducono i 7 I lo spazio
air STistpov. La costruzione del corpo pf»r lo spazio e i limiti, e anche la
decomposizione dello cose nei due elementi forma e materia potevano mettersi in
rapporto colla dottrina pitagorica che le cose constano del népag e dello
ànstpov. In fine, in certe proposizioni dei Pitagorici il concetto della
materia sembra confuso con quello dello spazio. Le entità matematiche sono gli
oggetti delle scienze matematiche, in altri termini i concetti, su cui volgono
queste scienze, realizzati. Per sci^^nze matematiche bisogna intendere le
matematiche pure, cioè l'aritmetica e la geometria, a per entità matematiche
quindi i numeri e le grandezze geometriche le figure. In effetto Aristotile non
parla mai di altre entità matematiche: di più egli esclude che Platone ne abbia
ammesso delle altre, quando gli rimprovera come un'inconseguenza di non aver
supposto delle entità simili, come per l'aritmetica e la geometria, anche per
Tastro- Arist. Phjs. e Stob. indicati nella nota precedente e Zqììqt FU. ilei
Greci. Mei., eco. Mei., eoo. Met,, eoo. 0 PVP maàti tìmiifssi nomia, la
prospettiva, l’armonia, in una parola per le matematiche applicate. Le entità
matematiche non sono che degli universali sostantilicati come tutte le altre
entità della metafisica platonica: ma Platone le distingue dalle Idee, perchè
le Idee, nel periodo pitagoreggiabte, sono i numeri ideali, ed egli non riconduce
i concetti u>atematici a dei numeri ideali. Il carattere generale per cui le
entità matematiche si distinguono dalle Idee, è che ve ne sono molte della
stessa specie. L'Unità, U Diade, la Triade, ecc. ideale è una sola; ma vi ha
un'infinità di unità, di diadi, di triadi ecc. matematiche Ciò vuol dire
evidentemente che nei numeri in cui V’uno, il due, il tre, ecc. sono contenuti
più volte, vi hanno altrettante unità, diadi, triadi, ecc. quante volttì
bisogna ripetere l’uno, il due, il tre, ecc. per formare questi numeri, e che
Platone riguarda tutte queste unità, diadi, triadi, ecc. come altrettante
entità distinte. Cosi vi ha dapprima il numero due, poi T altro due che bisogna
aggiungere a questo numero per avere il numero quattro, poi Taltro che bisogna
aggiungere ancora per avere Jl numero sei, e cosi di seguito. Ciascuno di
questi d^e è un'entità matematica: essi sono infiniti, perchè il numero aumenta
sino all'infinito; sono della stessa specie, perchè un due non differisce da un
altro. Ma questa moltitudine dì due Met, Arisi. Met., An. Pont,, eco. Fiat.
Ifep. Fedone, ecc. M^t., ecc. Met,, ecc. Arisi. Met,. non possono essere tutti
dei due che per la partecipazione comune ad un'essenza unica: questa è l'Idea
del due, che non è altra cosa che il numero ideale Due, p. e. GRICE E STRAWSON,
TRE: GRICE, STRAWSON, PEARS. Della stessa maniera le molte unità matematiche
non sono tali che per la partecipazione dell'unica Unità ideale; le molte
triadi, tetradi, ecc. matematiche, per la partecipazione dell'unica Triade,
Tetrade, ecc. ideali. La Unità – GRICE --, la Diade – GRICE e STRAWSON -- , la
Triade – GRICE, STRAWSON, e PEARS --, ecc. ideali, in quanto sono le essenze
comuni di tutte le unità, le diadi, le triadi, ecc. particolari, sono chiamate
l'Unità stessa aùxi^ -- IL CAVALLO ESTESSO HORSENESS, la Diade stessa, la
Triade stessa; e perchè è da esse che procedono le molte unità, diadi, triadi,
ecc. particolari per la relazione dì anteriorità e posteriorità che vi ha tra
il generale e il particolare sono anche chiamate ìsi prima unità, la prima
diade, la prima triade, ecc. Tra i numeri ideali e i numeri matematici non vi
ha dunque, al fondo, che il rapporto che corre tra le Idee generiche e le Idee
specifiche: ma Platone nega ai numeri matematici il nome d'Idee e di Specie,
perchè questi nomi, nel periodo pitagoreggiante, non vengono attribuiti che ai
numeri ideali. Per ispiegare come nei numeri ideali non ve ne hanno molti della
stessa specie, egualmente che nei numeri matematici, Platone mette innanzi
un'altra differenza fra le due specie di numeri: è che i numeri matematici sono
comhinabiliy cioè si addizionano fra di loro – 7 + 5 = 12, ma i numeri Met.,
ecc. Mei, ecc. Met. iae ideali sono inconibinabili, cioè non si addizionano fra
di loro. Cosi un numero ideale non può riguardarsi, del pari che un numero
matematico, come composto dei numeri più piccoli in cui può decomporsi KANT; e
per conseguenza, nei numeri ideali in cui il due, il tre, ecc. sono contenuti
più volle, non possono distinguersi altrettante Diadi, Triadi, ecc., e
considerarsi quali entità per sé come avviene nei numeri matematici. Alla
quistione perchè i numeri ideali siano incombinabili Platone risponde che
l'addizione suppone l'omogeneità del'e unità che si addizionano, ma dei numeri
ideali distinti costituiscono delle specie differenti, e per conseguenza le
unità di un numero non sono omogenee con quelle di un altro. Met., ecc.
Infatti, se il numero minore fosse una parte del numero maggiore, l'Idea
rappresentata dall'uno sarebbe una parte dell'Idea rappresentata dall'altro. P.
e. se il Tre fosse una parte del Quattro, e il primo rappresentasse 1'Idea
dell'uomo e il secondo quella del CAVALLO – CENTAURO --, PIdea dell'uomo
sarebbe una parte di quella del oavallo Arist. Met., ecc. L'obbiezione contenuta
è diretta contro la dottrina di Xenoerate, che identificando il numero ideale
col matematico, oglìeva necessariamente a quello il carattere per cui Platone
lo aveva distinto da questo, e lo fa combinabile. Aristotile Met, accenna anche
ad un'altra ragione, per cui, nei numeri ideali, il minore non potrebbe
riguardarsi come una parte del maggiore. È che in questo caso sarebbe
impossibile la generazione dei numeri quale l'ammette Platone. Se p. e. il Due
ideale fosse una parte del Quattro, questo nascerebbe per l'aggiunzione di due
altre unità a quelle del Due: ma allora, per generare il Quattro, non dovrebbe
rendersi conto ohe dell'origine dello due nuove unità soltanto, e per
conseguenza esso non potrebbe generarsi dalla moltiplicazione del Due per la
Dualità indefinita. indicati nella nota penultima, e inoltro A/W., eoo. Le
entità geometriche sono pure molte ed infinite quelle della stessa specie, come
i numeri matematici. – UN QUADRATO HA TRE LATI -- Platone ammette due classi di
entità pei concetti delle grandezze, come per quelli dei numeri: le grandezze
matematiche e le Idee di queste grandezze. Le grandezze matematiche che sono
anch'esse degli universali sostantificati non sono delle semplici forme come le
Idee, ma contengono una materia identica, al fondo, alla materia delle cose,
cioè allo spazio, poiché non è altro che le dimensioni dello spazio
generalmente considerate; per conseguenza, siccome il numero non rappresenta
che delle pure forme, esse non vengono identificate a dei numeri. La materia
delle linee si chiama W Lungo e Corto' quella dei piani il Largo e Stretto
quella dei solidi VAlto e Basso: queste sono delle forme del Grande e Piccolo
Dualità indefinita. Cosi nella Dualità indefinita Platone confonde tre concetti
differenti, facendola servire al tempo stesso da materia delle Idee, da materia
delle cose e da materia delle grandezza matematiche. Questo per Telemento
materiale: in quanto all'elemento formale l'elSoc, le grandezze matematiche lo
ricevono dai numeri ideali. Le linee vcn Met,, eco. Mei., ecc. oltre indicati
nella nota seguente, quelli che indicheremo in seguito in cui le entità
matematiche vengono date come intermediarie tra le Idee e i sensibili; ai quali
aggiungeremo anche quegli altri in cui Aristotile riguarda le grandezze come
posteriori ai numeri ideali o, ciò che è lo stesso, come procedenti da essi
Met., ecc.; e in cui dà le Idee come specie, non solo dei sensibili, ma anche
delle entità matematiche Mei. A'IU. Vili, ecc., e come cause tanto dei primi
quanto delle seconde Met,| eoo. li Ém m gono dal numero ideale Due e dal Lungo
e Corto; i piani dal Tre e dal Largo e Stretto; i solidi dal Quattro e
dall'Alto e Basso a questi numeri Platone ad un'altra epoca o alcuni dei suoi
discepoli sembrano averne sostituiti degli altri; ma ciò non ha per noi
alcun'importanza. Il Due ideale dà dunque l'elSo alle linee, il Tre ai piani,
il Quattro ai solidi; o, ciò che vale lo stesso, il Due ideale è Velòo(;
generale delle linee, il Tre dei piani, il Quattro dei solidi. Ma quantunque
Platone chiami questi numeri 1'elòog della linea, del piano e del solido, egli
non vuole che si dicano la linea stessa, il piano stesso e il solido stesso:
ciò ò evidentemente Arisi. Met. De an., Ps. Aless. in Mct., ecc. Met. L'autore
dell'P:puw. sembra riguardare 1'otto come il numero del solido e
conseguentemente il quattro come quello del piano. Ps. Aless. in Met.
Arisi. Met., De an., ecc. Met. In questo luogo Aristotile distingue due scuole platoniche:
l'una riconduce tutti i concetti, anche quelli delle grandezze, alle semplici
forme, e per questa il Due ò la linea stessa è la scuola di Xenocrate, che
sopprime la distinzione delle entità matematiche dalle Idee, e risolve per
conseguenza in numeri ideali anche le grandezze Supplem.- l'altra sono i
platonici strettamente ortodossi non ammette che i numeri ideali rappresentino
le grandezze stesse, ma solamente il loro elemento formale, e per questa
l'sISog della linea, cioè il Due, differisce, per conseguenza, daUa linea
stessa È certamente per questa distinzione tra i numeri della linea, del piano
e del solido e la linea, il piano e il solido stessi, che Aristotih> domanda
se si deve ammettere o no che questi numeri siano delle Idee Met. Ma non può
esservi alcun dubbio che i Platonici non li considerassero effettivamente come
tali: ciò risulta chiaramente dai indicati nelle note precedenti, ei è incluso
nella proposizione di cui in seguito, che le entità matematiche sono
intermediarie perchè essi rappresentano la sola forma della linea, del piano e
del solido, e non le cose stesse, vale a dire la forma congiunta alla materia.
Il numero della linea, del piano e del solido erano i soli numeri ideali, e per
conseguenza, le sole Idee, che Platone ammette per le grandezze: e in effetto,
queste Idee erano riguardate come le specie, nel senso moderno del termino,
delle grandezze matematiche; quantunque tra le une e le altre, piuttosto che il
rapporto tra specie ed individui, vi fosse in realtà quello tra generi e
specie. Oltre alle grandezze matematiche, ci si parla anche dì un altro genere
di grandezze, che Aristotile distingue con la designazione di jwsterlori ai
numeri jisxà toò^ àpt0|ioóc Me/. -) o jyosteriori alle Idee jjLSxà xàc;
Laéas--. Alessandro d'Afrodisia ad Met. ci spiega che queste grandezze erano la
Linea stessa, il Piano stesso e il Solido stesso, che Platone riguarda come i
principii da cui procedono le linee, i piani e i solidi matematici, e che, come
questi, tra le Idee e le cose, le Idee, tra cui e le grandezze reali tramezzano
le grandezze matematiche, non potendo essere ehe i numeri da cui queste
procedono e che ne rappresentano l'SiSo^. Del resto questi numeri sono chiamati
Idee dallo stesso Aristotile nelle parole che seguono immediatamente: questi
che a questo modo riattaccano le entità matematiche alle Idee f,; qui la parola
tSéat riferendosi evidentemente ai numeri da cui derivano le grandezze
matematiche, dei quali sopra ha parlato. Arist. 3/é^/.l. , Ps. Aless in
MetA.XU.ìX. ecc. Arist. Met.
Se Platone dice che delle grandezze matematiche ve ne hanno molte della stessa
specie, è appunto perchè considera l'siSo^ della linea, del piano, del solido
come la specie, nel senso stretto, delle linee, dei piani, dei solidi
mAtematioi. Mti tm egli dìstitigtieya dai numeri ideali. Naturalmente la Linea,
il Piano e il Solido stessi differivano dalle Idee numeri ideali della linea,
del piano e del solido, in ciò, che queste erano le semplici forme, mentre essi
comprendeno anche la materia. La Linea stessa era Vslòo<; della linea il
numero ideale Due congiunto col Lungo e Corto; il Piano stesso V’el8og del
piano il Tre congiunto col Largo e Stretto; il Solido stesso VBlòo^àeì solido
il Quattro congiunto eoa TAIto e Ba«so. Per conci Questa spiegazione presenta,
a dir vero, una difficoltà, ed è ohe Aristotile parla Met., non di una linea,
un piano e un solido, AL SINGOLARE, ma di linee, piani e solidi, AL PLURALE.
Tuttavia noi dobbiamo accettarla, perchè essa ci permette di coordinare d'una
maniera coerente la dottrina a cui allude Aristotile, all'insieme delle
dottrine platoniche sulle entità matematiche. Per conciliare la ipiegaziono
d'Alessandro col testo d'Aristotile, non abbiamo bisogno di supporre
un'innovazioae di alcuni discepoli, che avrebbero aggiunto alla Linea, Piano e
Solido in sé di Platone altre entità dello stesso ordine, alle quali le parole
d'Aristotile avrebbero potuto egualmente applicarsi: basta di ammettere che
questi intende discutere la dottrina, a cui allude, nel suo oouoetto essenziale,
cioè la distinzione tra le grandezze fisxi TOÒ^ aptOfiOÓg e le matematiche,
anziché nella forma accidentale ohe Platone ha dato a questo concetto Non è
senza ragione se di grandezze fiexà TOÙ^ àpi0|JLOÓC Platone ne ammette queste
tre solo: A ohe di esse non potrebbe esservene che una per ciascun'Idea delle
grandezze e per ciascuna forma del Grande e Piccolo quale materia delle
grandezze; ognuna di esse non essendo, come diciamo in séguito, che un'Idea di
grandezza e la forma corrispondente del Grande e Piccolo, pensate, non
saparatamente, ma insieme. Ma Aristolile pare non comprendere ciò, perchè
inclinato, com'egli è, all'interpretazione trascendoit aliata del sirtema delle
Idee, sembra supporre ohe queste entità siano separate dalle loro ldee; e perciò
crede arbitrario ohe se ne ammettano di pih o di meno. Quando Aristotile parla
della provenienza delle grandezze dalla materia il Lungo e Corto, ecc., egli
usa le espressioni gene seguenza, ammettendo una linea, un piano e un solido in
se stessi, distinti dagli sISyj della linea, del piano e del soliJo, Platone
non introduce delle nuove entità oltre questi eTSyj e la materia: la Linea
stessa non è una terza cosa che si ag^iung^e airsISog della linea e alla sua
materia; ma non è altro che queste due cose, pensate, non a parte, ma
congiuntamente. Questo ci fa comprendere perché, quantunque la linea, il piano
e il solido in sè gi distinguano dalle Idee e dalle grandezze matematiche, pure
Platone non riconosce che due generi di entità, le Idee e \oi entità matematiche;
e infatti quando Aristolile parla dei geneii di entità ammes-e dalla scuola
platonica e spesso certamente dà la sua enumerazione come completa egli non fa
menzione che di questi due soli. In Met. fa l'obbiezione che nella classazion»^
platonica degli essfTÌ non vi ha alcun posto per le grandezze |jisxà xoò^
àptGfjtoóg, non potendo esse collocarsi né tra le Idee, né tr i le entità
matematiche o intt^rmediarìe, né tra i sensibili le tre sole classi ammesse, da
Platone. In questo stesso luogo obbietta pure a Platone che egli non ha
spivigato Torigine di queste grandezze: questi non l'ha fatto, perché la loro
esistenza non segna un nuovo passo nello sviluppo degli esseri, fiche: le
grandezze, le linee, le su[)3rficie, i solidi, o anche: la grandezza, la linea,
la superficie, il solido, AL SINGOLAREa Met,; per conseguenza ciò i^he egli
dice deve applicarsi a tutte le grandezze e non alle sole matematiche, quindi
anche alla Linea, alla Superficie e al Solido stessi. Del resto Alessandro
d'Afrodisia dà esplicitamente come principio di questi il Lungo e Corto, il
Largo e Stretto e l'Alto e Basso. Met., eoe. mtt noTi essendo esse altra cosa
che le loro Idee e la materia; ma Aristotile, per la sua propensione air
interpretazione trascendentalista, suppone che siano qualche cosa di nuovo, e
rimprova quindi a Platone di non avere indicato per queste entità, come per le
altre, il processo secondo cui si producono. L'esistenza equivoca dello
grandezze lexà xoò? àptOiioóc quali entità distinte ci fa pure comprendere il
fatto che Aristotile non ne parla che in qualche luogo isolato oltre i
indicati, in De an,, in cui la prima lunghezza, larghezza e profondità pare che
denotino la linea, la superficie e il solido in sé, e che e^li anche talvolta
per le espressioni generiche /(? grandezze, le lunghezze, le superficie, i
solidi, non intende senza dubbio designare che le grandezze matematiche. La
linea, il piano e il solido iu sé non sono compresi tra le grandezze
matematiche propriamente dette cioè tra quelle che, come diremo in seguito,
Platone fa intermediarie tra le Idee e le cose, perchè queste non sono che le
specie ultime dei generi linea, piauo e solido. Platone non ammette df lU, e
itila per i concetti generici delle fijiure p. e. del poligono o del poliedro,
ma solo per quelli delle figure particolari p. e. del triangolo, del quadrato,
del cubo, à AV ottaedro. C'ò è senza Mei. nr. r. i5 ofr. i. i-iu. e i. ni.
s-ii. Come risalta da Mei,, in cai j' attribuisce ai partigiani delle Mee
l'opiaiona cbe non vi ha oXian numero generico oltre 7^2C,o:c la specie dei
numeri né alcuna figura generica oltre le sp3CÌ9 delle figura. Lo stesso può
desumersi da uà altro luocro, in cui alla dottrina dell'esistenza delle Idee
oltre le entità miitcmatiche e i sensibili si dfi per ragione che, se
esistessero la sol 3 entità matematiche, i loro principii non sarebbero finiti
di numero, ma solo di specie. Se tra le entità matematiche vi fossero anche i
concetti generici e non solamente gli spedubbio perchè, se tra le entità
geometriche fossero anche rappresentati i concetti generici, egli non potrebbe
riguardare l'sISog della linea, del piano e del solido come le specie nel senso
stretto, cioè come le specie infime delle linee, dei piani e dei solidi
matematici, e dire che queste linee, questi piani e questi solidi sono tutti
della stessa specie. Queste proposizioni suppongono che tra le grandezze
mAtematiche e le loro Idee corra lo stesso rapporto che tra gì' individui e le
loro Idee specifiche: perciò le grandezze matematiche devono essere tra di
loro, non subordinate nel grado di generalità, ma tutte cifioi, i principii di
queste entità, anche se non si ammettessero che esse sole, sarebbero finiti di
numero, non semplicemente di specie perchè è il generale, nel sistema
platonico, che è il principio. Quest'esclusione dei concetti generici dei
numeri e delle figure dal rango di entità sussistenti per se stesse è fondata
su quest'argomento capzioso: che nelle cose in cui vi ha anteriorità e
posteriorità cioè che formano una serie i cui termini si seguono con un ordine
determinato il comune non è st^jaarabt/e x^ptOTÓv, perchè, se lo fosse, esso
sarebbe anteriore a tutti i termini della serie, anche al primo, e per
conseguenza vi sarebbe qualche cosa prima della prima Kth, End. Met. ed Klh,
Nic. Il sofisma volge sul doppio senso dei termini anteriore e p'isteriore, i
quali ora significano la successione dei termini coordinati di una SERIE (p. e.
quella dei numeri o dei poligoni – O TIPI DI ANIME GRICE, ora la subordinazione
dei concetti secondo il grado della generalità con le altre idee che nella
filosofia platonica sono associate a questa subordinazione. Il motivo realo per
cui Platone non ha obbiettivato i concetti generici delle figure, ò quello che
diciamo in seguito. In quanto a quelli dei numeri, il motivo è ugualmente
chiaro: è che facendo un'entità del concello generale di numero e di ogni altro
dei concetti a cui i numeri particolari sono subordinali, queste entità o
dovrebbero illogicamente identificarsi con certi numeri particolari, o dovrebbero
porsi anteriori ai numeri particolari, che cesserebbero cosi di essere i primi
di lutti gli esseri, co.ne esige necessariamente la loro identificazione con le
Idee. sac coordioate, come grindividui, e tra di esse e le loro Idee non deve
esservi alcuna entità di una generalità media, come non ve ne ha tra
gì'individui e loro Idee specifiche. In conclusione, ciò che vi ha di
particolare nella dottrina delle entità matematiche si riduce in sostanza, per
quel che concerne le grandezze geometriche, a non elevare al rango d'Idee, vale
a dire di numeri ideali, che le forme dei generi supremi di queste grandezze,
cioè della lioea, del piano e del solido in generale: in quanto al piani, ai
solidi è alle linee particolari, i loro concetti vengono bensì realizzati, ma
non sono ridotti a delle semplici forme, e per conseguenza non si fanno
rappresentare da numeri ideali, e se ne fa una classe di entità distinte dalle
Idee, che insieme ai numeri matematici vengono ^'esignate col nome di entità
matematiche. Cosi quando Platone dico che delle entità che sono l'oggetto della
gecmetriu ve n hanno molte della stessa specie, tutto ciò che vi ha di chiaro
nel significato di questa proposizione è che non vi ha che una Specie, cioè
un'Idea unica, per tutte le linee, una per tutti i piani, una per tutti i
solidi, lldea della linea, del piano del solido; e che le linee, i piani, i
solidi particolari, studiati dalla giometria, non sono riguardati come Idee. E
evidentemente un'inconseguenza, come gli rimprova Aristotile, di non riconoscere
nelle diverse figure geometriche altrettante specie distinte: ma siccome le
Idee non sono, nel periodo pitagoroggiante, che i numeri ideali, e queste
figure non vengono ricondotte a dei numeri, cosi Platone non può vedere in esse
delle Idee, e quindi nemmeno delle specie. Le entità matematiche erano dette
dai Platonici in Mei. termediarie fra le Idee i sensibili. Ciò si spiega
perfettamente per quello che abbiamo detto. Le grandezze matematiche sono
intermediarie tra le Idee delle grandezze e le grandezze sensibili, perchè
tramezzano, per il loro grado di generalità, tra le une e le altre: sono
superordinate alle sensibili, che sono particolari, mentre esse sone generali;
e subordinate alle Idee, che sono più generali ancora di esse. Della stessa
maniera i numeri matematici tramezzano tra i numeri Idee e i numeri fenomeni.
Di più, siccome tra il generale e il particolare vi ha, nella metafisica
platonica, il rapporto di principio e cosa derivata (anteriorità e
posteriorità), cosi le entità matematiche tramezzano tra le Idee e i sensibili
anche sotto un altro rapporto: le grandezze e i numeri matematici essendo
subordinati in generalità alle Idee delle grandezze e dei numeri, essi
procedono da quelle sono posteriori alle Idee delle grandezze e ai numeri
ideali; ed essendo superordinati in generalità alle grandezze e i numeri
fenomeni, sono i principii da cui questi pròcedono sono anteriori alle
grandezze e i numeri fenomeni. Órinterpreti trascendentalisti danno un' altra
spiegazione del posto d'intermediarie tra le Idee e i sensibili, che Platone
assegna a queste entità. Secondo questi interpreti, le entità intermediarie
sarebbero, per Platone, le Idee nel loro rapporto colla materia, cioè come
leggi del mondo sensibile. Platone avrebbe cercati questi intermediari fra le
Idee e le cose, perchè, le Idee trascendenti essendo incapaci di esercitare
direttamente un'elficienza causale sui fenomeni, vi era bisogno, Mei., ecc.
ittaai \ nel suo sistema, di mediatori, per cui la loro influenza si comunica al
mondo fenomenico, e li avrebbe trovati nelle entità matematiche, perchè le
leggi del mondo fenomenico si riducevano per lui a dei rapporti matematici.
Sarebbe superfluo per noi di discutere quest'interpretazione, dopo che abbiamo
mostrato Tinsussistenza della base su cui essa è fondata, che è la trascendenza
delle Idee. Ma essa solleva una quistione, che non possiamo lasciare senza
risposta, cioè: Le entità matematiche sono semplicemente la realizzazione dei
concetti matematici, e non rappresentano che le determinazioni delle cose
studiate dalParitmitica e dalla geometria; ovvero il pitagorismo di Platone si
manifesta anche direttamente in questa parte delle sue dottrine, e tutte le
determinazioni delle cose, o, come dicono gì'interpreti di cui abbiamo parlato,
le leggi del mondo fenomenico, sono state da lui ricondotte agli oggetti
matematici? in modo che tutti gli attributi rìegli esseri vengano nel suo
sistema rappresentati tre voUe: nel mondo delle Idee, nel mondo delle cose e in
quello delle entità intermediarie? In altri termini, lo entità intermediarie
tramezzano soltanto tra gli attributi matematici delle cose e le Idee di questi
attributi, ovvero tra il mondo delle cose e il mondo delle Idee nella loro
totalità? Per discutere d'una maniera completa questa quistione dovremmo
occuparci del Ttépas del Fdebo, perchè è sulla pretesa identità di esso con le
entità matematiche che è fondata sovratutto l'opinione che vede in queste
entità le leggi del mondo sensibile: ma noi non lo potremmo qui senza fare altrove
delle ripetizioni inutili, perchè questo è un argomento che in seguito dovremo
trattare. Per ora basta di esaminare la testimoaianz\ d'Aristotile: quando
verremo all'interpretazione del Tiépa^ del Filebo, vedremo che non vi sarà
luogo a modificare il risultato a cai quest'esame ci avrà condotto. Ora dalla
testimonianza d'Aristotile risulta chiaramente che le entità matematiche
rappresentano, non tutte le determinazioni degli essf^ri come sarebbe, se esse
fos.sero le Ideeo stesse nel loro rapporto con la materia, ma semplicemente le
determinazioni matematiche cioè quelle che sono 1'oggetto delle matematiche
pure. La dottrina delle entità matematiche consiste unicamente secondo
Aristotile nella realizzazione dei concetti matematici. Cosi, quando egli si propone
di esaminare questa dottrina platonica, la quistione è da lui formulata in
questi termini: i numeri e le grandezze geometriche sono delle sostanze o no? e
se sono delle sostanze, esistono negli stessi esseri sensibili o fuori di essi?
La negativa della dottrina è per lui questa proposizione: le cose matematiche
xà ixaOYjjxaxtxoc non sono separate x(optoxoc o X6xwpt0|iéva. K sul principio
d, in cui la discute il più largamente, si limita a combattere la proposizione,
attribuita ai platonici ortodossi, che i numeri e le grandezze geometriche e
per numero evidentemente egli non intende in questa proposizione che r
attributo comune di una collezione qualunque di oggetti sono separati dalie
cose, e quella, attribuita ad alcuni dissidenti, che sono delle sostanze
inesistenti nelle cose stesse, e a mostrare che i concetti matematici non
rappresentano degli esseri sussistenti per se stessi, ma delle proprietà degli
oggetti sensibili, che il matematico astrae xtopC^eO per la comodità del suo
studio. Non vi ha mai in tutte le allusioni Mct. Mei. /v d Aristotile a questa
parte del sistema platonico una parola che supponga che le altre determinazioni
degli esseri aiano state ricondotte dai Platonici ai concetti matematici, e che
le entità matematiche rappresentino, come i numeri ideali, le forme stesse e le
leggi del mondo delle cose. Il contrario è anzi supposto nel modo più evidente
in parecchi luoghi, in cui la dottrina dei numeri matematici è posta in
confronto con quella dei numeri ideali e con la dottrina pitagorica. Nel 1.
ì'ò^ e. 1 enunziando Targomento, dice che prima tratterà delle cose
matematiche, senza aggiungere ad esse un'altra natura, per esempio se siano
Idee o no, e se siano principii e sostanze degli esseri o no, ma dell^ cose
matematiche semplicemente se esistano o non esistano e in qual moie esistano»;
poi delle Idee a parte cioè a part^ dwlla tosi che le identifica coi numeri; e
in terzo luogo dei numeri ideali. Il senso ddle parole è ceriamente coire si
vede dalle materie trattate nel libro e dall'ordine m cui si seguono che prima
discuterà la dottrina dellt^ entità matematiche, cioè quella che attribuisce
bensì alle cose matematiche una esistenza reale ne fa delle sostanze, ma non
aggiunge ad esse un'altra natura non fa loro rappresentare d^lle determinazioni
d^gli esseri differenti dalle matematiche come fa la dottrina dei numeri ideali
la quale riconduce a delle co^e matematiche, cioè ai numeri, le Idee e la
sostanza d^^llc cose. Parlando delle diverse ipotesi metafìsiche sui numeri,
dice: Ancora questi numeri possono essere o separati xwptaxou^ dalle cose
l'ipofsi platonica, o non separ.it", ma negli stessi sensibili l'ipot^^si
pitagorica, noi però della maniera che abbiamo visto precedentement-i cioè non
secondo l'ipotesi, attribuita a dei platonici dissidenti, che i numeri
matematici sono sostanze, ma inesistenti nelle cose stesse, ma in modo che gli
esseri sensibili risultino dai numeri in essi inerenti. Qui la dottrina
pitagorica sui numeri è distinta da quella dei platonici che ammettono i numeri
matematici nelle cose stesse, perchè secondo quella le cose risultano dai
numeri cioè i numeri costituiscono l'essenza delle cose, secondo questa no: ma
se i numeri matematici non rappresentassero unicamente le determinazioni
aritmetiche desrli esseri, ma fossero le Idee nel loro rapporto con la materia
0 le leggi e le forme del mondo fenomenico, questa distinzione non potrebbe
farsi, perchè, in tal caso, anche pei platonici che ammettono i numeri
matematici nelle cose stesse, queste risulterebbero dai numeri matematici: Si
potrebbe pure intorno ai numeri insistere sulla quistione perché si debba
credere alla loro esistenza. PiT chi ammette le Idee, forniscono qunlche causa
agli es eri, s'è vero che ciascun numero è un'Idea, e che le Idee sono cause in
qualsiasi modo agli altri esseri della loro esistenza; teoria che noi lasciamo
ai suoi partigiani. Ma per chi non è di quest'opinione, perchè vede le
difficoltà intorno alle Idee, e perciò non fa queste numeri, ma fa il numero
matematico, perchè credere a' l'esistenza di questo numero, e in che esso è
utile alle altre C3se? Né quelli infatti che lo ammettono dicono che questo
numero sia causa di alcuna cosa solamente ne fanno una certa natura esistente
per se stessa in altri termini non fanno altro che realizzare l'astrazione
numero né si vede di che sia causa; in effetto, tutti i teoremi dell'aritmetica
si riferiscono, come si è detto, ai sensibili vale a dire: tutta l'utilità che
si attribuisce a questo numero è di spiegare la conoscenza, poiché si I pretende
che le matematiche devono avere per oggetto delle entità generali; ma questa
pretesa é vana, perchè queste scienze si riferiscono invece agli oggetti
particolari Quelli che ammettono le Idee e dicono che esse SODO SONO numeri,
astraendo tutto ciò che è uno nei molti, si sforzano di mostrare come e perche
ciascuno di questi uni esista I Pitagorici, perchè loro sembra che molte
affezioni dei numeri ineriscono nei sensibili, ammisero che le cose seno
numeri, non però separati, ma che le cose stesse constano di numeri. E perchè
ciò? perchè le affezioni dei numeri si trovano nell'armonia, nel cielo e in
molte altre cose. Ma quelli che ammettono solamente V esistenza del numero
matematico non possono dire niente di simile, secondo le loro ipotesi; ma si
pi-etende che, senza questi condizione, la scienza dei numeri noti sarebbe
possibile. Questo luogo afferma cosi esplicitamente che i numeri matematici
sono la semplice sostantificazione degl’attributi matematici, e non
costituiscono le leggi e le forme del reale né come inerenti nelle cose stesse,
quali i numeri dei Pitagorici e i numeri ideali di Platone nell’interpretazione
di G., né come cause esemplari, quali questi numeri neir interpretazione
trascendentali-^ta, preferita da Aristotile che grinterpreti i quali vedono
nelle entità matematiche le Idee nel loro rapporto con la materia non
potrebbero che cercare di attenuarne la portata, osservando che qui Aristotile
parla, non della dottrina stessa di Platone, ma di quella di un platonico
dissidente a cui egli attribuisce di non ammettere altre entità che le
matematiche, cioè di Speusippo. Ma anche quest'osservazione non potrebbe
giovare molto alla loro tesi, poiché Aristotile riguarda evidentemente le
entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle di Platone; salvo che
Speusippo non fa queste entità intermediarie fra le Idee e le cose e vede nei
numeri matematici i primi di tutti gli esseri. Ma da questa differenza non
potrebbe seguirne un divario nel significato delle entità matematiche tale da
impedirci di applicare alla dottrina dei platonici in generale sui numeri
matematici ciò che risulta, dal luogocitato, su quella di Speusippo. Anzi, i
numeri matematici occupando nel sistema di Speusippo il posto che i numeri
ideali occupavano in quello di Platone, Speusippo avrebbe avuto più motivi che
Platone di dare ad essi un significato pitagorico, facendo loro rappresentare
h^ leggi e le forme del mondo reale, e non le semplici determinazioni
aritmetiche. E del resto questa stessa inutilità delle entità matematiche alle
cose, che Aristotile, nel luogo citato e altrove, rimprovera a Speusippo, è da
lui rimproverata anche ai platonici ortodossi, che fanno quest'entità
intermediarie tra le Idee e le cose; mentre, so le entità intermediarie fossero
le Idee nel loro rapporto con la materia^ esse avrebbero un'efficacia più reale
delle Idee stesse trascendenti, e più utilità, per cnnseguenza, per la
spiegazione delle cose. Questa differenza tra la dottrina dei numeri ideali e
quella dei numeri matematici, e in generale, delle entità matematiche, cioè che
la prima implica una teoria del reale alla pitagorica, riducendo ai numeri le
forme e le leggi delle cose, mentre la seconda non è che la sostantificazione
delle proprietà studiate dall'aritmetica Met,, ecc. Supplem. n. Mei. Met. lU.
lo. e dalla gec nutria, muKa anche chiaramente dal rapporto che si stabilisce
tra qiu ste entità e le scienze matematiche. Noi abbiamo visto che le entità
matematiche sono gii og'getti a cui si riferiscono la scienza dei numeri e
delle grandezze; e Aristotile assegna questo motivo alla dottrina, che la
possibilità delle matematiche cioè delTaritraetica e della geometria suppone i
numeri matematici e le grandezze come separabili xwptaxa, cioè come sostanze.
Quelli che ammettono il numero matematico come separato xcoptaióv, è perchè le
proposizioni non si riferiscono ai sensibili, ma intanto ciò che dicono è vero
e persuade lo spirito, che credono che il numero sia, e sia separato xwptaxóv,
e similmente le grandezze matematiche p. È un'applicazione della prova delle
Idee dalle scienze. Evidentemente su questo fondamento non potrebbe stabilirsi
una teoria secoado cui i numeri e le grandezze costituirebbero le leggi del
mondo reale, ma semplicemente la realizzazione dei concetti dei numeri e delle
granlezze. Ciò poi che si deve notare è che la funzione di essere gli oggetti a
cui si riferiscono le scienze matematiche – L’ANIMA L’OGGETO DELLA PSICOLOGIA,
viene assegnata alle entità matematiche in contrapposto ai numeri ideali Cosi
Aristotile domanda s(5 bisogni ammettere altre sostanze oltre le sensibili, e
se un solo genere o più di queste sostanzt^, come quelli che ammettono le Idee
e le entità intermediarie, alle quali dicono riferirsi le scienze matematiche.
E osserva che, se le Idee sono numeri, è necessario di stabilire un altro
genere di numero, a cui si riferisca Taritmetìca, e tutte quelle entità che
alcuni chiamano intermediarie. L'aritmetica non può riferirsi al nimero ideale,
perchè esso rappre M^i, senta, non le semplici proprietà aritmetiche delle
cose, ma le leggi e le forme del mondo real; e si riferisce al numero
matematico, appunto perchè questo rappresenta, non le leggi e le forme del
mondo reale, ma le semplici proprietà aritmetiche delle cose. Per conseguenza
Aristotile dice dei filosofi che ammettono il solo numero matematico per i
quali questo num^^ro non è, come per Platone, che la semplice sostantificazione
degli attributi matematici ch'essi parlano delle cose matematiche
matematicamente; mentre rimprovera a quelli che identificano il numero
matematico coll'ideale e perciò gli fanno rappresentare dei concetti che
oltrepassano la scienza dei numeri di parlare delle cose matematiche non
matematicamente, e di sopprimere in realtà il numero matematico, perchè fanno
delle supposizioni loro proprie e non matematiche. Un'altra prova
dell'equivalenza dei numeri matematici dì Platone coi numeri di cui parla
1'aritmetica, si ha nei caratteri per cui egli distingue i numeri matematici e
gl'ideali. Questi sono, come sappiamo, la combinabilità e V incombinabilità.
Attribuendo l'una ai numeri matematici e l'altra ai numeri ideali, Platone
evidentemente vuol significare che i primi sono i numeri stessi di cui sì
tratta nell'aritmetica, mentre i secondi ne diflìeris^ono. È ciò che Aristotile
ci indica in vari luoghi, p. e. in Met., in cui parla delle diverse ipotesi
possibili sulle entità numeri, cosi: o i numeri sono differenti di specie, e
qualsiasi unità è incombiriabile con qualsiasi altra; o tutte le unità sono
combinabili l'una qualunque con un'altra qualunque, come dicono Mei. i
Platonici essere 11 numero matematico nel nurnero matematico infatti nessuna
unità differisce da un'altra è evidente che qui il numero matematico vuol dire,
non le entità che Platone designa con questo nome, ma i numeri nel senso
ordinario, di cui tratta la matematica; o le unità di ciascun numero sono
combinabili tra loro – 7 + 5 = 12, ma incombinabili con quelle di cascun altro
è l'ipotesi platonica sui numeri ideali; ovvero infine un numero è quale
abbiamo detto il primo, un altro quale Tultimo, e un'altro quale dicono i
matematici. Altrove Met. dice: Se le unità sono incombinabili, e incombinabili
Tuna qualunque con un'altra qualunque, non è possibile che questo numero s'a il
matematico; poiché il numero matematico è costituito di unità senza differenza,
e tutto ciò che si dimostra di esso senza dubbio dai matematici gli conviene
come tale. Non è sorprendente che Platone abbia visto nell'incombinabilità il
carattere distintivo per eccellenza del numero ideale da quello a cui si
riferisce Taritmetica, la combinabilità dei numeri a cui essa si riferisce
essendo il postulato fondamentale di questa scienza, che ha appunto per oggetto
la combinazione di questi numeri. Ma se i numeri matematici fossero le leggi
dtl mondo sensibile e le Idee nel loro rapporto colla materia, essi dovrebbero
essere incombinabili come gì'ideali: noi abbiamo visto infatti che questi sono
ineombinabili,.perchè un'Idea non è una parte delle altre Idee; ora anche una
legge della natura nalvo l'inerenza del generale nel particolare, che esiste
pure nelle Idee non è una parte delle altre leggi della natura. lullne, il
valore puramente aritmetico e geometrico delle entità matematiche è dimostrato
da un'obbiezione che Aristotele fa ripetutamente alla dottrina. Per le stesse
ragioni, egli dice, per cui vi hanno delle grandezze e dei numeri, intermediari
tra gl'ideali e i sensibili, dovrebbero anche esservi un alro cielo ed altri
astri oltre i sensibili e le loro Idee; e sim Imento delle entità intermediarie
tra le Idee e i sensibili per gli oggetti dell'ottica GRICE WARNOCK VISVM e
dell'armonia; e sensi ei oggetti dei sensi ed animali intermediari tra
gl'ideali e i corruttibili; e una sanità intermediaria tra la sanità in sé e la
sanità reale; e UN TERZO UOMO intermediario tra 1'uomo in sé e gli uomini
particolari; e in generale per tutte le cose di cui vi hanno Idee dovrebbero
esservi delle entità intermediarie tra le cose stesse e le loro Idee. È chiaro
che quest'obbiezione suppone che le entità matematiche rappresentano, non tutte
le determinazioni del reale, ma solo le matematiche cioè quelle studiate
dall'aritmetica e la geometria, e che il loro titolo d'intermediarie significa
che esse tramezzano, non tra le cose e le Idee nella loro totalità, ma tra gli
attributi aritmetici e geometrici delle cose e le Idee di questi attributi. Se
esse tramezzassero tra le cose e le Idee nella loro totalità, e fossero le Idee
stesse come leggi del mondo sensibile, Aristotile non potrebbe rimproverare
alla dottrina di non ammettere per le altre cose, come per le grandezze e i
numeri, un che d'intermediario tra l'Idea e il fenomeno, poiché il mondo delle
entità intermediarie sarebbe già, in quest'ipotesi, un'altra ripetizione del
mondo delle cose, come quello delle Idee. Stabilito il significato puramente
matematico delle entità intermediarie, possiamo passare ai motivi della
dottrina. Il concetto che deve servirci di guida è la dipendenza di questa
dottrina da quella dei numeri ideali. Met. Questa dipendenza ci è att'^sfcata
da Aristotile. Eicordiamo il luogo citito di M^t, Se le Idee sono numeri, sarà
necessario di apparecchiare un altro genere di numero circa cui V aritmetica, e
tutte quelle entità che alcuni ch'amano interm'^diarie. La quistione si riduce
dunque per noi a comprendere: perchè Platone ha distinto i numeri matematici
cioè quelli che sono rogs:etto dell'artmetìca dai numeri ideali cioè da quelli
con cui venivano identificate le Idee, e li ha loro subordinati come più
particolari; e perchè non ha risoluto in numeri anche le grandezze geometriche
come avrebbe dovuto seguire dal principio generale che gli esseri sono numeri,
ma solo ls3 forme dei generi supremi di queste grandezze. La dottrina
pitagorica dei numeri, rìg'damcnte interpretata, avrebbe certamente condotto a
fare una cosa sola delle Idee numeri coi numeri aritmetici: è li in effetto che
arriva Xenocrate, il filosofo che, tra i platonici pitagoreggianti, è il più
vicino al pitagorismo genuino. Tuttavia non è sorprendente che Platone abbia
indietreggiato dinnanzi a questa conseguenza logica dellafusione del sistema
del'e Idee coi concetti pitagorici. Anche tra i veri Pitagorici, pochi
verisimilmente avrebbero acconsentito a prendere la formula che le cose sino
numeri nel senso che gli esseri non sono altra cosa che i loro attributi
aritmetici, che, per esempio, quando si dice che la giustizia è il numero
quattro, il matrimonio il numero cinque, L’ANIMA IL NUMERO SEI, ciò voleva dire
precisamente che la giùstizia è identica perfettamente all'attributo comune a
una collezione qualunque di quattro oggetti, il matrimonio di cinque, l'auima
di sei. La sostantificazione platonica degli universali veniva poi al
accrescere le assurdità di una tale lnterpretazione. Se, p. e., Tldea deiruomo
è il numero tre, bisogna intendere per ciò che il complesso degli attributi
comuni a tutti gli uomini, considerato come uno e lo stesso in tutti, è
Tattributo comune a tutti i gruppi di tre oggetti, considerato anch'esso come
uno e lo stesso in tutti? o semplicemente che V entità chiamata il Tre in sé
rappresenta al tempo stesso l'Idea dell'uomo e la esenza comune di tutti i
gruppi di tre oggetti, quantunque queste siano due cose per se stesse distinte?
Ma in questo secondo caso, per la stessa ragione per cui si fa un'entità distinta
dell'Idea dell'uomo, dovrebbe anche farsi un'enttà distinta dell'essenza comune
di tutti i gruppi di tre oggetti, cioè del tre matematico, l'esigenza
necessaria del sistema delle Idee essendo che ciascun universale venga separato
e se ne faccia un'entità esistente per se stessa. Noi comprendiamo dunque
perfettamente la necessità, in cui Platone si è trovato, di ricorrere
all'ipotesi poco naturale di un altro numero distinto da quello che è l'oggetto
dell'aritmetica. Senza dubbio, quando, dopo aver affermato che le cose sono
numeri, si soggiunge che questi numeri non sono quelli con cui ha da fare
l'aritmetica, la soc'ìnia proposizione ha tutta 1'aria di essere una
sconfessione della prima; dei numeri differenti dalle determinazioni delle cose
che studia l'aritmetica – NUMERICAL QUANTIFIERS THE THREE GRICES --, non
essendo, a parlar propriamente, dei numeri. Cosi la distinzione tra i numeri
ideali e i numeri matematici ci dà un'altra prova di un fatto, che noi abbiamo
notato a proposito della riduzione ai numeri della sola forma delle cose, cioè
che il pitagorismo di Platone non è andato sino ad accettare l'identificazione
pura e semplice delle cose coi numeri che egli trova nelle formule pitagoriche.
Ma l'allontanamento di Platone dai Pitagorici non t^ .r^-mt-jt^^. f ^Vtvl
poteva esser tale da metterlo in aperta contraddizione con le loro
proposizioni. È ciò le sarebbe avvenuto, se la distinzione del numero ideale
dal matematico fosse assoluta, Qaando i Pitagorici rappresentavano le cose per
dei numeri, identificano, almeno verbalmente, i concetti delle cose con quelli
dei numeri: essi dicevano, p. e., il numero quattro è la giustizia, il sette il
tempo opportuno, L’UNO LA MENTE, il due l'opinione; e questi concetti dei
numeri, con cui quelli delle cose venivano identificati, non erano
evidentemente per loro che i concetti stessi che i NOMI dei numeri esprimevano,
quando designano le semplici determinazioni aritmetiche. Il quattroy il sette,
il due non erano per loro dei TERMINI EQUIVOCI – GRICE ON BETWEEN -- , quando
indicano i numeri della giustizia, del tempo opportuno e dell'opinione, e
quando venivano impiegati semplicemente per denotare i gruppi di quattro, di
sette e di due oggetti. I
GRUPPO DEI SEI AUSTIN HAMPSHIRE WOOZLEY AUSTIN’S THURSDAY EVENING MEETINGS AT
ALL SOULS – I had been born on the wrong side of the tracks to attend. Grice. Per conseguenza i numeri ideali di
Platone dovevano rappresentare i concetti astratti e generali dei numeri, a cui
le stesse determinazioni aritmetiche erano subordinate; dovevano essere, in
altri termini, i numeri in sé, le essenze dei numeri, per la cui partecipazione
gli stessi numeri matematici sono chiamati uno, due, tre, ecc. Cosi Platone
identifica – LA SCALA DI URMSON -- in un certo modo, nel tempo stesso che li
distingue, ì numeri ideali e i numeri matematici. In eff'etto il rapporto che
vi ha fra i due numeri, è quello di anteriorità e posteriorità ì numeri ideali,
cioè quelli con cui egli identifica i concetti obbiettivati delle cose, sono i
primi numeri, perchè il primo è l' in sé aùxó; i numeri matematici sono loro
posteriori, perchè il partecipante è posteriore al PARTECIPATO – GRICE CIRCLE
--: ora il posteriore non è chel'an Al, Afrod. in Arist. Met. terirre astesso,
a un grado ulteriore di determinazione o di concretizzazione. Da questa
relazione che Plarore stabilisce tra i numeri matematici e i numeri ideali
segue V altro punto capitale della dottrina. Secondo i principii della
dialettica platonica, 1'anteriore e IL PARTECIPATO è l'uno, il posteriore e il
partecipante, il multiplo. Il separàbile x^pioTÓv è il comune, Vuno nei molti: ora
Platone dai numeri matematici separa xwpCIJei le essenze stesse dei numeri i
numeri ideali, per la cui partecipazione il due, il tre, il quattro, ecc.
matematici sono chiamati due, tre, quattro, ecc.: per conseguenza il due, il
tre, il quattro, ecc. ideali, in relazione al due, al tre, al quattro, ecc.
matematica, da cui si separano, devono essere ciascuno Vuno nei molti. Di là la
proposizione che dei numeri matematici vere hanno molti della stessa specie,
cioè che vi ha una moltitudine di unità – THERE IS A NUMBER OF SHEEP IN THE
FIED. REALLY? I SEE ONLY ONE --, di dualità, di trinità, ecc. matematiche,
altrettante quante volte 1'uno, il due, il tre, ecc. si ripetono nel numero
infinito. Non bisogna credere tuttavia che il numero ideale sia ciò che vi ha di
comune nei molti numeri matematici ad esso subordinati; che l'Unità o la
Duulità ideali siano alle unità o dualità matematiche ciò che la specie è agli
individui o il genere alle specie. Se il numero ideale racchiudesse nella sua
comprensione tutto ciò che vi ha di comune nei numeri matematici di cui esso è
l'uno nei molti, la distinzione tra le due sorta di numeri non avrebbe più
alcun siguificato; perchè in questo caso i numeri ideali non sarebbero che le
essenze o i concetti generali dei numeri matematici. Il numero ideale comprende
dunque, non la totalità delle note comuni ai numeri matematici subordinati, ma
una parte solamente di queste note – AUSTIN FREGE -- -, non è il concetto
comune dei numeri matematici, ma qualche cosa di più indeterminato. È ciò che
Platone ci indica, quando fa deìVincombinibilità il carattere distintivo dei
numeri matematici dai numeri ideali. Se i numeri ideali fossero i concetti
comuni, nel senso stretto – GRICE NARROW BROAD ALLEGED SENSES OF “OR” -- , dei
numeri matematici, essi dovrebbero essere combinabili come questi. Per
Tincombinabilità del numeri ideali non bisogna iotendere la presenza in questi
numeri d'un attributo positivo contrario a quello dei numeri matematici, cioè
alla combinabilità, ma solo Tassenza di questo carattere dei numeri matematici.
Essa significa dunque che, tra le NOTE – NOTA -- del numero matematico di cui
deve farsi astrazione per concepire il numero ideale, vi ha la combinabilità;
che questa è una determinazione nuova, che, nella concnHizzazione progressiva
deir essire si aggiunge al numero ideale, per formare il numero matematico –
GRICE TO THE MILL. Mill on numbers. Il pensiero di Platone è, al fondo, che il
Secondo Aristotile. Platone avrebbe ammesso che le unità dei diversi numeri
ideali sono dtJTeren^t fra di loro e non semplicemente non Identiche; e, per
conseguenza, che questi numeri sono gli xxvix fuori degli altri, e non
semplicemente che non sono contenuti zV^yxmvie^W – CONTENUTO PEACOCKE -- altri
come 1 matematici vedi il. indicati nelle note a carta Ma, malgrado l'autorità
di Aristotile, io non posso ammettere che Platone sia caduco in una
contraddizione si evidente, qual è di fare dei numeri Ideali delle essenze di
cui i numeri matematici partecipano, ed actribuire al tempo stesso ad essi dei
caratteri positivi opposti a quelli dei numeri matematici. Il partecipato può,
anzi deve, mancare di certi attributi del partecipante, perché esso è più
astratto e questo più concreto; ma è impossibile che abbia degli attributi
positivi contrarli, perchè non è che una parte della sua comprensione o NON
DENOTAZIONE, MA CONNOTAZIONE. Nel sistema delle Idee, la negazione
dell'identità non importa necessariamente l’atfermazione della differenza né la
negazione della contenenza di una cosa in un'altra L’affermazione dell'
esteriorità dell'una cosa all'altra. Per formarsi un concetto più astratto,
bisogna escludere – DISIMPLICATE --certe note – DROP – DROP ENTAILMENT -- dei
concetti più concreti in cui esso è compreso, ma questa esclusione non importa 1'inclusione
di note positive contrarie. Ora le entità platoniche non sono che i concetti
realizzata Platone può dunque negare di un'entità pia astratta certe de?numero
su cui volge T aritmetica vale a dire ciò che noi chiamiamo numero non è che un
caso particolare del numero; che i numeri in se stessi, essenze comuni delle
Idee e dei numeri matematici, sono alcun che di uno e lo stesso nelle noe e
negli altri, e di più generale» che le une e che gli altri; che vi ha, al di
sotto delle difierenze, un'identità fondamentale tra le determinazioni
aritmetiche e le forme degli esseri, e il punto di coincidenza in cui queste e
quelle convergono e s'i dentificano, sono i numeri ideali. Semplicemente
Platone non può dare espressamente le Idee cioè le forme degli esseri come V
altro caso particolare del numero: la fusione del sstema delle Idee con la
dottrina pitagorica dei numeri esige che le Idee siano identificate coi numeri
in se stessi, non con un numero particolare; n^l secondo caso i concetti delle
cose non sMdentificherebbero, terminazioni di un'altra entità più concreta in
cui quella è compresa, senza intendere perciò affermare di essa delle
determinazioni contrarie. Egli può, p, e., negare dell'animale in sé le note
proprie dell'uomo, senza affermarne perciò quelle del bruto – THERE ARE ANGELS
GRICE --; negare dell'essere in sé le note proprie del mosso, senza affermarne
perciò quelle del quieto – NEGARE ESSISTENZA NELL’ALLUCINAZIONE DI HAMLET --.
Senza dubbio è impossibile di concepire un animale che non è nò uomo né bruto –
THERE ARE ANGELS GRICE --, un essere che non è né mosso né quieto – THE ROOT
SQUARE OF FOUR -- , delle cose che non sono né identiche né differenti, né
contenute l'una neiraltra né Tuna fuori dell'altra: ma io non pretendo che le
entità platoniche siano concepibili. Il difetto dell'interpretazione
d'Aristotile – WHO CANNOT SEE HORSENESS GRICE -- del sistema platonico –
GRICE/CODE IZZING HAZZING ARISTOELIANISM PLATONISM -- è la sua tendenza a
rappresentarsi, più che é possibile, le entità astratte del maestro sul modello
delle cose sensibili e immaginabili: le Idee – GRICE MEINONG JUNGLE SQUARE
TRIANGLE -- non sono, secondo lui, che dei sensibili eterni, come gli dei del
volgare non sono che degli uomini eterni AJet. Di là la sua propensione –SANZIO
LA STANZA LA SCUOLA D’ATENE -- all'interpretazione trascendentalista; di là il
concepire, eh' egli fa, le Idee come delle forme immobili e inattive. Per un
effetto della stessa tendenza, degli attributi indicanti la semplice assenza di
certe determinazioni, sono intesi da lui come se significassero la presenza
delle determinazioni contrarie. come nelle formule pitagoriche, coi concetti
dei numeri, e inoltre i numeri -I«lee e i numeri aritmetici sarebbero due corse
assolu'amenfe distìnte, ciò che la subordinazione dei numeri matematici
agl'ideali ha appunto per rggetto di evitare. In quanto all'altra parte della
nostra quistione, cioè perchè Platone non risolve in numeri anche le grandezze
geometriche, nri vi abbiamo già dato una risposta assai ovvia: è che il numero
ideale rappresenta la sola forma delle cose, menare le grandezze matematiche
rappresentavano tanto la forma quanto la materia delle grandezze reali. Noi
abbiamo visto infatti ch^ le grandf^zze matematiche si compongono d'un elJog
che esse ricevono dai numeri ideali, e d'una materia che non è altra cosa che
Testensione in lunghezza, in super-» ficie e in volume. Dall'altra parte
abbiamo visto pure che il numero platonico si distingue dal numero pitagorico
perchè monadico, e che questa distinzione significa che il numero pit«»gorico
ha grandezza, vale a dire delle cose rappresenta anche l'estensione, mentre II
numero platonico – L’AMORE PLATONICO L’AMORE SOCRATICO -- e senza grandezza,
cioè rappresenta la forma separata dalla materia o dalT estensione termini
equipollenti, perchè la materia delle cose, è per Platone lo spazio. Ma questa
risposta che abbiamo data provoca naturalmente un'altra quistione: perchè
Platone non ha ridotto le grandezze matematiche a delle semplici forme come gli
altri concetti obbietivati della sua metafisica? Evidentemente Platone ritiene
V elemento materia indispensabile a costituire il concetto della grandezza.
L'Idea platonica rappresenta, è vero, la sola forma: ma di questa forma egli ne
fa l'essenza stessa, il concetto completo della cosa. E ciò che risulta dai
termini per cui egli designa le Idee, dalle prove con cui ne dimostrala
esistenza, e in una parola da tutti i dati che abbiamo per determinare la
natura dell'Idea platonica. Se questa non rappresenta il concetto nella sua
integrità, Platone non le darebbe il nome stesso d^lla cosa, con Taggiunzione
delle parole aOxó, oìoxt, ecc., che indicano appunto che l'Idea è l'attributo o
l'insieme di attributi connotato dal nome – THE HORSE ITSELF – HORSENESS -- ;
non la chiamerebbe il genere e la specie EQVVS de Saussure, l'essenza e la
natura; non la riguarderebbe come l'oggetto a cui si riferisce il concetto di
CAVALLO e la definizione – YOU NAME IT ; non direbbe che è l'universale – GRICE
UNIVERSALS AND MEANING, l'uno nei molti – MULTIPLICITY GRICE, ecc. Anche per
Aristotile, la cui dottrina sulla forma e la materia non è che la riproduzione
di quella di Platone, salvo la differenza tra il concettualismo dell'uno e il
realismo dell'altro – NOMINALISM Bete noire -- , l'elSo^ la forma equivale
all'oùaCa o xò -zi y]v elvai – GRICE CODE ti to ti -- l'essenza e al Xóyoc il
concetto. Se dunque l^ent'tà corrispondenti alle grandezze geometriche ne
rappresentassero la sola forma, Platone dovrebbe ammettere che la forma – SPECIES
EIDOS IDEA BOEZIO --, per se sola, esaurisce il concetto o l'essenza di queste
grandezze. Ma sarebbe strano che l'essenza della grandezza nel senso che i
logici danno alla parola essenza non fosse grandezza essa stessa poiché, non
bisogna dimenticarlo, la differenza tra il numero platonico e il numero
pitagorico è che questo ha grandezza e quello no; che l'attributo estensione
SINONIMO GRICE STRAWSO, per Platone, di materia non entra nel concetto della
forma geometrica, la cui definizione è: uà' estensione circoscritta. Senza
dubbio, è anche strano che l'rstensione EXTENSIONALISM GRICE non faccia parte
del concetto dell'uomo; del dente, dell'albero, del CAVALLO, e in una parola di
tutti gli oggetti OBBLE estesi. Vi ha tuttavia tra gli oggetti che hanno grandezza
e le grandezze in se stesse una differenza importante. Quando Platone sopprime
l'attributo estensione INTENSIONALISM dal concetto delruomo, del dente o
dell'albero, o DEL CAVLLO de Saussure ALBERO, egli può credere che ne V Il '
restì ancora qualche cosa, e chiamare quosto resto l'essenza dell'uomo, del
dente, de'Talbero de Saussure --, del CAVALLO, perchè, oltre Testensione, la
nozione di un oggetto esteso comprende tanti altri attributi: le altre qualità
sensibili, le energie di cui è dotato, la funzione o lo scopo a cui è destinato
-- METIER -- è sovratutto per quest'ultimo attributo che Platone definisce le
cose TIGERS TIGERISE; ma se si toglie T» stensione dal concetto della grandezza
geometrica, è evidente che non resta assolutamente niente, perchè una grandezza
geometrica non é che una porzione limitata dell'estensione. Quest'impossibilità
assoluta di dare per oggetto ai concetti delle grandezz», geometriche delle
entità in cui l'attributo estensione non sia rappresentato, era un fatto di cui
Platone aveva un'esperienza continua: la geometria che era una delle scieaze di
cui egli si occupa con specialità essendo lo studio dei rapporti di misura
delle grandezze estese – IL PI 3.14 DEL CIRCOLO --, come potrebbe questa
scienza riferirsi ad oggetti senza estensione, e non suscettibili, per
conseguenza, dì rapporti di misura? – CIRCONSFERENZA DI RADIO INFINITO – linea
retta -- La dottrina sulle grandezze, come quella sui numeri matematici, è
dunque un effetto dell'adesione incompleta che Platone fa alla dottrina
pitflgorica dtii numeri: l'incoerenza di distinguere le grandezzf^ matematiche,
quantunque entità universali anch'esse, dalle Idee non è che un aspetto della
contraddizione insolubile in cui egli necessariamente s'inviluppa, riducendo ai
numero la sola forma delle cose, mentre è in esso che n^ fa consistere
l'essenza. Ma quantunque Piatone si rifiutasse a risolvere le grandezze in
numeri, egli non puo tuttavia sottrarsi all'esigenza imperiosa della logica,
che gl'impone, s'è vero che il reale consiste nel numero – cf. H. P. Grice on
J. L. Austin, Frege, ARIMMETICA --, a ricondurre tutto al numeri ideali. Per
conseguenza fgli fa risultare le grandezze dai nnmeri ideali che ne
costituiscono le forme (sISyj) e dalla materia Dualità indefinita. Ora secondo
i principii del sistema delle Idee, queste forme (sISyj) delle grandezze, che
Platone rappresenta per dei numeri, devono essere necessariamente più elevate
in generalità delle grandezze stese, cioè delle entità composte di forma e di
materia e che egli chiama matematiche. Platone non può ad un concetto di
grandezza far corrispondere al tempo stesso due entità: un'entità matematica,
composta di forma e di materia, e una forma pura, rappresentata da un numero
ideale. Ciò è perchè, nel sistema delle Idee, tra il più astratti e il più
concreto, in altre parole, tra ciò che si separa xwptl^sxatj e ciò da cui si
separa, vi ha la relaziona dell'universale al particolare, deWuno ai molfL
Cosi, le entità rappresentanti le forme pure essendo più astratte delle entità
rappresentanti i composti di forma e di materia, quelle devono essere più
universali e queste più piirtìcolari; in nitri termini i concetti a cui si
fanno corrispondere delle Idee-numeri devono essere, non gli stessi concetti a
cui si fanno corrispondere dcìlle entità matematiche, cioè composte di forma e
di materia, ma altri, a cui questi siano subordinati in generalità. E siccome i
concetti, corrispondenti alle entità matematiche, sono alla loro volta più
generali che le cose di cui essi sono i concetti, noi possiamo pure esprimere
lo stesso fatto dicendo: che le grandezz'^ matematiche devrono essere
intermediarie cioè devono tramezzare in generalità, e perciò anche occupare^n
posti medio nella sequenza logica degli esseri anteriorità e posteriorità -tra
le idee delle grandezze e le grandezze sensibili. Platone divide duugue i
concetti delle grandezze in Arist. De An. due classi, a cui fa corrispondere
due dififerenti sorta di entità: ai più particolari assegna le entità
matematiche, composte di forma e di materia, e ai più generali le Idee-numeri,
che sono delle semplici forme. Ma cosi facendo, va naturalmente incontro ad
un'evidente incoerenza, cioè di obbiettiva re di alcuni concetti il «iwo/o, il
crmposto di forma e di materia, e di altri la sola forma. Perciò egli non
ammette che altrettanti numeri ideali per le gTtndezze quante sono le specie
del Grande e Piccolo che servono loro di materia: è che cosi l'incoerenza viene
in un certo modo evitata, poiché, unendo ciascuno di questi numeri alla specie
corrispondentKi del Grande e Piccolo, si ha il concetto obbiettivato nella sua
integrità forma e materia ciò che Platone chiama la linea stessa, il piano
stesso, il solido stesso, mentre, se si aggiungessero alcii numeri, si
avrebbero necessariamente delle forme senza materia. Questo ci spiega perchè vi
hanno delle Idee-numeri pei generi supremi delle grandezze, ma non ve ne hanno
pei generi intermedi fra di essi e le specie ultime. In quanto airesclusione di
questi generi intermedi anche dal rango di entità matematiche, noi ne abbiamo
già notato il perchè: è V assimilazione del rapporto tra le grandezze
matematiche e le loro Idee al rapporto tra gli individui e le loro Idee
specifiche; assimilazione che è, alla sua volta, una cr nsegurnza della
distinzione delle entità matematiche dalle Idee, Platone non potendo ammettere
questa distinzione senza negare a queste entità la qualità di specie, e
riguardare come loro specie le Idee infime a cui le subordina. Nella dottrina
delle entità matematiche bisogna distinguere evidentemente due parti, che si
sono formate in due periodi distinti della speculazione platonica. L'uua è
Tobbiettirazione dei concetti dei numeri e delle grandezze geometriche: essa è
nata dal punto di vista puramente platonico, essendo una sempMce applicazione
della teoria delle Idee, ed è per conseguenza anteriore air epoca del
sincretismo con le dottrine pitagoriche. L'altra è la distinzione di questi
concetti obbiettivati da quelli a cui si riserba il nome d'Idee, e il posto
loro assegnato d'intermediari fra queste e le cose: essa suppone la teoria dei
numeri id»*ah, e non può esser nata perciò che nel periodo pitagoreggiante. Ciò
è provato, oltre che dalla natura stessa di questa parte della dottrina, dal
luogo citato della Metafisica, in cui Aristotile dà la teoria delle entità
intermediarie come una conseguenza della identificazione delle Idee coi numeri;
e se ne ha la conferma negli stessi dialoghi di Platone. È evidente in effetto
che nella classe delle Idee o delle Specie l'autore comprende, pressoché
dapertutto ov'è quis'^ione della dottrina delle Idee, non una parte solamente
ma la totalità dei suoi concetti obbiettivati, e talvolta anche
e'^plicitamente, come nei luoghi del Fedone indicati al n. I, quelli che in
Aristotile sono classati tra le entità matematiche. Le modificazioni apportate
alla dottrina primitiva sugli oggeui matematici, per distinguerli dalle
Idee-numeri e loro subordinarli, si riducono in sostanza, oltre alla
restrizione arbitraria deiruso del termine Idea e sinonimi, a tre punti: per
quel che riguarda i numeri, la moltiplicità delle unità, diadi, triadi, ecc.
matematiche, e la derivazione di queste dall'unica unità, diade, triade, ecc.
ideali; per quel che riguarda le grandezze, la Carmen., Fedone, Filebo, Rep.
Sof. Tim., ecc. riduzione degli siStj della linra, del piano e del solido, e di
essi soli, a numeri ideali. In quanto al primo punto, ch'esso sia stato una
modificazione posteriore della dottrina primitiva di Platone, risulta da
parecchi luoghi, in cui, pailandò chiaramente del numero matenatico, cioè di
quello che è IVgoetto drir aritmetica, egli non ammette senza dubbio che una
sola unità, una sola dualità, fcc. In quanto agli altri due punti, per
ist«bilire la loro pofcteriorità, non rccorrono altre prove che quelle esposta
al n. I, che dimostrano la posteriorità della teoria dei numeri ideali. Qui
noteremo soltanto che ciò che i luo;2:hi di Platone, di cni ivi si tratta,
profano d'una maniera immediata, é sovratutto la posteriorità della dottrina
delle entità intermediarie. Infatti, se essi dimostrano che r autore non
conrsce ancora quella dei numeri ileal', è specialmente perchè le entità
numeri, ruppresentanti i semplici attributi aritmetici delle cose, e
corrlspondeuti quindi ai numeri matematici dell'esposizione aristotelica, sono
in questi luoghi riguardate come le Idee e le essenze dei numeri, e per
conseguenza come i primi numeri, escuiendosi cosi V’esistenza di altri numeri
anteriori carte. Fedinw jol e, lo4, Rep., ecc. Si è cre.lato di ritrovare la
(listinzioae delle entità matematiche daUe Idee sulla Une del 1. W^eWok
Repubblica. Ivi Platone divide l'intelligjibile ed il visibile in due parti,
ohe stanno fra di loro, per l'evMenza o la verità, come tutto l'intelligibile
sta a tutto il visibile. Alle due parti del visibile corrispondono le due forme
inferiori della conoscenza, a cui Platone dà il nome comune di opinione –
CICERONE AUSTIN THE LINE: alle due parti dell'intelligibile le due forme
superiori, che egli chiama intelligenza. Le due parti del visibile sono le cose
reali e le loro immagini: alla prima corrisponde la fede, alla seconda
rimmaginazione slxaaia. Delle due parti dell'intelligibile l'un» è quella che
s'investiga pella dialettica; l'altra è quella che s'investiga Il pÌtagorl«ino
nel Tiiiiet e nel Fifeb» Risulta dall'esposizione pr ccleate che le altre
dottrine di Platone oltre quel'e di cui abbiamo parlato al per le scienze
matematiche, che, oltr.ì la scienza dei numeri e la geometria, comprendono
l'astronomia e l'armonia. Queste due parti dell'intelligibile sono determinate
da Platone, non per se stesse, ma per il metodo con cui si procede nel loro
studio; così i loro caratteri distintivi sono: Nello studio della seconda parte
quella che è l'oggetto delle scienze matematiche lo spirito procede bensì col
metodo deduttivo, come in quello della prima, ma la dimostrazione è incompleta,
perchè il punto di partenza delle sue deduzioni sono delle semplici ipotesi:
nello studio della prima parte quella ohe è l'oggetto della DIALETTICA, al
contrario, il metodo è assolutamente dimostrativo, perchè il principio è, non
una sdmplice ipotesi come in quello della seconda, ma una verità d'una CERTEZZA
GRICE CERTAINTY AND UNCERTAINTY assoluta. Nello studio della seconda parte,
quantunque il vero oggetto del pensiero sia l'universale in se stesso il
quadrato %le^%o^ la diagonale ^ie^ia^ i numeri . siedasi, pure ciò che esso
prende immediatamente per oggetto sono delle cose particolari e sensibili;
nello studio della prima parte invece, il pensiero non ha altro oggetto che
l'universale, le Specie essendo il principio, il mezzo e il termine di tutta la
dimostrazione per queste differenza tra il metodo dialettico e quello delle
matematiche. Alla prima parte dell'intelligibile, tra le forme della
conoscanza, corrispoa la la scienza, alla seconda la raziocina zìo ne Stavoia.
Le quattro forme della conoscenza, corrispondenti alle parti dell'intelligibile
e del sensibile, partecipano dell'evidanza nella stessa misura in cui gli
oggetti, a cui corrispondono, partecipano della verità. La prima parte
dell'intelligibile sono, non potrebbe esservi alcun dubbio, le Idee: la seconda
parte é stata identificata con le entità matematiche; ma questa identificazione
presenta delle difficoltà insormontabili, quali sono le seguenti: Le entità
matematiche non sono che i numeri e le grandezze geometriche; mentre la seconda
parte dell'intelligibile comprende anohe, oltre gli oggetti dalla soienza dal
naoiari e dalla e che consistono in sostanza in questi tre concetti: la
realizzazione degli universali, LA DIALETTICA, e il bene genere supremo o forma
comune di tatti gli esseri geometria, quelli deU'astronomia e dell'armoaia.
Dirà l'interprete trasoendentaUsta, per risolvere questa difficoltà, che le
entità matematiche rappresentano le leggi del mondo fenomenico, e per
conseguenza costituiscono anche l'oggetto dell'astronomia e dell'Armonia? Ma
allora Platone dovrebbe dare la seconda parte dell'intelligibile per oggetto,
non, com'egli fa, a certe scienze speciali ma a tutte le scienze del reale,
perchè tutte hanno per oggetto le leggi del mondo fenomenico. E in questo caso,
siccome le stesse scienze avrebbero anche per oggetto le Idee- per il principio
generale che la scienza si riferisce all'Idea, le due parti dell'intelligibile
non potrebbero venire distinte per le scienze di cui sono l'oggetto. Il
carattere per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee è che ve ne
hanno molte della stessa specie. Nella sua applicazione ai numeri, questa
proposizione significa che vi ha un'infinità di unità, di diadi, di triadi,
ecc. matematiche. Ma nella Repubblica Platone non ammette, come concetto
realizzato, che una sola unità, l'Uno stesso e per conseguenza pure una sola
Diade, una sola Triade, ecc Ciò risulta anche da tutto il contesto in cui l'Uno
e gli altri numeri sono classati tra gli oggetti, che il senso vede confusi 001
loro contrari, ma che l'intelligenza separa, vedendo ciascuno dei contrari come
uno. L'uno e i numeri di cai è quistione nei luoghi indicati, siccome sono dati
come l'oggetto dell'aritmetica, sarebbero quelli formanti, con gli altri
concetti matematici, la seconda parte dell'intelligibile se questa equivale
alle entità matematiche: per conseguenza dovrebbero essese identici ai numeri
matematici dell'esposizione aristotelica. Ma questa identità, come .1 è visto,
non esiste; e la differenza è d'un'importanza capitale, trattandosi del
carattere delle entità matematiche per cui esse venivano distinte dalle Idee.
La distinzione degU oggetti matematici dalle Idee importa la loro subordinazione
ad esse come intermediari fra esse e le cose, e questa lappone, come risulta da
tutta la nostra esposizione di questa parte della filosofia platonica, la
dottrina dei numen ideali. Ma noi mostrammo al n. I (cju-te ohe, quando sono il
prodotto di una fusione, avvenuta in un periodo ulteriore della sua
specuUz'one, dei concetti propri a Platone stesso quelli che abbiamo indicati
con quelli Platone scrive la Repubblica egli non conosce ancora questa
dottrina. E si noti che gli argomenti con cui l'abbiamo provato acquistano una
forza particolare contro qaelli che nella seconda parte dell'intelligibile
veleno le entità matematiche. In effetto essi non potrebbero revocare in dubbio
la premessa da cai partono questi argomenti, cioè che i numeri, di cai è quistione
nella Hepubblica sono i matematici, vale a dire quelli rapprasentanti i
semplici attributi aritmetici; questi numeri essendo, secondo la loro tesi,
distinti dalle Idee e ad esse opposti come appartenenti a un'altra sezione del
mondo intelligibile. Ma se si conviene che questi numeri sono i matematici, si
de^e pure convenire che 1'autore non ammette ancora i numeri ideali, poiché, se
li avesse già ammessi, egli non avrebbe potuto riguardare i numeri matematici
come i numeri stessi e le essenza dei numeri carte. Le due parti
dell'intelligibile si distinguono in qaanto l'una è l'oggetto della scienza
dialettica, e l'altra di un'altra scienza, egualmente deduttiva, ma
d'un'evidenzi inferiore. Ora quest'esclusione dal dominio della dialettica non
potrebbe convenire agli oggetti delle matematiche, considerati coma eatità.
Essi soao dei concetti obbiettivati simili a tutti gli altri dalla mìtafisici
platonica. Qaesti concetti hanno dei gradi differenti di generalità, e per
conseguenza il metodo di divisii»ne deve applicarsi anche ad essi Platone, è
vero, dei numeri e della grandazze, dopoché ne fa delle entità intermediarie,
non realizza che i concetti specifici; ma ciò non esclude l'applicazione del
matoio dialettico, i concetti generici occorrenti, che non si trovano tra le
stesse entità intermediarie, trovandosi nelle Idee a cili esse sono
subordinate. Infina l'unità di metodo, che è uno dei carattari essenziali a
qaesta forma di metafisica, esige che anche questi concetti entrino, con tutti
gli altri, nel sistema universale, e si deducano, eoa lo stesso processo,
dall'Idea suprema. E nel fatto Platone, tra gli o^jgatti sa cui volge la
dialettica, comprende, in diversi luoghi, i concetti matematici. Nel Filebo
riferendosi a in cai oppone la scianza dialettioA, che ha per oggetto ciò che
esiste sempre ed è sempre allo stesso modo, a quella che ha per oggetto ciò che
è generato, -, dèi Pitagorici. Di queste dottrine alcane quelle dei numeri
ideali e dei due elementi delle Idee non sono che lo dottrine principali dei
Pitagorici con le modificadioe di aver distinto due soienze, l'ana circa le
cose che Dascono e periscono, l'altra circa quelle che non nascono né periscono
e sono sempre allo stesso modo, e pone tra gli oggetti della seconda, cioè
della dialettica, IL CERCHIO GRICE stesso e la sfera stessa, Neil' Kit ti' demo
I geometri, gli astronomi, gli aritmetici sono pure dei cacciatori, perchè non
fanno le figire, ma vanno alla ricerca di quelle che esistono; e siccome non
sanno usarne, ma solamente scoprirle, quelli tra di loro che non sono insensati
abbandonano le loro scoverte ai dialettici, perchè sa ne servano.
Neil'Ephiomidy che, se non è di Platone, è certamente di u]\ discepolo
dell'antica accademia: Bisogna che il consenso, <?he è uno, di tutte cosa,
d'ogni figura, ogni costituzione di numero, ogni ragiono d'armonia e di
rivoluzione degli astri, si manifesti a quello ohe imparerà secondo il vero
metodo; e si manifesterà, se chi impara guarda all'unità; perchè la riflessione
gli scoprirà che un sol legame unisce naturalmente tutte cose questo legame
unico di tutte le cose non è che il legame dialettico, che riconduce ogni
moltiplicità all'unità, e per cui tutte le Idee formano un slitema. Hep. Nella
Repubblica poi non può esservi dubbio che i numeri oggetto dell'aritmetica e le
grandezze geometriche non siano inclusi nella parte dell'intelligibila ohe
s'investiga par la dialettica. Da Una parte in effetto ci si dica che l'oggetto
della dialettica è l'essenza di ciasou>ia cosa; ciascuna cosa stessa aùxò
Ixaoxov; l'essere ov, oOofa , e quei luoghi in cui alle discipline, la cui
destinazione neil'educazione platonica è di preparare alla dialettica, si dà
per iscopo di operare l'evoluzione dello spirito all'essere; il vero.
Dall'altra parte si prescrive a qualli che devono occupara le prima caricha
dello stato, di studiare il calcolo per contemplare l'ei-ianza dai numeri; e le
entità a cui si riferiscono l'aritmetica e la geometria ricevono anch'eise
l'attributo stesso aùxóg' il quadrato CERCHIO GRICE slesso e la diagonale
sles^a^ a, d, e 1' uno stesso e i numeri slessi, e sono anch'esse chiamate
essere M3; 0\}QÌ0L, hìh b, e,) e verità, e, zionì necessitate dal loro
aggiustamento al sistema platonico; le altre quelle della materia delle cose e
delle entità intermeiìarie sono un effetto dell'adesione. Aggiungiamo che
l'ufficio assegnato alla dialettica è la definizione di ciascuna cosa, e i
numeri e le figure non potrebbero non essere compresi tra le cose a definire.
Questa inclusione degli oggetti a cui si riferiscono le matematiche tra quelli
in cui versa la dialettica, si vede pure chiaramente dove si raccomanda che le
discipline 1'aritmetica, la geometria, l'astronomia, l'armonia che sono state
studiate isolatamente nella fanoiullezza, siano più tardi presentate
nell'insieme, per dare una veduta d'insieme s^C 0'JVO'|»Lv dell'a 'finitiX e
delle discipline fra di loro e della natura dell'essere, tessere sono i
concetti realizzati; e questa 0'JVO']^t^ dell'affinità della natura dell'essere
non è che la considerazione dialettica di questi concetti, come lo provano
anche le parole che seguono immediatamente: Con ciò si sperimaata massimamente
l'ingegno dialettico o no; chi è O'ivOTlTixó^ è dialettico, chi non lo è no.
Notiamo che i luoghi citati sono tutti nel libro, che è una continuazione della
digressione cha comincia sulla fine colla bipartizione del visibile e
dell'intelligibila. Ohe cosa bisogna dunque intendere per la parte
dell'intelligibiie che s'investiga per la scienza matematicha? Non altro che le
verità studiate da queste scienze. Quantunque Platone non faccia di queste
yerità delle entità sussistenti per se stesse coma le Idee, pure, siccome le
considera d'una maniera obbiettiva, egli può opporle alle Idee come un'altra
spacie dall'intalligibile. Dall'altro canto le Idee possono e-jsare opposte
alle verità dalle matematiche, perchè esse non sono che le verità della
dialettica obbiettivamente considerate: la dialettica infatti non è che un
seguito di proposisùoni esistenziali, logicamenta legate tra di loro, di cui
ciascuna pone, cioè afi'arma, un'Idea, e il cui logama logico non è altra cosa
che il legama ontologico fra le Idea stesse atfermate. Questa distinzione dalle
verità scientifiche in dialettiche e matematiche si rapparta dalla maniera più
naturale all'oggetto della Ròpuhblica, che è di dare una nozione generale del
metodo dialettico, indicanio le soniglianz3 e la differenza tra le scienza
matematiche e la scianza dialettica ban inteso, considerato -i completa che
Platoae fa alla doitrina pitagorica dei numeri. Ci resta a parlare dei motivi
di questa evoluzione verso il pitagorismo. nella loro formo, non nella loro
materia: che avrebbe da fare con quest'oggetto la distinzione delle entità
platoniche in Idea ed entità matematiche? Se la dae parti dell'iatellìgile
fossero queste, né si comprenderebbe perchè Platone, parlando dei rapporti tra
il meto io dialettico e il metodo matematico, abbia messo innanzi questa
distinzione; né perchè, avendola messo innanzi, quando poi si tratta di
determinare che cosa !iano le due parti distinte dell'intelligibile, non parli
che dolle difterenze tra le matematiche e la dialettica. Le stesse differenze
obbiettive assegnate tra le due parti dell'intelligibile non sono che quelle
fra i due metodi scientifici, considerate obbiettivamente: per consegaanza esse
convengono perfettamente come differenze tra le Idee le verità della dialettica
e le verità delle scienze matematiche, ma niente affatto tra le Idee e la
entità matematiche. Qaando Platone dica che la parta dell'intelligibile che
s'investiga pella dialettica ha un'evidenza superiore che quella che
s'investiga per la geometria e scienze affini, egli non fa che ripetere, in
un'altra forma, che 1'evidenza della dialettica supera quella di queste
scienze: ciò è tanto vero che dopo che Socrate ha spiegato le differenze del
mato lo dialettico dal metematico, tra cui la pia saliente che quello non ha,
come questo, per principii delle ipotesi – MA LA IPOSTASI GRICE e per
conseguenza ha un grado superiore di certezza, Glaucone risponde: Comprendo: mi
sembri volere stabilire che la parte dell'essere e dell'intelligibile che
contempliamo per la dialettica è più evidente di quella che per le chiamate
arti, a cui sono principii le ipotesi – e non le IPOSTASI, e quelli che
contemplano queste cose vale adire ciò di cui trattano queste ar/i, quantunque
contemplino, con coi sensi, ma col pensiero, pure non ti paiono avere
intelligenza intorno ad esse, perchè le loro ricerche partono da ipotesi NON
IPOSTASI, non risalendo al principio. Lo stesso significato al fondo ha l'altra
differenza che Platone stabilisce fra le due parti dell'intelligibile, cioè che
quella che s'investiga per la dialettica partecipa della verità più di quella
che s'investiga per le matematiche: ciò vuol dire semplicemente che le verità
della dialettica sono più certe ohe le verità delle matematiche. Alle entità
matematiche Platone non avrebbe assegnato meno verità che alle Idee: verità in
questo caso non avrebbe potuto significare che Noi dobbiamo prima di tutto
stabilire un punto di fatto, che può gettare la più gran luce su questi molivi,
e senza tener conto del quale non si avrebbe del pitartfa/ noi sappiamo che
Platone ammette, quantunque questo sia per noi un non senso, dei gradi
differenti di realtà; ma alle entità matematiche, che esse siano la semplice
sostantificazione degli attributi matematici, oche rappresentino le leggi dei
fenomeni, non potrebbe assegnarsi un grado relativo di realtà, ma solo la
realtà assolata come alle Idee, perchè eterne e immutabili Arist. Met,, ecc.
come qneste. E d«l resto Platone non chiamerebbe, come abbiamo visto ch'egli
fa, i concetti realizzati dei numeri e dalle grandezze essere e verità, s'egli
non assegnasse ad essi che una realtà relativa. Platone stabilisce anche tra le
due specie d'intelligibili un'altra relazione: quelli che s'investigano per le
matematiche sono da lui riguardati come immagini di qaelli che s'iuvestigano
per la dialettica. Ciò risulta già dalla divisione del visibile in cose ed
immagini; tanto più se si riflette che tra le due parti del visibile e
delKintelligibile, considerate luna rispetto all'altra, deve esservi lo stesso
rapporto che vi ha tra il visibile e l'intelligibile, e che il primo è, secondo
Platone, un'immagine del secondo. Ma la prova più esplicita se ne ha dove
descrive rascensione nella regione superiore, e spiega il significUo di questo
simbolo, il rapporto tra le scienze matematiche e la dialettica essendo ivi
comparato a quello tra Tintuizione delle immagini e l'intuizione delle cose
stesse. Questa relazione con le Idee, bisogna confessarlo, converrebbe assai
bene alle entità intermediarie, specialmente nell'interpretazione
trascendentalista – H. P. Grice/A. Code, PLATONISMO, ARISTOTELISMO –
Izzing/Hazzing -- , secondo cui esse tramezzano, non tra i soli attributi
matematici delle cose e le loro Idee, ma tra tutto il mondo sensibile e tutto
il mondo ideale. Ma essa conviene egualmente alle verità matematiche. Ciò è per
le stesse ragioni per cui Platone fa delle m^cmatìche la propedeutica della dialettica.
IL PORTALE DELLA ACCADEMIA Lasciate ogni ignoranza voi ch’entrate I caratteri
della scienza per Platone sono: l'astrattezza e universalità dell'oggetto, e
rincatenamento de<luttivo. Tra le scienze finite, egli non trova realizzati
questi due caratteri, quantunque d'una maniera imperfetta, che nelle
matematiche d'una maniera imperfetta, perchè le verità matematiche, benché
astratte e universali come le Idee, non sono, come queste, degli oggetti
sussistenti per se stessi: e perchè la e atena delle loro deduzioni, oltre che
non ha un valore ontologico, ma semplicemente logico, non parte dal principio o
IPOSTASI, ma da ipotesi. Per conseguenza Platone vede gorìsmo platonico che
un'idea incompleta. E che, come abbiamo accennato, il pitagorismo di Platone
non consiste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, ma anche ad
attribuire a questi i suoi propri concetti. È ciò che vediamo nel Filebo: ivi
attribuisce loro nelle matematiche Un tipo, quantunque Imperfetto, su cui Io
spirito può formai-si V ideale della scienza assoluta, cioè della dialettica, e
nelle loro verità considerate tanto ciascuna in se stessa quanto nella loro
connessione un simulacro delle verità di questa scienza, vale a diro del mondo
delle Idee. Nell'allegoria della caverna, in cui sono rappresentate le diverse
parti del visibile e dell'intelligibile e le forme corrispondenti della
conoscenza, il rapporto d'immagine a realtà ha tre significati distinti, perchè
net'li oggetti rappresentati questo rapporto è triplice. Esso esiste: tra le
due parti del visibile, tra il visibile e l'intelligibile, tra l'intelligibile
matematico e rintelligibile dialettico. Le ombre della caverna corlispondono
alla parte più oscura del visibile, cioè alle immagini propriamente dette: esse
simboleggiano, non le cose stesse che noi chiamiamo reali, ma le loro apparenze
sensibili, Platone non accordati lo cosi alla percezione sensibile che è
rappresentata dallo stato di prigionia nella caverna che un valore subbiettivo.
Le cose che noi chiamiamo reali sono simboleggiate dagli oggetti che portano i
passanti lungo il muro tra il fuoco e i prigionieri, e di cui le ombre si
proiettano nella caverna: cosi questi oggetti sono anch'essi delle immagini,
perché le cose reali sono immagini delle Idee. in cui essi sono chiamati
StJwXa, e le ombre di questi slòooXa, percepite dai prigionieri nelU caverna,
sono contrapposte alle ombre degli esseri, guardale dopo l'uscita dalla
caverna, prima di poter guardare gli esseri stessi: le ombre del giusto o i
simulacri àYaX|xaTa di cui sono l’ombre. Uopo la liberazione, il progresso del
prigioniero nella conoscenza delle cose comprende due stadi. Nel primo si volge
verso il fuoco, e {«uarda gl’oggetti di cui prima vede le ombre qualli che sono
chiamati sl5a)Xa e il fuoco stesso simbolo del sole. Nel secondo esce dalla
caverna, e ascende nella regione superiore, e questo stadio comprende alla sua
volta due gradi, perchè prima guarda l’ombre e l’immagini la dottrina delle
Idee e la dialettica. Questo metodo, il dialettico, è, dice Socrate, un dono
degli dei agl’uomini, inviato per mezzo di qualche Prometeo con una sorta di
splendidissimo fuf co. Gli antichi, che erano migliori di noi e più vicini agli
dei, ci hanno tramandato come un oracolo che le cose che si d cono e-sere eternamente,
constando deir unità e della pluralità, e avendo in sé per natura il fine e
Pinfìnito; bisogna perciò, nella riceica di ciascun oggetto, stabilire sempre
un'Idea unica per tutto e si può ritrovarla perchè vi esiste; scoverta questa,
cercare se dopo Tuna ve ne ha due o, se non due, qualche altro numero; e
ciascun uno di questi esaminare ancora così, sinché si veda, non solo che l'uno
primitivo é uno e molti ed infiniti, ma acche quanti è; e non applicare alla
moltitudine l'Idea delTinfinitn, prima di vedere in essa ogni numero che
s'interpone tra rinfinito e l'uno; allora solamente lasciare ciascuno di tutti
gli uni andare a disperdersi nell'infinito. Gli dei, come ho detto, ci hanno
trasmesso questo metodo di esaminare, d'imparare e di scambievolmente istruirci.
Questi antichi, i quali ci hanno tramandalo degli esseri reali, poi questi
esseri stessi. Queste ombre ed immagini degli esseri reali simboleggiano
gì'intelligibili delle matematiche, e gli esseri reali le Idea. Nella
liberazione dello spirito o la sua marcia ascendente nella verità, le scienze
matematiche hanno due fun^ionl, coi rispondenti, Tuna al primo stadio del
progresso del prigioniero dopo la sua liberazione la conversione dalle ombre
verso il fuoco e j^li sI5(oXa, e l'altro al primo grado del secondo stadio
l'intuizione delle ombre ed immagini degli esseri reali nell'ascensione nella
regione superiore. Platone attribuisce a queste scienze anche la prima
funzione, cioè di convertire lo spirito dall'apparenza le ombre alla realtj\
sensibile pli St5(oXa, perchè esse danno un'idea più giusta del mondo
esteriore, rettificando lo illusioni della percezione, come fa la astronomia,
che al cielo apparente sostituisce il cielo reale. Supplera. carta che le cose
consfano dell'unità e della pluralità, ed hanno in sé per natura il fine e
l'infinito, sono evidentemente i Pitagorici, o piuttosto gli antecessori di
questi filose fi -perchè naturalmente Platone non potrebbe attribuire le Idee e
la dialettica ai Pitagorici contemporanei, di cui si leggevano gli scritti.
Altrove nel i^<«6eo stesso Platone appoggia su questa tradizione di origine
divina, di cui ha parlato nel luogo citato, la sua dottrina sul népa^ e
l'ac;:eipov, quale egli l'espone in questo dialogo. Noi siamo dunque fondati ad
ammettere che Platone dà la sua propria filosofia, qual es3a ò divenuta dopo il
sincretismo coi concetti pitagorici, per una restaurazione dell'antico
pitagorismo, o di una sapienza prepitagorica di cui i Pitagorici non
conservavano che delle tracce alterate. Attribuendo agli antecessori dei
Pitagorici la dottrina delle Idee, egli attribuisce loro implicitamente quella
dei numeri separati xoipiczol. Di più nel Timeo egli mette in bocca a un
pitagorico, oltre alla dottrina delle Idee, quella dei due elementi con le modificazioni
ch'essa subisce nel suo proprio sistema nell'epoca in cui il sincretismo coi
concetti pitagorici, verso cui nel Filibeo non ha fatto ancora che il primo
passo, è già compiuto, e la distinzione di forma Idea e materia con la
riduzione di questa allo spazio. In quanto alle altre modificazioni ch'egli
apporta alle dottrine pitagoriche la formazione, progressiva dei numeri, la
distinzione del numero che rappresenta le essenze delle cose dal matematico,
ecc., noi non abbiamo in verità la prova specifica che Platone le abbia
attribuite al pitagorismo originario. Ma sappiamo che un filosofo della sua
scuola, Speusippo, intitola e dei numeri pitagorici un saggio in cui egli
espone la sua propria dottrina sui numeri, dando, per conseguenza, questa pella
dottrina pitagorica. La pretesa di Platone e dei Platonici che il loro sistema
fosse la riproduzione dell'antico pitagorismo di CROTONE, spiega come, nel
concetto degli autori posteriori, le due filosofie finiscono per confondersi:
la più parte di questi in effetto attribuiscono ai Pitagorici le dottrine
proprie di Platone e per cui la sua filosofia si distingue dalla loro, le Idee,
i numeri separati concep'ti come dei paradigmi, comform'imente
all'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, e l'opposizione
dell'Uno e della Dualità indefinita con la funzione assegnata a quello di
principio formale e a questa di materiale. È notevole che questa confusione tra
le dottrine platoniche e pitagoriche comincia già negli stessi discepoli
immediati d'Aristotile: cosi l'opposizione dell'Unità e della Dualità
indeterminata con le proprietà piìi caratteristiche che Platone assegna a
quest'ultima è attribuita ai Pitagorici anche da Teofrasto Met.
Quest'avvicinamento ai Pitagorici non è, nella vita speculativa di Platone, un
fatto isolato. Si sa che nei suoi scritti egli non espone mai le sue dottrine
nel suo proprio nome: egli le mette in bocca a Socrate, a Parmende dei VELIA e
ai VELINI, a un pitagorico. Non bisogna credere che questa non sia che una
finzione poetica: senza dubbio, quando gli autori antichi trattano i lamblico
Theol. arithm. ed. Ast. Zeller Nella piìi parte dei dialoghi. Nel Parmenide di
VELIA Nel Sofisia e nel Politico, Nel Timeo. L'air ghi di Platore coire
documenti storici, e, fond^ndosi feulJa sua testinr.oDiaMza, attribuiscono il
sistema dHlc Idre a Socrate, a Parmenide di VELIA, ai Pitagorici, cshi rivelano
il difetto di senso critico proprio della loro epoca; ma non è meno evidente
perciò che la maniera naturale di ermi: rendere Piatene è quella di questi
autori, e che è ersi, vale a dire coire un testimonio attendibile sulle
opinioni attribuite ai p^rsonagu^i dei suoi dialoghi, che egli vuole essere
compreso. Una prova di ciò è la cura che ba, in parecchi dialoghi, dMiidicare
le fonti da cui ha attinto. Queste in certi casi sono immaginate con
l'intenzione evidente di spiegare come dei fatti generalmente ignorati siano
potuti v.'uire a conoscenza delFautore. Cosi nel Parmenide di VELIA il
colloquio tra Socrate e Parmenide di VELIA a cui si mette in bocca, della
maniera più esplicita, la dottrina delle Idee, è narrato da un fratello uterino
di Platone, Antìfoiite, il quale Pavrebbc appreso da un suo amico, testimonio
auricolare e amico di Zenone di VELIA, l’amato di Parmenide di VELIA. Per questo
dialogo -cosi importante per comprendere il rapporto che Platone intende
stabilire tra la propria filosofia e quella dei VELINI che Tautora voglia che
sì dia ad esso un valore storico è anche dimof^trato dalla menzione che f4 in
altri dialoghi della conversazioue di Socrate con Parmenide di VELIA.
L'incompatibilità tra le opÌDÌoni conosciute dei VELINI e il aistema delle Idee
non è per la fantasia di Platone un ostacolo insormontabile: le dottrine es^
o^te nei poemi di Senofane e di Parneuide di VELIA non sono, secondo Platone,
che dei miti, e per comprendere il vero pensiero di il principio del Parmenide
di VELIA, Teeleto e, SìtUla e. Sof, qu sti filosofi, non è alla lettera che
dobbiamo fermarci, ma cercare, più oltre, ciò che essi non esprimono, ma sr^ttlntendono.
Da questi fatti emerge con evidenza un fatto general^: è lo sforzo di Platone
di riattaccare il proprio sistema alle tradiz'oni filosofiche del popolo greco
– e ITALO, la sua pretesa di dare la proprha filosofìa, non come una
rivoluzione, ma come una restaurazione. E lo stesso procedimento dì cui
<»gli si serve per accreditare le dottrine politiche e sociali insegnate
nella Repubblica, Le istituzioni inculcate in que«<t' opera non sono,
pretende Platone, che quelle stesse che all'origine ha a^uto il popolo ateniese
– GRICE ATHENIAN DIALECTIC ROMAN DIALECTIC OXONIAN DIALECTIC: ciò si r 1 »,va
da una storia una guerra anticamente combattuta tra gli Ateliesi e i popoli
della Teet, a. Su che ha potuto fondarsi Platone per attribuire le Idee ai
VELINI? Sovratutto, senza dubbio, sulla loro dottrina che l'essere vero è
eterno c«l immutabile. Aristotile /? Coelo, dopo aver parlato di queHt'opioionc
di Parmenide di VELIA e di Melisso di VELIA, osserva che se anche per il
re8ti> dicono bene, si deva credere però che essi non parlano da fisici. In
elfctto esservi delle cose non generate e assolutamente immobili spetta ad una
considerazione diversa e anteriore che la fisica; ma essi, perchè nienr, e
altro credevano esservi che la sostanza delle cose sensibili, avendo compreso
per i primi che esìstono certe nature ta^i cioè non generate e assolutamente
immobili, se vi ba qualche scienza o intelligenza, le pro,>osizioai adattate
a queste nature trasportarono alle cose di qui Verisimilmente noi abbiamo in questo
luogo un pensiero di Platone riveduto e corretto da Aristotile si notino le
parole se vi ha qualche 8 -lenza o intelligenza, che ricordano le prove per
dimostrare l'esistenza delle Idee. Platone non avrebbe detto della filosofia di
VELINI di non ammettere che la realtà sensibile, e trasportare a questa ciò che
non é vero che di una realtà sovrasen^ibile, ma solamente dei loro mUi, Per il
rapporto che Platone ha potuto stabilire tra le proposizioni degli Eleati e il
sistema delle Idee, è anche notevole l'argomentazione di Parmenide per provare;
l'unità dell'essere, che Teofrasto ap, Si/np. in Phi/s, riassume cosi: oltre
all'essere non vi sarebbe cheli non essere; mail non essere è niente favolosa
Atlantide scritta nei libri sacri degli Egiziani e che quei preti raccontarono
a Solone. Platone ci presenta dappertutto, in filosofia come in politica e in
religione, la strana alleanza di un genio eminentemente innovatore con delle
tendenze che noi non siamo abituati a trovare che associate ad uno stretto
conservatorismo. Rispattoso delle antiche tradizioni; convinto che
ogn'innovazione nelle idee e nei costumi è il pericolo pii grave da cui la
società deve guardarsi; non eonosceado il dogma moderno del progresso, e
vedendo nella libertà e neiroriginalità deirindividuo piuttosto un agente di
corruzion e che di miglioramento sociale; e sotto l'impero deirillusione del
mondo antico che il bene è, no a neiravvenire, ma nel passato; non è
sorprendente ch'egli abbia fatto dunque l'essere è uno. Su quest’argomentazione
Aristotile nota in Phys, che, per poter cont^ludere, si dovrebbe intendere in
essa per essere V essere separabile ciò che corrisponde a1 concetto astratto di
essere considerato in se stesso in altri termini l'Idea platonica dell'essere.
Timeo e Crizia Gran tore, discepolo di Platone, aflerma che il racconto sugli
Atiantini e sulla identità della istituzioni della Repubblica con le
istituzioni antiche di Atene è una pura storia; e racconta che, per vincere
l'incredulità dei contemporanei, Platone manda la sua narrazione agli Egiziani,
i quali attestavano la verità dei fatti, alfermando che essi si trovavano
inscritti in colonne tuttora esistenti Proclo Comm. in Plotonis Timaenm ed.
Basii. in Mullach Cranioris Fragmenta Fragm. T. FU. e, Fedro e, lim, Ugii, ecc.
Rep. Leggi, ecc. Rep.Uggì, ecc. Le altre forme dello stato sono, secondo
Platone, una degenerazione progressiva della forma perfetta cioè quella di cui
traccia il disegno nella Repubblica, Rep, Vili, e Arist. Politica. o;:ni sforzo
per conciliare colla tradizione le sue idée auducemente rivoluz'onarie. Questo
sterzo di Platone di riattaccarsi hi passato non è per altro wn fatto uu'co
nella storia della metafisica. E in questo senso che spinge naturalmente il
metafisico la solitudine int-llettua'e in cui Io lascia il carattere
paradosastfco delle sue dottrine. Nelle scienze speciali, il pensatore più
oripnale non può aspirare che ad accrescere, più o meno, il patrimonio comune
dello conoscenze: di più, per quanto egli voglia rinnovare radicalmente le
nostre nozioni sulle cose, egli divide con gli altri uomini certi nozioni
fondamentali ch^ costituiscono ciò che 8i chiama il senso comune. Ma il
metafisico pretende di rifare di fondo in colmo, con un piano interam^ntc
nuovo, tutto il sistema delle conoscenze umane; le sue dottrini sono, in un
punto o io un altro, in aperta contraddÌ7Ìone con le credenze naturali – GRICE
STRAWSON PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS; il suo mondo rf-ale non é il mondo
reale degli altri uomini; ciò che questi chiamano realtà, per lui è un'apparenza,
un fenomeno; la vera realtà non è conosciuta che da lui solo. A lui supposro
che il suo sistema fosso vero potrebbe applicarsi con più ragione ciò che Omero
dice di Tir sii agl'inferni, e che Platone applica al vero uomo di stato: egli
solo pensa, gli altri non sono che dt Ile ombre erranti GRICE HAROLD WILSON Non
è naturale ch'egli cerchi Odiss. Menoiie loo a. Una condizione della
possessione delia conoscenza fìlosotìca è, (XiC'i Schelling Lezioni sul metodj
degli ^ludi accademici Lea. 4, una chiara e viva concezione delia nullità di
ogni conoscenza semplicemente finita la conoscenza finita e la conoscenza non
liiosofica, e la filosofìa è, s'intende, quella di Sclieliing. E 2i\trove D^^i
fnodo assoluto di conoicere negli Scritti filosofici tradotti da Benard:
Bisogna aprirsi vigorosamente un accesso sino ad essa alla intuizione
intellettuale o co'W I" dei compagni e de^H antecessori negli altri
filosofi, sforzandosi di diminuire il suo isolamento e di accorciare in qualche
modo la distanza che lo separa dagli altri uomini? Ed è notevole che è, nei
metafisici che si allontanano il più dal punto di vista comune che questo
sforzo di riattaccare il proprio sistema alle tradizioni filosofiche apparisce
più energico; p. e., tra i moderni, in Leibnitz e in Hegel. Si sa che Tautore
delle monadi e deir armonia prestabilita si da per un eclettico. Io ho
lungamente riflettuto, egli dice, sugli antichi m sui moderni, e trovo che
pressoché tutte le opinioni adottate sono suscettibili di un buon senso. Nel
suo sistema si trovano riunita la poca realtà sostanziale delle cose sensibili
della scesi; la riduzione di tutto alle armonie o numeri, idee e percezioni
della scuola di CROTONE e dell’ACCADEMIA; V uno e anche uno tutto di Parmenide
di VELIA e di Plotino, senza Fpinozìsmo; la connessione del PORTICO,
compatibile colla spontiineità degli altri; la filosofia vitale dei Cabalisti
ed Ermttiji che mettono del sentimento da per tutto; le tV^rme ed entelechie
del LIZIO e degli Scolastici; e con tutto ciò la spiegazione meccanica di tutti
i fenomeni particolari secondo Democratico e i noscenza fiIosoHca, ed isolarsi
da tutti i iati dal sapere comune, a tal punto che alcuna v a, alcun sentiero,
non possa condurre da questo ad essa. Qui comincia la filosofìa Vera Seconda Introduzicne
alla filos. delio spirito pa. CU, rispondendo alle obbiezioni contro il sistema
di Hegel, assimila quesi; c obbiezioni essendo fatte eia un punto di vista che
non ò l'hegeliano a quelle che sarebbero fatte da un essere che non pensa,
perche, egli dice, il pensiero non filosofico cioè non hegeliano non ò un
pensiero, Citato da Schelling Delia success, dei sUt. flìos. e della maniera di
trattare la storia delta fllos, negli Scritti pfvsoflci tradotti da Benard %'.
moderni; ecc.: si è mancato dagli altri filosofi per inno spirito di setta,
limitandosi per la reiezione degli nitri. Si sanno egualmente le idee di Hegel
sulla storia della filosofia: La stoiia della filosofia mostra nei diversi
sistemi che sono apparsi una sola e stessa filosofia che ha percorso
diffrerenti gradi, ed essa prova che i principii particolari di ciascun sistema
non sono che delle parti d'un solo e sttsso tutto iche è il sistema di Hegel.
L'ultima filosofia nrirordinc del tempo ò il risultato di tutte le filoscfie
precedenti, e deve per conseguenza contenerne i principii Senza dubbio il
tradizlonaliamo dì Hegel con cui, tra i filosofi moderni, la comparazione e la
più ovvia rfsta ben al di sotto di quello di Platone. Hrgel si limita ad
interpretare arbitrariamente le filosofie del passato e a falsarne il
carattere, per mostrare che ciascuna di esse è un momento della propria
filosofia e che è perciò al tempo stesso vera, perchè è una parte della vera, e
falsa, perchè, essendo una parte, pretende di essere il tutto; ma non va sino
ad attribuire agli antichi filosofi il suo proprio sistema, e, quel che è più,
non adotta le loro dottrine. Ma l’isolamento di Hegel non è cosi completo come
quello di Platone: i suoi contemporanei erano già abituati a una filosofia che
aspira a riprodurre nelle sue concezioni Tordine stesso delle cose; egli aveva
avuto prima di sé Schelling e Fichte per non parlare di altri minori, come
Novali?, Bardili, ecc., e, prima di questi, Spinoza, Cartesio con la più parte
Op, omn. Dutens Introd. alVEncicL degli altri filosofi che gli sono succeduti
coi quali aveva comuoe l'apriorismo, lo stesso Platone, 1 neoplatonici i qunli
avevano proclamato il principio dell'identità dell'essere e del pensiero, i
realisti del medioevo, e co.; nei limiti stessi della verità storica, Hegel
poteva trovare molti precursori. Invece, se vi ha un filosofo di cui possa
dirsi ciò che GIOBERTI dice in generale del genio speculativo, dì eas.^r^ quasi
prolessin^. maire creata, questo è prima d'ogni altro Platone. Li sua filosofia
è nel contrasto più spiccato con quella di tutti i suoi predecessori: egli
aborda il problema delle cause efficienti da un lato interamente nuovo, che
nessuno prima di lui aveva mai intravisto; e se anch'egli ha cercato, come i
suoi predecessori, l'elemento permanente delle cose, non è come cfsì nella
materia che lo ha trovato, ma nella forma. Certo anche Platone è fii>Ilo dei
passato, e ne riceve l'eredità: da Eraclito prende il principio del divenire;
da Socrate la definizione; ai matematici deve r’idea del metodo dimostrativo;
prima di lui la scuola di VELIA aveano visto nel mondo dei sensi l'apparenza
cangiante di una realtà immutabile; il concetto teleologico era stato adombrato
da Socrate e da Ippncratc, ed era contenuto virtualmente nelle dottrino di Anassagora,
di Eraclito e di altri fisici; la sua dottrina sull'anima è una
sistematizzazione dell'antico animi^ui^; la sua etica uno sviluppo dell'etica
di Socrate; la sua fisica una continuazione della fisica anteriore. Ma nessuno
degli elementi der sistema delle Idee, né la real'zzaziono degli unirversali,
né il metodo a priori, come metodo scientifico universalee tanto meno perciò la
dialettica, Inlrod. allo stud. della filos, Milano quale metodo di dedurre i
concetti non trova alcun riscontro nelle filosofie del passati. Bisogna pure
tener conto, se si vuol paragonare Platone con Hegel – come Grice paragona Kant
con Aristotele KANTOTLE E HEGELPLATO, ARISKANT E PLATHEGEL, della diffcrenza
tra T epoca del secondo e quella del
primo, scarda necessariamente di senso storico, e in cui i documenti sul
pensiero dei filosofi che si tratta d'interpretare, o mancano affatto come pei
primi pitagorici, o non potevano avere quella precisione di lingua e
quell'abbondanza di sviluppi, che sono il prodotto della maturità della
coltura. Ciò che dobbiamo infino, notare é che questo bisogno di ritrovare
nelle filosofie precedenti i principii
della propria filosofia e in questa quelli delle filosofie precedenti è, in
Platone come in Hegel e negli altri filosofi che hanno seguito la stessa forma
di metafisica, una conseguenza logica del'c loro teorie sulla conoscenza. La
forma di metafisica dì cui parliamo consiste nella obbiettivazionc dei
concetti, e nella ricostruzione a priori del n ale, deducendo progressivamente
questi concetti obbicttivati gli uni
dagli altri con un metodo regolare determinato, che non é eh", la legge
stessa secondo cui le cose si sviluppano. Essa ammette cosi tra il pensiero
conoscente e l'oggetto conosciuto una corrispondenza tale, che, oltrepassando
di gran lunga quella che noi siamo abituati a vedere tra il pmsiero e le cose,
esige, come tutti i fatti con cui non siamo familiari, una spiegazione; e le ipotesi a cui si ricorre
per dare questa spiegazione, sono tali generalmente che e'sc rendono più
completo ancora, dopo la loro adozione, in questa metafisica, questo
parallelismo primitivo fra il pensiero e le cose, che si tratta di spiegare.
Queste ipotesi, limitandoci a parlare di Platone e di Hegel, sono, come si sa,
pel secondo l'identità deiressere e del pensiero cioè del pensiero generale e deir essere generale, 0
pel primo, l'intuizione delle Idee in una vita anteriore e la conseguenio
reminiscenza. Conoscere, per Platone, è
ricordarsi; per Hegel, è
l'evoluzione doA pensiero per una forza interna e secondo una legge di sviluppo
che gli è propria. Nell'una e nell'altra ipotesi, la scienza ci ò in qualche
modo innata; epsa prf esiste nell'anima, per dir cosi, allo stato latente, e non ha che r d
estrirsecars'. Con queste premesse, come Platone o Hegel potrebbero ammettere
che il proprio sistema, cioò la scienza stessa poiché tutta la scienza, la vera
scienza, per essi, è il sistema delle Ideesia esclusivamente la loro creazione
individuale? che gli altri uomini non l'hanno mai connsciuto, né in tutto nò in
parte? chu tutta la filosofia anteriore non
è che una continua aberrazioro? che la verità è u ti privilegio proprio,
e che al di fuori d^lla loro filosofi i
personale non vi ha che l'errore? Con queste premesse anzi l'eMstenza dell'errore e dell'ignoranza
diviene incomprensibile; la verità dovrebbe essere il patrimonio comune di
tutti gli uomini. E qui possiamo osservare, per incidente, come le ipotesi
metafisiche vadano stranamente al di là del loro scopo. Un'ipotesi che vuole
spiegare perchè esiste il bene la concezione teleologica del mondo dà luogo
alla insolubile difficoltà: qu«l è^l'origine del male? Un'ipotesi che vuole
spiegare comò possa esistere la verità e la scienza, mette i suoi autori in faccia
a un'altra quistione più imbarazzante: come può esistere l'errore e
l'ignoranza? La nuova quistione in cui s'imbatte il realista dialettico nella sua spiegazione
della coincidenza tra il pensiero e la realtà – GRICE LANGUAGE THOUGHT AND
REALITY è cosi poco suscettibile di una soluzione radicalo che quella in cui
s'imbatte il teleologista: ma come questi cerca almeno di attenuare la sua
difficoltà, falsando il bilanC'o dei
beni e dei mali nel monlo, cosi quegli cerca di fittenuare la sua,
falsan^^o quello della verirà e
dell'errore, della scienza e dell'ignoranza. Di là lo sforzo d ir uno di
giustificare il passato dei suoi errori e delle sue ignoranze corrispondente a
qu'^llo dell'altro di giustificare la natura dei suoi mali e delle sue
imperfezioni; e per conseguenza, l'accostannento alle filosofie del passato,
attribuendo ad e^se i concetti della
propria filosofia o anche accogliendo in
qu<^sta i concetti di e^se. Gl'impulsi che spingevano Platone a
riattaccarsi allo tradizioni filosofiche era naturale che si dirigessero di
preferenza verso il pitagorisrno. Vi erano vari motivi che agivano in questo
senso. Primo, Talta riputazione di sapienza, di cui. godeva necessariamente una
vasta associazione dedita ai Uvori scientifici, come quella a cui
app'irtenevano i filos'^fi
pitairorici; poi, l'analogia delle idee al punto dì vista politico,
sociale, morale, religioso, a cui possiamo nuche aggiungere la comunità degli
studi matematici e l'importanza pressoché eguale che entrambe le filosofie
attribuivano a questa scienza. Ma il motivo preponderaot», senza dubbio, deve
cercarsi nell'affinità delle due filosofie, maggiore di quella che la platonica
ha con qualsiasi altra delle ant che. Quefiit'affiniià, come abbiamo notato,
consiste specialmente in questi due punti: I princìpii dei Pitagorici i numeri, gli elementi e, sino ad
un certo punto, lo due auaxotx^ai di contrari sono delle astrazioni
realizziate, come quelli di Platone. Essi rappresentano sovratutto, non la
causa materiale o motrice, come quelli degli altri filosofi anteriori a Platone,
ma la specie o il concetto, come lo
entità platoniche. Aggiungiamo infine la mancanza, sino ad un'epoca recente, di
documenti scritti sulla filosofia dei Pitagorici; la loro predilezione pella lingua
simbolica; il secreto che mantenevano su certe proposizioni questo simbolismo e
questo secreto concernevano altri punti che le loro dottrine filosofiche; ma
ciò basta per dare qualche credito air opinione che tutta la filosofia dei
Pitagorici non sta in ciò che essi ne pubblicano, e che questo stesso non dove
essere preso alla lettera Era quanto
occorre pcrchò Platone potesse appl'care a tutto suo agio il suo metodo
fantastico d'interpretazione. Il pitagorismo nel Timeo. Nel Timeo, alcune delle
dottrine del periodo pitagoreggiante sono esposte apertamente, altro involto in
una forma simbolica. Delle prime la separazione della materia dalle Idee e la
sua ridujzione allo spazio, e la composizione dei corpuscoli elementari ci
siamo occupati nel numero procedente: qui parleremo delle seconde. L'argomento
del Timeo è la narrazione dell'origine del mondo, e il supposto narratore è un
filosofo pitagorico, da cui il dialogo prende il nome. Il mondo ha avuto
un'origine nel tempo: esso è stato formato da un artefice demiurgo che
contempla le Idee come modelli e si serve di una materia preesistente. Al
priucipio la materia era agitata da un movimento confuso e disordinato; non vi
erano in alcuna parte delle forme regolari e costanti; Dio il demiurgo fa
passare le cose dal disordine alPordine, «effettuando da pf*r tutto ciò che era
il migliore OTTIMO PARETO. Egli stesso forma Tanima, gli elementi, il cielo, il
tempo, gli astri e la terra; poi co Zeller manda agli altri dei, ch'egli aveva
prodotti, di produrre alla loro volta gl’animali mortali. Questi, ricevuta da
lui la parte immortale delTanima, che egli compose a somiglianza dell'anima del
mondo, ne eseguirono il comando, imitando l'azione creatrice del loro demiurgo
e padre, e formarono i corpi degli
animali propriamente detti e delle piante che sono anch'esse una sorta di
animali, e la parte mortale dell'anima. Timeo mostra, in ogni opera particolare
degli autori del mondo, le ragioni provvidenziali che vi hanno presieduto, e
l'aggiustamento dei mezzi ad uno scopo determinato: gli dei, in effetto, sono
stati obbligati di servirsi delle cause materiali, fatali nella loro azione e
ribelli, sino ad un certo punto, alTaziono ordinatrice, ma hanno realizzato,
per quanto è stato pos<<ibile, il bene in tutto ciò che hanno prodotto.
Se si ammette Timmanenza delle Idee, è evidente che il racconto di Timeo non
può essere proso alla lettera. Dio non avrebbe potuto creare il mondo senza
creare allo stesso tempo lo Idre, perchè queste non «^ono
altrove che nej monio stesso, di
cui costituiscono l'elemento formale: il
mondo attuale ordinato è stato preceduto da un mondo disordinato, il demiurgo
ha annientato le idee a cui prima la materia partecipa, e ne ha prodotto,
al loro posto, delle altre. Perchè la
cosmogonia del Timeo potes»e essere presa alla lettera, bisogna ammettere
dunque che le Idee, che Platone dà costantcmcnte come eterne e se si comprendono bpne i privici pii della sua dialettica
come necessarie, possano C'is^re prodotte ed annientate. Ma indipendentemente
da quest'ordine di considerazioni, che il racconto cosmogonico del Timeo non
sia che un semplice mito e che esso non debba essere inteso letteralmente, noi
ne abbiamo dello prove abbondanti, sia nel Timeo stesso, sia nel v»;ll
complesso dclFopera di Platone, e nello
testimonianze dei suoi dincepoli. Ecco le più importanti: L'antropomorfismo
grossolano che recrna in tutto il racconto. Le operazioni del demiurgo e dello
altre divinità che hanno concorso con lui
alla proiuziono dol mondo, sono rappresentate come perfetta mento simili
a quelle di un fabbro. P. e. ecco come
Dio ha prodotto le ossa: Dopo aver vagliato della terra pura e molle, egli la impastò, inzeppandola di
midolla; in seguito mise questa mescolanza nel fuoco, poi laimmers» nclTacqua;
poi nuovamente nel fuoco e nuovamente neH'acqaa; e facendola passare più volte
dall'uno nlTaltro di questi due
elementi, fece si che es«^a non potesjjc
ossero disciolra né dall'uno né dalTaltro. L'impossiblità di prendere sul serio
simili rappresentazioni ò de Tuliima
evidenza, quando questo processo tutto meccanico attribuito al creatore si
applica ad oggetti nssolutimente insuscettibili come sono le entità astratte
della metafisica platonica. E ciò che avviene nella composizione delTanima, che
il demiurgo forma, mese alando dentrii un vaso Tessenza indivisibile riiea con
la divisibile la materia e con lo Stesso e il Diverso. L'intervento miracoloso del demiurgo, che é un vero Deus
ex machina. Egli non spiega la sua aziono nel mondo che all'origine; in seguito
questo basta a se stesso, e nrn ha bisogno d irintervento di alcun agente
straniero. Il carattere dei principii filosofici è la generalità e la costanza
della loro azione: al racconto mosaico – GRICE FIAT LUX -- della creazione in
sei giorni i filosofi creazion'sti sostituirono la dottrina della creazione continua. Il mito concentra tutto
in un punto del tempo: una legge generale
diviene, in esso, un fatto particoUre. Bisogna anche notare ciò che si
dice del demiurgo, quando questi ha già rappresentata la parte che |?li é spettata nella creazione: E quello che
aveva ordinate tutte queste cose resta nel suo stato, secondo la sua abitudine
e ciò vuol dire che il demiurgo cessa di
operare, rientrando nella sua quiete abituale. L'azione del demiurgo apparisce
dunque come un fatto isolato ed eccezionale, non solo rapporto al mondo in cui
si é esercitata, ma rapporto al soggetto stesso che Tha esercitata. Le
incoerenze evidenti nelle circostanse principali del racconto. La più sai 'ente
é il movimento della materia, prima della nascita del tempo. Per risolvere questa contraddizione si
é preteso che il demiurgo crea, non il tfmpo, ma il tempo ordinato: ma Platone
dice chiaramente che il presente, il passato e il futuro sono forme del tempo
creato dal demiurgo. Il movimoLto disordinato anteriore alla formazione del
cosmos, e, per conseguenza, dell'anima, é anche in contraddizione col principio
platonico, ammesso nel Timeo stesFO, che
l'anima é il principio del movimento. Inoltre, se come si stabilisce, e come
risulta necessariamente dai principii del sistema delle idee, il divenire
^éveotc nasce dal concorso delle idee e della materia, come sarà esso possibile
prima deirazione del demiurgo, che ha fatto partecipare la materia alle ideo?
Da questa contraddizione ne viene un'altra pm esplicita ancora. Gli elementi ora si fanno creati, ora increati.
Da una parte infatti essi devono esseie creati, primo perchè racchiude no il
principio ideale, e, come .1 Proclo in Tim. abbiamo detto, la partecipazione
alle Idee è, secondo il 7imeo, Topera del creatore; e poi perchè la spiegazione
teleologica si estende anche ad essi, e anch'essi devono per consegneiìza essere
il prodotto dell'intelligenza. Ma da
un'altra | arte devono esistere g à nella ^ì^bok; anteriore alla creazione,
poiché il movimento disordinato prima della formazione del osmos non può avere per sustrato la materia indeterminata
questa per Platone non è che il semplice spazio ma la materia divenuta dei
corpi particolari per la sua circoscrizione cioè per la circoscrizione dello
spazio dentro superficie determinate. Aggiungiamo infine, per limitarci alle
incoerenze più notevoli, che la supposizione di un essere intelligcnte distinto
dall'anima il demiurgo è in contraddzionc col principio, ammesso nel Timeo
eripetiit-ì nel Snjista e nel Filebo, che non può esservi intelligenza
genz-anima. I punti cnt)itali della cosmogonia del Timeo sono questi due: T
origine del mondo nel tempo, e un principia iot'^lligetite, separato da esso e
distinto dairanima il demiurgo, che l'ha prodotto: ora nell'uno e nell'altro
punto il Timeo è in contraddizione col complesso dell'opera platonica. In
quanto al Dera-urgo, esso non si trova che nel solo Cosi nel Sofista e nelle
Laggì gli elementi sono prodotti dnU'anima. Quando verremo alla spiegazione del
significato del mito, si vedrà perchè è al soggetto degli elementi che si manit'esta sovratutto la contraddizione
inerente al concetto I una Y^veot-C
antenore alla formazione del mondo e, per conseguenza, alla partecipazione
della materia alle Idee. Timeo: di più le dottrine esposte negli altri scritti
di Platone non Usciano alcun posto per un Dio tsascend^'ute come il Demiurgo
del Timeo, Certamente la dottrina costante di Platone è che la divinità è la causa prima di tutto ben
inteso, considerando il tutto come un complessD di fenomeni, e la causazione
come un rapporto tra questi fenomeni; ma la divinità none, per lui, ch6 Tanima
cosmica. Secondo le Leggi ciò che prova l'esistenza della divinità è che il movimento di ciò che muove
se stesso cioè delPanima è il principio di tutti i movimenti; e che, per con»<ogueiiza, le cose che appartengono air anima, come
rintelligenza, la preveggenza, Tart^,
ecc., sono anteriori a quelle che appartengono ai corpi, e Tauima è la
causa prim i dei beni e dei mali, delle cose belle e brutte, giuste ed ingiuste,
e, in una parola, di tutt^ le cos« . Nel Fitebo, Tintelligeazaè T uno dei
quattro generi in cui gli esseri sono stati divisi, quello che è la causa di
tutti gli altri: ma c-'sa non è che una facoltà delT anima cosmica, perchè la
mente e la sapienza non possono esistere altrove che nell'anima. Nel T'udrò si
dimostra che Tanima non può avere un'origine perchè essa è il principio di tutte
le cose: infatti se il principio venisse da qualche cosi, non verrebbe dal
principio, e alloca non sarebbe vero che tutte le cose vengono dal principio.
Nel Sofida Dio è detto l'autore degli
aniunli, le piante, l'acqua, il fuoci, in una parola, di tutti le così che si
dicono prodotte dalla natura; ma per questo Di) si deve intendere V anima del
mondo, conformemente al principio precedentemente -stabiliio, che
l'intelligenza non può trovarsi 2«4che in uu 'anima. Nel mito del Politico s?
parla pure di un demiurgo del mondo; ma questo demiurgo «ppartieoe al
genere ciò che muove se stesso, va'e h
dire al genere anima. ìicW Epinomide, infine, il mondo è prodotto come nel
Timeo; ma quello che l'ha prodotti non è un dio trascendente, ma Tanìma, quella
stessa che anima il cielo e gli astri e li muove : l'anima è la causa di tutte
le cose, la buona delle buone, la cattiva delle cattive. L'autore deW Epinomide
ò per noi, sino ad un certo punto, indifferente
che esso sfa Platone o uno dei suoi discepoli afferma espressamente che
non vi ha alcun altro essere incorporeo che l'anima; e non riconosce altre
divinità a part*^ le supers'izioni
relative ai demoni aerei, acquei ed
eterei che il cielo e gli astri, cioè le loro anime in effetto, dopo
aver detto che andrà ad esporre le vsue dottrine angli dei, egli non paria che
di questi; il Dio supremo, il Dio per
eccellenza, è il cif^lo o il mondo, che noi dobbiamo ppccialmente onorare e
adorare, com^i fanno fitti gli altri dei e demoni. Ma vi ha di più: il Demiurgo
del Timeo no w è solamente in contraddizione colle dottrioe sulla niente e la
divinità, ma colla stessa dottrina fondamentale di Platone, vale a diro il
sistema delle Idee. Questo esigo che tutto ciò che esiste sia ricondotto alle
Idee; ma non può esservi Idea del
Demiu'-go. Infatti, ammetteremo che egli, creando il mondo, ha creato anche
l'elemento ideale del mondo? Ma allora è un principio sup^ir ore alle Idee.
Ammetteremo solamente ch'egli è stato la causa della individuazione delle Idee?
Ma se, perchè le Idee s'individuassero, è stata necessaria V azione del
Demiurgo, come avrebbe potuto Tldea del Demiurgo individuarsi? Quest'osservazione, sia detto
di passaggio, può servire a mostrare la poca consistenza deiropinione di quei
critici, i quali ammettono che il mito del T/m^oha per oggetto di supplire
alPinsufficienza del sistema, rappresentando d'una maniera fantastica il
passaggio dall'ideale al fenomenico, che Platone non poteva, per i presupposti
stessi della sua metafisica, spiegare
scientificamente. Essi obbliano che quando si è introdotto un creatore
personale del mondo e una materia in movimento preesistente che non sono
certamente delle entità generali si è già fatto questo difficile pa^ssaggio
dall'Idea al fenomeno cioè
airindividuale che si sarebbe trattato di spiegare. Aggiungiamo che, se il
Derainurgo del Timeo fosse un convincimento reale di Platone, esso occuperebbe evidentemente nel sistema,
essendo irriduttibile alle Idee, il posto di un primo principio: intanto
Platone non ammette altri primi principii, prima del sincretismo con le
dottrine pitagoriche, che V Idea del Bene, e dopo, che quest'Idea stessa, cioè
l'Uno, e la materia o Dualità indefinita. In quanto all'origine del mondo nel
tempo, la contraddÌ7.ione del Timeo con gli altri scritti di Platone è sovratutto manifesta al
soggetto dell'anima. La dottrina costante di Platone è che l'anima è, non solo
immortale, ma eterna, ch'essa non avrà mai fine e non ha avuto mai
cominciamento P^i* il mondo stesso, cioè
per il Fedro, Rcp., Meno, F^do, eoo. corpo, la contraddizione non è cosi
aperta, perchè in altri scritti del periodo pitag'oroggiante, come noi Timeo e
per motivi analoghi, la relazioQC tra
l'universo visibile e i principii da cui es9'> deriva è rappresentata
simbolicamente come un'efficienza nel
t-.mpo. Così il motivo principRle, se non Punico, per attribuire a
Platone la dottrina dell'eternità del mondo è che essa è una conseguenza
necessaria dell'eternità delle Idee. Tuttavia questa dottrina si trova d'una
maniera abbastanza esplicita in più
luoghi dei dialoghi, co»ne neìFiltbo, nel Convito, ed è presupposta
nella definizione dell'Idea conser\ataci da Proclo in Parmen. VELIA: la causa
esemplare di ciò che vi ha di perpetuo nella
natura. K^ I discepoli immediati di Platone intendono la cosmogonia del
Timeo in un senso allegorico. Platone, es-ii d'cono, non ignora che il mondo è
eterno e non ha avuto cominciamento; la
genesi de3critta nel Timeo non è che un artifizio di metodo a cui egli
ha ricorso per far comprendere più chiaramente i suoi concetti; la produzione
nel tempo simboleggia l'or.iine logico tra ciò che vi ha nell'essere di
primitivo e ciò che di derivato. Quest'interpretazione è attribuita a Crantore,
a Senocrate, a Le ccMe che ai dicono
essere eternamente constano di uno e di molti e hanno in sé per natura la
tìnità e T intìnità r, carte. Queste cose a
cui si attribuisce l'eternità non sono le Idee pure, ma le Idee già
individuale, perchè qui T"intìnità designa la moltitudine intìnila
degl'individui. La generazione è un che di sempiterno e d'immortale nel genere
mortale Il genere umano è esistito ed esisterà in ogni tempo. Speusippo, e ai
discepoli di Platone in generale. Aristotile la rigetta, e vuole che Porigine
nel tempo sia intera letteralmente: ma è evidente che, in questo caso, l’opinione
dei discepoli fedeli d' Platone, rimasti sino aiPultimo in intimità
intellettuale col maestro, e che ne dividono il punto di vista, deve avere per
noi più peso che quella di un discepolo che ha abbandonato la scuola –
SCHIFFER’S APOSTASY circostanza importante, perchè Piatone ha certamente
scritto il Timeo negli ultimi anni della
sua vita ed è divenuto un acre avversario, e che del resto mostra abbastanza,
per le sue esitazioni e i suoi equivoci nell'interpretazione del sistema delle
Idee, di non essersi mai posto sufficientemente al punto di vista del maestro.
Anche Teofrasto, discepolo d'Aristotile, pensa che forse la cosmogonia del
Timeo deve intendersi nel senso allegorico voluto dai discepoli di Platone. Una
circostanza che dà più autorità alla
loro interpretazione è che anch'essi fanno uso del metodo simbolico del maestro,
rappresentando la dipendenza logica del derivato dal primitivo come un'origine
del mondo nel tempo. Questo per l'origine nel tempo. In quanto all'altro punto
fondamentale della cosmogonia del TimeOy cioè il creatore personale, noi non
abbiamo conci) Arist. De Coelo; Simpl. ad Arist, De Coelo comm. a questo luogo;
Schol, cod, Reg, ed. Brandis; Schol, cod, Coisl. ed. Brandis; Proclo in Tim, A.
ed. Basii.; Plutarco Psicogonia. Teofrasto Fr. ed. Didot. Il luogo indicato
d'Aristotile relativo a quest'interpretazione. Cnelo comincia con queste
parole: Il sussidio ohe cercano di darsi alcuni di quelli che fanno il mondo
incorruttibile ma generato, non è vero. Essi dicono di aver parlato della
generazione del mondo come i geometri che descrivono le figure ^ eco. 1 tro di
esso delle testimoDianze cosi esplicite dui discepoli fedeli di Platone. Ma ia
compenso Aristotile, non solo non conta il Demiurgo del Timeo tra i principii
della filosofia platonica, ma non dice mai una parola che gli si rif-risca:
anzi le sue parole implicitamente escludono resistenza di questa dottrina o
altra simile tra quelle del suo maestro. Se Platone e la sua scuola avessero
preso il Demiurgo sul serio, sarebbe un obblio in molti casi assolutamente
inesplicabile, per esempio quando è qui8ti'>ne della eausa etficiente in
Platone o de! perchè della partecipazione alle Idee, come in De generaf. et
corr., Met. Il silenzio d'Aristotile è tanto più significante che, se il
demiurgo dove riguardarsi come una dottrina reale di Platone, esso non
costituirebbe un semplice accessorio, Chiapponi crede ohe Aristotile alluda al
Demiurgo del Timeo in Met,, con le parole: T( y^P ^oit xó IpyaJófisvov Tzpòz
T:à€ ESéag ànopXsTiov; che egli traduce con quejàte: Che cosa è quest'artefice
che contempla le Idee? e parafrasa con queste altre: che vale il dire ohe vi ha
un demiurgo il quMe opera secondo gli eterni paradimmi ohe gli stanno dinnanzi?
Ma bisogna tradurre invece: ohi è che opera guardando le Idee? e il senso è,
non, come vuole Chiapponi, che Tartefice che contempla le Idee non vale niente,
ma che vi ha bisogno di un'artefice che contemplasse le Idee. È ciò che prova
tutto il contesto. Aristotile vi dice: Dire ohe le Idee sono degli esemplari
non spiega come le cose ne vengano, e non è ohe un vaniloquio e una metafora
poetica, poiché bisognerebbe per ispiegare come la cose vengano dall’idee
qualcuno che guarda l’idee e fa le cose a loro imitazione. In effetto, continua
Aristotile, la semplice esistenza d’un esemplare non può essere la causa d’una
cosa essere o divenire simile a quest'esemplare, una cosa potendo egualmente
essere o divenire simile ad un'altra tanto se questa esiste quanto se non
esiste. ma una parte principale del sistema, speci ilmente nelrinterpretazione
trascendentalista, in cui sarebbe la sola soluzione che questi avrebbe tentata
del problema della partecipazione cioè della somiglianza delle cose alle Idee.
Infine, ch^ la cosmogonia del Timeo non sia che una semplice allegoria, è ciò
che V autore stesso ci fa comprendere assai chiaramente. Così Timeo fa
precedere il suo racconto da questo proemio: In ogni cosa il punto principale è
di comiaciare con un cominciamento conforme alla natura. Bisogna, rispetto air
immagine cioè al mondo sensibile e al modello le Idee, fare una distinzione,
cioè che i di-jc^rsi devono avere dell'aifìnità con gli oggetti di cui
trattano; co4 quando si pirla di un oggetto stabile, solido ed evidente le
Ilee, occorrono dei discorsi stabili ed inconcussi, che, per quanto è
possibile, non possano essere scossi né confutati, e non lascino nit^nte a
desiderare sotto questo ripporto; ma quando si parla invece di ciò che è fatto
a somiglianza di quello e non é che un'immagine, bastano dei discorsi
verisimili e proporzionati a qa<*lli cioè che siano a quelli nella stessa
proporzione in cui Timmagine è al modello. Come il divenire è aire-^sere,
cosila fedeèalla verità vale a dire, come il fenomeno il divenire è un'immagine
dell'Idea dell'essere, cosi la fede cioè, evidentemente, la credenza che ha per
oggetto un discorso verisimile, come quello ch'egli fa suirorigine del mondo è
un'immagine della verità. Se dunque, o Socrate, dopo che tanti hanno detto
tante cose sugli dei e sull'origine dell'universo, io non posso proferire un
discorso rigoroso e del tutto coerente con se stesso, tu non devi esserne
sorpreso; se non è meno verisimile che alcun altro, si deve esserne contenti,
ricordando che io che parlo e voi che giudicate siamo degli uomini, sicché su
queste cose conviene appagarsi della verisimiglianza del milo |iu8o€, e non
richiedere di più. Questo carattere allegorico del racconto cosmogonico di
Timeo Piatone lo fa intravedere tanto sul Tuno quanto sull'altro dei due punti
capitali di questo racconto il Demiurgo e V origine nel tempo. e Timeo dice: E
difficile di scoprire Fautore e il padre di quest'universo, e scopertolo, è
impossibile di parlarne a tutti. Le ultime parole sono un'allu-iione evidente
alla massima pitagorica che tutto non è da dirsi a tutti significano che ciò
che Timeo dice del padre e dell'autore dell'universo questi appellattivi, nel
Tirrno^ designai)0 naturalmente il Demiurgo none che exoterico^ cioè non è che
un'espression» popolare di una dottrina rrcondita, su cui Timpo intende
mantenere il secreto verso i non iniziati. Il luogo e' tato: P] quello che
aveva ordinato tutte queste cose resta nel suo stato, secondo la sua abitudine,
indica pure che la rappresentazione antropomorfistica del Timeo del principio
creatore e della sua azione creatrice non è che un simbolo. Esso significa
infatti che un'azione che si svolge nel tempo, o poiché il tempo si dice creato
dal Demiurgo che implica la successione e il cangiamento, è in contraddizione
con la natura di questo principio, a cui compete, invece di una tale attività,
la permanenza nello stesMo stato, l'immutabilità, che è l'attributo delle
entità della metafisica platonica. Un'altra indicazione che ArÌ9tos36ne ap
Diog. Notiamo col Martin ohe la frase greca è ambigua: essa può significare o
che il creatore resta nello stesso stato mentre pròduce il mondo, o che vi
ritorna dopo aver agito nella prodazione del mondo Martin Timeo.
Quest'ambiguità potrebbe essere voluta: il secondo senso corrisponde al
significato apparente del mito, il primo al recondito. il Demiurgo non deve
essere preso alla lettera, è la sua scomparsa là dove Platone parla, non più da
mitologo, ma da filosofo. Ivi egli non ammette che tre cose, Vesaere le Idee,
il luogo e la genesi: il Demiurgo è assente da questa classificazione generale
degli esseri, e non può trovarvi alcun posto. Anzi la restrizione del
significato della parola essere alle Idee esclude nettamente la possibilità di
un'esistenza qualsiasi irriduttibile alle Idee, come sarebbe, il Demiurgo. Di
più nel primo dei due luoghi indicati l'Idea è riguardata come la causa
efficiente e il padre dell'u^iiver^o sensibile, prendendo cosi il posto del
creatore personale. Aggiungiamo, infine, l'avvertenza di Timeo ch'egli non
parlerà del principio o dei principii di tutte le cose, perchè ciò non gli è
permesso dal metodo se;i'UÌto nel suo discorso: è evid'^nte eh, se il Demiurgo
fosse una dottrina reale, sarebbe il principio, o uno dei principii, di tutte
l«» cose. Il carattere simbolico delT origine del mondo nel tempo, poi, è
indicato della maniera più chiara, in cui il tempo, creato dal Demiurgo, è
chiamato «immagine eterna dell'eternità >>il tempo è la condizione di ciò
che cangia, l'e'ernità di ciò che è esente dal cangiamento. Questo luogo deve
mettersi in connessione con quello che viene un po'dopo, in cui si dice che il
tempo ò nato insieme col mondo, e che il modello cioè le Idee è per tutta la
eternità, e il mondo è esistito, esi4e ed esisterà per tutto il Notiamo però
che Timeo non vuol dire ch'egli non parlerà affatto dei principii delle cose;
infatti soggiunge che si limiterà, come disse al principio, al discorso
verisimile, indicando cosi che è secondo la loro natura roalo ch'egli non ne
parlerà, ma che, benché non ne dirà il vero, ne dirà il verisimile. tempo.
Dicendo che il tempo e, per coasegueiiza, il mondo sono eterni e non per tanto
creiti, Plato le significa anche il sen-»o reale del simbolo, cioè una
processione ab aeterno, ìq cui tra le erse procedenti e il principio da cui
procedono Tanteriorità e posteriorità non è che logica. Si é creduto che
Felemento rappresentativo della cosmogonia del Timeo consista unicamente nella
produzione nel teuapo, e che il contenuto filosofico del m^to sia, per
conseguenza, che il mondo procede eternamente da Dio, cioè da un'intelligenza
creatrice. Ma questa interpretazione prima di tutto lascia intatta la
difficoltà principale. Se il mondo t'osse creato da Dio, [questi creerebbe
anche le Idee, perchè esse non sono che l'elemento permanente e sostanziale del
mond^. Ma noi non possiamo ammettere che le Idee sono create: primo perchè,
secondo Timeo esse preesistono, come paradigmi, alla creazione cronologicamente
se la creazione nel tempo deve prendersi alla letera, logicamente se essa è il
simbolo di una processione ab aeterno poi perchè le Idee sono per Piatone le
cause ultime, e i loro elementi i principi! ultimi, delle cose; e infine perchè
ciò che è necessario non può essere creato, e Pldea è necessaria, di questa
necessità assoluta che consiste in ciò che la sua non esistenza è logicamente
impossibile e implica Il luogo del Tiìneo in cui si stabilisce che il mondo è
un'immagine è tradotto cosi da CICERONE: ex quo effìcitur ut flit necesse huuc,
quem oernimus, mundum, simulacrum aeternum esse alieuius ((eterni y,. CICERONE,
iJe univers, Le parole aeternitm e<l aeterni non hanno le loro
corrispondenti nel testo greco, almeno in quello che noi possediamo. Noi non
sappiamo se CICERONE le legge nel suo testo; ma ad ogni modo il pensiero
espresso nella sua tradazione di questo luogo non ò ohe quello implicitamente
contenuto e. contraddizione. In questa interpretazione inoltre restano ancora
tutte le difficoltà relative al Demiurgo: la impossibilità di un essere che non
si risolva in Idee; il silenzio d'Aristotile; le opinioni di Platone sulla
divinità; il principio che Pintelligenza non può trovarsi che nell’anima; ecc.
Ma oltre alle difficoltà che la creazione ab aeterno con un creatore personale
ha in comune con quella nel tempo, essa ne ha un'altra che le è particolare.
Platone non conosce altra causazione a parte l'anteriorità e posteriorità tra
le Ide»», che non potrebbe chiamarsi una causazione che in un senso analogico
che quella che avviene nel tempo ed è una successione. Per lui, come per
Aristotile, causa efficiente, vuol dire causa motrice; e la causa prima, il
primo motore. L'anima è la causa prima di tutte le cose, perchè essa produce il
movimento primitivo, da cui vengono tutti gli altri, e tutti i cangiamenti
dipendono dal movimento. La dottrina sulla causalità dell'anima, che è la sola
causa iperfisica nel senso proprio della parola causa che noi possiamo con
prove attribuire a Platone, ci mostra anche che egli concepisce le cause al di
là dell'esperienza, più che è possibile, sul tipo di quelle dell'esperienza; la
maniera in cui Pani ma produce il movimento essendo assimilata ai casi più
familiari di produzione del movimento che Platone, è vero, fa produrre le Idee
le une dalle altre, e tutte, in definitiva, dall'Idea del Bene; ma ciò non
toglio che ogni Idea sia senza causa esterna ed esista per se stessa, perchè
l'Idea producente è immanente nelle Idee prodotte, e per conseguenza queste hanno
in se stesse la ragione della loro esisteaza. Filebo e Sof. Leggi. [ ci
presenta l'osservazione, poiché essa non metto in movimento i corpi che per la
comunicazione del proprio movimento. Interpretando la cosmogonia del Timeo
corno una creazione ab ae(er>no, noi attribuiremmo dunque a PJaton'ì dei
concetti sulla causalità che gli sono assolutamente stranieri e che del resto
noi non potremmo attribuire ad alcun filosofo d Ila sua epocao di un'epoca
vicina, non comparendo essi nella storia della filosofia greca che coi
neopitagorici e i neoplatonici. Un grave inconveniente di questa
interpretazione è poi di attribuire a Platone u»»a doitrina chVgli non ha mai
esposta apertimente, (ioè svestita dalla sua forma simbolica. Evidentemente noi
dobbiamo cercare nel contenuto filosofico del mito di 7/mf>o una dottrina
che noi sappiamo gìh essere appartenuti certament • n Plotone:
un'interpretazione che non soddisfa a (ju-sta con-h'zione, nrn solo è poco
sicura, ma è intrinsecamente inverosimile, non essendo ammissibile ch'egli
abbia esposto solamente sotto la forma enigmatica del simbolo una dottrina
tanto importante quanto è quella contenuta nel mito del Timeo, che ha Fenza
dubbio per oggetto le cause ultime dell'universo. I risultati a cui si*imo già
pervenuti ci indicano in qual dìrc'/Aone bisogna cercare. Non potendo trovarci
nel Timeo né la dottrina di una creazirne nel tempo, né quella di una creazione
ab atferno, ne segue che non può in a'cun modo trovarvs" la doitrina di un
creatorevaie a dire di un creatore personale e che, per conseguenza, il
Demiurgo del Tiìneo non può essere che la personificazione di un principio
astratto. Di più l'azione del Demiurgo |er la produzione del mondo non pot-ndo
realmente in-en-h r-'i e aiie un'efficieiua nel tempo, e non potendo nemmeno
r«ppi esentare un'effioienza senza idea di successione che è un concetto
straniero a Platone e alla sua epoca; ne segue che noi non possiamo vedervi in
alcun modo un'efficienza causale nel senso proprio del termine, e che essa
perciò non può essere che il simbolo di questa efficienza causale in un senso
analogico, che nel sistema delle Idee è denotata coi termini tecnici
anteriorità e posteriorità. Ora non vi hanno che due ipotesi che corrispondano
a queste condizioni: o il Demiurgo rappresenta le Idee nel loro complesso, e la
massa in movimento disordinato anteriore alla creazione la materia delle cose
priva della pariecipazione del'e Id^e; ovvero essi rappresentano i due
princip'i o elementi delle Idee e delle cose, cioè il primo il Bene o Uno, e
l'altra la materia delle Idee e delle crs) o Dualità indefinita. Ma di queste
due ipotesi la prima deve escludersi, perchè il Demiurgo non sarebbe una
rappresentazione conveniene del mondo ideale. Esso non lo potrebbe essere che
se le Idee fossero pensieri, ciò, che data la loro immanenza, non potrebbe
avere altro senso che l'identità dell'essere e del pensiero: ma questa è una
dottrina, come spiegheremo altrove, che non possiamo attribuire a Platone.
Resta dunque la seconda ipotesi. Platone ci dà nel Timeo una spiegazione
teleolrgica del mondo. La teleologia di Platone è una teleologia immanente^ la
cau^^a della finalità deUe co'^e essendo un principio astratto risiedente nel
C, cose stesse: ma questa teleologia diviene nel Timeo una teleologia trascendente,
nella quale, cioè, la finalita interiore deIle cose appariFce l'elfcttuazione
del piano d'un fig'nte personale. L'ai Supplem. legoria del Timeo consiste
dunque essenzialmente in ciò che la causa impersonale e astratta del bene, cioè
Tldea stessa del Bene, è rappresentata come una causa concreta e personale.
Questa personificazione dell’Idea del Bene non è un semplice giuoco
deirimmaginazion^, ma ha per Piatone un alto valore didattico e infatti
Aristotile e i suoi commentatori ci rapportano che, secondo i discepoli di
Platone, questi ha rappresentato il mondo come creato in grazia
dell'insegnamento, JtfiaoxaXCag yL^P^ Per dilucidare Tldea del Bene, cioè il
concetto teleologico, ch'egli pone alla base della spiegazione del mondo,
Platone ricorre ad una similitudine. Egli dice: l'universo non ha la ragione
della sua esistenza che in se stesso, nella sua necessità interiore; ma,
considerato nel tutto così bene che nelle parti, esso é costituito come se
fosse Pattnazione di un disegno intelligente; per conseguenza, siccome la causa
dell'esistenza di ciascuna cosa e di tutte le sue proprietà écome è detto nel
Fedone che il meglio è che essa sia e sia tale, noi dobbiamo, per comprendere
il perchè di una cosa e della sua maniera di essere, immaginare che questa cosa
è 1'opera d'un autore intelligente, e spiegare il disegno sapiente secondo cui
è stata formata. Il carattere delPallegoria essendo di trasformare l'astratto
in concreto, anche l'altro principio diviene nel Timeo da un'entità astratta,
una realtà concreta, ed è rappresentato perciò come una materia determinata
preesistente a cui si applica l'attività del Demiurgo La materia premondana del
Timfo, priva delle Idee e in un movimento confuso e disordinato, è una
rappresentazione assai chiara dell'elemento materiale nella sua doppia funzione
di materia delh cose, qnella che Platone identifica allo spazio, e di materia
delle Idee e, per conseguenza, anche delle cose stesse -perchè questo è, come
d'ceTeofrasto Met. rinforme e il disordinato: questa mnterìa è rappresentata
come agitata da un continuo movimento, perchè uno dei concetti che entrano
nella significazione del principio materiale è il movimento, per cui Xenocrate
chiama, come abbiamo detto, questo principio àsvaov sempre fluente, e lo
simboleggia per l'anima. Nella genesi premondana del Timeo possiamo pure
trovare rappresentati tutti gli altri concetti della ouoxoix^a dell'infinito:
essa è l'tìTieipov, sia nel senso qualitativo, cioè d'inde fim7o perhè non vi
era in essa alcuna forma definita sia nel senso proprio e quantitativo perchè
la variabilità in essa era illimitata oltre alla divisibilità all'infinito
della materia e del movimento; è l'Ineguale, il Diverso e l'Anomalo, perchè
allora non vi era la ripetizione costante delle stesse forme, come nell'attuale
Ari-it. De Coalo, Simplic, SchoL cod. Heg, e Schol, rod. Cohl., i l indicati
neUa nota a carta. pure il l. di Plutarco Piicog, Suppiem. carta. nel mito del
Politico che e più ancora ricorda evidentemente il mito del Timeo le parole: Il
dio che 1'ha formato non volendo che il mondo per la degenerazione progressiva
dalla primitiva imitazione pia esatta del governo del suo demiurgo e padre si
dissolva e s'immerga nel luogo della dissomiglianza che è inJlnitOj ritornato
al governo di esso ecc. Il luogo infinito della dissomiglianza in cui il monio
s'immergerebbe per la sua dissoluzione, è quello stesso in cui era immerso
anteriormente alla sua formazione cioè alla formazione del cosmo. mondo
ordioato; è il principio del male, perchè i) male, nel mondo attuale, è una
sopravvivenza del disordine primitivo, che il Demiurgo non ha potuto che
incompletamente ricondurre all'ordine; è il Non essere, perchè questo equivale
alla stef-esi, cioè alla GRICE NEGATIO ET PRIVATIO privazione della forma;
infine è la MoUiplfcità senza unità, perchè Tunità, Tindividualità, è
costituita dalla forma. Se Tuno dei due principii del mondo che compariscono
nel ThneOj cioè il Demiurgo, rappresentasse le Idee, l'altro dovrebbe
rappresentare, come abbiamo detto, la materia delle cose ciò che si aggiunge
alle Idee per costituire le cose, cioè, come si ammette già in questo dialogo,
la semplice estensione: ma in questo caso esso non comprenderebbe tante altre
determinazioni oltre all'estensione, e non sarebbe la genesi precosmica che ci
descrive Timeo. Questa interpretazione, indicataci dalle considerazioni
generali precedenti, è confermata da un esame particolareggiato del t«»sto. Il
significato del simbolo traspare abbastanza chiaramente dal cominciamento del
racconto di Timeo. Diciamo per qual causa il costruttore della genesi e di
quest'universo li ha costruiti. Esso era òwono, e nel buono non vi ha mai
invidia di alcuna cosa; straniero a questo sentimento, volle che tutto fosse,
per quanto era possibile, simile a se stesso. Quegli che da uomini sapienti
accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accett<»rà
giustamente. In il Politico. Tim. e Polit. L'efficienza dell'Idea del Buono è
di rendere le cose simili a se stessa, tiuesla essendo in generale la causalità
dell'Idea. ft 11 il effetto, volendo Dio che f(»^se tutto buono e niente vi
fo-se di cattivo, per quinto era possibile; trovato tutto ciò che era visibile,
non queto, ma agitato da un movimento confuso e disordinalo, dal disordine lo
ridusse all'ordine, stimando che questo era meglio. Ora non era né è possibile
aìVottimo fare altro che il più bello. l'autore dell universo cioè il demiurgo
è chiamato l’ottima delle cause; e l'ottimo degl’esseri eterni (àst ovxow) e
intelligibili. Quest'ultimo luogo è decisivo, perchè d’una parte gl’esseri
eterni (àel ovTa) e gl’esseri intelligibili significano nel linguaggio abituale
di Platone, le Idee; e d’un'altra parte, il massimanumte buono OTTIMO PARETO è
per lui l’idea del buono, il supremo grado di un attributo spettando all'Idea
stessa corrispondente all'attributo. In tnt'o il racconto poi l'aspetto del
Demiurgo che Timeo motte in rilievo, è che esso è la causa d(»l bene, cioè
della finalità dellf cose: esso è essenzialmente, com'è chiamato, il demiurgo
deir ottimo PARETO e del più bello, perchè questo è il punto di coincidenza con
l'Idea del Bene, su cui l'allegoria è fondata. Le immagini con cui l'Idea del
Bene è rappresentata nel Timeo non sono senza esempi negli altri scritti di
Platone. Nella Rep. Dio ha generato l'Idea del letto, e per questo Dio non
possiamo intendere che l'Idea del Bene, perchè è e^sa che dà h,\U altre Idee
l'essere e la i Tiiiì, e, Fedone eco Titn. Jx'ep, Fedone, ecc. Arisi. FAh, Xu;
Fth. Kud. Vili. IH, Mor. T. TU, Timeo, ecc. essenza Itep. e le Idee non hanno
potuto essere prodotte da un dio propriamente detto, cioè da una causa
personale. il B5ne è detto il padre del sole, e implicitamente perciò di tutto
T universo visibile. Nel Tee.teto «vi hanno du'^ paradigmi nell'essere, Tuno
divino e felicitisi mo, Taltro senza Dìo e miserrimo. Questi due paradigmi sono
senza dubbio le due Idee universalissime, cioè i due elementi, perchè Platone
riguarda l'universale come un paradigma rapporto ai particolari che gli sono
subordinati. Anche Xenocrate rappresentava 1'Uno o il Bene per Tintelligenza, e
lo chiama Giove, il primo dio e padre degli dei padre degli dei è detto il
Demiurgo nel Timeo. Non bisogna dimenticare che il nome di Dio dato all'Idea
del Bene none che una semplice metafora una metafora è il germe d'un'allegoria,
perchè, quest'Idea essendo l'essenza o la forma comune di tutti gli esseri,
essa non potrebbe identificarsi con Tintelligenza senza ammettere questa
proposizione priva di senso, che la forma o Tessenza comune di tutti gli esseri
è Tintelligenza; e quand'anche nelle Idee platoniche si vedessero i pensieri
della divinità, l'Idea del Bene sarebbe uno dei pensieri divini, ma non la
divinità stessa che è il soggetto di questi pensieri. Ma ciò che non la-»cia
alcun dubbio sulla nostra inter Prima ha detto: è necessario che vi sia sempre
qualche cosa contraria al Bene; ciò che è un'alt ja prova che, all'epoca in cui
scrive il TeetelOy Platone ammette già la dottrina dei due prinoipii opposti La
qualitìoa sentir Dio data al principio materiale e privativo ha un equivalente
nel Timeo, in cui della genesi anteriore alla formazione del cosmos si dice che
essa si trova nello stato in cui deve trovarsi ciò da cui Dio è assente. Stobeo
EcU Phys., rrctaz'ore è che eFsa è quella dei discepoli immediati dì Platone.
Secondo Simplicio ad Arist. De Coeìoì. Xenocr^te e i platonici in generale
dicono che per la produzione deiruniverso, nel TYmco, non deve intendersi una
produzione nel tempo, ma che essa ha per oggetti d'indicare Tordine d»lle cose
che nell'universo sono più prime e più composte. Le cose più prime vuol dire i
primi principii; in esso, che questi prinMpii non sono del'e cause esteriori,
ma inerirle mo n », l mìniis'jessoinfine rop,)o<i^ioie tri le cos», più
prime e le più composte è la prova più chiara che essi Sino gli elementi di
tutte le cos', cioè TUno e la Dualità indettai ta. Questa interpretazione é
attributi aXeiocrate anche n '.Hi Scolio cod. Coisl.: Platone, facendo il mondo
prodotto, non ha inteso parlare d'uia prò luzoiie reale, rna «in gra^'a
deirinsegnamento ha detto che il moad) è stato prodotto dalla materia
preesistente e dall'sldos. Qui i princpi del mondo di cui si tratta nel Timeo,
sono idt^.nt'fieati con r slSog e la materia: V sleog e la materia sono, U
sappiamo, 1'Uno e la Dualità indefinita. Più esplicita ancora è la
testimonian/a di Teofrasto snllMdentità dt^l, Demiurgo con l'Idea de) bene:
Platone dopo che alla filr»8ofia prima si diede alla storia della natura, e
ammise due principii, V uno come materia il 7iav5£X£s, 1'altro come causa e
movente, e a questo dà la natura di dio e del bene Fr. Teofrasto sa che il
Demiurgo deve identificarsi con rid»a d^l bene, ma prende sul snMo il
simbolismo del Timeo. Altrove Me/. Teofrasto st^isso sembra identificare la
genesi anteriore al mondo con la Dualità indefinita, perchè, dopo aver detto
che Platon3 ha ammesso due principii contrari!, TUno e la Dualità indefinita, e
che questa è l'infiaito, Tinform'^, il disordinnt^, soggiunge: per cui Dio non
potrebbe tutto ricondurre -. air OTTIMO PARETO, ma solo per quanto gli è
possìbile. Queste parole alludono evidentemente ai concetto, tante volte
ripetuto nel Timeo, che il Demiurgo non ha potuto, per la resistenza della
materia cioè della massa in movimento disordinato che gli è servita di
materiale nella costruzione del mondo -attuare il bene chu d'una maniera
iQcompleta. Quest'identificazione della genesi premondana del Timeo con la
Dualità indefinita spiega pure il fatto che questa in un preteso scritto di
Pitagora è chiamata anche Chao^, perchè le proposizioni attribuite a Pitagora
sulla Daalità indefinita non sono che quelle di Platone e i platonici. Nella
crea/ione del mondo nel Timeo, coi Demiurgo concorrono gli dei generati.
Bisogna perciò distinguere nel mito due parti, quella che si riferisse al
primo, e quella che si riferisce ai secondi. Nell'una Tallegoria consìste tanto
nella creazione nel tempo quanto nella natura personale attribuita all'uno dei
principii delle cose. Nell'altra invece la concezione delle forze creatrici
come persone non è una semplice allegoria, e questa si riduce in sostanza a
rappresentare come avvenuta in un punto del tempo, all'origine delle cose,
l'azione continua della divinità n^l governo del mondo. Il significato reale di
questa parte del mito non è dunque che la dottrina conosciuta di Platone, che
la divinità, cioè V anima del mondo, é la causa prima di tutti i fenomeni. La
parte che nella creazione spetta al Demiurgo e quella che spetta agli dei
generati sono nettamente delimitate: questi creano ciò che ua-ce e periscp,
quello ciò che è im V. i 1. indicati a carta Siriano citato in ZeUer Filoz, dei
Greci ed. . peribile e, per conseguenza, eterno questa distinzione è formulata
as.«ai charamente nell'allocuzione del Demiurgo agli dei Venerati. L'oggetto principale
della ccsmogrn'a del Ti^nco di dilucidare la crncfzione teleologica del mondo.
In Plafone vi hanno, come nota giustamente Janet, due teorie della finalità:
l'una Immanente, che suppone una causa impersonale la partecipazione dell'Idea
del bene, l'altra trascendrnte, che suppone una causa personale. La prima
abbraccia nella sua spiegazione tutto ciò che es'ste; la seconda non si applica
che a ciò che ha un'origine nel tempo, perchè la causa personale ch'essa
suppone è 1'anma, e lefficienza di questa si svolge nel tempo, Platone non
avendo ancora l'idea di una causa efficente o jroduttr.ce, nel senso proprio
dei termiui, che non preceda nel tempo la cosa prodotta. Siccome il concetto di
ui:a finalità tra<5cendente è più chiaro che quello di una finalità
immanente, cosi Platone si serve del primo per rischiarare il secondo. Di là la
finzione del Demiurgo. Ma questa causa personale fittizia non viene adibita che
per ciò che l'anima non può produrre: prodotte le cose eterne, e tra esse
l'anima, l'opera del Demiurgo è terminata, perchè con l'anima si ha già,
all'oggetto di rischiarare il concetto teleologico per l'intn duzione di cause
personali, una causa reale, e non si ha più quindi bisogno di una causa
fitiizia. Pt r lo scopo di Platone una causa reale vai meglio di una fittizia,
perchè con essa la spiegazione teleologica delle cose viene, non solo resa più
chiara, ma anche confermata, il principio che le cose procedono da una causa
intelligente avendo, secondo Platone, come noi vediamo nel /^^e/one, per
conseguenza necessaria qneDo delle cause fin«lf. I motivi per cni Platone nel
Timeo preferisce di esporre le sue dottrine sotto nna forma simbolica, Fono di
due ordini: gli uni tcngoco alla finzione che l'espositore è un filosofo
pitagorico, gli altri alla natura stcesa di queste dottrine. Timeo, facendo il
mondo generato, parla da pitagorico. I pitagorici, e in generale tutti i
filosofie i teologi prima di Platone, parlano dfl mondo come originato nel
tempo, e ne descrivono la formazione II modo di esposizione del Timeo é dunque
richiesto anzitutto dalla verisimiglianza della finzione di questo dialogo:
Platone espone i suoi concetti sui principii delle cose sotto la forma
tradizionale del racconto cosmogonico, sia per conformarsi alle dottrine della
scuola a cui appartiene il personaggio da cui fa esporre que;>ti concetti,
sia perchè questa forma è come una marca della veneranda antichità, e le
dottrine, ch'egli attribuisce a TIMEO, provengono, a quanto pretende Platone,
da una tradizione antichissima. Ma lo scopo di Platone non è semplicemente di
dare alla sua finzione una più grande verisimfgiìanza storica: facendo
trasparire chiarameate il carattere puramente exoreri^o ed allegorico del
racconto cosmogonico di Timeo, Piatone in^eade al tempo gtesso indicare che la
cosmogonia dei Pitagorici non è che un'espressione exoterica di una dottrina
più filosofica; che essi hanuo reilmente ammessa, cime lui, Teternità Filebo
Non bisogna dimantioare ohe le finzioni drammatiche dei dialoghi platonici non
sono deUe semplici finzioni poetiche, ma l'autore intende attribuire realmente
ai personaggi di questi dialoghi le dottrine ch'egli mette loro in bocca. del
mondo noi sappiamo ch'egli pretende stabilire Tidentità delle dottrine degli
antichi pitagorici con le sue proprie; e che l'orìgine dell'universo nel tempo
è per essi, come p»T lui, un simbolo significante la processione ab aeterno
delle cose dai loro principii. L'ogg'itto principale d»lla cosmogonia del Timeo
è di dare una spiegazione teleologica del monlo. Il concetto teleologico era
sconosciuto ai Pitagorici; ma data l'importanza di questo concetto nella sua
filosofici, egli noa può rinunziare a ritrovarlo anche in quella degli antichi
Pitagorici, di cui vuole stabilire r identità con la propria. I Pitagorici insegnano
che tutto è stato prodotto da Dio. Platone prende per punto di part^nzi
quest'Idola a-xe^soria della loro cosmogonia, ne fa l'idea prlncpale, la
sviluppa facendola servire di base a una concezione finalistica dell'universo,
e trasfigurata cosi la cosmogonia reale dei Pitagorici, l'attribuisce ai
discepoli fedeli dei preiecassori di questi Secondo Stobeo, Pitagora dice il
mondo generato par un artifìcio logico xax'èJltvoCav, ma non cronologicamente
xaià XP^ Ciò vaol dire, come bene spiega Zeller, che i Pitagorici, parlando
dolla formazione del mondo, non hanno voluto insagnare che la dipendenza logica
del derivato riguardo al primitivo, e non un'origine nel tempo. Stobeo riporta
anche un frammanto. cartamante apocrifo, di Filolao, che afferma che il mondo è
esistito sempre, e molti autori antichi attribuiscono a Pitagora questa
dottrina Zeller Jh'ilos. dei Greci. Che l'opinione, secondo cui l'origine del
mondo nel tempo, di cui hann u parlato i Pitagorici, non è una dottrina reale
di questi filosofi, esista gi^i all'epoca di Aristotile, risalta dal luogo
della Met. Né vi ha \^ojri a dubitare se i Pitagorici facciano o no la
generazione; dicono infatti chiarameate y, ecc. Filolao dice ohe Dio ha fatto
il limite e l'illimitato. Siriano in Afet. SchoL 1 filosofi, interpretandola
come un semplice simbolo dì una speculazione superiore, il cui contenuto
coincide con le sue proprie dottrine sui principii delle cose. Fors'anche Timeo
non è, nell'intendimento di Platone, il rappresentante soltanto del pitagorismo,
ma di tutti gli antichi filosofi e teologi, che avevano attribuito alla
divinità o alla mente o ad un altro principio analogo la prima origine
deiruniverso; e il Demiurgo del Timeo noi corrisponde solamente al dio creatore
dei Pitagorici, ma a tutto ciò che Platone trova nelle tradizioni dei Greci e
dei barbari suscettibile di essere interpretato -secondo il metodo arbitrario
d'interpretazione che gli ò propriocome un'allegoria dell'Idea del bene. È a
ciò che fa pensare Aristotile, quando dice che, se si tien dietro al pensiero
d'Anassagora, nella sua conseguenza logici, piuttosto che a quello ch'egli ha
espressammte detto, si riesce a fargli amm3ttere per principii V’Uno
corrspondente al Nous e la materia indegnità, come i platonici; quando assimila
lo stesso Anassagora ed Empedocle di GIRGENTI questi persihe ha posti
l'Amicizia tra gli elementi e Ferecide con altri teologi e i Magi ai platonici
che ammettono il Bene come principio; quando attribuisce non solo ad
Anassagora, ma ad Ermotimo, a Parmenide di VELIA ed Esiodo perchè entrambi
pongono, egli dice, come principio l'Amore e ad Empeiocle di GIRGENTI di
amin3ttìre p^r principio la causa del bene ed anche, in un certo senso. Si
notino le parole del Timeo dopo avere spiegato il motivo per cui Dio ha creato
U m3ado (oioj la parte sipaziona della sua bontà: Qaegli che da uomini sapienti
accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accatterà
giunta n ante. Met. Met. il bene in se slesso. Visto lo sforzo di Platone di
ritrovare i su'>i concetti nelle tradizioni dell'antica sapienza, quenti
ravvlc namenti delle dottrina dei suoi predecessori con le sue proprie si
troveranno certamente più naturali in lui che in Aristotile. Il principio del
bene non potendo essere, secondo le sue idee sui rapporti della propria
filosofia col passata, affatto ignorato dair antichità, egli ve lo trova
involto in oscuri simboli. Dire che Dio o l'intelligenza o qualche altra cosa
di simile è il principio delle cose è, al suo punto di vista, affermare
implicitamente la d xtriiia della finalità; di più, le cosmogonie degli antichi
non fot^uido essere intese letteralmente, per il loro carattere evidentemente
mitico e per r assurdità di un'origiu», del mondo uel t.unpo, e quest'origine,
per consegnenza, non potendo significare che il rapporto logico tra i principii
e le cose derivate, le cans». ptTsmali o sem-personali, a cui i Pitagorici e
gli aliri antichi sapienti hanno attribuito la formazione dell'universo, non
possono essere, egli pensa, che delle personificazioni, più o meno coscienti,
di un principio astratto, e questo, non altro che l'Idea del bene. Aggiungiamo
infine che, per la forma simbolica ed exoterica del Timeo, Platone vuol
mostrare eh' egli si accoria con gli antichi Pitagorici, non meno per il fondo
dello dottrine, che per la f<)rma esteriore della lo^o esposizione. Il
carattere estremamente paradoss astice della filosofia pitagorica, unito alle
altre ragioni acni abbiamo accennato al principio di questo numero, hanno
dovuto far nascere bei presto l'idea che le dottrine conosciu'^^e dei
Pitigorlci noi eraio che dei sìmboli di spe Met, Carta . Uir culazioni più
alte: Platone dove farsi promotore dì quest'opinione, s'egli voleva
giustificare la sua interpretazione del pitagorismo, tendente a indeutificare
questa filosofia con la propria. Esponendo le proprie teorìe sotto il velo
deirallegorìa, egli usa dunque un processo, che fa parte del concetto che si
aveva e che egli voleva che si avesse del pitagorismo, e si dava cosi anch'esso
l'aria di un pitagorico. In quanto ai motivi dipendenti dalla natura stessa
delle dottrine, noi vi abbiamo in parte accennato, attribuendo il modo di
esposizione del Timeo, sull'autorità di Aristotile e dei suoi commentatori, a
un artifizio metodico in graz'a dell'insegnamento (5t5aoxaXCas xapw) dcHa
teoria della finalità. Ma qaesto motivo cosi enunciato perde gran parte della
sua forzi. Il vero si è eh. Platone nel Timeo esprime la teoria della finalità
antropomorfisticamente, p?rchè Tespressione naturale del punto di vista teleologico
è 1'antropomorfismo. I concetti che Alla finzione del Timeo, di attribuire le
dottrine esporle nel dialogo a un filosofo pitagorico, è legato anche l'aspetto
sotto cui vi è presentato di preferenza il rapporto tra le Idee e le cosa.
Quest'aspetto è l'esemplarità delle Idee: siccome la formula pia iu uso presso
i Pitagorici, per indicare la relazione tra i numuri ole cose, è che queste
sono fatte ad imitazione di quelli Arist. Met., e le Idee platoniche
corrispondono ai numeri pitagorici, Platone deve rappresentare le Idee
sovratutto come modelli, per avere più facile la transizione dal sistema
pitagorico dei numari a quello delle Idee. Egli ha tantd più interesse a
mettere in rilievo questo carattere comune tra i numeri pitagorici e le Idee,
cioè l'esemplarità, che dalla formula pitagorica che le cose sono fatte ad
imitazione dei numeri può dedursi il carattere precipuo per cui i numeri di
Platone, cioè le Idee, si distinguono da quelli del pitagorismo storico, vale a
dire la loro distinzione dalle cose, l'essere X^p'-oioC dai sensibiU. Platone
deve esporre sono tali, che è impossibile di esprimerli altrimenti che sotto
forma analogica. Il concetto teleologico è un concetto essenzialmente
antropomorfista, un'as«imilazione, più o meno cosciente, delle operazioni della
natura a quelle dell'uomo: spiegare i fenomeni per le loro cause finali è
necessariamente attribuire alla natura un disegno e delle intenzioni come
all'uomo. Il metafisico teologo, che ammette una finalità trascendente,
trasporta seriamente nelle forze della natura questo disegno e queste
intenzioni: ma quando si ammette invece una finalità immanente, cioè quando la
spiegazione teleoloj;ica non è al tempo stes30 una spiegazione», teologica, noi
abbiamo allora un concetto puramente analogico, che ci dice che la natura,
quantunque non abb'a realmente né d'segno né intenzione, tuttavia sì comporta
nelle sue operazioni come se avesse un dis'^gno e delle intenzioni. Sarebbe
dunque impossibile di far comprendere il punto di vista teleologico, senza quest'analogia
delle azioni a cui presiede un dise^^no cosciente: noi potremmo anche dire che
se questa finalità incosciente o immanente dei metafisici non teologi
costituisce una spiegazione delle cose, ciò avviene appunto spiegare non
essenio altro per la metafisica che assimilare ai fenomeni più familiari per
q'iesti vaga personificazione delle forze della natura ch'essa suggerisce
airimmagìnazione, quantunqiie si rifiuti di ammetterla apertamente come tesi
filolofica. Cosi sì avrebb3 forse ragione di domandarsi se la trasformaz'one
fantastica del Timeo dell'Idea del bjue in un Demiurgo che produce il bene con
intelligenza, sia S3mplicemente p3r Platone un artifizio metodico dovuto alla
necessità di ricorrere a delle analogie di questa natura p3r far comprendere il
punto di vista teleologie ->, o se di più Platone, pur vedendo nella
personfìcazione dell'Idea del bene una semplice allegoria, si compiaccia di
qu*^8to rivestimento fantastico dei snoi concetti astratti, perchè vi trova una
soddisfazione più completa a questo bis'^gno dello spirito, su cui è fondata la
spiegazione teleologica, di assimilare le opere della natura alle azioni delPao
no. Non vi ha dubb o infatti che il punto di vista tele Jìgico in Platone sia
s!:re^tamente legato al punto di vista teologico, ei è verisimile che la
deduzione del Fedone, in cui la teoria delle cause finali è presentata come una
conseguenza della causalità universale deiriotellìgenza, rappresenti il
processo reale del punsero platonico, che è andato, come sembra più naturale,
dal punto di vista teologico al teleologico, anziché da questo a quello. Ma
quando i discepoli di Platone dicevano che la generazione del mondo nel r/meo
era sta^a fatta 5i5aaxaXix; Xapiv, Vf^risimilmente essi non avevano soltanto in
vista la dihicidazione del concetto della finalità per la pn-sonificazione
dell'Idea del bene. Per la concezione djlPaltro principio, detcrminato d'una
manieri purammte scientifica, n^n vi ha meno difficoltà q,\ì^ p^r quella d.5l
Bene. Uno dei lati piìi n5b ilo^i del oncet'io deirelemento materiale è, com 5
abb'amo osservato, ch'esco è consi ierato al tempo sesso come la materia e come
la sten»s'. In quanto è la steresi, es^o e il contrario deirelemento formale:
non è senza forma, ma ha la forma opp-»s a; è Tineguale, il disordinato, il
male, ec3. C)m^ ciò puì essere la materia di cui gli esseri sono fatti, se per
materia s'intende quello che resta della cosa arrazion facendo della forma, e
non un materiale preesinte it^ co n^> quello di cui si servono gli artefici
per prò lurre le loro opere? Evidentemente, di queste due maniere di
rappresentarsi la materia, è solo la prima che Jcorrisponde al concetto di
materia, filosoficamente determinato; ma per far entrare in questo concetto
anche la steresi, Platone è obbligato a sostituirle la seconda, e a
rappresentare, per conseguenza, l'unione dei due elementi come un fatto
avvenuto nel tempo. Sembra che noa fosse solamente nel Timeo che Platone si
servisse di questa rappresentazione. Almeno, Aristotile gli attribuisce la proposizione
che il Due, il primo numero generato, viene dall'Ineguale eguagliato,
rimproverandogli che l'essere ineguale e l'essere eguagliato sono dunque due
stati successivi dell'Ineguale, e che per conseguenza non è semplicemente
commessi dicono, in grazia della contemplazione xoO Gscrtp^oai Ivsxsv -questa
espressione corrisponde evidentemente al St^aaxaXia; x^P'-v del De Coelo che i
platonici fanno la generazioae dei numeri Met.. Può arguirsi da ciò che, anche
nella generazione dei numeri, Piatone Jrappreseatava talvolta 1'anteriorità e
posteriorità fra i principii e le coie derivate quasi come un'anteriorità e
posteriorità cronologica. È forse a tali rappresentazioni che allude la
proposizione, attribuitagli pire da Aristotile Met., che bisogna partire da un'ipotesi
f^lsa, come i geom3tri che suppongono d'un piede una linea che realmente non è
d'un piede: questa proposizione, in effetto, si riferisce senza dubbio a una
certa rappresentazione della materia, poiché Aristotile Inda come
ua'illazioned3l principio, ara:Ti3S4o nel Sofista, che la materia il Non essere
è la natura del falso. Il Timeo non ò la sola opara di Platoaa in cai il mondo
si faccia generato. Nel mito del Politico si parla pure d'an demiurgo e padre
dell'universo come nel Timeo Polit. Un'altra delle dottrine legate al
pitagorismo platonico, indicata oscurainente nel Timeo ed espressa anch'essa
sotto forma mitica e simbolica, è quella della il mondo deve tutti i beni a
qaallo che l'ha formato, e tutti i mali alla deformità anteriore, o piuttosto al
principio materiale, ohe era partecipe di mólto disordine prima di essere
ricondotto dal demiurgo e padre del mondo all'ordine presente anche la n. 2 a
carta La coincidenza di queste proposizioni coimito del Timeo è troppo
colpente, par non vadarvi un'allusione a questo: che il Politico sia degli
ultimi scritti di Platone ò provato d'altronde dalla sua posteriorità al
Sofista, che contiene già la dottrina del Non essere. Ancha neìV K pino m irle
se questo dialogo è di Platone il mondo è generato, ma il suo autore, coma
abbiamo già notato, è l'anima del mondo stesso, e non un dio trascendente
carta. Nelle Lefffji, infine, l'anima è la pia antica di tutte le cose
generate: essa è nata innanzi a tutti i corpi, e le cose che appartengono
all'anima, come la preveggenza, l'intelligenza, l'arte, la volontà, i
ragionamenti, le opinioni vere, sono nate prima di quelle che appartengono al
corpo, come la lunghezza, la larghezza e la profondità, il molle e il duro, il
grave e il leggiero, e in una parolaia forza dei corpi, perchè l'anima è la
causa prima di tutte le cose. Siccome questi scritti appartengono
indubbiamente, come il Timeo, al pariodo pitag^raggiaate, noi po-isiam)
concluderne che Platone, a quest'epoca, per conformarsi alle dottrine
pitagoricha o piuttosto a ciò che egli ritene un'espressione exoterica e
allegorica delle dottrine raali dell'antico pitagorismo rappresenta l'universo
come originato nel tempo, non vedendo naturalmente in quast'origine nel tempo
oha un semplice simbolo. 'SeìV Epinomide e nelle Lefigi l'anima apparisce come
anteriore anche ai corpi che, secondo la dottrina reale di Piai ona, non hanno
avuto mai cominciamanto il mondo come un tatto, la terra e gli astri, e come la
loro causa efficiente, perchè la conservazione del cielo e dei grandi corpi che
sono in esso, la Iopj persiste iza nella forma attuale e il legame che tiene
unite le loro parti, sono dovuti, secondo Platone, all'anima; rappresentandosi
cosi miticamente l'azione continua di questa com3 un fatto avv'enito in ui
punto del tempo. Aristotile infatti allude alla dottrina che il cielo si
conserva e permane eternamente per l'aziona dell'anima quelformazìone
deiranima. Neirinterpretaz'cne di questa dottrina, l'importante è per noi di
determinare il significato delle entità, che miticamente vengono rappresentate
come gl'ingredienti di cui il Demiurgo compone l'anima. Ecco quali sono questi
ingredierii: DelTessenza indivisibile e sempre la stessa e di quella che
diviene divisibile nei corpi compose il Demiurgo una terza specie di essenza
intermedia, la quale, anche lispetto ulla natura dello stesso e a quella del
divirsr, compose intermedia tra r indivisibile di essi e il divisibile per i
corpi; e prese queste tre cose (ciré, come rif-ulta chiaramente da ciò che
segue, lo Stesso, il Diverso e l'essenza int^^rmedia, ccmposta dall'esFenza
indivisibile e dalla divisibile, le mescolò tutte in una sprcie unica,
adattando per forza allo Stesso la natura del Diverso refrattaria alla
mescolanza. E avendo mescolato insieme con V essenza (cioè, evidentemente,
Tesseuza intermecìia, e delle tre cose fattane una sola, questo tutto
nuovamente, divise in tante parti quante bisogna, tutte composte dello Stesso,
del Diverso e delFessei'za. Le difficoltà dell'interpictazione di questo luogo
si l'anima a cui è dovuto il suo movimento De Coelo; e noi non possiamo
attribuire questa dottrina che a Platone, perchè egli solo, prima di
Aristotile, ha ammesso un'anima cosmica, forza motrice del cielo, e la
perpetuità dell'universo. Ciò è confermato dal Timeo. Nel primo di questi
luoghi si dice ohe i corpi degli astri vennero legati con legami animati; e
nell'altro si parla d'uno sforzo del contorno del mondo per congiungersi con se
stesso, che preme tutti i corpi che esso contiene, e non lascia alcun vuoto tra
di loro: evidentemente Platone ha immaginato questo sforzo per i«piegare la
coesione tra le parti materiali dell'universo, e, secondo i suoi principii,
egli non ha potuto attribuirlo che all'azione dell'anima. Timeo m>mmm> 1
J! i ' i' friducono in sostanza a sapere: che cosa sì debba intendere per
Vessenza indivisibile e per lessema divisibile; e che per la natura dello
stesso e quella d» 1 diverso. In quanto alla prima quistione, é evidente che
Vessenza indivisibile e sempre la stessa nella LINGUA PLATONICA è ridea: non lo
ò mono che per il hu> contrapposto, r essenza divisibile, deve intendersi la
materfaspazio Platone dice: T essenza che diviene divisibile nei corpi, perchè
lo spazio per se stesso non è fisicamente divisibile; non lo diviene che in quanto
costituisce la materia delle cose. Ma V Ide^ designata dalle parole essenza
indivisibile e sempre la stessa, è tutto il mondo ideale, o é semplicemente V
Llea specifica, la forma eterna e generale, deiranima? Se si comprende il senso
della partecipazione platonica, l'anitra non potrebbe partecipare a tutte le
Idee se non aVa condizione che essa fos^e tutte le cos-, identificandosi col
tutto. Ma la dottrina che l'anima è identica al tutt^ dottrina a cui non si
potrebbe dare altro seis) intelligibile che quello di Hegel e
dell'interpretazione di Teichmuller, cioè l'identità del soggetto e
dell'oggetto, di pensiero e dell'essere -non si trova mai apertamente in
Platone: ben più, noi mostreremo eh'essa sarebbe inconciliabile con la sua
dialettica. Per V essema indivisibile noi dobbiamo dunque intendere l'Idea o la
forma dell'anima; e la composizione dell'anima dalla mescolanza dell'essenza
indivisibile e d^^lla divisibile non rappresenta se non il concetto che essa
risulta, come tutte le altre cose, dall'Idea o forma e dalla materia. Perchè
intendere infatti il luogo in quistione in un senso che attribuirebbe a Platone
una dottrina che noi non sappiamo se gli sia appartenuta, quando si può
indendeila in uno che non gli attribuisce altre dottrine se non quelle che noi
sappiamo certamente essergli appartenute? In quanto «Ho Stf sso e al Diverso,
noi abbiamo visto altrove i motivi che si hanno, indipententemente dalla
intorprrfizione di questo luogo del Timeo, per ammettere che essi erano dei
principii compresi nelle due odotoiX£at di contrari, che Platone identifica ai
due elementi, e delie denominaz'oni di questi elementi stessi, come l'Uno e la
Dualità indeterminata, l'Es^^ere e il Non essere, l'Eguale e Tlneguale, ecc. Ma
ciò che prova d'una maniera indubitabile che la cosa è cosi, é l'autorità
d'Aristotile, il quale afferma che Platone nel T'imeo compose l'anima dagli
elementi e per elementi Aristotile intende costantemente l'Uno o E >tsere e
la materia a fine di spiegare la conos -enza conformemente al principio dei
fisici che il simile si conosce dal simile. All'autorità d'Aristotile possiamo
aggiungere anche quella di Xenocrate, il quale, secondo Plurarco, interpretando
la composizione dell'anima nel Timeo, vede negli elementi di cui essa è stata
composta i due elementi dei numeri, cioè 1'Uno e la Dualità indeterminata.
Supplem. Supplem. carte De Anima per questa spiegazione Tim. Plutarco
Psicogonia. Secondo Plutarco, Xenocrate aggiunge all'Uno e alla Dualità
indeterminata lo Stesso e il Diverso come principii della quiete e del
movimento: cosi egli avrebbe riguardato lo Stesso e il Diverso come due altri
principii dell'anima distinti dall'Uno e dalla Dualità indeterminata. Ma vi ha
qui senza dubbio un'inesattezza di Plutarco o^dell'autore secontlo cai egli
riferisce l'opinione di Xenocrate Eudoro, come basta a provarlo il fatto ohe
Platone e i platonici identificano, ì Platone, chiamaDdo lo Stesso indivisibile
e il Diverso divisibile^ non intende identificarli con V essenza indiviisibile
e l'essenza divisibile di cui prima ha parlato: egli vuol dire che l'anima è
per la sua composi/ione intermedia tra il divisibile e Tindivisibile, non solo
avuto riguardo ai fattori immediati da cui essa risalta l'Idea carta, la quiete
e il movimento, e per conseguenza anche i loro principii il principio d'una
casa essendo nel sistema delle Idee il concetto universale, obbiettivato, a cui
la cosa è subordinata ai due elementi delle Idee numeri Xenocrate, sempre
secondo Plutarco, avrebbe inteso per l'essenza indivisibile rUno e per l'essenza
divisibile la Dualità indeterminata: con tutto ciò la sua interpretazione
concorderebbe, nel punto es43nziale, con la nostra, perchè l'importante è di
riconoscere che gli elementi, di cui è composta l'anima, non sono altra cosa
che quelli di cui qualsiasi altro essere è composto. Semplicemente, mentre
secondo la nostra interpretazione Platone avrebbe considerato nell'anima, come
in tutti gli altri esseri, una doppia composizione, quella dall'Uno e la
Dualità indeterminata, e quella dall'Idea e la materia, secondo
l'interpretazione ohe Plutarco attribuisce a Xenocrate, egli non ne avrebbe
considerato che una sola, la prim-i. Plutarco riferisce anche, secondo Euforo,
un'altra interpretazione, che rimonterebbe a Crantore. Secondo questa, Platone
ha composto l'anima dalla natura intelligibile, dalla materia, e dall'identità
e la diversità, di cui tutte le cose partecipano; e ciò, conformemente a quello
che dice Aristotile (j unA.), perchè l'anima, par poter conosoare tutto, deve
essere composta di tutte cose. In questa interpretazione la natura
intelligibile non è, come in quella di alcuni critici moderni, tutto il mondo
ideale, ma la sola Idea o forma de 1'anima: è cosi che la comprende certamente
Plutarco, perchè egli dice che questa interpretazione si riduce a comporre
l'anima, come tutte le altre cose, dalla specie o forma e la materia Psicog.
L'interpretazione di Crantor# è identica in sostanza alla nostra, parche per la
Identità e la Diversità s'intendano i due elomenti delle Idea e delle cose, ciò
che è necessario di fare, perchè le interpretazioni di Xepocrate e di
Aristotile dovevano pare avere qualche fondamento. r e la materia';, ma anche
ai fattori più remoti i due elementi. L'uno dei due elementi è chiamato
indivisibile, perchè è l'Unità; l'altro, divisibile per i corpi, perchè uoa
delle sue funzioni è di essere la materia dell'i cose quantunque questa
denominazione gli convenga sotto questo rispetto soltanto, e non sotto l'altro,
cioè come materia delle Idee E ioutilc di discutere l'opinione di quei critici
che per lo Stesso e il Diverso intendono le Idee e la materia: contro di essa
vale, oltre a ciò che è stato detto ora, quello che si disse sopra a proposito
dell'interpretazione dell'essenza indivisibi'c e l'essenza divisibile. Contro
questi'interpretazione dell'essenza indivisibile e l'essenza divisibile cioè
quella che vede nell'una il mondo ideale e nell'altra la materia ora possiamo
aggiungere che, se l'anima venisse composta di tutte le Idee, sarebbe
superfluo, per ispiegaro la conoscenza, di comporla anche dei due elementi.
Componendo l'anima dello Stesso e del Diverso e della terza essenza intermedia,
ch'egli ha già composto dell'Idra e della materia, Platone sembra riguardare
quest'essenza come distinta dall'essmza dell'anima, e come un semplice
ingrcdicnt'; nella composizione di essa, e lo Stesso e il Diverso come degli
clementi estranei all'essenza intermedia, che bisogna aggiungere a questa per
avere l'essenza dell'anima. Ma in realtà l'essenza intermedia, composta dalla
indivisibile e dalla divisibile, non è altra cosa che l'essenza stessa
dell'anima ed è perciò che Platone la chiama semplicemente Vessenza, e lo
Stesso e il Diverso non sono fuori dell'essenza intermedia, mane sono gli
elementi. Semplicemente la forma simbolica scelta da Platone di una mescolanza
in una caldaia; non può rappresentare d'una maniera adequata il concetto della
partecipazione. Lo stesso – H. P. Grice on Wiggins, SAMENESS -- e il diverso, i
I cioè le due Idee più uaiverjali a cui tutte le altre partecipano, sono le
determinazioni generali che 1'anima ha in comune con tutti gli altri esseri: a
queste determinazioni comuni bisogna aggiungere il proprio, il ditferenziale,
dell'anima, che ne fa un'essenza particolare distinta dalle altre. Ma questo
proprio, questo differenziale, non può considerarsi come separato dall'essenza
deiranima ed esistente per se senza le determinazioni comuni che esso
d'ffcr'^nzia, perchè nel sistema delle Id^^e ciò che si separa, facendosene
un'entità per se, è la specie e il genere, ma non la difft^renza: ne segue che
Platone non può rappresentare la partecipazione dell'anima agli Universali
supremi che per l'immagine della loro mescolanza con essa. Anche nel Sofista la
partecipazione d'un'Idea alle altre sotto cui essa è contenuta è chiamata una
mescolanza di quest'Idea con (juestc altre. Platone dà all'essenza dell'anima
un posto intermedio fra i suoi ingredienti, perchè egli assegna alle cose una
natura intermedia tra le entità da cui esse risultano: ma evidentemente con ciò
egli intende indicare inoltre che, in virtù della sua stessa composizione,
.ranima ha un carattere medio tra l'indivisibile e il divisibile: non è
assolutamente indivisibile com-; l'Idea e l'Uno, perchè estesa e quindi
composta di parti, ni assolutamente divisibile come la materia, perchè
indis.solubile e incorruttibile. Alla nostra interpretazione della comprsizione
dell'anima nel Timeo può farsi l'obbiezione che Plutarco fa a quella di
Crantore, cioè che l'anima esseado composta allo stesso modo che tutte l’altre
cose, non si li) Sof. i-KJ , ecc. il Timeo Atesso Psiojii, Vede come questa
composizione convenga ad essa più che alle altre. La risposta è che, esponendo!
particolarmente la composizione dell'anima, Platone non ha per iscopo
d'indicare ch'essa ha un'origine e dei principii speciali: il suo scopo è
invece, primo, come osserva Aristotile, di fare un'applicazione dal principio
che il simile si conosce dal simile; e poi, siccome le rappresentazioni
ordinarie del Zim^o, intese letteralmenle, implicherebbero la trascendenza, di
contrapporre ad esse un'altra rappreseutazione, in cui il concetto
dell'immanenza sia energicamente espresso, qual è quella della mescolanza. IL
pitagorismo nel Filebo, Il pitagorismo del Ihlébo consiste in sostanza nella
dottrina sul limite itépag e l'illimitato àTisipov. In questo dialogo Piatone
divide tutto ciò che esiste in tre generi: il limite o limitato, r illimitato e
il composto dell'uno e dell'altro. Il genere dell'illimitato comprende tutte le
qualità che Piatone noa prende solamsnle dai Pitagorici la formula che le cose
sono composte di limite e d'illimitato, ma anche quella eh 3 esse constano di
uno e di molti FU, e Supplemento. Ma qui il pitap^orismo di Platone è rolla
forma anziché nella sostanza: egli non vuol dire, com3 i Pitagorici e come egli
stesso in un parici^ ulteriore dilla sua speculazione, che l'unità e la
pluralitìi sono degli elementi di cai l3 cotì3 sono composte, ma che tutto è al
tempo stesso uno e malti, cioè che ciascuna Idea generale contiene una
moltiplicità d'Idee particolari. Con questa formula dunque egli non innova
niente nelle sue dottriije primitive; semplicemente le esprime in una forma che
dà ad esse un sembiante di affinità con quelle d'di Pitagorici Un'altra
evidente aflfettazione di pitagorismo vi ha nel FUfho, quando il metodo
dialettico, cioè la divisione per goniri e p3r ispecie, è presentato come una
ricerca di numeri: anche qui il pitagorismo è puramente verbale, e non importa
alcun avvicinamento reale alle dottrine dei Pitagorici, carta ;j oaos suscettibili
di una variabilità all'infinito, tan^.o nelr aumento quanto nella diminuz-one:
tali sono il caldo e il freddo, il forte e il piano, il secco e rumido, il
veloce e il tardo, il molto e il poco, il grande e il piccolo, ecc. Siccome
queste qualità non vengono attribuite che in un senso comparativo chiamando un
corpo caldo o freddo, noi vogliamo diic che esso è più caldo o più freddo di
altri corpi; eh amando un movimento veloce o tardo, che esso è più veloce o più
tardo di altri moviment'; ecc. così Platone si serve, per denotare queste
qualità, di termini comparativi: più caldo e più freddo, più veloce e più
tardo, ma: gioie e minor % più o meno numeroso, ecc., e dà come carattere
generale dell'illimitato l'ammettere il più e il meno. Dalla natura comparativa
dello qualità del genero deirillimitato segue che esse si esprimono per una
coppia di termini oppost», uno positivo, che indica il comparativo di
maggioranza, e uno negativo, che indica il comparativo di minoranza: il termine
caldo, attribuito a un corpo, significa che esso è più ca^do di altri corpi,
che in relazione ad esso si chiamano freddi; il termine velocp, attribuito a un
movimento, significa che esso è più veloce di altri movimenti, c\v\ in
relazione ad cs-^o si chiamano tardi; ecc. Verisimilmente (luesto concetto, che
gli attributi, appartenenti alla classe deirillimitato. da cui risultano gli
e^^seri, racchiudono in sé una dualità di ternoioi contrari, è anche
un'imitazione della dottrina pitagorica che tutto consta di contrarietà. Al
irenere del limite appartengono i rappoiti numeiici o, più generalmente,
metrici: l'eguale, il doppio, il triplo, ecc. Dall'applicazione dei rapporti
numerici o metrici, cioè del limite, alle qualità dell'illimitato nasco il
terzo genere composto del limite e deirillimitato: p. e. certi rapporti
metric', applicati al cahifo o al freddo, daranno luogo alla temperatura
particolare delle varie divisioni del tempo; altri rapporti metrici, applicati
all'acuto e al grave, daranno luogo agli accordi musicali; ecc. Questa
temperatura e questi accordi appartengono, per conseguenza, al terzo genere Il
pensiero di Platone è evidentemento che nelle cose, o, più propriamente, nei
loro attributi, bisogna distinguere due elementi due elementi concettuali, ma
che, secondo le abitudini della speculazione platonica, vengono elevati ad
entità sussistenti p^r sé: una qualità astratta, il cui concetto ^i ottiene per
la soppressione di qualsiasi grado determinato, e che è suscettibile di
ricevere un'infinita varietà di gradi, che crescono e decrescono sino
all'infinito; e il grado che questa qualità ricevo in un caso determinato, e la
cui espressione e, per conseguenza, il cui concetto, sono dati da un rapporto
metrico cioè riferendosi a una certa unità di misura. Siccome non è possibile
di deterniinare il grado cho per mezzo del rapporto metrico, cosi questo
secondo elemento genericamente considerato, si riduce a una relazióne fra
quantità: l'eguale, il doppio, ecc., e in una parola, come dice Platone, tutto
ciò che è numero rapporto a numero e misura rapporto a mfsura vale a dire ogni
rapporto di un numero con un altro numero e di una misura con un'altra misura.
Certamente le qualità che Platone comprende nel genere dell'illimitato, non
assumono mai, nella realtà, che un grado finito; e, considerate in se stesse,
non bisogna concepirle come elevate a un grado infinito ciò che non potrebbe
accordarsi con la loro funzione di elementi delle cose reali, e che per altro
sarebln ft/, e a, luogo c-ilalo a cario u !! una contraddizione nei termininè
come il complesso di tutti i gradi finiti, crescenti e decrescenti
all'infinito, con cui esse si trovano negli oggetti particolari; ma devono
pensarsi facendo astrazione da qualsiasi grado e misura determinati, perchè il
grado e la misura è un alti-o elemento che si aggiunge ad esse per formare gli
attributi particolari delle cose, e d\altronde un'entit/i platonica non é il
complesso degli attributi omonimi degli oggetti particolari, ma l'attributo in
se stesso, cioè nel suo concetto astratto e generale. Tuttavia queste qualità
vengono ricondotte air illimitato, perchè non vi ha alcun limite neiraumento e
ntUa diminuzione dei gradi di cui sono suscettibili: è un'osservazione analoga
a quella che abbiamo fatta sul Grande e Piccolo e il Molto e Poco degli
ìyP*"?* 8ÓY|Aa'ca. Per completare il concetlo àA limite, dobbiamo
ae:giringere che, applicandosi alle qualità della categoria dell'inimitato,
esso non dà a queste semplicemente un grado e una misura, ma un grado e una
misura convenienti: in efl^etto la misura, nel Filebo, è uno degli aspetti in
cui si mostra l'Idea del bene. I rapporti numerici, che costituiscono il
limite, non fissano solamente il grado, in cui gli attributi del genere dcU'
illimitato, considerati d^ una maniera assoluta, devono attuarsi nelle cose
particolari; ma determinano anche le relazioni quantitative tra gli e'ementi di
cui queste sono composte, introducendovi della proporzione e dcirarmonia. In
questo senso, essi si applicano specialmente ai termini opposti deiriUimitato,
l'uno relativamente all'altro: perciò si dice che il limite fa cessare la
discensione tra i due contrari, e li rende proporzionati e accordati
o!Ì[i(^(t)va per mezzo dei numero. Cosi tutto ciò che vi ha di bello nella
natura e per conseguenza tutti gli esseri conformi al loro tipo, perchè il
buono e il bello 1% per Platone, la forma delle forme risultano da una
contemperazione armonica di contrari: p. e. le divisioni dell'anno da quella
del caldo e del freldo; 1'armonia musicale da quella delT acuto e del grave;
ecc. Questo concetto non è forse senza legame con la dottrina pitagorica che
tutto r annonìa. Ai tre «generi di cui abbiamo parlato sin qui Platone ne
aggiunge un quarto: è la causa elìiciente-degli altri e della mescolanza del
lìmite e dell'illimitato. Questo quarto geu'ìre è costituiti, come dimostreremo
in seguito, dall'intelligenza e dall'anima. Platone comincia per dividere tutti
gli esseri che Fono nell'universo in tre generi, benché poi parli anche di un
quaito, perchè questo rientra in uno dei tre primi: in effetto l'anima e
l'intelligenza devono essere composte, come tutte le altre cose, di limite e di
illimitato. La difiicoltà dell'interpretazione dì questa dottrina del Flkho è
che il limite e l'illimitato, di cui è quistione in questo dialogo, non
potrebbero identificarsi con nessuno dei concetti della filosofia platonica,
sia tra quelli che troviamo negli altri scrìtti di Platone, sia tra quelli che
conosciamo per l'esposizione d'Aristotile. Molti interpreti, è vero,
identificano l'illimitato con la materia; in quanto al lìmite, alcuni vedono in
esào le Idee, altri le entità matematiche o intermediarie. Ma tutte queste
opinioni presentino delle impossibilità evidenti, che noi indicheremo,
corninriando dairillìmitato. L'illimitato del Jùlebo ha senza dubbio una grande
analogia con la materia degli àypacpa SóYiJtaia: anche questa è chiamata
TaTis'.pov; inoltre essa è ricondotta al grande e piccolo, e IMlimitato del
Filebo è definito la natura che riceve il più e il meno. Ma a lato a <iaestc
somiglianze vi ha una differenza important'^ ed essenziale: il Grande e Piccolo
degli ótypac^a Òó^iiolzol è un concetto semplice, un'entità unica; rillimitato
del Filebo è un'unità articolata, cioè in esso sotto Tunità generica il più e
il meno è compresa una moltitudine di specie il più caldo e il più freddo, il
più veloce e il più tardo, il più acuto e il più grave, ecc. Ciò che
corrisponde al Grande e Piccolo è il concetto generico dclP illimitato del
Filebo: ma quello non si divide, come questo, In più specie particolari; dalla
determinazione o concretizzazione del Grando o Piccolo risultano immediatamente
le Idee, cioè le essenze sreneriche e specifiche delle cose, non delle specie
particolari di grande e piccolo. Al Grande e Piccolo, 6 vero, è anche ricondotta
ima pluralità di concetti distinti, cia<^cuno dei quali si considera come
un'entità per se, cioè l'una dcUe due a'iaTotyjai di contrarli: ma questi
concetti sono, per quanto poFs'amo giudicarne, affatto diversi da quelli che
costituiscono le specie deirillimitato nel Filebo; ben più, il carattere delle
due dottrine differisce nei punti più essenziali. Primo, i concetti delle due
ouoxoix^ai di contrari sono dei principii, cioè non sono subordinati ad alcun
concetto superiore; le specie deirillimitato nel Filebo, invece, sono
necessariamente delle cose derivate dall'illimitato in sé stesso, cioè nel suo
cmeetto generico, il rapporto tra il principio e la cosa derivata equivalendo,
nella dialettica platonica, a quello tra il genorale e Jl particolare – GRICE STRAWSON
AUSTIN ROWE. Secondo, quelli il Non essere, il Diverso, il Multiplo, ecc. sono
tutti di una universalità assoluta; queste il più caldo e il più freddo, il più
secco e il più umido, il più acuto e il più grave, ecc. non valgono ciascuna
che per una categoria particolare di fenòmeni. In quelli, infine, un concetto
della classe dell'illimitato ha il suo contrar'o nel concetto corrispondente di
quella del limitato; le spese dell'illimitato del /«/cfto racchiudono invece la
contrarietà in se stesse, esprimendosi ciascuna per una coppia di termini
opposti. Passando ora al limite, ecco le difficoltà principali che si oppongono
alla sua identificazione con le Idee: 1® Il mondo ideale è Tinsieme di tutti i
concetti delle cose, obbiettivati; il limito del non comprende che una certa
classe di df'terminazioni matematiche. Tuttavia, ^iccome le Idre, rell'uliimo
periodo della sppculazionc platonica, Fono stute ricondotte a dei numeri, si è
creduto che il I mite del Filebo equivalga a questi numeri, eoe agl'idea' i. Ma
Platone non ha ricondotto le Idee a dei rapporti numerici, quali sono quelli
che nel Filebo vengono chiamati lìmite, ma semplicemente a dei numeri: anche il
limite del File\o consiste, se si vuole, in numeri, ma questi numeri sono
proporzionali^ non cardinali come i numeri ideali. Come dice Aristotile Mei.,
da ciò che la dualità è la prima cosa a cui può attribuirsi il doppio, non no
segue che il doppio hia la stessa cosa che la dualità. Lungi che le Idee numeri
possano equivalere a dei relativi, come quelli che costitni-jc^no il lin.ite
del Filebo, Platone anzi, nell'ultitno perodod-lla sua speculazinn<, esclude
i relativi dal mondo dello Idee, e quandi anche i concetti d 1limite del
Filebo, Le idee Fono le essenze delle cose: ma l'essenza d'una cesa
evidentemente non è esaurita dai rapporti numerici, che corrono tra gli
elementi di cui questa è Arist. Met, composta. Non lo t> nlmeno, sé quésti
rapporti si considerano d'una maniera astratta, come vengono considerati nel
Fdebo: per avere Tessenza della cosa, si dovrebbero fare entrare nel concetto
del rapporto numerico gli elementi stessi, i sustrati, tra cui esso sussiste.
Per esempio, se Tarmonia è un rapporto numerico tra i suoni, l'essenza
dell'armonia sarà i suoni con questo rapporto numerico, non il solo rapporto
numerico astratto. Platone, è vero, ncH'ultima forma della sua filosofìa,
toglie dairidea o essenza la materia, e la riduce alla sola forma: ma questa
materia non ò che lo spazìo, o Testensione. Ora l'illimitato del Mlebo
comprende assai più determinazioni che la semplice estensione: esso ne
comprende anche assai più che la materia nel senso più lato, cioè quale uno dei
due elementi delle Idee e delle cose. Il limite e Tillimitato, nel Filebo, sono
dati, non solo come elementi delle cose, ma anche come elementi delle Idee.
Come potrebbe dunque il limite identificarsi con le Idee, di cui non è che un
elemento? Nel Filebo, Tillimitato òcTisipov non fa parte del limite, gli è anzi
opposto come un altro elemento degli esseri. Dunque il limite non può
equivalere alle Idee, perchè queste, secondo l'esposizione aristotelica,
constano anche dall' ótTieipov. Siccome il limite del Pllébo consiste io
determinazioni matematiche, la sua identificazione con le entità matematiche ha
più plausibilità; ma anch'essa incontra dello difficoltà insuperabili: Anche
contro di essa vale la prima obbiezione che abbiamo fatto alla identificazione
con le Idee; vale a dire che i concetti del \Fi7e6o sono dei rapporti numerici,
mentre i numeri matematici che sono le sole entità matematiche a cui questi
concetti possono assimilarsi sono dei numeri nel senso stretto, cioè cardinali.
I numeri matematici non sono che i nostri concetti dei numeri, sostantificati,
cioè questi attributi co ' ninni delltì diversa collezioni di oggetti, che noi
chiamiamo numeri, considerat', nella loro astrattezza, come s'i<»s'stonti
per se stessi. Il valore di questi numeri è, in un certo senso, assoluto, vale
a dire, lo stesso numero ])uò valere, qualunque sìa la natura degli oorgetti
numerabili: non vi ha dunque per ciascuno di c^si qualche cosa che sìa il suo
correlativo necessario, come per i rapporti numerici e metrici che
costituiscono il limite del Fdebo. Ciascuno di questi ha un valore relativo a
una specie determinata dell'illimitato, che è quindi il suo contrapposto e il
suo complemento necessario. Se tale rapporto numerico vale, per esempio, per
rarmonìa, ed ha perciò come relativo il grave e l’acuto, per le stagioni varrA,
non lo stesso rapporto, ma un altro, che^avrà p^r corrMatìvo il caldo e il
freddo. In una parola il limite e l'illimitato/ e le specie detcrminate dclruno
e dell'altro/ sono dei concetti che si suppongono recìprocamente. Se i numeri
matematici fo«s-ro, non semplicemente, come noi ammettiamo, i nosfi roncpfì dei
numeri sostantificati, ma le leggi del mondo fenomenico e le Idee nel loro
rapporto con la materia, secondo un'interpretazione che noi abbiamo già
discussa, anch'essi supporrebbero, è vero, un opposto come correlativo
necessario: quest'opposto sarebbe la materia, perche essi non potrebbero
rappresentare, come le Idee 0 Itf Supplem. carta. Supp.\ Stesse, che la
semplice foi-ma. Ma allora, perchè il limite del FiUho corrispondesse ai numeri
matematici, Tillimitato dovrebbe corrispondere al semplice spazio, poiché le entità
intermediarie, essendo posteriori alle Idee supposto, come vu'^le
quest'interpretazione, ch'esse tramezzassero tra la totalità del mondo ideale e
la totalità del mondo reale non potrebbero essere meno comprensive Ji queste.
Il limite, nel Filébo, è un elemento delle Idee. Ma le entità matematiche non
ci sono mai date per elementi delle Idee: ciò sarebbe anzi in antitesi colla
loro qualità di eatità intermediarie tra le Idee e le cose. L'elemento infatti
è anteriore alla cosa di cui è elemento, mentre le entità intermediarie sono
invece posteriori alle Idee. Perchè Platone puo riguardare l’entità matematiche
come uno dei quattro generi in cui vengono divisi tutti gli esseri, e?se
dovrebbero costituire per lui una classe di entità distinta dagli altri concetti
obbiettivati, in altri termini, egli dovrebbe ammettere già la distinzione tra
le Ide« e le entità matematiche. Ma quando scrive il Fileòo, Platone non
conosce ancora questa distinzione: in questo dialogo in effetti tutti i
concetti obbiettivati in generale sono chiamati Idee e riguardati come oggetti
della dialettica mentre dopo la distinzione tra entità matematiche e Idee, il
metodo dialettico non si applica che a queste, perchè dei numeri e delle figure
vengono realizzati i concetti specifici soltanto e non i genenci Supplem. carte
Supplem., carta. Che nel Fiìeho anche i concetti matematici siano oompresi
nella sfera della dialettica, si vede pure da, in cui dopo aver distinto le
matematiche dallo altre arti e 1'aritmetica Di più, li distinzione delle entità
matematiche dalle Idee Importa il posto, assegnato a quelle, di intermediarie
tra qucHte e le cose, ciò che suppone la dottrina dei numeri ideali: ma
Platone, nel Filebo, parla come se egli non conosce ancora questa dottrina
Delle entità intermediarie, inoltre, ve ne sono molte della stessa specie: VI
ha una specie, cioè un'Idea, unica della diade, della triade, ecc., ma molte
diadi, triadi, ecc. matematiche. Ma, nel FtYeòo, ciascuno dei concetti compreM
nella categoria del limite, cioè 1'eguale, il doppia, ecc., è evidentemente
riguardato come un'entità unica, perche Platone dà questi concetti come i molti
in cui si divide il Limite dopo aver detto che mostrerà come tanto il limite
quanto r illimitato sono al tempo stesso uno e molti Supplem. Aggiungiamo
infine che nei concetti del limite del Filebo la moltiplicifà viene ricondotta
ad una unità supcriore, ciò che, come abbiamo osservato, non avviene nei numeri
matematici. e la geometria dei filosofi da quelle del volgare, dice che la
dialettica è la scienza che conosce tutte le scienze di cui ha parlato. La
dialettica per Platone comprende in un certo senso tutte le altre scienze,
perchè ogni scienza è virtualmente compresa nella conoscenza delle essenz3
delle cose, che è l'oggetto della dialettica. Supplem. Supplem. carte FiO
specie si del limile che dell'illimitato sono insomma dello Idee, benché
IMatone, quando dice che le cose che si dicono essere eternamonie cioè le Idee
constano di limite o d'illimitato, non riguardi propriamente come Idee che i
concetti del terzo genere, vale a dire di quello che risulta dalla mescolanza
del limite con l'illimitato. Ciò è perchè lo scopo della dottrina del Filebo è
di comporre gli esseri di questi duo elementi, ad imitazione dei Pitagorici, e
perciò l'iatone non può riguardare propriamente come esseri che i Composti, e
non gli elomenti stessi. Se Platone coutnsse tra i Inttori del reale Io entità
matcraaticho, sarebbe inesplicabile com'egli passi invece sotto silenzio le
Idee. Per evitare questa difficoltà, gl'interpreti che vedono nel limite le
entità matem«tieh<», ammettono che le Idee sono comprese nel quarto genero,
quello che Platone chiama causa della mescolanza del limite e dell'illimitato e
della generazione, ed anche causa di tutte le cose cioè d-^gli altri tre
generi, e semplicemente causa. E in effetto le Idee sono per Platone delle
cause, e nel Fe^/one vengono anche chiamate cause della generazione e della
corruzione; e nel Filcho stesso l'Idea del bene è detta la causa per cui la
vita mescolata di piacere e di saggezza e gradevolissima, pregevole e buona, ed
anche la causa di tutto ciò che vi ha nella mescolanza del piacere con la
saggezza. Ma il termine cau«a, attribuito alle Idee, non ha lo stesso senso che
quando Platone l'applica al quarto genere del Filebo. Questo termine non
conviene alle Idee che in un senso lato, come sinonimo di principio: le Idee
sono cause delle cose, in quanto queste sono ciò che sono per la partecipazione
di quelle. Invece, quando si tratta del quarto genere del Mlcbo, la causa deve
intendersi nel senso stretto; essa vuol dire: un fenòmenocioè un'«s'stenza
sottoposta al tempo e a tutte le altre condizioni d'^irindividuaMtà che è la
condzione di un altro tVnomeno e lo spiega. Cosi Platone deduce l'esistenza del
quarto genere del Filebo dal principio che ciò che diviene deve divenire per
una causa: ora l'ipotesi delle Idee non è dedotta da questo principio, nò se sì
guarda ai motivi reali della teoria, nò se si guarda alle prove su cui Platone
la stabilisce. Quando poi ci si dice che la causa equivale a ciò che fa
Ttio'.oOv e l'effetto a ciò che è fatto uoio'jjisvov, è chiaro che per questa
causa dobbiamo intendere una causa attiva, un agente: quest'agente di più deve
essere personale, perchè ciò che è classato CLASSATO CLASSIFICATO SEGNATO
SIGNIFICATO nel quarto genere ò chiamato l'opifice dr|[iiou(5Yo0v delle cose
classate CLASSIFICATVM SIGNATUM SIGNIFICATVM negli altri tre Il genere della
causa, nel Fi/ebo, corrisponde a ciò che Platone altrove chiama la causa prima,
e talvolta anche semplicemente la causa, di tutte le cose, vale a dire Tanima
del mondo. Che il quarto genere del Filebo consista unicanipnte nell'anima e
neirintelligenza la quale non esiste altrove che nell'anima -si rileva della
maniera più evidente dall'esame particolareggiato che Platone fa di questo
genere, perchè, dopo aver detto che va ad esaminarlo più lungamente, non parla
poi che di osse: dimostra (he la mente governa il tutto, perchè questa
proposizione è degna dell'aspetto del mondo, del sole, della luna, delle stelle
e di tutte le rivoluzioni celesti, e perchè, come noi prendiamo }>li
elementi del nostro corpo dal corpo dell'universo, cosi l'anima non può venirci
d'altronde che da un'anima cosmica; e conclude che del (juarto genero, che è in
tutte le cose, questa parte che ci dà l'anima, ohe ripara la salute nelle
malattie, ecc. non deve stimarsi la Fapicoza tutta quanta e di tutte le forme,
e che nelTuniverso vi ha molto illimitato, sufìiciente limite, e una causa che
presiede ad essi, la quale orna e dispone ;;]i anni, el stagioni, i mesi, ed è
chiamata a buon dritto mente e sapienza. Por fare rientrare, malgrado ciò.
I.t'init Si«) H-b, Sl»U b, h'itiaohiUh' '.W e rt.V»SJ b, mn d, S>. V UO e.
In senguito Platone dic3 che l'^telligenza èdel genere deUa causa di tutto
cose, ei anche che essa è affino alla i- nel quarto gciiertì anche le Id^x;,
alcu li d^^l'iaterpre ti che identificano il limite con le entità matematiche,
Affermano che per Platone le Idee e il Nous in fondo coincidono: ma questa
proposizione, come abbiamo osservato altrove, non sarebbe intelligibile che
nella dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, dottrina che non
possiamo attribuire a Platone. Aggiungiamo che la classe delle entità
matematiche contiene, oltre i numeri matematici, anche le grandezze (le quali
non procedono da questi numeri, come ha creduto qualche interprete, ma
immediatamente dagl'ideali; cosi se il limite del Filebo fa identico ai primi,
non si comprende nemmeno perchè Platone non conti fra gli elementi costitutivi
del reale anche le seconde. Quelli che identificano il limite con le entità
matematiche sono i sostenitori dell'interpretazione trascendentalista del
sistema delle Idee. Ciò è naturale, perche lo scopo di quest'identificazione ò
di appoggiare la tesi che le entità matematiche sono le leggi e le forme del
mondo fenomenico, e questa tesi suppone elio queste entità siano intermediarie
nel senso che esse tramezzino. causa e pressoché dello stosso genere, donde
potrebbe inferirsi che r inteUigenza e 1'anima non sono isoli oggetti compresi
nel qaarto genere, e che anzi esse non sono aggregate a questo genere che d'una
maniera un po' forzata ed impropria. Ma in questi luoghi Platona parla
dell'intelligenza umana, perchè ri^ponde alla quistione a qual genere appartenga
la saggezza che ò uno dei due ingredienti della vita mescolata cioè della vita
felice; ed esita S3 possa classarla rigorosamente nel genere della causa del
tutto, perchè questo è propriamente costituito dall'intelligenza e l'anima
cosmiche. Supplem. carte, non tra le Idee di certi attributi e questi attributi
stessi nelle cose sensibili, ma tra la totalità del mondo ideale e la totalità
del mondo sensibile. Ora questa interpretazione delle entità intermediarie
suppone alla sua volta la trascendenza delle Idee; perchè è, ci si dice, per
l'impotenza delle Idee trascendenti a esercitare una causalità reale sulle
cose, che Platone è stato condotto ad immaginare queste entità, affinchè esse
servissero da mediatori, in modo che Tinliuenza delle Idee potesse comunicarsi
per il loro mezzo al mondo sensibile. Ma se le Idee sono trascendenti, anche le
entità matematiche devono essere trascendenti. Le entità matematiche sono dei
predicati universali sostantificaii della stessa maniera – HAIRY-COATEDNESS
HORSENESS SHAGGINESS che le Idee; per conseguenza le stesse inconcepibilità che
risultano dall'immanenza delle Idee risultano egualmente dall'immanenza delle
entità matematiche: le stesse espressioni indicanti la relazione tra le cose e
le Idee, in cui si vedono le prove più forti della trascendenza di queste,
servono pure ad indicare la relazione tra le cose e le entità matematiche; i
concetti realizzati dei numeri e delle figure, della stessa maniera che le Idee
del bello, del buono, del giusto, ecc., vengono riguardati come degl'ideali a
cui le cose non si conformano che d'una maniera approssimativa; se è evidente
in certi luoghi d'Aristotile ch'egli si rappresenta le Idee come poste fuori
delle cose, non è meno evidente, negli stessi o in altri luoghi, ch'egli si
rap0) Supplem. carta Ji'p., Fedone, Met., eco. Supplem. carta Fileho, Hep.,
Arist. Met., eoo. M«~ presenta cosi. anche le entità matematiche; e in una
paroU, tutte le ragioni che si avrebbero per ammettere la trascendenza delle
une, varrebbero egualmente per ammettere la trascendenza delle altre. Intanto
il limite del Filebo, come convengono gli stessi interpreti trascendentalisti,
è immanente, è un elemento delle cos«^ stesso. È impossibile dunque che esso
sia identico aUt», entità matematiche. Per dotare le entità matematiche
dell'efficienza causale che, nella loro inerpretazione, manca alle Llf*e, e
farle supplire cosi a questo difetto del sistema, che, secondo loro, è il
motivo della dottrini d^^lle entità intermediarie, grinterpreii trascendentalisti
sono obbligati a misconoscere la loro natura di semplici predicati jicnerali
sostantificati, e le identificano con l'anima del mondo Cosi quelli che vedono
nA limite d^^l /^</eò> le entità matematiche, è necessario che facciano
del limite e della causa che, come abbiamo mostrato, non è che l'anima del
mondo una sola e stessa cosa, mentre Platone ne fi due generi distinti e
d'altronde la causa non potrebbe non essere distinta dalle cose di cui è la
causa. E bisogna notare che Piatone stabilisce espressamente e dimostra che il
SYjiiLovYpoOv, vale a dire il quarto genero, è altro necessariamente dagli
oggetti compresi nei tre primi generi. Met., ecc. Nella più parte di questi
luoghi» è vero, Aristotile distingue due frazioni nella scuola platonica, di
cui 1'una avrebbe ammesso le entità intermediarie o matematiche fuori delle
yo»©. © t'altra nelle cose stesse. Ma una divergenza anaIoga di opinioni è da
lui attribuita ai platonici anche intorno alle Idee, quando oppone ni resto
della scuola quelli che, come Eudossio, assimilavano la parusia delle Idee
nelle cose a quella di una sostanza colorante nell'oggetto colorato Supplemento
carte Il limite del Filebo non può dunque identificarsi né con le le Idee né
con le entità matematiche: noi abbiamo visto inoltre che nemmeno l'illimitato
equivale alla materia degli àypa^a S^yiiaxa Sùcome questi concetti non trovano
il loro equivalente in alcun altro dellt^ opere stesse di Platone 0
dell'espo-iizione aristotelica, ed é d'altronde evidente la loro affinità con
quelli della scuola pitagorica, noi siamo fondati perciò a vedere in questa
dottrina del Filebo un primo tentativo dell'autore di avvicinare la propria
filosofia a quella dei Pitagorici. Sappiamo infatti che il pitagorismo di
Platone, anziché essere dovuto a un'influenza che questo filosofo abbia
passivamente subita, é stato piuttosto qualche cosa di voluto, di cercato: non
é quindi sorprendente che la sua forma definitiva sia stata preceduta da un
primo passi, in cui ravvicinamento tra le due filosofie non è così stretto come
diverrà in seguito. Non é dubbia, da uu'a'tra parte, Tanteriorità del Filebo al
periodo del sincretismo con le dottrine p taj^oriche, che noi conosciamo
dall'esposizione d'Aristotile: all'epoca del Filebo Platone non conosce ancora
la dottrina dei numeri ideali, e nemmeno della matova, sia perchè questa
suppone quella, sia perchè il limite e l'illimitato del Filebo diff'eriseono da
quelli dell'esposizione d'Aristotile, e se Platone conosce già la dottrina dei
due elementi degli aypa^a dÓYfiaxa, Cj^li non darebbe ai due elementi del Fdebo
u:\ì stessi nomi. Che il pitagorismo del Filebo non sia stato che un primo
passo, risulta poi abbastanza dal confronto dei concetti di questo dialogo con
quelli degli òcYpa-^a 8ÓY[xaxa. Limitandoci alla dottrina dei due ele Supplem.,
carte. carte carta menti perchè sareb superfluo di notare che la proposizione
che la natura degli esseri è dominata e determinata da rapporti numerici, è
meno pitagorica della proposizione che gli esseri sono numeri, osserviamo: che
negli Xypacpa SÓYiiaxa il limite e Tillimitato sono ciascuno un'entità unica,
come nella filosofia pitagorica, mentre nel Filebo sono due generi divisi in
una moltitudine di specie; che le coppie dei concetti opposti della classe
dell'illimitato, corrispondenti alle due ouoxoix^at di principii contrarli dei
Pitagorici, hanno con questi poca analogia, mentre le due aooxoixCai degli
àypacpa Sóyiiaxa sono identiche in parte a quella di Pitagorici, e per il resto
possono, per quanto ne sappiamo, riguardarseae come una generalizzazione; che i
concetti dello due ouoxoixfai degli Sl-^^ol^cl SÓYfxaxa sono dei principii come
quelli delle due ouoxoix^oli dei Pitagorici, mentre le coppie di opposti del
Mlebo sono subordinate airillimitato in se stesso; infine, che nel Fi/eòo
l'opposizione è nel seno stesso dell'illimitato, mentre negli atypacpa Sóyixaxa
è invece, come nella dottrina pitagorica, tra un principio della classe del
limite e un altro di quella dell'illimitato. Ma malgrado le diflerenze profonde
tra le dottrine pitagoreggiaati degli fiypacpa Sóyjiaxae quelle del ^l/e&o,
tuttavia la più parte delle prime hanno evideutementc un antecedente e un
addentellato nelle seconde. Indipendentemente dall'idea generale che le cose
constano di liuiite e d'illimitato, è da notare: che il grande e piccolo, a cui
negli àypacpa 8ÓY|iaxa è ricondotto il secondo dei due elementi, procedo in
linea retta dal più e meno, che nel Filebo è il carattere generale e aistintivo
della natura dell'illimitato; e che la distinzione del limite e dell'illimitato
del Filebo, con la carta. riduzione del primo a dei rapporti numerici, è assai
vicina alla distinzione di forma e di materia del Timeo e delTesposizione
aristotelica, e la riduzione della prima a dei numeri. Se ricordiamo V
osservazione già fatta, che il concetto che le forme sono numeri sembra
supporre quello che esse possono ridursi a rapporti numerici tra i sustrati
materiali, vedremo più chiaramente il legame tra la dottrina dei numeri ideali
e il limite del Filebo. Il pitagori($iuo nei discepoli di Platone
Quest'argomento ha per noi tanto più interesse, che le innovazioni dei
platonici dissidenti riguardano, non il sistema delle Idee in se stesso, ma la
fusione di questo sistema coi concetti pitagorici. Di queste innovazioni le più
importanti, anzi le sole importanti, per quanto possiamo giudicarne dalK^
indicazioni d'Aristotile, sono quelle di Speusippo e di Xenocrate, e concernono
sovratutto la dottrina sui numeri matematici, la loro relazione con le Idee e
le cose. Aristotile in effetto parla spesso di tre dottrine dei platonici sui
numeri. Alcuni distinguono il numero ideale e il numero matematico èia dottrina
dello stesso Platone; altri ammettono che il numero ideale è lo stesso che il
matematico; altri infine non ammettono che il numero matematico. Delle due
Sapplem. carta Supplem. carta carta Queste dottrine sono le sole di cui parla
Aristotile: di più in parecchi luoghi in cui egli enumera queste tre opinioni
sui numer: Met. ultime dottrine a cui allude Aristotile, la prima è quella di
Xenocrate, e la seconda quella di Speusippo. Malgrado la cronologia, noi
cominceremo per esporre le idee del primo, che si è meno allontanato dal
platonismo ortodosso. Xenocrate. La dottrina dell'identità del numero ideale
col matematico equivale al fondo, com«3 osserva Aristotile, alla soppressione
del numero matematico di Platone. In questa dottrina in efletto non vi ha più
posto per le molte diadi, triadi, ecc. matematiche, che Platone subordina alla
Diade, Triade, e ce. ideali. La Diade, Triade, ecc. ideali sono dette anche
matematiche, perchè esse rappresentano al tempo stesso le Idee degli esseri p.
e. dell'uomo, delPanimale, ecc. e gli attributi aritsi vede eh egli intende
fare una enumerazione completa delle opinioni dei platonici, e ch^ non conosce
una quarta opinione. Tuttavia alcuni storici hanno veduto un'allusione ad una
quarta opinione in queste parole della Met,: Aìtri crede il primo numero,
quello della Specie, uno essere: alcuni invece, che questo stesso sia il
matematico. Le parole indicherebbero, secondo questi storici, un'altra dottrina
dei platonici sui numeri, la quale non ammette che il solo numero ideale. Ma
esse non indicano in realtà che la dottrina stessa di Piatone, nella quale il
primo numero, cioè l'ideale, ó solamente ideale, e perciò uno, e non in un
certo mwlo doppio, come nella dottrina in cui il primo numero è al tempo stesso
ideale e matematico. Oltre che questo ò il solo senso grammaticalmente
possibile, l'ipotesi di una dottrina dei platonici sui numeri, la quale non ammette
che il numero ideale, e rigetterebbe assolutamente il matematico, è per se
stessa inconcepibile, sia perchè anche i concetti matematici devono essere, ne
sistema delle Idee, realizzati, sia perchò il numero ideale non potrebbe
affatto riguardarsi come numero, se esso non rappresentasse pure ini certo modo
le determinazioni aritmetiche delle cose come la nella dottrina di Platone, in
cui i numeri ideali sono anche le Idee dei numeri matematici. per questa
dottrina Arist. Met. luetici. Ma anche quelle di Platone rappresentavano gli
Attributi aritmetici, perchè i numeri ideali, per lui, erano le Idee e le
essenze dei numeri matematici. La differenza dei numeri di Xenocrate dai numeri
ideali di Platone è che questi sono iìicomhinahili, mentre Xenocrate, sopprimeado
la distinzione tra il numero ideale e il matematico, aopprime anche
necessariamente il carattere distintivo per eccellenza fra i due numeri, e fa
perciò il iinmero ideale comhinqbiU. Aristotile infatti parla rMla dottrina di
alcuni platonici sui numeri ideali, in cui le unità di un numero sono simili e
combinabili con quelle di un altro, il numero minore fa parte del numero
magj>iore, e tutti i numeri s'no a dieci equivalgono alla Decade in se
stessa -le due ultime propoisizioni evidentemente non sono che altre
espressioni della prima, cioè della combinabilità Ora questa dottrina è
certamente quella che noi attribuiamo a Xenocrate, sia perchè la combinabilità
d^i numeri ideali suppone il rigetto della distinzione tra questi numeri e i
matematici, sia perchè Aristotile attribuisce ai filosofi a cui egli allude la
dottrina delle linee indivisibili , eh, secondo la testimonianza concorde delle
antiche autorità, appart'ene a Xenocrate. Met. Mullach. Fragm. pkilos. graec.
Anche Platone parla della linea indivisibile Arlst. Mei.: ma nella dottrina di
cui è quistione in Met. la linea indivisibile viene rappresentata per un numero
particolare l'unità il commento del pseudo Alessandro e di Siriano in
Ar\&i^ Met, , mentre per Platone non vi ha certamente che un sol ì 'r t M
Soppressi i uumerì intermediari, la coerenza del sìstema esige la soppressione
delle entità intermediarie in generale, cioè anche delle grandezze matematiche.
E in effetto ai partigiani dell'identità tra il numero ideale e il matematico
Aristotile attribuisce pure la riduzione delle grandezze a dei numeri ideali.
Cosi in Met., per indicare le tre scuole in cui si dividono i platonici,
platonici ortodossi, scuola di Xenocrate e scuola di Speusippo, dice: alcuni
dividono le sostanze separabili cioè le entità della filosofia platonica in due
generi; altri pongono in ima sola natura le Specie e le entità matematiche non
semplicemente i numeri matematici; e altri non ammettono che le sole entità
matematiche., rimproverando ai platonici che ammettono la combinabilità dei
numeri ideali, di restringere il numero alla decade, rappresentando tutte le
loro entità per i soli primi dieci numeri, dice che per loro anche le grandezze
vanno sino ad un certo numero, prima la linea indivisibile, poi la diade e poi ancora
queste cioè arcora grandezze sino alla decade. È evidentemente a questa
dottrina che noi attribuiamo a Xenocrate, che allude pure nrl 1, in cui
riferisce Topinione di alcuni filosofi che nei concetti delle grandezze non
fanno entrare che la sola forma, escludendone la materia, e riducono per
conseguenza le grandezze a dei numeri questi filosofi non posano essere che dei
platonici, perchè i pitagorici non conoscono la distinzione di forma e materia,
e divide i partigiani delle Idee in due scuole, di cui V una ammette che il
numero per tutte le linee la diade, perch.. li suo sistema non ammette, e non
potrebb» ammettere, che tre Idee di grandezze, della Linea, del Piano e del
Solido. Due è la linea stessa, e Taltra che è, non la linea stessa, ma ridea
della linea. Platone distingue le Idee-numeri delle grandezze cioè della linea,
del piauo e del solido dalle grandezze stesse, perchè le prime non
rappresentano che la sola forma, mentre le seconde, per lui, comprendono anche
la materia:Xenocrate invece, sopprimendo le grandezz 5 matematiche, non ammette,
per le grandezze come per tutte le altre cose, altri concetti realizzatl che
quelli che rappresentano le semplici forme, e possono per coseguenza ridursi a
dei numeri; cosi non essemdovi più nel suo sistema dei concetti realizzati di
grindez^e che includano anche la materia, le Idee i numeri ideali delle
grandezze non si distinguono piìi per
lui dalle grandezze stesse. Per attribuire a Xenocrate la dottrina delPidentità
del numero ideale col matematico e quindi anche la riduzione delle grandezze ai
numeri più che sulle testimonianze incerte dei commentatori di Aristotile di
cui alcuni, come Siriano e Filopono ad Met,, attribuiscono effettivamente
questa dottrina a Xenocrate, ma Tattribuiscono
anche a Speusippo noi ci fondiamo sul legame che essa ha,
nell'esposizione d'Aristotile, con quella delle linee e, più generalmente,
delle grandezze, indivisibili. E ciò che abbiamo visto nel luogo indicato
Supplem, n. Ili, e. IpS-lgC. MeL Xenocrate non ammette soltanto delle linee
indivisibili, ma delle grandezze indivisibili in generale Stob. Ed. Phys.,
Simpl. in Ari&t» Phys,
A, ecc. L'ipotesi delle linee indivisibili era stata già emessa da
Platone: Xenocrate sembra non aver fatto altro che riprendere quest'ipotesi
d'una maniera definitiva, appog^^iarla su delle prove numerose Arist. De liti,
insecabilib. Phys IH., De general, Simpl. tu Arist, Phys,
Philop. in Arist, Phys, Themist. Paraphras, Phys, Arist, ecc., e legandola
con MeL , e lo ^te^^o si rileva pure da 1. , in
cui, dopo ave; distint) le diverse dottrine dei platonici sui numeri
quella che ammette un numero ideale e un numero matematico, quella che
identifica i due numeri, e quella che ammette il solo numero matematico
continua: Similmente sulle lunghezze, i piani e i S'alili. Alcuni distinguono i
matMuatici e quelli |xexà Tàc; Idéa^ ;
dì coloro che dicono altrimenti, gli uni parlano degli oggetti matematici
matematicamente, quelli che non fanno le Id'e numf^ri né dicono esservi le
Idee,; gli altri parlano pure degli og^^etn matematici, ma non matematicamente, poiché per loro né ogni
grandezza può dividersi in grandezze, ne qualswogliano unità possono formare
una dualità. I filosofi a cui Aristotile rimprovera di non parlare degli oggHti
matematici matematicamente, perchè ammettono delle grandezza, indivisibili,
sono senza dubbio quegli stessi, che, sopprimendo le entità intermediarie,
riducono le gandezze a di numeri: in effetto anche quf^st'altra opiaioue sulle
grandezze deve essere menzionata a lato di quelle di Platone l'altra ipotesi
platonica dei coi pascoli elementari, comporne una teoria completa delle
grandezze indivisibili Platone aveva immaginato la linea indivisibile per
sostituirla al punto, cb'egli non potiva ammettere come entità, perchè, come
osserva Aristotile MalA. il commento d'Aless. d'Afrod. \ non gli sarebbe stato
possibile di dedurlo da qualche forma del Grande e Piccolo quale materia delle
entità geometriche. Per Xenocrate il motivo di sostituire la linea indivisibile
al punto non può essere precisamente lo stesso, perchè le sue entità
matematiche, che non souD che dei numeri, non racchiudono la materia: ma per
non fare del punto un'entità ha potuto bastargli questa considìrazione, che
esso non potrebbe comporsi, cjme le {irandezze e ogni altro reale nel suo
sistema, d'Idea forma e di materia. Platone. Supplem. Speusippo, secondo
l'interpretaaiona aristotelica del suo sistema.e di Speusippo; e d'altronde le
parole similmente sulle lunghezze, i piani e i solidi ci indicano chiaramente
che le tre opinionf, di cui é quistione in questo luogo, dei platonici sulle
grandezze corrispondono alle tre, di cui sopra, sui numeri. Ag^^iungiamo che
l'obbiezione che qualsivogliano unità non formano una dualità, ha di mira
certamente i numeri-Idee: ma qui serve ad appoggiare la proposizione che i
filosofi contro cui essa è diretta, parlano degli oggetti matematici non
matematicamente; dunque per questi i numeri ideali s'identificano coi
matvinitici. La tiioria di Xenocrate, eh ì i numeri a cui si riducono g i
esseri sono gli stessi che i matematici, è evidentemente più pitagorica che
l'ipotesi platonica di un numero ideale differente dal matematico, perchè i
numeri di cui parlano i Pitagorici sono, come ossserva Aristotile, i numeri
matematici. La riduzione delle grandezze a semplici numeri è anch'essa un nuovo
passo verso i Pitagorici, perchè questi non ammettono, come Platone, che le
grandezze siano subordinate ai numeri, ma le identificano, come ogni altra
cosa, ai numeri stessi. Un'altra imitizione evidente del pitagorismo è la
restrizione del numero alla decade, perchè i Pitagorici consideravano i numeri
seguenti come una semplice ripetizione dei primi dieci Già Piatone, come
c'informa Arist'^tile, non aveva fatto il numero ideale che sino a dieci: ma
noi non dobbiamo intendere perciò che egli non ammette che i soli primi dieci
numeri, perchè lo stesso Aridì Mei, Mef, Ilierocl. In carm. aur,, Arist. MeL\.
Philop. De an„. Phjys, stotìle dà questa dottrina come particolare, fra tutti ì
partigiani dei numeri ideali, a quelli per cui questi numeri erano combinabili,
e, per consegueaza, identici ai matematici cioè alla scuola di Xenocrate. Il
senso deirindicazione d'Aristotile nel luogo della Fisica sembra dunque
piuttosto che nella formazione dei numeri ideali Platone si è fermato alla
decade, ma senza decidere se dovessero ammettersi o no anche i numeri seguenti.
L'incertezza di Platone e dei suoi su questo punto ci è attestato in
quest'altro luogo della Met.: Quelli che ammettono le Idee dicono che le Idee
sono numeri: ma dei numeri parlano, ora come se fossero infiniti, ora come se
terminassero alla decade. Qaest'incerteza si spiega per due esigenze contrari»
del sistema. Da una parte, lo sforzo di Platone di accostarsi ai Pitagorici
avrebbe dovuto avere per conseguenza di limitare il numero alla decada. Ma
d'altra parte, la fusione della dottrina dei numeri coi principi! della
dialettica, manifestantesi sovratutto nella loro generazione progressiva gli
uni dagli altri che, come sappiamo, rappresenta la dieresi delle Idee, richiede
che a ciascun'Idea corrispondesse un numero distinto, e, quindi, che i numeri
ideali fossero altrettanti quante le Idee. Xenocrate, sacrificando il bisogno
di accordare la teoria dei numeri con la dialettica a quello deirimitazione
pitagorica, ci mostra la stessa tendenza che nelle altre dottrine che gli sono
particolari. Cosi Timpressione d'insieme che risulta dalle innovazioni di
Xenocrate è insomma ch'egli si è avvicinato ancora di più ai Pitagorici.
Un'altra prova del pitagorismo più accentuato di questo Met., luogo già
indicato. il filosofo è che egli, come c'informa Teofrasto fi, ha fatto degli
sforzi più d'ogni altro platonico nell'applicazione della teoria dei numeri
alle cose. Fra questi possiamo contare la celebre definizione dell'anima un
numero che muove se stesso, quantunque essa non sia altra cosa che la
definizione di Platone ciò che muove se stesso; unita al concetto generale
dello stesso Platone, che gli esseri sono numeri. Speusippo, Fra le dottrine
dei platonici, enumerate da Aristotile, sui numeri e gli oggetti della
matematica, una è quella secondo cui non vi sarebbero altre entità che le
matematiche. Confrontando fra di loro i luoghi in cui si allude a questa
dottrina, e segnatamente quelli che riportiamo nella nota, si vede che è
quistione del sistema di Speusìppo. I concetti principali che caratterizzano
questo sistema, secondo Aristotile,
sono: 1® Non vi hanno, come abbiamo detto, altre entità che le matematiche;
vale a dire Speusippo non ammette le Idee, e non realizza altri concetti che
quelli dei numeri matematici e delle grandezze geometriche. i! .Mei, Fr.
Mullach Fragm phil. graec. per questa dottrina Arist. Metaph. ecc. Mei.:
Ancora, oltre i sensibili, alcuni credono che non vi sia alcuna sostanza; altri
piò, e massimamente le eterne, come
Platone le Specie e le entità matematiche, due sostanze, e terza la sostanza
dei corpi sensibili. Speusippo ammette pure più sostanze, a cominciare dairUno;
e principii di ciascuna sostanza altro dei numeri e altro delle grandezze; poi
dell'anima; e cosi moltiplica le sostanze. Non attribuisce a Speusippo, come a
Platone, le Specie. La sola sostanza iperfica che gli attribuisce, oltre ai
numeri e alle grandezze, è l'anima, o piuttosto il principio dell'anima: questo
è menzionato a lato dei numeri e delle grandezze e dei loro principii, non
perchè sia un Universale, un concetto realizzato, come questi, ma perchè ò
anch'esso una sostanza sovrasensibile. Alcuni I -i : I il i i '. T i I numeri matematici sono i
primi degli esseri; poi vengono, nell'ordine dì anteriorità e posteriorità nel
senso platonico, le grandezze geometriche; infine gli esseri fisici, le cose.
L'Uno è il primo principio, come per Platone, ma non è identico al Bene, che
gli è posteriore. Come, negli animali e nelle piante, il bello e il perfetto
non si trovano nel germe, ma appariscono in ciò che ne deriva; poi dicono che
le Specie e i numeri hanno la stessa natura, e che le altre cose ne derivano,
cioè le linee e le superficie sino alla sostanza del cielo e ai sensibili, Qui
si trat!.a evidentemente delia dottrina di Xenocrate; cosi numeri vuol dire i
numeri matematici; per conseguenza sopra, parlando di Speusippo, questa parola
ha pure lo stesso senso. Met,: Quelli che ammettono per primo numero il
matematico, e cosi sempre un'altra contigua sostanza, e principii diversi di ciascuna, fanno la sostanza del tufo senza
legame S7lStao5t.tt)dy) una sostanza intatti niente giova ad un'altra, sia che
esista sia che non esista e molti principii; ma gli esseri non vogliono essere
mal governati. Non è un bene il principato di molti; uno solo sia il principe.
Quelli che ammettono per primo numero il matematico, non possono essere che
Cfuelli per cui non vi hanno, secondo Aristotile, altre entitA che le
matematiche. In effetto, oltre a questa, Aristoti e non conta che altre
due dottrine sui numeri e gli oggetti della
matematica: quella di Platone, per cui il primo numero è l’ideale; e
quella di Xenocrate, che ammette un solo numero, al tempo stesso ideale e
matematico. Met. Met. Si potrà inoltre domandar»» da chi non sia troppo facile a credere, perchè in tutto il numero e, in generale,
negli esseri matematici niente giovino Inno ali altro l'anteriore e il
posteriore. Infatti, anche non esistendo il numero, esisterebbeio nondimeno le
grandezze, per quelli che ammettono lo sole entità matematiche, e queste non
esistendo, esisterebbero l'anima e i corpi sensibili. Ma. da quel che si vede,
la natura non sembra sconnessa
è7l£tao5ta)5r|^ come una
c«ittiva tragedia. Ciò non accade a
quelli che ammettono le Idee ecc. Met,. cosi, nel tutto, il buono e il bello
non sono nel principio, ma nascono nel progresso dell'essere. Questo si
sviluppa, come un organismo, procedendo da uno Ftato più indetrmiDato e più
imperfetto a uno stato sempre più determinato e più perfetto. Delle tre classi
di esseri ammesse da Speusippo numeri, grandezze gvometriche e erse, Vanteriore
non giova niente alla posteriore. I numeri non sono le cause degli altri esseri:
anche non esistendo i numeri, esisterebbero le grandezze geometriche, e non
esistendo i numeri e le grandezze gecmetriche, esisterebbero le cose. L'entità
matematiche non hanno, per Speusippo come per Platone, che un significato
puramente matematico; in altri termini,
i numeri non rappresentano che le determinazioni aritmetiche delle cose, e le
grandezze le geometriche. In effetto : Aristotile fa consistere essenzialmente
la dottrina delle entità matematiche di Speusippo, tonr.e quella di Platone,
nella sostantificazione degli attributi matematici aritmetici e geometrici,
nelr essere questi considerali come separabili o separati dallo cose
fx^P-^ xsxwptoiiéva. Speusippo dà, com«i
Platone, le entità matematiche piM gli oggetti delle scienze matematiche
aritmetica e geometria: per con-i: Met. Met. Met, Sapplem. carte. Gli altri luoghi d'Aristotile
ivi citati, meno Met,, si riferiscono certamente anche alla dottrina di Speusippo,
perchè, come abbiamo osservato, Aristotile riguarda le entità matematiche di
questo lìlosofo come equivalenti a
quelle degli altri piatonioi. Met. e gli altri luoghi d'Aristotilr citati, i
quali devono riferirsi anche alla dottrina di Speusippo, meno Met. ohe non le
si posi I i^ seguenza esse nou sono che la realizzazione dei concetti di queste
scienze, la sostantificazione delle propri<»tà delle cose che queste scienze
studiano. La prova che stabilisce l'esistenza di tali entità è che le
matematiche non devono riferirsi agli
oggetti sensibili, ma a delle lealtà astratte, universali ed eterne; ed
Aristotile riguarda anche questa prova come il motivo reale della dottrina. È
evidente che su questa base non potrebbe fondarsi una teoria che vede nei
numeri le essenze o le leggi delle cose, ma solo la realizzazione delle
astrazioni numeri. Aristotile oppone Speusippo a Xenocrate, in quanto quegli parla delle cosa matematiche
matematicamente e il suo numero é veramente matematico, mentre questi ne parla
non matematicamente, e sopprime in realtà il numero matematico. La ragione precipua
di quest'opposizione è che i numeri matematici di Xenocrate sono gli stessi che
gK ideali, e non si limitano quindi, come quelli di Speusippo, a'ia
rappresentazione dei semplici attributi ariimetici. Il luogo citato a carta
prova chiaramente che i numeri di Speusippo non costituiscono 1'essenza delle
cose come potrebbe credersi che sia in una dottrina, che non ammette, secondo
Aristotile, altre entità che le matematiche, né come paradigmi, quali le Idee
nelTinterpretazione traII sono riferire, perchè parlano delle entità
matematiche come intermediarie. Mot. ecc. Ili, Carta Met. scendentalista, né
come inerenti nelle cose stesse, quali le Idee nella nostra interpretazione o i
numeri pitagorici E lo stesso risulta dai luoghi, anch'essi già citati, in cui
ci si dice che, delle diverse classi di sostanze ammesse da Speusippo, le
anteriori non giovano per niente alle posteriori, e che le cose esìsterebbero
anche non esistendo i numeri e le grandezze, o Infine, Aristotile riguarda le
entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle d^gli altri
platonici: per conseguenza anche le altre prove per cui abbiamo stabilito il
significato puramente matematico delle entità matematiche di Platone, valgono
pure indirettamente per quelle di Speusippo. L'anteriorità d^i numeri sulle
grandezza, e delle entità matematiche sulle cosi signific i, secondo le abitudini della filosofia platonica: i'^
che i concetti delle grandezze contengono, nella loro comprensione, quelli dei
numeri, e i concetti delle cose quelli dei numeri e delle grandezze; e 2^ che le grandezze procedono dai numeri, e
le cose dai numeri e dalle grandezze. Ma in Platone il rapporto di anteriorità
e posteriorità implica che il posteriore si deduce dall'anteriore, ciò che importa, come sappiamo, che questo è in un
certo modo la cau«a di quello, perchè l'essenza della dialettica platonica
consiste nella identificazione del rapporto logico fra il principio e la
conseguenza col rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. In Speusippo
invece le tre classi di sostanze da luì ammesse non si deducono Tuna
dall'altra: le grandezze non si deducono dai numeri, né le cose dai numeri e
dalle grandezze. E cosi che dobbiamo com Met. tól >Oji prendere la
proposizione citata d’Aristotile, secondo cui la classe posteriore esisterebbe,
anche non esistendo la classe anteriore. Ciò basta perchè Aristotile possa dire
che Je sostanze di una classe non sono la causa di quelle delle' altre, benché
la loro anteriorità e posteriorità implichi necessariamente, come abbiamo detto,
che le posteriori procedano, come di regola, dalle anteriori. Il principio di
Speusippo che V essere si sviluppa andando da uno stato più indeterminato e più
imperfetto a uno stato più determinato e più perfetto è inutile di osservare
che questo sviluppo non è un progresso
nel tempo, ma una successione puramente logica noa è in sostanza che quello
della dialettica platonica che la legge
dell'essere è di arricchirsi progressivamente di nuov^ determinazioni, di
passare continuamr'nte da uno stato più astratto a uno stato più concreto. Ma
hcnza dubbio Speusippo applica particolarmente questo principio alle sue tre
classi di sostanze, per indicare ch'esse formano una serie logica al tempo
stesso ed ontologica, iu modo che il passaggio da un termine all'altro importa un progresso nella determinazione dei
concetti e de^li esseri corrispondenti a questi concetti, e nel tempo stesso
una processione del più determinato dal più inletermiaato. L'altra applicazione particolare che fa Speusippo del
principio, cioè la non identità dell'Uno col Bene e U possteriorità di
qu<»sto, non è che un corollario del significato puramente matematico del
numero e della sua anteriorità sugli
altri esseri; l'identificazione platonica del Bene con 1'Uno supponendo
evidentemente che gli altri attributi delle cose siano ricondotti al numero. Ma
vi ha, nella filosofia di Speusippo, un punto d'un'im «io ohe diremo sulla iine
di questo numera. I i portanza capitale è il preteso abbandono della teoria
delle Idee su cui alla testimonianza d'Aristotile possono opporsi delle prove
contrarie, che mi sembrano prevalenti. La prova più forte, e che anche da sé
sola sarebbe decisiva, sta nell'inverosimiglianza intrinseca delle stesse
affermazioni d'Aristotile. Se noi ammettiamo che questi ci espone esattamente
le dottrine di Speusippo, il sistema di questo filosofo sarebbe il più
insolubile dei problemi che ci presenti la storia della filosofia. Perchè Speusippo avrebbe rigettato le Idee? Per le
difficoltà, dice Aristotile, che si oppongono al sistema. Ma queste difficoltà
consistono nelle inconcepibilità inerenti alla realizzazione degli universali.
Allora, perchè avrebbe ammesso le entità matematiche? queste non sono anch'esse
degli universali realizzati? L'ammissione delle entità matematiche non suppone
il principio che 1'astratto è' realmente
separabile xtopwTóv, che la vera realtà è, non il particolare, ma l'universale?
Se si ammette che ai concetti dei numeri
e delle figure corrispoadono dei Numeri e delle Figure astratte e
generali, che coerenza vi sarebbe poi a non ammettere che anche ai concetti
degl’ltr’ttributi delle cose corrispondono altr’entità egualmente astratte e
generali? Se l’entità matematiche di Speusippo rappresentassero l'essenza
stessa delle cose, si puo rispondere che esse bastavano alla realizzazione del
principio che 1'essere si risolve in entità universali: ma poiché, come abbiamo
dimostrato, esse non rappresentano che le determinazioni aritmetiche e
geometriche, per lo stesso motivo per cui di queste determinazioni si fanno
degli esseri reali sussistenti per se stessi, anche lo altre determinazioni delle cose
devono Met. essere elevate ad esseri
reali e sussistenti per se stessi. Ma vi ha di più: la realizzazione dei
concetti non ha un motivo e uno scopo, che unita al metodo dialettico, cioè al
metodo deduttivo applicato alla scoverta di quisti concetti realizzati. E per
quest'unione, come sappiamo, che il realismo divieue una soluzione del problema
delle cause efficienti, perchè il
rapporto tra principio e conseguenza, dopo che questo principio e questa
conseguenza da semplici nozioni mentali sono scati trasformati in entità
sussistenti per se stesse, diviene un rapporto tra causa ed effetto. Ora quale
è stata, nell'ipotesi della verità dell’esposizione aristotelice, V attitudine
di Speusippo verso il metodo dialettico? Ha egli rinunziato a questo metodo?
Ma, in questo caso, perchè avrebbe ammesso delle realtà universali? Lo
ha applicato ni soli concetti dei numeri e delle grandezze geometriche? Ma il
metodo dialettico, come ogni altro sistema dei metafisici sulle cause
effìcient', potrebbe avere altro oggetto che una spiegazione radicale e
universale del mondo reale? e d'altronde, ammesso il metodo della dieresi,
avrebbe potuto esso ricevere
soltanto un'applicazione parziale, e non
abbracciare la totalità dei concetti generici e specifici? o avere in una parte
solamente della sfera della sua applicazione il valore obbieltivo ch'esso ha
nella metafisica platonica, e nel resto un valore puramente logico? Da un altro
canto, noi abbiamo dei motivi di credere che Speusippo, lungi di aver
abbandonato la dialettica platonica, come metodo scientifico
universale, è anzi verso questa parte che ha rivolto a preferenza le sue
speculazioni. In effetto, egli è stato il primo, come dice Diodoro, che ha
contemplato nelle scienze ciò che vi ha di comune, e insieme le ha congiunte,
per quanto è stato possibile, Tuna con l'altra; e nei suoi Dialoghi sui simili
ha cercato le affinità degli esseri della natura a lui conospiuti, applicando particolarmente la
dieresi platonica a quella parte del reale che più ne sembra suscettibile, cioè
il mondo vivente. E che la dieresi fosse anche per Speusippo un metodo
deduttivo, noi dobbiamo inferirlo dal suo apriorismo, anch'egli ammettendo,
come Platone, che la ragione deve sforzarsi di ritrovare tutte le verità,
partendo da quelle che sono evidenti per se
stesse, e ricavandone gradatamente le altre come conseguenze. Se dunque
Speu Ap. Diog. Laert. per la portata di» quest'indicazione Platone Pep, Proclo
Comment. in prim^ Fitclid. elementor, ed. graeo. in Mullaoh i'Y. . Filopono,
commentando un l. dell'Ana?. Post,, in cui Aristotile parla dell'opinione che
Eudemo attribuisce a Speusippo che per definire una cosa bisogna anche conoscere tutte le altre, dice che Speusippo
rigetta la definizione e la divisione. Ma è questa senza dubbio un'erronea
inferenza di Filopono dal luogo stesso commentato. L'opinione di Speusippo non
è, come ha ben avvertito Bitter trad. frane, che un principio dello stefcso
Platone. La conoscenza per/'^ffa
d'un'Idea suppone, secondo i
principii della dialettica platonica, la
conoscenza di tutto il mondo ideale.
Infatti quest'Idea deve essere dedotta dall'Idea suprema, passando gradatamente
per tutte le Idee intermediarie. Di più questo processo discensivo del metodo
dialettico ha bisogno di essere preceduto da un altro processo ascensivo, per
la scoverta delle Idee di più in più generali, a cui l'Idea di cui si tratta è
subordinata. (Plat. Rep.). Cosi, siccome
questa scoverta d'un'Idea generale è
tirata dalla conoscenza di tutte le Idee particolari che le sono subordinate,
perchè non è che la generalizzazione di tutte queste Idee, ne segue ohe
l'ascensione all'Idea più generale, e per conseguenza an »9 ippo ha ammesso il metodo dialettico, s'egli
ha Sconosciuto inoltre Tcsigtenza di entità universali; come credere che, dopo
aver accettato tutti i presupposti
delTidealismo platonico, dopo essersi addossate tutte le gravi
difficoltà del sistema, che sono le inconcepibilità della realtà degli
universali e l'impossibilità di applicare effettivamente il metodo dialettico
come metodo dimostrativo, abbia rinunziato a fare un'applicazione coerente dei
principii, che sola poteva dare al sistema un valore iilosofico? A ciò dobbiamo
aggiungere che, senza la supposizione
che Speusippo ammette anche le Idee, non si comprenderebbe una particolarità
del suo sistema, su cui tanto iusiste Aristotile, cioè inutilità dei numeri e,
in generale, delle entità matematiche, alle cose. Questa inutilità non è un
semplice apprezzamento d'Aristotile, come p. e. quella delle Idee dì Filatone
vale a dire le entità matematiche df Speusippo non sono inutili nel senso che il valore loro assegnato nella
spiegazione delle co^e è chimerico; ma essa risulta evidentemente dalle
proposiz'oni stesse dell'autore si notino sovratutto le parole della Mei.: Né
quegli stesso che lo ammette dice che esso, cioè il numero matematico, sia
causa di alcuna cosa. Se Speusippo ammette le Idee, noi comprendiamo
perfettamente come il suo numero non ohe la
diioensione da essa a na'altra Idea qualunque, cioè una definizione di
quest'Idea, ottenuta col metodo di divisione praticato in tutto il suo rigore,
richiede necessariamente che tutte le altre Idee siano conosciute. Se Speusippo
rigetta la definizione, certamente egU non avrebbe fatta la collezione di
quelle di Platone; e del resto essa è implicitamente ammessa neUa sua
proposizione riferita da Simplicio a l
ArLt. Categ.oA f Mullach
Fr. Speus.: si dicono omonime le cose di cui irnome è «omnne, ma la
definizione ò diversa. sìa causa di niente, òondè, in generale, le sue entità
matematiche non giovino in niente alle cose, e perchè queste esisterebbero,
anche se esse non esistessero: è che
ammesse le Idee, cioè le Idee degli esseri reali, questi si trovano
completamente spiegati, e ogni altra
entità è superflua se i platonici ammettevano anche le entità matematiche, era
perchè la coerenza del sistema delle Idee esige che tutti gli universali
fossero sostantificati. Ma se h^ sole
entità ammesse da Speusippo sono le matematiche sia che faccia loro
rappresentare le sole determinazioni matematiche, sia che vi riconduca anche le
altre determinazioni delle cose che
scopo e che motivo potrebbe avere per lui tale ipotesi, poiché essa non è fatta
servire alla spiegazione del reale? Queste prove intrinseche sono fiancheggiate
da altre prove estrinseche. Vi ha prima di tutto rinverosimiglianza che quello
tra i discepoli di Platone, a cui dove premere più che ad ogni altro la gloria
del maestro, designato senza dubbio dallo stesso Platone a succedergli
neirinsegnaraento, ed egli stesso designante a suo successore un altro
partigiano delle Idee Xenocrate, abbia rigettato la dottrina fondamentale della
filosofìa platonica, e che costituisce il carattere e il punto di connessione
della scuola. Poi, la testimonianza di Dio0)
Mei. Met. MeU . ni. Bitter. Storia della fllos, ant.. trad. frano,: Noi
siamo ora in un tempo in cui la carica del professorato sembra essere stata
trasmessa dai primi maestri ai seguenti Diog. L.; e la continuazione della
scuola accademica tiene verisimilmente alla poisessione del giardino dell'aeea
lemia che aveva già posseduto Platone Plat. De
exiU :n grène Laerzio e dì CICERONE, che affermano che Speusippo è
rimasto fedele alle dottrine del maestro; Tindicazione di Stobeo ch'egli ha
posto la natura dell'anima èv lòécf, xoO
tcocvtt) Staoxaxou potrebbe obbiettarsi che qui il termine lòéoL non va preso
necessariamente nel senso tecnico della
filosofia platonica; ma è questo il
senso che esso ha nella definizione dell’anima di Posidonio, la quale, nella
parte che c'interessa, è certaniente imprestata a Speusippo; l'informazione d’Asclepio
ch'egli ha nmmesso una sostanza distinta per tutti i smiii ciò vuol
dire che di tutto ciò che é uno nei molti ha fatti un'entità distinta;
quella stessa inesatta d'alcuni commentatori d'Aristotile che gli attribuiscono
come a Xenocrate la dottrina d'un solo numero, al tempo stesso ideale e
matematico essa si spiega per l'affinità di questa dottrina con quella reale di
Speusippo, perchè i Numeri matemateci contenevano le Idee delle cose, come i
generi le specie. Aggiungiamo infine che le affermazioni d'Aristotile si
mostrano incerte ei anche contraddittorie,
poiché al tempo stesso che attribuisce a Speusippo di rigettare le Idee,
gli attribuisce pure dì ammettere che le Idee non sono Acad. Kcl Plut. Psicog. Anche Speusippo dice
esservi molte sostanze: altra dice essere delle grandezze, e altra dei numeri,
e in tutti i st«n7t, e ancora altra la sostanza della mente, e altra
dell'anima, e altra del punto, e altra della linea, e altra deUa
superficie. Schol. Arist. a. ed.
Brandis. Siriano ad Met., Filopono allo stesso luogo, Scìiolia in Aristotelem A
ed. Brandis in Mullaoh Fragm phiì,
graec. nùmeri, proposizione che implica evidentemente ch'egli ammette le
Idee. Un error? d'Aristotile nell'iatepretaziooc di questo punto del sistema di
Speusippo non sembrerà tanto strano, se si rifletce alla difficoità che vi ha,
tutte le volte in cui è quistione degli
universali o altre astrazioni dei metafisici, a comprendere se un filosofo dà
loro un'esistenza reale o semplicemente logica. È un fatto di cui lo stesso Aristotile
può fornirci un esempio. Certamente, per
lui, la forma e la materia non sono distinte che logicamente; eppure quant',
senza contare gli oppositori del Rinascimento, che rendeno Aristotile
responsabile degl’orrori degli scolastici, noa l'hanno inteso come se egli
ammette tra di esse una distinzione reale, e le riguarda come vere sostanze,
nel senso che noi diamo a questo termine? Viceversa alcuni fra i più
francamente realisti degli scolastici sono stati compresi talvolta come se il
loro realismo si riduce, in sostanza a questa proposizione, a cui niun
nominalista contradice, che i generi e le specie non sono semplici concezioni del nostro
spirito, ma hanno un fondamento nella natura, eoe nelle affinità reali degli
esseri. E passando ai filosofi Met, Quelli che non fanno le Idee numeri, né
esservi dicono le Idee. Met.: Quelli che non credono esservi le Idee, né
assolutamente né come essenti certi numeri. Met. Per quello che eosl non crede,
perchè vede le difficoltà circa le Idee, sicché
perciò non le fa numeri, ma fa il numero matematico p. e. su Scoto
Jourdain Filos. di AQUINO. Dum. per il senso che quest'autore dà alla parola
reaUsmo, e CONTI Storia della fllos. Alcuni anche come Weber, Stor» della filos»
europ. moderni, uno dei hiìgliori storici della filosofia, il bitter,
non dà espressamente Spinoza per un nominalista? E quanti tra i lettori di
Taine hanno compreso che questi è un
filosofo realista alla scolastica? Il malinteso d'Aristotile si spiega, in
ultima analisi, pelle stesse ragioni che la sua preferenza per
l'interpretazione trascendentalista delle Idee di Platone. È impossibile, come
abbiamo osservato, di formarsi una rappresentazione qualsiasi di entità
sussistenti per sé stesse quali le Idee platoniche, altrimenti che come
separate dagli oggetti reali. Per conseguenza, se noi ammettiamo che Speusippo,
ammaestrato dairesperienza della falsa interpretazione che si da, da Aristotile
e da altri, del sistema del maestro, abbia energicamente insistito
sull'immanenza delle specie nelle cose; noi comprenderemo facilmente come
Aristotile, pella stessa ragione per cui, dalla evidente sussistenza per se
stesse delle specie dì Platone, conclude
che esse erano trascendenti, abbia potuto concludere, dall'evidente immanenza
delle specie di Speusippo, che esse non erano sussistenti per se stesse. Ciò
che pare più difficile a comprendere è l'interpretazione, malgrado ciò, degli
oggetti matematici come entità reali separate, naturalmente, dalle cose:
ma, per la novità della
dottrina, Speusippo dove insistere
sulVanieriorità dì questi oggetti
sulle cose reali, non meno che sull'immanenza delle specie. Ora l’anteriorità,
nel senso platonico, importa evidentemente un'esistenza dell'anteriore distìnta
e indipendente da quella del posteriore. danno Scoto per un oonoettaaliita o un
semi-nommaiiita. Stor. della fidos. trad. frano. Vi ha un altro punto, nella filosofia di
Speusippo, su cui l'impressione che risulta
dall'esposizione d'Aristotile, ha bisogno di essere rettificata, o almeno
completata: è la relazione tra i numeri e lo cose. Noi abbiamo dimostrato,
fondandoci su Aristotile, che i numeri di Speusippo non sono, come i numeri
matematici di Platone, che i concetti i nostri concetti dei numeri, realizzati:
ma ciò non toglie che la teoria dei numeri abbia in Speusippo, come negli altri
platonici, un carattere pitagorico. In
questi concetti realizzati, come in tutti gli altri della metafisica platonica
e come nei semplici concetti di cui parlano i logici, bisogna distinguere la comprensione
e l’estensione: i numeri di Speusippo rappresentano le semplici determinazioni
aritmetiche delle cose, considerati nella loro comprensione ma considerati
nella loro estensione, rappresentano le cose
stesse, perchè sono gli Universali supremi, in cui queste sono
contenute. Ciò risulta già dair anteriorità dei numeri sulle grandezze e le
cose. In efletto l’anteriorità e posteriorità, nel senso platonico, non importa
solamente che il concetto deiranteriore è una parte di quello del posteriore,
ma ancora che il posteriore è contenuto nell’anteriore come in un genere. E che
anche in Speusippo il rapporto di
anteriorità e posteriorità debba essere inteso nello stesso senso, è confermato
da un'obbiezione che Aristotile fa alla sua dottrina sulla materia delle
grandezze, cioè che se vi ha una materia distinta per ciascuna classe di
grandezze linee, superficie e solidi e questa materie si seffuono, vale a dire
stanno fra di loro nel rapporto di anteriorità e posteriorità, allora la
superfìcie sarà una linea e il solido
una superficie. Lo stesso risulta pure dalle
Af«(. 1. xm. iz. s. 62 /Il'»
indicazioni che attribuiscono ai nùmerì
Una causalità sulle cose. Aristotile dice di Spensippo, come degli altri
platonici, ch'egli fa dei numeri le carne prime degli esseri; e noi sappiamo da
Jamblico ch'egli ha chiamato la decade il più efficaze e perfezionmte
cfootxwxotxiQv xal xeXeoxixwxocTTjv
degli esseri, e una forma per se stessa autrice degli effetti del mx>ndo
xtov xoo[iot(5v à:ioxeX60|idxa)v xexvtxóv. La causalità dr'Ue entità
platoniche sta nella derivazione dei particolari dal generale a cui sono
subordinati: le Idee sono le cause delle cose, e le Idee generiche delle Idee
specifiche; è uello stesso senso che i numeri possono essere cause.
Infine, questa snperordinazione dei
numeri alle cose come generi in cui queste sono contenute, è lina conseguenza
della loro esemplarità. Secondo Jamblico, Speusippo ha anche chiamato la decade
il paradigma più perfetto x(p xou
navxò^ tioit^x^ 9e(ji
è evidentemente un'addizione di Jamblico; e secondo Aristotile, il punto,
per lui, non è Y unità stessa, ma è quale Tunità, e la viateria delle grandezze cioè lo spazio non è la
pluralità stessa la materia dei numeri, ma è quale la pluralità. Ciò che nel
platonismo è riguardato come paradigma, è il generale nel suo rapporto al
particolare: le Specie sono i paradigmi delle cose, e i Ge Met. Questo luogo sembra in contraddizione
con gli altri già citati, in cui si nega che i numeri di Speusippo siano cause
degli altri esseri. Essi si conciliano,
ammeltando, come abbiamo fatto, che quando nega ai numeri di Speusippo la
causalità sulle altre cose, Aristotile vuol dire che nel suo sistema le altre
cose non si deducono dai numeri, come avviene in quello di Piatone. ciò
che diremo sulla
fine di questo
numero. TheoU arithm. ed. Ast.
Met. neri delle Specie; cosi è in questo rapporto che i numeri di
Speu«iippo devono essere con le gran
lezzo e con le cose. Ma, i numeri essendo, per Speusippo, i generi delle cose,
ne segue che anche per lui le cose sono, in un certo modo, dei numeri. Questa
deduzione, infatti, è confermata da un luogo di Teofrasto, in cui Speusippo è
compreso tra i platonici che fanno risultare le cose dai numeri e dai loro
elementi. E una conferma ancora più esplicita si trova in Jambitco.
Questi c'informa che Speusippo assegna alle cose particolari dei numeri
distinti, come i Pitagorici e Platone: Tuno era il punto, il due la linea, il
tre il triangolo e il numero della superfìcie, il quattro la piramide e il
numero del solido. Evidentemente noi dobbiamo distinguere tra questi numeri
cose e i numeri matematici. I numeri matematici sono i numeri in se stessi,
le cose sono numeri per la
partecipazione dei numeri in se stessi, poiché, secondo i principi! della
filosofìa platonica, le cose ricevono la loro essenza e la loro denominazione
dalle Idee, cioè dalle entità universali, a cui partecipano. Questa distinzione
tra i numeri matematici e i numeri cose corrisponde in certo modo alla
distinzione abituale tra i numeri astratti e i numeri concreti: n o potremmo
per conseguenza servirci di questi stessi termini per indicare le due sorta di
numeri di Speusippo. I numeri astratti sono i numeri matematici; le cose sono
questi numeri, concretizzati, h' essatesi sviluppa secondo Speusippo, noi lo
sappiamo, procedendo dall'astratto al concreto: esso è prima numero, poi
diviene graadezza. Met. Fr, Theol.
arithm., infine cosa. Sicché gli esseri
particolari possono considerarsi sotto tre aspetti, secondo il grado di
determinatezza dei loro concetti. Ciascun essere, a un primo grado del suo
sviluppo logico, è un numero matematico, e per conseguenza, considerato a
questo grado di determinatezza del suo concetto, è un numero; al secondo grado
del suo sviluppo logico é una grandezza geometrica, e per conseguenza,
considerato al grado corrispondente di
determinatezza del suo concetto, è una grandezza alTultimo grado del suo sviluppo logico e
considerato nel suo concetto completamente determinato, è, inene, una cosa. Le
grandezze geometriche sono i numeri a un primo grado di concretizzazione cioè
con nuove determinazioni che mancano ai numeri astratti questi stessi numeri, a
un grado ulteriore di concretizzazione
cioè arricchiti ancora di altre determinazioni, sono le cose. Il rapporto tra i
numeri-cose e i numeri astratti, cioè matematici, è dunque identico, in
sostanza, a quello tra i Generi e le Specie, p. e. tra V Animale e V Uomo: le
cose non sono i numeri in se stessi, come l’uomo non è l'animale in se stesso, l’animale
astratto – URMSON: THERE’s an animal in the backyard: not my aunt or an ant,
but a middle-sized mammal – stereotipo Rosch; ma esse sono numeri, come l'uomo
è animale. Evidentemente secondo Speusippo, come le cose, anche le Idee delle
cose devono essere numeri. In effetto, assegnando le cose ai diversi numeri,
egli deve prenderle per CLASSI SETS GRICE; vale a dire tutte le cose d'una
stessa CLASSE devono essere per lui
rappresentate danno stesso numero cosi l'uno non è solamente QUESTO
demostrativo punto, ma il punto in generale; il due, solamente QUESTA – THIS
THAT YONDER DTHAT -- linea, ma la linea in generale. BRADLEY THISNESS GRICE
DOSSIER Ora siccome le proposizioni che hanno per soggetto tutta una CLASSE,
secondo i principi! della filosofia platonica, si riferiscono propriamente all'Idea, ne segue che il numero
assegnato ad una CLASSE non è che il numero dell'Idea corrispondente a questa CLASSE.
Ne segue ancora che i numeri matematci devono essere anteriori, non solo alle
cose stcss'^, ma anche alle Idee delle cose. Se infatti si dice
d'una certa CLASSE, p. e. l'uomo,
l'animale, ecc., ch'essa è un certo numero, p
e. il quattro, ciò vuol dire che
il numero matematico corrispondente è un elemento astratto comune a tutti
gì'individui O MEMBRI della CLASSE. Ma
tutto ciò che è comune a tutti gl'individui della CLASSE è compreso nell'Idea
della CLASSE p. e. l'Uomo o l'Animale in
sé comprende tutte le note comuni a tutti gli uomini o a tutti gli animali THE
ONE AT A TIME SAILOR THE ALTOGETHER SAILOR -- ; per conseguenza questo numero
matematico o deve essere la stessa cosa che quest'Idea ciò che è impossibile,
perché i numeri in sé di Speusippo differiscono da quelli di Platone in quanto
non s' identificano con le Idee o deve
essere un che di più astratto che quest'Idea e contenuto in essa, cioè nella
sua comprensione. Quest'anteriorità dei numeri matematici sulle Idee, o
meglio sulle Idee delle cose poiché i
Numeri e le Grandezze in sé sono anch'essi in sostanzi delle Idee è del resto
compresa implicitamente nelle proposizioni di Speusippo che i numeri sono i
primi di tutti gli esseri, ch'essi sono le cause prime degli esseri, e che il
primo numero è il mate N^lla proposizione, venente probabilmente dallo ttesgo
gpeulippo, ohe le Idee non sono numeri in Arigt. Met,, per numeri deve intenderai i numeri in
se stessi, oioè i matematici. Arist.
M9t, Met, matico. Inoltre essa può desumersi dairanalogia
del rapporto tra i numeri matematici e le grandezze in se stesse, cioè le Idee
delle grandezze; essendo evidente, quando Aristotile parla deiranteriorità dei
numeri sulle grandezze, che per queste grandezze intende, non le particolari, i
fenomeni, ma le generali, le entità. li
sistema di Speusippo consiste essenzialmente in una nuova relazione stabìlita fra
i numeri ideali cioè con cui le Idee e le cose s'identificano e i numeri
matematici. Per distinguere i numeri-cose dai numeri dell'aritmetica Platone
aveva ricorso al concetto arbitrario che il numero in se stesso differisce dal
numero di cui parlano i matematici, e a quello non meno arbitrario che le entità matematiche sono
intermediarie fra le Ideo e i sensibili. Xenocrate, per evitare questi due
inconvenienti, abolisce la distinzione tra i due numeri, lasciando cosi intatto il paradosso
pitagorico che identifica i concetti del'e cose coi concetti stessi dei numeri,
quelli di cui è quistione neiraritmetica. Speusippo di^tingup, come Platone, i
numeri cose, i numeri ideali, da quelli
deir aritmetica; ma facendo il contrario di quello che aveva fatto Platone,
dichiara anteriore il numero matematico, e
r ideale posteriore. La dottrina di Speusippo ha due vantaggi su quella
di Platone: il primo di riconoscere che il numero in se stesso, cioè n^l suo concetto, non può essere che quello
dei matematici; e l'altro di dare l'anteriorità tra i due numeri a quello che
è realmente più astratto, essendo
dell'ultima evidenza che gli attributi aritmetici delle cose sono meno
comprensivi, Met. Il namero matemntioo è chiamato il primo numero, in rapporto ai
numeri o«n cui s'identifloano le Idee e le cose, ai numeri contriti. J hanno
meno determinazioni, che le loro essenze stesse, cioè le totalità dei loro
attributi. Del resto, per questa modificazione apportata al pitagorismo platonico, Speusippo trova un
addentellato nella dottrina stessa del suo maestro. Come infatti, nel sistema
di Platone, uno stesso numero poteva essere al tempo stesso più entità
distinte? inconveniente che Aristotile rimprovera pure alla dottrina dei
pitagorici. Se il numero era comune a tutte, non dove essere, per conseguenza,
separabile da loro e loro anteriore? Ben più,
Speusippo non fa altro che spingersi più avanti nella stessa via per cui
si era messo Platone. Questi si era allontanato dalla pura dottrina pitagorica,
vedendo nei numeri, non le cose slesse, ma le sole forme delle cose; Speusippo,
non le forme, ma alcun che di più astratto ancora, di meno comprensivo. Vediamo
ora le altre modificazioni che Speusippo apporta al pitagorismo platonico, in conseguenza della nuova relazione, da lui
stabilita, dei numeri con le Idee e le cose. Cominciamo dai caratteri dei
numeri in sé. Primo, i numeri in sé di Speusippo sono combinabili, perchè
questo è il carattere dei numeri matematici. Secondo, Speusippo abbandona la
generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri 2j, perchè questa
rappre(t> Arist. MeL Met,, in cui Aristotile
rimprovera a quelli ohe ammettono le sole entità matematiche, che per
loro, non solo fra le diverse classi di esseri da loro ammessi, ma anche fra
gli stessi numeri matematici ixepi zoi
àpi^\iO\) Tiavxóg, l'anteriore
non giova per niente al posteriore contrariamente a queUo ohe avveniva nel
sistema di Platone. Qui le parole anteriore e posteriore hanno al tempo stesso
un doppio significato come nelVEth, End.
Vm., seooado ohe si applicano a Sptusippo o senta il movimento dialettico delle
Idee, la derivazione delle più particolari dalle più generali, e i numeri in
t^è per Speusippo non s'identificano più coi Generi e le Specie delle cose.
Terzo infine, nei numeri matematici di Speusippo nou ve ne hanno molti della
stessa specie, come in quelli di
Platone, perchè qupsta
particolarità della dottrina platonica era legata al posto, assegnato alle
entità matematiche, d'intermediarie tra lo Sp^ce e le cose. I due elementi di
Speusippo sono l'Unità e la Pluralità. Egli non riduce più i'demento contrario
all'Uno alla Dualità indefinita, perchè lo scopo di questa dottrina di Platone
era sovratutto di eftet»uare la generazione a Platone alla cai dottrina sui
numeri viene implicitamente opposta
«juella di Speusippo. Applicate a Platone, hanno il significato tecnico che
loro si dà nella dialettica platonica; applicale a Speusippo, non possono
significare che l'ordine dei termini di una serie progressiva qualunque, qual è
quella dei numeri matematici. Arist. Met. rimprovera a Speusippo di non
distinguere, come Platone, una prima diade, una prima triade, eoe danna parte, e dall'altra molte
diadi, molte triadi, ecc. Dunque Speusippo o ha ammesso solamente una diade
unica, una triade unica, ecc., o solamente molte diadi, molte triadi, ecc.
senza subordmarle a un'altra diade, a un'altra triade, ecc. antoriori Ora la seconda ipotesi è inammissibile,
perchè, secondo i principii di tutta la scuola platonica, ogni nioltiplicità
suppone un'unità superiore, a cui deve
essere ricondotta Afelaf., in cui non si fa il no ne di Speusippo, ma SI parla
di quei filisofi che non identificano l'uno col bene e fanno questo posteriore
a quello, opinione che, come sappiamo, è quella di Speusippo e ohe del
resto, nello stesso paragr. è legata all'altra, certamente pure di
Speusippo, che le prime sostanze sono i numeri matematici. anche per la dottrina che stabilisce come elementi l'Unità
e la Pluralità Met. ecc. f - progressiva
dei numeri che Speusippo ha abbandonata. L'Unità naturalmente è l'essenza Oi^sia
la forma, la Pluralità la materia. Speusippo identifica senza dubbio, ad
imitazione di Platone, la prima al limite o limitato e la seconda aWiltimiiato.
Aristotile riguarda l'Unità e la Pluralità ora con e principii dei soli numeri matematici, ora come principii di
tutti gli esseri. Di queste due versioni noi dobbiamo amm»^ttere la seconda,
tanto perchè la dottrina dei due elementi, nella scuola platonica, ha per
iscopo di fondere il sistema dello Idee con le dottrime pitagoriche, e i due
elementi dei pitagorici erano gii elementi di luite le cose; quanto perchè
l'unità di sistema, che è una delle condizioni delle dottrine metafisiche
fondate sulla realizzazione dei concetti e sulla dialettica cioè sulla
deduzione progressiva di questi concetti realizzati gli uni dagli tìtn, esige
che Speusippo deduce tutte le sue entità da un principio unico come etdog
comune di tutte il principio contn»rio essendo conside-rato come la materia. Le proposizioni d'Aristotile che si
trovano in contraddizione con la
versione che noi accettiamo tra cui la principale è quella che Speusippo
stabiliva dei principii distinti per ciascuna delle diverse clast^i di sostanze
da lui ammesse non sono difficili a spiegarsi. Evidentemente 1'Unità e la
Pluralità, quantunque loro venga data la funzione di elementi comuni di tutti
gli esseri, sono particolar Supplem. carta
Met, Mei. eco. Met, carta mente
adattate a quella di elementi dei
numeri; e in effetto, gli elementi di tutti gli esseri essendo delle entità d’una
universalità assoluta, e i numeri
matematici essendo, tra gli esseri, i più astratti e che abbracciano
tutti gli altri nella loro estensione, ne seguiva che questi elementi non
potevano essere altra cosa che gli Universali supremi dei numeri matematici. Ma
Aristotile considera i numeri
matematici di Speusippo come trascendenti, cioè come separati; per
conseguenza la parusia delrUnità e della Pluralità in questi numeri non
importa, per Ini, come por Speusippo, la loro parusia in tutti gli altri
esseri. Cohi egli non può riconoscere la loro funzione di elementi costitutivi,
cioè d'ingredienti, degli esseri, che nella sfera dei numeri matematici. Da un
altro canto egli non tiene alcun conto
della loro causalità sugli altri esseri, perchè questa, che non è altra cosa
che il legame dialettico tra il principio e le cose dedotte dal principio, è una
sorta di causalità che non può ricondursi ad alcuna delle quattro specie di
cause riconosciute da Aristotile. Cosi egli non può vedere neir Unità e la
Pluralità, rispetto agli altri esseri oltre i numeri matematici, il carattere
di principii, in nessuno dei sensi di
questo termine. Potrebbe credersi che per ragioni analoghe Aristotile dovrebbe
vedere nell'Uno e la Dualità indefinita di Platone i principii dei soli numeri
ideali e non degli altri esseri. Ma vi ha fra i primi numeri di Platone e
quelli di Speusippo una differenza importante. I primi numeri di Platone sono
identici alle Idee, e la dottrina che le Idee sono le cause di tutti gli esseri tiene troppo posto
nella filosofia platonica. perchè Aristotile potesse Don tenerne conto, non
considerando i principii di queste cause come principii ancora dei loro
effetti. Al contrario i numeri di Speusippo appariscono cosi poco le cause
delle entità posteriori, che queste, come dice Aristotile, esisterebbero, anche
se quelli non esistessero proposizione che esprime esattamente la dottrina di Speusippo, come
vedremo sulla fine di questo numero. Un'altra differenza che, quantunque abbia
in se stessa poca importanza, ne acquista molta agli occhi d'Aristotile, è il
modo in cui nel sistema platonico le grandezze vengono dedotte, facendole
risultare dai numeri e dalla materia. Aristotile mette in antitesi questa
dottrina con quella di Speusippo, che fa la
natura sconnessa come una cattiva tragedia perchè, come ha detto nel
numero precedente, le cose esisterebbero non esistendo le entità matematiche, e
non esistendo i numeri esiterebbero le grandezze. La derivazione logica del
realismo dialettico non ha per Aristotile alcun valore come derivazione reale:
egli dà quindi più importanza al suo simbolo materiale, che la esprime come la
produzione di un tutto per i suoi elementi, e vi vede il nesso ontologico fra
le diverse classi di entità, che non trova nel sistema di Speusippo. Non vi ha
dubbio d'altronde che, quando Aristotile parla di principii distinti per le
diverse classi di sostanze ammesse da Speusippo, questa parolaprmctpu non abbia un significato
differente da quello tecnico che essa e il suo sinonimo elementi hanno nella filosofia platonica, vale a dire
di concetti realizzati della generalità più elevata, da cui tutti ^\\ altri,
più particolari e compresi flotto di essi, sono dedotti. Cosi per i principii
delle gran Met. Met. r-M dezze Aristotile intende certamente il punto e lo
spazio con cui, coroe vedremo in seguito, Speusippo costruiva la grandezza
estesa: è ciò che risulta dalla Metafisica, dove il moflo in cui le grandezze vengono dal punto e
dallo spazio è assimilato a quello in cui i numeri vengono dall'unità e dalia
pluralità. Ora evidentemente il punto non può essere considerato come r elSog generale
delle grandezze Aristotile ne riguarda lo spazio come la materia. In quanto poi
al princìpio distinto deiranima, di cui si
parla il. 4, per esso non può intendersi che il sustrato iperfisico dei fenomeni psichici ammrsso da
tutti i filosofi animisti, la parola anima designando il complesso di questi
fenomeni secondo il senso, affatto naturalista, che questa parola ha nella
filosofia dello stesso Aristotile e non la sostanza anima. GRICE METHOD IN
PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY Sarebbe infatti incomprensibile che Speusippo avess'^.
separato Tanima dal sistema aniversale degli esseri, rinunziando, per
un'inconcepibile eccezione, a
coordinarne ridea con quelle delle altre cose sotto un'Idea più generale: è ciò
intanto che significherebbero le parole: nu principio distinto dell'anima, se
il termine jormcipio dove prendersi nel senso tecnico della filosofia platonica
che sopra abbiamo spiegato. Del resto, si vede chiaramf^nte dalle allusioni di
Aristotile, che fra tutti i principii in generale, attribuiti a Speusippo nel senso vago in erti il termine
è impiegato dallo stesso Aristotile, il carattere di elementi nel significato
platonico nen appartiene che all'Unità e alla Pluralità. Potrà sembrare strano
che Platone chiami i due Universali
supremi elementi, e 1'uno Vessenza o la forma, l'altro la materia, delle Idee e
delle cose. Questi nomi M.--7i ìnplìcherebbero
che queste due astrAzìoni, le più povere di contenuto di tutte le astrazioni
realizzate della metafìsica platonica, esauriscano, nella sua totalità, la sostanza
di tutte le cose, che basti il loro concorso a costituire, integralmente, gli
esseri, e che i concetti delle cose non
con<tino che dei loro concetti. Ma noi comprendiamo quest'apparente
paradosso, mettendoci al punto di vista della dialettica platonica: siccome
tutte le Idee si deducono dalle due Idee più generali o meglio, dall'Idea più
generale, perchè l'elemento materiale non è, nella dialettica platonica, che un
vero principio, pep dir cosi, inerte come la nostra materia, e il principio attivo, veramente produttore, non è
che V slòoc,; cosi tutto è implicitamente contenuto in queste due Idee, e
l'universalità d'agli esseri, con tutti gli attributi che li costituiscono,
risulta realmente, in un certo modo, dalla loro unione. Naturalmente
quest'osservazione deve applicarsi anche alla dottrina di Speusippo: quando
Speusippo chiama l'Unità e la Pluralità gl’elementi, eia prima Vessenza, l'altra la materia, degli
esseri, ciò suppone che l'Unità e la Pluralità costituiscono, per lui, la
sostanza desili esperi, che questi sono implicitamente contenuti in quelle, e,
per con«»eofiiPnza, che tutte le Idee de;»li
es<?eri Numeri, Grandezze e
Idee delle cose si deducono dall'Unità e la Pluralità o piuttosto dalla sola
Unità, perchè la Pluralità è la materia, e il vero principio dialettico non è che l'slòo(;. Lo
stesso risulta dalTappellativo di principii. Arici per il nome di elementi dato
all'Unità o alla Pluralità, i 1.
indicati nella carta meno quello in cui questo nome non è impiegato. Per
que:4ti nomi i l.
indie, carta stotile, è vero, osa questo tertnine in un senso vago, ma che,
trattandosi di entità platonich', non potrebbe uscire, in sostaozH, da questi due significati, cioè, l'uno, di elementi
costitutivi, d'ingredienti, per dir cosi, delle cose, e Tallro che è
proprianiente quello della dialettica platonica di cause prime, di esseri
primitivi, da cui gli altri procedono. Tuttavia non vi ha dubbio che in alcuni
caii egli non chiami gli elementi di Speusippo />rmct/>u in questo
secondo senso: è cosi che fa quando attribuisce ad essi al tempo stesso la
doppia qualità di elementi e di principii p. e.: quelli che dicono l'uno
principio, essenza cu elemento di tutte le cose; e tutti quelli che dicono
1'uno f^lemento e principio degli esseri, e più chiaramente ancora, quando
allude alla dottrina di Speusippo che il bene e 1'essere non sono identici al
principio, ma gli sono posteriori, tanto più che egli oppone questa dottrina
alla sua propria e a quelle dei
teologri e di altri filnsofi che fanno della divinità o di un esHfr^ analooo U
causa prima delle cc.se nel senso dialettico, 1'appellativo di principio non
conviene propriamente choi all'Uno PRIMI PRINCIPIO two principles a contradiction
--; e infatti è a quest^elemento che lo
dà a preferenza Aristotile – arche UNO – cf. IMPERATIVO – general principles of
rational discourse – GRICE --, nei
luoghi indicati e altrove- Dallaa Priorità dei numeri matematici sugli altri
esseri, e dall i loro non identità con le Idee e le cose, ne segu'^ che i due elementi -i quali non possono essere che gli attributi
universali della classe più astratti di esseri, per conseguenza dei numeri
materaaviei non hanno in Speusippo che un significato Met. matematico. Cosi
l'Uno non è il bene VNVM BONVM PVLCHRVM
VERVM -- né Tessere probabilmente il bene e il
male e Tessere e il non essere fanno parte delle due auoxotx^at di contrari, di cui stiamo per parlare, e che
Speusippo non identifica, come Plalone, ai due elementi, ma loro subordinavané
può identificarsi con alcun altro dei principii che esso rappresenta nella
dottrina di Platone cioè lo stato,
l'eguale, lo stesso, ecc, tranne, naturalmente, il «èpa;. Il simile
potremmo dire della Pluralità. Noi sappiamo da un luogo delTJ^^A. Nic. che Speusippo ammette, come i
Pitagorici e come Platone, la dottrina delle due auoxoixtat di contrari]; ma
questo luogo non ci apprende niente sul carattere della dottrina propria di Speusippo, tranne che chiama Met. In
effetto, quantunque Speusippo facesse
scendere l'Idea del bene dal grado di PRIMO PRINCIPIO, e mettesse al suo posto,
al vertice della piramide ideale,
l'Unità matematica, egli non poteva rinunziare però interamente al
concetto platonico della supremazia del bene nella natura, cioè, in sostanza,
al concetto teleologico. Che egli non 1'abbia fatto noi possiamo desumerlo
infatti dagli stessi luoghi indicati d'Aristotile sulla non identità del bene col PRIMO
PRINCIPIO Met., Siccome le due ouaxoixfat sono formate di concetti della
generalità più elevata, aggregandovi il bene, egli avrebbe conservato almeno
all'antico principio platonico, per quanto era possibile nella sua propria
dialettica, una specie d'universalità. Che il bene non abbia più nella
dialettica di Speusippo la funzione di principio, nemmeno delle sole Idee delle cose, si desume
anche da uno dei motivi, attribuitogli da Aristotile Met., per allontanarsi
dalla dottrina di Platone: è che se il bene fosse identico all'uno, le specie
essendo numeri, tutte le specie, tutti gli animali e le piante – cabbages are
good -- , sarebbero del beni. Inconveniente che resterebbe anche se le specie
non fossero numeri e il bene, senza
identificarsi con l'uno, fosse tuttavia il principio delle specie delle
Idee delle cose. k~ 1^ runa deile due serie, pure come i Pitagorici, la serie
dei beni, e vi ^comprende l'Unità e, per
conseguenza, nell'altra la Pluralità. Evidentemente, dalla funzione deirUnità e
la Pluralità di principi di tutti gli esseri, ne segue che tutte le altre
opposizioni delle due ouoxotX^at dovessero ricondursi a quest'opposizione primitiva, subordinando, in
ciascuna, V uno dei termini all'unità, identica al limitato, e l'altro alla
pluralità, identica alTillimitato. Questa riduzione delle altre coppie di
opposti alla primitiva era in Platone, come sappiamo, una vera identificazione;
ma in Speusippo non poteva essere che una semplice subordinazione identica, al
fondo, a quella delle specie al genere.
Queste coppie, in effetto, che dovevano rappresentare le opposizioni
fondamentali del reale, cioè le più universali e a cui tutte le altre o la più
parte possono subordinarsi, non avrebbero potuto, evidentemente, ridursi ai due
semplici concetti dell'unità e della pluralità, nel significato puramente
matematico. Verisimilmente Speusippo impresta le opposizioni delle sue
auaxotx^ai una parte da Platone, e il
resto dai Pitagorici: è almeno ciò che potrebbe inferirsi da un luogo della Met.
in cui si attribuisce ad alcuni filosofi che vedono nei numeri e, in generale,
nelle entità matematiche, le cause della natura, di contare nella
ouoTotxCa dei beni l' impari, il retto, l’eguale,
il quadrato. Questa indicazione sembra doversi riferire a Ciò solo mettono in
chiaro, ohe il bene esiste, e ohe della
ooaxoixia del bello sono V impari, il retto, l'eguale, le potenze àt
òuvoc^isig, cioè i quadrati di certi numeri. Se, come congetturiamo da questo
luogo, Speusippo comprende in una delle due ouaTOtX^at il quadrato naturalmente
in quella del limitato, esso e il suo opposto l'oblungo éTspó|iy)X£g dovrebbero
evidentemente Speusippo, perchè nò i Pitagorici, né Platone, né, per quanto
pappiamo, altri platonici, tranne Speusippo, riguard^ivano come cause delle
cose le entità matematiche in generale, cioè, non solamente i numeri, ma anche
le grandezze geometriche, Alla dottrina che gli rlementi sono TUnità e la
Pluralità e non la Dualità indefinita è legala, in Aristotile, quella che le
grandezze vengono dal punto e dallo spaz'O, la quale, per conseguenza, noi dobbiamo attribuire anch'essa a Speusippo.
Non si tratta, evidentemente, che di una leggiera variante delia costruzione
platonica della grandezza estesa: i solidi risultano dallo spazio racchiuso e
dalle superficie che lo racchiudono; le superficie dallo spazio e dalle linee
che lo circoscrivono; le linee dallo spazio, cioè dall'intervallo, e dai punti
da cui sono limitate. Solamente, mentre
Platone non aveva applicata questa costruzione che alle granprendersi,
in questa sua dottrina, non nel significato puramente geometrico, ma in uno più
largo, in cui quest'opposizione potesse applicarsi anche ai numeri forse della
stessa maniera che nel Teeteto. Bel resto G. crede che tutta questa parte della
Met. allude alle dottrine di Speusippo Vi si parla infatti d'una teoria dei
numeri, alla pitagorica, e non potrebbe
essere quistione degli stessi pitagorici, perchè, in questa teoria, il rapporto
tra i numeri e le cose è la partecipazione xoiVCDvCa, e la conclusione di tutto
il capitolo è che gì oggetti matematici non sono i principii e non sono X^P^^
<iai sensibili. Di più, la dottrina di cui si parla viene distinta da quella
dei numeri ideali: non potrebbe dunque essere che la dottrina dei numeri matematici, come cause
delle cose, !a quale non avremmo alcun motivo di attribuire ad altra scuola
platonica che a quella di Speusippo. Met. dezzé Cullerete e particolari, cioè
ai corpi, Speusippo invece Tapplica immediatamente alle grandezze astratte e
generali, cioè alle geometriche Vi ha però tra la dottrina di Platone e quella
di Speusippo una differenza, dipendente dalla modificazione che queliti apporta
alla teoria dei numeri. Platone non fa risultare propriamente le linee dallo
spazio e dai punti poiché egli non ammette il punto come entità reale ma dallo
spazio e dalle monadi, benché in questa costruzione le monadi fungessero in
sostanza da veri punti; Speusippo invece non poteva identificare più il punto
con V unità, perchè gli esseri, per lui,
non erano più identici ai numeri in se stessi. Ma questa differenza era ben
sottile, le unità di Platone, danna parte, in quanto servivano alla formazione
delle grandezze estese, non potendo riguardarsi come vere unità nè ideali né
matematiche, e dall'altra parte, il punto di Speusippo, venendo dalrUnità, ed
essendo, per consegu<»nza, non in verità una unità asfraffa, ma una unità concreta. Quanto Aristotile Per
conseguenza la parola spazio, trattandosi della dottrina di Speusippo, deve
prendersi in un senso un po'differente da quello ch'esso ha nella dottrina di
Platone. Lo spazio del Timeo, dovendo servire alla produzione di oggetti
individuali, è anch'esso un oggetto individuale, cioè il tutto di cui gli spazi
particolari, finiti, sono delle parti. Lo spazio di Speusippo invece, in quanto almeno serve alla
produzione di entità generali, deve essere un'entità generale anch'esso, quella
di cui tutto ciò a cui diamo il nome di spazio, sia lo spazio totale, infinito,
sia uno spazio finito, è una partioolariazazione nel senso in cui le cose lo
sono delle Idee. Quale materia dell'esteso, lo spazio non è chiamato da
Speusippo xónog, come da Platone, ma StdaTTìjJia (v. >/«M,, forse perchè
esso non è lo spazio esteso in tutte e tre le ditensioni che in una sola
delle tne classi di entità linee, superficie e solidi che egli
costruisce. Arist. Met. parla della dottrina che la superfìcie, la linea, il
punto e r unità, o semplicemente la superficie, la linea e il punto, sono
sostanze e più sostanze del corpo stesso; certao^ente egli non allude alla sola
costruzione dell'esteso che noi attribuiamo a Speusippo, ma a quella, in
generale, della scnrla platonica. Tuttavia,
se l'entità, da cui e dallo
spazio procedevano le linee, è da lui chiamata un punto, ciò sembra supporre che
alcuno dei filosofi che ammetteno questa costruzione avesse già dato questa
entità esplicitamente come punto Senza dubbio Speusippo vede anche in questa
costruzione dell'esteso, come aveva dovuto fare pure Platone il punto essendo
ricondotto all'unità o limite, e lo spazio alla
pluralità o tVZimiYa^o un'applicazicne del principio pitagorico che le
cose constano del limite e àeW illimitato. Non ci resta, infine, che ad
esaminare quali modificazioni ha potuto apportare nella dialettica platonica la
nuova relazione che Speusippo stabiliva tra i numeri, da una parte, e le Idee e
le cose, dall'altra oltre alla detronizzazione dell'Idea del bene, di cui
abbiamo già parlato. Dalla dottrina che
V Uno e la Pluralità sono gli elementi di tutti gli esseri, non che dal bisogno
dell'unità sistematica, necessaria al tipo di metafisica a cui appartiene il
sistema di Speusippo, segue che, come abbiamo detto, tutt(5 le entità di questo
filosofo devono secondo lui, dedursi dall'Uno e la Pluralità, o, più propriamente, dall'Uno, perchè nella
dialettica platonica modificata per la
fusione del sistema delle Idee coi concetti pitagoricij il vero principio, in
sostanza, è quello dei due elementi che funge da slSog. In altri termini, tutte le Idee,
secondo Speusippo, quelle dei numeri. Supplem. carta quelle delle grandezze geometriche e quelle
delle cose, devono nascere dalla dieresi progressiva deir Uno. A quest'oggetto,
Speusippo non avrebbe potuto servirsi che deir
uno o dell'altro di questi due processi. Cioè o di dedurre
s'intendr>, col metodo di divisione prima dall'Uno i Numeri, e poi da
ciascun Numero le Grandezze e le Idee deMe cose ad esso subordinate. Ovvero
-siccome tutto ciò che esiste è al tempo stesso un numero, una grandezza e una
cosa di dividere gli esseri, nella loro universalità, tre volte, ciascuna ad
uno di questi tre diversi punti di
vihta, cioè come numeri, come grandezze e come cose, partendo in ciascuna di
queste tre divisiodairUno come sIòoq generale di tutti gli esseri, sia
riguardati quali numeri, sia quali grandezze, sia quali cose. A questo modo si
avrebbero tre SCALE dialeit'che distinte, ma convergenti alla loro «emmHà
nell'Udo, rappresentanti ciascuna la totalità degli esseri: quelU delle Idee
dei numeri, quella delle Idee delle
grandezze e quella delle Idee delle cose. Di questi due processi Speusippo non
ha potu'o seguire il primo, perchè, se nel suo sistema le grandezze si
deducessero dai numeri e le cose dai numeri e dalle gran-i» zze, Aristotile non potrebbe dire che le cose
esisterebbero anche non esistendo le entità matematiche, e le grandezze anche
non esistendo i jnumeri. D'altvon'^e è
solo il secondo di questi due processi che perii»ettcva di nou violebtare
troppo apertamente le affinità reali delle cose. Noi dobbiamo dunque ammettere
che secondo Speusippo le Idee di cose cioè
delie cose concrete, dei numeri all'ultimo gradì di concntlz '.azione s'
deducevano progressivamente, alla maniera di Platone, dalle Idee di cose
più generali, a partire dall'Uno, da cui cohi queste Idee provenivano
direttamente, e non a traverso quelle dei numeri e delle grandezze. Così
Aristotile ha ragione di dire che ciascuna delle tre classi di entità
esisterebbe anche se le altre non esistessero Tuttavia, se le tre classi di
entità non si deducevano l'una dall'altra, ciò non impediva che vi fosse tra di
loro quella derivazione logica e, per conseguenza, anche ontologica, necessaria per chiamarle
anteriori e posteriori. Questa derivazione, nel sistema di Speusippo, era un
risultato non cercato del principio platonico che tutto ciò che esiste è
logicamente impossibile che non esista, e tutto ciò che non esiste logicamente
impossibile che esista. I numeri sono una
i|orta di generi relativamente alle cose e alle grandezze, che ne
sarebbero come delle specie. Ora, in conseguenza di questo principio, ciascuno
di questi generi si concretizza necessariamente nelle sue specie esistenti e in
queste sole specie. E questo carattere che, unito all'esistenza pure necessaria
del genereche, in virtù dello stesso principio, compete anche ai numeri di
Speusippo e all'essere questa data anteriormente a qu«»lla delle specie, fa
della dieresi platonica una derivazione
logica e, mediante la realizzazione dei concetti, anche ontologica. Speusippo
può dunque, per le stesse ragioni, considerare come una derivazione logica ed
ontologica benché in questo caso non si applichi il metodo di divisione anche
il passaggio dai numeri alle grandezze e alle cose. Per le grandezze
relativamente alle cose vale lo stesso che abbiamo detto per i numeri relativamente alle grandezze e alle cose. E
cosi che Speusippo può stabilire, tra le sue tre classi di sostanze,
un'anteriorità e posteriorità conforme al significato che questi termini hanno
nella filosofia platonica. Quest'anteriorità e posteriorità, esistente tra le
tre sfere in cui egli divide il reale, esiste, a più forte ragione nell^interno
di ciascuna sfera; e ciò che riassume il sistema di Speusippo, come del resto anche quello di
Platone, è Tidea di uno sviluppo estra-temporale, che va sempre da uno stato
più indeterminato a uno stato più determinato, e di cui egli vede Timmagine
nello sviluppo delle piante e degl’animali. Arist. Met. Quantunque nel
corso del saggio G. tocca parecchi punti
delle dottrine di Platone sull’anima, giove forse di presentare queste dottrine
nel loro insieme, malgrado che ciò debba colarci delle ripetizioni inevitabili.
Il nostro scr^po na turai ment'. Non è di fare un'esposizione di questa parte
della filosofia di Platone. Ci basta d'indicare i punti più rilevanti per
mettere in luce il significato reale delle dottrine platoniche contro l’interpretazioni
erronee e più o meno arbitrarie che se ne sono date. Il sistema di Platone sull’anima
è l’animismo antico, sviluppato con più conseguenza che in alcun altro
filosofo, e trasportato cosi, dalPuomo e gli altri esseri animati
dell'esperienza, all'universo, considerato anch'esso come un essere ANIMATO. Il
carattere dell'animismo antico è che l'anima è riguardata, non solo come una
sostanza, ma come una sostanza analoga a quelle dell'osservazione, cioè
materiale o semi-materiale. Questo concetto dell'anima si trova, quasi senza
eccezione, in tutti i filosofi greci prima d'Aristotile. Quelli fra di essi che
noi pos3Ìamo considerare come i rappresentanti dello spiritualismo antico,
come oltre a Platone, Anassagora, non
sono spiritualisti nel nostro senso, perchè non hanno idea d'una sostanza
assolutamente immateriale, cioè che non occupa uno spazio. Da un'altra parte i rappresentanti più genuini
del materialismo, come Democrito, non sono materialisti nel senso moderno,
perchè anch'essi riguardano l'anima come una sostanza distinta dal corpo,
benché materiale come questo. Un materialismo rigoroso, cioè che non ammette il
dualismo d'anima e di corpo, non si trova, prima d'Aristotile, che in alcuni
pensatori isolati e d'una importanza secondaria: Ippone secondo cui l'anima era
acqua e il seme era la prima anima, Crizia che identifica l'anima col sangue, e
gli autori sconosciuti della dottrina che l'anima è l'armonia del corpo, sono
forse i soli, tra i filosofi ricordati da Aristotile, che noi possiamo
riguardare come materialisti, nel senso moderno e rigoroso del termine. Anche
dopo Aristotile, in cui a parte la sua dottrina
sul Nous apparisce per la prima volta il concetto scientifico dell'anima
poiché per lui la distinzione dell'anima e del corpo si riduce a quella della
forma e della materia, il concetto dominante continua ad essere quello della
sostanzialità, e noi lo ritroviamo anche in LUCREZIO, che si rappresenta
l'anima come una sostanza sottile, che è diffusa in tutto il corpo, e di cui la
parte dominante, cioè L’ANIMO o la
mente, abita nel cuore. Arist. De An.; Plat. Fedo. De rer. nat. Le dottrine
platoniche sull'anima entrano dunque perfittamente nell'ordine di idee
dell'epoca, anzi generalmente del mondo antico. Cosi Platone non sente il
bisogno di provare a I CHURCHLAND, ma afterma come un principio che nes uno potrebbe contestargli, questo presupposto
fondamentale di tutta la teoria: che
l'essere animato è composto di due sostanze, un'anima e un corpo; che LA VITA
risulta dall'unione di queste due sostanze, e la morte dalla loro separazione.
Tuttavia sulla base di questo dualismo egli fonda una dottrina che, tra quelle
del doppio materialismo antico, è la più conforme ai concetti del moderno
spiritualismo, riguardando 1'anima e la materia cioè il substratum di tutti i corpi come due sostanze diverse e
radicalmente opposte. Ma con ciò Platone non fa che sviluppare logicamente il
concetto fondamentale d'ogni animismo. Questo è che il principio della vita e
della coscienza deve essere qualche cosa di distìnto dalle sostanze che
costituiscono il corpo, poiché è impossibile di comprendere che una stessa
sostanza passi dallo stato di vivente e
di cosciente a quello di non vivente e di non coscientt – GRICE HUMAN
PERSON -- , e viceversa . Ora, se è
cosi, sarà pure incomprensibile una conversione reciproca tra la sostanza anima
e una sostanza materiale qualsiasi: per conseguenza, tutte le sostanze
materiali essendo, secondo Platone, convertibili 1'una nell'altra, non vi sarà
nell'universo che una sola dualità irriduttibile e veramenie fondamentale, quella dello spirito --
MIND WHAT’S THE MATTER? NEVER
MIND A JOURNAL OF PSYCHOLOGY AND PHILOSOPHY -- e della materia. Nondimeno sarebbe un errore fare di Platone un
campione dello spiritualismo nel senso moderno. Egli resta ancora, in sostanza,
sul terreno del doppio. Fedo, Gorffio,
Epinom ] maUrialismo primitivo: ranima,
secondo lui, è estesa e si muove, e non afferma senza restrizione che
non può essere oggetto dei sensi esterni. Il movimento deir anima é una
conseguenza logica della sua semi-materialità: l'anima infatti è il principio
motore dei corpi perchè il movimento spontaneo è il carattere distintivo deir
essere animato – ANIME TUNE, e non si comprendo come una sostanza materiale o
quasi materiale possa muovere se non
comunicando il proprio movimento. Così Platone applica all'anima stessa la
definizione che converrebbe all'essere animato, ciò che muove se stesso --
AUTOMOBILE, vedendo nell'attributo della spontaneità del movimento
un'espressione più completa dell'essenza dell'anima che in quello della
coscienza – GRICE I AM THINKING OF HITLER, MIND --, forse perchè gli sembra che il movimento
spontaneo implica necessariamente la coscienza, mentre questa non implica
quello. Il movimento spontaneo non solo è 1'attributo essenziale dell'anima, ma
si trova in essa continuamente, perchè da una parte LA VITA, negli esseri
animati che noi osserviamo sulla terra, consiste in un movimento incessante, la
cui sorgente secondo Platone non può
trovarsi che neli' anima, e da un'altra parte gl’astri il cui movimento
spontaneo prova che sono anch'essi degli esseri animati non cessano mai nemmeno
essi di muoversi. Il doppio materialismo in Platone dà luogo ad una dottrina,
che non è senza analogia, almeno se si prende strettamente Tim. Append, Lefjgi
e Fedro Tim., Fedro, ecc. alla lettera, con quella del moderni materialisti estremi dell'IDENTITA dei fatti
PSICHICI e aei movimenti organici che ne
sono la causa: il pensiero e tutti i fatti
PSICHICI in generale sono per Platone dei movimenti dell'anima,
proposizione che, intesa in un senso rigoroso, risolverebbe il subbiettivo
nell'obbiettivo, e potrebbe avere per iscopo di far consistere tut!;o il reale
nell'estensione e le sue modificazioni, per
poi ridurlo più facilmente allo spazio limitato dalle unità, per
conseguenza al numero. Tuttavia la proposizione non deve forse prendersi nel
suo senso rigoroso: essa potrebbe significare semplicemente che i movimenti
deil'anima sono la causa del pensiero e degli altri fatti PSICHICI. Ma anche in
questo caso si avrebbe evidentemente una sorta di dottrina seoii-materialista,
che spiegherebbe anch'essa i fenomeni
della coscienza per quelli del mondo obbiettivo, e non differirebbe dal
materialismo propriamente detto, che perchè ai movimenti dell'organismo
verrebbero sostituiti quelli di questa specie di maieria imponderabile, invisibile e impalpabile, che
è, secondo Platone, l'anima. Il concetto che l'anima muove gli organi per
impulsione, cioè comunicando loro il proprio movimento, ci fa comprendere
quello della sua tri-partizione. Platone crede evidentemente che i movimenti
vitali si propagano a partire da certi centri indipendenti fra di loro. Questi
sono, almeno sovratutto, il cervello, il cuore e il fegato – GRICE LOOSE LIVER.
Cosi egli divide l'anima in tre parti separate, dando loro per sedi le tre
cavità del corpo in cui soao
contenuti'questi r^ a. carta
Leggi, Fedro, Arisi. ni. . rie
an, f'ì It organi dottrina
ammessi pure da Ippocrate, e che poi fa adottata da Galeno. La parte deiranima
che è il substratura dell'intelligenza il Xoyioxixóv abita nella cavità
cranica; quella in cui risiedono la collera e il coraggio il 0D|xós è alloggiata nella cavità toracica – IL TORSO
DEL BELVEDERE --; la terza a cui
appartengono gli appetiti sensuali, la più parte dei quali sono in
rapporto eoa le funzioni della nutrizione (r
èTTiGDfAYjiixóvì è
alloggiata nella cavità addominale,
nella regione posta tra il diaframma e l’ombelico. L'esame psicologico viene a
confermare questa tri-partizione dell'anima, fondata senza dubbio su una base
fisiologica; poiché le attività PSICHICHE corrispondenti alle tre partì
manifestano, per la contrarietà delle loro tendenze, ch'esse apparrengono a dei
soggetti distinti. Al concetto delia sostanzialità dell'anima è unita
seneralmente la dottrina della sua sopravvivenza, e spesso anche quella della
sua preesistenzi. Tanto la sopravvivenza quanto la preesistenza sono per
Platone illimitate: Tanima, secondo lui, non è solamente immortale, ma eterna. Questa dottrina del nostro filosofo è, come
quella deir opposizione radicale tra lo spirito e la materia. uno sviluppo
perfettamente logico del principio dell'animismo. L'ipotesi della sostanza
anima, come sappiamo, è destinata a spiegare il passaggio della materia dallo
statD di VITA e di cìseienza – GRICE I
AM THINKING OF HITLER MIND REVIEW OF PSYCHOLOGY AND PHILOSOPHY -- allo stato
coatrario, e viceversa: siccome ci sembra incomprensibile che una stessa
sostanza si trovi alternativamente in questi due stati contrari per l'induzione
istintiva, tirata dalle nostre esperienze più familiari, che l'essenza delle
cose non Galeno De placitis Hippocratii et Platonis. Tineo Rep, può cangiare,
ne concludiamo che questo passaggio è dovuto a un'altra sostanza distinta, che è il substratum della VITA
e della coscienza – PERSONAL IDENTITY, e
che ora si unisce alla materia, ora se ne depara. Ma se si ammette che questa
sostanza supposta, cioè la sostanza anima, è soggetta ossa stessa alla nascita
e alla morte, si va incontro alla stessa difficoltà che si è voluto evitare con
la sua supposizione, cioè rincomprensibilità che una stessa sostanza da vivente e cosciente diventi non
vivente e non cosciente, e viceversa: infatti, una creazione e un annientamento
assoluti essendo inconcepibili, rincominciare ad esistere, per l'anima, non
potrebbe essere che una trasformazione di qualche sostanza preesistente, che
acquisterebbe le nuove proprietà della vita e della coscienza che sono quelle
che caratterizzano l'animaj, e il
cessare di esistere un'altra trasformazione della stessa sostanza, che
perderebbe le nuove proprietà acquistate. Le ragioni stesse per cui si suppone
una sostanza anima, conducono dunque ad ammettere che questa sostanza non può
cominciare ad esistere né cessare di esistere. Queste ragioni, a dir vero, non
proverebbero rigorósamente l'eternità dell'anima individuale, ma quella
della sostanza deiranima, di cui una
certa individualità determinata potrebbe essere uno stato transitorio GRICE
HUMAN PERSON. Ma la forma più naturale, anzi la sola naturale, che possa
rivestire il concetto della preesistenza e sopravvivenza della sostanza
dell'anima è evidentemente ia preesistenza e la sopravvivenza dell'anima
individuale PERSONAL IDENTITY. L'identità dell'anima, infatti, suppone
l'identità della coscienza; per conseguenza alla persistenza dell'anima deve
corrispondere la persistenza della coscienza; ora noi non possiamo concepire
che la coscienza persista cioè che la stessa coscienza continui ad esistere se
non conservando la sua individualità. La
dottrina platonica deirimmortalità, anzi dclTeternità, delTanima ha dunque una
basa logica perfettamente naturale
quantunque d'un'evidenza illusoria, come lutti i sofismi a priori del nostro
spirito: ma Platone, per dimostrare quest'immortalità, si serve di sofismi
artificiali y che evidentemente non possono essere dei motivi reali della
dottrina. Ciò si spiega per la natura incosciente del processo logico di cui questa dottrina ò la conclusione. II
concetto della sostanza anima non
suppone necessariamente una deduzione dal principio generale che le
sostanze non possono cangiare nelle loro proprietà essenziali, e meno ancora
un'induzione co«c^6/^^e dalle nostre esperienze più familiari che ci
suggeriscono questo principio gener.ile. La spiegazione della vita e della
morte per la unione e la separazione della sostanza anima sembra evidente
perchè permette di assimilare questi
fenomeni alle esperienze più familiari, che mostrano che le cose non cangiano
nella loro natura – FISICI CHIMICHI , ma solo nei loro rapporti reciproci di posizione: ma si
può non aver coscienza del processo di assimilazione, ma solo del suo
risultato, cioè delT evidenza della spiegazione, la quale ^Jembra perciò un’evidenza
intrinseca. Così pure T ipotesi che la
sostanza anima non muore né nasce sembra evidente, perchè permette
un'assimiliazione più compieta, che V ipotesi contraria, alle stesse esperienze
più familiari da cui si è conclusa V esistenza di questa sostanza; ma si può
anche in questo caso aver coscienza solamente deirevidenzx dell'ipotesi, e non
del processo d'assi in ilazonc di cui quest'evidenza è il risultato. Non è du
ique sorprenientj che Platone, per
dimostrare, l i nmortalità dell'anima, invece che delle
prove Itali. cioi> dt^i sofismi naturali su cui questa dottrina è fonlati, si serva di
sofismi puramente artificiali incapaci per se stessi di determinare uoa
convinzione: egli non ammette la dottrina che in virtù della sua evidenza
intrinseca cioè per un'inferenza incosciente; cosi si comprenle com% e rcando
di dimostrarla agli altri, al passaggio reale per cui é pervenuto alla
sua conclusione, del quale non ha
cosnenza, egli sostituisca dei passaggi fittizi. Tuttavia si sarebbe ingiusti
verso alcuni degli argomenti di Platone, riguardandoli come semplici sofismi
artificiali: essi sono oltre quello della reminiscenza, quello del Fedro e
l'ultimo del Fedone, il solo che Platone dia come decisivo. Il primo di questi due argomenti conclude
l'eternità dell'anima da (io che essa è il principio motore. Alla
Qaest'argomento è riportato, nella sia parte essenziale, a carte Fedone Ogni anima è immortale, poiché ciò ohe sempre
si maove è immortale, ma ciò che muove altro ed è mosso da altro, avendo un
termine del movimento, ha un termino della vita. Solo dunque ciò che muova
sa stos^o, poiché mai non manca a se stesso,
non ca^sa mai di miov^er-ii, aazl a
quante altre cosa sono mossa è la sorgente e il principio del movimento. Ora il
principio è non generato, poiché è necessario che tutto ciò che si genera sia
generato dal principio, ma qaasto da nessuna cosa: se infatti il principio
fosse generato da qualche cosa, tutte le cose non sarebbero geaerate dal
principio. Ma poiché non é generato, è
anche necessario che esso sia incorruttibile, poiché, se il principio venisse a
mancare, né esso potrebbe nascere da qualche cosa, né altra cosa da esso. Cosi
dunque il principio del movimento é ciò che muove so stesso: questo poi non può
né nascere né morire; altrimenti tutto il cialo e ogni generazione si
fermerebbero necessariamente, né si avrebbe mai
donde, ricuperato il moto, potessero rinascere. Ciò ohe è mosso da se
stesso apparendoci essere immortale, se alcuno T' conclusione sì giunge per dei passaggi che, quantunque non
siaoo perfettamente logici, non'sono però arbitrari: dal concetto che l'anima è
il principio motore suggerito dalla esperienza più familiare, che ci dà come
carattere distintivo deir essere animato la spontaneità dei movimento, se si suppone la necessità
d'una causa prima per l'inconcepibilità di un regresso all'infinito nella
ricerca delle cause, è naturale d'inferirne che questa causa prima è Tanima
cosmica. Di là ne segae rigorosamente che quert'auima non ha avuto
cominciamento: inoltre il più logico é di supporre che e^isa non avrà nemmeno fine perchè nella
supposizione contraria bisognerebbe
ammettere o che, estinto il principio del movimento, Tufliverso cada
nell'immobilità, o che air anima cosmica estinta succeda, nel governo del
mondo, un'altra anima cosmica, la quale avendo avuto cominciamento, si avrebbe
l'incoerenza di fare dell'anima cosmica ora una coìsl sen/.a cominciamento e
una causa prima, e ora una cosa di-i venuta e avente una causa. Concluso
che V anima comica è senza cominciamento e senza fine, è naturale d’estendere
questa conclusione alle anime individuali, che ne differiscono di grado, ma non
di natura. L'ultimo argomento del Fedone s'impernia nella proposizione che ciò
che apporta la vita dovunque si trova non può ricevere la morte: essa è
1'espressione del motivo reale della dottrina dell'immortalità, che è il le^'^ame locrico dirà ohe qaeata
è l'e^^enza e la defiaiziona dall'animi,
noa se ne pentirà. Infatti ogni corpo, a cui il movimanto viene dal di fuori è
inanimato; ma quello che lo ha da se ste^o, è animato coms' se questa sia la
natura dell'anima. Ma se è ooil, non esservi altro che muova se stesso sj non
l'animi, per nesa^sità l'anima è non generata e immortale. Fedro che vi ha
tra la spiegazione animista cioè che la
vita e la morte sono dovute alla unione e alla separazione d'una sostanza
distinta che e il substratum della vita e della coscienzae il concetto che la
vita e la coscienza devono essere inseparabili da una tale sostanza. Se Platone
prendesse la proposizione o meglio il concetto eh' essa indica, senza
esprimerlo sufficientemente come principio, r argomento sarebbe naturale: la parte artificiale del
sofisma è la pretesa dimostrazione di ciò cho egli dovrebbe invece dare, e che
effettivamente ammette, come una verità intuitiva. Le sorti dell'anima dopo la
morte formano il soggetto della più parte dei miti di Platone che bisogna
distinguere dai simboli, quali il Demiurgo e la cosmogonia del Timeo, o la
contcmplaz'one delle Idee nel luogo
iperuranio SUPRALUNARIO del Fedro: in questi miti è difficile di fare le
parti tra ciò che è un convincimento serio dall'autore e ciò che per lui stesso
è una congettura più o meno verisimile o anche una semplice finzione; ma è
certo ch'egli ha fede nel concetto generale che vi campeggia, cioè i premi e le
pene in un'esistenza futura. Platone accoglie la dottrina, insegnata nei
misteri, della trasmigrazione delle
anime; e generalizzando questo dato tradizionale quantunque, oltre al ritorno
in questo mondo, reincarnandosi in corpi d'uomini o d'animali, parli anche del
soggiorno delle anime in altri luoghi di premio o di punizione INFERNO OGNI
SPERANZA giungle al concetto che l'anima è sempre congiunta ad un corpo,
animando successiva FedoAii liep. Gora. U-ij.
mente cirpi differenti secondo lo stati di perfezione o d'imperfezione a
cui è pervenuta Leggi ma altrove, in dialoghi verisimilmente anteriori, parla
d'iioo stato dell'anima ìq cui è libera da qualsiasi corpo, p. e. nel Fedone
lU e, ìq
cui una tale esistenza è promessa durante Teteruità a quelli che si sono
purificati sufficientemente per la filosofia. É
inn^^gabile che la dottrina della
metempsicosi, sovratutto in questa forma, per quanto possa sembrare
strana a uà filosofo moderno, ha un valore filolofico superiore che quella deir
esistenza eterna dell'anima dopo la morte in ui mondo as^olutameote immateriale,
poiché ossa lega par sempre il principio spirituale alia natura, continuando ad
ass^ffnarffli, in tutte le epoche della saa
esi -utenza, la sua fuizione propria, senza di cui è un'ipotesi seaza
motivo e senza scopo, di forza animatrice e VIVIFICATRICE della materia. La dottrina
dell'immortalità dell'anima in rapporto a quella della sua tripartizione
solleva un problema, a cui Platone dà delle soluzioni differenti: sono
immortali tutte e tre le parti, ovvero una sola, che sarebbe come il substratum
della personalità? PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON GRICE Nel Fedito e ammessa la
prima delle due soluzioni; ma la dottrina definitiva di Platone, che troviamo
nella RepubblLia e nel Timeo, è l'immortalità del solo XoYiaxixóv nel Fedone
sembra Il Timeo è certamente una delle ultime opere di Platone, perchè
appartiene al periodo del sincretismo con le dottrine pitagoriche. Anche nel
Politico, ohe possiamo pure riguardare
come uno degli ultimi dialoghi Suppl. Carta si distingaono la parte immortale
dell'anima, cioè la razionale – GRICE HUMAN PERSON -- e la mortale ohe Platone
non ammetta la dottrina della tripartizione. La soluzione del Fedro é quella
che esiggono i motivi fiksofici della dottrina dell'immortalità, poiché 1'anima
è immortale perchè è la sostanza che ò il principio della VITA GRICE LIFE, e
sostanze e principii della VITA sono
anche le parti inferiori. I motivi etici e Fontimentali della dottrina
dell'immortalità esiggono invrce Tnltra soluzione, po'chè le speranze
dell'altra vita li chiedono uno
j-t^to d'IT anima in cui sia
cs':'nte dalle passioni e dai bisogni del corpo, e in cui per conseguenza le
parti inferiori – GRICE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- resterebbero senza funzione. Forse Platone, negando
1'immortalità delle parti inferioii, intendi rifiutare solamente ad esse la
persistenza dell'esistenza individuale, non quella della sostanza. Questa ò una
conseguenza inevitabile dei presupposti di tutta la dot^rirn; e infatti i
discepoli immediati di Platone insegnano 1'immortalità, non del solo
XoY'.aiixóv, ma dì lut*:a TaMima. L'immoitilità e preesistmza dell'anima si lega col sistema delle Id^e per
la dottrina della intuizione delle Idee in un'altra vita e della remiirscenza.
Noi abbiamo notato come il problema di spiegare la coincidenza tra il p3nsitU'o
e la realtà nelU conoscenza a priori divenga più urgenti nel realismo
dialettico: e infatti in quasi tutti i sistemi appartenenti a questo tipo oltre
il sistema adi Platone, in quelli di Hegel, di
Schelling, di Spinoza 4 noi troviamo delle ipotesi destinate alla
soluzione di questo problema. Fra le tre ipotesi pòssibili, cioè o che
l'oggetto determina il pensiero, o che il pensiero determ'na l'oggetto,
Olimpiodori Gommoni. in Platon. Phaedo. ap. Cousin Journnl des saranls HI o che VI ha
identità tra Toggetto e il pensiero, solamente la prima e l'ultima sono
compatibili col realismo dialettico: col sistema platonico non è compatibile
che la prima, cioè queììadeW intuizione razionale, perchè le Idee di Platone
non sono dri peusieri, come quelle di Hegel
ma delle realtà puramente obbiettive. Noi abbiamo pure indicato perchè
alla dottrina meao mistica di un'intuizione m questa vita Platone preferisca
quella deirintuizione m una vita anteriore e della reminiscenza di questa intuizione. Non ci resta d’aggiungere
che un osservazione, cioè che, quantunque il processo reale del pensiero di
Platone sia stato evidentemente dalla dottrina dell’immortalità e preesistenza
a quella della reminiscenza, e non al contrario, non è strano chVgli riguardi
la reminiscenza come una prova della preesistenza ed immortalità:
quest'argomento, al suo punto di vista, e un
ragionamento perfettamente naturale è il solo di quelli del Fedone,
oltre l'ultimo, ch'egli crede rigoroso, almeno come prova della preesistenza
perchè egli vede nella reminiscenza, e quindi nella pree' sistenza che essa
suppone, l'unica spiegazione possibile della conoscenza a priori. Passando
all'anima cosmica, cominceremo ricordando che essa è V unica divinità ammessa
da Platone. Il Demiurgo del Timeo è un
simbolo che rappresenta l'I0) Saggio Sappi, ili. Sappi. carte Fedo. Meno. Fedo Sappi.carta
dea del Bene Il nome di dio dato al Bene e ad altre Idee e da Xenocrate tnche
al principio materiale, e quello dì divino dato a tutte le Idee in generale, è
evidente che non devono prendersi nel senso proprio, perchè Platone non può avere Tintcnzione di
personificare le sue astrazioni
realizzate, che non sono che gli attributi generali delle cose, considerati
cerne sussistenti per se stess*. La parola divino, in questo come in tanti
altri casi non significa che l'eccellenza dell'oggetto a cui si applica: quando
insieme ali'idea della superiorità, viei e evocata vagamente rjuella della
personalità, dair aggettivo divino Platone passa al sostan Sapplem. carte il nana.
seg. Questo para essere generalmente il caso in tatti i laoghi in cui
Platone chiama dei delle Idee altre che quella del Bene. Nel Parmenide si
chiamano dei gli esseri ideali in cui risiedono come attributi la scienza in sé
e la padronanza in sé la scienza e la padronanza devono essere attributi e
devono inerire in qualche sostanza nel mondo delle Idee come in quello dei
fenomeni. Sulla fine del TimeOf dove il mondo è chiamato dio sensibile
immagine del dio intelligibile n, questo
dio intelligibile è certamente l'animale che contiene tutti gli animali
intelligibili, di cui, cioè l'Idea dell'animale, parche è a sua somiglianza che
il mondo è stato fatto. Nel principio dell'allocuzione del Demiurgo alle
divinità generate, dei di del cioè figli di dei, opere di cui io sono
l'artefice e il padre Tim., la parola
dei, la seconda volta, deve denotare altre Idee oltre quella del Bene
rappresentata dal Demiurgo: noi pensiamo naturalmente all'Idea dell'animale il
dio intelligibile di cui sopraì e alle altre Idee meno estere a cui gli dei
individui sono subordinati. Anche in cui il mondo semovente e animato, prodotto
dal Demiurgo, è chiamato un simulacro degji dei eterni è naturale d'intendere per questi dei eterni delle Idee,
più o meno generali, di esseri animati, di cui il mondo è la realizzazione,
2«0 tivo dio, senza che intenda perciò
assegnare alle astrazioni che decora di questo nome, una funzione analoga,
anche lontanamente, a quella degli esseri personali d'una forma qualsiasi della
filosofìa teologica. In quanto all'Idea del Bene, abbiamo osservato che Platone non può chiamarla dio che perchè vede in essa
il primo principio delle cose la stessa ragione spiega naturalmente perchè
Xenocrate possa estendere questo nome anche al principio materiale. Al nostro
punto di vitata moderno sembrerà strano che la divinità, nt-l senso proprio,
non sìa per Platone che un principio derivato. Per un filosofo moderno Dio è
Vassoliito, e perciò egli troverebbe assurdo di supporre un principio superiore
a Dio stesso: ma questo concetto dell'assoluto, come carattere essenziale della
divinità, manca ancora, come vedremo in seguito, in Platone, e in generale
nella filosofia teologica antica non si sviluppa che d'una maniera incompleta.
Il teismo in Platone è ass'so sulle sue basi naturali. Vi hanno secondo lui due prove della divinità:
la prova teleologica, tirata sovratutto dalla regolari à dei movimenti
deg^i astri, e quella fondata sul
concetto chcì l'anima è il principio del movimento C«
si Dio è per Platone il principio
motore e ordinatore dell'univerjo-U doppia furi/Jone che li divinità, come princi
Fedro, Lefiffi, Epinom., ecc. Filebo Sot\&la, Fedoni e, Timeo Sappi.carte,
Leuai, Oo3, Kpbijmidc, ecc.cipio esplicativo dei fenomeni, ha nella filosofia teologica amica,
e possiamo anche aggiungere, nella teologia naturale. Vi hanno in Platone due
dottrine della finalità, 1'una immanenie e 1'altra trascendente. La prima
consiste ad ammettere che il Bene è V Idea delle Idee, il tipo universale su
cui tutti gli esseri sono costruiti, e
che esso esiste per una necessità primitiva, tale che la sua non e.^istenza
sarebbe inconcepibile e contradittoria.
La seconda spiega la finalità d.^gli oggetti materiali e che hanno avuto un
cominciamento vedendo in essi degli efl'ctti d'una causa personale, agente con
un piano e per ano scopo. Queste due dottrine non sono incompatibili, perchè
non vi ha contraddizione ad ammettere al tempo stesso che è una necessità
logica che i fenomeni si producano in grazia
d'uno scopo, e che tra gli antecedenti dei fenomeu' che si producono
cosi ve ne hanno alcuni inacc'ssìbilì aircsperienz^; e se si ammette questa seconda ipotesi, non
solo non iV contradditorio, ma è
naturale di supporre che gli antecedenti di cui si tratta devono essere tali da
spiegare la natura dei loro conseguenti. É vero però che una volta che la
finalità viene spiegata per la sua necessità
logica, un'altra spiegazione non potrà più riguardarsi come
indispensabile. Ma ciò non toglie che l'analogia suggerisca, anche in questo
caso, delle cause personali: semplicemente non si potrà più pretendere che il
ricorso a queste cause sia necessario, e l'argomento teleologico, per
conseguenza, non potrà più aspirare al valore di una prova completa Suppl.
carta Il concetto che Tanima è la forza
motrice si sviluppa in Platone nella dottrina che essa è la causa prima di
tutti i fenomeni, e in lui troviamo già, quantunque in una forma meno precisa
che in Aristotile – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY --, Vargomento
della causa prima per provare la divinità. La dottrina che Tanima e la causa
prima implica quella dtilla sua durata infinita, almeno nel passato. Tuttavia nel Timeo le sì dà
un'origine nel tempo, come all'universo in generale; ma noi abbiamo visto che
la cosmogonia del Timeo è un semplice simbolo, che rappresmta la derivazione logica
di tutte le cose dai due primi principìi, I Bene e la Materia. Nelle Leggi si
parla pure dcirnnima come generata anteriormente a tutte le altre coso, di cui
è la causa prim?iì: è ch^, come abbiamo
osservato, Platone, dandosi per un pitagorico, vuol conformarsi alia dottrina,
secondo lui exoterica, dei Pitagorici, che attribuiva al mond) un'origine nel
tempo benché la loro dottrina reale fosse che esso è eterno. L'insieme della
teoria PSICOLOGICA di Platone e il sistema delle Idee che suppone Teternità e
la necessità dell'ordine attuale del mondo esiggono indispensabilmente la dottrina deireternità
dell'anima, insegnata, del resto, nel Fedro e in altri dialoghi. Ai motivi
filosofici della credenza nella divinila e alle sue funzioni corrispondenti si
aggiungono come per la credenza nell'immortalità dell'anima individuale i
motivi etici e sentimentali e le funzioni che corrispon Suppl. caria Sappi.,
carte Sappi., carte Sappi. carta, dono a questi. Platone si diffonde a dimostrare che gli dei
hanno cura delle cose umane, non meno delle piccole che delle grandi. Che i
nostri aflfari siano piccoli 0 grandi agli occhi degli dei, non può convenire
ad essi di negligerli, perchè la negligenza, l'inerzia, la mollezza non possono
appartenere a dio, a cui bisogna attribuire l'eminenza in ogni virtù.
D'altronde le cose piccole sono più facili a
curare che le grandi riflessione notevole, perchè ci mostra quanto
Platone è lontano dal concetto delT onnipotenza. La provvidenza divina ha
sovratutto per oggetto che ciascuno abbia la sorte che merita, mettendo V anima
che è divenuta migliore in un posto migliore, e la peggiore in uno peggiore:
del divenire poi ciascuno di noi migliore o peggiore ne ha lasciato le cause
alla nostra volontà; ordinariamente
infatti ciascuno diviene di animo quale desidera di essere. Non bisogna credere
però, come dicono i più, che Dio è causa di tutte le cose: egli è buono, e per
conseguenza può essere causa dei soli beni, ma non dei mali. Vi hanno due sorta
di anime, l'una buona (EUDAEMON) e l'altra cattiva: i movimenti tendenti al
bene sono prodotti dall'anima buona, quelli
teadenti al male dalla cattiva. Quella che governa l'universo è l’anima
buona: tuttavia Platone afferma che la somma dei mali sorpassa quella dei beni,
ciò che, tenuto conto delle proposizioni precedenti, non permette di atI
Le(jiii Leggi Leggi Leggi o. Qaesto concetto è espresso simbolicamente aeUa
scelta delle anime nel mito salla fine della Repubblico, R$p. e. Leggi Kptnom. Leggi, R^u
tribuire a Dio che una potenza molto limitata. Platone combatte le idee
della religione popolare che e<^Vi
erodo indegne della divinità, p. e. che gli dei si svisano sotto forme diverse –
AQUILA -- ingannando gli uomini, che vi hanno fra di essi delle ingiurie ENEA e
delle inimicizie reciproche, che i cattivi possono propiziarseli con doni ed
adulazioni, ecc. Naturalmente, sarebbe
vano di cercare in Platone i concetti della spiritualità e della
seinplicifà di Dio. La divinità, cioè l'anima cosmica, è una specie del genere
anima: essa ha dunque la stessa natura spmìmateriale dell'anima dell'uomo e
degli altri esseri ANIMATI, vale a dire è estesa, si muove continuamente if)),
e muove i corpi comunicando loro il proprio movimento. Da ciò che precede si
vrd anche che mancano nella teologia
platonica i concetti di r|uplla che abbiamo chiamato teologia trascendenfale,
cioè le dottrine che Dio è immutabile e fuori del tempo, e che è V infinito 0 r
assoluto {cioè che tutti i suoi attributi si elevano a un grado infinito o
assoluto. Il Dio di Platone, lungi di essere immutabile, è, come abbiamo detto,
in un movimento continuo: inoltre egli ragiona, prevede, PROVEDE si ricorda, ecc.
(8>; d'altronde Platone non
avrebbe potuto immaginare una coscienza che non consiste in muta\i ^ h'ep. Kep. e. Le(j(ji Tlm,
Ar. De an., ecc. T'na., Fnlro,
Ar. ì>e , ecc. Legni Fedro, Arisi, De
an. GRICE 1. menti, perche per lui i fatti della coscienza non sono che
movimenti dell'animi. Il concetto che Dio è l'assoluto 0 l'infioito implica
quelli della sua potenza e causalità
infinite. l^a la causalità e la potenza
del Dio di Platone trovano un limite nella materia e negli altri esseri
spirituali tra cui l'anima cattiva, che sono egualmente primitivi che lui: di
più la sua efficienza si riduce unicamente all'azione motrice, e <|ue9ta non può esercitarla, come l'uomo o
qualsiasi altro essere corporeo, che a contatto e per impulsione. Uisulta pure
dall'esposizione precedente che la teologia di Platone è un dualismo radicale,
in cui Dio e la materia o, meglio, la
sostanza del mondo sono, non solo due sostanze distinte, come in quasi tutti i
sistemi della filosofia teologica antica, ma due sostanze egualmente primitive,
coeterne e inconvertibili l’una nell’altra. Non è foi-ae inutile di osservare
che, siccome Dio e le Idee sono due cose
interamente differenti, questo dualismo non ha niente di contrario
alla immanenza delle Idee nel mondo, né
al monismo della prima forma del sistema platonico, in cui l'Idea del Bene è il
tutto allo stato implicito. Per la stessa ragione esso non ha niente di comune
col dualismo della forma posteriore, in cui al Bene si aggiunge, come altro /.i
li. I luoghi ivi citati sall'id3nlità del pensiero al movimento si riferiscono
o esclusivjun ante o anche all'anima dei
mondo. Suppl. e la p. prec. Oltre alla sua azione motrioa per impulsione,
Platone sembra attribaire all'anima – GRICE SCRATCHES HEAD -- cosmica uno
sforzo per mantenere la coesione dell'universo e dei corpi celesti e la
periistenza della loro forma Suppl. Questo sforzo non è in verità un'azione
motrice, ma è evidentemente immaginato,
come questa, sul tipo della nostra azione mnscolare GRICE SCRATCH HEAD. 2<s:ì principio primo, k Materia, nò vi ha
fra questi due daaliami alcuna relazione logica. L'influenza reciproca tra LA
PSICOLOGIA platonica e la sua teologia è evidente Al dualismo antropologico tra
l'anima e il corpo corrisponde il dualismo cosmologico tra Do e il mondo materiale: alla indipendenza deli'anima
cosmica dalla materia e alla sua primordialità e inconvertibilità con essa,
richieste dalla sua funzione di causa prima, corrispondono l'indpendenza della PSICHE
umana dalle condizioni SOMATICHE e la sua esenzione dalla nascita e dalla
morte. Ciò che vi ha di più oscuro nelle
idee di Platone sulanima è il carattere vago del suo concetto dell'individuahtà PSICHICA. Noi abbiamo visto
che l'anima individuale è composta secondo lui di tre parti, ciascuna delle
qaali costituisce in realtà un'anima distinta. Qualche cosa di simile SI ha
nella sua dottrina dell'anima cosmica. Riguardando il mondo come un grande
individuo animato egli concepisce l'anima che lo VIVIFICA come unica, come
quella di qualsiasi altro individuo animato. Quest'anima è per lui la divinità:
ma la sua unità non importa, per lui come per gli altri filosofi greci che
ammettono un'anima del mondo, il monoteismo, almeno rigoroso. Egli riguarda
pure come indiTidui animati la terra e tutti
gli astri, sì i pianeti che le stelle fisse, e attribuisce quindi
un'anima a ciascuno di questi corpi. Ognuaa di queste anime è considerata
naturalmente come una divinità
particolare Filebo, Tim. o. eoo ecc. j
b . ihd. Platone chiama dei non, olo
I'anima del mondo e qnelle dei ' H lQollr3 egli ammette dei DEMONI ACKRILL,
esseri d'una divinità imperfetta tra cui ve ne hanno anche dei malefìci --
KAKODAEMONIA. Ora per !e anicne della terra e degli astri, è evidente che,
secondo Platone, esse non esìstono al di fuori delTamica cosmica, di cui sono come delle parti.
Infatti nel Timeo il Demiurgo non costruisce che V anima del mondo e quelle
degli animali mortali: degli astri non costruisce che i corpi, quantunque
1'autore li dia espressamente come esseri animati; e che vi siano altro anime
oltre quelle che il Demiurgo ha COSTRUITE GRICE CONSTRUCT, è escluso dal luogo
in cui si dice dopo che si è narrata la
formazione degli animali divini, cioè degli astri che egli ha composto V anima
degli animali mortali coi residui degr ingredienti con cui aveva composto V
anima del mondo – SCHIFFER REMNANTS OF MEANING. Un'altra prova, anche più
decisiva, è la divisione dell'anima cosmica nel cerchio della natura dello
stesso che rappresenta il movimento diurno del cielo e i cerchi della natura del diverso che
rai)presentano le orbite dei pianeti: se i movimenti planetari sono at corpi
celesti, ma anche il mondo slesso e gli stessi corpi celesti. Questa estensione
dell'attributo della divinità dall'anima, a cui propriamente appartiene,
all'essere animato – ZOE BIO è troppo ovvia, per poter farsene un argomento
contro il dualismo di Platone, che risulta nettamente dalla sostantifioazione del principio
spirituale e dalla opposizione radicale tra esso e la materia. Platone Fedro,
Conv, to/r/t, K^iinom., Plutarco de h. ut Oslr. e de orarul. de^ feci li Tim. Tim. Tim, tribuitì airanima cosmica,
siccome il principio del movimento di ciascun pianeta deve essere la sua anima
particolare, le anime particolari dei pianeti non possono essere che delle
parti deiranimii cosmica, (/aes'a è
dunque per Platone un individuo superiore che contifne n I suo seno altri
individui inferiori. Noi non troviamo alcuna difficoltà ad ammettere, nA mondo fisico, delle individualità di ordine
divergo, in modo che un individuo di grado superiore contenda in se stesso
degl'iii'iividui di grado inferiore p.
e. l'organismo e le cellule che lo costituiscono. CUTTING A WORM IN TWO –
FAIRBANK -- . Platone suppono che qualche cosa di analogo si dia anche nel
mondo PSICHICO: egli non troverebbe niente di strano nel concetto di Haeekel GRICE
METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY -- e di altri filosofi contemporanei, che
riguardano V anima di un organismo vivent:^
come la risultante delle anime delle sue cellule. A dir vero Platone non può riguardare r anima cosmica
come una risultante delle anime degli astri: queste, rapporto alla prima, piuttosto che agli elementi che
compongono un tutto, potrebbero paragonarsi a dei rami divergenti da un tronco
comune, o a dei punti emer;2:enti in una
superficie, ciascuno dei quali costituisce un'unità distinta, quantunque sia al
tempo stesso una parte di un'unità più
comprensiva. Questo concetto d'un individuo PSICHICO che contiene altri individui psichici, in Platone
come negli altri filosofi antichi in cui lo troviamo, per quanto poco naturale
in se stesso, e una conaeguenza logica d'un'idea naturalissima al punto di
vista della concezione animista della natura, cioè che in (jucsto grande
individuo vivente che ò luaiverso, vi hanno delle parti -- MEREOLOGIA, vale a
dire i grandi corpi che si m?iovono in esso, che manifestando una vita sino al
un certo punto indipendente, devono riguardarsi anch'essi come individii
viventi. Se si suppone che LA VITA e i movimenti di un essere animato sono
prodotti dall'anima che lo VIVIFICA, siccome le vite e i movimenti
degl'individui inferiori fanno parte della vita e <lei movimenti
deiriiiiividuo più vasto che li contiene, sarà logico di concluderne che le
anime dei primi fanno parte dell'anima del secondo, estendendo al concetto dell'individualità
PSICHICA la relatività che vi ha in quello delPindividualltà fisica. A questo
punto di vista le anime stesse degli animali propriamente detti non potranno
riguardarsi come assolutamente distinte dalla grande anima del tutto: cosi secondo il Fllebo la nostra anima
ci viene da quella dell'universo, come se ne fosse una parte, che le condizioni
della vita terrestre (2 hanno isolata, ma che prima era congiunta al tutto con
legami più intimi, benché avesse già un'esistenza individuale, perchè
l'eternità d^lPanima importa, come abbiamo detto, la persistenza
dell'individuo, e non semplicemente della sostanza. Vi hanno in Platone, come
abbiamo già osservato due spiegazioni del mondo, corrispondenti a due concetti
differenti della causa efficiente. L'una è la dottrina dell'anima cosmica: essa
è una varietà della filosofia f.v^mtiva
dello spirito umano, e corrisponde al concetto spontaneo della causalità –
DECAPITATION WILLED HIS DEATH -- , che
ci fa considerare come causazioni efficienti le sequenze tra fenomeni -- SPOTS ‘MEAN’ MEASLES -- che ci sono le più
familiari. L'altra è il realismo dialettico, che introduce fra i concetti un
nesso logico continuo, e, mediante Fileho T/anìmadeH'aomo e degli altri animali
b a abitato negli astri, parteoipando al governo del mondo, o, purificata,
ritorna ad abitarvi. Tim. e Fedro
T^«n \« r : la loro
i'<alizzaziond, dà a questo nesso
logico il valore di un nesso ontologico, cioè trasforma il rapporto tra
principio e conseguenza in un rapporto tra causa ed effetto. L'uno di questi
due generi di spiegazione non esclude l'altro, perchè non vi ha alcuna
incompatibilità tra i due concetti della causalità su cui sono fondati. Il
realista dialettico non può non ammettere anch'egli, oltre alla nuova specie di
causazione che egli introduce cioè la
filiazione tra i concetti realizzati, quest'altra specie di causazione che
tutti ammettiamo, e che si riduce a una successione costante tra fenomeni. Le
tendenze istintive del nostro spirito lo spingeranno a immaginare, in queste
sucessioni costanti tra i fenomeni che egli non può non ammettere, de^li
antecedenti tali che possano spiegare ì loro conseguenti, cioè che ne siano delle cause produttrici o
efficienti: questo processo di efficienza causale può coesistere con quello del
realismo dialettico, perchè Tuno produce dei fenomeni concreti e individuali,
mentre Taltro non produce che delle entità astratte, cioè le forme e le leggi
generali di questi fenomeni. Il realista dialettico considera, è vero, le sue
entità astratte come le cause dei fenomeni di cui sono le forme e le l^ggì generali: ma questa
causazione non sarebbe incompatibile con quella dei loro antecedenti fenomenali
cioè che sono dei fatti o degli esseri individuali e concreti che neir ipotesi,
sconosciuta a qualsiasi realista dialettico, che le entità astratte fossero
fuori dei fenomeni come neir interpretazione trascendentalista delle Idee
platoniche. Le entità astratte, secondo il
realista dialettico, sono cause dei fenomeni, non in quanto li
producono, ma in quanto sono delle condizioni senza di cui essi non potrebbero
esistere, costituendo la loro essenza la loro vera realtà – REBEL WITHOUT A
CAUSE OR METIER. Ma se fossero fuori dei fenomeni, Im 11 «ii"ii -O
WsT"^'M non potrebbero esserne le cause che produoendoli – GRICE ENGINEER:
in questo caso la loro causalità e
quella degli antecedenti fenomenali (ammessi a titolo di cause efficienti,
com'è evidentemente Tanima del mondo di Platone si escluderebbero a vicenda, e
bisognerebbe scegliere tra Tuna e l'altra ipotesi. Potrà sembrare tuttavia che,
se la spiegazione del realismo dialettico e quella della filosofia istintiva
non sono incompatibili in quanto Tuna esclude l'altra, lo sono però in quanto Tuna rende l'altra
superflua. Le due spiegazioni, in effetto, s’applicano agli stessi fatti
tutti i fenomeni in generale; ma qnando
un fatto si è già spiegato, è perfettamente
inutile di cercarne un'altra
spiegazione. Questo ragionamento sarebbe valevole, se Tuna o l'altra
delle due spiegazioni – GRICE METHOD PHYSIOLOGICAL PHYSIS -- potesse
sembrare soddisfacente, anche ad un
metafisico; ma esse non lo possono né l'una né l'altra. Limitandoci a Platone,
è facile di mostrare che la sua dottrina dell'anima del mondo anche senza tener
conto delle difficoltà inerenti a quest'ipotesi non può dare che una
soddisfazione incompleta a questo bisogno di conoscere le cause per cui tali
ipotesi sono immaginate. Prima di tutto un'ipotesi sulle cause, per essere una spiegazione
completamente soddisfacente dei fenomeni, dovrebbe essere tale da poterne
dedurre la natura degli effetti, cioè da poter concludere, come conseguenza
dell'ipotesi, che i fenomeni devono essere cosi – THE BRIDGE COLLAPSED -- come sono in realtà, e non altrimenti. Ma r
anima del mondo può spiegare solamente
perchè esiste il movimento e perchè vi
ha un ordine nella natura ciò che il metafisico GRICE chiama METIER o finalità: essa non spiega perchè hanno luogo
precisameute questi movimentì e perche esiste precisamente quest'ordine, che
noi osserviamo nel mondo reale noi non sappiamo, p. e-, perchè l'anima del
mondo, da cui, secondo Platone, sono prodotti gli animali, le piante e
tutti i corpi che vediamo sulla terrfl. produce queste specie piuttosto che
altre, pure dotate di METIER o tìnalità, ma più o meno differenti TIGERS
TIGERISE. Di più, nei limiti stessi dentro cui si restringe questa spiegazione,
per il fatto stesso che è desunta dall'ipotesi di agenti trascendenti, a cui
non si può attribuire che un modo d'azione in gran parte diverso da quello degl’agenti
dell'esperienza, essa non può assimilare completamente il modo di produzione
dei fenomeni alle causazioDi che ci sono le più familiari, ciò \he sarebbe
necessario perchè la spiegazione fosse completamente soddisfacente p. e.
Platone attribuisce airanima del mondo
la percezione degl’oggetti (2>, ma senza i nostri organi dei sensi: è quanto
basta per rendere il suo modo d'azione incomprensibile. Un'altra oscurità viene
alla spiegazione animista dalla sostantitìcazione dell'anima. La conseguenza dì
questa è, come abbiamo visto, che l'anima muove il corpo per il proprio
movimento, ciò che, importando che il movimento che essa produce immediatamente non è quello voluto, ma un
altro non voluto ne saputo, allontana l'ipotesi animista dal tipo su cui è
modellata, cioè la nostra aziono volontaria secondo il modo più familiare di
rappresentarcela, e ne diminuisce quindi il valore esplicativo. Dall'altra
parte, il realismo dialettico piuttosto che una spiegazione è, come abbiamo
detto, un sembiante di spiegazione: quand'
^che il siti) Sof. Tim. Leggi, ecc. Stema fosse vero,
es^o no:i darebbe una soddisfazione
reale al nostro bisogno di conoscere le cause efficienti, ma a queste cause che
aspiriamo a cuioecere, sostituirebbe un succedaneo. L'insufficienza delle due
spiegazioni, «{uella del realismo dialettico e quella della filosofia
istintiva, ci dà ragione del fatto che non vi ha un sistema, in cui la prima
di queste spiegazioni non sia
accompagnata dall'altra, Tra le varie forne della filosofia istintiva, quella
che era più in armonia col sistema dell 1 Idee pUtonich^, era la teologica. Il
sustrato della filosofia di Platone è una concezione del mondo che abbiamo
chiamato organicista, cioè domiuata dai concetti desunti dall'osservazione
degli esseri viventi, ein cui l’essere vivente stesso è elevato a tipo di tutti glesseri in generale.
L'infiiunza di questa eonce/ione organichta del mondo sul sistema delle Idee si
osserva nell'ipotesi delle Idee stesse e sovratutto nei due tratti
caratteristici della dialettica platonica, cioè la dieresi, e TI. dea del Bene
elevata a forma universale e principio primo di tutti gli esseri. Questa stessa
concezione conduce per una doppia via alla dottrina dell'anima cosmica: cioè assimilando il mondo e i corpi
celesti agli esseri viventi, e suggerendo una spiegazione teleologica
dell'universo, che, se consiste in concetti chiari e non in una vaga e
incosciente personlfieaz'one di ciò che si sa essere impersonale, non può non
essere al tempo stesso. la stos-ja nota Sappi.
caria 2:?T. -J.ST . /\ -ar Jf-» m una
spiegazione teologica. Naturalmente questa
spiegazione teleologica delle cose per un agente personale è suggerita
più immediatamente dal posto e la funzione deir Idea del Bene nella dialettica
se non è essa piuttosto che li ha suggeriti. Cosi le due parti della metafìsica
di Platone, cioè la teoria delle Idee e quella dell'anima, lungi di essere in
contraddizione, si completano e si chiamano Tuna con l'altra. Noi abbiamo visto
pure la dipendenza reciproca tra le
dottrine di Platone suir anima cosmica e quelle sull'anima individuale,
Quantunque Tanima sia un essere meta-emplrico -- GRICE NO ASCRIPTION WITHOUT
MANIFESTATION -- e la causa prima deh' universo fenomenale, è evidente che
nella grande divisione degli esseri di cui è quistione nella filosofia
platonica, essa deve classarsi insieme coi fenomeni. Al punto di vista del
sistema delle Idee, la distinzione più profonda è quella tra l'astratto e il
concreto, tra Tuniversale e l'Individuale. Cosi vi hanno da una parte le entità
astratte e universali che nella prima forma della filosofia platonica sono
considerate tutte come Idee, e nella seconda forma si distinguono in Idee ed
entità matematiche -e da un'altra parte le cose concrete e individuali. Le prime sono riguardate come la
vera realtà, le seconde come fenomeni – contrary to Hamlet: figments of your
imagination. Non vi ha fra queste due classi alcun termine medio, e V anima,
non esseado un'entità astratta ma una sostanzi concreta, deve far parte
evidentemente della seconda. Ne segue che il rapporto dell'anima con le Idee
non può essere Sappi. sopra, carta
diverso da quello che le altre cose fenomenali hanno con esse. Questo è,
come sappiamo, che in tutte le cose appartenenti a una stessa classe è presente
un'Idea unica/ che non è che la sostantifìcazione dell'attributo o somma
d'attributi comune a tutta la classe. Per conseguenza in tutte le sostanze che
si chiamano anima è presente una Idea unica, V Idea dell'anima, come in tutti
gli esseri che si chiamano uomo, animale, cavallo GRICE HORSENESS circle albero,
ecc. è presente l'Idea unica dell'uomo HORSE CIRCLENESS, dell'animale, dell'albero, ecc. Naturalmente
l'Idea dell'anima, come tutte le altre ANIMITA SOULNESS, ha i suo posto determinato nella gerarchia
del mondo idealei vale a dire essa è contenuta in un'Idea più generale, questa
in un'altra ancora più generale, e cosi
di seguito, sicché si giunga al contenente universale, che è l'Idea del Bene –
a GOOD SOULD ASQUITH WAS: l'Idea dell'anima dunque, e quindi 1'anima stessa,
parteciperà a tutte queste Idee di più in più generali a cui è subordinata. Se
la classe generale anima cuotiene altre classi inferiori, che bisogna
distinguere per difierenze essenziali, l'Idea generale dell'anima conterrà altre Idee meno generali,
corrispondenti ciascun a a ciascuna di queste classi inferiori. Ma tutte le
anime individuali, compresa l'anima cosmica, che è anch'essa un essere
individuale e concreto, e non un'entità astratta e generale, non potranno
partecipare che all'Idea che è l'obbiettivazlone del loro concetto comune, e
alle Idee più generali che sono 1' obbiettivazione dei concetti più estesi in cui esso è contenuto: V anima
avendo un'essenza particolare e distinta da tutte le altre cose, a
quest'essenza deve corrispondere un'Idea pariicolare e distinta da tutte le
altre Idee. Vi hanno tuttavia degl'interpreti che pretendono che l'anima non
partecipa a un'Idea unica, cioè l'Idea speciale dell'anima, ma a tutto il mondo
ideale. Questa interpretazione misconosce il concetto tbndamentale della dottrina di Platone
sul!'anima, cioè che questa è una srstanza distinta, e non, p. e., la forma del
corpo, come per Aristotile – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY. E:«sa
potrebbe avere un senso, se ranima cosmica fosse per Platone la forma
deiruoiverso: ma con una tale ipotesi ^li si presterebbe gratuitamente un
concetto, che non troviamo rò in lui nò
in alcun altro d<i filosofi antichi,
compresi i panteisti, che hanno ammesso un'anima del mondo, perche lutti
presuppongono Panimismo, cioè la teoria della sostanza anima, quantunque questa
secondo alcuni sa convertibile colle sostanze materiali, secondo altri, come
Platone, inconvertibile. I/interpretazione in verità può anche avere un altro
senso, indipendente da (|uest'ipotesi;
sarebbe la dottrina dcir identità dell'essere e del pensiero: ma anche
questa, come vedremo nel n. Ili, non può prestarsi a Platone che
gratuitamente. Il concetto che l'anima partecipa a tutto il mondo ideale si
fonda su un'interpretazione arbitraria della composizione dell'anima cosmica
nel Timeo, che abbiamo discusso nel Supplcm. Ivi abbiamo visto che la
composizione dell'anima non difìeri^ce da quoli.i delle altre erse nel porlo lo
pita^oreggiante della filosofia platonica. Oltre che dt-lla sua Idea speciale e
della materia, essasi compone anche dri due clementi, l'Uno e la Dualtà
indefinita, eh" nel Tinieo sono chiamati lo Stesso e il Diverso – GRICE
WIGGINS DIAPHORON. Ma anche questa seconda composizione non è particolare
all'anima; perchè tutte le Idee e tuite
le cose, nel periodo pitagoreggiaute, sono composti dei due elementi: ciò i». ri. Sappi. che è particolare all'anima
non è che la sua applicazione gnoseologica, cioè la spiegazione della
possibilità della conoscenza per l'identità degli elementi del soggetto
conoscente e degli oggetti conoscibili. Secondo alcuni interpreti V anima
sarebbe per Platone un'entità
intermediaria e, siccome le entità intermediarie sono le entità
matematiche, anche un'entità matematica. Questo concetto, che rimonta ai
neoplatonici.è fondato sull'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche,
quantunque, come suole avvenire quando si tratta delle opinioni stabilite, esso
si dia spesso come una prova di
quest'interpretazione stessa di cui è una conspguenza. Nell'interpretazione trascendentalista, come abbiamo osservato, la
causalità universale delle Idee verso i fenomeni è incompatibile con quella
dell'anima: per risolvere questa contraddizione si suppone che le Idee non
siano che le cause remote dei fenomeni, ed agiscano sul mondo sensibile per
l'intermediario dell'anima, che sarebbe la causa prossima. Questa fanzione
dell'anima di intermediaria fra le Idee e le cose sembra più necessaria nella
forma dell'interpretazione trascendentalista preferita dai critici moderni,
secondo cui le Idee sarebbero, non dei pensieri dell'intelligenza creatrice,
ma delle sostanze obbiettive separate
dalle cose: in questo caso infatti ogni efficienza diretta delle Idee diviene
incomprensibile, e si crede perciò indispensabile Pintervento di un principio
attivo come l'anima, per mezzo di cui possa esercitarsi la loro influenza sui
fenomeni. Ora, se l'anima è una sostanza intermediaria fra le Idee e le cose,
essa deve essere anche un'entità matematica, perchè nel sistema platonico, come
sappiamo da Aristotile, il posto d'intei mediar! fra le Idee e le cose non è
assegnato che alle entità matematiche. Per noire poi dei concetti cosi disparati
quali sono quelli dell'anima e delle entità matemati'^he, si ricorre come
termine medio a quest'altro concetto che le entità matematiche sono le Idee nel
loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile perchè,
Platone riguardando il mondo come un essere vivente, si crede di poter
identificare le leggi dei fenomeni alle funzioni di un essere vivente, e queste alTaniroa che lo vivifica. Che le
entità matematiche, infine, siano le Idee nel loro rapporto colla materia o le
leggi del mondo sensibile, sarebbe provato dal
FiZeò^, il TzépoLz di cui si tratta in questo dialogo, equivalendo, secondo questi interpreti, ai Numeri
matematici dell'esposizione aristotelica. Cosi questa costruzione è fondata sui
presupposti seguenti: Che le Idee siano fuori delle cose. Noi l'abbiamo
confutato nel Suppl. Che le entità matematiche rappresentano tutti gli
attributi delle cose, e sono intermediarie in quanto tramezzano tra le Idee e
le cose considerate nell’insieme dei loro attributi. Noi abbiamo visto invece nel Supplem. che esse
non rappresentano che i soli attributi aritmetici e geometrici delle cose, e
che non tramezzano che tra i numeri ideali, in quanto costituiscono le Idee
cioè i concetti obbiettivati più generali dì questi attributi, e questi
attributi nelle cose stesse, cioè individualizzati. Questo presupposto è il
punto di partenza per identificare l'anima, come principio mediatore, alle entità matematiche, ed è
contenuto implicitamonte nella sopposiz'one che le entità matematiche sono le
Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile. Che
il TzépoL(; del Filébo equivalga ai Numeri matematici,
ciò che proverebbe vista l'evidente immanenza del épas che questi numeri sono
nelle cose stesse altro presupposto implicato nella supposizione che le entità matematiche sono
le Idee nel loro rapporto con la materia 0 le leggi del mondo sensibile. Noi
abbiamo visto che questa equivalenza tra il népa^ del /^ilebo e i Numeri matematici è
inammissibile, e che la supposizione che i Numeri matematici e in generale le
Entità matematiche sono nelle cose, è in contraddizione col 1^ presupposto che
è il fondamento ultimo di tutta la
costruzione, cioè che le Idee sono fuori delle cose. Che le leggi del mondo
sensibile possano identificarsi con Tanima cosmica. Questa identificazione è
una assurdità, perchè l'anima per Platone è una sostanza distinta: essa sarebbe
tutto al più possibile se 1' anima fosse per lui, come p. e. per Aristotile,
una semplice astrazione, designante l'insieme delle funzioni della vita. Inoltre essa implica l'identità del
népa^ del Filebo e dell'anima, mentre Platone ne fa due generi assolutamente
distinti. Evidentemenle gP interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche devono
avere una ben misera idea di Platone come pensatore, per potergli attribuire il
cumulo di non sensi espresso in questa proposizione che l'anima è identica agli
oggetti matematici e ai rapporti
numerici e metrici del Tispag del Filebo. L'anima per Platone è, lo
sappiamo, una sostanza particolare, invisibile almeno per gli uomini ma estesa,
in un movimento continuo, muovente la materia per la comunicazione del proprio
movimento, e avente col corpo ch'essa anima determinati rapporti di posizione
reciproca. Il népa; e le entità matematiche non sono che certi attribuii delle
cose, considerati come esistenti per gè stessi, come tutte le altre entità
della metafisica platonica. L'anima del mondo dunque e il mondo stesso sono due
sostanze distiiite ed esteriori l'una all'altra; il Tiépag, al contrario, come
sono costretti ad ammetterlo gli steFsi interpreti trascendentalisti, e quindi
anche le entità matematiche, poiché gli equivalgono, esistono negli oggetti
stessi che compongono Jl mondo, non sono un'altra cosa che viene ad aggiungersi
a questi cggelt», ma un loro elemento concettuale, distinto realmente dagli
altri, ma come in un tutto una parte si distingue dalle altre. Il Tiépag e le
entità matematiche sono degli astratti, l'anima del mondo è una realtà
concreta; quelli sono degli universali, questa è un essere individuale; i primi
sono esenti dal cangiamento, come tutte le astrazioni realizzate di Platone e
di qualsiasi altro realista dialettico, la seconda è il tipo più completo del
divenire eraclitico. L'identificazione di concetti cosi disparati farebbe cosi
poco vero. Noi abbiamo visto che le tre parti deU' anima umana sono alloggiate nelle tre cavità del
corpo. Sull'anima del sole Platone fra tre ipotesi Leggi: o sta dentro il sole
come la nostra anima dentro il nostro corpo, o lo spinge dal di fuori «tando in
un altro corpo, ovvero lo conduce essendo essa stessa senza corpo ciò che,
secondo i prinoipii di Platone, implica pure la supposizione che lo spinge dal
di fuori. Simile non solo nel divino Platone, come lo chiamano, certamente per
un omaggio puramente convenzionale, gl'interpreti trascendentalista', ma in qualsiasi
filosofo a cui possa farsi la modesta lode che sa quello che dice che
quand'anche essa fosse l'interpretazione più naturale dei testi, noi dovremmo
rigettarla, e preferirne qualunque altra possibile, purché avesse un senso
qualsiasi, anche il meno ovvio. Ma questa identificazione, lungi di essere
l'interpretazione più naturale dei testi, è interamente gratuita ed arbitraria.
L'identità dell'anima col Tiépa; non potrebbe essere provata che dal Filebo
perchè il concetto del Jiépag è particolare al solo Filébo\ ma noi abbiamo
visto che in questo dialogo gli esseri sono divisi in quattro generi, e che del
Tcépa; e dell'anima si fanno due generi distinti. Né Aristotile né alcun altro
autore, che possa considerarsi come una fonte storica par la filosofia
platonica, parla dell'identità
dell'anima con gli oggetti matematici 0 di alcun altro concetto simile.
Le proposizioni in cui l'anima o la sua attività é mesm in rapporto coi numeri,
non possono pro\rare l'identità, o anche un legame speciale, tra essa e i
numeri matematici, perché non sono evidentemente che delle applicazioni della
dottrina generale del picagorismo e del platonismo pitagoreggiante che ress3nza
di tutte le cose consiste nei numeri.
Xenocrate definisce l'anima: un nume roche muove se stesso; ma qu^jsta
definizione non è che la fusione di due concetti che noi conosciamo suU'
essenza dell'anima, l'uno che essa é un numero, come quella di tutte le altre
cose nel periodo pitagoregglante, e 1'altro che è ciò che muove S3 stesio. Vi ha d'altron le un'altra ra Sappi carte
Sappi >^ hi gione per cui il numero, con cui Xeocrate
identifica Tanima, non potrebbe essere il numero matematico, quale entità diStinta
dal numero ideale e intermediaria: è che egli non distingue più il numero
ideale e il matematico, e non ammette più, quindi, le entità matematiche come
intermediarie. Platone, come ci riferisce Aristotile fin De an. [CITATO DA
GRICE}, ha ammesso che r intelligenza è il numero uno, la scienza il numero due,
r opinione il numero della superficie, e il senso il numero del solido: ma si
vede da questo luogo stesso che questi numeri non sono che dei numeri ideali,
perchè i numeri della soperficie e del solido rappresentano le Idee a cui sono
subordinati tutte le superficie e tutti i solidi matematici, e Asistotile
afferma inoltre espliciUmente che i numeri di cui si tratta sono la stessa cosa
che le Idee. La costruzione dell'anima nel Timeo su cui si fonda sovratutto V
interpretazione che discutiamo, non è più probante, in sostanza, delle
proposizioni precedenti. Le prove che vi si vedono sono: L'anima, si dice, è
composta del mondo ideale e della materia: se ne conclude che essa deve
equivalere agli oggetti matematici, poiché questi sono Idee rannodate con la materia, cioè come
leggi del mondo sensibile Noi abbiamo visto che non vi ha alcuna ragione per
ammettere che Tanima è composta del mondo ideale, poiché, dovendo essa avere
un'Idea propria, il più naturale è d'intendere per Vessenza indivisibile^ non
tutte le Idee, ma l'Idea dell'anima, e in quanto allo Stesso^ questo non può
essere che l'uno dei due elementi. Sappi Sappi Sappi Sappi. Ma quand'anche V
anima fosse composta di tutte le Idee, non se ne potrebbe concludere la sua
equivalenza con le entità matematiche. Questa conclusione suppone che queste
entità partecipano a tutte le Idee, tramezzando tra esse eie cose considerate
nell'insieme dei loro attributi. Noi sappiamo invece che le entità matematiche,
non avendo per contenuto che gli
attributi matematici delle cose, partecipano ai numeri ideali solo in quanto
essi rappresentano le Idee di questi attributi, e non tramezzano che tra queste
Idee e questi attributi nelle cose, cioè individualizzati. L'anima ha una
natura media tra V essenza indivisibile, cioè le Idee, e l'essenza divisibile,
cioè la materia: ciò confermerebbe che essa equivale alle entità matematiche,
poiché le entità intermediarie non sono
che le matematiche Questa prova è fondata, come la precedente, sui duo
presupposti erronei che 1'anima è composta di tutte le Idee, e che le entità
matematiche tramezzano tra la totalità delle Idee e le cose considerate nella
totalità dei loro attributi. Inoltre essa conclude affrettatamente dalla
somiglianza dei termini alla identità dei concetti, supponendo come una cosa
che va da sé che l'anima deve essere media nello stesso senso in cui lo sono le
entità intermediarie ch3 conosciamo da Aristotile, e trascurando come di nessun
rilievo la differenza che queste sono medie tra le Idee e le cose sensibili,
mentre l'anima non sarebbe media che tra le Idee e la materia cioè uno dei
principi! da cui risultano le cose sensibili. Qaesta differenza è invece
d'un'impor-]i Sappi Sappi, fcanza capitale, perchè le entità intermediarie che
ci fa conoscere Aristotile sono dette tali, in quanto sono posteriori
alle'Idee> anteriori alle cose sensibili, o a un punto di
vista^l^seniplicemente logico in quanto hanno un grado di generalità medio fra
le Idee e le cose sensibili, essendo comprese sotto le une come più
particolari, e comprendendo le altre
come più generali. Ma è evidente che Platone non può voler dire che
l'anima è posteriore alle Idee e anteriore alla materia, o che è compresa sotto
le Idee, essendone più particolare, e comprende la materia, essendone più
generale. In qual senso Tanima sia media tra il principio ideale e la materia
ci è indicato dal Timeo smesso, dove ciò che nasce il fenomeno è chiamato la
natura media tra e ò in cui nasce la materia e ciò a somiglianza di cui nasce
ridea. L'anima, come le altre cose individuali, ha una natura media tra Tldea e
la materia, perchè tutte le cose individuali sono composte dell'Idea e della
materia, e un composto deve avere delle qualità medie tra quelle degli elementi
che lo compongono. L'anima cosmica deve equivalere agli oggetti matematici,
perchè essa comprende in sé i rapporti armonici «matematici del sistema
astronomico infatti essa è divisa in parti proporzionali ai numeri del
diagramma musicale, e poi in cerchi rappresentanti le rivoluzioni degli astri,
e di cui quelli che rappresentano le orbite dei pianeti sono proporzionali ai
numeri fondamentali del diagramma stesso Tim. Ma che l'anima comprenda in sé dei
rapporti armonici e matematici non è una ragione per identifìearla colle entità
matemaé tlche. Sì avrebbe lo stesso dritto d’identificare con esse gl’elementi
materiali, perchè formano una proporzione geometrica e sono distinti per mezzo di figure e di numeri. Non vi ha,
nell'uno e nelì'altro caso, che un'applicazione dei principii generali del
pitagorismo. Sj dirà che ciò che prova che V anima cosmica equivale alle entità matematiche, non è
solamente che essa comprendejn se dei rapporti armonici e matematici, ma che
questi sono quelli del sistema astronomico. Ma la corrispondenza di questi
rapporti nell'anima e neiruniverso, quand'anche fosse compita, non potrebbe
significare la loro identità, nel senso stretto d^lla parola; e d'altronde
questa corrispondenza si spiega sufficientemente al punto di vista
dell'animismo, l'anima di un essere, in tutte le forme di questa dottrina,
essendo, con più o meno esattezza, un duplicato dell'essere stesso.
L'interpretazione teistica del sislema delle Idee Secondo alcuni Dio equivale
per Platone al Bene, 0 all'insieme di tutte le Idee, o all'uno e all'altro,
perchè il Bene comprenderebbe in sé Tinsieme di tutte le Idee. Queste opinioni
si fondano sull'interpretazione delle Idee platoniche-anche oggi la più diffusa
tra le persone colte, quantunque abbandonata dalla più parte dei critici- che
vede in esse i pensieri eterni della divinità creatrice, di Sappi carta Tim. Tim
cui Tuoi verso sarebbe la realizzazione. Questa interpretazione della doftrina
delle Idee è stata da noi implicitamente confutati nel Supplemento, dove
abbiamo stabilito invece che le Id^ non
sono che gli attributi generali delle cose, considerati come delle realtà
sussistenti per se stesse, e di cui ciascuno, uno in se stesso, esiste
simultaneamente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti a
cui viene attribuito. Tuttavia, siccome nel Supplemento stesso, in cui abbiamo
esaminato i motivi dell'interpretazione trascendentalista, abbiamo tenuto conto
sovratutto di quelli su cui è fondata la forma di quest'interpretazione che
considera le Idee come delle forme puramente obbiettive, giove forse di
esaminare a parte quelli su cui si basa Taltra forma, cioè la teistica, ciò che
potrà servire di complemento alla dimostrazione della nostra interpretazione.
Dopo ciò che abbiamo detto nel Supplemento si spiega facilmente parche airinterpretazione teistica sia stata dai critici moderni preferita T
altra forma deirinterpretazione trascendentalista. Questa comprende almeno il
tratto più caratteristico e più evidente
della dottrina delle Idee, cioè che e'^sa sono delle entità astratte, gli
attributi generali delle cose considerati come sostanze, quantunque fraintenda
la dottrina in un altro punto importante, cioè ammettendo che questi attributi
generali delle cose non sono quelli delle cose stesse, ma un loro duplicato. Ma
l'Interpretazione teistica la fraintende anche nel primo punto, e per
conseguenza non vi ha un luogo di Platone con cui non sia nella contraddizione
più aperta. Una delle determinazioni più importanti delle Idee, oltre quelle
che dimostrano immediatamente che sono gli attributi delle cose Hosfcautificati, è che vengono riguardate
come il solo essere varo, e le cose individuali come un semplice fenomeno, Anch’essa
è più manifestamente incompatibile con Tinterpretazione teistica che con
l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista: alla difficoltà che ha in
comune con la seconda, cioè di ammettere un'altra realtà distinta e separata
dall'essere véro^ la prima ne aggiunge
un'altra più evidente, cioè che le Idee, che non sarebbero che dei possibili
concepiti dall'intelligenza creatrice, verrebbero riguardate come più reali
delle cose, che ne sarebbero la realizzazione. SI aggiunga che T
interpretazione teistica ha contro di sé, non solo le prove dell'immanenza
delle Idee, ma anche le più importanti delle prove contro di questa, quali sono
la sostanzialità delle Idee che, come
abbiamo osservato, è il motivo principale dell' Interpretaztone trascendentalista,
la testimonianza d'Aristotile, e i miti del Timeo e del Fedro in cui le Idee
sono rappresentate come degli oggetti separati dal mondo ma distinti pure dal
pensiero che li contempla. Lo stesso vantaggio dell'interpretazione teistica,
di dare all'ipotesi delle Idee uno scopo, che le manca assolutamente nell'interpretazione più
ricevuta, costituisce, in ultima analisi, un altro argomento contro di essa,
perchè, se le Idee fossero I pensieri dell'intelligenza creatrice, sarebbero le
cause efficienti delle cose, nel significato proprio e naturale della causa
efficiente il sistema delle Idee, secondo la interpretazione teistica, non
essendo che un caso della filosofia istintiva del nostro spirito. Ora ciò è escluso dalla
testimonianza d'Aristotile, che nega alle Idee ogni causalità nel senso
proprio, e afferma che Platone non ha ricercato che la causa formale e la
causa mate Sappi carta riale O- Arrstotile,
nella sua esposizione della lllosofìa platonica, non fa parola deiranima del
mondo, e tiene conto unicamente del sistema delle Idee. La testimonianza
d'Aristotile è confermata, in sostanza,
d’un esame attento della dialettica platonica, che ci mostra che le Idee sono
causp, ma in un senso analogico e molto lontano dalla nozione spontanea che ci
formiamo della causalità; e d'altronde, in questo senso stesso, esse sono cause
le une delle altre, ma non dei fenomeni. Alle prove contro l'interpretazione
teistica fondate sulla dottrina stessa delle Idee, «e ne aggiungono altre fondate su altri concetti
della filosofia platonica, cioè che Piatone non ammette altra divinità che
l'anima cosmica, che l'intelligenza secondo lui non si trova altrove che
nell'anima, che egli non conosce altra causazione, nel senso proprio, che
quella che consiste in una successione, ecc. Le due forme dell'interpretazione
trascendentalista delle Idee platoniche ci danno gli esempi più colpenti delle due maniere più
abituali di trattare la storia della filosofia: l'una che pretende fondarsi su
un esame scrupoloso dei testi, ma per difetto di sìntesi e di un concetto
esatto dei motivi e della genesi della speCQlazione metafisica, non riesce a
dare ai sistemi un significato intelligibile; Taltra che pretende costruire i
sistemi, ed è interamente arbitraria.
Naturalmente T esempio della
seconda maniera è l'interpretazione teistica. L'oggetto di questa seconda parte
di questo Met, E plemento non è un eFame completo dell'interpretazione
teistica. Esso importerebbe delle ripetizioni inutili, perchè bisognerebbe
ritornare sulle prove dell'immanenza delle Idee che abbiamo date nel
Supplemento. Qui ci limiteremo dunque a discutere le prove su cui e fondata
quest'interpretazione. Siccome l'immanenza delle Idee ci sembra
sufficientemente stabilita, se queste prove fossero coacludenti, dovremmo
confessare che vi ha in Platone una contraddizione insolubile. Noi mostreremo
che questa contraddizione non esiste, e che le proposizioni di Platone su cui
si basa l'interpretazione teistica, si spiegano anche, e d'una maniera più
sodlisfacpnte, nella nostra interpretazione. I motivi precipui, se non unici,
dell'interpretazione teistica possono ridursi ai seguenti: Il significato che U
parola idea ha nelle lingue moderne. Noi abbiamo osservat'^, dopo tanti altri, che NELLA LINGUA GRECA
lÒi% non ha questo significato. Se si
riflette che gl’errori del volgare influiscono spesso anche suUe memi dei
pensatori, non si trova strano che
questo equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] sul
significato della parola idea figura anch'esso tra i motivi
dell'interpretazione teistica. E hso, a dir vero, non ha potuto contribuire che
alla sua diffusione, ma non alla sua ergine, essendo anzi quest'interpretazione
che ha determinato IL PASSAGGIO DAL SIGNIFICATO antico del termine al suo
significato moderno – GRICE: INTROJECT OURSELVES IN PLATHEGEL’S SHOES -- Certamente
l'interprete teistico non ignora che idea non significa pensiero – cf. Grice:
way of things, way of ideas, way of words, what Speranza calls Lockeian
reminiscences ----, ma quando egli dice che le Idee platoniche sono i pensieri
dt>ll i divinità, una gran parte del pubblico a cui si rivolge trova
naturalissimo che un'idea deve esci Sappi. caria sere il peDsiero di qualcuno, e si sa che, nelle
quistioni filosofiche, il successo delle opinioni non dipende solamente dal
suffragio dei dotti. II teismo di Platone e la sua dottrJna cLe la divinità è la causa prima di tutti i
fenomeni. Siccome per Platone le cause delle cose sono le Idee e la causa di
tutto é l'Idea del Bene, se ne conclude che Dio deve essere identico a tutte le
Idee o alPIdea del Bene Noi abbiamo
osservato che vi hanno nella filosofia platonica DUE SENSI – GRICE MODIFIED
OCCAM’S RAZOR -- della parola causa, corrispondenti a due spiegazioni del mondo,
simultanee ma assolutamente distinte. In un senso, la causa VUOL DIRE la causa
efficiente, nel significato proprio del termine, quello che esso ha nella
filosofia istintiva dello spirto umano. É in
questo senso che la causa prima è la divinità. Il secondo senso della
parola causa è quello che essa ha nel realismo
dialettico, e non è che T
obbiettivazione del rapporto logico fra i concetti realizzati. É in questo senso che la causa di tutto è
Pldea del Bene. Le Idee, a parlar propriamente, non sono cause delle cose in
questo secondo senso, ma nemmeno nel primo. La causa, nel primo senso, è esteriore airefletto, mentre le
Ide«i sono nelle cose, ne sono l’elemento costante e veramente reale, da cui
dipende il loro essere e la loro essenza. Il senso in cui le Idee sono cause
delle cose, se non è precisamente identico al secondo senso, cioè a qu«^llo che
è Tobbiettivazione del rapporto tra il principio e la conseguenza, può però
ricondursi con esso a un concetto comune,
perchè in entrambi i casi è il generale che viene riguajdato come causa,
e i particolari subordinati come effetti. L'interprete teistico confonde questi
sensi evidentemente distinti della causa in Platone, perchè non comprende né
l'immanenza delle Idee ne il vero
significato della dialettica. Il nome di
dio che Platone dà al Bene e ad altre Idee, e quello di divino che dà a tutte
le Idee in generale. Il Bene è chiamato
dio nella Repubblica, dove dice che Dio ha prodotto Tldea del letto e ogni altra
Idea. Ma qualunque sia la maniera d'interpretare le Idee platoniche, non può
vedersi in questa deificazione del Bene che una semplice metafora, poiché il
Bene è evidentemente un'Idea come tutte le altre, e non differisce dalle altre
che perchè occupa il primo posto nella gerarchia del mondo ideale – GRICE VALUE-ORIENTED
CABBAGE =df good cabbage --, cioè perché è la più universale dì tutte, e per
conseguenza, secondo i principii della dialettica platonica, quella da cui
tutte le altre si deducono – GRICE CONVERSATIONAL MOVE = df GOOD CONVERSATIONAL
MOVE, not mendacious, a contribution at all in the imperative, Make your
contribution such as is a good one.
L'Idea del Bene, in qualsiasi interpretazione delle Idee, non può essere
che Tastrazione bene cioè l'attributo comune a tutte le cose che si dìcono
buone, esistente sotto una forma o sotto un'altra: se si ammette che queste
astrazioni che Platone chiama Idee non hanno che un'esistenza mentale, e sono i
pensieri dell'intelligenza divina, l'Idea del Bene sarà un pensiero dell'intelligenza divina, ma
non l'intelligenza divina stessa che è il substratum o il complesso di questi
pensieri. Si dirà che l'Idea del Bene comprende in sé l'insieme di tutte le
Idee, e che è perciò che Platone può identificarla con l'intelligenza divina.
Ma l'Idea del Bene non può contenere le altre Idee che come un concetto
generale contiene i concetti più particolari
subordinati, cioè in estensione, e non in comprensione, ciò che sarebbe
necessario perchè potesse riguardarsi come equivalente a tutto il mondo ideale.
Nel secondo caso Sappi il cooteouto dell'Idea del Bene sarebbe tuti'altro che
quello del concetto astratto di 6ew^; mentre è evidente che le Idee platoniche,
che esse esistano nelle cose o fuori delle cose, che siano delle realtà
obbiettive o dei semplici pensieri, non
potrebbero avere, in ogni caso, altro contenuto che quello dei concetti astratti
che loro corrispondono. Delle Idee altre che il
B.3ne sono chiamate dio nel Timeo die e nel Parmenide. Nel primo di
questi luoghi II mondo è detto dio
sensibile immagine del dio intelligibile, e l'interprete teistico ne conclude
che, questo dio intelligibile essendo il modello del mondo. Dìo è per Platone la stessa cosa che
l'insieme delle Idee. Ma l'altro luogo del Timeo stesso, in cui il mondo è
chiamato simulacro degli dei eterni, mostra che questa conclusione è
affrettata, e che Platone chiama dio anche delle Idee particolari, la cui
personificazione nell'interpretazione, teistica è altrettanto impossibile che
nella nostra, perchè non sarebbero secondo essa che dei pensieri particolari della divinità.
Un'osservazione analoga vale pel luogo del Parmenide. Ivi è chiamato dio il
soggetto in cui risiedono la scienza in sé e la padronanza in sè, donde
potrebbe concludersi che le Idee secondo Platone risiedono in Dio. Ma in
seguito, invece di un sogifetto unico, si parla di più soggetti, cioè di dei al
plurale, co che esclude che la scienza e la padronanza in sé risiedano nel Dio di cui è quistiooe n^W
interpretazione teistica, che è naturalmente uno solo. lu quanto all'epiteto
divino dato alle Idee in genera'o, esso non é per Platone e quest'uso del
tcrmme non gli è particolare che questo Suppl., un sinonimo di eccellente –
you’r so divine -- , E ciò che si vede chiaramente nel Fedone a l'armonia è
divina, la lira e le corde sono terrestri e affini al mortale,
l' anima è DIVINISSIMA nell'ipotesi che sia l'armonia del corpo, è più
divina del corpo nella stessa ipotesi, Fedro e il divino è il bello, il saggio,
il buono e tutto ciò che è tale, Bep. sono chiamati divini tanto le Idee quanto
il filosofo che le contempla, e ia tanti altri luoghi, in cui nessuno potrebbe
essere tentato d'intendere per divino un attributo o un'appartenenza della divinità. Il Demiurgo del Timeo. Il racconto
del TimeOj se si prende alla lettera, è
una prova dell'altra forma dell'interpretazione
trascendentalista, perchè ci si parla di un demiurgo che ha costruito il
mondo contemplando le Idee come modelli. Ma l'interprete teistico osserva con
ragione che questa non è filosofia, ma mitologia: egli ne conclude che la
distinzione tra il demiurgo che contempla e il modello che è contemplato è una
semplice immagine che non deve prendersi alla lettera, e che in realtà il
demiurgo contempla il modello in se
stesso, in altri termini che le Idee sono i pensieri del demiurgo, cioè
dell'intelligenza creatrice. Ma se, non contenti del significato apparente del
racconto del Timeo, si crede necessario di cercargliene uno riposto, non
bisogna preferire quello che sembra all'interprete stesso più soddisfacente
come dottrina filosofica, ma quello che è indicato dalle proposizioni del Timeo
stesso, dall'insieme delle dottrine di Platone e dalla testimonianza dei suoi
discepoli immediati e dei loro contemporanei. Ora noi abbiamo visto che queste
indicazioni concordano nel mostrarci che il Demiurgo non è un essere realmente
personale, ma la personificazione di un'entità astratta 1 cioè un simbolo
dell'Idea del Bene, e che la cosmogonia del Timeo è un'allegoria della
derivazione delle cose dai due primi principii. L'opinione deirinterprete
teistico è senza dubbio più filosofica e più intelHgibMe che quelle dei
sostenitori dell'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, che
prendono il Demiurgo alla lettera, considerandolo sia come un elemento
filosofico dei sistema platonico sia come un semplice elemento rappresentativo
cioè privo, per Fautore stesso, che lo ammette, di qualsiasi valore filosofico - situazione
psicologica che non è certamente facile a concepire: ma questo vantaggio
relativo non può bastare a provarla, quantunque basti per vedere nella
cosmogonia del Timeo uno dei motivi precipui dall'interpretazione teistica.
L'arduità del sistema delle Idee e la familiarità del concettualismo e della
filosofia teologica. Ciò fa che, sfuggendo il significato reale del primo, si cerca di dargliene uno
riconducendolo ai secondi. Quantunque, un pensiero astratto e generale è
altrettanto inconcepibile che un essere astratto e generale, vi ha però tra le
due ipotesi questa dififerenza, che la
prima è ammessa da quasi tutti i filosofi e tutte le persone colte, ed è un
prodotto spontaneo dei sofismi a priori del nostro spirito, mentre la seconda
non ha avuto, almeno nella filosofia
moderna, che un numero molto esiguo di partigiani, ed èia meno naturale delle
spiegazioni del mondo escogitate dai metafisici. All'epoca di Platone l'equivoco
EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] dell'interprete teistico di
prendere un'entità astratta per un pensiero astratto non sarebbe stato cosi
facile come ora, non solo perchè la teoria dei concetti verisimilmente non era
ancora Sappi. stabilita, ma anche perchè Aristotile, a quanto sappiamo, è il
primo che abbia ammesso la dottrina dell'immutabilità di Dio, e per conseguenza
quella dell'eternità dei pensieri divini, che dà al Dio della filosofia
teologica moderna tanto più se si riguarda come una pura intelligenza una certa
aria di somiglianza col mondo ideale di Platone, specialmente interpretato alla
maniera trascendentalista. L'altro elemento della dottrina delle Idee, cioè la
dialettica, non è meno arduo che l'ipotesi delle Idee stesse. Quest'arduità
della dialettica è dovuta, oltre che alla difformità del concetto di causalità
su cui essa è fondata, dall'idea spontanea della causalità, alla maniera
imperfetta in cui applica questo concetto. Aggiungiamo che nella supposizione
della trascendenza delle Idee ammessa da quasi tutti gl'interpreti essa diviene
necesssariamenle incomprensibile. Da queste difficoltà di comprendere la
dialettica, senza di cui la dottrina delle Idee è una ipotesi senza motivo e
senza scopo, nasce naturalmente il tentativo di trasformarla in una varietà
della filosofia istintiva cioè fondata sul concetto spontaneo della causalità,
come dalle inconcepibilità del realismo nasce quello di trasformarla in un
sistema concettualista. Questi due tentativi riuniti costituiscono il motivo
principale dell'interpretazione teistica. Ma per mostrare su quali deboli basi
si fondi questa interpretazione, sarà meglio di esaminare le prove che ne dà
uno dei suoi principali sostenitori, cioè Fouillée, nella Filosofia di Platone.
Fouillée, a dir vero, non ammette che le Idee non siano altra cosa Sappi. carte
rflS?. •nj "Tj r f 1' ì chA ì peDsitri deirintellfgeDza divina; egli
conviene che ÌQ qaest'ipotesi non sarebbero che dei semplici possibili
concepiti da Dio, e Platone non potrebbe chiamarle delle realtà: ovitog ovxa.
Secondo lui le Idee sono primitivamente le perfezioni divine rimedio peggiore
del male, perchè che cosa può significare che il circolo, il leone, il cavallo,
p. e, o l'albero in se stessif cioè come semplici complessi degli attributi
generali che costituiscono queste specie, sono delle perfezioni di Dio? Ma per
conseguenza sono anche i pensieri divini, perchè Dio ha coscienza di se stesso
e delle determinazioni che inviluppa il suo eesere. Ma questo concetto del
Fcuillèe non può impedirci di dare la sua arg(mentazione come efemjio
deirargomentazione dr gl'interpreti teistici in generale, perchè è evidente che
egli si serve di tutti gli argomenti che crede i più propri a dimostrare
Tinterpretazione teistica, sia che provino che le Idee tono le perfezioni
divine, sia che provino che Fono i pensieri divini. L'argomentazione del
Fouillèe può dividersi in due parti: gli argomenti della prima parte sono dei
luoghi del Timeo, con cui egli cerca di provare che le Idee non sono separate
dal Demiurgo, ma sono nel Demiurgo stesso, cioè in Dio; quelli della seconda
parte sono dei luoghi raccolti dagli altri dialoghi. Noi esamineremo questij
argomentì a uno per uno. II modello, dice Fouillèe, è ciò che vi ha di più
perfetto, è uno ed è vivente, cioè è un animale intelligibile. Egli ne conclude
che non vi ha alcuna differenza tra esso e Dio// modello è ciò che vi ha di più
perfetto. Ma Platone definisce forse Dio, come Cartesio: Tessere perfettissimo?
Noi abbiamo osservato che l'idea della filosofia teologica moderna che Dio è
l'infinito o l'assoluto, cioè che possiede tutti gli attributi che giudichiamo
dèlie péi^fezioni a un grado infinito o assoluto, è un coticetto chS non si
trova in Platone quantunque le sue dottrine sitila divinità occupino un posto
elevato nei gradi dello sviluppo di cui questo concetto è il termine ultimo uè
in generale nella filosofia teologica antica. Nei luoghi del Timeo a cui allude
Fouillèe per perfetto bisogna intendere completo. Platone dice che il mondo è
statò fatto a somiglianza dell'Idea universale di animale, comprendente in sé
tutte le Idee generiche e specifiche degli animali. Per conseguenza egli chiama
il modello del mondo l'animale intelligibile perfetto o completo, perchè
comprende tutti gli animali intelligibili cioè tutte 16 Idee degli animali Egli
sembra chiamarlo pure Il più perfetto degli esseri intelligibili e non
semplicemente deglf animali intelligibili: ciò è perchè l'Idea universale df
animale con tutte le Ide3 generiche e specifiche degli animali contengono in
sé, in qualche modo, tutto il mondo ideale senza di che Platone non potrebbe
riguar latte come il modello del mondo. Questi concetti nou hanno niente di
comune con l’essere perfettissima del moderni filosofi spiritualisti Il
mtodello è uno. Questo argomento potrebbe valere contro l'altra forma
dell'interpretazione trascendentalista, che ammette, o dovrebbe ammettere, che
le Idee sono separate le une dalle altre, come dalle cose. Nella nostra
interpretazione il mondo ideale non è una moltiplicità Senza unità, ma un'unità
multipla, perchè l'Idea generale risiede nelle Idee partici) Tim, Tira. Sappi.
carta -. colarì, ed è, ìmplieltanlente, queste Idee stesse Infine il modello è
vivente. Ma Platone dice solamente che è ridea universale delPanimale con le
altre Idee degli animali che essa comprende. Qaesto potrebbe prendersi in tre
sensi, corrispondenti alle tre interpretazioni delle Idee in generale. Queste
Idee, nella nostra interpretazione, sono gl'insiemi degli attributi comuni a
tutti gli animali e a ciascun genere e ciascuna specie particolare di animali,
esistenti negli stessi animali reali. Nell'interpretazione trascendentalista
seguita dalla più parte dei critici moderni,sarebbero questi stessi insiemi di
attributi, ma fuori degli animali r>ali. Neirioterpretazione teistica,
infine, i pensieri divini degli animali, e, secondo Fouillèe, anche le
perfezione divine corrispondenti. Di questi tre sensi FouUlèe non potrebbe
ammettere T ultimo che arbitriariamente; e del resto non è quello ch'egli
attribjsce alle parole di Platone. Il testo stesso del Timeo identifica il Demiurgo
e il modello. Infatti Platone d'ce: Esente da invidia, Dio volle che tutte le
cose fossero, per quanto era possibile, simili a se stesso. Ma Platone dice
ancora: Simili alle Idee, al Vivente intelligibile. Dunque Dio è egli stesso
questo Vivente che abbraccia in sé le Idee Ma, come si vede da tutto il
contesto, il Demiurgo volle chetuttJ le cose fossero simili a se stesso, in
quanto egli era buono, e volle che tutte le cose fossero buone. Questa
proposizioae presentarebbe un senso soddisfacente, anche prendendo il Demiurgo
e i paradigmi alla lettera, e considerandoli come due cose distinte. Non si è
contenti del senso letterale? ma allora questo luogo ci permette d'identificare
il Demiurgo, non all'insieme delle Idee, ma all'Idea del Bene, porche ciò ch'^
renda le cose buone, rendendole simili a se stesso, noa è l'insieme delle Idee,
ma l'Idea del Bene. Fouilièe, a dir vero, crede che questo luogo identifichi il
Demiurgo tanto all'insieme delle Idee quanto all'Idea del Bene, perchè queste
due cose per lui si equivalgono. Ma noi abbiamo osservato che quest'equivalenza
ò impossibile anche nei presupposti deirinterpretazìone teistica, perchè il
contenuto dell'Idea del Bene, come di tutte le altre, non può essere, in
qualsiasi interpretazione, che quello stesso del concetto corrispondente. Per
confermare l'identità tra il Demiurgo e 1'Idea del Bene, Fouillèe aggiunge che,
se Platone chiama Dio buono, e perchè è il Bene stesso; infatti «si oserà
sostenere che Dio è buono per la sua partecipazione a qualche cosa dì superiore
cioè all'Idea del Bene distinta da Dio stesso? Senza dubbio: Platone osa
sostenere ciò e tante altre dottrine egualmente incompatibili colconcetto
moderno che Dio è l'assoluto, p. e. che vi hanno molti dei, che la divinità non
ha creato la materia, che la sua potenza è limitata, ecc., e tutti i filosofi
antichi osano sostenere cDme lui tali dottrine ed altre, secondo il teismo
moderno, non meno indegne della divinità. Fouillèe cita il Timeo luogo che
abbiamo riportato e spiegato nel Supplemento carta, e lo commenta cosi: Non
ssmbra che Platone abbia voluto confutare anticipatamente quelli che
moltiplicano gli esseri senza necessità, obbliando che l'unità è il termine
della dialettica? Due dei che non differissero che Sappi carte carta aue«to
Sappi. carte per La loro funzione di modello o di artigiano, supporrebbero al
di sopra di loro un dìo unico, che li abbraccerebbe T uno e T altro nella sua
comprensione. Ma Platone in questo luogo non parla di due dei, ma solamente di
due Idee dell'animale: egli dice che due Idee dell'animale sarebbero
impossibili, perche supporrebbero al di sopra di loro un'Idea unica deir
animale che le conterrebbe tutte e due. Del resto né è una conseguenza dei
principi! della dialettica platonica che due del supporrebbero al di sopra di
loro un dio unico che li abbraccerebbe runo e Taltro, né j Platone, nella
supposizione che combatte Fouillèe, potrebbe riguardare il modello come un dio
altrimenti che per metafora. Platone, enumerando le cose che egli ammette, non
parla che di tre, le Idee, lo spazio e la genesi, e non di una quarta, che
dovrebbe essere il Demiurgo. E cosi che fa. Fouillèe cita questi luoghi, e ne
conclude che, poiché il Demiurgo manca nella enumerazione, esso deve essere
identico a una delle tre cose enumerate, cioè alle Idee. Questo é senza dubbio
il migliore degli argomeati ch'egli impiega per dimostrare Tidentità tra il
modello e il Demiurgo. Ma esso non é probante che nella sua parte negativa,
cioè contro quegrinterpreti che, come Martin, prendono il Timeo alla lettera e
ammettono che Platine ha pensato realmente che il mondo e stato costrait'>
da un artefice che ha copiato un modello. Contro la sua parte positiva, cioè
che il senso riposto del Timeo é che le Idee esistono in Dio, valgono le osservazioni
che abbiamo fatto sopra, sul 4 motivo dell'interpretazione teistica, e sarebbe
inutile di ripeterle. Fouillèe osserva pure sul secondo dei luoghi indicati che
il modello deve essere identico al Demiurgo, perché in questo luogo le Idee
vengono riguardate come le cause delle cose, e paragonate al padre lo spazio
essendo paragonato alla madre, e la genesi al figlio. Quest'argomento non può
valere anch'esso che contro l'altra forma dell'interpretazione
trascendentalista, secondo cui le Idee non potrebbero essere che dei semplici
esemplari, e la loro causalità sulle cose é assolutamente incomprensibile. Nel
Timeo Piatone dice: Dio impiega tutte queste cause per ausiliarie, ma mise egli
stesso il bene in tutte le cose generate. É per ciò che bisogna distinguere du^
sorta di cause, Tuna necessaria e l'altra divina, e noi dobbiamo cercare in
ogni cosa la causa divina. Fouillèe commenta: Platone non distingue due cause
divine, 1'una efficiente cioè il Demiurgo, l'altra esemplare o finale cioè il
modello; egli non ne pone che una, l'Idea Ma in questo luogo non é quistione
della causalità delle Idee. Le cause che si distinguono in due generi sono le
cause fenomenali, cioè facienti parte dell'universo come complesso di tutte le
esir stenze individuali. Confrontando questo luogo con due altri del Timeo
stesso in cui é espresso evidentemente lo stesso concetto, si vede che per le
cause divine bisogna inteudere quelle che producono con intelligenza il buono e
il bello; le cause necessarie sono naturalmente gli agenti materiali. In questa
bipartizione delle cause le Idee non vanno né nell'una né neir altra Sappi.
C»oarta. Sttppl., carta, benché la parusìa delle Idee vi sia necessariamente
tanto nelle cause dell’una quanto in quelle dell'altra, poiché tanto gli agenti
materiali quanto gli agenti spiritaali sono la realizzazione delle Idee e
agiscono secondo le necessità ideali. Fra le cause divine é compreso il
Demiurgo, che, se si prende alla lettera, è anch' esso una causa, come abbiamo
detto, fenomenale, essendo eviient3mente un individuo, e non un'entità
astratta. Secondo noi il Demiurgo non deve prendersi alla lettera, e simboleggi
i V Ide% del Bene: per conseguenzi le cause divine, oltre le cau^e intelligenti
cioè le divinità generate, significano anche, allegoricamente, la causalità del
Bene. Questo però non ci costringe ad oltrepassare V ordine causale nei
fenomeni, perchè la causalità del Bene non è in sostanza che la teleologia
immanente nella natura. Siccome anche le cause intelligenti, nel senso proprio,
agiscono teleologicamente, le cause divine equivalgono alle cause finali, come
le cause necessarie alle cause meccaniche. Questa divisione delle cause in due
generi non è dunque che quella abituale a tutti i teleologisti, e non
giustifica per niente la conclusione del Fouillèe. L'ultimo degli argomenti del
Fouillèe tratti dal Timeo k che non vi ha per Platone, egli dice, che un solo
Dio intelligibile, padre e modello del dio sensibile cioè del mondo mentre, se
il Demiurgo e il mondo ideale fossero distinti, ve ne sarebbero due. Per
provare ciò egli cita il Timeo: É cosi che il Dio che esiste da ogni tempo,
avea concepito il Dio che doveva Sappi. nascere, e ìa conclusione del dialogo,
in cui il mohdo è chiamato dio sensibile, immagine del dio intelligibile. Il
primo di questi luoghi proverebbe che vi ha un solo dio che esiste sempre e non
due, cioè il Demiurgo e il modello; il secondo proverebbe al tempo stesso che
vi ha un sol dio intelligibile ciò che è la stessa cosa che un sol dio c?ie
esiste sempre, e che questo dio non è altra cosa che il modello. Dunque il
Demiurgo e rinsieme delle Idee sono una sola e slessa cosa Sa questo
ragionamento si può osservare prima di tutto che nel secondo luogo il
significato del dio intelligibile è tìrcoscritto per designare unicamente il
modello, si dalla parola immagine che dalla parola stessa intelligibile che
nella lingua di Platone non significa che l'Idea; per conseguenza da questo
luogo non potrebbe concludersi che, oltre questo dio intelligibile, Platone non
ha potato ammettere un altro dio, anch'esso distinto dal dio sensibile, cioè il
Demiurgo. Ma ciò che rovescia tutto il ragionamento è l'osservazione che qui
Platone non può deificare il modello, considerato come uno cioè V animale
intelligibile che comprende tutti gli animali intelligibili, che nello stesso
senso in cui altrove deifica i modelli, considerati come più, cioè per semplice
metafora. Passiamo agli argomenti tratti dagli altri dialoghi: lo Nel 6« della
repubblica il Bene ci è rappresentato come principio sostanziale delle Idee e
come causa efficiente degli oggetti sensibili. Naturalmente Fouillèe ne
conclude che il Bene per Platone non è altra cosa che Dio Vi ha appena bisogno
di osservare che que e. questo Sappi, .ini 8t*argomento non è che un caso
dell'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] gfà ìadi^ cato
deiridijer prete teistico, di scambiare la causa nel senso del realismo
dialettico con la causa nel senso che gli è pili familiare, cioè
rantropomorfìstìco. Nella stessa Repubblica si dice che Dio ha prodotto 1'Idea
del letto e tutte le altre Idee Ma ne'.rinterpretazione del Fouillòe com'è che
Dio potrebbe produrre le Idee? se Dio non è secondo lui che Tinsieme delle Idee
stesse? La proposizione che Dio ha prodotto le Idee potrebbe avere un senso nella
forma dell'interpretazione teistica che non è quella ammessa da Fouillèe,
secondo cui Dio sarebbe il substratum e la sorgente delle Idee, cioè dei suoi
pensieri eterni, press' a poco come, secondo lo psicologo spiritualista, la
sostanza me è il substratum e la sorgente dei fenomeni della nostra coscienza.
Ma in questo senso o in qualsiasi altro è assolutamente incompatibile con le
dottrine di Platone, ohe considera evidentemente le Idee come i principii
ultimi sia che dobbiamo intendere per esse delle entità astratte sia dei
semplici pensieri. L'interprete teistico dirà che Platone riguarda l'Idea del
Bene come la causa di tutte le altre, e che Dio è appunto per lui l'Idea del
Bene. Noi conveniamo con V interprete teistico che il Dio della Repubblica, che
produce 1'Idea del letto e lo altre Idee, non può es3ere che l'Idea del Bene.
Ma aggiungiamo che questa deificazione dell'Idea del Bene non può essere che
una metafora tanto nella nostra interpretazione quanto nella sua, poiché
secondo questa ebsa non potrebbe essere che uno dei pensieri della dici) Sappi.
vinità, e la perFonificazione di un pensiero è altrettanto inconcepibile che
quella di un'entità astratta. Fouillèe ammette anch'egli che questo Dio che
produce l'Idea del letto e le altre Idee è la stessa cosa che il Bene, e ne dà
come prova che esso è chiamato in seguito il re, espressione che si applica
pure al Bene. Su questa prova basterà di ripetere l'osservazione precedente e
l'altra dell'incongruenza del Fouillèe di ammettere che V insieme delle Idee
equivalente per lui al Bene sia la causa delle Idee stesse. Nel Fedro si dice
che dio é divino perché è con le Idee Ma dio é con le Idee in quanto le
contempla nel luogo iperuranio – supralunario GRICE. Anche le anime che sono al
seguito degli dei le contemplano, senza che siano perciò i loro pensieri. Nel
CONVITO l’idea del bello é chiamata il bello stesso divino e si dice che chi la
contempla d viene am'co di Dio. Fouillèe intende che quest'idea è la beltà del
divino, e che chi la contempla diviene amico del divino perché il bello è
identico al bene e per conseguenza al divino. Ma è evidente che l’idea del
bello non può essere chiamata divina che nello stesso senso in cui sono
chiamate divine l’altre idee. Quando nel Filebo le Idee del CERCHIO GRICE e
della sfera sono chiamate il cerchio e la sfera stessa divina, dovremo
intendere che queste Idee sono degli attributi di Dio? Secondo gl'interpreti
teistici in generale, queste Idee sarebbero dei pensieri particolari della
divinità: ma pare carta e. Supplem. cario a. òOo ad essi naturale che i
pensieri che Dio ha del CERCHIO e della sfera siano chiamati IL CERCHIO divino
e la sfera divina? Inoltre un pensiero di Dio è tutt'altra cosa che un
attributo di Dio. f ouillèe dirà che le Idee del CERCHIO e della sfera sono
anche delle perfezioni divine e non semplicemente dei pensieri divini. Noi
potremo discutere questa proposizione, quardo Fouillèe o altri ci farà
comprendere che cosa significa Aggiungiamo, suir altra parte deir argomento,
che Platone stesso ci spiega sufficientemente, e senza che resti alcun bisogno
della spiegaeione del Fouillèe, perchè chi contempla l'Idea del Bello diviene
amico di Dio o piuttosto amato da Dio, esocpar^s: è perchè partorisce e
nutrisce la vera virtù, e non delle immagini di virtù, avendo visto il vero
cioè il Bello in se stesso, tipo della virtù e di tutto ciò che è bello, e non
un'immagine. Nel Teeteto la virtù, che è l'imitazione del Bene, è definita la
somiglianza con Dio Dunque, secondo Fouillèe, se non ammettesse che il Bene è
identico a Dio, Platone non potrebbe dire, come qualsiasi altro teista,
filosofo 0 non filosofo, che il virtuoso è amato da Dio, o che gli somiglia?
Notiamo che nel luogo del Teeteto a cui allude Fouillèe Platone noa dice che la
virtù si definisce la somiglianza con Dio, ma semplicemente che divenire
giusto, santo e prudente è rendersi simile a Dio. Nelle Leggi Dio è chiamato il
il principio, il fine e il mezzo di tutte le cose. Dunque egli è il Bene,
poiché è il Bene il principio primo e il fine Cont\ e. ultimo Ma la
proposizione citata da Fouillèe che d'altronde lo stesso autore afferma
ricevere da un'antica tradizione potrebbe provare tutto al più che il sistema
teologico di Platone è il panteismo. Da ciò non potrebbe concludersi niente
sulla dottrina delle Idee, perchè queste due parti della filosofia platonica
sono, come abbiamo osservato, assolutamente distinte. Del resto Platone non
dice Dio é ma Dio tiene exei it principio, il fine e il mezzo di tutte le cose,
proposizione naturalissima in qualsiasi forma, alquanto evoluta, della
filosofia teologica. La tua intelb'genza non è il bene, dice Filebo a Socrate -
Si, la mia forse, o Filebo, ma per V intelligenza vera e divina, io non penso
che sia cosi. - E il migliore argomento che Tinterprete teistico possa
impiegare per provare che T Idea del Bene è identica a Dio. Infatti in questo
luogo Socrate sembra affermare che Tintelligenza divina è i! Bene stesso. Ma la
propozione potrebbe anche avere nn altro senso, cioè che la semplice
intelligenza è insufficiente alla felicità nostra, ma è sufficiente a quella di
Dio. Infatti il bene nel Filebe è considerato sovratutto nel suo aspetto
subbiettivo, cioè come felicità degli esseri viventi, V argomento del dialogo
essendo appunto di ricercare in che consiste la felicità. Lo stesso luogo
citato fa parte della conclusione di una discussione per cui si mostra che né
una vita di pura intelligenza né una vita di puro piacere basta a costituire la
felicità, ma per ciò è necessaria una vita mescolata di piacere e d'intelligenza.
La rii FUcbo sposta di Socrate a Filebo avrebbe dunque qaesto significato
natnraliFSì'mo, di una riserva fatta in favore dell'intelligenza divina, cioè
che Dio è felice, quantunque non viva che una vita di pura intelligenza. Questo
significato sarebbe confermato da ciò che si dice in seguito, che non solo non
è verisimile, ma è anche sconveniente, di ammettere che la divinità provi del
piacere e del dolore. Ora Tinsieme del dialogo non permette di dubitare che il
senso delle parole di Socrate non sia effettivamente uesto. Quello preferito
dall'interprete teistico è incompatibile col contenuto dell'Idea del bene che è
evidentemente un attributo delle cose, di cui la felicità degli esseri viventi
possa essere un caso particolare e con la sua immanenza, cosi chiara in qaesto
dialogo, che noi vi abbiamo visto a buon dritto una delle prove più forti
dell'immanenza delle Idee in generale. Aggiungiamo che esso è anche
incompatibile coi presupposti dell'interpretazione teistica, perchè secondo
questi l'idea del bene non potrebbe essere che uno dei pensieri della divinità,
ma non l'intelligenza divina, che è il soggetto 0 r insieme di qiesti pensieri.
Sappi. carte. Alcuni interpreti che seguono l'altra forma dell'interpretasione
trascendentalista, credono, fondandosi su questo luogo del Filebo f che il Bene
per Platone non sia Dio, ma la ragione immanente nel mondo, a cui egli non
intende attribuire propriamente la personalità. Questo senso è anche, se si pnò
dir cosi, più impossibile che quello dell'interprete teistico. Questi almeno,
identificando il Bene con l'intelligenza divina, è coerente allo spirito Iella
sua interpretazione, che vedo nelle Ideo platoniche delle con8 Dopo aver posto
nel Filebo Tindeterminato, la determinazione o le Idee, e il genere misto,
Platone dice che bisogna porre la causa di tutte queste cose. Dio sarebbe
dunque la causa delle Idee e della materia La base di quest'argomento che del
resto Fouillèe non propone senza esitazione è il concetto, di cui abbiamo visto
l'inammissibilità, che il Tiépag del Fihbo che egli chiama la determinazione,
sia identico alle Idee, e r^TiELpov alla materia. Tuttavia, siccome il Ttépag e
l'dcTieipov sono anche, come abbiamo mostrato, gli elementi delle Idee, alcuno
potrebbe giungere per questa via, con qualche apparenza di ragione, alla stessa
conclusione del Fouillèe, cioè che la causa vale a dire Dio, è causa anche
delle Idee. Ma questi non potrebbe essere l'interprete teistico, perchè il
iispag e V ànstpov sono e>identemente gli elementi delle cose reali, e non
oezioni dello spirito. Ma per l'interprete trascendentalista che considera le
Idee come delle forme obbiettive, quantunque esistenti in un altro moido, come
l'Idea del Bene può essere la stessa cosa che la Ragione? Per lui come per noi
le Idee non sono che gli attributi omonimi dello cose sostantificati, per noi
nelle cose stesse, per lui fuori delle cose. La ragione è dunque un attributo
di tutti gli oggetti che chiamiamo buoni? e siccome per Platone tutto ciò che
esiste è buono perchè egli vede nell'Idea del Bene la forma universale e la
identitìca a quella dell'Essere, tutto ciò che esiste per Platone che non è un
ilozoista, partecipa dunque alla ragione? È evidente che l'interprete
trascendentalista non attribuirebbe a un filosofo moderno un non senso simile;
ma a Platone gli è lecito di attribuire tutti i non sensi, perchè
effettivamente, secondo la sua interpretazione, la filosofìa platonica non
potrebbe spiegarsi che per una tendenza irresistibile verso le proposizioni
prive di senso. Suppl., carte. Suppl. vili, carta Suppl. carta possono
riguardarsi come f le menti anche delle Idee che nella nostra interpretazione,
che identifica in qualche modo le Idee con le cose, ma non in
un'interpretazione che ne fa dei pensieri o delle perfezioni della divinità.
Per altro, noi torniamo a domandare a Fouillèe com'è possibile che Dio sia
causa delle Idee, mentre non è che le Idee stesse. Aggiungiamo tralasciando per
amore di brevità tante altre osservazioni non meno ovvie che la causa non
potrebbe essere causa anche delle Idee perchè non lo è che delle cose divenute
mentre le Idee sono eterne, perchè la sua efficienza è assimilata alla nostra
attività sul mondo esterno, e perchè essa non é evidentemente che l'anima del
mondo, che non può produrre che del movimento, e per la comunicazione del
movimento proprio. L'anima, nel suo viaggio al seguito di Dio, contempla la
scienza in sé, non questa scienza seggetta al cangiamento, ma quella che si
trova nell'essere vero. L'Idea della scienza è dunque compresa in Dio. E
d'altra parte il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Ide
ch'essa racchiude. Le Idee divengono così dei pensieri divini Ma che cosa prova
al Fouillèe che l'essere vero in cui si trova la scienza in sé, è Dio? L'
essere vero 3 èoxtv 6v ovxcog in linci FU. Sappi. La causa è ciò che fa, e gli
eifetti le cose che sono fatte {Filebo). La causa è anche chiamata. Ropilice
5Yj|xtoupYo0v) degli altri tre generi FU. Dio, per oonseguenjsa, seconao
l'iaterprete teistico, farebb', anzi fabbricherebbe, i propri pensieri. Suppl.
questo SujìjìL Fedro guaggio platonico lingua platonica desi'gna l'Idea, e per
conseguenza qui non può significare che l'Idea di sostanza di cui la scienza in
sé è l'attributo, perché ciò che è sostanza nel mondo à.\\e cose deve essere
sostanza anche nel mondo delle Idee, e ciò che è attributo in quello deve
essere attributo anche in questo. Quando poi Fouillèe afferma che il Parmenide
c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Idee, la sua proposizione è
incontestabile, ma quando aggiunge che essa racchiude, non fa che un'asserzione
interamente gratuita, perchè Platone non lo dice né nel Parmenide né altrove. E
dio e non l'uomo che è la misura di tutte h». cose Leggi llGc. Cosi per Platone
il principio e il fondamento della verità è Dio Ma le parole precise di Platone
sono: Dio é la misura di tutte le cose molto più che alcun uomo. Dunque secondo
Fouillèe anche l'uomo sarebbe per Platone principio e fondamento della verità,
quantunque meno che Die, proposizione che è un non senso tanto se si ammette
che la verità è oggettiva quanto se si ammette che è soggettiva come pretende
Protagora; perchè, se è oggettiva, come l'uomo potrebbe esserne principio e
fondamento? e se è soggettiva, come Dio potrebbe esserlo più che l'uomo? La
proposizione che Dio è la misura di tutte le cose, in quanto essa ha uoa
portata gnoselogica, può significare, in Platone, non che il vero e il falso
dipendono da Dio, ma semplicemente che in Dio vi ha un criterio infallibile del
vero e del falso, perchè noi dobbiamo interpretare questa proposizione
conformemente alle sue dottrine conosciute, e secondo queste è il pensiero che
è deter Parmen. minato dalle cose teoria dell'intuizione e della reminiscenza,
non seno le cose che sono determinate dal pensiero. li' Aristotile parla di
alcuni che hanno detto che Vanima e il luogo delle specie xójiog stSwv.
Fouillèe ne conclude che Platone chiama V intelligenza divina il luogo deMe
Idee, perché quest'espressione che troviamo in Aristotele è, egli dice, evidentemente
platonica. Noi diciamo invece che è evidentemente antiplatonica é una
conseguenza delle prove dell' immanenza delle Idee date nel Supplem., e
appartiene probabilmente ai Cinici, che contrapponevano al realismo di Platone
il concettualismo, affermando che gli universali non esistono che nel pensiero.
Ili Ite Idee e il pensiero Secondo un'interpretazione di Platone, che rimonta
ad Hegel, ed è stata ripresa e sviluppata da un critico contemporaneo,
Teichmuller, la reminiscenza, l'intuizione delle Idee in una vita anteriore, V
immortalità dell'anima e le altre dottrine connesse non devono intendersi nel
senso letterale, ma sono dei simboli d'una teoria gnoseologica ed ontologica,
in cui Platone avrebbe preceduto Hegel. Questa è che, nel pensiero filosofico,
il soggetto conoscente s'identifica con V oggetto cono De an. Zeller Filos. dei
Greci trad. franc. sciuto, cioè con le Idee; che questo pensiero costituisce
l'essenza intima dell'anima, ed è, per conseguenza, universale, e quindi
eterno, come il suo oggetto; infine che esso è il momento ultimo dello sviluppo
eterno dell'essere, TAssoluto, che comprende ogni cosa, e in cui tutti i
contrari si unificano. L'immortalità dell'anima simboleggerebbe l'eteroarsi
dello spirito, quando rientra nella sua vera essenza, identica al mondo ideale,
e ha luogo cosi la conoscenza filosofica. L' intuizione delle Idee in una vita
anteriore significherebbe la presenza delle Idee nel pensiero: essa é
rappresentata come la percez'one di un oggetto esteriore, perchè è il solo caso,
nell'esperienza, in cui l'oggetto sia presente immediatamente al soggetto, e
trasportata in una vita anteriore, perchè ressenza universale dell'anima, da
cui deriva l'anima individuale, si rappresenta come V antica natura àpxaia
cpOoi^ di questa. La reminiscenza, infine, significherebbe che la conoscenza è
a priori, e che lo spirito la ritrac dalla sua antica natura, identica alle
Idee conosciute. Ma perchè Platone, come dice uno di que8t' interpreti, ha
insegnato il vero mediante il falso? Perchè, invece di esporre la sua dottrina
apertamente, ha preferito d'invilupparla in oscuri simboli? Ciò é stato, ci si
dice, per due ragioni. Primo, la verità nella sua forma pura è inaccessibile ai
molti; a questi, affinchè ne partecipino in qualche modo, è necessario di
presentarla sotto un involucro fantastico, in forma di miti e di allegorìe.
Secondo, Platone era convinto che la religione é il vincolo più forte
dell'ordinamento so VERA (vedasi) Platone e VimmortaUtà dulVaniina] ciale;
perciò ha cercato di mettere d'accordo, almeno in apparenza, il pensiero
filosofico con le credenze religiose, e tra le altre naturalmente con la più
efficace di tutte, cioè quella deirimmortalità. L'obbiezione più ovvia che si
presenta prima facie contro quest'interpretazione è V inverosimiglianza della
situazione psicologica ch'essa suppone in Platone. Quest'arte di dire una cosa
e intenderne un'altra, qualunque siano le frasi di cui si rivesta per darle
un'apparenza speciosa, è sempre una maschera che si mette al pensiero, una diplomazia
che il filosofo usa verso gli altri 0 verso se stesso. Noi comprendiamo questo
stato di spirito in un professore moderno, che nrn vuole alienarsi il favore di
chi sta in alto urtando troppo rudemente delle idee che fanno parte di un
ordine stabilito, 0 in un dottore protestante, che deve fare il sermone della
festa di pasqua, ma non ammette la venta storica del racconto degli evangeli
sulla resurrezione. Anche quel nobile carattere di filosofo che fu Spinoza
parla, nel senso in cui questa lingua pretende attribuirsi a Platone, oltre che
dell'immortalità dell'anima, di Dio, del figlio di Dio, dell'amore di Dio,
ecc., parole che nel suo sistema non sono che una decorazione: ma dobbiamo noi
maravigliarci di ciò quando, malgrado questo velo prudente di cui ricopre le
sue dottrine, che un teista ha tutta la ragione di riguardare come atee, lo
vediamo diventare 1'oggetto della riprovazione universale? Ma in Piatone, e al
so»-getto dell'iminortalità dell'anima, questa diplomazia sarebbe stata seuza
motivo. Oltre che la mitologia dei Greci non accorda all'anima, dopo la morte,
che un'ombra d'esistenza, oggetto piuttosto di timore che di speranza, e a cui
non era legato alcun interesse etico, la credenza all'immortalità, o
semplicemente alla sopravvivenza, non sarebbe stata riguardata, almeno
all'epoca di Platone, come una condizione di ortodossia. Come sappiamo da
Platone stesso, i suoi contemporanei che consideravano come un dovere il culto
degli dei dello stato erano generalmente scettici riguardo alle antiche
tradizioni sui premi e le pene dell'alira vita; i più pensano che l'anima,
appena uscita dal corpo, si dissipa e si annienta; e Socrate nella Repubblica
di Platone) eccita la sorpresa del suo interlocutore, quando afferma che è
immortale. Platone non si sarebbe dunque trovato in urto con la coscienza
popolare, s'egli non avesse accolto tra le sue dottrine, o avesse anche
rigettato, implicitamente o esplicitamente, la credenza in un'altra vita: tanto
meno, per fare atto di ossequio alla fede dei suoi connazionali, avrebbe potuto
credersi in obbligo d'insegnare e di dimostrare V immortalità dell’anima, nel
senso rigoroso, e la sua eternità. Ma supponiamo che 1'epoca di Platone fosse
tale da imporre a un filosofo un ossequio apparente a queste dottrine: che cosa
dovremmo aspettarci da lui, supposto ciò? ch'egli mette in luce i soli punti in
cui i suoi concetti filosofici s’accordassero coi concetti popolari, lasciando
nell'ombra quelli in cui ne difterissero. Platone dovrebbe dunque limitarsi in
questo caso, come Ci) Zeller, Filos. della Grecia Introd. gener. o.
L'antropologia, V. anche, sul timore dell'altra vita, Q-ayau La morale
d’Epicuro, pel paganesimo In generale, e Platone stesso Jiep. Jiep.
Fedo.Spinoza e come Hegel nei casi analoghi, a cercare delle formule ambigue,
che, quand'anche più adattate alle credenze popolari, potessero pure
applicarsi, anche forzandole alquanto, ai concetti filosofici. Egli non
insisterebbe quindi sul lato etico e sentimentale della credenza
all'immortalità: non parlerebbe dei premi e delle pene nell'esistenza futura;
non farebbe esprimere continuamente ai suoi personaggi le speranze della
felicità che attende nell'altro mondo il saggio che si è purificato dalle
passioni, e il timore della morte da cui la sicurezza di un'altra vita deve
liberarli; sovratutto non metterebbe in bocca queste speranze a un caro
morente, col pensiero sottinteso che sono delle illusioni quasi per una
irrisione a ciò che vi ha di più umano nel sentimento religioso, nelle persone
e nella circostanza in cui è il più umano di rispettarlo Tutto ciò che vi ha
nelle idee sull'altra vita di mitico e di saperstizioso, nel senso stretto di
questi termini, non sarebbe meno fuori di luogo; p. e., nel Fedone, i fantasmi
che vagano attorno ai sepolcri, e la descrizione del soggiorno futuro dei buoni
nell'alta superficie della terra di cui noi abitiamo una cavità e dei cattivi
neo-li abissi che sono nel suo interno; perchè qual signifi Fedo.
lOTcOUc,TiìYì, Meno Teet. Fedro Gorgia Rep, Legtji ecc. il Fedone, pure il Fedone
cato potrebbe darsi a queste circostanze come simboli della dottrina
filosofica? Infine Platone non darebbe delle dimostrazioni dell'immortalità ed
è stato il primo a farlo, o almeno queste dimostrazioni dovrebbero essere
ambigue lome l'immortalità stessa, cioè, mentre apparentemente proverebbero
1'immortalità personale, dovrebbero essere suscettibfli di essere interpretate,
nel loro senso reale, come prove delle dottrine che essa simboleggia; mentre è
evidente che le dimostrazioni platoniche concludono univocamente, cioè alla
sola immortalità personale, e, per quanto si torturino, non si riuscirà mai a
far loro dimostrare l'eternità dell'essenza universale dell'anima o 1'identità
del soggetto e dell'oggetto. Ora possiamo noi concepire un filosofo della
sinistra hegeliana, che cerchi di dimostrare, senza equivoco, la verità la
verità storica, come sopra dei racconti degli evangeli? Un'altra testimonianza
in favore della sincerità di Platone nella dottrina dell'immortalità
dell'anirna è il feuo atteggiamento in faccia alla religione in generale che,
conformemente all'interpretazione hegeliana dell'immortalità, non potrebbe
essere per lui che un sistema di miti, a cui bisogna tributare un ossequio
esteriore – GRICE 39 ARTICLES -- e cercare di farne dei simboli di verità
filosofiche. Platone non si contenta di fare atto di adesione, reale o
apparente, alle idee religiose dei suoi connazionali, ma cerca di migliorarle,
di correggerle, e di assi Vedi queste prove nel Fedone, Meno, Fedro,
Repubblica. Un’analisi di questi luoghi ingrosserebbe inutilmente il saggio, e
d'altronde niente potrebbe sostituire l'impressione di evidenza che risulta
dalla loro lettura. i i" ierle su una base filosofica. É ciò che fa per le
idee sulla divinità, che egli fonda sulla dottrina deir anima cosmica, ed eleva
si al punto di vista morale che metafisico, combattendo le superstizioni
popolari incompatibili coi nuovi concetti da lui insegnati. Lo stesso fa pure
per le idee sulla vita futura, sovratutto in due punti: elevando la credenza
popolare nella sopravvivenza e la preesistenza al concetto rigoroso conseguenza
logica deiranimismo di una durata senza cominciamento e senza fine, che cerca,
oltre che di fondare su prove razionali, di legare alle altre parti del suo
sistema filosofico, cioè alla dottrina delle Idee e a quella dell'anima
cosmica; e basando la metempsicosi e le altre credenze sul destino futuro
dell'anima sul concetto di una ricompensa morale, che manca nei dati
tradizionali, benché egli non fa in ciò che aiutare un movimento cominciato
prima di lui, e a cui doveano cooperare tutti gli spiriti religiosamente Tra
gli argomenti deU'immortalità dell'anima, oltre quello per la reminiscenza,
sono fondati pure sulla dottrina delle Idee 1'ultimo del Fedone riportato in
parte nel Suppl, carte e quello per l'affinità dell'anima con le Idee carta
Seoondo i primi Pitagorici le migra«ioni delle anime non erano regolate da
ragioni di giustizia, ma era l'azzardo che determina un'anima ad entrare in un
corpo piuttosto ohe in un altro Martin Studi sul Timeo. diù avanzati della sua
epoca. Ma da un filosofo incredulo, quand'anche non prenda apertamente, in
faccia alla religione, la posizione d'avversario, non potremmo aspettarci che
Tindiffereoza religiosa, o al più un'adesione passiva naturalmente esteriore
alle credenze stabilite: ma egli non opporrà, come fa Platone, a queste
credenze delle idee religiose più elevate, non sarà un riformatore, perchè
questi non si trovano che tra i credenti più fervidi. Ci si dice, è vero, che
Platone non si limita a velare prudentemente la sua irreligiosità, ma si giova
della religione come strumento politico, credendo utile e necessario che il
Demo fosse ingannato. Con questa supposizione il seguace dell'interpretazione
hegeliana può credere di evitare le inverosimiglianze precedenti, ma andando
incontro in compenso ad altre non minori! La più colossale è naturalmente che
un filosofo, prima, creda le proprie idee dannose e le contrarie utili, e poi
di buona voglia e non per prudenza come nella supposizione precedenle si metta
il bavaglio sulle proprie dottrine, non solo, ma predichi invece di esse -- noi
non parliamo di un filosofo salariato -- le dottrine contrarie. Ammettiamo
tuttavìa che questo prodigio sia possibile: è certo che potremmo attendercelo da
chiunque altro piuttosto che da Platone. Non vi ha sistema in cui dovrebbe
esservi meno bisogno di un codice religioso, come strumento di polizia
(POLITEIA) e di moralità, che in quello di Platone e, in generale, dei
moralisti usciti da Socrate. In questo sistema, che stabilisce come principio
fondamentale dell'etica che la virtù e la felicità sono identiche, dovrebbe
bastare, per la polizia (POLITEIA) e la moralità, la filosofia soia-se per
moralizzare è necessario di far credere che si può essere al tempo stesso santi
URMSON e prrfetti egoisti. Ma si dirà che la filosofìa non può penetrare nella
moltitudine, ed è a questa che sono destinati T’immortalila dell'anima e gli
altri miti. Ma è per la moltitudine che ha scritto Platone? È ad essa che sono
indirizzati gli argomenti deirimmorlalità dell'anima, di cui alcuni, e i soli
che l'autore creda decisivi, fondati sulla dottrina delle Idee, cioè la più
astrusa che si trovi in tutta la storia della metafisica? O si deve ammettere
che Platone maschera il suo pensiero anche innanzi agl'iniziati, per paura che
trapelasse ai profani? Ma ciò significa eh'egli ha voluto soffocare, per una
specie di infanticidio intellettuale, la verta appena nata nel suo spirito a
meno che si chiami verità quella che insegna mediante il falso, ma con
l'intenzione che nessuno potesse apprenderla. Noi non diremo che questo sarebbe
un fatto senza esempio nella storia della filosofia e della letteratura in
generale, perchè, ammessa la sua possibilità, con qual dritto potremmo
affermare che tutto ciò che un filosofo teista qualunque ha scritto o detto su
Dio e sull'anima non è stata una finzione, prudente o filantropica, e
un'allegoria simboleggiante, per esempio, per quanto riguarda Dio, la Realtà
inconoscibile, o la finalità immanente nella natura, o l'ordine morale del
mondo dovuto a cause naturali come nella dottrina buddista del karma, che, per
quanto strana, non è almeno un non senso come l'identità del soggetto e
dell'oggetto, e per quanto riguarda l'immortalità dell'anima, oltre all'identità
del soggetto e dell'oggetto e all'immortalità della specie, l'indistruttibilità
della forza di cui la psiche è una forma transitoria, o la persistenza della
sensibilità negli atomi che compongono il nostro i corpo e tutta la materia?
Del resto, che si ammetta come motivo di Platone una diplomazia prudente o una
santa impostura, questo motivo non potrebbe spiegare che l'immortalità
dell'anima, la metempsicosi e gli altri miti ch'egli ha in comune con la
religione: ma come spiegare la reminiscenza e l'intuizione delle Idee in una
vita anteriore? Esse suppongono l'immortalità dell'anima, ma questa non le
suppone, né è incompatibile con la dottrina che tutte e tre rappresentano:
questa identificazione del per s'ero col suo oggetto, possibile in unospirito
d'una durata limitata, perchè infatti diverrebbe impossibile, se questa durata
si prolungasse indefinitamente? Una conseguenza necessaria dì
quest'interpretazione dell'immortalità è di sopprimere completamente la
dottrina di Platone sull'anima, cioè metà della sua metafis'ca. Il concetto
fondamentale della parte di questa dottrina che si riferisce all'anima
individuale, è il dualismo tra anima e corpo, in altri termini l'anima
considerata come sostanza distinta: ora questo concetto è incompatibi'e cfn l'interpretazione
dell'immortalità come simbolo dell't-ternarsi del pensiero nella conoFcenza
filosefica. L'immortalità dell'anima non potrebbe simboleggiare l'eterniià del
pensiero cioè del pensiero speculativo che se questo fosse, come è iof' tti per
Hegel e per Spinoza, Tesscnza dell'anima: ma per Platone il pensiero non è che
un attributo dell'anima; la sua essenza – RES COGITANS -- , cioè la sua
sostanza, è un che di esteso, che è il suhstratum dei suoi movimenti, compresi
quelli che si chiamano sentire, pensare, ecc., -- concetti psicologici GRICE –
della teoria dell’anima o psicologia razioale -- cerne le sostanze materiali
sono il subsiratum dei loro movimenti e di tutti gli altri fenomeni del mondo
esteriore. Il dualismo tra anima m e corpo, 0 la fi08tan2Ìalità dell'anima, nrn
pnò essere dunque in quest'interpretazione che un 8«>mpliie mito che cosa
simboleggerà? come l'immortalità, la metempsicosi, la reminiscenza, ecc. Se è
un mito la sostanzialità dell'anima, sarà anche un mito la sua grandezza spaziale,
il suo movimento e per conseguenza la definizione che è ciò the muove te
stesso, la dottrina che muove – ANIMA – il corpo comunicandogli il proprio
movimento – HOFFMANN COPPELIA--, quella che occupa nel corpo un posto
determinato, quella della sua tripartizione, e, in breve, di tutto CIO che
L’ACCADEMIA dice dell'anima non resta una parola che dice sul serio e se questi
miti sono dei simboli, e noi vogliamo interpretarli, il nostro imbarazzo non è
minore di quello dell’ACCADEMIA stessa, quando, dopo avere spiegato
allegoricamente il mito di Borea che rapisce Oritia, si vede nella necessità di
spiegare della stessa maniera gl'ippocentauri, la chimera, i Pegasi – “which
was ridden by Bellerophon” – Grice, “Vacuous Names” -- , le gorgoni e una
moltitudine d'altri mostri, che per essere spiegati allegoricamente, esiggono
una certa sapienza rustica e una gran perdita di tempo. Le dottrine sull’anima
cosmica cioè sul divino non doveno essere prese sul serio più che quelle
sull'anima individuale. Se infatti Platone parla dell'immortalità per nn
ossrquio apparente alle credenze popolari, o perchè la crede una favola
necessaria all'ordine sociale, come non ammettere che era per lo stesso motivo
che parla di dio e della provvidenza? Di più la dotti-ina sull'anima cosmica
suppone lo stesso dualismo incompatibile coll’intrcrpreta Fedro zìone hegeliana
deirimmortalità su cui è fondata quella suiranima individuale: la prima è
descritta, come la seconda, come una sostanza distinta dalla materia, estesa,
in movimento, causa del movimento della materia per la comunicazione del
proprio movimento, ecc. Si dirà che qui il mitico sta nel dualismo e negli
altri concetti che ne dipendono, mentre la vera dottrina di Platone era un
panteismo ilozoista, in cui Dio era concepito come Tanima del mondo, ma senza
che questa fosse sostantificata e separata dalla materia. Ma oltre che questa
forma di panteismo è quasi totalmente sconosciuta all'antichità perchè, come
abbiamo visto, quasi tutti i panteisti antichi pensano, come i dualisti, che
l'anima del mondo è una sostanza distinta dal corpo del mondo con qual dritto
potremmo ammettere che la dottrina di Platone era il panteismo, quando egli
insegna invece il dualismo? Coerentemente all'interpretazione hegeliana
dell'immortalità, tutto ciò che Platone ha detto della divinità, o dell'anima
del mondo, noi non dobbiamo intenderlo che come un simbolo, e non possiamo
attribuirgli altro Dio che la sfera totale delle Idee che, secondo
quest'interpretazione sarebbero anche dei pensieri, o il pensiero assoluto, che
sarebbe l'ultimo momento dell'evoluzione del mondo ideale. Intanto tutti questi
concetti di Platone sull'anima, sia cosmica sia individuale, hanno tutti i
caratteri di una seria dottrina filosofica, e noi non potremmo aspettarci di
trovarli in una semplice finzione. Noi noteremo: La naturalezza di questi
concetti, cioè il fondamento che ^fi essi hanDo, come tutti ì concetti
metafis'ci, nei sofismi naturali o a priori del nostro spirito. Platone ha
anche stabilito il teismo sulle sue vere basi, che sono la spiegazione
teleologica del mondo per uca teleologia cosciente e quella del movimento per
Tanima. Il concetto della scstanzfaltà dell'anima, o del dualismo tra anima e
corpo, fa parte anch'esso, come i precedenti, della metafisica naturale del
nostro spirito, e la dottrina dell'eternità dell'anima e della sua distinzione
radicale dalla materia, che Platone ne ha dedotto, è la forma più conseguente
di questo concetto. Le dimostrazioni dell'immortalità sono, é vero, sofistiche;
ma quelle dell'esistenza delle Idee non lo sono altrettanto? e d'altronde
l'argomento del Fedro e quello fondato sulla reminiscenza non sono dei semplici
sofismi artificiali, e V ultimo del Fedone accenna al processo logico
quantunque il più delle volte incosciente per cui si passa dal dualismo
all'idea dell'immortalità. Il carattere rigoroso di certi concetti che Platone
sembra essere stato il primo ad ammettere. Tale é, oltre quello dell'eternità
dell'anima, quello di Dio come causa prima, che è uno sviluppo rlell'idfa che
Tanin a è il jrncipio motore, altrettanto rigoroso che Taltro dt^l dualismo tra
anima e corpo. La coerenza fra tutte le parti della dottriua. Questa non
consiste so'ameate nell'assenza d'incompatibilità delle une con le altre, ma
nella loro solidarietà, nella conseguenza con cui tutte si sviluppano a partire
da un primo principio. Data la sostanzialità de' l'anima, ne vengono
naturalmente, se non tutte con necessità logica, queste conseguenze: che essa è
estesa, che si muove e muove il corpo per il proprio movimento ammesso che essa
è la forza motrice, che questo proprio movimento è contiuuo, che occupa nel
corpo una posizione determinata, che è divisa in più parti separate data una
certa ipotesi fisiologica, che è immortale ed è eterna, che è radicalmente
distinta dalla materia, ecc. La metempsicosi, quantunque non sia una
conseguenza dell'eternità dell'anima, è la maniera più naturale di concepire la
sua sopravvivenza e preesistenza, perchè aFsegna all'anima per tutta la sua
durata la funzione di principio di vita, per cui essa è stata immaginata. In
quanto all'intuizione delle Idee in un'efì utenza anteriore e alla
reminiscenza, abbiamo osservato che, tra le ipotesi per ispiegare la
coincidenza tra il pensieio e la realtà, l'unica compatìbile con le Idee
platoniche era l'intuizione razionale, e che vi erano dei motivi per pieferire
all'intuizione in questa vita stessa quella in una vita anteriore. Il dualismo
tra anima e corpo si riflette in quello tra Dio e il mondo. Di più con la
stessa conseguenza con cui sviluppa il dualismo antropologico, spingendolo alla
dottrina dell'immortalità, Platone sviluppa anche il dualismo teologico, che in
luiè radicale cioè è un dualismo nel senso stretto, la convertibilità reciproca
tra la sostanza dell’anima cosmica e le sostanze nrìateriali, che troviamo nfi
panteisti antichi, essendo altrettanto incompatibile, che la mortalità
dell'anima individuale, col principio stesso del dualismo, cioè r imposFibilità
che il cosciente verga dall'incosciente e, viceversa, questo da quello. Una
conseguenza di questo dualismo teologico radicale è pure il concetto di Dio
come causa prima, V idea di causa prima non potendo aver luogo nella forma
antica del panteismo. L'assiomaticità che il principio fondamentale di tutta la
dottrina, cioè il dialisnro tra l'anima e il corpo, dove avere agli occhi di un
contemporaneo di Platone. Non solo esso è un risultato immediato dei sofismi a
priori del nostro spirito, ma è ammesso quasi senza recezione oltre che dalla
credenza popolare da tutti i fitosofi anteriori e da tutti i pensatori antichi
in generale Tutti questi caratteri delle dottrine platoniche sull'anima a cui
dobbiamo aggiungere la costanza con cui sono irsegnate dall'autore
costituiscono altrettante prove intrinseche della loro veridicità: vedendovi
delle finzioni, ci metteremmo in contraddizione coi più semplici canoni della
logica dell'ipotesi, perchè invocheremmo una causa ipotetica per ispiegare un
fatto che sì spiega abbastanza per le cause che sappiamo certamente essere
esistite cioè i sofismi naturali del nostro spirito e il getìio eminentemente
metafisico di Platone, e di più questa causa ipotetica è insufficiente a
spiegare l'effetto, poichè una semplice finzione non da luogo a un sistema di
concetti, in cui troviam tutta quella solidità che può trovarsi in una
COSTRUZIONE metafisica – Cfr. Grice, Logical construction, rutina metafisica --
Ma si pretende che l'immortalità dell'anima è incompatibile con la dottrina
fondamentale di Platone, cioè quella delle Idee. Platone, si dice, non avrebbe
potuto ammettere l'eternità delle anime individuali, che facendo di esse
altrettante Idee: per lui infatti l'eterno non è che l'universale; i su'^i
principii non sono individuali, come nell'atomismo o nel sistema delle monadi;
nel suo sistema l'elemento essenziale del mondo è 1'universale, e l'individuo è
l'elemento accidentale, e non può avere, per conseguenza, che un'esistenza
transitoria. É il solo argomento contro l'immortalità platonica che abbia
qualche speciosità, perchè Platone in effetto mette più volte in opposizionfi
ciò che è sempre, cioè le Ide»», e ciò che nasce e perisce, cioè le cose
individuali, donde è facile di concludere che ogni cosa individuale per lui
deve essere soggetta alla nascita e alla morte. Non bisogna però accordare a
Teichmùller, come hanno fatto alcuni critici, pur non accettando la sua
conclusione centro l'immortalità, che questa è in contraddizione coi principii
stessi del sistema delle Idee. La contraddizione non è che con certe formule dì
cui Platone si serve per mettere in contrasto le Idee e le cose per uoa delle
loro diflerenze più ovvie ben inteso, se queste formule si prendono in un senso
assolutamente rigoroso L'eternità delle Idee e la peribilità degl'individui non
sono per Platone una conseguenza del principio che ciò che vi ha di sostanziale
nel mondo deve essere eterno e ciò che vi ha di accidentale peribile. Tanto
l'una quanto l'altra non sono per lui che un risultato deiresperienza: questa
ci mostra che le specie sono stabili, mentre grindividiii nascono e periscono;
per questa tendenza innata del nostro spirito alle generalizzazioni eccessive,
che è secondo Baiu uua conseguenza dell'attività inerente air organismo, egli
ne conclude, come sembra il più caturale prima delle scoverte della scienza moderna,
che questa stabilità ò assoluta, ciré che esse sono eterne ed immutabili,
proposizione la cui traduzione in lingua realista è che le Idee esistono sempre
e sono sempre le stesse. Questa deduzione dalTesperienza non può escludere che
egli concluda, per altre deduzioni, che vi hanno, oltre alle Idee, altre cose
eterne benché non potrebbe dire anche di queste che sono sempre, perchè ogni
esistenza individuale non si classa per lui neire, s, sere, ma, nel diveìiire.
Ma che le stesse formule che sembrano in contraddizione con l'eternità
dell'anima non devono prendersi in un senso assolutamente rigoroso, si vede da
ciò, che in questo caso esse sarebbero anche in contraddizione con se stesse,
perchè negherebbero implicitamente V eternità delle stesse Idee: se infatti
ogni esistenza individuale, senza eccezione, è soggetta alla nascita e alla
morte, anche la terra, gli astri e il cielo, che Platone considera come un
individuo vivente, saranno soggetti alla nascita e alla morte, ciò che è la
negazioue dell'eternità dell'ordine attuale del mondo, di cui l'eternità delle
Idee è l'espressione metafisica. In molti casi, per altro, in cui Platone
sembra opporre le Idee eterne e gl'individui che V. Bttin Lofjk'o l. e. .
nascono e periscono, non abbiamo aVuna ragione di vedere altra cosa che
l'opposizione solita tra 1'essere e il divenire da cui non si potrebbe niente
concludere contro l'immortalità dell'anima, poiché il divenire continuo delle
cose non è più incompatibile con essa che con la persistenza, anche per un sol
giorno, di qualsiasi oggetto individuale L'espressione xò ov àsC ciò che è
sempre oxà ovxa às{ le cose che sono sempre, per designare le Idee, non
implicano necessariamente che le cose opposte alle Idee, cioè le individuali,
hanno tutte una durata limitata, perchè di quelle aventi una durata illimitata
Platone non direbbe che sono sempre, ma che f^empre divengono. Nella più farle
dei casi p. e. quando è opposto a 5v l'essere, ily^Tvótisvov equivale
evidentemente alla ysvsai; il divenire che indica in Platone il complesso delle
cofc fenomeniche, perchè soggette a un divenire continuo, e nei dobbiamo
tradurre, non cib che nasce, ma semplicemente ciò che diviene cioè con
un'espressione più vaga, non significante che il cangiamento continuo a cui,
secondo Eraclito e secondo Platone, le cose sono sottoposte. Quando a
fix^oiiB^ov Platone aggiunge y.at àTioXX'Jjjtsvov e che peri"sce , non è
necessario ch'egli pensi perciò ad altroche alla dottrina stessa del divenire,
perchè, se è vero, come dice Eraclito, che tutto scorre, come un fiume, e
niente permane, sarà vero, non solo che tutto continua<1) V. Tim. Ffdo.
Conr, FU. Kep, Glie, eco. Come nel Tim. e neUa /»*<'i). d. i'à) Sof. e,
liep, Tim. eoe. Tim. Rep. FU, Conr. anche Jfep. Coììv, FU. mente diviene, ma
anche che tutto continuimente perisce, l'esistenza degli oggetti elie noi
cliiamiamo durevoli, risolvendosi in una successione di stati differenti, di
cui ciascuno sparisce appena che è apparso, erme le orde del fiume, a cui le
cose si paragonano. Ma in quei casi stessi in cui p'^r ciò che é sempre
dobbiamo intendere semplicemente quello che ha una durata illimitata facendo
astrazione dalT esenz^'one da q«a!s'asi divenire implicata nella parola è, e
per co che diviene e ciò che perisce quello che, pur avendo una certa
permanenza, incomincia ad esistere e finisce di es'stere – GRICE MYRO HUMAN
PERSON, basta, per ispiegare come questa opposi/Jone possa rappresentare per
Platone quella tra le Idee eie cfseindivi.Juali, che la nascita e la morte sia
in queste la regola, e l'esenzione dall'una e dall'altra Teccez'one. Anche
Aristotile LIZIO, quando parla delle dottrine platoniche, chiama le cose
individuali i corrutiibili c^Bapid, e h» oppone, come tali, alle cose eterne,
cioè alle Idee; ma ciò non gli E a questa decomposizione delle cose in una
successione di fenomeni fuggitivi, che Platone sembra alludere, quando dice nel
Sofista che gli amici delle Idee dividono gli esseri, ammessi dai Fisici, in
minime parli xaxdc 0|JllXpà fitaBpa'JOVxeg), chiamandoli non essenza, ma una
certa genesi fluente. Come si T3de dall'opposizione tra V essere e il divenire
Plalone si serve della dottrina di Eraclito per negare alle cose individuali
una vera realtà. Per conseguenza egli deve preferire di presentarle sotto un
aspetto in cui sembrino prive di qualsiasi sostanzialità, e quindi di qualsiasi
permanenza, la sostanza nelle cose essendo appunto il permanente. Come, p. e.,
nel Conv, e nel FU. Met. impedisce di domandare ai platonici in che le Idee
giovino sia ai sensibili eterni hia a quelli che nascono e periscono, e di
afl'ermare, al comìnciamento della sua esposizione del sistema di Platone, che
questi ha fatto un'Idea di tutto ciò che vi ha di uno nei molti tanto nelle
cose di qui cioè le terrestri quanto nelle eterne cioè le celesti. Con lo
stesso dritto con cui il seguace dell'interpretazione hegeliana può, con una
certa apparenza di rigore logico, fondandoci su certe locuzioni di Platone,
concludere che l'anima per lui è mortale, altri potrebbe concludt re,
fondandosi su altre locuzioni, che essa si vede o si tocca o si percepisce per
qualche altro dei nostri sensi. Infatti allo stesso modo che ciò che é aempre e
ciò che nasce e perisce egli oppone anche, e non meno frequentemente. Vinteli
igibilt, e il sensibile: ora in quest'opposizione V intelligibile non è
evidentemente che Tldea; dunque, si conclude, Tanima, non essendo un'Idea, non
può essere per Piatone che qualche cosa di sensibile. Il vero motivo per cui si
nega la sincerità della dottrina di Platone dell'inimortalità dell'anima, è che
si Afet, Met, T,m. Sof, Fedro Fedo, lòQ-7Qe, Jeep. eco. anche Arist. Met. Per
l'accordo e il legame della dottrina dell'anima in generale con quella delle
Idee rimandiamo a ciò che abbiamo detto nel n. carte, Ivi noi parliamo della
dottrina dell'anima cosmica; ma questa è legata strettamente con quella dell'
anima individuale. Vuol trovare nel nostro filosofo quella di Hegel
dell'identità del pensiero col suo oggetto. Questa dottrina sarebbe
incompatibile con quelle della reminiscenza e delrintuizione delle Idee in una
vita anteriore, (d tsso suppongono Timmortalità dell'anitra: inoltre, non
riuscendosi a trovarla, nelle opere platoniche, esposta in una forma puramente
filosofica, si cerca di vedervela involta in m'ti e in allegorie, quali sarebbero
l'immortalità deiranima e quelle due altre dottrine che la suppongono. Ma non
solo la dottrina hegeliana non si trova, in Platone, esposta in una forma
filosofica, ma vi gi trova invfce la dottrina contraria, cioè il punto di
vif-ta ordinario, secondo cui il pensiero e le cose crstituiscono una dualità
irriduttibile di termini radicalmente diff'erenti e irreconciliabilmente
opposti. La dottrina che il pcLsiero, nella conoscenza filosofica, s'ident'fica
col suo oggetto, implica quella che le Idee sono pensieri. Se le Idee non
fofsero pensieri per se stesse, esse non potreblero divenire pensieri nostri,
juando entrano nella stVra della nostra conoscenza. Ma le Idee di Platone, a
diflerenza di quelle di Hegel, sono delle entità puramente obbiettive. Esse non
sono che le cose stesse, considerate nel loro elemento sostanz'ale, cioè
spogliate di tutto ciò che Platone riguarda, nell'essere, come accidentale
L'Idea d'una cosa è Veasenza di questa cosa, e le Idee in generale sono anche
chiamate gli esseri e le cose. Il movimento, lo stato, Vesserey ecc. significa
l'Idea del movimento, dello stato, V. carte dell'essere, ecc.; le entità d'^l
Tispa^ e dell' àTistpov del i^t7e6o elementi delle Idee euniversali
sostantificati GRICE SOSTANTIFICAZIONE come le Idee stesse sono le une il più
caldo e il più freddo, il più secco e il piì umido, il forte e il piano, il
grave e y acuto, ecc., le altre V eguale, il doppio, ecc., e le cose risultano
dalla loro mescolanza; la Beltà che l'anima ha intuito, quando era in compagnia
degli Dei, è questa stessa beltà che ora percepiamo con la vista (3ì; ridea del
bene è identificata colla felicità degli esseri viventi, e chiamata L’OTTIMO
PARETO negli esseri e il più felice ddVessere. Certamente le Idee non sono le
cose che trasfigurate; ma i processi per trasformare le cose in Idee le
lasciano, quali erano, dei semplici oggetti, non ne fanno dei pensieri. Il
primo di questi processi è l'astrazione GRICE HORSENESS. L'Idea dell'uomo è un
uomo astratto o indeterminato, cioè avente gli attributi comuni a tutta la
specie, ma senza le particolarità proprie di uno o di alcuni individui. Per
'ttenore quest'Idea basta perciò di separare xwpt^^eiv in un uomo ciò che è
comune con tutti gli altri uomini da ciò de non lo è: il risultato di questa
separazione si chiama l’uomo, senz'altro, o, per far comprendere che ron si
tratta di un uomo determinato, ma dell'uomo indeterminato o astratto, l'uomo
stesso aOióc, l'uomo .s/fs.<fo p<r se stesso aOxòg xaO'aOxóv, ciò che è S
eoTv uomo, l'uomo separabile xwpioTÓ?, ecc. Il NOME uomo designa propriamente
quest'uomo astratto, od è esso il vero oggetto della defini carte zìoae
deiruomo; il norrìe e la definizione non s’applicano a^li uomini individui, che
perchè sono delle particolarizzazioni o delle determinazioni dell'uomo
inaeterminato. L'Id^^a non è dunque che un astratto (cioè, conie dice Taine, un
estratto, una porzione, di un oggetto concreto, considerato come esÌ5»tente per
se stesso: essa non è propriamente, come suoi dirsi, il concetto, ma l'oggetto
del concetto – the concept of a horse is not a horse, realizzato; il suo
contenuto è quello stesso del concetto, ma questo contenuto che nel concetto
esiste sotto la forma del pensiero, in essa esiste sotto quella della realtà,
deirobbiettività. É perchè le Idee platoniche sono Tobbiettivazione delle
«strazioni, cioè dei contenuti dei concetti, e niente di più, che Platone può
esprimere compendiosamente la sua dottrina, affermando che l'astratto è reale
p. e., come dice nel Fedone, che il giusto, il buono, il bello è qualche cosa,
o, come dice nel Timeo, che gli slòri intelligibili delle cose esistono
realmente e non sono dei semplici nomi. L'altro processo per trasformare le
cose in Idee è la generalizzazione. L'Idea deiruomo non è solamente T uomo
astratto, ma è anche l'uomo universale, e la sua antitesi è qualchenomo, eì
molti nomini singolari. Per noi dì universale, come di astratto, non vi hanno
che dei nomi, e per il concettualista, che dei pensieri; ma gli universali di
Platone sono degli universali in re, e semplicemente in re: sono le specie e i
generi, ciò a cui si applica la dieresi; e il contrario e il letto Idee, in
opposizione ai contrari e ai letti particolari, V. Suppl. Sappi. vengono
chiamati il contrario e il letto nella natura. Ciascuno di questi universali
essendo, non la totalità degli individui d'uoa classa, ma una sostanza unica
che rappresenta questa totalità, il processo di generalizzazione per cui dalle
cose si giunge alle Idee, è un processo di unificazione. Esso si chiama
o'jvaYoiyi^, cioè riunione, riduzione del multiplo alTuno; e consiste a
sostituire, per eia cuna classe, un individuo unico – the one at a time
grasshopper – one at a time sailor -- alla moltitudine degl'individui offerti
dall'esperienza, riguardandolo come la vera realtà, di cui questi sono il
fenomeno. É quanto basta per ottenere l'Idea platonicaben inteso che questo
proces-o di unificazione suppone già quello di aFtraz'one, cioè la elim-nazione
di tutte le particolarità che differenziano il multiplo: cosi, per esprimere la
dottrina delle Idee, Platone dice: uno è il bello, uno é il giusto, ecc.; o
dopo aver detto che vi hanno molti belli, molti buoni, ecc. che ciò che si è
posto come molti sì deve porre nuovamente come uno il bello stesso, il buono
stesso, ecc. Questo è dunque l'Idea platonica, considerata in se stessa: un
individuo astratto, a cui si riduce la moltitudine degl'individui di ciascuna
class'», e per rappresentarsi il quale si fa astrazione da tutto ciò che non è
comune a tutti gì' [HAIRY-COATED] individui. Per completare la dottrina, non si
ha che ad aggiungere la relazione tra quest'individuo astratto – THE ALTOGETHER
SAILOR --- e grindividui concreti cioè ad aggiungerla espressamente, perchè
essa è data implicitamente nella auvaYWYr^. Questa relazione V. carte è
espressa compendiosaraente nella formula V uno nei molti, e designata dai
termìai temici napojjta e|xiOsgig . L'Idea è il comune – THE MEAN MR MUSTARD
--, ciò chi si predìca di tutti i singolari come uno e Jo stesso in tutti, ciò
per la cui presema o partecipazione le erse sono ciò che hi dicono esspre belli
per la presenza o partecipazione dell'Idea del bello, uomini, dell'Idea dell
'uomo, ecc., e che per questa sua presenza o partecipazione in comune è la
causa agli oggetti simili dell'esser simili. La grandezza che è in tutti gli
oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, ecc., è una sola
e stessa grandezza, una sola e stessa bellezzi, ecc., e queste sono le Idee del
grande, del bello, ecc.; l'Idea della figura è la figura che é la stessa in
tutte le figure; V 1" dea del simulacro è il simulacro unico che è in
tutti i simulacri. Tutte queste proposizioni e le altre simili non dicono in
sostanza se non che 1'astratto è uno di numero; che gli astratti, che si
possono isolare nei diversi individui d'una classe, per la soppressione dei
caratteri particolari e la conservazione dei soli attributi generali, non sono
semplicemente eguali, ma identici; che non sono molti e distinti fra di loro,
ma si risolvono in un essere unico. In un solo individuo astratto, che si
ritrova, uno e lo stesso, in tutti gl'individui concreti. Noi possiamo dunque
cosi definire 1' carta idea platonica: un individuo astratto cioè non avente
che i caratteri generali della classe, che è presente simultaneamente in tutti
gl'indiNÌdui, e che, per quef-ta Fua presccza simultarea in molt% pare molti
ceso stesso, benché in realtà mn sia che uno. Quando i due processi per
trasformare le cose in Idee si applicano alle cose considerate nella loro
successione, si ha la determinazione deiridea come ciò che vi ha di costante e
di perpetuo nella natura. Con le Idee sono descritte come degli oggetti etorni
e immutabili, e opposte alle cose che nascono e periscono, e non sono mai ma
ontinuamente divengono. Ciò vuol dire che l'Idea e l'elemento permanente del
divenire, che nel flusso continuo dei fenomeni le Specie sono stabili, che
1'individuo astratto si ritrova, sempre uno e lo stesso, nella sucessione degV
individui concreti; e a questo punto di vista la dottrina delle Idee è espressa
dalla propos'zione che la forma di ciascuno degli esseri cioè di ciascuna
specie di esseri é sempre la stessa eadem nnmero. Se si fa astrazione dalla
loro inerenza nelle cose, si ha il concetto delle Idee come paradigmi – GRICE
FLEW PARADIGM CASE ARGUMENT FREE WILL URMSON -- , cioè come modelli a cui la
natura si conforma costantemente nelle sue produzioni. E Taspitto, il più
appariscente, della dottrina delle Idee, a cui si ferma l'interprete
irascendentalista, ed é co:i che sovratutto sono presentate da Aristotile –
GRICE CODE IZZING HAZZING ARISTOTELIANISM PLATONISM -- . Ma che le Idee siano
dei semplici oggetti, è altrettanto evidente quando si tiene conto delia loro
immanenza m. ai9 nelle cose che quando se ne fa astrazione: nel pn'mo caso sono
un elemento delle cose, o piuttosto le cose stesse considerate astrattamente;
nel secondo, ne sono i duplicati. Secondo Aristotile, le Idee non dift'eriscono
dalle cose che per la loro eternità; sono dei sensibili eterni, come gli dei
del volgare sono degli uomini eterni. La loro essenza non differisce da quella
delle cose; nelle une e n^lle altre il concetto è uno e lo stesso. Le fanno i
platonici della stessa specie che 1 sensibili; non fanno che aggiurgere la
parola aùió. Cosi, per significare che i platonici non ammettono una Idea della
casa, Aristotile dee che non vi ha, secondo essi, uca casa oltre Tiapa le case
particolari; e obbietta che, secondo i loro principii, si dovrà ammettere UN
TERZO UOMO oltre V ucmo sensibile e T uomo ideale, e che, come vi hanno delle
entità intermediarie per le grandezze e pei numeri, vi sarà un altro cielo
oltre il cielo sensibile e altri animali medi fra gli an' Le Idee dei generi, e
specialmente dei due generi supremi l'Uno e la Dualità indefinita, sono
chiamate elemuuti detjli esseri. Met. Un altro carattere differenziale è
l'immobilità: cosi, secondo il primo luogo citato, Id entità matematiche
differiscono dai sensibili perchè eterne ed immobili come le Idae, dalli liee
perchè ve ne hanno molte della stessa spacie. Ma probabilmente Aristotile
riguarda l'immobilità come data implicitamente nell'eternità perchè la eternità
delle Idee platoniche è l'assenza della condizione del tempo. Met, Eth. Xic.
Met. li' mali stessi e gli animali corruttibili Nel periodo pitagoreggiaiite si
flggiunf:e una nuova astrazione a quella per cui si ottiene )1 concetto
geneja'e o piuttosto il contenuto di questo concetto; si sopprime, cioè, la
materia, e si fa dell'Idra una semplice foima. Questo teryo processo per
ottenere Tld a ci mostra d'una maniera ancora più evideLtc ch'essa ncn è che
un'entità puramente obbiettiva. La foima infatti non esiste altrove che nella
materia; e in efiTetto noi sappiamo dal Timeo e da Aristotile che ciò che
partecipa alle Idee è la materia, che es.'-a è il loro substratum o il soggetto
di cui si predicano –GRICE CORRELAZIONE R CORRELAZIONE D – concetto di verita,
e che l'individuo è un composto della materia e de'l'Idea; e siccome la materia
per Platine è identica allo spaz'o, Arisvtile ne inferisce anche che le Idee
s'ovrcbbiro essrre nello spfz'o. Senza dubb'o, se Platone amnwttesse la
dottrina dell'identità dell'essere e del pen»ievo, nonholo le Idee, ma anche le
cose fu lumeijali dovr^bbeio essere per lui dei pensieri. E allora, astraendo
il comune dalle cose, unificandolo, contemplando queste cose sub specie
aeternifatis GRICE TIMELESS -- secondo il concetto d'Aristoii'e the le Idee
sono dei sensib li eterni, separando le loro forme dalla materia, siccome le
cose sarebbero anche dei pensieri, se ne tirerebbero, non del semplici o\^^eW,
ma degli oggetti che sarebbero al u mpo stesso dei pensieri. Ma siccome Piatone
no i dice mai che le cose sono anche dei pensieri, e gli u >mini pensano
generalmente che non sono che delie cose, noi dobbiamo ammettere ch'e Met, -gli
divide, su questo soggetto, il punto di vista comune; e perciò che Tldea
platonica, tirata dalle cose mediante i processi che abbiamo indicati, non è un
oggetto che é al tempo slesso un jensiero, ma un semplice oggetto, che non si
distingue dagli nini, quali gli uomini abitualmente se li rappresentano, che
perchè è astratto, unico nella sua specie, eterno, e una semplice forma senza
materia. Altre prove della semplice obbiettività delle Idee si avranno,
esaminando le determinazioni che loro vengono attribuite per se stesse, o anche
nel loro rapporto con le cose, ma indipendentemente del processo per cui il
loro concetto e ricavato da quello delle cose. Le Idee sono per Platone V
essere o gli esseìH, e Aristotile le chiama continuamente sostanze. Questa sostanzialità
si vede altrettanto dagli attributi delle sostanze sensibili che vengono loro
negati p. e. quando Platone le chiama l'essenza senza colore, senza figura,
impalpabile, o quando Aristotile e gli amici delle Idee del Sb/?s^a pretendono
che Fono assolutamente immobili e prive della facoltà di agire e di patire, che
da quelli che vengono loro conservati p. e. quando Platone afferma, Met. Nella
Met. le chiama le sostanze immobili; ed obbietta che, nell'ipotesi delle Idee,
in una sostanza vi saranno più sostanze perchè una cosa o un'Idea partecipa a
più Idee Fedro 2Alc. fi contro rinterpretazione degli amici delle Idee, che
l’essere vero pensa, vive, ha un'anima e si muove. Essa si vede pure dal loro
rapporto con le cose rie Idee sodo la realtà, e le cose le immagini e le
apparenze; eia parusia è assimilata alla presenza di una sostanza materiale in
un'altra. Nel periodo pitagoreggiante le Idee sono identificate ai numeri che
certamente sono degli oggetti, per quanto 1'antitesi tra soggetto ed oggetto può
applicarsi a delle astrazioni; e composte di forma e di materia come le cose.
Insieme a queste determinaz'oni e ale alire che ci mostrano le Idee come
semplici oggetti, non ne incontriamo alcuna che ce le mostri erme pensieri.
Cosi, siccome al punto di vista comune che d'altronde è il solo intelligibile
l'essere un oggetto è incompatibile con 1'essere un pensiero, non trovando mai
in Platone una proposzione che, in un caso particolare o come priifcipio
generale, escluda questa incompatibilità, noi dobbiamo ammettere ch'essa esiste
anche per lui, e vedere nelle determinazioni delle Idee come degli ogg« fi la
negazione implcita della dottrina che sono dei pensieri. Noi non possiamo
immaginare altra prova più completa delie precedenti che una proposizione in cui
Platone nega espressamente la dottrina dell’identità dell'essere e del
pensiero. E ciò ch'egli avrebbe certamente fatto. E d'altronde questi numeri a
cui s'identificano le Idee, sono essi stessi identificati ai punti che sono i
termini delle grandezze, e considerati come gli elementi costitutivi di queste.
carte. 'i; 'f'^^vr^f^-^f --^p-r ee fosFe venuto dopo Hegel. Ma siccome Platone,
e chicchessia alla sua epoca, ignora che, fra le pseudo-idee che avrebbero
immaginato 1 met. fisici, vi sarebbe stata ridentità deiressere e del pensiero,
sarebbe assurdo di cercare in lui questa prova assolutamente completa. E non
per tanto noi troviairo nel 7V?rwiew/c?e qualche cosa che vi si avvicina. E la
confuta2ione del'a proposizione di Socrate, quando questi, battuto dalle
obbiezioni del filosofo di VELIA contro la partecipazione, abbandona la realtà
degli universali, e fa la supposizione che le specie non sono che dei pensieri,
e vov possono esistere altrove che nelle anime queste parole dimostrano che la
supposizione di Socrate non è l'identità dell'essere e del pensiero, ma
semplicemente il ccncettualismo. Che dunque V, dice Parmenide di VELIA,
ciascuno di questi pensieri è uno, ma è il pensiero di niente? Ciò è
impossibile E il pensiero di qualche cosa? Si Di qualche cosa che esiste o che
non esiste? --IL RE DI FRANCIA GRICE PEGASUS MEINONG JUNGLE Che esiste Non è di
qualche cosa d’uno, che questo pensiero pensa in tutti gli oggetti, come una
certa forma reale? Si E non sarà una Specie GRICE SPECIFY PERPISCUOUS questa
qualche cosa che si pensa essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli
oggetti? Anche questo sembra necessario Ma che? non è necessario, poiché le
altre cose partecipano alle Specie, o che ogni cosa consti di pensieri e tutto
pensi, o che le cose non pensino essendo dei pensieri? Le proposizione non
significano essendo dei significati CUMMINS» In questo luogo abbiamo la
propos'zione che le cose sono dei pensieri o, ciò che è lo stesso, constano di
pensieri presentata come una assurdità, perchè implicante o che tutte le cose
pensino, o che non pensino mentre sono dei pensieri; e considerata pure come
assurda, perchè conducente a questa proposizioue, quella non formulata
esplicitamente, ma sottii'tesa nel ragionamento di Parmenide VELIA che le
Specie, essendo dei pensieri, sono al tempo stesso Vuno nei molti negli oggetti
reali; e quindi anche la supposizione di Socrate, da cui essa è dedotta, che le
Specie sono dei pensieri. Che fa infatti Parmenide di VELIA? Dimostra a Socrate
che la proposizione che 1 concettualisti oppongono alla teoria delle Idee, cioè
che esse sono dei pensieri siccome un pensiero generale ha per oggetto secondo
la mariera di argomentare abituale a Platone un essere generale implica,
quantunque il concettualista non lo comprenda, che questi pensieri, a cui egli
pretende ridurre gli universali, devono essere al tempo stesso degli universali
in re; donde la conseguenza assurda che tutto il reale si ribclve in pensieri,
e quindi ciò che mostra più palpabilmente la sua assurdità che le cose o
pensano, o sono prive del pensiero essendo pensieri. L'interprete che
attribuisce a Platone l'identità dell'essere e del pensiero, alla prova
schiacciante contro la sua interpretazione ccntenuta in questo luogo del
Parmenide di VELIA, non potrebbe dare che una risposta: cioè che in questo
dialrgo Platone o meglio, l'interlocutore che rappresenta il suo pensiero, cioè
Parmenide di VELIA mostra che l'ipotesi delle Idee e tutte le supposizioni che
possono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, fra cui quella che l'Idea è
Vuno nei molti eh' egli ammette in tutti i suoi scritti, conducono o sembrano
condurre a delle conseguenze assurde, e non pertanto ^gli mantiene tanto la
dottrina delle Idee quando quella che un’Idea è presente simultaneancnte, una e
la f-t'ssa, in tutti gli individui della specie; cosi egli potrebbe mantenere
anche la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, quantunque mostri
che anche da questa derivano o piuttosto sembrano derivare delle assurdità. Ma
vi ha fra i due casi Tiiia diffneiza ìmyortaite. Noi dobbiamo guardarci dal
credei e che le obbiezioni di PartneDide di VELIA contro le Idee abbiano per
Platone lo ^trsso valore logico che vi troviamo noi stessi. L'obbiezioi e
contro la partecipazione, per noi, è petfettàmente concludente, mentre quella
del luogo di cui ora parliamo, contro la proposizione concettualista di
Socrate, è patentemente sofistica, perchè le assurdità che si pretende far
derivare da questa proposizione, non ne derivano che animrssa la validità dei
soliti argomenti di Platone per dimostrare resistenza delle Idee. Ma tul valore
di queste due obbiezioni Platone dove pensale precisamente il contrario di ne
i. La prima, come tutte le altre dirette contro le Idee concepite secondo il
sistema realista rreno forse quella che scmbia dirij:ere contro
l'interpretazione irayc(7id(niolista della sua dottrina, dove parere a Platone
necepsariamentc sofistica, poiché egli mantiene, malgrado essa, il suo realismo
senza dubbio egli dove considerarla come fondata sovra una concezione inesatta
delle Idee e del loro rapporto con le cose, per cui si pretende, avrebbe forse
detto come Cartesio, immaginare ciò che non sì può se non intendere; la seconda
invece dove parergli Tunica fra tutte meno forse Teccezone di cui sopra che fosse
concludente, poiché l'impiega, come l'arma più forte di cui potesse avvalerci,
e ntro la negazione dei suoi oppositori, cioè il concettualismo. L'assurdo a
cui Parmenide di VELIA riduce la supposizione di Socrate, era dunque ij i. per
Platone realm^ìnt^. un assurdo; e il seguace dell'iaterpreta/.ioue hegelia la
gli attribuisce una dottrina ch'egli ha condannata, nel modo più esplicito
possibile in cui un filosofo possa condantiare una dottrina che gli è
sconosciuta. Veniamo ora al pun'o che è direttamente in quis'ione, cioè alla
dottrina, non dell'identità dell'essere e dol pensiero, ma dell' identità dell'
e^^sere e del nostro pensiero, dell'oorgeto conosciuto le Idee e della
conoscenza. Quand'anche il segnncc dell'interpretazione hegeliana potesse provare
che Platone ha ammesso la prima dottrina, egli non proveribbe ancora che ha
affimi sso la seconia: al contrario, provando che non ha ammesso quella, si è
provato pure che non ha ammesso questa, (ssendo evidente, come abbiamo not^ìto,
che se le Idee non sono per se stesse dei pensieri, non possono divenire dei
nostri pen^^ieri. Ma alle prove precedenti che, dimostrando che le Idee non
sono per Platone che dei semplici oggetti, dimostrano pure indiret'amente che
per lui non può esservi identità fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, noi
possiamo aggiungere delle pròve dirette. Vi ha prima di tutto la prova
negativa, cioè l'assenza di proposizioni in cui Platone affermi apertamente
quest'identità; e a questo riguardo sono notevoli i luoghi in cui parla dei
caratteri che distinguono la scienza dall'opinione, poche quest' identtà, se
1'avesse ammessa, sarebbe stata certamente uno di questi caratteri, la presenza
immediata dell'oggetto al soggetto conoscente essendo necessariamente per lo
spirito uma V. Sappi. B carte specialmente Meno. e Tim. . / li : I. no il tipo
supremo della certezza. Tra le prove positive daremo il primo posto ai luoghi
numerosi in cui Platone riguarda evidentemente come farebbe chiunque altro
tranne un h'^geliano la conoscenza e l'oggetto conosciuto come due cose affatto
distinte e separate. G. cita quelli che li sembrano più importanti. Sulla fine
del Cratilo dice .^,he, se tutto diviene, il bello slensoj il buono s'esso,
ecc. non potranno essere conosciuti da alcuno, perché, mentre la potenza
conoscitiva tenterebbe di a^mgerli, essi diverrebbero altri difficoltà che non
potrebbe aver luogo nella dottrina delTidentiià; e mostra che, neiripotesi di
Eraclito, non vi sarà né il conoscente cioè la conoscenza né il conosciuto due
cose distinte. Nel Filebo la distinzione tra la conoscenza e l'oggetto
conosciuto é affermata quando dice che 1'intelligenza e la saggezza non
consistono che nelle conoscenze intorno all'essere reale le Idee Tiepl xò òv
ovitog, perchè intorno a ciò che non ha alcuna stabilità il diveirre coTie
potrebbe esservi in noi qualche cosa di stabile?», ma Io stabile, il puro, il
vero, il sincero, GRICE IL CIRCOLO non può aver luogo in noi che intorno a ciò
che è sempre nello stesso stato, della stessa maniera e senz'alcuna mescolanza.
Questa distinzione è affermata pure dove si tratta dei quattro generi in cui
gli esseri vengono divisi, poiché 1'intelligenza, cioè la causa, è un quarto
genere oltre i tre primi, e si dice espressamente ch'essa è laltra che le Laogo
riportato CÒS3 appartenenti agli altri tre generi cioè gli esseri, cose e Idee,
e il Tiépa; e l'^Tisipov che ne sono gli elementi. Nella Repubblica a la
scienza e il suo o2:s:etto sono n'o-iarlati come due cose diverse e
correlative, come la sete e la bevanda, la fame e il cibo, il maggiore e il
miuore, il doppio e la metà, il più veloce e il pili tardo, ecc.; e si nega che
la scienza e in generale un correlativo sia tale quale è l’oggetto a cui si
riferisce, p. e. che la scienza del salubre e delTinsalubre sia essa stessa
s«lub e e insalubre, e quella del buono e del cattivo buona e cattiva mentre è
evidente vlie, nell'ipotesi dell'identità della conoscenza col suo oggetto, la
scienza del salubre, essendo il salubre stesso, non potrebbe non essere
salubre, e cosi pure quella del buono buona, ecc. Nel Carmide Socrate obbietta
al suo interlocutore che la scienza è dì qualche offffetto, che è altro che la
scienza stessa, p. e. la logistica è del pari e dell'impari, che sono altri che
la logistica, la statica del grave e del leggiero, che sono altri che la
statica; e gli dimostra che non è possibile una scienza che abbia se stessa per
oggetto intanto, se la conoscenza fosse identica all'oggetto conosciuto, la
conseguenza necessaria sarebbe che la scienza non avrebbe per oggetto che se
stessa. La scienza, dice Socrate per dimostrare quest'impassibilità, è relativa
a 0)Sappi. carta Luogo riportato, in parte, a caria L qualche cosa, come il
mag^gìore è relativo al minore, Il doppio alla metà, il piti al meno, il più
grave al più leggiero, ecc. proposizione che g'k incontrammo nel luogo della
Repubblica cosi una scienza che avrebbe se stessa per oggetto sarebbe come un
maggiore che fosse maggiore di se stesso, un doppio che fosse il doppio di se
stesso, un p'ù che fosse p'ù che se scesso, ecc., con le conseguenze
contraddittorie implicate in ciascuna di queste ipotesi. Essa sarebbe pure,
aggiunge Sccrate, com’^. una vìpta che vedrebbe se stes^a e come un udito che
udrebbe se stesso, ciò che supporrebbe che la vista avrebbe colore e l'udito
avrebbe voce confutazione che converrebbe perfettamente alla dottrina
deiridentità della conoscenza e dell'oggetto conosciuto, perchè secondo questa
la conoscenza racchiuderebbe in se stessa il suo oggetto, come, nelle
comparazioni di Platone, Tudiro la voce e la vista il colore. Si dirà che il
Carmide non ha uno scopo dommatico, ma è un semplice esercizio dialetiico; ma
Platone non dinbbe, anche in un esercizio dialettico, delle preposizioni in
contraddizione colle proprie dottrina. Nel Sofista lo straniero di VELIA che in
questo dialogo rappresenta le dottrine dolTautore stabilisce, contro gli amici
delle Specie che il conoscere è un'azione, e Pesser conosciuto una passione, e
per conseguenza un movimento questo conosciuto che, come tale, subisce uaa
passione e un movimenta, è la essenza^ cioè le Idee: ciò importa, primo, la
distinzione fra i due termini antitetici, l'ageote, cioè lo spirito che
conosce, e il paziente, cioè le Idee che sono conosciute; e secondo, che la
conoscenza dellcs I lee è uà cangiae ha luogo quindi nel tempo, mentre essa,
secondo la dottrina che si vorrebbe attribuire a Platone, essendo identica al
suo oggetto, dovrebbe essere etrrna cioè fuori del tempo come quest'oggetto
sfesso. Nel Tteteto i pensieri sono rappresentati come delle effigie degli
oggetti su tavolette di cera esistenti nelle anime, e fra queste effigie vi
sono quelle del cinque HiessOy del sette stesso, del dodici stesso, e in
generale dei numeri astratti che, secondo i principii di Platone, non possono
essere che delle Idee, o almeno delle entità matematiche queste, nel periodo
pitagoreggìante, si distinguono dalle Idee, ma non sono in sostanza che Idee
come le altre, e non differiscono dalle altre che perchè non se ne fanno dei
numeri ideali. Questa rappresentazione implica evidentemente il concetto che il
pensiero, anche quando ha per oggetto le Idee, lungi d'identificarsi con la
cona pensata, ne è una semplice immagine O FANTASMA GRICE DE INTERPRETATIONE.
L'esteriorità delle Idee al nostro pensiero è provata pure dalle espressioni,
cosi fiequenti sovratutto nella Repubblica che nel senso proprio denotano la
percezione visuale -- IDEA, VIDEOR, VISVM --, ma che Platone impiega per
designare la conoscenza delle Idee – I SEE HORSENESS; p. e. vedere il bello in
se steFSo Rep, rivolgere V ott'mo nell'anima allo spettacolo dell'ottimo negli
esseri cioè dell'Idea del bene lò., dirigrrein su l'occhio dell'anima – HUMPTY
DUMPTY BETTER EYES THAN MOST -- e guardare ciò che dà la luce a tutte le cose
cioè ancora l'Idea del bene, ecc. Quand'anche queste Rep Conv Fedo. Sof, Meno,
Crai, FiU, Tim, eco. espressioni volessero inteadersi come indicanti la prsenza
immediata delle Idee al pensiero come, secondo la credenza naturale, l'oggetto
percepito è presente immediatamrnte a'ia percezione sensibile dottrina che non
possiamo attribuire a Platone che quando si tratta della conoscenza primitiva
delle Idee in una vita anteriore, resterebbe sempre la distinzione tra lo
spirito conoscente e le Idee conosciute, perchè la percezione sensibile, sia
secondo il concetto del volgare sia secondo quello del filosofo, implica la
dualità di soggetto ed oggetto come due termini opposti e al di fuori Tuno
dell'altro. Un'altra prova della distinzione fra il pensiero e la conoscenza
dell'Idea e l'Idea stessi sono gli argomenti p<»r dimostrare l'esistenza
delle Idee, tirati dalla scienza e dal concetto. Questi argomenti suppongono
che l'Idea è l'oggetto a cui si riferisce la conoscenza scientifica e il
concetto, comi le cose particolari sono l'oggetto a cui si riferiscono le
coio^cenz^ e i pensieri particolari: da ciò che il concetto e la conoscenza
scientifica si riferiscono a qualche cosa di astratto e generale, se ne
conclude che vi hanno delle entità astratte e generali. Se Platone ammettesse
che il nostro pensiero s'identifica con le Idee, la sua argomentazione,
evidentemente, dovrebbe essere condotta altrimenti: egli dovrebbe sovratutto
fermare, come base della sua argo V. Sappi. B, n. Ili, carte. Aristotil3
obbietta ad uqo di qaesti argomenti sembra, il secondo riportato a carta 18j
ch3 sesoado esi^oyi dovrebbero essere Idee anche delle cose paribili cioè
digl'ialivldai, perchò di qaeste esiste ancora un a>i(asma cioè un'immagine
nella nostra mente dopo che Q^iò sono parile, V. Mit, lmentazìone, il principio
che il pensiero è identico air essere; stabilito questo principio,
dall'esistenza di pensieri astratti e generali che è stata sempre considerata
come un fatto di coscienza ne seguirebbe naturalmente quella di esseri astratti
e generali. E noi vediamo infatti in Hegel che la dottrina che è messa in
rilievo non è che l'identità dell'essere e del pensiero: la realtà degli
universali quantunque non abbia per lui meno importanza non è stabilita
espressamente, ma data implicitamente in questa dottrina; e a molti parrà forse
un paradosso che Hegel sia un realista. Aggiungiamo infine che l'identità del
nostro pensiero con le Idee sarebbe incompatibile con certe proposizioni di
Platone, quantunque non implichino, come le precedenti, la distinzione tra il
pensiero e il suo oggetto. Tali sono: La composizione dell'anima dai due
elementi nel Timeo essa ha per iscopo di spiegare la possibilità della,
conoscenza cioè in sostanza la coincidenza tra il pensiero e la realtà, e
sarebbe quindi un'ipotesi completamente inutile data l'identità del pensiero
col suo oggetto. Il principio ammesso nel Fedone che l'anima, come ogni altra
cosa, non può accogliere in sé le Idee opposte, mentre, nella dottrina
dell'identità dell'essere e del pensiero, essa comprenderebbe necessariamente
tutti i contrari. La dottrina del Timeo e delle Leggi che il pensiero é un
movimento e si tratta il più spesso del nous, il cui oggetto sono le Idee essa
implica che il pensiero, a V. Tim. e Sappi. C, carte ( Fedo.. V. Sappi. lì,
carte Leggi Tim. Arist. De an. vente per oggetto le Idee, è un semplice
fenomeno, che si svolge nel tempo; mentre, neiripotesi delPidentitàdel pensiero
con l'essere, il pensiero il vero pensiero, cioè quello che ha per oggetto le
Idee è un'Idea che comprende ia se tutte le altre, e, per conseguenza, eterna
come le altre. Ricordiamo pure la proposizione del Teeteto che IL PENSIERO E UN
DISCORSO DELL’ANIMA CON SE STESSA essa è incompatibile con l'identità
dell'essere e dtl pensiero per la stessa ragione che la dottrina precedente.
Tra le prove contro l'identità deir essese e del pensiero cioè del nostro
pensiero non contiamo l'intuizione delle Idee in una vita anteriore e la
reminiscenza, perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana direbbe che sono
dei semplici 7niti\ che noi prendiamo a torto per dottrine reali. Ora, che cosa
può opporre quest'interprete alle prove precedenti? Nessuna afiTermazione
esplicita di Platone, ma solo delle proposizioni che, interpretate più o meno
forzatamente, possono riguardarsi come delle allusioni alla dottrina ch'egli
pretende attribuirgli. Cosi il luogo della Repubblica in cui si dice che per
conoscere la vera natura dell'anima bisogna guardare alla sua yfZoso/?a,
significherà, secondo lui, che se si vuol riconoscere rfssenza dell'anima e
sollevarsi dalla sua temporanea e mortale manifestazione, si deve filosofare,
poiché la filosofia sola ha per oggetto 1'eterno, il mondo ideale, che è
identico alla natura dell'anima. Il }ur>go del Timeo, che ci esorta a
rendere simile Tintelligenza air intelligibile, per conseguire il fine della
vita più perfetta propostaci dagli dei, vorià dire che il fine ultimo dello
sviluppo dello spirito e di tutto V es. TeiohmiiUer Quistione platonica Ma
Platone non dice che l'essenza dell'anima consiste nella filosofia, ma
sempUcemente che qaesta ci dà un indizio di ciò che l'auiina è nella sua vera
natura, cioè nella sua parte eterna il XoYlOTlVwóVi sciolta dall'unione con con
le due parti inferiori e ritornata all'eccellenza del suo stato originario
quando contemplavate Idee in compagnia degli dei. Ecco il luogo in quistione:
Né crederemo che tale sia l'anima nella sua verissima natura da aver molta
varietà e dissomiglianza e differenza con se stessa cioè che sia un comporto di
parti eterogenee e non qualche cosa di semplice. Non è facile che sia eterno il
composto di molti né formato della più bella composizione, come ora ci apparve
l'anima che ha mostrato composta di tre parti – THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL
--, che hanno fra di loro tendenze contrarie. La detta ragione la prova
precedente dell'immortalità e le altre provano che l'anima è immortale. Ma per
conoscere quale essa sia nella verità, non si deve guardarla deformata dalla
comunione col corpo e cogl’altri mah, quale ora la vediamo; ma quale è,
divenata pura cioè liberata dal corpo e dalle due parti inferiori, e dagli
altri mali che derivano dalla comunione con essi, tale bisogni guardarla
diligentemente colla ragione; e allora si trova molto più bella, e si conosce
più chiaramente la giustizia e tutte le altre cose di cui abbiamo parlato. Ora
abbiamo detto la verità intorno ad essa, ma quale appare nel presente. Come
quelli che vedessero il marino Glauco difficilmente potrebbero riconoscere la
sua antica natura, perchè l’antiche parti del suo corpo sono state le une
spezzate, l’altre corrose e totalmente sfigurate dalle onde, e ne sono formate
delle nuove di conchiglie, d'alghe e di sassi – cf GRICE WIGGINS THESEUS --,
sicché più somiglia a una fiera anziché parer tale quale era per natura; cosi
noi vediamo l'anima sfigurata da mali innumerevoli. Ma ciò a cui bisogna
guardare, o Glaucone, è la sua filosofia cioè il suo amore del sapere; bisogna
considerare quali cose e-jsa attinge, di quali cose ricerca il commercio, come
quella che è affine al divino, immortale e sempre essente cioè alle Idee questa
affinità dell'anima, cioè della parte razionale che è la sua vera na sere sta
oeir identifìcazione del soggetto e dell'oggetto OBBLE, che ha luogo nella
conoscenza filosofica. Nella morte filosofica del Fedone, per cui l’anima si
distacca, per tura, coll’idee, proverebbe, come nel Fedone la sua semplicità, e
quale diverrebbe datasi tutta a perseguire un tale oggetto tutta, perchè si è
separata dalle due parti inferiori, ed elevata per questo slancio dal pelago in
cui ora è immersa, e scossi i ciottoli e le conchiglie, che ora ha d'attorno
molte e rudi e piene di terra e di sassi, come quella che si pasce di terra nei
conviti chiamati felici la filosofia ci fa presentire quale diverrebbe 1'anima,
ridotta alla sola parte razionale che è la vera essenzza dell'anima, che
degl’accidenti transitorie datasi tutta quanta alla contemplazione dell’idee,
come nella sua antica natura cioè nello stato originario da cni è decaduta. E
allora potrebbe vedersi la vera natura d’essa, e se sia multiforme cioè
composta o uniforme semplice ed in qual guisa essa stia e come Rep. CHIAPELLI
(vedasi), L’interpretazione panteistica di Platone Platone dice. Bisogna
correggere lo rivoluzioni che s’operano nella nostra testa GRICE PUTNAM MEANINGS
AIN’T IN THE HEAD quelle del XoYtOTtxóv turbate sin dalla nostra nascita,
studiando l’armonie e i movimenti dell'universo, e rendere simile égo|iotd)oat
ciò che pensa a ciò che è pensato, secondo l'antica natura, e resolo simile,
conseguire il fine della vita ottima proposta agl’uomini dagli dei e per il
presente e pell'avvenire, Rendere simile è ben altro che rendere identico; ed è
inoltre completamente arbitrario di dare al fine di cui parla Platone il
significato hegeliano di momento ultimo del processo eterno dell'anima e
dell'universo. Prima Timeo ha detto, è vero che chi s’abbandona alle passioni
sensuali non può avere che dell’opinioni mortali, e diviene perciò egli stesso,
pi^ che è possibile, mortale, ma chi è dedito alla scienza, se consegue la
verità, è necessario che abbia pensieri divini e immortali, e per che non perda
nessuna parte dell'immortalità, per quanto è possibile alla natura umana di
parteciparne. È forse ciò che può trovarsi in tutti gli scritti di Platone di
più favorevole all'interpretazione dell'immortalità che vede in essa
1'eternarsi quanto è possibile, dal coi pò, e pensa essa stessa per se stessa
gl’esseri stessi per se stessi, si vedrà il vero significato dell'immortalità
platonica, cioè il rientrare dell'anima nella sua essenza intima, il suo
ritorno all'unità primitiva del soggetto SOBBLE e dell'oggetto OBBLE. Ai luoghi
del Convito, in cui è quistione dell'immortalità conseguita pella generazione e
pella contemplazione dell' Idea del bello, si da il senso che non vi ha per del
pensiero pella sua identificazione col mondo ideale. Ma questa immortalità
metaforica, che consiste nell'avere pensieri immortali, non può essere per
Platone, per dir cosi, che una giunta alla vera immortalità, e non può
escludere questa, insegnata in tutto il dialogo e in questo lufgo stesso,
comesi vede dalle ultime parole per il presente e pell’avvenire, Teichmiiller
capovolge il vero rapporto tra la morte filosofica e la dottrina
dell'immortalità. Egli vede nella seconda un'immagine della prima interpretata
come un eternarsi del pensiero e nna identificazione d’esso col suo oggetto,
mentre per Platone è la prima che è un'immagine della seconda. La filosofia,
dice Platone, ò un esercitarsi a morire o a vivere come se si fosse morto. Che
cosa è, infatti, la morte? È il distacco dell'anima dal corpo, in modo che
l'anima esista essa stessa per se stessa separatamente dal corpo, e il corpo
esso stesso per se stesso separatamente dalla anima. Ora il filosofo distacca,
quanto più è possibile, l'anima dal corpo, e aspira a vivere coll'anima sola:
infatti egli disdegna i piaceri del corpo, e non prende cura d’esso che per
quanto vi è costretto dalla necessità; di più egli non fa gran caso della
conoscenza delle cose pegl’organi dei sensi, ma cerca di conoscerle pella sola
ragione, contemplando coll'anima stessa per se stessa le cose stesse per se
stesse, cioè l’dee L'espressione l’anima stessa per se stessa aOiY) xaO'aOTT^V
e l’altre simili che s'incontrano ad ogni tratto dov'è quistione della morte
filosofica, siccome aOxò^ xaO'aOxóv nella lingua dell’ACCADEMIA significa
l’idee, farebbero pensare al concetto del seguace dell'interpretazione
hegeliana, che la morte filosofica è una sopranima altra immortalità che la
dialettica, e quella che le è comune eoa tutte l’altre cose, cioè la permanenza
dell'idea nel nascere e il perire dell’individui. Senza pressione
dell'individualità e un rientrare dell'anima nella sua essenza intima, cioè
nella sua idea; l'anima stessa per se stessa che pensa gl’esseri stessi per se
stessi vorrebbe dire, secondo questo concetto, che la conoscenza del mondo
ideale non compete all'anima come esistenza individuale ma come idea. Mao
evidente che queste espressioni nel nostro caso non significano che il dualismo
di Platone, cioè la sua dottrina animista: l'anima stessa per se stessa vuol
dire l'anima sola, distaccata dal corpo, come il corpo stesso per se stesso
vuol dire il corpo solo, separato dall'anima. La morte filosofica non è solo
un'immagine dell'immortalità, cioè della vita avvenire, ma è anche una
preparazione a questa: essa è intatti una purificazione xaOapot^, e solo le
anime che si sono purificate, cioè quelle dei filosofi, saranno ricevute, dopo
la loro uscita dal corpo, nel soggiorno degli dei, dove conseguiranno infine
ciò che hanno tanto amato quaggiù, vale a dire la sapienza, che non è
possibile, pell'ostacolo del corpo, di conseguire in questa vita. Perciò,
parlando della morte o catarsi filosofica, Socrate fa l'apologia di se stesso,
che non è dolente di morire, ma intraprende con buona speranza il viaggio che
gl’è imposto, come quegli che ha l'anima preparata, perchè purificata dalla
filosofia. Fedone Convito. Dopo aver detto che il mortale non ottiene
l'immortalità che pellla generazione per cui la specie si perpetua, Socrate
aggiunge che l'individuo stesso non si conserva che per un processo simile a
quello per cui si conserva la specie. Infatti, per tutto il tempo della sua
vita, ciascun animale non è mai lo stesso, ma diviene sempre nuovo e sempre
perisce e nei peli dubbio, oltre che dei luoghi isolati, il seguace
dell'inteipretazione hegeliana potrà anche invocare in suo ape nelle carni e
nelle ossa e nel sangue e in una parola in tutto il corpo. Qualche cosa di
simile avviene anche nell'anima: l’abitudini, i costumi, l’opinioni,
gl’appetiti, i piaceri, i dolori, i timori, le conoscenze medesime non
persistono mai gli stessi, ma nascono e periscono; solamente ciò che nasce è
simile a ciò che è perito, sicché sembra lo stesso. Cosi si conserva il
mortale, non perchè sia sempre assolutamente lo stesso, come il divino, ma
perchè il simile si sostituisce sempre al simile. Per questo mezzo il mortale
partecipa all'immortalità, e il corpo e tutte l’altre cose; l'immortale
altrimenti Secondo il seguace dell'interpretazione hegeliana fra queste altre
cose mortali come il corpo bisogna comprendere anche l'anima, perchè questo
processo di sostituzione del simile al simile, per cui il mortale si conserva,
è applicato da Platone anche all'anima. Ma Platone, che è un animista, cioè ammette
una sostanza anima, un substratum, distinta dalle sue modificazioni, non può
applicare questo precesso che alle modificazioni dell'anima, ma non al loro
substratum: egli non affermerebbe evidentemente che questo si conserva, come il
corpo – cf. GRICE PERSONAL IDENTITY – soul/body --, I was hit by a cricket bat
-- per un ricambio di sostanza, per cui alle molecole vecchie se ne
sostituiscono altre simili. Le parole e lidie le altre cose alludono dunque
alle conoscenze, l’abitudini, i costumi, ecc., di cui sopra ha parlato, in una
parola alle modificazioni dell'anima, ma non possono alludere all'anima stessa.
Ciò è confermato dall’ultime parole l’immortale altrimenti, che devono
intendersi come una riserva in favore dell'anima Invece di àGavaTOV S'àXXyj l'immortale
altrimenti, Teichmiiller legge àSóvaxov e' àXXir impossibile altrimenti; ma è
la prima lezione che si trova in quasi tutti i codici. Poi Socrate dice
parlando della contemplazione dell'idea del bello come fine dell'amore che chi
guarda il bello con quell'occhio con cui esso è visibile, diviene anch'egli,
s’altro uomo mai, immortale. Ciò significa, pel seguace dell'interpretazione
hegeliana, che l'immortalità nell’ACCADEMIA consiste nella contempla poggio
certe proposizioni costanti di Platone, quali Tafzione del mondo ideale, cioè
nell’identificazione dello spirito con esso; e per confermare questo
significato, egli potrà anche t'ondarsi sulla proposizione precedente di
Socrate che l'amore è il desiderio dell'immortalità, concludendone che, poiché
Platone assegna come fine all'amore ora l'immortalità e ora la contemplazione
dell'idea, queste due cose per lui devono essere identiche. Ma il desiderio
dell'immortalità in cui Platone fa consistere l'amore viene appagato per lui
non colla contemplazione dell'idea del bello ma, per quelli che sono fecondi
nel corpo, colla generazione – WE’ll make hay when the sun shines, we’ll make
love when it rains --, e per quelli che sono fecondi nello spirito, colla
perpetuazione del pensiero mediante la tradizione e l'insegnamento, Del resto,
dicendo che chi comtempla l'idea del bello diviene immortale, Socrate non
afferma che l'immortalità consiste nella contemplazione dell'idea, ma che ne è
una conseguenza; e la ragione per cui ne è una conseguenza, basta a provare che
l'immortalità di cui si tratta non é che quella insegnata dalla religione: chi
guarda l'idea del bello, dice Socrate, siccome si motte in rapporto col vero
bello, e non con immagini del bello, partorirà e alimenterà la vera virtù, e
non dell’immagini della virtù ANDREIA, e perciò diverrà amico di Dio, e
immortale, s’altro uomo mai, anche lui. È vero però che l'immortalità accordata
a chi contempla l'idea del bello non può essere l'immortalità nel senso
ordinario, perchè questa non è un favore elio dio d spensa a chi gli piace né
un premio concesso ai soli virtuosi, ma una necessità inerente alla natura
stessa dell'anima –PATER PSYCHE ED EROS EROS E PSYCHE CANOVA -- che deve essere
senza cominciamonto e senza fine, perchè né potrebbe, come ogni altra cosa, crearsi
o annichilarsi, e nemmeno venire da qualche forma della materia o tramutarsi in
essa, essendo radicalmente distinta dalla materia Per quest'immortalità, che è
il privilegio di pochi eletti, non possiamo intendere che l'esenzione dalla
metempsicosi e la deificazione, che il Fedone promette ai soli filosofi, e il
Timeo a tutti gl’uomini che hanno domato le passioni e sono vissuti nella
giustizia. GÌ' Indiani chiamano anch'essi immortalità amrita lo stato di
felicità NIRVANA a cui giungono i santi perfetti, in cui l'anima è liberata
compietamente dal male ed esente da trasmigrazioni susseguenti Colebrooke
iSaggi sulla flos. dcijl'Jnd, trad. frane, finità dell’anima coll’idee ch'egli
interpreterà per un'identità di natura, e l’immortalità accordata alla Fedone e
Rep. Ma. per Platone essa non è invece che una vaga analogia. Nel Fedone i
punti di somiglianza dell'anima coll’idee che provano quest'affinità sono che
l'anima è invisibile come l’idee, mentre il corpo é visibile. Quando l'anima
considera le cose col corpo, cioè per mezzo dei sensi, il corpo la costringe a
prendere per oggetto le cose che non sono mai le stesse: allora vaga essa
stessa, si conturba e barcolla come ubbriaca, perchè tali sono le cose con cui
é in rapporto. Quando invece considera le cose per se stessa (aOxYj
xaO'aOxT^v), prende per oggetto ciò che è sempre allo stesso modo (a)oaùxo)g
^X®^)? allora cessa dal vagare, ed è relativamente a quest'oggetto cioè
all’idee sempre la stessa e allo stesso modo dei xaxà xaùxà xal (boaùxco^), perchè
tali sono le cose con cui è in rapporto; e questo stato dell'anima si chiama
intelligenza GRICE HART HOLLOWAY LANGUAGE AND INTELLIGENCE. Dunque Ta^iima
somiglia più a ciò che è sempre allo stesso modo cbaa'Jxw^ cioè all’idee, e il
corpo a ciò che cangia sempre, Siccome in questo luogo vengono applicate
all'anima dell’espressioni che per il solito s'applicano all’idee, aOxYi
xaG'aOxr^v, xaxà xaòxot, <boaÓXWg, il seguace dell'interpretazione hegeliana
potrà dire che qui l'anima è identificata all’idee, perchè, nella conoscenza
filosofica, il soggetto conoscente s'identifica, per Platone, coll'oggetto
conosciuto. Ma è evidente che non si tratta d'altro che dell'opposizione,
abituale a Platone tra la mutabilità dell'opinione AUSTIN DOXA che ha per
oggetto le cose sensibili AUSTEN SENSE AND SENSIBILITY, AQUINO INTELLECT AND
INTELLIGIBILITY quelle che l'anima considera col corpo e l’immutabilità della
scienza che ha per oggetto l’idee, le cose che l'anima considera per se stessa:
l'espressione àsì xaxà xaOxà xal waaÙXWg applicata all'anima significa questa
specie d'immutabilità, che ha, secondo Platone, dell'affinità coll'immutabilità
assoluta che è propria dell’idee in quanto ad aÙXY] xaO'aOxr^v, n’abbiamo già
parlato. Nell'associazione dell’anima col corpo, quella comanda – GRICE THE
POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- e questo ubbidisce, Ma é proprio del divino in
cui Platone comprende, come sappiamo, l’idee di dominare, e del mortale
d’essere dominato. Dunque l'anima somigb a pia al divino, e il corpo al mortale
Oltre a questi punti di somiglianza tra l'anima e l’idee, Platone accenna anche
a un altro indizio della sola parte razionale, doode coccludrrà che, poiché la
ragione è universale o impersonale, l'immortalità appartiene, non all’anima
individuale – NARDI PADOVA -- , ma all'essenza comune dell’anima, e eovratutto
cei te dottrine erroneamente attribuitegli, quali l'identità di Dio o della
ragione coll’idee per dimostrare la quale si serve naturalmente degli stessi
argomenti dell'interprete teistico, per quanto non sono incompatibili
coll’immanenza dell’idee, la composizione dell'anima da tutte l’dee nel Tìiwifo
intendendo pell’isnenza indivisibile e pello sfesso l’idee nella loro totalità,
eia proposizione che l'anima è il luogo delle specie, riferitaci dal LIZIO, e
attribuita, anche da qualche suo commentatore, ai flaton'ci. Infine, egli potrà
avvalersi di certe espressioni del nostro filosofo, che, prese per se sole e
interpretate d'una maniera rigidamente letterale, sembrerebbero supporre la
dottrina eh' egli pretende atloro affinità: è la tendenza innata dell'anima
alla conoscenza dell'universale, cioè dell’idee Fedo. e Rep. Questa indica che
è alfine con esse, secondo il principio che il simile si conosce dal simile.
Perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana trova rosi semplice che, tra
le facoltà dell'anima, Ja sola ragione sia universale? Unicamente perchè é la
dottrina di Hegel e d’alcuni altri metafisici. È evidente che una ragione
universale cioè una e la stessa in tutti gl’uomini è un non senso cosi perfetto
che un'immaginazione o una sensibilità o un'emozionalità, ecc. universali.
Semplicemente, alcun metafisico non ha mai parlato di queste. Suppl. Filopono
ad Arisi, De Atì. fol. K, M, trlbuirgli, quali il termine Xó^ot concetti –
GRICE CONCEPTUAL ANALYSIS WOW -- applicato all’idee nel Fedone, la frase dello
atesso dialocro, in cui sì dice che noi troviamo l'esssenza cioè acquistiamo la
conoscenza dell’idee perché è nostra, e i tsrmini che in senso tecnico indicano
la partecipazione degl’oggetti individuali all’idee, impiegati qualche volta
per denotare il rapporto che ha con esse il soggetto coaoscente. Ma è evidente
che non sono queste le vere ragioni su cui si fonda la sua interpretazione. La
vera ragione è che egli ritiene che un sistema come quello di Platone non si
comprende che, in cui questo luogo è riportato per intero. S’esistono il bello,
il buono – IL CERCHIO -- e ogni essenza tale, e ad essa riferiamo gl’oggetti
percepiti dai sensi, ad essa che prima c’era presente e che ritroviamo essendo
nostra OTiap^ODaav TipÓTSpov àvsopCoxovTS^ if]]Ji£X&pav 0^5aav. La nostra
anima esiste prima della nostra nascita. Naturalmente la frase in quistione non
significa che la reminiscenza: l'essenza è detta nostra perchè prima c’era
presente perchè l'anima, nel suo stato originario, ne gode come di cosa
propria, n’ha l'intuito permanente. Sof.: col corpo noi comunicare xciVCDveiv
colla genesi, coll'anima pella ragione coll'essenza reale. Rep l'anima che deve
partecipare (jiexaXrjCpsoOai sufficientemente e perfettamente dell'essere: le
altre arti le matematiche che abbiamo detto parteci^me è7iiXa|i3dv£39ai in
qua'che modo all'essere. Tim,z^h\ il sole fu creato affinchè gl’animali a cui
ciò convenisse partecipassero liexdoxoO del numero Tutto ciò che può concludersi
da questi luoghi è che Platone non impiega sempre i termini in quislione nel
senso tecnico. Quando dice nel Fedro che ciascuu'anìma imita il carattere del
dio di cui è stata al seguito per quanto l'uomD può partecipare |ji£xaaX£t'v di
dio, possiamo noi intendere: per quanto dio può esistere nell'uomo come un suo
attributo o come un suo pensiero per analogia a quello di Hegel col quale
effettivamente ha una stretta affinità, e perciò crede necessario di prestare
al primo i concetti propri del secondo. Ma dopo ciò che abhiamo detto ci sarà
facile di mostrare che il sistema platonico non solo si comprende senza i
concetti hegeliani, ma si comprende anche meglio, ed é con essi che sarebbe
invece difficile a comprendere. L'opinione che l’idee platoniche sono pensieri
si deve certamente, o'tre che all’influenza dell'interpretazione teistica, a
un'inferenza dal sistema hegeliano, in cui la realtà degl’universali è
presentata come una conseguenza dell'identità dell'essere e del pensiero vi
hanno dei pensieri generali, dunque, il pensiero essendo identico all'essere,
questi pensieri generali sono pure degl’esseri generali. Da ciò si conclude che
la prima delle due dottrine è logicamente connessa colla seconda, e che perciò,
trovandosi in Platone l'una, deve trovarsi in lui anche l'altra. Ma questa
conclusione è evidentemente affrettata. Noi abbiamo visto ch', a lato dei
sistemi di Schelling e di Hegel, in cui gl’astratti sono riguardati al tempo
stesso come delle realtà e come dei pensieri, v’hanno altri sistemi realisti,
quali quelli di Spinoza e di Taine senza contare i realisti scolastici, in cui
essi sono riguardati unicamente come realtà, cioè come entità puramente
oggettive. La storia del realismo ci prova dunque che esso è indipendente dalla
dottrina dell’identità dell'essere e del pensiero. Ciò è confermato dall'esame
dei motivi di questa forma dì metafìsica. La realizzazione degl’universali —
Grice, “Universals and Meaning” --, unita al metodo dalettico nel senso che noi
diamo a questo termine quando parliamo di realismo dialettico, ha per Iacopo,
come sappiamo, di trasformare il rapporto logico tra principio e conseguenza
nel rapporto ontologico tra causa ed effetto, per ottenere una nuova
applicazione del concetto di causalità efficiente. Questo scopo esige che
l’astrazioni, tra cui il metodo dialettico introduce il rapporto di principii e
conseguenze, si considerino come realtà, ma non che si considerino al tempo
stesso come pensieri. A questa spiegazione del mondo a cui mira il realismo
dialettico, nei sistemi di Schelling e di Hegel se ne aggiunge un'altra
indipendente d’essa, e che può riguardarsi come una varietà della metafisica
istintiva del nostro spirito cioè quella che è l'applicazione spontanea e
immediata del concetto di causalità efficiente: è la spiegazione idealista,
cioè l'attività immanente del pensiero elevata a tipo universale del modo
essenziale di produzione dei fenomeni. La spiegazione idealista suppone che le
cose siano riguardate come rappresentazioni GRICE SCHOPENHAUER ENGLAND CRICKET;
e, perchè questa spiegazione sia compatibile col realismo, bisogna che si
vedano nelle cose delle rappresentazioni permanenti di uno spirito eterno ed
universale, in modo che la loro qualità di rappresentazioni si concilii in
qualche modo colla loro obbiettività -- OBBLE. Allora si ha l'idealismo
obbiettivo. L'idealismo obbiettivo MEINONG ONTOLOGICAL JUNGLE desert landscapes
cherrytrees in winter -- è dunque un'applicazione, non solo del concetto di
causalità efficiente in quanto eleva l'attività del pensiero a tipo universale
di causazione, ma anche di quello di cosa in sé: il presupposto da cui esso
parte, cioè che le C0S3 soao delle rappresentazioni permanenti di uno spirito
eterno ed universale, ha infatti per oggetto di conciliare il risultato della riflessione
filosofica che le cose sono rappresentazioni nel senso lato di questa parola
che comprende anche la percezione, colla credenza naturale del genere umano che
esse soio degl’oggetti perma lenti e di una realtà a:JS)luta, cioè indipendente
dal sogrgetto percepente. Quando il seguace dell’interpretazione hegeliana
attribuisce a Platone la dottrina che l’idee sono pensieri, gl’attribuisce
anche implicitamente questa dottrina sulla cosa in sé che è il presupposto
della spiegazione idealista nel senso proprio della parola idealismo, in cui
noi naturalmente non l’applicheremmo al sistema platonico dell’idee. Ma, mentre
nella filosofia antica vediamo rappresentati tutti i tipi di metafisica
relativi al semplice concetto di causa efficiente le prime forme
dell'antropomorfismo di cui abbiamo parlato l'apriorismo, il realismo
dialettico, noi non vi troviamo invece nò questa né alcuna delle altre dottrine
relative a quello di cosa in sé. È cosi vano di cercare nella filosofia greca
l’idealismo obbiettivo o la dottrina che abbiamo detto esserne il presupposto
come lo sarebbe di cercarvi il panpsichismo o la dottrina delle monadi nel
senso non leibnizinno, cioè di sostanze o forze semplici e inestese, ma
ditter^nti dallo spirito. Ciò è perchè la riflessione scientifica non ha
distrutto ancora, nel mondo antico, il concetto spontaneo della cosa, che non è
che l’obbiettivazione delle nostre sensazoni. In tutti i filosofi antichi, in
generale, e penz'alcuna eccezione, noi non troviamo che il realismo vafura/e, e
non mai il realismo trasformato: nella soppressione delle qualità sensibili
nessuno è andato mai al di là d’AQUINO (vedasi), e la più parte non giungevano
nemmeno sia là. L'idealismo obbiettivo, come tutte le altie dottrine
metafisiche relative alla cosa in sé, non si concepisce che nella filosofia
moderna, perchè suppone questo punto di vista che si è imposto mano mano al
pensiero mo'^erno, sino a diventare un luogo comune, che le cose, quali noi le
percepiamo, non esistono che' pella percezione e nella percezione. Uno dei
fondamenti dello scetticismo antico è, è vero, il dubbio sul NOUMENO e la
realtà obbiettiva – GRICE SPERANZA -- : ma per cercare di conciliare la
relatività del mondo esteriore al soggetto conoscente colla sua obbiettività,
come fa l'idealismo obbiettivo, o sostituire, come fa il realismo trasformato,
alla realtà sensibile un'altra realtà superiore ai sensi – GRICE ASKING FOR THE
MOON --, conoscibile o inconoscibile, non basta il semplice dubbio sulla realtà
assoluta degl’oggetti quali noi li percepiamo, ma è necepsario che si ammetta
già, come una verità incontestabile, che essi, come tali, non esistono che
pella percezione, e non sono che relativi al soggetto conoscente. Certamente la
relatività dell'oggetto al soggetto percepente, come proposizione dommatica,
non è completamente straniera alla filosofia greca: noi la troviamo, prima
dello stesso Platone, nella tesi di Protagora, di cui è evidentemente la base,
che l'uomo è la misura di tutte le cose, e che la verità è ciò che pare a
ciascuno che sia. Ma la tesi di Protagora, che d'altre nde non sembra aver
lasciato molti proseliti, ci mostra, pella sua esorbitanza stessa, questo
carattere sofistico, nel senso moderno della parola, vale a dire questa assenza
evidente di sincerità, che vediamo generalmente nelle proposizioni
gnoseologiche dei Sofisti quali, oltre questa di Protagora, quel'a di LEONZIO
(vedasi) che non vi ha niente, o se vi ha qualche cosa, è inconoscibile, o
almeno inesprimibile, quella d’Eutidemo che ogni attributo conviene egualmente
ad ogni soggetto, quella dì Licofrone che non ammette alcuna unione Platone
Teeteto Arist. Met. Platone CratUo Arist. Phys. di UQ soggetto con un
predicato, percLè l'uno non può essere molli, ecc.. Noi ci spieghiamo, del
resto, perfettamente perchè la filosofia antica non abbia mai oltrepassato, in
sostanza, il realismo naturale: la dottrina della subbiettività di tutti i dati
dei nostri sensi non ha potuto stabilirsi nella filosofia moderna, che perchè è
la conseguenza inevitabile del concetto scientifico moderno della materia --
semplice ipotesi d’alcuni filosofi nell'antichità --, che la spoglia delle
qualità secondarie, la subbiettività di queste trascinando necessariamente
quella delle qualità primarie, che divengono, senza d’esse, assolutamente
irrappresentabili. Ma, accordato anche che Platone puo ammettere la dottrina
che le idee sono pensieri – Grice on The Fregean Fregeian sense – GEDANKE --, e
quindi pure quella, che vi è implicata, che le cose sono rappresentazioni,
resta a mostrare all'interpretazione hegeliana come essa puo conciliarsi, negli
altri punti, colla dialettica platonica. Essa non attribuisce semplicemente a
Platone la dottrina che le idee sono pensieri, e l'altra che, nella conoscenza
filosofica, il nostro pensiero s'identifica colle idee, ma quella dell’identità
del soggetto e dell'oggetto, cioè che è il nostro spirito, nella sua essenza, e
non solamente il nostro pensiero speculativo, che s'identifica coll'universo,
nella sua essenza, vale a dire colla totalità del mondo ideale. Per distinguere
questa terza dottrina dalla seconda, noi supporremo che Platone ammette
realmente che l’idee sono pensieri e che, nell'atto della conoscenza
filosofica, questi pensieri sono presenti immediatamente al nostro spirito. V.
lo studio sìiììsl dottriua di Jiosm ini suWeS' senza della materia fase, cioè
noi ne abbiamo coscienza. S'egli non ammette che ciò, siccome questi pensieri,
quantunque, nella conoscenza filosofica, entranno a far parte della nostra
coscienza, esistenno per se stessi indipendentemente dalla nostra coscienza,
come, nell'ipotesi della percezione immediata, gl’oggetti esteriori,
quantunque, nell'atto della percezione – cfr. Grice, The Causal Theory of
Perception -- , sono percezioni nostre, esistono per se stessi indipendentemente
dalla nostra percezione. Cosi in questa dottrina che supponiamo ammessa da
Platone, piuttosto che l'identità dell'essere e del pensiero, dovremmo vedere
una forma dell'intuizione razionale, nella quale, come nella visione in Dio dì
Malebranche, gl’oggetti intuiti, invece che delle realtà puramente obbiettive,
sono dei pensieri. Ma che s’accordi o no chela dottrina dell’ACCADEMIA, in
questo caso, è suscetftbile d’essere chiamata identità dell'essere e del
pensiero (del nostro pensiero), ciò che è certo è che non potrebbe affatto
chiamarsi identità del soggetto e dell’oggetto – H. P. Grice, Sobbles and
Obbles --, né potrebbe vedersi simboleggiata nell'eternità dell' anima, perchè
ciò che s'identificherebbe con l'oggetto e che si eternerebbe non sarebbe il soggetto
stesso, cioè lo spirito nella sua essenza, ma un suo atto o fenomeno
particolare, il pensiero filosofico. Per poter attribuire all’ACCADEMIA
l'identità del soggetto e dell'oggetto e interpretare la sua doitrina dell'
immortalità dell'anima come 1' eternar.M del pensiero nella conoscenza
filsofica, sarebbe dunque necessario ch'egli avesse ammesso, consolo che le
idee sone pensieri e che ques:i pc ubicri divengono, nella conoscenza
filosofica, pensieri nostri, ma ancora che la conoscenza filosofica costituisce
l'essenza del nostro spirito, e che questa essenza del nostro spirito è
identica all'essenza dell’universo, cioè a ciò che vi ha in questo di costante
e di generale (vale a dire che nella conoscenza filosofica egli avrebbe dovuto
riguardare come essenza del nostro spirito, non semplicemente, come puo
siipporsi, la coscienza o intuizione che abbiamo dell’idee, ma anche l’idee
stesse che intuiamo o di cui abbiamo coscienza). È evidente che queste due
proposizioni sono considerate da tutti come dell’assurdità impossibili a
trovarsi in un filosofo qualsiasi, e che nessuno ardirebbe di attribuirle a
Platone, se non si sa che sono insegnate da Hegel e dal suo predecessore
Schelling. Ma, per attribuirle all’ACCADEMIA, bisogna vedere se queste
proposizioni, che nei due sistemi tedeschi hanno un significato per quanto può
dirsi d’una proposizione metafisica che ha un SIGNIFICATO – cfr.
Grice/Strawson/Pears, “Metaphysics” --, possono averne ancora uno nel sistema
platonico. In Hegel la conoscenza filosofica può costituire l'essenza dello
spirito, perchè essa è nel suo sistema il termine ultimo della serie d’idee che
cf stituisconolo spirito, e nel termine ultimo di uoa serie, secondo uno dei
principij della sua dialettica, anzi in generale d'ogni dialettica (nel nostro
senso), sì ritrovano tutti gl’altri termini della serie stessa. Questa essenza
dello spirito poi piò iìeotifiea'-si on l'essenza di tutto l’universo cioè con
tutto il mondo ideale, perchè l’ultimo termine della serie d'idee che
costituiscono la sfera dello spirito, é pure, secondo Hegel, l'ultimo termine
della serie totale dell’idee, e deve quindi, per il principio dialettico
poc'anzi invocato, comprendere in sé tutto il resto del mondo ideale. Si
pretende che anche per Platone la conoscenza filosofica è l’ultimo momento
dello sviluppo dello spirito e di quello di tutto l'universo (questo sviluppo
dobbiamo intenderlo nel senso hegeliano, cioè come una successione di termini,
procedenti l'uno dall'altro, e la cui processione e successione non sono che
logiche). Ma bisogna vedere se queste psivole ultimo momento dello sviluppo
dello spirito e ultimo momento dello sviluppo dell’universo co\ sottinteso che
1’ultimo momento dello sviluppo dello spirito deve comi rendere tutti gl’altri
momenti dello spirito, e l'ultimo momento dello sviluppo dell'universo tutti
gl’altri momenti dell'universo, cioè tutte l’altre Id(e the ccstiiuiscono, con
esso, l’idea assoluta bisogna vedere, dico, se queste parole hanno ancora un
senso, trasportate dal sistema di Hegel a quello dell’ACCADEMIA. Nella
dialettica dell’ACCADEMIA, come in quella di Hegel, nell’ultimo termine d'una
serie devono ritiovarsi tutti i termini precedenti della serie stessa: ma può,
nella dialettica dell’ACCADEMIA, esservi, come in quella di Hegel, per tutta
una sezione del mondo ideale (p. e. lo spinto, l'organismo, ecc.) un termine
finale unico, in cui si ritroviEO tutte l’altri parti di questa sezione? e per
tutto il mondo ideale nel suo insieme, un altro termine finale unico, in cui si
ritrovino tutte l’altre parti del mondo ideale, cicè tutte le altre idee che
costituitcono, con esso, il sistema totale dell’idee. Questo é possibile nella
dialettica hegeliana, perchè secondo essa vi ha, nello sviluppo dell’idee,
oltre a un movimento d’espansione, per cui l’idee si scindono e si moltiplicano
(passaggio dalla tesi all'antitesi), un movimento suiseguente di
concentrazione, per cui ritornano all'unità (passaggio dalla tesi e l'antitesi
alla sintesi). Ma nella dialettica platonica non è possibile, perchè in essa
l’idee non si sviluppano che dividendosi. Il movimento è sempre di scissione, e
Don \i La mai i movimento contrario, cioè il ritorno all'unità. Alla fine dello
sviluppo d’una sezione del mondo ideale, o del mondo ideale nel suo insieme,
non vi ha così, pell’ACCADEMIA, un termine unico, ma una moltiplicità di
termini distinti e separati. L’unità non esiste che al punto di partenza
deirevoluzfone, questa consiste in una moltiplicazione progressiva, e al punto
d'arrivo la moltiplicità è massima. Airultimo momento dello sviluppo dello
spirito non pcFsiamo dunque trrvarr, nella dialettica platonica, che la specie
ultima dello spirito, o, se essa s’applica, non allo spirito stesso, ma alle
sue attività, la specie ultima del fenomeno dello spirito. Che si tratta di una
sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale – H. P. Grice, SUPRALUNARIO
-- nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gl’altri non può
essere per L’ACCADEMIA che il più astratto di tutti, e non può ccmpiecderli che
virtualmente. I termini più concreti, anche nel senso hegeliano, più ricchi di
detern»ii azicn^ sono i più particolari, e questi non possono comprendere che
quelli di più in più generali a cui sono subordinati. L'assoluto, che comprende
ogni cosa e in cui tutti i contrari si unificano, non potrebbe essere dunque
nel sistema dell’ACCADEMIA, che l’idea più astrata, la più povera di
determinazioni e, per dir ersi, la meno attuale di tutte, cioè quella del bene
o dell'essere (Cfr. H. P. Grice, Mutliplicity of Being). Se, per una metafora
ardita, chiamiamo quest'assoluto divino (come del resto fa la stessa
ACCADEMIA), noi possiamo dire, applicando una locuzione di Schelling, che vi ha
nel sistema dell’ACCADEMIA il divinum IMPLICITVM ma n^n il divinum EXPLICITVM.
Sfar, della flos. olenu, T =as t-j-u. mBOSBmammaSK che riempisce la teoria
vengono considerate del primo caso del secondo caso in quest'ultimo caso t. II
il posto determinato nota, incompatibile non quello inc«'mpatibile con quello
che riempisse la tesi Tdngonn considerati del secondo caso/del primo caso in
questo primo caso il posto determinati (e non semp'icemente che se ne dal primo
(e non semplicemente ti edipee) dal primo, che se ne deduce), R tre gravi
spposizioni a tre gravi opposizioni le necessità la necessità dobbiamo
sforzarvi/dobbiamo sforzarci quali forme viventi/quali forzo viventi il luogo
che riporteremo nella luogo che riporteremo in una nota iio^a seguente. noi
diremo asiratti/noi diremmo astratti); gli assiomi gli :i-:siomi delle prime e
preceduto terzalt. si noti l'analogia gli Appartiene in non im e^ao
gl’appartiene in non tm« porta degli astratti ma contemplato di fatti più
particolari dei fatti generali teoria nominalista tuttociò che mi sembra più
valido non leggere queste parole senso più ristretto/senso più stretto come
un'immaginazione come un'immagine della prima e proceduto %ì noti l'analogia o
gli porta dagl’astratti contemplato di fatti particolari dei fatti generali
teoria nominalista ma di direzioni opposte gl’oggetti visibili ma le direzioni
opposte oggetti sensibili ERRATA CORRIGE Rep. in pìiil, prino. del gradino in
phil prim, nel gradino / i^wif elementi delle idee I due elementi, An. Sot\ non
è rappresentata Tesisi enea Am4l, Post. L’idee •rmine di diinoblrazione Idea
dal genere puramente dialettico Sof. e non è presentata l'esistenza Anol. Posi.
le idee termine dimostrazione Idea del genere puramente deduttivo Met. CATEG. – H. P. Grice
and J. L. Austin -- An. Post, Catefi. An, Post ma anche della cosa stessa ma cause della cosa stessa
Fth End.Vili.Klh. Knd. Vili. Met. Met. dauno più essere hanno più essere Il
principio e la causa Il principio e la causa delle entità più universali dalle
entità più universali, nota cioè che queste che abbiano Kpist.e i suoi inodi
Eth, è che queste «24 che abbiamo Epht. e suoi modi Eth, e 2. o l'estensione a
uno più astratto dipendente naturare JJio e della natura propteraque tutte cose
nota pure rationis es Schol. dell'essenza di Dio la constanllfieazione da cui
le forniamo abbiamo per causa runa il fenomeno, nei molti; realeà distinte
l'estensione a uno stato più astrai lo dipende naturae Dio o della natura
proptereaque tHttu le cose pure rationis est Schei. dall'essenza di Dio a
sostantificazione da cai le formiamo abbiano per causa . -r> runa, il
fenomenonei moUii; realtà distinte dall'animale, dall'essere vivente
dell'animale, dell'essere vivente Ò'M) V iXuanto dice temporanietà
eoslitaiscono App. II nazione astratta <ii molli commenti inonimo Met.
quando dice temporaneità costituiscano nozione astratta di molti commenti
monismo che ciò che non esiste prima che ciò che è nato non esiste della
nascita e non esiste prima della nascita e non esi più è nato dopo la morte
sterà più dopo la morte Stob. dei loro sistemi Coelo Phys, Stob. Ed,Phys,
flueretiue Stof. del loro sistema Jh' Coelo Phìjs. Stah, KcL Pliya, ecc.
Auireqae ectirae lecticae Pys. Vili, Gi'H i't corr. Phya.Vili, Gen. et corr
testo nei rapporti di spazio nei loro rapporti di spazio i domini religiosi/i
dommi religiosi questi domini questi dommi n. Stab. KcL Stob. Ed. Eth.
Eud.Vili. Plut. Eth, Eud. Plut. De De h, et ()sii\ ap. Is. et Osir. Tutte è uno
Tutto è uno Top. Top. perc(»rso nella varietà secondo Cratilo non leggerlo
conduce gl'eleati a negare o movimento senza causa o del movimento senza causa
gli Ebati/gl’eleati Ssvocpavr^v Ssvot^ocvrjV por corso nelle varietà secondo
Eraclito nel-cepirsi conducesse a negare Generante et corrente sappone General,
et cornipf, supporre a sankya, la raisfschiha la sànìi,/a, la cckesilui. Timeo
Arist. De Coe Ti.neo Arisi, i^a Coeio lo Nella rait-esika p.il vedanta il yógi
p. Nelle VponiAafli nutra esplicato fenomeni meccanici omogenea queste
proprietà In questo stato CI della concezione meccanico della concezione
moocanìca la nostra asserzione la nostra attenzione giungendo ai ceatri
giungendo ai centri il trasporto del a H trasporto dell'onda p. ex si forte a
il bisdgno si forte è il bisogno Nella roiseschiìiii la yedanta l'yogi Negli
l'panichdd ifouira esplicito processi meccanici omogea questa proprietà n
questo stato a un certo grado della cultura a un grado interiore dello sviluppo
dell<a cultura Darwin ha dato Darwin ne ha dato i'rìtkn ffct giudizio
paragr. 6rt/ic« dt^/ f/é<«dè5to viventi allora non viventi, allora che
rassomiglia, ai che rassomigli notare di ratliludine Tentare l'attitudine }iota
l'analogia dalle l'analogia delle ed avventizio; la materia ed avventizio, la
materia esistenza presente la sua esistenza l'uno con l'altro coi cangiamenti
con cui coi cangiamenti anteriori con cui come il S. Ambrogio come AMBROGIO
(vedasi) dopo esservi riscaldato dopo di esservi riscaldato ha i due ordini tra
i due ordini suppongano suppongono dilferenli deiranimismo differenti
dall'animismo esistenza poesente la sua esistenza l'uno per l'altro ci trova p.
ljUlt. si trova problemi fisiologici problemi biologici Tale, in effetto/Tal è
in effetto riflettuta; p. e. dall'aoqaa riflettuta p. e. dall'acqua vai^esika
del Fedone convenire, come della ragione ammettersi, come domanda: Chi sa di
essi chi che domanda: Chi sa dirmi chi sono io? cf. Grice, Personal Identity.
le concezioni Cartesio sulla sostanza in ultima analisi ult. è immanente perchè
di qualunque cosa perchè, qualunque cosa carta i flutti, la spuma, i flutti, la
spuma nelogismo neologismo vaisechika di Fedone convenire come, detta ragione
ammettersi come nandava sono io? le eonoezioni, Cartesio nella sostanza in
ottima analisi è immanante quando e&si designano le ecc., quando essi
designano le idee, i termini denotazione Met. Ad aÙTÓ, aùxò xaG'aOxó, la più
parte, di Aless. Afrod.e questi sono le idee tsto Rep. nel Filebo non da capo
proporzionata alla vista proporzionato alla vista ha, ma non ò ha, ma non è
testo p'oggetto l'oggetto dei primi indicati dei luoghi indicati dei secondo;
diremo del secondo diremo con causa con causa i. Vili; quar Idee: 2^ I termini
V. detonazione Met. Ad aÙTÓ, xaO'auxd, la più al parte di Aless. Aprod. e
questi sono idee Rep. nel Fibbo È perciò Cor. Siccome siccome belli e ìq tutti
gl’oggetti non leggere queste parole ciascuno nuovamente in uno nel bue, eco è
1. 6risoluzione il grande slessoj ecc.) è precisamente questa vengono proposte
insomma coi molti, generiche e le specifiche prima, ma presente della misura
necessario di un'Idea non è una connessione neces non una connessione
necessaria saria significa al tempo stesso significa dunque al tem|iu stesso
nuovamente in uno nel bue è riduzione il grande stesso) e precisamente questa
vengano proposte insomcoi molli, generiche e specifiche prima, presente della
scienza neoestrario dell'Idea S il letture e in tale nasce? nei lunghi citati
il lettore e in un tale nasce nei luoghi citati la possessione dell'attributo
possedere un attributo argomento procedente argomento precedente Dunque nelle
altre Dunque nelle altre cose né uno né due né una né due e. 6se fossero simili
e dissimili se fossero simili o dissimili 14 àTiaXXsxxéov àTraXXaxxéov È vero.
Affinchè È vero Affinchè queste spiegazioni queste altre spiegazioni a un soggetto
particolare a un oggetto particolare dalla prova dalle proveche indicano i
rapporti che indicano il rapporto non potrebbe esistere non potrebbe esistere
veramente pia prezioso nella mescolanza pi i prezioso nella mescolanza; ohe
esso è la causa della bontà di questa mescolanza. Tuttavia Platone non può e.un
mondo di idee, di entità astratte e generali Tim. a generalizzare Timeo Fedone
Fedone X03ptaTÓv producono le loro copie/producano le loro copie e i suoi
deterivati/e i suoi derivati nel concetto comune come nel concetto comune
perchè noi sogniamo perchè cosi sogniamo sestult. dei periodi degl’astri
degl’altri periodi degl’astri e si pascono e si pascono poi xsxoptajiéva
x£xwpto|i£va e. come le prime come le prime, Platone non può un mondo d'idee
Tim, di generalizzare Timto a Fedone b YVWoGYjoófJtsvov) Fedone Xcopoaxóv
parlato implica, e essenze parlato, implica le essenze tra le cose i numeri tra
le cose e i numeri primi degl’esseri i primi degl’esseri i Met. Dell’idee; è il
movimento dell’idee è il movimento I due elementi col Dispari non leggerlo
propria delle cose lo Stesso non è né in queste cose l'indefinitezza A queste
quistioni M i principii degl’esseri V. due elementi coi Dispari (oxoixs^a
proprie delie co.se lo stesso non è né queste cose, l'indeterminatezza A questa
quistione i principi degli esseri 11oapi-<tale ammettere per provare; è
niente 24 e'. Basii. i una yévso'.^ o immanente capitale ammette per provare
alt. è niente Basii, di una yévsotf e. P.I. immanente non è semplicemente com'essi
non è semplicemente, com'ossi dicono, dicono la perpetuità doiruniverso e la
perpetuità della forma att ualo dell'universo ouo» gono più o meno numeroso più
e meno numeroso come relativo come correlativo et le o. ne sistema delle Idee
nel sistema delle Idee Met, non leggerlo forma forma ci è attestato/ci è
attestata delle ooqa matematicho n o potremmo Met., da cui sono limitale di
queste tre divisio, a di Platone di Spinoza supplem. C. V la loro vera realtà l
suo posto cuotiene dih avanzati le Idee). L'espressione non vi ha mai i R.
delle cose matematiche noi potremmo Met. tosto da cui sono limitato Co) Da
questo processo non potrebbero venirne che dei poliedri, perchè esso non
applicabile, tra i solidi, che ai poliedri, tra le superficÌ3, che ai piani,
tra le linee, che alle rette: ma siccome per i platonici i corpi erano composti
di poliedri regolari, esso rende conto suttìcientemente delle gran«iezze reali,
di queste tre divisioni di Platone di Spinoza e la loro vera realtà il suo
posto contiene più avanzati le Idea. L'espressione non vi ha mai il IL REALISMO
DIALETTICO Perchè si realizzano le astrazioni? Spiegazioni correnti e
precisazione della quistione. Il realismo, in quanto è una spiegazione del
mondo (realismo dialettico), ha lo scopo di identificare il rapporto logico tra
il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa efficiente e
1' effetto Origine del realismo degti scolastici Realismo (realizzazione dei
concetti) di Taine Il suo metodo dialettico cioè di dedurre i concetti realizzati
L'idea fondamentale di questo sistema è l’identifìcazione del rapporto tra il
principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l’effetto. Il
sistema di Platone. Cenni generali sulla filosofìa di Platone. Apriorismo di
Platone Suo metodo puramente deduttivo Importanza capitale attribuita al
metodo; universalità della filosofia e sua sistematicità Affinità del metodo
dialettico col metodo matematico Caratteri prepri del metodo dialettico, per
cui differisce dal matematico Tutte le altre Idee si deducono da quella del
Bene L'Idea del Bene non è solo il principio logico, ma anche il principio
ontologico (la causa produttrice) delle altre Idee, e non ne è il principio
ontologico che in quanto ne è il principio logico La deduzione progressiva delle
Idee le une dalle altre é una derivazione reale delle Idee che si deducono da
quelle da cui si deducono. L'Idea del Bene è la più generale di tutte.
Contenuto di quest'Idea Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. Teoria
della definizione La dieresi è una deduzione in cui l’Idea divisa funge da
principio, e le Idee in cui si divide da conseguenza Come la dieresi è una
deduzione, e come si trovino in essa i caratteri distintivi del metodo
dialettico di cui al Il metodo indiretto del Parmenide E con questo metodo che
deve dimostrarsi il primo principio cioè l'Idea del Bene Un'Idea generale non è
solo il principio logico, ma anche onfoZo^rico la causa, delle Idee più
particolari in cui si divide. L'ohbiettivazione dei concetti – GRICE THE
CONCEPTION OF VALUE -- e il metodo dialettico hanno per iscopo
l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra
la causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Spinoza Idea generale della
filosofia di Spinoza Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi
Metodo puramente deduttivo Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo
ontologico Le cose considerale sua specie aeternitatis L'essere, secondo
Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente e
ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e
la conseguenza é identico con quello tra la causa efficiente e l'effetto.
Differenze e omologia fra tutti questi sistemi Come il realismo dialettico
deriva dalla tendenza naturale del nostro spirito da cui derivano tutti
gl’altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT Tendenza naturale a
supporre che il reale nella sua essenza é immutabile I fisici greci in generale
Dottrine di GIRGENTI e di Anassagora Il sistema degl’atomisti Dottrine dei
fisici che ammetteno una sostanza unica Dottrina d’Eraclito dell’identità dei
contrari Dottrinadi VELIA Spiegazioni meccaniche dei fisici in generale
Dottrine di BRUNO e TELESIO La teoria meccanica (cioè la riduzione di tutti i
fenomeni a quelli meccanici) nella scienza Applicazione della teoria alla
costituzione della materia Ancora della teoria meccanica Applicazione ai
fenomeni psichici Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il principio
della persistenza delle co- nelle stesse proprietà nell’atomismo metafisico,
nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo Dottrine di Herbart e Corico
Dottrina dell’identità della causa e dell'effetto IL CONCETTO DELL'ANIMA
L'animismo sostantificazione dell’anima è il prodotto d'una tendenza naturale
dello spirito umano. Le prove della sostanzialità dell’amaterialiià dell’anima
nella forma primitiva dell'animismo, L'animismo è anch'esso un' applicazione
del principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose Le concezioni moniste
si fondano su questo principio egualmente che le dualiste – GRICE BROAD
BROADISM E per esso che deve spiegarsi anche l'animismo dell'uomo primitivo Il
concetto dell'immortalità dell'anima GRICE SHROPSHIRE e quello della sua
immaterialità sono degli sviluppi naturali della teoria animista. Il
substratum, supposto indisponsabiie, dei fenomeni psichici non è che il
fantasma [RYLE GHOST IN THE MACHINE] del corpo. La terza forma dell'animismo,
cioè la dottrina che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente
che è il substratum di tutti gli altri nima. carte IMMANENZA DELLE IDEE
PLATONICHE Prove di quest'Immanenza I termini designanti le Idee in generale I
termini designanti ciascon'Idea. carte Il concetto e la conoscenza generale si
riferiscono all'Idea La definizione e la dieresi, che hanno per oggetto le
Idee, si riferiscono alle cose considerate d'una maniera generale ed astratta
L'Idea è l'universale, ciò che è lo stesso in tutti gl'individui del genere La
TiapouoCa, la fiéGegtg e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle
cose Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche Gli
elementi delle Idee sono anche gli elementi delle cose Tutto il reale si
risolve nelle Idee X. L'essere non è fuori del divenire, ma nel divenire
stesso. Discussione degl’argomenti contro l' immanenza La sostanzialità
dell’idee La distinzione fra l’idee e le cose interpretata come una separazione
L’idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che
approssimativamente Le allegorie del Fedro e del Timeo La tesHmonianza
d'Aristotile. Cenni snlle dottrine dei Pitagorici e sul pitagorismo di Platone
in generale I numeri ideali I due elementi La forma e la materia dell’idee La
forma e la materia delle cose Le entitli matematiche come intermediarie fra
l’Idee e le cose Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo Motivi deirevoluzione di
Platone verso il pitagorismo Il pitagorismo nel Timeo Carattere simbolico della
cosmogonia del Timeo e suo significato. Il pitagorismo nel Filebo il limite e
l’illimitato di questo dialogo il pitagorismo nei discepoli di Platone Le tre
dottrine dei platonici sui numeri carta La dottrina di Xenocrate carte La
dottrina di Speusippo L'anima e suo rapporto coll’idee e coi fenomeni l'anima
individuale carte l’anima cosmica e. carte L'interpretaasione teistica del
sistema dell’idee che l’idee sono i pensieri della divinità creatrice L’idee e
il pensiero Interpretazione di Hegel e Teichmiiller dell'immortalità dell'anima
e altre dottrine connesse Platone non ammette l'identità dell'essere e del pensiero,
e la sua idea è un'entità puramente obbiettiva – cf. H. P. Grice, “Obbles”.
Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza, Grice in defence of a dogma,
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guicciardini:
la ragione della conversazione e la ragion di stato – la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dele cose dello stato – filosofia
toscana – filosofia fiorentina – la scuola di Firenze -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “Political
philosophy is never practiced by philosophers – not even at Oxford. Witness the
contents of my colleague Warnock’s super-editor of Waldron’s volume on
Political Philosophy for Oxford: POLITICAL PHILOSOPHY EDITED
BY ANTHONY QUINTON OXFORD READINGS IN PHILOSOPHY
OXFORD READINGS IN PHILOSOPHY Series Editor G. J.
Warnock POLITICAL PHILOSOPHY Oxford University Press,
Walton Street, Oxford OX2 6DP OXFORD CONTENTS
INTRODUCTION THE USE OF POLITICAL THEORY Plamenawz POLITICS,
PHILOSOPHY, IDEOLOGY Partridge ARE THERE ANY NATURAL
RIGHTS? Hart THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ Benn
AUTHORITY Peters Winch THE PUBLIC INTEREST Barry
LIBERTY AND EQUALITY Carritt Two CONCEPTS OF
LIBERTY Berlin Two CONCEPTS OF DEMOCRACY Schumpeter
JUSTICE AND THE COMMON GOOD Barry NOTES ON THE
CONTRIBUTORS BIBLIOGRAPHY INDEX OF NAMES INTRODUCTION The
easiest and most uncontroversial way of defining political philosophy is
as the common topic of a series of famous books: Plato’s Republic,
Aristotle’s Politics, MACHIAVELLI’s Prince, Hobbes’s Leviathan, Locke’s
Treatises on Civil Government, Rousseau’s Contrat Social, Hegel’s
Philosophy of Right, The Communist Manifesto and Mill’s Liberty. Such an
enumeration, at any rate, defines a major continuing strand in the history
of Western thought, a great tradition of large-scale reflection about politics.
But a backward-looking list of this kind is really no longer adequate to define
political philosophy as a going concern. What has changed the subject is
the great increase in methodological self-consciousness among recent
philosophers which has led them to accept a more limited conception of
their powers and, in consequence, of their responsibilities. A
comparatively definite place has now been marked out for philosophy within the
total range of man’s intellectual activities. It is generally thought to
stand in a very different relation to other modes of thought from that in
which they stand to each other. Where they are substantive, concerned with some
aspect or region of the world, it is conceptual and critical, concerned
with them rather than with the reality they investigate. It should be
conceived not as just another mode of thought alongside them but rather as
superimposed reflectively on them. Very briefly, philosophy has the task of
classifying and analysing the terms, statements and arguments of the
substantive, first-order disciplines. In the light of a conceptual
interpretation of philosophy the works that make up the great tradition
of political thought are methodologically very impure. They are only to a
small, though commonly crucial, extent works of philosophy in the strict
sense. Besides conceptual reasonings of the approved sort they contain two main
kinds of ingredient. First, there are factual or descriptive accounts
of political institutions and activities which may be collected under
the general heading of political science. Secondly, there are recommendations
about the ideal ends that political activity should pursue and about the
way political institutions should be designed in order to serve these ends
which may be called ideology. A good deal of past political science has
been somewhat formal or legalistic; taking the rules which are the
professed determinants of the working of political institutions, in
particular the formal constitutions of sovereign states, at their face value
and dealing only as something of an afterthought with the deviations from
these rules that occur in actual practice. A further limiting tendency
has been the custom of political science of treating the political life of
society as comparatively autonomous. Both of these restrictions have
been largely removed by the development of political sociology which
investigates political behaviour as it actually occurs and seeks to connect
it with the general, non-political life of society, witlt class-stratification,
the economy, religious allegiances and so on. Both the political-science
and ideological components of works in the great tradition of political
theory were of high generality. The details of local government or the
hierarchical arrangement of courts did not figure in them. Nor did the
type of very concrete issue to be found in a pamphlet or leading article
about the reform ofa particular law or the reconstruction of some part of
the whole institutional apparatus. But by current standards they are too
all-inclusive to count as works of political philosophy, strictly
so-called, and their all-inclusiveness has not been much imitated in recent
years. A sign of this change in the way the subject is conceived has been
the apparent petering-out of the great tradition. Surveys of the history
of political thought either come to an end with Marx and Mill in the mid-nineteenth
century or they wind up with apologetic chapters on the major ideological
movements of the most recent period and on the highly engaged, rhetorical
and practical thinking of the more articulate political leaders. But an
occasional magnificent dinosaur stalks on to the scene, such as Hayek’s
Constitution of Liberty, seemingly impervious to the effects of natural
selection. Analytic philosophers have paid little attention to those
problems of political theory that do fall within their recognized field of
interest. Russell has been an active political ideologist, and, in his
book Power, something of a political sociologist, but he has been very
explicit about the distinction between his work in these capacities and
his work asa philosopher proper. It has been widely held, indeed, that
there really is no such subject as political philosophy apart from the
negative business of revealing the conceptual errors and methodological
misunderstandings of those who have addressed themselves in a very
general way to political issues. For an example of this see Weldon’s
Vocabulary of Politics. A solid testimony to the width of this conviction has
been the near-unanimity with which analytic philosophers have, until very
recently, avoided the subject altogether. Of course the great tradition
of political thought remains an important object of study in its own right. But
to study its members is only marginally to continue the work they were
doing. Many teachers of political philosophy are in fact students of the
history of very general, theoretical, political ideas. But this no more
makes them political philosophers than close attendance at the bull-ring makes
an aficionado into a bull-fighter. The application of philosophical
analysis to the fundamental concepts and styles of reasoning that occur in
political discourse remains an open possibility. But until very recently
the only extended example of it has been the excellent Consent, Freedom
and Political Obligation of Plamenatz. In the first sentence of the
introduction Plamenatz wrote: ‘the purpose of this essay is to provide
definitions of a number of words generally used by political thinkers’.
The publication of a substantial general survey of political theory from an
analytic point of view, Social Principles and the Democratic State by Benn
and Peters, was a sign of renewed interest and the suggestion has been
confirmed by the appearance of Barry’s Political Argument, perhaps the
most uncompromisingly analytic treatment of politics yct published. The
first task of an analytic philosophy of politics is to distinguish the
two main varieties of substantive political discourse: the factual
statements of political science and the evaluative affirmations of
ideology. Few would deny that such a distinction can be drawn, however critical
they may be of the reasoning associated with it and the irrationalistic
conclusions about valuation that have often been derived from it. Within
each of these domains there are characteristic concepts of a very general
sort whose application is a matter of frequent dispute. Philosophical
analysis, it might be hoped, could help the disputants to a better
understanding of each other’s positions and even, in some cases, of their
own. The central concept of political science is that of the state.
Cor- relative with the state is law. Positive law must have a state or
sovereign as its source and it is the first duty of a state to produce
and maintain law. A satisfactory account of the nature of law must trace
its com- plicated relations to morality which serves both to supply law
witha content and to be a standard for criticism of it. The traditional
natural law theory is an attempt to expound this relationship.
The most general concepts of ideology are those of the major political
values which are the more or less commonly recognized ends of government:
liberty, justice, security, prosperity and, perhaps, democracy. It is by
reference to such ends that particular schemes of political institutions
are recommended in preference to others. The central problem of
traditional political theory has been a kind of generalized limiting case
of the problem of justifying a particular institutional scheme. This is
the problem of political obligation which is that of why, or under what
circumstances, an individual should obey any state at all, acknowledge
any obligation to obey those who seek to determine what he shall do,
attribute any authority to those who claim to be his rulers.
A theory of political obligation, by giving a rational answer to
the question ‘why should I obey the state’, must inevitably, itmight
seem, be ideology rather than analysis. But analysis can at least be used
to examine the form of arguments purporting to justify the state.
Equally ideological must be the endorsement of any major political value
or ideal as an end which governments ought to pursue. As it turns
out analysis and justification are harder to keep apart than formal
methodology might suggest, here even more than in other parts of
philosophy. Concepts of political ends are what have been called
essentially contested concepts (cf. W. B. Gallie in Proceedings of the
Aristotelian Society, 1955-61, pp. 167-98). The adherents of competing
ideologies try to interpret terms such as liberty and justice in such a
way that they apply to the realization of their own ideals. The
methodo- logical aim of a strictly neutral analysis of political terms,
even of the most general terms of political science, is hard to realize
in practice if the results are not to be trivial. Some have
argued, in the spirit of Popper’s remark that if the Soviet Union is a
democracy then he is against democracy, that the words in which political
discussion. is carried on do not matter and that a political philosophy
which regards the clarification of political terms as its main task must
thus be a waste of time and energy. This view is, I think, doubtly
mistaken. In the first place disputes that have some ultimately verbal
element are extremely influential. Furthermore the verbal element in
disputes is not generally so easy to identify and dismiss as the
Popperian example might suggest. And even in that example the dispute is
not merely verbal. Adherents of both liberal and communist conceptions of
democracy would agree that any adequate conception of it must start from
the notion of government by the people. They disagree on the extent to
which their competing views are better adjusted to this basic and agreed
requirement. The first two selections in this anthology are of the same
broadly methodological character as this section of the introduction.
Mr Plamenatz defends a moderately traditional view of the nature of
political theory which he defines as systematic thinking about the
purposes of government. Professor Partridge argues that analysis cannot
be kept wholly free from all ideological taint. 2. The state, law
and morality In the second of his Treatises on Civil Government
Locke introduces something that he calls the executive power of the law
of nature. It has three parts: the legislative power of deciding what the
correct rules of conduct are, the judicial power of applying these rules
to particular pieces of conduct and the penal power of administering
sanctions to those who have broken the rules. The function of this
moderately com- plicated idea in his theory is, in effect, to define the
concept of the state and, by implication, of the political generally. For
it is by the transfer of this executive power from free, natural
individuals to a common sovereign that a natural society is turned into a
civil, or politically organized, society. It is not necessary
to suppose that the transformation of natural into civil society was
brought about by some historically identifiable act of transfer to find
Locke’s notion a useful one. The executive power of the law of nature can
be used to distinguish political societies, as those in which it is
formally centralized, from non-political ones, in which itis informally
distributed amongst all individuals. There are two signifi- cant
implications of this use of the idea. The first is that it identifies the
essential functions of the state as those of maintaining law and order,
the second that it sees them as the responsibility of a state to the
extent that they are not left to individuals to exercise for themselves
but are remitted to a special person or set of people within the society
asa whole. To see the preservation of law and order as the essential
function of the state is not to regard it as the state’s only function.
Nor is it to say that a state could survive in practice if that was all
it did. The defence of societies from their external enemies is as
ancient and important a function of states as their defence from internal
ones. Nor does the requirement of centralization strictly imply that
government is, of necessity, oligarchical, though, in fact, no doubt, all
governments have been. But even in the most direct and Rousseau-like of demo-
cracies there would be a distinction between the weekly meeting during
which for an hour or two the citizens were acting in their sovereign
capacity as legislators and judges and the remainder of the week during
which they would obey, or disobey, the rules they had them- selves laid
down. Two more recent definitions presuppose the Lockean concept of
the state but significantly extend it. The first of these is Austin’s
well- known definition of sovereignty. A sovereign, according to Austin,
is a determinate human superior, not in a habit of obedience to a
like superior, who receives habitual obedience from the bulk of a
given society. Austin defines law as the command of a sovereign so
conceived. Secondly there is Max Weber’s definition of the state. ‘A
compulsory olitical association with continuing organization’ he
says ‘will be called a state if and in so far as its administrative staff
successfully upholds a claim to the monopoly of the legitimate use of
physical force in the enforcement of its order’. Both Austin and Weber
hold that a large measure of effectiveness in imposing its rules is
necessary toa state. Weber adds that the means by which this effectiveness
is secured is wielding the only physical force that is generally
recognized as legitimate. Putting these definitions together we may
say that a society is political, or has a state, if it contains a
centralized agency for the promulgation, application and enforcement of
rules of conduct, if these rules are generally obeyed and if only these
rules are generally recognized as legitimately sanctioned by physical
force. One point of these definitions is to distinguish the state
conceived as a politically organized society, as when we speak of
nation-states, from the state conceived as the rule-enforcing element
within such a society. If a society has a state within it in the second
sense, then it is a state in the first sense. In colloquial terms a
country is one thing, a government another, but what makes a collection
of people into a country is the fact that they all have the same
government. We can speak of nations that are not politically organized
societies. Nationalism isan endeavour to make states and nations
coincide, initiated in circumstances where they do not. We tend to think
of the government as more particularly the executive or administrative
arm of the state as a whole. It remains important to distinguish state
from society just because some thinkers have striven energetically to
obliterate the difference between them. A society is a collection of
people who interact, persistently and in characteristically human ways,
cooperating and communicating with each’ other. A society will persist
only if there are generally accepted rules of conduct but these need not
be defined and enforced by any centralized agency. At any rate social
rules do not logically entail a state even if they practically require
one in most circumstances. Anarchism is not a self-contradiction, but at
worst impracticable or intolerable. Law, in the most ordinary
sense of the word, is a product of the sovereign state. Theories of
sovereignty can be understood as present- ing criteria with which to
decide about the rules prevailing in a society which are laws proper, as
contrasted with the private regulations of a club, a family or a firm on
the one hand and the prescriptions of morality on the other. A familiar
tradition in political theory dis- tinguishes law in this sense as
positive law from natural law. Many theorists who derive political
obligation from a contract, most notably Locke, maintain that what in the
end justifies obedience to the state is its protection of the rights
possessed by individuals under natural law. Some adherents of natural law
have gone further, saying that if arule is in conflict with natural law
it cannot be a positive law at all; but perhaps their point could be less
extravagantly made by regarding an enactment contrary to natural law as
giving a reason for withholding obedience from the state responsible
which may be overridden by reasons for the opposite course.
One origin for the doctrine of natural law is the idea that God
stands to mankind at large in the relation of a monarch to his subjects.
The same analogy can, however, be turned upside down, as in the
doctrine of the divine right of kings, to show that there are no limits
to the rights of monarchs. The comparable relation of a father to his
children is ambiguous in the same way in its implications. It can be used
as a natural model for the right ordering of states but it can also
be exploited to argue that fathers, like sovereigns, owe their right
to obedience to the services they perform for those who obey them.
In an age like the present, with its apparently irreducible plurality
of conflicting moral beliefs, the doctrine of natural law has lost much
of its appeal. But there is a minimum interpretation in which only
those who take the service of the state to be the highest conceivable
duty for man could possibly reject it. Itcan be taken to say simply that
there are moral considerations by which the state’s claim to authority
must be judged. Unless one holds with Hegel that private morality is a
crude, primitive anticipation of the higher morality of positive law
or, attaching no meaning to moral discourse, abstains from it
altogether, one cannot consistently oppose this position. A
feature of natural law doctrine that has been much objected to, notably
by Bentham, is its claim that there are imprescriptible natural rights,
rights possessed by all men whose infringement by the state strictly
entails the forfeiture of the state’s authority. Utilitarians deny that
any specific moral principle is absolutely and unqualifiedly valid in the
way that this kind of natural right is held to be. They would say that to
ascribe a right to a man is to say that there is some- thing that he
ought to be allowed to do. A rightis natural if itis moral and not
positively conferred by a state. Now what people ought to be allowed to
do varies with the circumstances. It is always possible to conceive
circumstances in which it would be morally reasonable, in the best interests
of all concerned, to abridge freedom of speech or movement or
occupation. Some analytic philosophers have made curiously heavy
weather of the word ‘natural’ in the phrase ‘natural rights’, taking it
to imply that the possession of these rights is deducible from the nature
of man. The nature of man is the set of defining characteristics in
virtue of having which things are identified as being men. These
characteristics are in fact empirical and so no conclusions about what
men ought to be allowed to do can be extricated from the concept itself.
This is rather laborious. ‘Natural’ here means simply ‘non-legal’.
Natural rights are those which men have by reason of being men and not
in virtue of their membership ina particular politically organized
society with its prevailing system of legal rights. In
practice there is a good deal of correspondence between the content of
positive law and natural law, if this is understood as the broad moral
consensus of the citizens. Unless the state in question is very
efficiently tyrannous, indeed, there must be, since if a state’s positive
law is morally repugnant to most ofits citizens they will havea reason
for disobeying it and in doing so they will remove the effective- ness
which is one of the state’s essential characteristics. But there is
always some divergence between positive law and the generally accepted
hard core of morality. In the first place much of the moral consensus
cannot be or need not be or should not be legally enforced. It cannot be
enforced if offences are very hard to detect (for example, indulgence in
sadistic fantasy). It need not be if the informal sanctions of morality
are sufficient to maintain good behaviour (for example, ordinary
politeness). It should not be if the type of conduct involved derives
most or all of its value from the fact that it is freely
undertaken. Secondly, positive law needs, for a number of reasons,
to be very precise, something seldom true of the moral consensus.
Thirdly, since positive law needs to be stable it cannot be adjusted to
correspond with every apparent shift of the moral consensus. It follows
that it will be slow to adjust itself to real shifts. A final point is
that the most INTRODUCTION 9 generally interesting
decisions and regulations of modern states concern issues of a broadly
economically distributive kind which do not fall clearly within the moral
concensus. The main political divisions of a modern industrial society
concern the proportion of the national income that shall be taken and
spent by the state and the objects on which it should be spent. Complex
conflicts of justice and efficiency, of benevolence and personal freedom
arise here which are the main topic of everyday political controversy.
One virtue of democratic systems is that they provide machinery for the
resolution of these conflicts of interest and principle by pacificatory
compromise and without resort to violence. Two items in this
anthology deal with subjects discussed in this section. Professor Hart
argues that the existence of at least one natural right must be admitted
if it is allowed that there are any moral rights at all. Mr Benn conducts
a wide survey of the uses to which the concept of sovereignty has been put.
3. Political obligation The problem of political
obligation—why should I, or anyone, obey the state—has always been the
fundamental problem of political philosophy. The question it raises must
be distinguished from. two others with which it can easily be confused
and it is also somewhat ambiguous itself. First, to ask why I should obey
the state is not to ask why I do, though one answer to the latter
question (viz. because I think I ought to) raises the former. People obey
governments and abide by the law to a very great extent, no doubt, from
force of habit and because it does not often occur to them to do anything
else. When the possibility of disobedience does-occur to them, in cases
where there is an obvious clash between the demands of the state and private
interests or moral conviction, they are restrained by fear of the
probable con- sequences of disobedience. But people may also be prompted
to obey the state by the conviction that they are morally obliged to do
so. To inquire into the justification of this belief is to confront the
problem of political obligation. The other question with
which that of the justification of obedience is often confused is that of
how the state and its laws came into exist- ence in the first place. The
two issues look so very different at first glance that it may be hard to
understand how they can ever have been run together. One explanation is
that many obligations arise from something that has happened in the past:
from a positive undertaking, for example, as in a marriage ceremony, or
from the coming into 10 POLITICAL PHILOSOPHY
existence of a particular state of affairs, as when a man recognizes his
responsibility for injuries caused by his carelessness or for children
brought into the world by his sexual activities. A related point,
emphasized by Hume, is that people generally regard prescription or
customary acceptanceas the solidest foundation ofa right, though this may
be less true now than it was in the eighteenth century. Another
consideration is that when the state was created, if there ever was such
a moment, the question of whether to obey was a live issue for everyone
involved. More generally the confusion between the two questions is
assisted by the habit of describing the problem of political obligation
as concerned with the origins or foundations of the state, a mode of
expression which can be interpreted historically or justificatorily. At
any rate the two questions are entirely distinct. As Hume argued, even if
the first states did originate in a contractual agreement between their
members this has no bearing on our situation now: we do not inherit our
ancestors’ promissory obligations, and the states we live under
originated for the most part in violent seizure of power.
With the question why I should obey the state extricated from
others with which it may be confused, we can go on to consider what
precisely it means. It has usually been taken to ask how it is that I am
undera moral obligation to obey the state. But this is not the only
meaning it can have, nor is it the most fruitful one. Morality, strictly
so called, has no proprietary hold over the word ‘ought’. We can also ask
what makes it reasonable, sensible or prudent for me to obey the state.
This goes to the opposite extreme from the narrowly moral
interpretation of the question and might seem to invite only such obvious
and un- illuminating answers as that I am likely to be sent to prison if
I do not obey. But between the two extremes there is a third possibility.
We may ask: what makes it a generally good or desirable thing for me,
or anyone, to obey the state? Here the rationality of political
obedience is identified neither with its moral obligatoriness nor with
its con- duciveness to strictly personal interest and advantage. A great
deal of what we ought to do is reasonable in this sense without being
either morally obligatory or immediately advantageous. There
are three main kinds of solution to the problem of political obligation.
First, there are what I shall call intrinsic theories, which derive the
rationality or obligatoriness of obedience from the intrinsic character
of the state. Secondly, at the other extreme, are extrinsic theories, which
justify the state by reference, direct or indirect, to the purposes it
serves, to the valuable consequences which flow from its
INTRODUCTION 11 possession of effective power. Finally, there are
organic theories, which transform the problem by arguing that it implies
a mistaken, ‘abstract’ conception of the relations between the state and
the individual citizen. The simplest of intrinsic theories is
traditionalism, the view that the state ought to be obeyed because it
always has been, Hume’s pre- scription in its most elementary form. A
historically important variant is the divine right theory which holds
that we should obey the state because God has commanded us to do so. The
theory of divine right can take a legitimist form, in which the criterion
of divine author- ization is something other than the possession of
effective power, or it can be conformist, enjoining obedience to the
powers that be whoever they are and however they acquired their
position. A more intellectually appetizing kind of intrinsic theory
is the doctrine of aristocracy, which attributes intrinsic authority to
the best people, picked out by their wisdom, ancient lineage,
heroic qualities (as in fascism) or even wealth. In practice intrinsic
theories soon lose their formal purity since any rational argument to
justify obedience to traditional rulers, or to the best people, must rest
on the pre-eminent capacity of the recommended rulers for realizing
ends desired or valued by those called upon to obey them. This fate
of intrinsic theories shows their affinity to deontological accounts
of morally right action, which are liable to the same loss of
identity. According to the deontologist such moral principles of right
action as that one should keep promises or tell the truth are self-evident
to the moral intelligence. They do not need justification in terms of
the valuable results of general adherence to them and are only harmed
and enfeebled if such justification is attempted. They do not need it
since they retain their validity in cases where good results do not
accrue: one should keep a promise even though no-one will be better off
for one’s doing so. If such principles are made dependent on the
production of good consequences, it is argued, morality is degraded into
calculating expediency. But few deontologists are brazen enough to insist
that a trivial promise should be kept whatever happens, that one should
leave someone drowning in a lonely spot to his fate in order to make a
promised appearance at a tea-party. A rigidly de- ontological theory of
political obligation, one that holds the principle that one should obey
the state to be simply a self-evident truth, is conceivable. But this
will not be very plausible unless ‘state’ is redefined in terms which
guarantee that only rulers who rule well qualify for the
descriptuon. 12 POLITICAL PHILOSOPHY Extrinsic
theories are the political correlates of teleological accounts of morally
right action which define a right action as one from which it is
reasonable to expect good consequences. In the doctrine of the social
contract, the most famous of extrinsic theories, the connexion between
obligation and good consequences is indirect. According to the
contractarian I ought to obey the state because I have somehow promised
or undertaken to do so. But the commitment from which my obligation
arises is not conceived as arbitrary, purposeless and un- conditional. It
is entered into for the sake of some ultimate end (for example, security
in Hobbes’s version, the protection of natural rights in Locke’s). Its
binding force is conditional on the effectiveness of the state in
realizing the end in question. For this reason a contract theory can
never be absolutist. It cannot, in the manner of some intrinsic theories,
assign unlimited authority to the state. Political obligation may always
lapse and the state’s authority be forfeited if the conditions of the
contract are not satisfied. Two main objections to the contract
theory should be mentioned. First, since most people give no explicit
undertaking to obey the state, there is a difficulty about identifying
the thing they do which is to be interpreted as their making an implicit
promise to obey. There is a dilemma here. If the supposedly contractual
act is not voluntary, such as passively benefiting from the protection of
the armed forces, it cannot be regarded as a promise. If it is voluntary,
such as voting in an election, failure to perform it is not generally
recognized as relieving a man from his obligations as a citizen.
Secondly, there is Hume’s favourite objection that the good ends for
which the promise was made are sufficient to justify obedience to the
state by themselves and without the intermediary of a highly speculative
act of moral com- mitment. This leads to the conceptually more economical
view of utilitarianism, that obedience to the state is justified on
directly teleological grounds as a necessary condition of the general
welfare, the advantage of society at large. The organic
theory of political obligation is implied by the doctrine of a general or
real will advanced by Rousseau and Hegel. The theories considered so far,
intrinsic and extrinsic, conceive the fundamental political situation as
one in which some men, the citizens, are seen as quite distinct from and
wholly subordinate to others, the state. This, the organic theorist
maintains, is at any rate unnecessary and un- desirable and perhaps,
metaphysically considered, is an illusion. In any properly constituted
political system, perhaps in any effectively functioning one, the state
is or represents the better selves of the INTRODUCTION 13
citizens, their real, general, impersonal, moral will as contrasted
with their private, particular, irrationally self-regarding will. In a
political system so conceived the citizens in obeying the state are
following the promptings of their real or better natures, subjecting
their irrational and self-interested passions to the control of their social
and moral reason. Rousseau thought that an organic and genuinely
obligatory political system was hard to attain, possible only in
communities with small populations and directly democratic institutions.
Hegel believed that it was approximated to in every effective state, to
the extent at least that it was historically possible that it should be.
Rousseau’s hyperdemocratic ideal seems as impossible of achievement as
Hegel’s bland redescription of the facts of political life seems
unrealistically complacent. The analytic philosopher of politics
does not give the general problem of political obligation so central a
place in the subject as his traditional predecessors. It has the merit of
raising conceptual questions about arguments designed to establish the
rightness of action and of drawing attention to the difference between
power, the ability to secure obedience, and authority, the right to
expect it. But of more interest than the problem they have in common are
the different values which theorists of political obligation, to the extent
that their reasoning is teleological, see itas the state’s justifying
function to serve. The problem of political obligation represents the
citizeri as confronted by a single absolute choice between obedience
and resistance, between conformity and treason. Even in the least
demo- cratic societies the scope of an individual’s political action is
seldom so brutally circumscribed. Whether or not he has the formal right
to vote, to organize political associations and to convert others to
his way of thinking, he will have many means at his disposal for
bringing pressure to bear on the government, its acts, its composition,
its institutional form. The values that are relevant to the ultimate
choice between submission and rebellion are also relevant to a much
more extensive range of political choices. It is more profitable to
consider the ends of government on their own, detached from their
traditional involvement with a single extreme issue of political action.
The selections in this anthology from Professor Peters and Mr Winch
make up a debate about the correct interpretation of the concept of
authority which it is the aim of theories of political obligation to
explain. The paper by Mr Barry, in defending the concept of the public
interest, considers issues raised by Rousseau’s notion of the general
will. 14 POLITICAL PHILOSOPHY 4.The ends of
government An ideology prescribes ends for government. It lays down
certain ends as those to be pursued through political activity and
through political institutions. The simplest kind of ideology describes
an ideal society or utopia in which the ideologist’s values are
fully realized. Here the ideological aim is quite explicit. At the
other extreme a theory of political obligation can serve an
ideological purpose more indirectly. In it the preferred ends will appear
as necessary conditions for justifying the state’s authority.
There are objections to both procedures. Utopias, concentrating on
the long-range goal of political endeavour, neglect the problems that
arise about getting to the destination. Not all of these problems are
practical. The realization of one part of the ideal may bring un-
expected results in its train which obstruct the realization of the remainder.
One ideological defect of theories of political obligation was pointed
out at the end of the last section. The scope of an individual’s
political action is not confined to deciding whether or not to obey the
state. He can usually bring some influence to bear on its selection of
policies, its composition and its institutional form, even in societies
that are not formally democratic. Another defect is that the essential
conditions of political obligation, though they will be included in one’s
ideals, are not usually wholly coincident with them. Only if I take the
wildly extreme position of refusing to admit an obligation to obey any
government but a wholly ideal one will the conditions of political
obligation and the principles of political action in general be
identical. The first task of the political philosopher in this
field, and on one view his whole responsibility there, is to clarify the
concepts of political ends. In the light of such a clarification he can
critically examine the arguments that are used to support the choice of
political ends. The conflicting conceptions that prevail of the political
ends he is concerned with express ideological disagreements and this
makes it hard to operate with strict neutrality and detachment.
Opposing ideologists try to pre-empt words like liberty, justice and
democracy for the type of political arrangement they favour. The
political philo- sopher can keep himself from being embroiled only if he
confines himself to articulating the way in which different ideological
groups use the terms in which they proclaim their ideals. A
plain example of this kind of ideological competition over a concept is
provided by liberty. The negative conception of liberty favoured by
liberal individualists is repudiated by collectivists in the
INTRODUCTION 15 interests of positive liberty. Negative liberty is
absence of interference by states, groups or individuals with the
activities of individual men. For interference to be an infringement of
liberty it must be directed against activities those interfered with
actually want to carry out, it must be intended to have this effect and
it must work through dis- incentives serious enough to be proper objects
of fear. Positive liberty, being commonly defined as the ability to do
what I really want to do, turns out to be very much like my ability to do
what I ideally ought to want to do. The conflict is not resolved by
simply giving different names to the two kinds of liberty and recognizing
that one party favours the one and its opponents the other. For both
parties agree that liberty ultimately consists in being able to do what
you want to do. But they disagree as to what this is and about how weare
to find out what it is. There is a similar distinction between
competing concepts of democracy. Here, however, it is the positive
conception that is the more traditional: the view of Rousseau thata state
is democratic to the extent that its acts express the common will of its
citizens. The opposite view conceives democracy as a peaceful way of
getting rid of governments with which the majority of the citizens are
dissatisfied rather than as a means for the direct realization of their
political aims. Both parties agree that democracy is in some sense
government by the people. As for the rest of Lincoln’s formula: all
government claims to be for the people and all government is of the
people—of whom else could it be?) They disagree about how this agreed
purpose is best brought about. There is some slight analogy
between these opposed views of liberty and democracy and two views about
the nature of justice. The negative view would be that the state ought
not to treat its citizens differently unless there is some relevant
difference between them. Its positive opposite number is that the state
should seek to eliminate or com- pensate for the natural inequalities of
advantage that there are amongst them. It could be argued that there is
no real difference here, since what one side sees as a natural inequality
which the state ought to do something about the other side could
recognize as a relevant difference justifying difference of
treatment. The most elementary form of justice is the impartial
administration of the law. This can be represented as a kind of equality
since it involves no account being taken in the judicial treatment of
citizens of those differences between them that are not mentioned in the
law itself. But laws that are justly administered can still be unjust in
themselves 16 POLITICAL PHILOSOPHY if the differences
of judicial treatment they prescribe are in some way unreasonable. While
few would deny that equality is one principle, perhaps the fundamental
principle, of justice, few would maintain that it is the whole of justice.
The principle of equal treatment must be qualified by the recognition
that people have different needs and, because of the services they have
done, different deserts. Justice might seem to be the most comprehensive
of political ends, with the possible exception of the common good, but on
any definition it can come into collision with other widely shared
values. Unequal dis- tribution of income or property may be defended on
the ground that it promotes general economic welfare. By according privileges
to a naturally well-endowed minority it calls forth specially
productive effort. Those who favour the maintenance of some productive
in- equalities—and there are, as the practice of professedly
egalitarian societies suggests, few who would wish to exclude them
altogether— are reluctant to say they approve a measure of injustice, But
in this they are perhaps as unreasonable as those who find it hard to
admit that the penal institutions of society are designed to reduce the
liberty of evildoers. Everyone agrees that it is an essential
function of the state to preserve the security of its citizens. Hobbes
held its preservation by a sovereign to be the sufficient condition of
justified obedience to him, thus placing it above all other political
values. Later political theorists have taken a less gloomy view of the
costs of achieving it and have been prepared to accept some risk to
security for the sake of other political ends. The general agreement
there is about itaccounts for the fact that it poses no serious
conceptual problems. One political value that has not yet been
mentioned has had a ve large influence on the course of political history
but is seldom emphasized in works of political theory. This is prosperity.
In so far as it does occur in theory it is as a slightly embarrassing
aspect of the common good. No doubt its somewhat unspiritual character
is responsible for this neglect. Until fairly recent times
governments have taken no very direct part in its pursuit. They have confined
them- selves to legal regulation of the conditions of economic activity
by controlling the currency, levying customs duties, limiting hours
of work, granting monopolies and so forth. Only in the last century
have they undertaken the direct management of productive enterprises
and, as a result of more extensive economic knowledge, taken up the
positive planning of the economy. The explicit ideological motive for
much of this extension of the state’s control of economic life has been
INTRODUCTION 17 socialistic, and has been based on
considerations of justice rather than of prosperity. A major problem here
is to determine how largea part of the common good material prosperity
is. The ideology of laisser-faire maintains that the common good will be
most fully realized in a society with a freely competitive economic
system. But the economic theory on which this ideology is based includes
the concept of social cost which applies to deprivations inflicted on
the community by the competitive pursuit of wealth which the market
mechanism does not correct. The simplest way of recommending a
political value is to assert that men have a self-evident natural right
that it should be secured to them. The doctrine of axiomatic natural laws
drew much of its appeal from its connexion with the idea that the
principles of morality are divine commands. With the recession of that
idea arguments of a teleological kind have come to be generally relied
on. In some cases these arguments are utilitarian in the narrow,
traditional sense. Such is the inference that liberty is good because the
kind of restraint in whose absence it consists is unpleasant. On the
other hand, in his famous defence of liberty John Stuart Mill, a
professed utilitarian, recommended it as the indispensable condition for
the discovery of new truths and the preservation of old ones, without
stopping to con- sider the bearing of truth on utility in the sense of
happiness. Political theorists have very often fastened on one political
end or other as supremely valuable and have argued that everything a
reason- able man would consider good will be achieved by its pursuit. In
doing so they have been led to extend the concept of their prime value
so that it covers things far outside the original field of its
application. Socialists have represented poverty as a kind of unfreedom
while conservatives have objected to limitations of the privileges of
wealth as cases of injustice. But there is no need to assume that all
political ends are ultimately identical, that in pursuing any of them to
the limit we must in the end realize all the others. It certainly seems
that there are direct conflicts between them. Liberty and equality are
often at odds with one another, as are liberty and security, or
prosperity and justice. If the concepts of political ends are clearly
articulated and understood, an effective kind of rational discussion
about them is possible which has no real point if they are all so
stretched that they run into one another. Four of the
selections of this anthology concern the ends of govern- ment. Professor
Berlin discusses positive and negative conceptions of liberty, Professor
Schumpeter positive and negative conceptions of 18 POLITICAL
PHILOSOPHY democracy. Mr Carritt examines the relations, and
particularly the tensions, between liberty and equality, as Mr Barry does
in the cases of justice and the common good. THE USE OF POLITICAL
THEORY PLAMENATZ EVEN IN OXFORD, which more perhaps than any other place
in the English-speaking world is the home of political theory or philosophy,
it is often said that the subject is dead or sadly diminished in importance.
I happen to have a professional interest in assuming that it is still
alive, and as likely to remain so as any other subject as long as man
continues to be a speculative and enterprising animal. J do not think I
am biased; I do not think I need to be. The importance of the subject
seems to me so obvious, and the reasons for questioning that importance
so muddled, that I do not look upon myself as defending a lost or
difficult cause. Political philosophy is dead, I have heard men say, killed
by the logical positivists and their successors who have shown that many
of the problems which exercised the great political thinkers of the past
were spurious, resting on confusions of thought and the misuse of
language. Apply the solvent of linguistic analysis to these pretentious
systems, they say, and when the dross has melted away, little that is
valuable remains. I think that this isa mistake, and I want to explain
why I think so. I admit that the great political thinkers have
raised many spurious roblems, that they have been confused and have
misused language. I believe that those who study their theories ought to
subject them to close and rigorous criticism. J believe that they made
many mistakes; but I do not believe that they were mistaken in trying to
do what they did. I do not believe that the progress of science and
philosophy has left no room for their kind of activity. By
political theory 1 do not mean explanations of how governments function;
1 mean systematic thinking about the purposes of government. Perhaps it would
be better to speak of political philosophy rather than of political
theory, keeping the second expression for what From Political
Studies, Vol. 8 (Clarendon Press, 1960) pp. 37-47. Reprinted by
permission of the author and the Clarendon Press. ‘This article is based
ona lecture given at the University of Exeter on 13 March 1959. purport to
be explanations of the facts. If I have not done this, it is because the
word philosophy is nowadays used in a narrower sense than it used to be,
especially in English-speaking countries. The political theory that I
wish to speak about is emphatically not linguistic analysis. It is a form
of practical philosophy; it is practical philo- sophy as it relates to
government. I want to argue that it is a serious and difficult
intellectual activity, and that the need for it, in modern times, is as
great as ever it was—indeed much greater. It is not aneed which
disappears with the progress of science (and especially of the social
sciences), and is in no way weakened by the achievements of contemporary
philosophy. It is not a less urgent need than it was; it is only a
need less easily satisfied. ‘ I]
The belief that political theory or philosophy is dead rests on several
misconceptions. 1. In the past, political theory has often been a
mixture of two activities: it has sought to explain how government
functions or how it arose or why it is obeyed, and it has also put
forward opinions about what government should aim at and how it should be
organized to achieve those aims. These two quite different activities
have not always been kept distinct. Indeed, the Utilitarians were among
the first to insist that they ought to be so kept, though they did not
always take their own advice. Both these activities are useful. But, for
reasons which are not far to seek, the fact that they have so often been
confused has brought discredit on one of them much more than on the
other. In this scientific age, the explanation of what actually happens
is always respectable. We must have theories about how this or that
form of government functions; we must even have theories about
govern- ment in general, we must take notice of what is common to all
forms of government. These are all theories that can be verified; they
are attempts, more or less successful, to extend our knowledge. But,
it is said, theories about what government should aim at and how it
should be organized do not extend our knowledge; they merely express
preferences, while pretending to do much more. They vary from age to age,
from country to country, from party to party, from person to person. It
is conceded that they affect action and that therefore we need to know
what they are and how they arise. But it is also taken for granted that
what they are matters less than how they affect men’s behaviour; that it
is more important to inquire into THE USE OF POLITICAL THEORY
21 their origins and consequences than to study them for their own
sake. They have to be studied because people have in fact taken
them seriously and been influenced by them, but reasonable men can
do without them. There has been in recent times some
resentment of, and contempt for, political philosophy. It is said of it
that it not only pretends to give us knowledge but also stands in the way
of our getting it. Durkheim, in his Rules of Sociological Method, argued
that political theorists, in order to reach the conclusions they want to
reach, define the terms they use in such a way as to make it seem to
follow from their definitions of the state or of law or even of human nature
that government should aimat this rather than thatand should be
organized in one way rather than another. Political theorists, it is
said, have roduced concepts which stand in the way of a scientific
explanation of the facts because their real (though unacknowledged)
function is to justify what the theorists happen to think
desirable. It is certainly true that political theory or philosophy
does not produce the same kind of knowledge as political science, and
itis also true that it has stood in the way of political science.’ But
even if political philosophy has stood in the way of political science,
that is no reason for dismissing it as fantasy or the mere airing of
preferences. It is only a reason for distinguishing it from intellectual
activities of other kinds. 2. What has gone by the name of
political philosophy in the past has been shown to be remarkably
confused. This has caused some people impressed by the confusion to speak
as if what the political thinkers of the past attempted were not worth
doing, and as if the only useful function of political philosophy were to
dissipate confusion. Political philosophy, they say, is properly the
analysis of political concepts. I do not deny the need for
this analysis, and though I should wish to use the expression political
philosophy in a wider sense, I do not quarrel with its being used thus
narrowly. But if this is to be called political philosophy, there still
remains another intellectual activity, which is neither political science
nor political philosophy, which is more important than the second and not
less important than the first, and which is likely to endure when
political philosophy, in this narrow sense, has lost what importance it
now has. I should not wish to 11 think this second charge
exaggerated: I suspect that it was much more ignorance than the
failure to distinguish between explanation and advocacy which impeded the
progress of political science. But I am not concerned to argue this
point. 22 JOHN PLAMENATZ quarrel about names. If, for
instance, Mr. Weldon had wanted to do no more than make a narrow use of
the expression political philosophy, I should neither have followed his
example nor condemned him for trying to set it. But I suspect that he
wanted to do more than this; I suspect that he wanted to suggest that,
apart from political philo- sophy, as he understood and practised it, and
political science, there was nothing important, difficult, and useful to
be done by rigorous and systematic theorists in the field of
politics. Political philosophy, understood in Mr. Weldon’s sense,
is not likely to remain important for long. At the moment, because
political thinkers still use ambiguous concepts, the careful analysis of
these concepts is still needed to show that many traditional problems
are spurious, arising only because the men who put them have fallen
victims to the confusions and intricacies of language. Since these
concepts are often borrowed from, or shared with, other studies
traditionally known as philosophy, the philosopher is better placed than
other people to show how they generate spurious problems. This is an
important service which the philosopher, in the narrow sense, can still
do for the student of politics. But those who practise this kind of
political philosophy should notice their own limitations. When they show
us what confusions of thought there are in Rousseau’s doctrine of the
general will or in Hegel’s doctrine of the state, we have cause to be
grateful to them. They see the nonsense in these doctrines, and they
explain what makes it nonsense. So far their work is useful. If, however,
they go further, they risk doing harm. They are too ready to assume that
where they have seen nonsense there is no sense which they have not seen.
Just as it takes some skill in linguistic analysis to see the nonsense in
Rousseau, so perhaps it takes some knowledge of sociology and psychology
to see the sense in him. The philosopher in this narrow sense
already does no service to the natural scientist. He studies scientific
method as the scientist does not study it; and there is therefore a sense
in which he under- stands what the scientist does better than the
scientist himself under- stands it. He knows better than the natural
scientist how science differs from other kinds of intellectual activity.
Yet he has nothing to teach the scientist, for what he knows about
science that the scientist does not know is not knowledge needed to make
a good scientist. The philosopher does not help the natural scientist to
either his ideas or his methods. And so it will eventually be with the
political scientist; the time will come when he will need no more help
from the analytical philosopher. He needs him, even now, only to rescue
him THE USE OF POLITICAL THEORY 23 from confusions of
thought; he does not need him, any more than the natural scientist does,
to produce the ideas he uses to explain the events he studies.
3. The great variety of theories about what government should aim
at and how it should be organized has discredited these theories. It is
said of them that they do no more than expound the preferences of their
makers, and that in any case they are socially determined. I do not
see the force of these objections. What does the variety of these
theories prove about them? That they are not true? But if they expound
preferences, the objection is out of place. Itis unreasonable to argue
that they are not scientific, and then to object to them that they are
not true. They are neither true nor false. Does the variety of
these theories prove them unimportant? In just what sense? Will anyone
deny that they have had a large influence on the course of history? The
fact that they have not served as blue-prints for the reconstruction of
society is no evidence that they have not been important. They have
powerfully affected men’s images of themselves and of society, and have
profoundly influenced their behaviour. Does the variety of these
theories prove that we no longer need them? I do not see that it does.
What are we to have in their place? Political science? But its function
is not the same. It does notattempt what these theories attempt. Why then
should it supersede them? And we can say the same of political philosophy
as Mr. Weldon understood it. Its function is different. It does not
satisfy the same need. And just as political science and the analysis of
political concepts do not satisfy this need, so they do not remove it. It
is still there, no matter how active and successful they may be.
Are these theories unimportant because they are socially deter-
mined? The production of such theories is an activity of man in society,
and is therefore affected by his other social activities. All social
activities limit one another. What men can do or even imagine in one
direction is limited and affected by what they can do and imagine in
other directions. We may agree that a theory like Marxism could not have
been produced in the Dark Ages. But then neither could the steam engine
have been produced then. The feasible and the imaginable are limited by
the actual. This is as true of industry and science as of political
theory. We soon get into difficulties if, like Marx, we treat
political theory as of secondary importance. Marx called it a form of
ideology or false consciousness, contrasting it with science, which gives
us real knowledge; and he looked forward to the day when we should
have 24 JOHN PLAMENATZ true social science and be
able to dispense with ideology. Yet he could not help attributing great
importance to ideology. A class, to be politically effective, must have
an ideology; and unless it is politically effective it has no active role
to play in history. Ideology is illusion, and yet, unless men had these
illusions, the course of social evolution would not be what it is.
We have here an example of a type of simple and false reasoning to
which many people—and sometimes even philosophers—are still prone. They
show that one kind of theory is mistaken by its producers for another
kind, and then conclude that the second kind supersedes the first. Marx’s
version of it is this: the makers of ideology mistake it for science, and
therefore when science shall have come into its own, there will be no
room for ideology. Marx made one kind of mistake, Burke made
another. He thought that political theory, except when it justifies the
established order is harmful. That, at least, is to admit its importance.
Yet Burke, because he did not see clearly the function of political
theory, mis- understood the French revolution. He saw the revolution as a
disaster caused by people’s being misled by the philosophers. Its
immediate cause was that the unprivileged classes were making new claims
on society, claims which could not be met unless society was
greatly changed. The philosophers did not create the conditions that
disposed the unprivileged to make these claims; their task was rather
to formulate the claims, toexpound them systematically, and to
condemn the old society which could not meet them. It was useless to rail
at the philosophers for disturbing society. It is true that there was
no overt demand for the theories they produced. There never is a
demand for such theories in advance of their appearance. But there was a
readiness to accept them when they appeared. There was, in that sense, a
need for them. Burke’s mistake was in not understanding this need, and
Marx’s in speaking as if the need would disappear when the social studies
had become scientific. It may be true that the need is more
difficult to satisfy the more the social studies become scientific. It
may also be true that, because of the discredit into which traditional political
theory has fallen, the need is less widely recognized, especially among
intellectuals, than it used to be. The old political theorists did so
many things which they ought not to have done that we are tempted to
conclude that there is no longer a need to do anything that they did. We
may admire their fantasies, and yet say that the ime for fantasy is
over. We may say: By all means, let us state our preferences if we feel
so THE USE OF POLITICAL THEORY 25 inclined ; let us
make explicit the rules of conduct and the ideals which we accept. But
this is something altogether more modest than what the old political
theorists attempted. There is some truth in this way of thinking,
but it falls so far short of the whole truth as to be profoundly
misleading. I want to explain why this is so. Ill
In primitive societies, custom and prejudice are perhaps
sufficient guides to conduct. And by prejudice I mean here what Burke
meant by it; I mean a belief about right conduct which the believer takes
on trust. In primitive societies, men can perhaps do without a
systematic practical philosophy, just as they can do without a dogmatic
religion. In the eyes of a sophisticated student of a primitive society,
the customs and beliefs belonging to it may forma coherent whole; he may
see how they fit together to make it the peaceful and contented society
which it is. But in the eyes of the primitive man, they are not a
coherent but only a familiar whole; he does not see how they fit
together, he merely lives comfortably with his neighbours and with
himself because in fact they do fit together. The
sophisticated man needs more than a set of customs and prejudices which
are in fact coherent, though he does not see that they are; he needs a
practical philosophy. He lives in a changing society, and he is socially
mobile in that society; he is not exposed to change which is so slow that
he cannot perceive it. He lives in a society where men strive
deliberately to change their institutions. If he is not to feel lost in
society, he needs to be able to take his bearings in it; which involves
more than understanding what society is like and how it is changing. It
also involves having a coherent set of values and knowing how to use them
to estimate what is happening; it involves having a practical philosophy,
which cannot, in the modern world, be adequate unless it is also a social
and political philosophy. In the past practical philosophy was
rooted in religion and meta- physics; men derived, or purported to
derive, their beliefs about how they should behave and how government
should be organized from God’s intentions for man or from the nature of
the world or from man’s being a rational creature. But many of the
teachings of religion and metaphysics have been undermined by science or
by logic; they have been shown to be incompatible with the facts or
to rest on confusions of thought and bad argument. Not all
religious 26 JOHN PLAMENATZ and metaphysical
doctrines have been directly controverted; for many have referred to an
order of realities supposed to be beyond the realm of ordinary
experience, with which alone science is con- cerned. They are beyond the
reach of science, and logic cannot touch them if they are
self-consistent. Yet the spread of science disposes many people to reject
even these doctrines. They reject not only what science can show to be
false, they also reject what science does not show to be true. Though
there is, perhaps, nothing irrational about having both unverifiable and
verifiable beliefs about the world, rovided the first beliefs do
not conflict with the second, many people find it difficult to do this,
and feel the need to reject all beliefs for which there is no evidence.
They may, of course, reject them consciously, and yet also behave as if
they believed them; which is irrational. But that possibility does not
concern us. With the decay of religion and metaphysics there has
gone a de- preciation of the practical philosophies so long connected
with them. There has even been a change of attitude to the moral
principles contained in these philosophies. Let me give an example to
illustrate my meaning. ‘All men are equal in the sight of God’ is a
statement about God’s feelings and intentions for man; it purports to be
a statement of fact. It is not, on the face of it, a value-judgement;
it is descriptive and not prescriptive, and yet it is unverifiable.
Connected with this statement are beliefs about how men should behave.
These beliefs do not follow logically from the bare statement about
God’s feelings and intentions; they follow only if it is assumed (as of
course it always is) that men ought to behave in ways that further
God’s intentions for them. Though, when a man ceases to believe in
God, he is not committed to rejecting these beliefs, since they do not
follow logically from the statement that God has certain intentions, he
is inclined to feel less strongly about them. It is only when these
beliefs are put before him in some other connexion, as parts of some
other intellectual structure, that he is again disposed to accept them
as fervently as he did before. The attempt to derive moral
principles from theology or meta- physics is a time-honoured way of
putting them forward as principles which all men everywhere do or ought
to accept. Therefore, when this manoeuvre is rejected, so too is the idea
that there are universal principles. It is admitted that there-always are
moral principles and that there always will be, it is admitted that the
study of what they are and how they arise is valuable. But the task of
elaborating a systematic practical philosophy is depreciated, it is what
the theo- THE USE OF POLITICAL THEORY 27 logians and
metaphysicians used to do. It is what they still do, though with less
conviction now than when their labours were not greeted with scepticism.
The task made sense to them; but how can it make sense to men thoroughly
imbued with the scientific spirit? Now, this attitude to practical
philosophy is quite irrational. The need for it is there, whether or not
it is possible to derive universal principles from beliefs about God or
the world or man; it is there, whether or not it can be shown that there
are principles which men do or ought to accept everywhere. Man today,
much more than in the past, must get his own bearings in the world; he
must make himself at home in the world, for he can no longer be at home
in it merely by conforming to the conventions and acquiring the
prejudices of his station in society. Indeed, he no longer has a station,
as his ancestors did; he is much more socially mobile in a much more
quickly changing society. Self-conscious, sophisticated man’s
conception of himself does not consist only of what he knows about himself
or thinks he knows; it consists also of what he aspires to be.
Admittedly, he is not what he aspires to be; he is what he is. But the
kind of image he has of himself depends largely on what he aspires to be.
He does not get his aspira- tions from the sciences, not even the social
sciences; he gets them, directly or indirectly, from practical
philosophy, whether or not that philosophy is tied to religion or to
metaphysics. He cannot live from hand to mouth, following custom and
accepting all current prejudices as they come. He lives in a kind of
society which makes him critical and self-critical. To be happy, he must
have aspirations, and must also feel that he can live up to them; he must
be true to some image of himself. If he wants what he cannot get, or
wants in- compatible things, or has ambitions that bring him into
conflict with other men, he cannot be happy. Not everyone is
capable of acquiring for himself a coherent prac- tical philosophy. Not
everyone feels the need for it. There are doubt- less some people—and who
knows how many they are?—who are quite content to drift through life.
There are others who need guidance but are incapable of philosophy. They
seek guidance from churches, from political parties, and from other
organizations, and also from friends. There are still others who make for
themselves a practical philosophy without engaging in controversy or
adding anything to the stock of ideas and arguments. But some there must
be who do the systematic thinking which goes to the making of practical
philo- sophies. They are not scientists; their business is not to explain
what 28 JOHN PLAMENATZ happens in the world. And they
are not philosophers in the rather narrow contemporary sense; their
business is not to explain how we use language or how we get knowledge or
what exactly it is that we are doing when we pass moral or aesthetic
judgements or when we make decisions. They are philosophers in a quite
different sense: they try to produce a coherent system of principles and
to establish what needs to be done to enable men to live in conformity
with them. They do not merely examine and compare the principles, showing
where they are incompatible and explaining their consequences; they do
not, like honest shopkeepers, display a large variety of goods,
describing them all accurately and leaving it to the customer to choose
what pleases him best. They produce a hierarchy of principles, and try
to explain how men should use them to make their choices. This is how
they help to provide them with a practical philosophy. If the
producers of these theories were like honest shopkeepers, if they were
mere purveyors of ideas, they could not meet the need which it is their
function to meet. If their business were merely to explain what this or
that principle amounts to, how it fits in with other principles, and what
is likely to happen when it is acted upon; if their business were to
offer a large variety of principles, or even philosophies, for
consideration, inviting every man to make his own choice among them, they
would only bewilder and annoy. But they are not mere purveyors of ideas;
they are preachers and propagandists. They are people who have, or who
believe they have, discovered how men should live; and they will not be
listened to unless they speak with conviction. They need not all speak
with one voice, but each of them must take his stand. This is a condition
of their effectiveness. If every missionary were to explain several
different religions to his listeners, leaving it to them to make a
choice, religion would take no hold. A man must already be committed
before he can do much to help other people to commit themselves. As it is
with missionaries, so it is with philosophers of this kind. Their
business is to help people commit themselves. Freedom of thought is
preserved, not because each thinker offers several theories for
inspection and choice, but because different thinkers offer different
theories with equal con- viction. It is not the variety of strongly held
convictions among the intellectual ¢dlite which is bewildering and
depressing; it is the lack of conviction among them. Strong convictions
attract and repel; they do not leave people indifferent. They encourage
those who have the ability to do so to make up their own minds, to know
where they stand. They do what science and linguistic analysis cannot
do. THE USE OF POLITICAL THEORY 29 It is not enough
that practical philosophies should be strongly held; they should also be
well thought out and realistic. They should aim at self-consistency and
at taking account of the facts.! The more thoughtful they are, the more
they encourage thought in the persons who take stock of them. It does not
matter that very few people should swallow them whole. Whoever considers
them seriously will usually want to do more than establish their merits
and defects, he will also want to construct a practical philosophy for
himself, and the more they challenge thought in him, the more thoughtful
that philosophy will be. The more men live in societies which
change quickly, the more mobile they are in those societies, and the more
accustomed to the idea that they can, by taking thought, change their
social environment to come closer to their ideals, the greater the part
of social and poli- tical thought in practical philosophy. Its business
is to relate a coherent body of principles to government; its business is
to tell us what government should do to realize those principles and how
it should be organized to do it. Political theory, as distinct from
political science, is not fantasy or the parading of prejudices; nor is
it an intellectual game. Still less is it linguistic analysis. It is an
elaborate, rigorous, difficult, and useful undertaking. It is as much
needed as any of the sciences. Its purpose is not to tell us how things
happen in the world, inside our minds or outside them; its purpose is to
help us decide what to do and how to go about doing it. To achieve that
purpose, it must be systematic, self-consistent, and real- istic. We
learn to cope with the world, not by collecting principles at random, but
by acquiring a coherent practical philosophy, which we acquire largely in
the process of considering other philosophies of the same kind.
Practical bisenee gS is deeply affected by psychology and the social
sciences. Though we do not logically derive our values bent what we know
(or think we know) about ourselves and our social environment, we do
change them as we change our minds about the facts. No one has done more
than Freud to change our standards of sexual morality. Though these
changed standards do not follow logically from his psychological
theories, people who accept the theories are more disposed than they
would otherwise be to accept the standards. But this detracts nothing from the
im- ortance or the distinctive Beir of practical philosophy. Art,
too, is deeply affected y science and by practical philosophy, and
yet it is an activity of a quite different kind which seems unimportant
only to people who do not understand what it is. The more our standards
are liable to change, the greater our need for practical philosophy. The
greater our need, not just to understand how they have changed, but to
introduce order among them. The need for practical philosophy is part of
man’s need to be his own master, to make up his own mind how he shall
live and what he shall be. 30 JOHN PLAMENATZ No doubt
only a small minority acquire, or are capable of acquir- ing, a coherent
practical philosophy. But then only a small minority are capable of
becoming scientists. We do not show that an activity is unnecessary or
useless by showing that onlya few persons engage in it. IV
It may well be that no practical philosophy, and therefore no
political theory, is universally acceptable. There may be no set of
principles of which we can say: if men understood these principles, and
also understood what human nature is and might be, they would accept
them. I suspect that Marx and Engels believed the contrary. They denied
that a practical philosophy can be derived logically from theology or
from the nature of man, but they believed, none the less, that the
fundamental rules and values of the classless society are universally acceptable,
in the sense that men who understand what man and society are and might
become do accept them. They expected the morality of classless societies
to be everywhere the same and unchanging. To defend my thesis
I need not go as far as Marx and Engels went. I say only that the need
for practical philosophy exists in all sophis- ticated societies. Just as
sophisticated man is a scientist and an artist and an analytical
philosopher, so too is he a practical philosopher and a political
theorist. Most men, of course, are not so, but some are. Modern society
creates a need for what they do which can neither be destroyed nor met by
science and analytical philosophy. There is nothing illiberal about
practical philosophy and political theory, thus conceived. Admittedly,
they are indoctrination; they are not the mere sorting out of ideas and
their implications. But there need be no monopoly of indoctrination. In a
liberal society there are some principles common to all or most of the
political theories currentin it. There is both community and variety of
beliefs. But the beliefs held in common are as much open to question as
the others. For society to remain liberal, it is not necessary that these
beliefs should not be questioned; all that is needed is that they should
be widely accepted. The more men differ, and the longer they have been
accustomed to differing, the more likely they are to accept principles
which make it possible for those who differ to live peacefully together.
The principles commonly accepted are not more strongly held than the
others; they are merely held along with the others. The Catholic or the
Protestant who believes in toleration is not a liberal first and a
Catholic or a THE USE OF POLITICAL THEORY 31
Protestant afterwards, nor is he a less fervent believer than he would be
if he were intolerant. So it is also with political creeds; they are not
the less strongly held merely because those who hold them are
tolerant. U POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY! P.
H. PARTRIDGE My object is to comment upon what seem to me to be
some typical trends in current English and American political theory,
having in mind the view that has recently been constantly asserted, that
political theory has been in decline or may even have expired during the
last few decades.? I will argue that the report of death, even of
decline, is grossly exaggerated, that in fact the present period is
unusually fertile in thinking about politics that is not only original
and important, but is also, at any rate in many significant respects,
entirely in the traditions of ‘classical’ political theory. That is one
half of my thesis; the other half is that during the past few years some
very important shifts in interest, approach, and emphasis have
certainly occurred; and I shall make some suggestions about the character
of these shifts, and the reasons for them. Unfortunately,
those who have beer; announcing die decay or death of classical political
theory have as a rule taken less trouble to establish the fact of death
or decay than to assert its causes. I do not know what kind or amount of
evidence is necessary to prove that political theory has declined in
volume or quality, but the assertion does not seem to be very plausible
on its face. For one thing, changes of this somewhat radical kind do not
occur quite so dramatically as From Political Studies, Vol. 9
(Clarendon Press, 1961), pp. 217-35. Reprinted by permission of the author
and the Clarendon Press. 'The writer is very deeply indebted to
Professor Wilfrid Harrison for many sug- gestions for the improvement of
the form of this article. 'This is a selection from some of the
more recent books and articles which have discussed the present condition
of political theory: A. Cobban. ‘The Decline of Political Theory’ (Pol.
Sa. Q., vol. Ixviii, no. 3, cae J. C. Rees, ‘The Limitations of Political
Theory’ (Pol. Studies, vol. ii, no. 3, 1954); P. Laslett (ed.), Philosophy,
Politics and Society (1956); G. C. Field, ‘What is Political Theory?’
(Proc. Arist. Society, vol. liv); G. E. G. Catlin, ‘Political Theory:
What is It?’ (Pol. Sc. Q., vol Ixxi, no. 1. 1957): D. Braybrooke, ‘The
Expanding Universe of Political Philosophy’ (Review of Metaphysics, vol.
xi, no. 4, 1958); J. P. Plamenatz, ‘The Use of Political Theory’ (Pol. Studtes,
vol. vii, no. 1, 1960); H. R. Greaves, ‘Political Theory Today’ (Pol. Sc.
Quarterly, vol. Ixxv, no. 1, 1960); A. Brecht, Political Theory (1950);
H. V. Jaffa, ‘The Case Against Political Theory’ (Journal of Politics,
vol. 22. no. 2. 1960); L. Strauss, What is Political Philosophy, and
Other Studies (1959). POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 33
this one is sometimes supposed to have occurred. Or, again, if we
call to mind the very large number of books that have dealt quite
recently with such central problems as the nature and conditions of
democracy, the group theory of political action and structure, and the
theory of bureaucracy, one might have thought that there has never
beena time when so much theoretical speculation about politics has
been going on. Clearly, when writers nevertheless maintain that
political theory is in decline, they must have something else in mind.
Hence, we should perhaps begin by considering briefly what are some of
the different things that political theory has meant, what different
sorts of thinking about politics the name has been applied to. Some
kinds may have become unfashionable, while others have continued to
flourish. I Classical political theory has usually
been a mixture of different kinds of inquiry or speculation. One could
distinguish three different impulses—philosophical, sociological,
ideological. This paper will be mainly about the third, but I want to say
something first about all three. The political speculation of Plato,
Hobbes, Locke, or Hegel is philosophical chiefly because each of these
writers has tried to connect his conclusions about political
organization, or about the ‘ends’ of political life, with a wider philosophical
system. He has tried to derive political and social conclusions from more
general beliefs about the nature of reality, to show that every sphere
of reality, including the political, possesses certain common
features or ‘categories’, that all these spheres can be spoken about in
the same logical language, that, in short, political conclusions follow
from or are supported by more general logical and metaphysical
principles. And one obvious reason for the current impression that
classical political theory is in decay is that there is not so much of
this sort of argument now: many philosophers now insist that one
cannot deduce the ‘rightness’ or ‘rationality’ of a form of political
organiz- ation, or of a political policy, from more ultimate principles.
For example, that section of Weldon’s Vocabulary of Politics which
deals with what he calls ‘foundations’ has this main philosophical
purpose. As I have said, one special form of the traditional connexion
between philosophy and politics starts from the conception that it is the
task of philosophy to exhibit what is common between the social and other
‘spheres’ of reality. Historically, of course, this has been a most
important link between philosophy and politics; for instance, 34
P. H. PARTRIDGE philosophical atomism has lent support to social
individualism, the dialectic and the concrete universal are as important
in Hegel’s social theory as in the more philosophical parts of his work;
and more recently some of the earlier political pluralists gained some
support from the criticisms of philosophical monism developed by
William James and others. But clearly, a great deal of
political theory has not been philoso- phical in this sense. Although de Tocqueville
or Graham Wallas discussed some of the problems that political
philosophers also discussed, their political views were not
systematically connected with a philosophical position. A lot of de
Tocqueville’s writing we should now describe as sociological; he asserts
generalizations, including causal generalizations, about the behaviour of
social phenomena. Naturally, this is not only true of the de
Tocquevilles, Bagehots or Maines; even in the writings of the political
philosophers in the more technical sense, there is much sociological
general- ization—Hobbes is a notable example. Political philosophy was,
of course, one of the parents of contemporary sociology. And no one
doubts that the development of sociology as a specialized, altogether
more rigorous, subject has also affected general political and social
speculation. By the ideological impulse I mean merely the form of
political thinking in which the emphasis falls neither on philosophical
analysis and deduction, nor on sociological generalization, but on
moral reflection—on elaborating and advocating conceptions of the
good life, and of describing the forms of social action and
organization necessary for their achievement. Of course one cannot draw a
sharp line between ideological and philosophical political writing:
almost all political philosophy has been ‘practical philosophy’ in that
it has had the practical object of persuading readers of the
‘rationality’ or moral superiority of some specific form of social
organization. Even the Leviathan has such a practical aim, although
Hobbes’s practical conclusions are.grounded upon philosophical and other
argument which has usually been taken to be of greater interest than
the practical purpose. But Rousseau, unlike Hobbes and Hegel, was
not primarily a philosopher. The Social Contract introduces some
general distinctions and conceptions of a philosophical kind, the
significance and limitations of which were more developed by later
writers, includ- ing Green and Bosanquet. But one would not expect much
to be said about Rousseau in a history of philosophy—not, at least, in
one written by an Englishman. In his case it would be very easy to
detach POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 35 and stress the
ideological element. In fact, this is what seems to have happened: the
image or model of democratic society drawn from the Social Contract has
been very much more influential historically than any philosophical
conceptualization or argument that the book contains. But no
matter how we choose to classify any theorist, I think it will be agreed
that we can distinguish these three different impulses and interests, and
these three ‘orders’ of political thinking. Nor will any- one dispute
that one very powerful interest throughout the course of European social
thinking has been the ‘ideological’—moral argument about ends and ways of
life, and about the institutional conditions of the good life.
IJ Possibly each one of these impulses has grown weaker in
recent years. Undoubtedly the progress of detailed empirical political
and social inquiry has shaken the habit of speculative sociological
general - ization of the ‘philosophical’ kind, the concoction of what
Dahl has called ‘macrotheory’ in politics. Part of what is to be found
in classical political philosophy has now been absorbed into
political science and sociology. Again, many philosophers now reject
the conception of philosophy, and of the resulting connexion
between philosophy and politics, on which most of classical political
philo- sophy (in the strict sense) rests. I cannot here discuss the
technical reasons for the rejection: I shall make just one
remark—addressed to many political writers who have been lamenting the
decay of traditional political philosophy: this lament is idle if you
have no answer to the technical philosophical arguments which can be
dep- loyed against the practice of supporting conclusions about the
‘functions’ of the State or about the rational ordering of social life by
resting upon ‘higher’ or ‘more ultimate’ logical and philosophical
principles. But does it follow that these philosophical arguments
have produced a decay of philosophical political theorizing? I
should argue that there has not been such a decay. While philosophers
have been disclaiming competence in political discussion, political
scient- ists have been delighted to accept their disclaimer; and it can
be argued that what is now happening is only an example of the
familiar separation of a distinct subject from the parent philosophical
stem. ‘See his review article on de Jouvenel’s
Sovereignty—‘Political Theory: Truth and Consequences’ (World Politics,
vol xi, no 1, 1958). 36 P. H. PARTRIDGE Political
science, like economics, and other sciences, has reached the point where
the specialists must themselves deal with the very general matters,
including conceptual analysis, popularly or tradi- tionally called
‘philosophical’; and they do so at a level of sophistic- ation and
complexity which the philosopher qua philosopher could hardly approach.
The boundaries between philosophy and politics are being redrawn. A
number of twentieth-century philosophers have drawn a very sharp line
indeed between ‘philosophical’ questions (or conceptual analysis) and
‘empirical’ questions; between ‘second order’ and ‘first order’
statements about politics. By and large, the political scientists have
been sensible enough to see that the drawing of this sharp boundary is
hopelessly disabling for the study of social theory, and have ignored it.
On the other hand, the philosophers who have imposed it have been left in
occupation of only a wafer-thin slice of the territory of politics—as The
Vocabulary of Politics clearly demonstrates. The
philosophical impulse, in fact, is not the most important part of our
inquiry; technical philosophy, after all, has only a limited influence;
many of the most important political theorists of the last three
centuries were not much influenced, or not influenced at all, by the
technical philosophy of their own time. The philosophical impulse or
influence is only one of those which have sustained political
speculation; others have been equally or even more important. This brings
me, then, to the ‘ideological impulse’ with which, in one way or another,
the rest of this essay will be concerned. iil The
writers who have drawn attention to what they interpret as a languishing
of philosophical thinking about politics have mainly in mind the
political philosophy which has been an extension of moral theory—which
inquires into the ends of the State and its morally right organization
(What is the State that I should obey it?)—into the morally necessary or
morally justifiable ordering of political society. The ‘decline of
political theory’ is taken to be the decline of the moral interest in
politics. ‘On the one hand, there is a great deal of eagerness to deal
with politics in mora] terms; on the other, the insights of psychology,
anthropology and of political observation have silenced the urge.’! It is
this fact—if it is a fact—that is most in need of explanation.
‘Judith Shklar, Beyond Utopia (Princeton, 1957), p. 272. J..P.
Plamenatz’s article ‘The Use of Political Theory’ (Pol. Studies, vol.
viii, no. 1, 1960) and H. R. Greaves, POLITICS, PHILOSOPHY,
IDEOLOGY 37 Is it a fact that there has been a ‘slackening’ of the
‘moral urge”? Once again it is not hard to construct a case against.
There is, after all, a very large amount of contemporary discussion of the
moral foundations and dimensions of politics; for instance, the
many fashionable criticisms of secular or positivistic liberalism such
as are examined by Frankel in his Case for Modern Man. Nor should
we overlook the moral discussion to be found in the pages of sociologists
who are interested in the non-political areas of social life. One
striking (and perhaps strange) feature of recent American sociology has
been the popularization of the notion of ‘alienation’. This, together
with the closely connected themes of anomie, depersonalization, the
atomization allegedly inherent in large-scale industrial society, the
supposed dissolution of ‘community’ and aggrandizement of the State and
other depersonalized, bureaucratized forms of organiza- tion, is surely
one of the most widely-followed fashions of social thought at present.
Perhaps there is a good reason for this; perhaps the social conditions
and changes which appear to be morally most significant are not changes,
or possible changes, in political arrange- ments or institutions, but
those at other levels of society. The kind of lives people live in modern
cities, the demands that industrial and other great organizations make
upon them, the effects of commer- cialism, industrialization, and ‘mass
media’ on popular culture—one could argue thatitis in such contexts
thatthe more importantoccasions for moral disquiet and reflection are to
be found. In other words, if the moral interest in politics has declined,
one reason could be that questions of political organization, of
allocation of political rights and powers, &c., are not at present
generally felt to be morally critical.! IV I
want to develop this. There now prevails in England and the United States
and in several other Western-type democracies a quite unusual degree of
political relaxation and consensus. J shall not try to state carefully
what this consensus embraces; but it obviously embraces the fundamental
constitution of the liberal-democratic order. There is no significant
social or intellectual movement which calls into question the broad
structure of rights and powers under- ‘Political Theory Today’
(Pol. Sc. Quarterly, vol. Ixxv, no. 1, 1960) are examples of this line of
argument. 'I am speaking of course of the Western democracies; the
reader will immediately protest against this remark if it is applied to
contemporary Africa. 38 P. H. PARTRIDGE stood to
constitute or define a democratic polity. There are no new classes
struggling to win a share in political power, none struggling for an
enlargement of power in ways that would entail substantial modification
of political foundations. In Western Europe since, let us say, the
beginning of the seventeenth century, it is not often that this could
have been said. One could point, of course, to important contemporary
controversies about rights or liberties (e.g. contro- versies about
limitations upon the freedom of action of trade unions), but such
controversies tend less and less to raise issues of great generality, and
generality has normally been taken to be the work of philosophical issue
in politics. Now, if this is roughly true, it is plausible to
suppose that this consensus (and not technical changes in philosophy or
the growth of empirical social science, or other developments of
extremely circumscribed influence) is the main factor affecting the
character of contemporary political theory. If classical political theory
has died, perhaps it has been killed by the triumph of democracy. At any
rate, this seems to me to bea very relevant consideration which has not
been sufficiently noticed by those who have written about the decay
of political theory.’ In fact, the consensus appears to
include more than the general system of powers and rights and the legally
established institutions which give effect to them. It seems to embrace
also objectives and justifications of policy. Is there not an all but
universal acceptance ‘May we not suspect the influence of
ideological consensus even in some of the arguments employed by recent
English philosophers? The late Miss Margaret Macdonald, for example, in
her well-known essay, The Language of Political Theory, argues that the
orthodox question Why should I obey the State, or Why should I obey the
law? is in principle unanswerable. I can give reasons why I should obey
(or disobey) this particular law; but there is no answer to the general
question Why should I obey the law (or the State)? Now, apart from the
question whether this argument does justice to what such a philosopher as
T. H. Green was really saying, we may ask whether the argument would in
fact always hold. If we give the State a content (let us take it to be,
for example, a secular political authority claiming ultimate or sovereign
political power over all other institutions), have there not been
theocrats and anarchists to whom it was by no means obvious that the
State, as distinct from other institutions, was entitled to claim final
obedience? If there is, then, a real general issue, is it pointless to
try to make a case in general terms for the supremacy of the State ae its
law, though we may admit that it is a general case only, and that there
may quite well be conditions—as Green, along with other political
philosophers admitted—under which the case for the State’s final
authority does not hold? May not Miss Macdonald’s argument derive some
plausibility from the fact that the State and its legal supremacy are now so
firml established as a matter of historical fact that to ask in general,
Why should I obey the State? seems as sensible as to ask why I should
obey the laws of gravity? POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 39
of the belief that continuous technological and economic innovation,
uninterrupted expansion of economic resources, a continuously rising
standard of ‘material welfare’, are the main purposes of social life and
political action, and also the main criteria for judging the success and
validity of a social order? No doubt, there is in any of the societies I
have referred to some public questioning and criticism of these
objectives and criteria; nevertheless, these are the objectives and
criteria which define the course of contemporary democratic politics.
They are the ‘built-in’ criteria which render irrelevant and impotent any
alternative social philosophy.’ To speak of unusual ideological
consensus when it is popularly supposed that the world is divided by
warring ideologies may seem paradoxical; but the career of communism in England,
the U.S.A., and some other democracies reinforces the argument.
Communism has had no important effect in these countries as an
alternative political philosophy; in England, as Miss Iris Murdoch has
put it, communism has been left to the communists: one of the chief forces
in creating and consolidating democratic consensus has been the
repudiation of the consequences of communist revolutions. And one might
document the growth of consensus in England by examining the history of
socialist thought over the past three or four decades. There are now few
socialist writers who advocate any systematic alter- native to the basic
political assumptions and arrangements of a liberal-democratic system.
Most of the specifically socialist notions of extended democratic rights
and institutions which had some currency earlier in the
century—industrial democracy, workers’ parti- cipation in management,
guild socialism, and so on—are not much heard of now in serious politics.
One of the most interesting points about such recent English works as
Crosland’s The Future of Socialism and Strachey’s Contemporary Capitalism
is that they disclose very plainly indeed how the standard institutions
and procedures of liberal parliamentary democracy are now accepted as
common ground. Nt is possible, of course, that the political and
moral consensus may be more superficial than appears; and that there may
be conflicts or frustrations growing in the deeper social soils that most
of us are not sensitive enough to perceive. If the sociologists to whom I
earlier referred are right in much of what they say about the
psychological dissatisfactions and social dislocations of industrial society,
then this may be so. At any rate, they have not yet become significant in
practical politics, and, except for a few writers of the ‘new Left’ in
England and America, they have not provided material for new political
formulations. In his Beyond the Welfare State, Myrdal tries to describe
in more detail the consensus that exists in the stable democracies; he
seems to have no doubt about the stability of the prevailing agreement
upon the arrangements and objectives of the Welfare State. 40 P.
H. PARTRIDGE Vv But, further, there is the even more
interesting and important fact that some of the most influential
political theorists of the day have become consciously anti-ideological.
A closer look at some of the arguments which have been brought to bear
against ideological politics will help us to see more clearly what is
happening in con- temporary English and American political theory.
By and large, the ruling trend of contemporary theory has been
reacting against the more optimistic philosophies or ideologies of the
past two centuries; consciously or implicitly, it has set about deflating
the larger ideas of human possibilities that recommended themselves to
many thinkers in the past, and has engaged in the job of cutting down our
notions of man’s nature to size. The argument against ‘ideological
politics’ has taken a number of different lines. It may simply assert
that ideological ways of formulat- ing political attitudes and objectives
have declined in the course of this century as a matter of fact. But most
writers who have touched on this theme have intended to do more; they
have produced an account of what they believe to be rational political
action. One argument is that ideologically-dominated thinking has no
relevance to the controlling facts of contemporary social structure and
change. ‘Grand alternatives’ like capitalism and socialis™ are
irrelevant, because our choice is not between all-inclusive and mutually
exclusive alternatives ; in any society, there may be an indefinite
number of ways in which different institutions and social mechanisms may
be arranged and administered. Sometimes, this point is connected with a
wider point— that ideological thinking has usually been totalistic; that
is, that it has assumed that every important characteristic of a society
is con- nected with a single governing mechanism, and that the whole
of human life can be transformed from a central point. Thus, it is
suggested, ideological thinking tends to adopt global views of social
structure and political action.! Again, it has been argued that
this totalistic illusion has been responsible, in those countries which
have suffered ideologically- inspired revolution, for much of the
barbarism of the twentieth- century upheavals. The attempt to transform
society globally can never be successful, and demands the employment of
force on a monstrous scale and ina never-ending process. The logic of the
idea 'This is suggested by the way in which some followers of Marx
have talked about ‘the’ revolution; as if there were one
revolution that would transform society, and the eradication of all
social evils waited upon ‘the’ revolution. POLITICS, PHILOSOPHY,
IDEOLOGY 41 of total transformation leads to perpetual force,
apart from the fact that ideological conviction is often associated with
moral and political fanaticism. Finally, I must mention the
criticism of ideological politics that Edward Shils has developed because
it is theoretically the most penetrating and interesting. Shils’s
criticism connects with his theory of social groups and kinds of social
cohesion. His argument is meant to suggest, I think, that those who have
defined political action (or the change to be accomplished by political
action) ideologically have erred by imposing upon civil society a
character repugnant to it, one which rather characterizes other types of
social grouping and adhesion. Civil society, according to Shils, is
characterized by a plurality of groups, interests, and values, and the
attachment of the members of civil society to the common set of values is
normally moderate, luke- warm, sporadic, and intermittent. Thus, those
who envisage a civil society as embodying a shared and intensely
experienced set of common values are really imputing to civil society the
emotional, psychological, or moral qualities that are characteristic of
quite different types of social group, for instance, the sect or the
community bound by ‘primordial’ ties of blood or propinquity. The attempt
to create a civil society possessing a heightened emotionalism, and
a more intense, inclusive, and continuous integration around a
common ‘centre’, is thus bound to be destructive of liberty and other
political values of civil society.’ For such reasons, much recent
British and American political theory has been concerned with the
devaluation of ideology and ideologies, with showing the importance of
‘technique’ as opposed to ideology, or with showing that ‘incrementalism’
(Dahl and Lindblom), or ‘piecemeal engineering’ (Popper), are the most
rational methods of political change. Now, this quite considerable body
of recent writing obviously raises some very important questions
(the question of the nature and function of ideologies in politics
has certainly not been exhausted); and it seems odd, therefore,
that there should be so much talk about the decline or decay of
political 'The reference is primarily to the article, ‘Primordial,
Personal, Sacred and Civil Ties’, in British Journal of Sociology, vol.
8, no. 2. Some of the bearings of this view upon questions of political
philosophy are suggested in The Torment of Secrecy. Mary other lines of
contemporary political thinking are allied to those I have summarized.
For example, Talmon’s studies of the history of political ideas, Totalitarian
Democracy and Political Messianism, have a similar tendency; as have the
various articles that have recently appeared discussing the positive
functions of political apathy in democracies, for example, W. H. Morris
Jones, ‘In Defence of Apathy’ (Pol. Studies, vol. iv, no. 6, 1954).
42 P. H. PARTRIDGE theory. Nor does this particular line of
thought justify the suggestion that political theory has been entirely
supplanted by factual or purely descriptive and explanatory political
‘science’; for these writers are concerned with the justification of
forms of political action and organization, just as political
philosophers have always been. The method of justification is no doubt
different; writers like Shils ground their conclusions on sociological premises
rather than on more general philosophical ones. But this is but another
illustration of the point already made that in twentieth-century
political theory the discussion of the general issues is being detached
from ‘philosophy’ and more and more closely linked with empirical social
inquiry. It could be argued, I think, that the thorough-going
pluralism of present-day Anglo-American political theory has tended
strongly to inhibit the formulation of general principles, values, or
objectives of political life. It is the pervasive belief of current
English and American political science that the ‘essence’ of democratic
politics is a process of bargaining and of finding adjustments between
compet- ing demands, interests, values, ways of life-adjustments that
will be more or less temporary and shifting as conditions change within
and without society. In the more stable and affluent democracies this
is the character that present political life has assumed. And this,
surely, is enough to account for the relaxed atmosphere of modern demo-
cratic politics, the absence of political ideas of general range and
importance, and of comprehensive political doctrine. In general, the
politics of adjustment is one that directs itself to separate and limited
issues, most of which affect only limited sections of a com- munity, and
any one of which engages rarely, and usually only marginally and
casually, the interests or passions of a large span of the public, and
which are unlikely, therefore, to generate political movements or
coherent bodies of theory which aim to articulate a whole cluster of
issues. It is evident that this corresponds very closely to Shils’s
account of the nature of ‘civil society’. 4It is not only in
political thinking that particularism or piecemealism is the prevailing
habic of thought. Wright Mill’s recent book, The Sociological
Imagination, may be read as a protest against this habit of thought in a
wider context. If I follow him correctly, when he advocates the
‘sociological imagination’, he is protesting against the practice of many
sociologists—the ‘abstracted empiricists’—of concentrating upon the
separate and circumscribed social phenomenon or problem. He still
believes that one can explore the structure of society as a whole; that
there are controlling areas (or at least especially strategic areas)
through which a wide range of social life can be affected; and that
contemporary social theorists fail to attend to those strategic areas
within the social system which have the widest influence on freedom and other
values of democratic society. POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY
43 It would take me too far afield to try to examine in detail
the now standard arguments against ‘ideological politics’; I shall
make only one or two observations. One might argue, to begin with,
that the writers to whom I am referring are incautious in their acclaim
of the passing of ideologies; that they are generalizing too boldly from
the special conditions that now happen to obtain ina few societies.
Again, it may even be misleading to say that in these societies the
function of ideology has vanished. It can be argued that the politics of
‘incrementalism’, of bargaining and adjustment, of the pursuit of limited
objectives, can itself operate as it does only because of the strong and
wide ideological con- sensus that happens to rule in these societies. In
his Preface to Democratic Theory, Dah! makes the point that the processes
of bargaining and adjustment of claims involve agreed values and
principles which keep political conflicts within bounds, limit the
demands which minorities will seek to have granted, define the range
within which acceptable solutions are known to lie, and so on. But this
is a point of general importance. Recent political theorists have been
apt to under-emphasize the extent to which all the elements which enter
into the consensus operate as a necessary condition of effective
political bargaining and com- promise. Ideology may be no less an important
element in a political and social system because it lies below the level
of general political controversy. Again, just because of the
special circumstances of our time, we may be too ready to conclude that
ideology is a false, irrational, and even disastrous guide to political
action. We look back over recent history, and we see that the aspirations
and expectations of ideological and utopian thinkers or agitators differ
ludicrously from the states of affairs that actually came to be: such highly-charged
ideas as equality, fraternity, ‘positive’ freedom in the sense of general
partici- pation in the control of social affairs, and notions about a
classless society, common ownership and the like, seem to have come to
very little. And these large moral intimations have apparently not
only been held to be irrelevant to the actual course of events: it is
often argued that they have been pernicious in their effects: they
have encouraged colossal blundering, they have blinded men to the
under- standing of their own limitations, to the reality of original
sin (Reinhold Niebuhr’s account of the human situation accords with
many of the other fashionable currents of present-day social thought) ;
they have provided facile justifications for ruthlessness and terror.
44 P. H. PARTRIDGE Michael Polanyi has somewhere argued that the
revolutionary excesses of this century have resulted partly from ‘the
excess of theoretical aspiration over practical wisdom’. Consequently, it
is not hard to find grounds for arguing, as Popper does in effect in The
Open Society and its Enemies, that gradual, piecemeal, ‘experimental’
attack on limited and particular problems, the pragmatic alleviation of
particular evils, is the only rational method of political change.
In a sense, this sort of argument is incontrovertible. Political
ideology has often been mainly faith, myth, superstition, political and
moral dogmatism and fanaticism; when at full flood it has sometimes
produced the most appalling destruction of existing institutions,
traditions, and values. It would indeed be difficult to hold that there
was anything rational about such ideology- impregnated social upheavals:
to say that they are a ‘rational’ way of bringing about desired social
change would be as strange as to say that an earthquake is a good way of
producing a lake. Yet it seems to me that none of these arguments
suffices to dismiss ‘ideological politics’ as an obsolete and irrational
method of social change. They cannot be ‘justified’; but they may be
inevitable in some circumstances; and we may also be able to argue—with
the wisdom of hindsight and from the point of view of historical
determinism— that they were the necessary condition for the production of
certain social changes now accepted as desirable. ‘Justification’ and
‘ration- ality’ are categories applicable only within spheres of social
action and change where calculated choice can be made; they apply
only within the means-end model of social change and explanation.
But could we not argue that there are certain types of social change
which are (or were) desirable changes, but which could not have come
about as a result of rational calculation and piecemeal adjustment, but
only as the short- or long-term consequences of widespread ideological
and even utopian upsurge and agitation? I am aware that in these
very swift remarks I have run together with. nothing like sufficiently
careful definition and discrimination some exceedingly hard questions of
political analysis and theory. And I confess that I do not know how to
prove that phases or periods of intense ideological activity (such as the
activity of the Levellers and the Diggers in the English civil war, or
the ideological ferment that preceded and accompanied the French Revolution,
or the swell of socialist myth-making, moralizing, and social criticism
that grew throughout the nineteenth century) are a necessary lever of
political change, even though they never succeed in bringing about the
results POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 45 that
ideologists believe they are bringing about. But one can argue
negatively. One can argue that the ‘unideological’ politics of adjust-
ment and piecemeal change must necessarily accept limited goals and types
of social change, or again, that the many built-in pressures that support
order and stability, the natural need and desire to go on living the
daily life, operate to sift and narrow the objectives that are likely to
be put on the agenda of responsible politics. (This, in fact, was one of
the stock Marxist arguments against the politics of gradualism and
reform—that the policy of incrementalism or rational calculation will
involve us in accepting as constants certain structural features of the
existing system, and certain moral or ideological elements that are
embedded in that structure.) To put this in another way—in any
given state of society there will be well-established institutions and
habits of moral thinking, which are central in the sense that they
protect important elements, and which operate to limit the objectives,
methods and types of change which are accepted as matters for political
policy and governmental action, so that at any given time that part of
the social structure that is at all generally recognized as subject to
political action and change is always comparatively small. But it is in
relation to what must be called the institutional and ideological
infrastructure that ideological ferment and ideological politics have a
very important function. They have their important effects below the
level of ‘rational’ or program- matic political action, in eroding or
loosening established moral and ideological habits and certainties, in
producing the climate of opinion in which it is ultimately possible for
new sorts of political or social objectives, new forms of social control
and organization, new tech- niques of social action, to be accepted as
parts of the ordinary programmes of political parties.’
However, it is not my intention in this article to embark upona
thorough examination of this question. My comments are simply meant to
illustrate two main points: (a) That recent political scientists
'The only support that one could give to this assertion would be in the form
of extended historical analysis. One would have to show how prolonged
periods of ideological ferment, no matter how ‘utopian’ the ideologies
might have been, ultimately produced important political results in the
form of quite common-place programmes and policies. Examples are the
revolutionary current in France from the late eighteenth century to the
end of the nineteenth, or the nineteenth-century British movement of
utopian socialism. A more extreme, and large-scale, example would be the
rise, spread and ultimate political effects of the great world religions.
There are some interesting remarks about some of the topics I have touched on
in the last few paragraphs in Howard Horsburgh’s article, ‘The Relevance
of the Utopian’ (Ethics, vol. Ixvii, no. 2). 46 P. H.
PARTRIDGE have in fact been raising interesting and important
problems of political theory and their discussion is a continuation of
discussions that have been going on in Western political theory for
centuries. (It is evident that some of the issues raised are very close
to those raised by Burke about the French Revolution or by Marxists in
their controversies with ‘gradualists’ and reformers.) (b) Yet, at the
same time, this example does illustrate an important shift of interest
in recent political speculation. In the democratic countries
practical politics are mainly concerned for the time being with limited
object- ives and adjustments: many political scientists have come to
accept this style of politics as the rational norm for all political
activity: the discounting of ideology has been accompanied by a
scepticism concerning general speculation about the moral issues of
politics, a disposition to assume that thinking about ‘techniques’ alone
qualifies as really rational or practical political thinking.
VI Let me take two other examples. The anti-ideological
trend of so much recent political theory (‘anti-ideological’ both in the
sense of discounting the importance of ideologies in politics, and in the
sense of attacking and debunking political ideologies that have been
very influential) is very plain in much of what is now being said about
the nature of democracy and about the working of democratic
institutions, especially political parties. I will start with
Schumpeter’s brilliant discussion in Capitalism, Socialism and Democracy
which expresses a line of thought and an emphasis which reappears
substantially in later books.’ Schumpeter begins, it will be remembered,
by rejecting ‘The Classical Theory of Democracy’ which he formulates in
this way: “The democratic method is that institutional arrangement for
arriving at political decisions which realizes the common good by making
the people itself decide issues through the election of individuals who
are to assemble in order to carry out its will.’ He rejects this view
because it involves assumptions and concepts about non-existents—a common
good, a popular will, &c. He goes on to expound and defend ‘Another
Theory of Democracy’ of which the formula is: ‘The democratic method
is that institutional way for arriving at political decisions in
which individuals acquire the power to decide by means of a
competitive struggle for the people’s vote.’ ‘For example,
Dahl’s Preface to Democratic Theory and Down’s An Economic Theory of Government
Decision-Making in a Democracy. POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY
47 Obviously, this involves a very different notion of the
functions of the ‘elements’ in a democratic system and the relations
between them. The leaders of the political parties decide, not ‘the
people’. It is the more or less organized groups of men competing for
power who have the initiative and supply the political drive: ‘so far as
there are genuine group-wise volitions at all... [they] do not assert
them- selves directly... | but} remain latent, often for decades, until
they are called to life by some political leader who turns them into
political factors’ (p. 270, 2nd edition). Policies and programmes are to
be viewed as weapons employed in the competition for office, taken
up or discarded according as they help or prejudice the party’s
compet- itive position; some question will become an ‘jssue’ in politics
when a leader or party judges it to be ‘a good horse to back’. And a
political party ‘is a group whose members propose to act in concert in
the competitive struggle for political power’ (p. 283).' A
model like Schumpeter’s is not to be criticized for being un- realistic.
Any model involves selection and simplification: it is to be judged by
its capacity to explain (and perhaps predict) the facts itis intended to
explain. No doubt we could explain within the limits of Schumpeter’s
assumptions a great many of the political events ofa democratic state.
Nevertheless, I want to comment on a couple of the interesting features
of his simplification. In the first place, his model places heavy
emphasis on manipulation and leadership—on the making and propagating of
policy—and its tendency is to draw attention away from the ‘infrastructure’.
I do not. intend to imply that he would deny the importance of the
infrastructure; nevertheless, it is important to be quite explicit that
this special emphasis is there. Now, if we like, we may apply the
word ‘politics’ to one level of activity only—to the level where policy
operates, where individuals and groups more or less explicitly and
deliberately seek adjustments and arrangements of their particular
interests and activities. But, if we define the political in this way, it
is very important to remember that the range of the political is always
oscillating, and may at times oscillate somewhat violently.? And for
Schumpeter to say that ‘so far ‘$0 also Downs, on Economic Theory
and Democracy, p. 28: ‘parties formulate policies in order to win
elections, rather than win elections in order to formulate policies’.
This is described as ‘the fundamental hypothesis of our model’.
2It seems to me that recent political science has suffered from
concentrating so heavily on the study of short-term political events
(e.g. the study of the single election), on the act of decision-making’,
on ‘bargaining models’ and so on. This may have had advantages from the
point of view of concreteness, empirical exactness and rigour. 48
P. H. PARTRIDGE as there are genuine group-wise volitions at all .
. . they do not assert themselves directly... but remain latent often for
decades until they are called to life by some political leader who turns
them into political factors’ is to be guilty of a very considerable
over-simplifica- tion. It is true, of course, that this is how things
often happen; political leaders formulate policies which are not
formulated by other social groups; they crystallize or focus attitudes or
demands that would otherwise remain uncrystallized; they may propose
solutions that no one else has proposed. But to leave the matter there
would be to postulate a gap between the politician (and the political
party) and other social organizations which may be wider in some
societies than in others, but which is not an invariable feature of all
democracies. The party politician who appears in the political theory of
Schumpeter and many other present-day political theorists is an
abstraction. In ‘real life’ not all politicians are members only of a political
party, or committed only to the success of a party (as ‘success’ is
defined in the sort of model I am discussing). They are often also
members of other social organizations; and very often they may be said to
belong to a movement—and a movement is a social as well as a political
pheno- menon, and something it would be difficult to define except (at
least partly) by reference to doctrine. Now it is a matter of
common observation that politicians are very often in the grip of a
conflict between the beliefs or interest of their organizations or
movements and of their party. And how they act in the end will not always
be explicable solely by reference to the conditions of party success in
the competition for power. Moreover, democratic societies differ from one
another as regards the latitude for manoeuvre that parties enjoy. Within
the one society there is an oscillation over time: the relations between
parties and ‘society’ change, and there are occasions when the impact of
demands, or of more general social and political ideas generated within
social movements or organizations, upon the life and actions of parties
is much greater than at others.! This being so, the model of
democratic But it has brought about a very drastic abstraction
from a great deal of political reality. Rostow, it will be remembered, in
his British Economy in the Nineteenth Century suggests an outline of the
relations between economic change and political action. His schema
involves two inter-related tripartite divisions: one between long term,
trend or medium term, and short-term economic processes, the other a
division between economy, society and politics; his suggestions
concerning the different ways in which the three types of economic change
operate at the political level could be profitably explored further by
political theorists. ‘And sometimes a difference as regards the
current ‘issues’ of politics: as regards some issues, a party may have no
alternative but to obey pressure ‘from below’; POLITICS,
PHILOSOPHY, IDEOLOGY 49 politics which Schumpeter proposes will be
helpful for explanation only in certan cases. And, even with this
limitation, it is more likely to be helpful in the understanding of
short-term runs of political decisions than in the understanding of a
long-term direction of political change. This, then, is the
kind of emphasis and selection which the now fashionable Schumpeterian
model of democracy contains. It is relatively uninterested in the
important Marxian notion of ‘shifts in the foundation’ or infrastructure
and their long-run political effects; or, if we may use a different
image, it largely ignores the series of concentric circles within which,
in some societies and at some times, the generation of social attitudes,
ideas, and ideologies takes place. Perhaps the most important point I
want to make is that these circles oscillate as conditions change: they
grow wider or narrower, as regards both the range of social institutions
or conditions which become subjects of social questioning and
idea-making, and the numbers of those who are to some degree caught up in
social criticism.! One thing that may be said about
Schumpeter’s account is that it tends to stress the specialized and
professional character of political activity; that its intention and
effect is one of ideological deflation. And this brings me to the other
comment I wish to make about his theory. Most of the so-called theories
of democracy in the history of political thought have been primarily
normative or prescriptive. as regards others, it may be able to
play the electoral market in the manner Schumpeter describes.
‘In his review of de Jouvenel’s Sovereignty in World Politics to which I
have already referred, Dahl employs this concept of oscillation in
speculating about the nature of democratic ‘consensus’. His point, of
course, is very closely related to mine. It would be a legitimate comment
that Schumpeter does not pretend to be providing a model of any political
system but only of democratic systems. And he might argue—indeed, there
are plain indications that he would argue—that a democratic system will
operate successfully (in the sense of maintaining over a long period its
character or structure) only if conditions are as I have described them,
in particular, only if the range of matters that come up for political
decision and action remains narrow. This is now, of course, a widely-held
view; one aspect of the reaction against socialist ideologies, or against
notions of ‘holistic’ planning, is the argument that democracy is a
method and system of government which requires as a condition that ‘the
effective range of political decision should not be extended too far’
(Schumpeter). It is dubious whether this particular hypothesis can be
given any hard meaning: what I have already said about the way in which
consensus oscillates suggests that how much a government can do and get
away with—or a party propose and get away with—will be affected by many
different conditions which are far from being stable. However, it will be clear
that this particular theory about democracy is closely allied with
Shils’s account of the nature of ‘civil society’ to which I referred
earlier. 50 P. H. PARTRIDGE One important strain of
democratic thought has connected demo- cracy with the enlargement and
greater equalization of opportunities for participating in the control or
management of common affairs for sharing effective social responsibility.
On this view, part of the task of a theory of democracy would be to
investigate the means by which self-government or participation in the
direction of affairs could be more widely extended. Mill puts very
succinctly what has been a pretty constant problem and theme in the
growth of democratic theory: ‘A democratic constitution not supported by
democratic institutions in detail, but confined to the central
government, not only is not political freedom, but often creates a spirit
precisely the reverse, carrying down to the lowest grade in society the
desire and ambition of political domination.’ This is not only succinct,
but also percep- tive—as the post-Millian growth of party discipline and
party machines, of political bosses, and of publicity agents and carefully
managed publicity campaigns remind us. Perhaps there is no logical
incompatibility between this and the Schumpeterian model; one might, for
instance, say that Schumpeter is specifying the minimum conditions of
democracy at the level of central government, and that his specification
is not affected by how much or how little decentralization and
diversification of control there might be down below. But I doubt it. I
suspect that the more the two positions were developed, the more
theoretical conflict would become apparent. On Schumpeter’s view, it is
the function of political parties to compete for votes by raising issues
and proposing policies; it is the function of the public to express a
preference between competing leaders and would-be governments. He appears
to be saying that so far as democracy is concerned, this is not merely
how democratic systems happen to work now, but that it is the most that
can be expected. In effect, his model has a normative or prescriptive
ring about it; and this is the more so when it is examined in the
contextin which he places it, viz. the rejection of the ‘classical theory
of democracy’ with its very different conception of the meaning of
self- government and of individual political participation and
respons- ability. My second example is Dahl’s model in
Preface to Democratic Theory. This differs a little from Schumpeter’s in
that Dahl assigns a less prominent place to parties and the electoral
competition and a more prominent place to organized minorities and
pressure groups. He warns us against attributing too rich a function to
elections; in his view, the main function of elections in the democratic
system is that POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 51 they
extend the range of the minorities which exert an influence on
governmental decisions. According to Dahl, democracy is neither»
rule by the majority nor rule by a minority, but rule by minorities.
‘Thus the making of governmental decisions is not a majestic march of
great majorities united on certain matters of basic policy. It is
the steady appeasement of relatively small groups’ (p. 146). (Dahl
at least has it in common with Schumpeter that he rejects the
majority and anything that smacks of the notion of the general
will.) One might say that Dahl’s assertion is just not true
as a universal proposition; that there are not a few occasions and issues
on which a majority does form and exert its influence. Recent political
theory has no doubt gained in getting rid of loose and muddled concepts
like ‘the general will’ and the “common good’, and uncriticized,
question- begging ones like ‘the majority’; but it is another matter
whether it is fortunate in what it has substituted. In Dahl (and in the
whole tribe of ‘pressure group’ analysts) the emphasis falls heavily on
the notion of the determinate, relatively ‘given’, or impermeable,
minority or group, possessing its own clear and determinate interests
which have to be attended to by parties and governments. This, no one
will want to deny, is one sub-system within the very complex system of
democratic politics; but it exists in interplay with other sub- systems,
including the interaction of interests, institutions, movements, ways of
life within a process of general influence, and ‘discussion’ (if I may
fall back on one of the governing conceptions of older theorists of
democracy), and the resulting slow spread of general attitudes or bodies
of belief which certainly affect the course of politics in the long run.
In rejecting the categories and assumptions of the older philosophical
idealists and monists, some of the more recent school of pluralists have
tended to play down the social processes by means of which some sort of
common deno- minator of sentiment and idea is created within a society,
pro- cesses which are undoubtedly important for politics, and which
their idealist predecessors rightly took to be pretty central for
political theory, even if they misrepresented or unduly magnified them.
In an earlier section I illustrated the general reaction against
ideology which has marked recent political and sociological thought.
Correspondingly, then, in some recent democratic theory there has been an
undermining of versions of democratic ideology which have been very
prominent until quite recently. 52 P. H. PARTRIDGE
VII I have already explained that it is not my object to examine
the theoretical strength of the views I have been considering. My
main object has been to draw attention to some very common
characteristics of recent political thought with a view to explaining the
widely shared impression that political theory or political philosophy
has lost its inspiration. If we take the work of such writers as
Schumpeter and Dahl, it is absurd to say that the energy or the rigour of
political theorizing have declined; on the contrary, it has acquired .an
analytical thoroughness and sharpness, a closeness in argument, that is
pretty new. But what this more recent work does show is a narrowing of
moral interests and expectations, a dismissal of wider notions of
equality, freedom, participation, &c.,! and, accompanying this, the
tendency to be most interested in the existing machinery of democratic
systems. This is not simply a matter of science replacing the more
philosophical interest in principles, values, or objectives. The ambition
to lay the foundations of an empirical science of politics is no doubt a
very important intellectual influence; but the present tren. 1s also
critical: it expresses an ideological or philosophical standpoint of its
own, an inclination to accept as inevitable, or at least as more rational
than any alternative, the broad types of organization, the distribution
of rights and roles, the methods of adjusting existing interests, which
have by now come to define democracy in the Anglo-Saxon democracies. In
short, as I have said before, the current feeling that there is no very
persuasive alternative to the prevailing methods and orthodoxies of
Anglo- American democracy is at least one of the reasons for the
shortcomings (if shortcomings they are) of contemporary political
theory. ‘Instead of illustrating my general thesis by dealing with
recent theories of demo- cracy, I might have taken recent writing about
liberty, one striking feature of which has been an emphasis on the value
or importance of ‘negative freedom’ and the distrust of notions of
‘positive freedom’. Berlin’s Two Concepts of Liberty is quite typical in
this respect. Berlin’s way of reviewing somewhat indiscriminately many
different concepts of ‘positive freedom’, ranging from the special views
of Hegel to much more prosaic attempts to connect liberty with the
exercise of political initiative, is surprising and questionable; all the
same, in his sensitiveness to the possibly illusory and dangerous
character of ideas of ‘positive freedom’, he is very much in tune with his
time. Ona different point: the trend of thought I describe in the text is
not of course entirely novel, as readers of Michels’s Political Parties
will be well aware; the argument between the oe of a radical democratic
ideology and those who insist upon the hard logic of social organization
has been going on for some time. Whatis perhaps character- istic of more
recent years is the unusual weakness of the strain of moral criticism and
speculation. 8 ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS?! H. L. A.
HART it follows that there is at least one natural right, the
equal right of all men to be free. By saying that there is this
right, I mean that in the absence of certain special conditions which are
consistent with the right being an equal right, any adult human being
capable of choice (1) has the right to forbearance on the part of all
others from the use of coercion or restraint against him save to hinder
coercion or re- straint and (2) is at liberty to do (i.e., is under no
obligation to abstain from) any action which is not one coercing or
restraining or designed to injure other persons.’ I have two
reasons for describing the equal right of all men to be free as a natural
right; both of them were always emphasized by the classical theorists of
natural rights. (1) This right is one which all men have if they are
capable of choice: they have it qua men and not only if they are members
of some society or stand in some special relation to each other. (2) This
right is not created or conferred by From Philosophical Review,
Vol. 64 (1955), pp. 175-91- Reprinted by permission of the author and the
Philosophical Review. 1] was first stimulated to think along these
lines by Mr. Stuart Hampshire, and I have reached by different routes a
conclusion similar to his. ?Further explanation of the perplexing
terminology of freedom is, I fear, necessary. Coercion includes, besides
preventing a person from doing what he chooses, making his choice less
eligible by threats; restraint includes any action designed to make the
exercise of choice impossible and so includes killing or enslaving a
person. But neither coercion nor restraint includes competition. In terms
of the distinction between ‘having a right to’ and ‘being at liberty to’,
used above and further dis- cussed in Section I, B, all men may have,
consistently with the obligation to forbear from coercion, the Liberty to
satisfy if they can such at least of their desires as are not designed to
coerce or injure others, even though in fact, owing to scarcity, one
man’s satisfaction causes another’s frustration. In conditions of extreme
scarcity this distinction between competition and coercion will not be
worth drawing; natural rights are only of importance ‘where peace is
possible’ (Locke). Further, freedom (the absence of coercion) can be
valueless to those victims of unrestricted competition too poor to make
use of it; so it will be pedantic to point out to them that though
starving they are free. This is the truth exaggerated by the Marxists
whose identification of poverty with lack of freedom confuses two different
evils. 54 H. L. A. HART men’s voluntary action; other
moral rights are.' Of course, it is quite obvious that my thesis is not
as ambitious as the traditional theories of natural rights; for although
on my view all men are equally en- titled to be free in the sense
explained, no man has an absolute or unconditional right to do or not to
do any particular thing or to be treated in any particular way; coercion
or restraint of any action may be justified in special conditions
consistently with the general prin- ciple. So my argument will not show
that men have any right (save the equal right of all to be free) which is
‘absolute’, ‘indefeasible’, or ‘imprescriptble’. This may for many reduce
the importance of my contention, but I think that the principle that all
men have an equal right to be free, meagre as it may seem, is probably
all that the poli- tical philosophers of the liberal tradition need have
claimed to support any programme of action even if they have claimed
more. But my contention that there is this one natural right may appear
unsatis- fying in another respect; it is only the conditional assertion
thati/there are any moral rights then there must be this one natural
right. Perhaps few would now deny, as some have, that there are moral rights;
for the point of that denial was usually to object to some philosophical
claim as to the ‘ontological status’ of rights, and this objection is
now expressed not as a denial that there are any moral rights but as
a denial of some assumed logical similarity between sentences used
to assert the existence of rights and other kinds of sentences. But it
is still important to remember that there may be codes of conduct
quite properly termed moral codes (though we can of course say they
are ‘imperfect’) which do not employ the notion of a right, and there
is nothing contradictory or otherwise absurd in a code or morality
con- sisting wholly of prescriptions or ina code which prescribed only
what should be done for the realization of happiness or some ideal of
per- sonal perfection.?, Human actions in such systems would be
evaluated or criticized as compliances with prescriptions or as good or
bad, night or wrong, wise or foolish, fitting or unfitting, but no one in
sucha system would have, exercise, or claim rights, or violate or
infringe them. So those who lived by such systems could not of course
be ‘Save those general rights (cf. Section II, B) which are
particular exempli- fications of the right of all men to be free.
7Is the notion of a right found in either Plato or Aristotle? There
seems to be no Greek word for it as distinct from ‘right’ or ‘just’
(Stxaiov), thought expressions like ta tua Sixava are I believe
fourth-century legal idioms. The natural ex- pressions in Plato are 16
éavrov (éxew) or ta tiwi ddetAdueva, but these seem confined to property
or debts. There is no place for a moral right unless the moral value of
individual freedom is recognized. ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS?
55 committed to the recognition of the equal right of all to be
free; nor, 1 think (and this is one respect in which the notion of a
right differs from other moral notions), could any parallel argument be
con- structed to show that, from the bare fact that actions were recognized
as ones which ought or ought not to be done, as right, wrong, good or
bad, it followed that some specific kind of conduct fell under these
categories. I (A) Lawyers have for their own purposes
carried the dissection of the notion of a legal right some distance, and
some of their results! are of value in the elucidation of statements of
the form ‘X has a right to...’ outside legal contexts. There is of course
no simple identification to be made between moral and legal rights, but
there is an intimate connexion between the two, and this itself is
one feature which distinguishes a moral right from other
fundamental moral concepts. It is not merely that as a matter of fact men
speak of their moral rights mainly when advocating their incorporation in
a legal system, but that the concept of a right belongs to that
branch of morality which is specifically concerned to determine when
one person’s freedom may be limited by another’s? and so to
determine what actions may appropriately be made the subject of
coercive legal rules. The words ‘droit’, ‘diritto’, and ‘Recht’, used by
con- tinental jurists, have no simple English translation and seem
to English jurists to hover uncertainly between law and morals, but
they do in fact mark off an area of morality (the morality of law)
which has special characteristics. It is occupied by the concepts of
justice, fairness, rights, and obligation (if this last is not used as it
is by many moral philosophers as an obscuring general label to cover
every action that morally we ought to do or forbear from doing). The
most important common characteristic of this group of moral concepts
is that there is no incongruity, but a special congruity in the use
of 1As W. D. Lamont has seen: cf. his Principles of Moral
Judgement (Oxford, 1946); for the jurists, cf. Hohfeld’s Fundamental
Legal Conceptions (New Haven, 1923). 2Here and subsequently I use
‘interfere with another’s freedom’, ‘limit an- other’s freedom’,
‘determine how another shall act’, to mean either the use of ccercion or
demanding that a person shall do or not do some action. The connexion
between these two types of ‘interference’ is too complex for discussion here;
I think it is enough for present purposes to point out that having a
justification for demanding that a person shall or shall not do some
action is a necessary though not a sufficient condition for justifying
coercion. 56 H. L. A. HART force or the threat of
force to secure that what is just or fair or some- one’s right to have
done shall in fact be done; for it is in just these circumstances that
coercion of another human being is legitimate. Kant, in the Rechtslehre,
discusses the obligations which arise in this branch of morality under
the title of officia juris, ‘which do not require that respect for duty
shall be of itself the determining principle of the will’, and contrasts
them with officia virtutis, which have no moral worth unless done for the
sake of the moral principle. His point is, I think, that we must distinguish
from the rest of morality those principles regulating the proper
distribution of human freedom which alone make it morally legitimate for
one human being to determine by his choice how another should act; and a
certain specific moral value is secured (to be distinguished from moral
virtue in which the good will is manifested) if human relationships are
conducted in accordance with these principles even though coercion has to
be used to secure this, for only if these principles are regarded will
free- dom be distributed among human beings as it should be. And it is
I think a very important feature of a moral right that the possessor
of it is conceived as having a moral justification for limiting the
freedom of another and that he has this justification not because the
action he is entitled to require of another has some moral quality but
simply because in the circumstances a certain distribution of human
freedom will be maintained if he by his choice is allowed to determine
how that other shall act. (B) I can best exhibit this feature
of a moral right by reconsidering the question whether moral rights and
‘duties’! are correlative. The contention that they are means,
presumably, that every statement of the form ‘X has a right to...’
entails and is entailed by ‘Y has a duty (not) to ...’, and at this stage
we must not assume that the values of the name-variables “X’ and ‘Y’ must
be different persons. Now there is certainly one sense of ‘a right’
(which J have already mentioned) such that it does not follow from X’s
having a right that X or someone else has any duty. Jurists have isolated
rights in this sense and have re- ‘1 write ‘duties’ here because
one factor obscuring the nature of a right is the philosophical use of
‘duty’ and ‘obligation’ for all cases where there are moral reasons for
saying an action ought to be done or not done. In fact ‘duty’,
‘obligation’, ‘right’, and ‘good’ come from different segments of
morality, concern different types of conduct, and make different es of
moral criticism or evaluation. Most important are the points (1) that
obligations may be voluntarily incurred or created, (2) that they are
owed to special persons (who have rights), (3) that they do not arise out
of the character of the actions which are obligatory but out of
the relationship of the parties. Language roughly though not consistently
confines the use of ‘having an obligation’ to such cases.
ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 57 ferred to them as ‘liberties’ just
to distinguish them from rights in the centrally important sense of
‘right’ which has ‘duty’ as a correlative. The former sense of ‘right’ is
needed to describe those areas of social life where competition is at
least morally unobjectionable. Two people walking along both see a ten-dollar
bill in the road twenty yards away, and there is no clue as to the owner.
Neither of the two are under a ‘duty’ to allow the other to pick it up;
each has in this sense a right to pick it up. Of course there may be many
things which each has a ‘duty’ not to do in the course of the race to the
spot— neither may kill or wound the other—and corresponding to
these ‘duties’ there are rights to forbearances. The moral propriety of
all economic competition implies this minimum sense of ‘a right’ in
which to say that ‘X has a right to’ means merely that X is under no
‘duty’ not to. Hobbes saw that the expression ‘a right’ could have this
sense but he was wrong if he thought that there is no sense in which it
does folluw from X’s having a right that Y has a duty or at any rate an
obligation. (C) More important for our purpose is the question
whether for all moral ‘duties’ there are correlative moral rights,
because those who have given an affirmative answer to this question have
usually assumed without adequate scrutiny that to have a right is
simply to be capable of benefiting by the performance of a ‘duty’;
whereas in fact this is not a sufficient condition (and probably not a
necessary condition) of having a right. Thus animals and babies who stand
to benefit by our performance of our ‘duty’ not to ill-treat them
are said therefore to have rights to proper treatment. The full
consequence of this reasoning is not usually followed out; most have
shrunk from saying that we have rights against ourselves because we stand
to bene- fit from our performance of our ‘duty’ to keep ourselves alive
or develop our talents. But the moral situation which arises from a
promise (where the legal-sounding terminology of rights and obli- gations
is most appropriate) illustrates most clearly that the notion of having a
right and that of benefiting by the performance of a ‘duty’ are not
identical. X promises Y in return for some favour that he will look after
Y’s aged mother in his absence. Rights arise out of this transaction, but
it is surely Y to whom the promise has been made and not his mother who
has or possesses these rights. Certainly Y’s mother is a person
concerning whom X has an obligation and a person who will benefit by its
performance, but the person ¢o whom he has an obli- gation to look after
her is Y. This is something due to or owed to Y, so it is Y, not his
mother, whose right X will disregard and to whom 58 H. L. A.
HART X will have done wrong if he fails to keep his promise,
though the mother may be physically injured. And it is Y who has a moral
claim upon X, is entitled to have his mother looked after, and who can
waive the claim and release Y from the obligation. Y is, in other words,
morally in a position to determine by his choice how X shall act and in
this way to limit X’s freedom of choice; and it is this fact, not the
fact that he stands to benefit, that makes it appropriate to say that he
has a nght. Of course often the person to whom a promise has been made
will be the only person who stands to benefit by its per- formance, but
this does not justify the identification of ‘having a right’ with
‘benefiting by the performance of a duty’. It is important for the whole
logic of rights that, while the person who stands to benefit by the
performance of a duty is discovered by considering what will happen if
the duty is not performed, the person who has a right (to whom
performance is owed or due) is discovered by examining the transaction or
antecedent situation or relations of the parties out of which the ‘duty’
arises. These considerations should incline us not to extend to animals
and babies whom it is wrong to ill-treat the notion of a right to proper
treatment, for the moral situation can be simply and adequately described
here by saying that it is wrong or that we ought not to ill-treat them
or, in the philosopher’s generalized sense of ‘duty’, that we have a duty
not to ill-treat them.! If common usage sanctions talk of the rights of
animals or babies it makes an idle use of the expression ‘a right’, which
will confuse the situation with other different moral situations where
the expression ‘a right’ hasa specific force and cannot be replaced by
the other moral expressions which I have mentioned. Perhaps some clarity
on this matter is to be gained by considering the force of the
preposition ‘to’ in the ex- pression ‘having a duty to Y’ or ‘being under
an obligation to Y (where ‘Y’ is the name of a person); for it is
significantly different from the meaning of ‘to’ in ‘doing something to
Y’ or ‘doing harm to Y’, where it indicates the person affected by some
action. In the first pair of expressions, ‘to’ obviously does not have
this force, but indicates the person to whom the person morally bound
is bound. This is an intelligible development of the figure of a
bond (vinculum juris : obligare); the precise figure is not that of two
persons bound by a chain, but of one person bound, the other end of the
chain lying in the hands of another to use if he chooses.? So it
appears 'The use here of the generalized ‘duty’ is apt to prejudice
the question whether animals and babies have rights. 2Cf. A.
H. Campbell, The Structure of Statr’s Institutes (Glasgow, 1954), p. 31-
ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 59 absurd to speak of having
duties or owing obligations to ourselves— of course we may have ‘duties’
not to do harm to ourselves, but what could be meant (once the
distinction between these different meanings of ‘to’ has been grasped) by
insisting that we have duties or obligations to ourselves not to do harm
to ourselves? (D) The essential connexion between the notion of a
right and the justified limitation of one person’s freedom by another may
be thrown into relief if we consider codes of behaviour which do
not purport to confer rights but only to prescribe what shall be
done. Most natural law thinkers down to Hooker conceived of natural
law in this way: there were natural duties compliance with which
would certainly benefit man—things to be done to achieve man’s
natural end—but not natural rights. And there are of course many types
of codes of behaviour which only prescribe what is to be done,
e.g., those regulating certain ceremonies. It would be absurd to
regard these codes as conferring rights, but illuminating to contrast
them with rules of games, which often create rights, though not, of
course, moral rights. But even a code which is plainly a moral code need
not establish rights; the Decalogue is perhaps the most im- portant
example. Of course, quite apart from heavenly rewards human beings stand
to benefit by general obedience to the Ten Commandments: disobedience is
wrong and will certainly harm in- dividuals. But it would be a surprising
interpretation of them that treated them as conferring rights. In such an
interpretation obedience to the Ten Commandments would have to be
conceived as due to or owed to individuals, not merely to God, and
disobedience not merely as wrong but as a wrong to (as well as harm to)
individuals. The Commandments would cease to read like penal statutes
designed only to rule out certain types of behaviour and would have to
be thought of as rules placed at the disposal of individuals and
regulating the extent to which they may demand certain behaviour from
others. Rights are typically conceived of as possessed or owned by or
belonging to individuals, and these expressions reflect the conception of
moral rules as not only prescribing conduct but as forming a kind of
moral property of individuals to which they are as individuals
entitled; only when rules are conceived in this way can we speak of
rights and wrongs as well as right and wrong actions.’
‘Continental jurists distinguish between ‘subjektives’ and ‘objektives Recht’,
which parpesponde very well to the distinction between a right, which an
individual] has, and what it is right to do. 60 H. L. A.
HART I So far I have sought to establish that to have
a right entails having a moral justification for limiting the freedom of
another person and for determining how he should act; it is now important
to see that the moral justification must be of a special kind if it is to
constitute a right, and this will emerge most clearly from an examination
of the circumstances in which rights are asserted with the typical
ex- pression ‘I have a right to... ’. It is I think the case that this
form of words is used in two main types of situations: (A) when the
claimant has some special justification for interference with another’s
freedom which other persons do not have (‘J have a right to be paid what
you promised for my services’); (B) when the claimant is concerned to
resist or object to some interference by another person as having
no justification (‘7 have a right to say what I think’). (A)
Special rights. When rights arise out of special transactions between
individuals or out of some special relationship in which they stand to
each other, both the persons who have the right and those who have the
corresponding obligation are limited to the parties to the special
transaction or relationship. I call such rights special rights to
distinguish them from those moral rights which are thought of as rights
against (i.e., as imposing obligations upon)! everyone, such as those that
are asserted when some unjustified interference is made or threatened as
in (B) above. (i) The most obvious cases of special rights are
those that arise from promises. By promising to do or not to do
something, we voluntarily incur obligations and create or confer rights
on those to whom we promise; we alter the existing moral independence of
the parties’ freedom of choice in relation to some action and
create a new moral relationship between them, so that it becomes
morally legitimate for the person to whom the promise is given to
determine how the promisor shall act. The promisee has a temporary
authority or sovereignty in relation to some specific matter over the
other’s will which we express by saying that the promisor is under
an obligation to the promisee to do what he has promised. To some
philosophers the notion that moral phenomena—rights and duties or
obligations—can be brought into existence by the voluntary action of
individuals has appeared utterly mysterious; but this I think has been so
because they have not clearly seen how special the moral notions of a
right and an obligation are, nor how peculiarly they are 1 Cf
Section (B} below. ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 61
connected with the distribution of freedom of choice; it would indeed be
mysterious if we could make actions morally good or bad by voluntary
choice. The simplest case of promising illustrates two points
characteristic of all special rights: (1) the right and obligation arise
not because the promised action has itself any particular moral quality,
but just because of the voluntary trans- action between the parties; (2)
the identity of the parties concerned is vital—only this person (the
promisee) has the moral justification for determining how the promisor
shall act. It is his right; only in relation to him is the promisor’s
freedom of choice diminished, so that if he chooses to release the
promisor no one else can complain. (ii) But a promise is not the only
kind of transaction whereby rights are conferred. They may be accorded by
a person consenting or authorizing another to interfere in matters which
but for this consent or authorization he would be free to determine for
himself. If I consent to your taking precautions for my health or
happiness or authorize you to look after my interests, then you have a
right which others have not, and I cannot complain of your interference
if it is within the sphere of your authority. This is what is meant
bya person surrendering his rights to another; and again the
typical characteristics of a right are present in this situation: the
person authorized has the right to interfere not because of its
intrinsic character but because these persons have stood in this
relationship. No one else (not similarly authorized) has any mght' to
interfere in theory even if the person authorized does not exercise his
right. (iii) Special rights are not only those created by the
deliberate choice of the party on whom the obligation falls, as they are
when they are accorded or spring from promises, and not all obligations
to other persons are deliberately incurred, though I think it is true
of all special rights that they arise from previous voluntary
actions. A third very important source of special rights and obligations
which we recognize in many spheres of life is what may be termed
mutuality of restrictions, and I think political obligation is
intelligible only if we see what precisely this is and how it differs
from the other right- creating transactions (consent, promising) to which
philosophers have assimilated it. In its bare schematic outline-it is
this: when a number of persons conduct any joint enterprise according to
rules and thus restrict their liberty, those who have submitted to
these restrictions when required have a right to a similar submission
from those who have benefited by their submission. The rules may
provide ' Though it may be better (the lesser of two evils) that he
should: cf. p. 62 below. 62 H. L. A. HART that
officials should have authority to enforce obedience and make further
rules, and this will create a structure of legal rights and duties, but
the moral obligation to obey the rules in such circumstances is due to
the co-operating members of the society, and they have the correlative
moral right to obedience. In social situations of this sort (of which
political society is the most complex example) the obligation to obey the
rules is something distinct from whatever other moral reasons there may
be for obedience in terms of good consequences (e.g., the prevention of
suffering); the obligation is due to the co-operating members of the
society as such and not because they are human beings on whom it would be
wrong to in- flict. suffering. The utilitarian explanation of political
obligation fails to take account of this feature of the situation both in
its simple version that the obligation exists because and only if
the direct consequences of a particular act of disobedience are
worse than obedience, and also in its more sophisticated version that
the obligation exists even when this is not so, if disobedience
increases the probability that the law in question or other laws will be
dis- obeyed on other occasions when the direct consequences of
obedience are better than those of disobedience. Of course to
say that there is such a moral obligation upon those who have benefited
by the submission of other members of society to restrictive rules to
obey these rules in their turn does not entail either that this is the
only kind of moral reason for obedience or that there can be no cases
where disobedience will be morally justified. There is no contradiction
or other impropriety in saying ‘I have an obligation to do X, someone has
a right to ask me to, but I now see I ought not to do it’. It will in
painful situations sometimes be the lesser of two moral evils to
disregard what really are people’s rights and not perform our obligations
to them. This seems to me parti- cularly obvious from the case of
promises: I may promise to do some- thing and thereby incur an obligation
just because that is one way in which obligations (to be distinguished
from other forms of moral reasons for acting) are created; reflection may
show that it would in the circumstances be wrong to keep this promise
because of the suf- fering it might cause, and we can express this by
saying ‘J ought not to do it though J have an obligation to him to do it’
just because the italicized expressions are not synonyms but come from
different dimensions of morality. The attempt to explain this situation
by saying that our real obligation here is to avoid the suffering
and that there is only a prima facie obligation to keep the promise
seems ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 63 to me to
confuse two quite different kinds of moral reason, and in practice such a
terminology obscures the precise character of what is at stake when ‘for
some greater good’ we infringe people’s rights or do not perform our
obligations to them. The social-contract theorists rightly fastened
on the fact that the obligation to obey the law is not merely a special
case of bene- volence (direct or indirect), but something which arises
between members of a particular political society out of their mutual
relation- ship. Their mistake was to identify this right-creating
situation of mutual restrictions with the paradigm case of promising;
there are of course important similarities, and these are just the points
which all special rights have in common, viz., that they arise out of
special relationships between human beings and not out of the character
of the action to be done or its effects. (iv) There remains a
type of situation which may be thought of as creating rights and
obligations: where the parties have a special natural relationship, as in
the case of parent and child. The parent’s moral right to obedience from
his child would I suppose now be thought to terminate when the child
reaches the age ‘of discretion’, but the case is worth mentioning because
some political philosophies have had recourse to analogies with this case
as an explanation of political obligation, and also because even this
case has some of the features we have distinguished in special rights,
viz., the right arises out of the special relationship of the parties
(though it is in this case a natural relationship) and not out of the
character of the actions to the performance of which there is a
right. (v) To be distinguished from special rights, of course, are
special liberties, where, exceptionally, one person is exempted from
obli- gations to which most are subject but does not thereby acquire a
nght to which there is a correlative obligation. If you catch me
reading your brother’s diary, you say, ‘You have no right to read itv’. I
say, ‘I have a right to read it—your brother said I might unless he told
me not to, and he has not told me not to’. Here I have been
specially licensed by your brother who had a right to require me not to
read his diary, so lam exempted from the moral obligation not to read
it, but your brother is under no obligation to let me go on reading
it. Cases where rights, not liberties, are accorded to manage or
inter- fere with another person’s affairs are those where the licence is
not revocable at will by the person according the right. (B)
General rights. In contrast with special rights, which constitute a
justification peculiar to the holder of the right for interfering
64 H. L. A. HART with another’s freedom, are general rights, which
are asserted defen- sively, when some unjustified interference is
anticipated or threatened, in order to point out that the interference is
unjustified. ‘I have the right to say what I think’.! ‘I have the right
to worship as I please’. Such rights share two important characteristics
with special rights. (1) To have them is to have a moral justification
for determining how another shall act, viz., that he shall not
interfere.? (2) The moral justification does not arise from the character
of the particular action to the performance of which the claimant has a
right; what justifies the claim is simply—there being no special relation
between him and those who are threatening to interfere to justify that
interference— that this is a particular exemplification of the equal
right to be free. But there are of course striking differences between
such defensive general rights and special rights. (1) General rights do
not arise out of any special relationship or transaction between men. (2)
They are not rights which are peculiar to those who have them but are
rights which all men capable of choice have in the absence of those
special conditions which give rise to special rights. (3) General rights
have as correlatives obligations not to interfere to which everyone else
is subject and not merely the parties to some special relationship
or transaction, though of course they will often be asserted when
some particular persons threaten to interfere as a moral objection to
that interference. To assert a general right is to claim in relation to
some particular action the equal right of all men to be free in the
absence of any of those special conditions which constitute a special
right to limit another’s freedom; to assert a special right is to assert
in relation to some particular action a right constituted by such
special conditions to limit another’s freedom. The assertion of general
rights directly invokes the principle that all men equally have the right
to be free; the assertion of a special right (as I attempt to show
in Section III) invokes it indirectly. 1In speech the
difference between general and special rights if often marked by
stressing the pronoun where a special right is claimed or where the special!
right is denied. ‘You have no right to stop him reading that book’ refers
to the reader’s general right. ‘You have no right to stop him
reading that book’ denies that the person addressed has a special right
to interfere though others may have. ?Strictly, in the assertion
of a general right both the right to forbearance from coercion and the
iberty to do the specified action are asserted, the first in the face of
actual or threatened coercion, the second as an objection to an actual or
anti- cipated demand that the action should not be done. The first has as
its correlative an obligation upon everyone to forbear from coercion; the
second the absence in any one of a justification for such a demand. Here,
in Hohfeld’s words, the correlative is not an obligation but a
‘no-right’. ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 65 Il
It is, I hope, clear that unless it is recognized that interference with
another’s freedom requires a moral justification the notion of a right
could have no place in morals; for to assert a right is to assert that
there is such a justification. The characteristic function in moral
discourse of those sentences in which the meaning of the expression ‘a
right’ is to be found—‘I have a right to...’, ‘You have no right to...’,
‘What right have you to...?’—is to bring to bear on inter- eeees with
another’s freedom, or on claims to interfere, a type of moral evaluation
or criticism specially appropriate to interference with freedom and
characteristically different from the moral criticism of actions made
with the use of expressions like ‘right’, ‘wrong’, ‘good’, and ‘bad’. And
this is only one of many different types of moral ground for saying “You
ought...’ or ‘You ought not...’. The use of the expression ‘What right
have: you to...?’ shows this more clearly, perhaps, than the others; for
we use it , just atthe point where interference is actual or threatened,
to call for the moral title of the person addressed to interfere; and we
do this often without any suggestion at all that what he proposes to do
is otherwise wrong and sometimes with the implication that the same
interference on the part of another person would be
unobjectionable. But though our use in moral discourse of ‘a right’
does pre- suppose the recognition that interference with another’s
freedom requires a moral justification, this would not itself suffice to
establish, except in a sense easily trivialized, that in the recognition
of moral rights there is implied the recognition that all men have a
right to equal freedom; for unless there is some restriction inherent in
the meaning of ‘a right’ on the type of moral justification for
interference which can constitute a right, the principle could be made
wholly vacuous. It would, for example, be possible to adopt the
principle and then assert that some characteristic or behaviour of some
human beings (that they are improvident, or atheists, or Jews, or
Negroes) constitutes a moral justification for interfering with their
freedom; any differences between men could, so far as my argument has
yet gone, be treated as a moral justification for interference and
so constitute a right, so that the equal right of all men to be free
would be compatible with gross inequality. It may well be that the
expression ‘moral’ itself imports some restriction on what can constitute
a moral justification for interference which would avoid this
consequence, but I cannot myself yet show that this is so. It is, on the
other hand, 66 H. L. A. HART clear to me that the
moral justification for interference which is to constitute a right to
interfere (as distinct from merely making it morally good or desirable to
interfere) is restricted to certain special conditions and that this is
inherent in the meaning of ‘a right’ (unless this is used so loosely that
it could be replaced by the other moral expressions mentioned). Claims to
interfere with another’s freedom based on the general character of the
activities interfered with (e.g., the folly or cruelty of ‘native’
practices) or the general character of the parties (‘We are Germans; they
are Jews’) even when well founded are not matters of morat right or
obligation. Submission in such cases even where proper is not due to or
owed to the individuals who inter- fere; it would be equally proper
whoever of the same class of persons interfered. Hence other elements in
our moral vocabulary suffice to describe this case, and it is confusing
here to talk of rights. We saw in Section II that the types of justification
for interference involved in special rights was independent of the
character of the action to the performance of which there was a right but
depended upon certain previous transactions and relations between
individuals (such as promises, consent, authorization, submission to
mutual restrictions). Two questions here suggest themselves: (1) On what
intelligible principle could these bare forms of promising, consenting,
sub- mission to mutual restrictions, be either necessary or
sufficient, irrespective of their content, to justify interference with
another’s freedom? (2) What characteristics have these types of
transaction or relationship incommon? The answer to both these questions
is I think this: If we justify interference on such grounds as we give
when we claim a moral right, we are in fact indirectly invoking as our
justi- fication the principle that all men have an equal right to be
free. For we are in fact saying in the case of promises and consents
or authorizations that this claim to interfere with another’s freedom
is justified because he has, in exercise of his equal right to be
free, freely chosen to create this claim; and in the case of mutual
restrict- ions we are in fact saying that this claim to interfere with
another's freedom is justified because it is fair; and it is fair because
only so will there be an equal distribution of restrictions and so of
freedom among this group of men. So in the case of special rights as well
as of general rights recognition of them implies the recognition of
the equal right of all men to be free. IV THE USES OF
‘SOVEREIGNTY’ STANLEY I. BENN JEAN BODIN defined
‘sovereignty’ as ‘supreme power over citizens and subjects, unrestrained
by law’. Since then criticisms of theories in which the term has been
employed have led to repeated attempts to redefine it and to distinguish
different kinds of ‘supreme power’ and examine the relations between
them. For Austin the sovereign is ‘a determinate human superior, not_in a
habit of obedience to a like. superior, (receiving) habitual obedience
from the bulk of a given society .! Applying this notion to the British
Constitution Dicey finds it necessary to distinguish ‘legal sovereignty’
and ‘political sove- reignty’.? Lord Bryce employs a different distinction.
‘Legal sove- reignty’, he says, is primarily the concern of the lawyer:
“The sovereign authority is to him the person (or body) to whose
directions the law attributes legal force.’? This kind of sovereignty,
Bryce says, “is created by and concerned with law, and law only’.+ But it
is also possible to detect a ‘practical sovereign’: ‘The person (or body
of persons) who can make his (or their) will prevail whether with the law
or against the law. He (or they) is the de facto ruler.’> More recently
Mr. W. J. Rees has attempted an exhaustive analysis of the ways in
which ‘sovereignty’ has been used and has tried to establish three
possible senses. He begins with ‘power’: ‘To exercise power .. . is to
deter- mine the actions of persons in certain intended ways. There
are, however, different species of power, and these may be
distinguished according to the means used to determine persons’ actions.”
He From Political Studies, Vol. 3 (Clarendon Press, 1955), pp.
109-22. Reprinted by permission of the author and the Clarendon
Press. J. Austin, Lectures on Jurisprudence (5th ed.), p.
221. 2A. V. Dicey, Law of the Constitution (gth ed.), p. 72.
3Lord Bryce, Studies in History and Jurisprudence, vol. ii (1901), p.
51- *Tbid., p. 56. *Ibid., p. 59-60. Sw. J.
Rees, ‘The Theory of Sovereignty Restated’, in Mind, vol. lix (1950).
"Ibid., p. 511. 68 STANLEY I. BENN
distinguishes three such species to each of which corresponds a species
of supreme power, or sovereignty. ‘Legal sovereignty’ is a
capacity ‘to determine the actions of persons in certain intended ways by
means of a law. . . where the actions of those who exercise the
authority, in those respects in which they do exercise it, are not
subject to any exercise by other persons of the kind of authority which
they are exercising.' ‘A person or a body of persons may be said to
exercise coercive Sovereignty, or supreme coercive power, if it
determines the actions of persons in certain intended ways by means of
force or the threat of force, and if the actions of the persons who
exercise the power, in those respects in which they do exercise it, are
not themselves capable of being similarly determined.? ‘To exercise
political influence ...is to determine in certain intended ways the
actions, jointly or severally, of the legal and coercive sovereigns,
provided always that their actions are determined by some means other
than a rule of law or a threat of force... . To exercise sovereignty in
this sense is to exercise political influence, as now defined, to a
greater degree than anyone else... .’8 ‘Legal sovereignty’, it
seems, might be attributed to Parliaments or amending organs or
constitutions ;* ‘coercive sovereignty’ to armies or similar organized
forces or a socially coercive power such as existed under the
frank-pledge system;> ‘influential sovereignty’ to a ruling class, the
majority of the electorate, a priesthood, or some other such
group.® I propose in this paper to isolate and examine these and other
usages, to try to discover in what kinds of study, if any, each is likely
to be useful; and to determine whether they possess any common element
that would justify the use of the one word ‘sovereignty’ to cover them
all. II. Legal Sovereignty It has often been said
that a ‘legal sovereign’ is necessary in every 'W. J. Rees, ‘The
Theory of Sovereignty Restated’, in Mind, vol. lix (1950), p- 508. (My
italics $.1.B.) *tbid., p. 511. (My italics S.1.B.)
3Ibid., p. 514. (My italics S.1.B.) *Ybid., pp. 516-17. It is
not clear from this passage that Mr. Rees would ascribe legal sovereignty
to a constitution. Such an ascription has been made by other writers,
however (e.g. by Sir Ernest Barker in Principles of Social and Political
Theory, p- 61, and Lord Lindsay in The Modern Democratic State, pp.
222-9), and I propose to examine the implications of this usage.
SW. J. Rees, op. cit., p. 509. *Ibid., p. 513.
THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 69 state if legal issues are to be
settled with certainty and finality.’ From one point of view, this
necessity derives from the nature of a judicial decision understood as
one determining a dispute within the frame- work of established rules (as
distinct from one made according to subjective criteria). The judge
called upon co settle a dispute sees law as a system of rules to guide
his decision; and sucha system needs criteria of validity determining
which rules belong to it; it needs a supreme norm, providing directly or
indirectly the criteria of validity of all other norms, and not itself
open to challenge.’ Where a written constitution exists, it is
approximately true to say that the constitution itself provides such a
supreme norm; and in this sense one may speak of the ‘legal sovereignty
of the consti- tution’. An amendable written constitution will provide
criteria for ‘E.g. Sir Ernest Barker, op. cit., p. 59: “There must
exist in the State, as a legal association, a power of final legal
adjustment of all legal issues which arise in its ambit.’ W. J. Rees, op.
cit., p. 501: ‘Laws can only be effectively administered if there exists
some final legal authority beyond which there is no further legal
appeal. In the absence of such a final legal authority no legal issue
could ever be certainly decided, and government would become
impossible.’ J. W. Salmond: Jurisprudence (10th ed. by - Glanville
Williams), App. I, p. 490: ‘It seems clear that every political society
involves ” the presence of supreme power... . For otherwise all
power would be subordinate, and this supposition involves the absurdity
of a series of superiors and inferiors ad infinitum.’ But contrast John
Chipman Gray, The Nature and Sources of the Law, p. 79 (quoted by W.
Friedmann, Legal Theory, 2nd ed., p. 147): ‘The real rulers of a
political society are undiscoverable. They are the persons who dominate
over the wills of their fellows. In every political society we find the
machinery of government . .. . We have to postulate one ideal entity to
which to attach this machinery, but why insist on interposing another
entity, that of a sovereign? Nothing seems gained by it, and to introduce
it is to place at the threshold of Jurisprudence a very difficult, a
purely academic, and an irrelevant question.’ Gray seems to argue (a)
that the influential sovereign is undiscoverable; (6) that the jurist is
needlessly multiplying the entities by postulating a legal sovereign. But
(b) is not a necessary inference from (a). 2Cf. H. Kelsen, General
Theory of Law and State (1945), p. 124: “The legal order... is therefore
not a system of norms coérdinated to each other, standing, so to speak,
side by side on the same level, but a hierarchy of different levels of norms.
The unity of these norms is constituted by the fact that the creation of
one norm—the lower one— is determined by another—the higher—the creation
of which is determined by a still higher norm, and that this regressus is
terminated by a highest, the basic norm which, being the supremé reason
of validity of the whole legal order, constitutes its unity.’ And
Salmond, op. cit., sec. 50: ‘It is requisite that the law should postulate one
or more first causes whose operation is ultimate, and whose authority is
underived. In other words, there must be found in every legal system
certain ultimate principles from which all others are derived, but which
are themselves self-existent. ... Whence comes the rule that Acts of
Parliament have the force of law? This is legally ultimate; its source is
historical only, not legal....No Statute lays it down. It is certainly
recognized by many precedents, but no precedent can confer authority upon
pre- cedent. It must first possess authority before it can confer it. If
we enquire as to the number of these ultimate principles, the answer is
that a legal system is free to recognize any number of them, but it is
not bound to recognize more than one.’ 70 STANLEY I. BENN
identifying valid amendment. But even so the constitution may not
be altogether identified with the supreme norm; for there may be
rules for its interpretation which judges accept as binding but which
are not prescribed in the constitution. Effectively, therefore, it is
the traditional judicial interpretation of the constitution that is
the supreme norm. The absence of a written document does not
vastly alter the situ- ation. The supreme norm in English law is provided
in part by the maxim ‘Parliament is sovereign’. But this leaves open the
question ‘What is an Act of Parliament?’ A judge must be able to refer to
a criterion superior in status to an Act, which will establish which
rules are Acts. (In a recent article! Mr. Geoffrey Marshall has drawn
at- tention to the way in which the interpretation of Parliamentary
sovereignty is changing. The critical question, in his view, is: “What is
Parliament?’ This seems to me to put the problem the wrong way. A judge
requires not a definition of the organ Parliament, but a criterion by
which to recognize a norm of the type ‘Act of Parliament’. For judicial
decisions are reached in the light of norms, not of organs. Mr. Marshall
seems to argue that there is a difference in principle between the view
typified by Lord Campbell’s dictum that the Parlia- ment roll provides
conclusive evidence of a statute’s validity? and the rule in Harris v.
Dénges which implies that a rule issuing from Parliament by a procedure
other than that legally prescribed is not an Act.? But the difference is
not that Parliament is held, in the one view, to be above the law, and,
in the other, to be subject to law; it lies in the stringency of the
criteria which, in the view of the court, a rule must satisfy in order to
be deemed an Act of Parliament.) An Act of Parliament, therefore,
is subordinate to the supreme constitutional norm. It is, however, a rule
of a special type in that its binding force cannot be challenged on the
grounds that it is in substantial conflict with any superior norm. (In
this respect it differs from an Act of Congress or a statutory
instrument.) In view of this 'G. Marshall, ‘What is Parliament?
The Changing Concept of Parliamentary Sovereignty’, in Political Studies,
vol. ii, no. 3 (1954), pp. 193-209. 2In Edinburgh and Dalkeith
Rly. Co. v. Wauchope (1842): ‘All that a Court of Justice can do is to
look to the Parliamentary roll: if from that it should appear that a bill
has passed both Houses and received the Royal assent, no Court of Justice can
inquire into the mode in which it was introduced into Parliament, nor
into what was done previous to its introduction, of what passed in
Parliament during its progress in its various stages through both
Houses.’ 3See G. Marshall, op. cit., for a full discussion of this
and other relevant cases. THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 71
peculiarity, it might be useful to ascribe to Acts of Parliament
immediate supremacy as decisive rules in questions of substance, while
the norm from which their validity derives might be termed ultimately
supreme. This is a reinterpretation ofa distinction made by Sir Ernest
Barker, who ascribes ultimate sovereignty to the constitution and
immediate sovereignty to a supreme legislative organ; but it avoids the
awkward asymmetry of his ascription:' the word ‘sovereignty’ can scarcely
be precisely and unambiguously defined and yet fit with equal comfort
both an organ and a norm.’ The interpretation of ‘legal
sovereignty’ I have offered has, I believe, the advantage that while
meeting the judicial need for an ultimate point of reference, it avoids
the criticisms directed against the command theory with which the notion
of sovereignty has traditionally been associated. Whether law is command
is irrelevant. For the judge is interested in the ‘source’ of a law only
if by ‘source’ is meant the higher norm from which its validity derives;
its legis- lative origin is a fact to be assessed according to
established legal criteria. Further, ‘legal sovereignty’, as I conceive
it, need not imply that law is ‘effective’, i.e. generally observed in an
actual conimunity. A student might apply ancient legal principles to
hypothetical cases; in so doing he would be acting in a way closely
parallel to a judge on an English bench, and would find the same
necessity for a supreme norm. The same would apply to the student of
Utopian or Erewhon- ian law. Again, ‘sanction’ is non-essential to
‘sovereignty’ in this sense, and the difficulties which arise in applying
some legal theories of sovereignty to constitutional and administrative
law thus do not arise here.’ This notion of the ‘supreme
norm’ is essential to any study of the rules governing decisions within a
normative order. It is of primary importance for the practising lawyer,
and for the jurist. It is also ‘Sir Ernest Barker, op. cit., bk.
ii, sec. 5. Sir Ernest recognizes the asymmetry, but considers it
‘inherent in the nature of the case’ (p. 63). *Ibid., loc. cit.; and W.
J. Rees, op. cit., pp. 516-17. 3Cf. L. Duguit, Law and the Modern
State, p. 31: ‘In those great state services which increase every day...
the state... intervenes in a manner that has to be regulated and ordered
by a system of public law. But this system can no longer be based on the
theory of sovereignty. It is applied to acts where no trace of power to command
is to be found. Of necessity a new system is being built, attached indeed
by close bonds to the old, but founded on an entirely new theory. Modern
institutions . . . take their origin not from the theory of sovereignty,
but from the notion of public service.’ (Quoted in H. E. Cohen, Recent
Theories of Sovereignty, p. 40.) This notion is in no way incompatible
with the view of sovereignty I am suggesting. 72 STANLEY I.
BENN of significance to the administrator, and to the student of
adminis- tration interested in the legal sources and limitations of
admin- istrative discretion rather than in the motives which determine
the exercise of discretion. In historical or sociological
studies and those concerned with moral questions the notion of a supreme
norm is at most only indirectly relevant. If we ask such questions as
‘How do laws develop?’, “What governs the content of law in this (or any)
com- munity?’, “What is the role of law in this (or any) society ?’,’ we
shall need a way of distinguishing law from other modes of social
control, but the judicial criterion of validity will not necessarily be
an element in such a principle of differentiation. Of course, any
description of the life of a community must, to be complete, include an
account of its judicial system, and so of the assumptions made by the men
whose business it is to reach decisions within this normative order; but
the supreme norm will figure in a sociologist’s account as a feature of
the conceptual apparatus employed by lawyers, not as part of his
own. Similarly, in asking the moral question ‘What ought laws to be
like?’ we need to distinguish laws from, say, conventional moral rules.
But the principle of differentiation must now be related to those
aspects of law which constitute it a distinct problem (e.g. the
coercive sanction, or the presumption that most people will obey it), and
the judicial criterion of validity will not necessarily figure as part of
it. The questions of political science are both normative and
des- criptive. If the political scientist is concerned with the state as
a normative order, the idea of the supreme norm will have the same
relevance for him as it has for the lawyer; but if his questions concern
men’s actual political behaviour, his view of law will be much more that
of the sociologist. III. Legislative Sovereignty The
approach to ‘legal sovereignty’ that I have suggested derives from
reflection upon the activities of a judge, for whom the law appears, at
any particular moment, as a body of given rules to guide his judgement.
For the political scientist, however, law appears in the process of
creation; he is concerned with law-making and law- 'Cf. R.
Wollheim’s distinction between questions about law which are in Juris- rudence,
and those which are not, in ‘The Nature of Law’, in Political Studies, vol.
ii 1954), Pp. 139-40. THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’
73 makers;! he is interested in ‘legislative organs’, and not
merely in ‘legal norms’. I propose accordingly to inquire now whether
there is a place in the political scientist’s vocabulary for ‘supreme
legis- lative organ’, and what it might mean to attribute ‘supremacy’
in this way. To distinguish the supremacy of a norm from that of a
legislative organ, I propose to use ‘legal sovereignty’ for the former
and ‘legislative sovereignty’ for the latter. A political scientist
might significantly classify legislative organs in a legal order into
superior and inferior (or subordinate), and he might arrange them
hierarchically as a sort of reflection of the judge's hierarchy of norms.
The judge will deem an Act of Parliament super- ior in status to a
statutory instrument; the political scientist will deem Parliament superior
in competence to a minister acting as legislator. But does it follow that
the necessity which leads the judge to postulate a supreme norm is
paralleled by a similar necessity leading the political scientist to
postulate a supreme legislative organ? Such an organ would be omnicompetent,
that is, competent to legis- late on all matters without the possibility
that any of its rules might be invalidated by reason of conflict with
some other rule not of its own making.’ It might reasonably, therefore,
be called ‘legislative sove- reign’. But such a sovereign is not
logically necessary to a legal order. A constitution might allocate
fields of legislative competence between co-ordinate organs, or place
certain matters beyond the competence of any organ (e.g. by a Bill of Rights);
and in respect of such limit- ations the constitution might be
unamendable. (This qualification is important, since the competence to
amend the constitution in these respects would be, on an ultimate
analysis, omnicompetence.) In such a case, there would be no omnicompetent
organ. On the other hand, one might speak of one organ with supreme
competence in a particular field or of several such organs; and that
would mean that though the rules of such an organ might be invalidated by
reason of conflict with the constitution they could not be invalidated
through conflict with the rules of any other organ. But one cannot say a
priori that every legal order must possess one or more ‘supreme
legislative organs’ even 'Cf. Kelsen, op. cit., p. 39: ‘If we
adopt a static point of view, that is, if we consider the legal order
oniy in its completed form or im a state of rest, then we notice only the
norms by which the legal acts are determined. If, on the other hand, we
adopt a dynamic outlook, if we consider the process through which the
legal order is created and executed, then we see only the law-creating
and law-executing acts.’ Except for a rule of another organ to
which this one had expressly delegated a limited competence to make
rules, in a given field, of equal status to its own (e.g. by a ‘Henry
VIII’ clause). 74 STANLEY I. BENN in this sense. A
constitution that is unamendable (at least in respect of its allocation
of fields of competence) might constitute two (or more) organs
co-ordinate in the same field, so that a rule enacted by either might set
aside a rule of the other. A judge operating such an order would require
only some general prescription to show which of conflicting rules enacted
by different organs he should deem binding; and this could be met by the
principle that in case of conflict a later rule should repeal an earlier.
This might be highly inconvenient if the co-ordinate organs were operated
by men of different opinions, and competition developed for the
latest place. But this could be avoided without making one organ
supreme in each field, if, for example, co-ordinate organs were operated
by members of one highly disciplined political party, or by men who
reached decisions by mutual agreement before legislating. The judge need
not then be faced with conflicts any oftener than he is in England.
There is thus neither logical nor practical necessity for a
legislative sovereign in every state, though there may be states in which
such organs are discoverable. But it should be stressed that to
ascribe ‘sovereignty’ to a legislative organ in either of the senses just
con- sidered is to attribute to it not ‘power’, in the sense of ability
‘to determine the actions of persons in certain intended ways’, but
legal capacity or ‘competence’; it is to say no more than that a
judge will set an organ’s rules in a particular kind of relation to the
rules of other organs. It is, indeed, a statement about the formal
structure of a legal order. It does not presuppose any actual ability
possessed by the men acting through an organ to determine the actions of
other persons in intended ways. It does not even require that the action
of the judge himself should be so determined; for the person occupying
judicial office may disregard the law. Law is normative: it prescribes
how a person must act to function as a judge within the legal order; it
does not predict that he will so act. Yet it is true that
law-making is one way of ‘determining the actions of persons in certain
intended ways’. A sociologist seeking to explain behaviour in a community
would need to take its statutes ‘*Power’ suffers from a systematic
ambiguity. When we refer to ‘the powers of Local Authorities’, ‘Parliament’s
power to legislate on any subject whatsoever’, or ‘legisla- tive powers
of Ministers’, we mean ‘competence’ or ‘entitlement’—i.e. that they are
‘empowered’ to act in this or that way. This is a quite different sense from
that implied by Mr. Rees’s definition: ‘to determine the actions of
persons in certain intended ways’. The ‘power’ possessed by a Local
Authority to orginize concerts is clearly not power in this second sense.
Neither is it a species of a ‘power’ genus. Mr. Rees’s argument suffers
from his failure to make this distinction. Vide op. cit., p. 511.
THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 75 into account, since the knowledge
that a particular rule is a statute may condition the behaviour of those
subject to it. Consequently, legislators can often be regarded as
determining the actions of persons in intended ways. But there is no
warrant for automatically trans- ferring ‘supremacy’ as applied to
competence to any power deriving from such competence. It is not, for
instance, necessarily true that the men who operate the organ termed
‘supreme’ receive more obedience than those operating a ‘subordinate’
organ. The amending organ of the U.S.A.—Congress together with
three-fourths of the States—is omnicompetent (or very nearly so), yet the
Eighteenth Amendment was much less effective than most Acts of
Congress.' ‘Supremacy’, then, is relevant, when applied to legislative
organs, only when a legislative act is considered as a directive to a
judge: in all other contexts it is out of place. IV. The
Sovereignty of the State in its international aspect There remains
to be considered, before leaving the juristic field, the sense of
‘sovereignty’ as applied in international relations. It has often
been argued that state ‘sovereignty’ is incompatible with international
law. The term implies that the state is a self- sufficient legal order;
and this must mean that a judge operating that order need seek no further
than its own supreme norm. The tra- ditional problem then arising is put
by Kelsen in the following terms: ‘That the State is sovereign
means that the national legal order is an order above which there is no
higher order. The only order that could be assumed to be superior to that
of the national legal order is the inter-. national legal order. The
question whether the State is sovereign or not thus coincides with the
question whether or not international law is an order superior to
national law.”? 1This is not to suggest that ‘supreme legislative
power’ is necessarily meaningless. It could conceivably be used in
historical and sociological studies. To attribute it to A might mean (1)
that all the laws he made were invariably effective and could not be
overturned (which would be the ‘power’ equivalent to ‘supreme competence’); (2)
that they were more generally effective than anyone else’s (though the
use of ‘superior’ rather than ‘supreme’ might accord better with common
usage); or (3) that his laws were usually effective, and his conduct was
not determined by laws made - others. Examples of (1) probably cannot be
found; (2) would be useful only if the effec- tiveness of laws depended
on their sources, which seems improbable; (g) might be true of a few
autocrats, but must be unusual. A fourth apparent possibility, viz. that
in consequence of A’s possessing supreme legislative competence his laws are
more likely to be effective, ceteris paribus, than rules liable to
invalidation, is really only another way of saying that the legal order
is effective. None of these senses seems important and I shall not
consider them further. ?Kelsen, op. cit., p. 384. 76
STANLEY I. BENN A pluralistic position, he argues, is
inadmissible: two legal orders with conflicting norms cannot be
simultaneously valid for the same territory.’ The choice lies, therefore,
between the primacy of inter- national law, with non-‘sovereign’ national
legal orders deriving validity from it, and the primacy of national law
endowing inter- national law with validity to the extent that it
recognizes it. But the consequence of the second view is ‘state
solipsism’,? for now only one State can be held to be sovereign; other
legal orders exist for it only as derivatives of itself, either directly
or inuirectly through its re- cognition of international law.
Kelsen adds: ‘It is, however, logically possible that different
theorists interpret the world of law by proceeding from the sovereignty
of different States. Each theorist may presuppose the sovereignty of his
own State, that is to say, he may accept the hypothesis of the primacy of
his own national legal order. Then he has to consider the international
law which establishes the relations to the legal orders of the other
States and these national legal orders as parts of the legal order of his
own State, conceived of as a universal legal order. This means that the
picture of the world of law would vary according to what State is made
the basis of the interpretation. Within each of these systems, erected on
the hypothesis of the primacy of national law, one State only i is
sovereign, but in no two of them would this be the same State.”
Kelsen appears to regard this solution as irrefutable but unsatis-
factory. I believe, however, that otherwise stated it can throw light on
the place of ‘sovereignty’ in international law, and of international law
within the structure of ‘sovereign’ national orders. Within the
English legal framework an English judge will take cognizance of
international law as a part of English law to the extent that its rules
do not conflict with other rules of English law; the national laws of
other states will equally be subject to the criteria of validity of the
English legal order, and in so far as they are re- cognized by a judge
will become parts of that order. In this sense, then, it is true that for
the English judge, the only sovereign order is his own. But mutatis
mutandis the same is true of a French or any other national judge. Each
can operate only within his own order, and for him it is self-sufficient.
This is again true of the international lawver. His order is a
self-sufficient order embracing national orders as sub- ordinate parts. A
given rule may well be valid in one of these orders ‘Ibid., p.
363. *Ibid., p. 387. 3Ibid., p. 386. THE USES OF
‘SOVEREIGNTY’ 77 (national or international) and invalid in
another. But there is not here, as Kelsen supposes, any contradiction,
and if it involves ‘State solipsism’, this need cause no embarrassment. Kelsen’s
argument, that ‘two norms which by their significance contradict and
hence logically exclude one another, cannot be simultaneously valid’,
misses the point. He requires that there shall be only one objectively
valid legal order. But to ascribe ‘self-sufficiency’ to an order rules
out the ascription to it of ‘validity’, which for Kelsen is meaningful
only within an order. Accordingly, many such systems can logically
exist, side by side, and none can claim greater legal validity than
another. It follows, as a corollary to this analysis, that if the
international lawyer refers to ‘sovereign orders’, or the national lawyer
to ‘other sovereign states’, then the sense of the word ‘sovereign’ as
here used must be different from that in which either applies the term to
his own order, as self-sufficient. He is now using it of a particular
type of partial order, analogous to other partial orders, like
‘corporations’, recognized by various legal orders. The precise
definition of ‘a sovereign state’ in any given legal order is a question
of particular not of general jurisprudence and cannot be settled by
reflection upon the nature of legal systems in general. V.
Sovereignty as ‘supreme coercive power’ ‘Sovereignty’ as ‘supreme
coercive power’ is not, I believe, relevant to or meaningful in a
normative study of political institutions. If we begin by defining
the state as a coercive order, that is, as an order maintained by the
exercise or threat of physical force, then coercive power is, by definition,
necessary to it. If we define it in some other way, then,.in Mr. Rees’s
phrase, coercive power is ‘causally necessary’ to it, if it is to be
capable of surviving violent opposition. In either case, the coercive
power attributed is a mode of operation, or an institutional framework, within
which action is undertaken by. whatever men happen to occupy ‘the
appropriate offices or to fit the constitutional categories which the
order provides. For instance, to say that ina particular state the
coercive power is exercised by the Army is to say that this mode of state
action is the proper function of any group which satisfies a set of legal
or con- ventional conditions constituting it the coercive organ of the
state, and which acts according to the procedures proper to such an organ
(e.g. under orders from the Minister for War or the Commander-in- Chief).
In this context only one coercive power is possible in a state: 78
STANLEY I. BENN for the term must refer either to a mode of action
within the single _ normative order, or to the organs whose mode of
action it is. If several organs employ this mode, they all operate within
the same _order, and so jointly constitute its coercive power. The
state’s coercive power may therefore in a sense be divided, but so long
as we think of the state as an order there is no point in saying of one
or other organ, or of a group of organs, that itis supreme. For
‘supremacy’ implies the possibility of conflict, and a conflict of
coercive organs is incompatible with the conception of the state as an
order. Thus if conflict does arise between groups qualified to act as
coercive organs, then at least one group must be acting otherwise than as
a state organ. For example, an army in rebellion against the established
Government is not acting as a state organ. (Of course, in any territory
at any moment there may well be more than one actual coercive
organ- ization: in 1932, besides the coercive forces of the German
Republic there existed the Brown Shirts. But the Brown Shirts were not
part of the state order.) One further point—the distinction
drawn by Mr. Rees between political orders in which coercive sovereignty
is exercised by an institutionally coercive power and those in which itis
exercised bya socially coercive power! is misleading in two ways. To
reserve the term ‘institutional’ for coercive power exercised by
professional armies, &c., obscures the fact that where all, or nearly
all, the members of a community collectively constitute the coercive
organ, their function is ‘institutional’. Secondly, inasmuch as Mr. Rees
has in mind the classification of political orders, the attribution
of ‘supremacy’ to coercive organs is redundant, and nothing is lost
by abandoning the term. In historical and sociological studies,
‘supreme coercive power’ may well be meaningfully used. A statement like:
“By 1649, the New Model Army had emerged as the supreme coercive power in
England’ is not concerned with institutional relations in the English
constitu- tional order, but with power relations between groups of men
ina particular territory. In such studies we may well compare the
coercive ower of one group with that of another. For the historian,
Brown Shirts and Communists are as much factors of the 1932 German
situation as were the armed forces of the Republic, and he might declare
one of them ‘supreme’, in the sense that, had armed conflict developed,
it could have defeated its rivals. It is doubtful, however, whether the
term is helpful in describing any but the simplest situa- 1W. J. Rees,
op, cit., pp. 509-10, and Section I above. THE USES OF
‘SOVEREIGNTY’ 79 tions. In peaceful conditions we could say that
coercive sovereignty is exercised by the coercive organs of the state;
and after a civil war we could attribute it to a victorious army that
remained united. But it would rather mislead to try to apply it, for
example, to Sicily in the days of the Mafia or France in the days of the
Maquis.’ In any case, even if the seat of coercive sovereignty can be
located, the possibilities of inquiry opened up are limited. It will give
us no way of understanding the importance in the determination of policy
of those controlling the coercive organs of the state. Taken
collectively, the Germany army, navy, air force, Gestapo, and S.S. may
have con- stituted the coercive sovereign in Hitler’s Germany; but to
understand the part played by those controlling these organs in shaping
political events we have to consider them separately, not collectively,
and to examine their mutual relations and rivalries and the power
each exercised at any given moment. To lump in problems of this sort
is to obscure rather than to illumine. VI. Sovereignty as
‘the strongest political influence’ The first question here concerns
the type of discussion to which ‘influence’ may be relevant. I drewa
distinction earlier? between words of two logical types—‘competence’ and
‘power’ (as ability to deter- mine the actions of persons in intended
ways). ‘Influence’ is a word of the same type as ‘power’. To establish
A’s competence we examine his status in a normative order; to establish
his influence we must observe how men behave in relation to him, whether
for instance they act on his suggestions or consult his wishes.
‘Influence’, and consequently ‘the strongest political influence’, have
thus no place in a normative study. It is only in historical or
sociological studies that they can be meaningfully employed. It is of
course true that a man’s status in a normative order may be a source of
influence; but the extent of that influence, and, indeed, its very
existence, cannot be established by normative study. Is the
search for ‘an influential sovereign’ likely to be fruitful in historical
and sociological studies? We must distinguish, first, two senses of
‘influence’: as in (1) ‘Climate influences vegetation’ and (2)
‘Rasputin’s influence over Nicholas IJ’. In (1) no more than ‘effect’ is
implied: there is no suggestion of intention; in(2) the effect produced
is one intended. When we speak of ‘the strongest political influence’
1Cf. Lord Bryce, op. cit., p. 63. 2Section III above.
80 STANLEY I. BENN we are presumably thinking of some group
which can shape govern- mental policy to its own purposes. We are using
‘influence’ therefore in sense (g). Now we should not say
that a group was the ‘influential sovereign’ merely because it had
occasionally shaped government policy as it intended. That would multiply
sovereigns endlessly and deprive the term of all point. As Mr. Rees has
pointed out, ‘sovereignty’ r resembles dispositional words in that it
implies recurrent capacity to determine policy in tended ways under
understood conditions.’ In seeking an influential sovereign, therefore,
we should be seeking a stable domi- nant influence over a fairly wide
range of political issues. In states of one type a single group
(e.g. a ruling class), able decisively to influence policy whenever it
operated, could be regarded as such an influence. The value of this
approach, however, would depend on the range of common interests from
which the group’s identity derived and which therefore constituted its
field of operation. In states of another type Governments are sensitive
to pressures from diverse interests, and political decisions are thus the
outcome of an interplay of influences rather than expressions ofa single
dominant influence. If we seek an influential sovereign here, then, we
are likely to be seriously misled; terms like ‘lobby’ and ‘pressure
group’ will be much more appropriate analytical concepts.
Sometimes influence is attributed to ‘the electorate’ or ‘the
majority’ as one might attribute it to ‘the bankers’ or a ‘ruling class’.
This is a mistake. Groups such as ‘the bankers’ or ‘the ruling class’
derive identity from common interest and homogeneity of intention; ‘the
electorate’ denotes a state organ. All that electors have in common is
the right to vote. Severally, or in groups, they may exercise influence
deriving from electoral competence; but there is not therefore one
super-influence of the electorate as such. An election is a procedure in
which influences are pitted against one other; what emerges is a result,
or an ‘effect’, not a new influence. We cannot say of the elec- torate that
it influences policy as it intends; it has no single intention, only a
multitude of intentions given different weights by the electoral process.
It is no more accurate to assign influential sovereignty to ‘the
majority’ (as Mr. Rees seems to do).? In any election a certain aggregate
of interests is more numerous than another, and this arithmetical
relation, corresponding to a recognized legal procedure, is a source of
influence for the groups concerned. But the aggregates 1W. J. Rees,
op. cit., pp. 514-15. ?Tbid., pp. 512-13. THE USES OF
‘SOVEREIGNTY’ 81 at the next election will be differently
constituted; in five elections there will be five majorities; and we
should not treat them as though they were one group, the majority,
exercising a stable dominant influence. Consequently, the inference to be
drawn from ‘The majority (or the electorate) is sovereign’ is not that
Government is sensitive to a specified influence but that it is sensitive
to all influences. Finally, ‘influential sovereignty’ might be
applied to an organiza- tion, like a Church or a Communist party, which
has a policy on all, or most, matters, and is able to make it effective.
Bur here again the policy is not the intention of a group identifiable by
common interest, but the result of an interplay of influences within the
organization. The internal politics of influential organizations need to
be inter- preted in terms of pressure groups just as much as do the
politics of states. To attribute sovereignty to the Communist party is
not to provide an explanation of the changes in Soviet policy since
1917: it is the struggle for power within the party that is the point of
interest for the student of Soviet history. The concept
‘influential sovereignty’ has the disadvantage, then, that it may direct
attention to the wrong questions, or conceal the need for inquiry beyond
the point where the influential sovereign has been identified.
Vil In this paper I have identified six senses in which
‘sovereignty’ might be meaningfully employed: (a) to
express the supremacy of a norm in a legal hierarchy, as viewed by a
lawyer, or by a student concerned with the legal limits of
discretion; (b) in a study of constitutions as normative orders, to
refer either to the omnicompetence, or to the supreme competence within
its field, of a legislative organ; (c) to express the
self-sufficency of a legal order from the point of view of a lawyer
operating within it; (d) to refer to a particular kind of partial
order, the definition of which may vary from one legal order to another
(its utility in this sense being limited to particular
jurisprudence); (e) to express the ability of bodies such as armed
forces to defeat all probable rivals; (f) to express the
ability of a sectional interest decisively to influence
policy. 82 STANLEY I. BENN The first four senses are
relevant to normative studies and cannot be directly utilized in
historical or sociological studies without confusion. Each of them is a
useful concept in its own field, but they seem to have little in common.
The first two share the idea of ‘su- premacy’ but in slightly different
senses of that word; the third is an expression of totality, rather than
supremacy; the fourth implies neither notion. The fifth and sixth senses,
unlike the first four, do imply ability to determine other people’s
conduct; and it is in these senses alone that sovereignty implies supreme
power. These two senses may be relevant to historical or sociological
studies, and are not relevant to normative studies; their usefulness
where they are relevant is limited, for they can be seriously
misleading. In the light of this analysis it would appear to be a
mistake to treat ‘sovereignty’ as denoting a genus of which the species
can be distin- guished by suitable adjectives, and there would seem to be
a strong case for giving up so Protean a word. Vv
AUTHORITY (1) R. S. PETERS 1. Authority and
Artifice. THERE are good reasons as well as personal excuses for
ushering in Hobbes at the outset of a discussion on ‘authority’ ; for
Hobbes him- self introduced the concept to deal with difficult problems
connected with the analysis of human institutions. And there is little
point in making a list of the different ways in which the term
‘authority’ can be used unless the distinctions are made with an eye on
the problem or cluster of problems that can be clarified by means
of them. Hobbes was impressed by the fact that a civil
society is not a natural whole like a rook or a beehive; yet it is not a
mere multitude of men. A multitude of men becomes an artificial person
when each man authorizes the actions of a representative. ‘Of persons
artificial, some have their words and actions owned by those whom
they represent. And then the person is the actor; and he that owneth
his words and actions is the AUTHOR: in which case the actor acteth
by authority ...and as the right of possession, 1s called dominion;
so the right of doing any action, is called AUTHORITY. So that by
authority, is always understood a right of doing any act; and done by
authority, done by commission, or licence, from him whose right itis.’
(Leviathan, Ed. Oakeshott pp. 105-6.) De Jouvenel, also, uses the concept
of ‘authority’ in the context of the same type of problem. Having
rejected the view that civil societies come into being through voluntary
association or through domination from without, he claims that authority
is ‘the efficient cause of voluntary asso- ciations’ .. . ‘Everywhere and
at all levels social life offers us the daily spectacle of authority
fulfilling its primary function—of man leading man on, of the ascendancy
of a settled will which summons and orients uncertain wills ..’. Society
in fact exists only because Symposium by R. S. Peters and Peter
Winch. From Proceedings of the Aristotelian Society, Supp. Vol. 32
(1958), pp. 207-40. Reprinted by courtesy of the authors and the Editor
of the Aristotelian Society, with a postscript to his paper by Peter
Winch. 84 R. S. PETERS man is capable of proposing
and affecting by his proposals an- other’s dispositions; it is by the
acceptance of proposals that contracts are clinched, disputes settled and
alliances formed between individuals... What I mean by “authority” is the
ability of a man to get his proposals accepted’. (Sovereignty pp.
29-31.) 2. The de jure and de facto senses of ‘authority’.
I have chosen to start off with these quotations from Hobbes and de
Jouvenel partly because they both introduce the concept of ‘autho- rity’
in the context of the attempt to elucidate what is meant by a society as
distinct from a multitude of men, and partly because the two quotations
illustrate an important difference in the ways in which the term
‘authority’ is used in the context of the same sort of problem. For
Hobbes ‘authority’ is what might be called a de jure concept; for de
Jouvenel it seems to be a de facto one. In other words, for Hobbes the
term indicates or proclaims that someone has a right to do some- thing.
‘Done by authority’ means ‘done by commission or licence from him whose
right it is’. Now I am not concerned to defend Hobbes’ odd conception of
the handing over of rights or his account of ‘authorization’. But,
whatever the correct analysis of the connexion between ‘authority’ and
‘right’, it is quite clear that there is a very important use of the term
‘authority’, which is favoured by Hobbes, which connects the two
concepts. A man who is ‘in authority’ for instance, clearly has a right
to do certain sorts of things. This use of ‘authority’ is to be
contrasted with the de facto use favoured by de Jouvenel. For he says
“What I mean by “authority” is the ability of a man to get his proposals
accepted’. The Oxford English Dictionary seems to permit both usages; for
it gives ‘power or right to enforce obedience’. It also speaks of ‘power
to influence the conduct and actions of others; ... personal or practical
influence; power over the opinion of others; intellectual influence’; as
well as ‘moral or legal supremacy; the right to command or give an
ultimate decision. . . title to be believed’. And in ordinary
conversation the two senses can be used without danger of
misunderstanding in one sentence when we say things like ‘The headmaster
and others in authority had, unfortunately, no authority with the boys’.
The question quite natur- ally arises how these two senses of ‘authority’
are related and whether both senses are important, as Hobbes and de
Jouvenel maintain, for saying certain sorts of things about specifically
human relationships and organizations. AUTHORITY 85
3. Hobbes’ rendering of the de jure sense. The de jure
concept of authority presupposes a system of rules which determine who
may legitimately take certain types of decision, make certain sorts of
pronouncements, issue commands of a certain sort, and perform certain
types of symbolic acts. Hobbes brings this out by saying that the actions
of a representative are authorized. He relies on the sense of ‘authorize’
which assimilates it to commissioning or giving a warrant to a man to do
certain types of things. The subjects are conceived of as having words
and actions which they own, of which they are the ‘authors’, and to which
they have a right. They then appoint a representative to whom they
transfer their right. He is now commissioned or ‘authorized’ to act on
their behalf. “So that by authority is always understood a right of doing
any act; and done by authority, done by commission or licence trom him
whose rightitis.’ Now Hobbes, as is well known, and as Mr. Warrender has
recently shown in such stimulating detail, had a very strange view of
natural rights which permeates this picture of authority. He was led by it
to conceive of authority in general in terms of the particular case
where a man is the author of a word or act, to which he also has aright,
and where he commissions someone else to act in this matter on his
behalf. This is indeed a case of an authorized act; but there is a more
general meaning of ‘authorize’ which is to set up or acknowledge as
authorit- ative; to give legal force or formal approval to. Similarly
‘authorized’ in its most general meaning is equivalent to ‘possessed of
authority’. ‘Authorization’ is better understood in terms of the general
concept of ‘authority’ rather than vice-versa. Hobbes pictured
‘authority’ in terms of ‘authorization’ which is one of its derivatives.
But he did bring out the obvious connexion between ‘authority’ and the existence
of an ‘author’ in the realm of acts and words, which is the key to seeing
how the concept works. 4. ‘Auctoritas’ as the key to
‘authority’. The concept of ‘authority’ is obviously derived from
the old concepts of ‘auctor’ and ‘auctoritas’. An ‘auctor’ was, to quote
Lewis and Short, ‘he that brings about the existence of any object,
or promotes the increase or prosperity of it, whether he first
originates it, or by his efforts gives greater permanence or continuance
to it’. ‘Auctoritas’ which is a producing, invention, or cause, can
be exercised in the spheres of opinion, counsel or command. The
point of this little excursion into philology is to stress not only the
sphere of opinion, command and so on, in which ‘auctoritas’ 1s regarded
as 86 R. S. PETERS being exercised, but also the
connexion of the concept with ‘produc- ing’, ‘originating’,
‘inventing’—in short, with there being an author. Now in some
spheres of social life it is imperative to have such ‘auctores’ who are
producers or originators of orders, pronounce- ments, decisions and so
on. It is also the case that in social life, whether we like it or not,
there are such ‘auctores’ to whom commands, decisions and pronouncements
are to be traced back in any factual survey of how social regulation is
brought about. This is the sense of ‘authority’ stressed by de Jouvenel.
The notion of ‘authority’ involves therefore either a set of rules which
determine who shall be the auctor and about what, or, in its de facto sense,
a reference to a man whose word in fact goes in these spheres. The de
jure sense of ‘authority’ proclaims that a man has a right to be an
‘auctor’; the de facto sense states that he is a matter of fact one.
Hobbes’ account of ‘authoriza- tion’ relates to the particular case where
a man has a right to bean ‘auctor’, as laid down by a set of rules, and
where he commissions someone else to do what he himself has a right to
do. Indeed, often, as in a bureaucratic system, there are subordinate
sets of rules which lay down procedures for the granting of such warrants
and commissions. But all authority cannot adequately be conceived in this
fashion. 5.Weber’s legal-rational and traditional rules for
determining who is IN authority. Indeed, one of the great
services done by the sociologist, Max Weber, has been to stress the
different types of normative systems which are connected with different
types of authority. For legitimacy may be bestowed in different ways on
the commands or decisions or pronouncements issuing from an ‘auctor’. In
what he calls a legal- rational system the claim to legitimacy rests on
‘a belief in the “legality” of patterns of normative rules and the right
of those elevated to authority under such rules to issue commands’.
(Theory of Economic and Social Organization, Ed. Talcot Parsons, pp.
300/1.) There is also, however, traditional authority ‘resting on an
established belief in the sanctity of immemorial traditions and the
legitimacy of the status of those exercising authority under them’.
There are most important and interesting differences between these
types of authority but this is not the place to investigate the
difference between traditional and legal rules, or to comment on the adequacy
of Weber’s analysis—but in both cases to speak of ‘the authorities’ or
‘those in authority’ or those who ‘hold authority’ is to proclaim that on
certain matters certain people are entitled, licensed, commissioned
AUTHORITY 87 or have a right to be auctores. And the right
is bestowed by a set pattern of rules. 6.Weber’s charismatic
authority. This type of authority is to be distinguished clearly
from other types of authority where the right derives from personal history,
personal credentials, and personal achievements, which, as will be argued
later, are intimately bound up with the exercise of authority in its de
facto sense. There is a gradation from the pure de jure sense of
‘authority’ as when we say that ‘Wittgenstein held a position of authority
in Cambridge’, through the notion of ‘an authority’ as when we say
‘Wittgenstein was an authority on William James’ to the de facto sense as
when we say ‘Wittgenstein exerted considerable authority over the Moral
Science Club’. Both the last two senses of ‘authority’, unlike the first,
imply something about the attributes or qualifications of the individual
in question. But the details of this transition are very difficult to
make explicit. Weber, as a matter of fact, made much of authority
deriving from personal characteristics when he spoke of ‘charismatic
authority’— ‘resting on devotion to the specific and exceptional
sanctity, heroism or exemplary character of an individual person, and of
the normative patterns or order revealed or ordained by him’ (op. cit. p.
301). He was thinking primarily of the outstanding religious and
military leaders like Jesus and Napoleon. He therefore pitched his
account rather high and personal ‘authority’ is decked with the trappings
of vocation, miracles and revelation. Nevertheless, there is
something distinctive about the charismatic leader which he shares in an
exag- gerated form with other ‘natural’ leaders who exercise authority
in virtue of personal claims and personal characteristics. For he
is unlike the moral reformer who gives reasons of a general kind for
his innovations, reasons which he expects everyone to appreciate.
He appeals to revelation or claims that he has a call. These are
not really justifications of his innovations; they are ways of
stressing that he need give no justification because he is a spectal sort
of man. 7. Gradations in the concept of ‘AN authority’.
This notion of presenting credentials of a personal sort is an
intermediary between the purely de jure and the de facto senses of ‘authority’.
For the reference to personal characteristics is a way of establishing
that a man has a right to make pronouncements and issue commands because
he is a special sort of person. And, although 88 R. S.
PETERS in some societies a man who sees visions and goes into
trance states is in danger of electric shock treatment, in other
societies pointing to such peculiarities of personal biography are ways
of establishing a man as an authority in certain spheres. In societies
where the claim to vocation or revelation is acceptable there are also,
usually, collateral tests for eliminating charlatans and the mentally
deranged. But his claims rest, as it were, on some kind of personal
initiation into mysteries that are a closed book to most men. In a
similar way years of study of inaccessible manuscripts would establish a
man as ‘an authority’ on a special period of history, or years spent
in Peru might establish a man as ‘an authority’ on the Incas. Collateral
tests would, of course, be necessary to vouch for his trustworthiness.
But in many fields people become ‘authorities’ by some process of
personal absorption in matters that are generally held to be either
inaccessible or inscrutable. Dodds suggested that the Forms were objects
of this sort for Plato—objects which the initiated had to scrutinize by a
kind of bi-location of personality as practised by shamans. And the
scrutiny of such objects gave the philosopher kings a right to make
decisions and issue commands—in short, made them authorities. (The Greeks
and the Irrational, pp. 210/11.) Weber stresses the importance of
success as a necessary condition for the maintenance of charismatic
authority. If success deserts the leader he tends to think of his god as having
deserted him or his exceptional powers as failing him. And his authority
will be corres- pondingly reduced. The disciples, it is said, were in
despair when Jesus had been crucified. It was only when he accomplished
the supreme feat of rising from the dead that they recovered their
faith in him and in his claims. To a certain extent the charismatic
leader is in the position of a man who keeps spotting Derby winners
without a system. His authority depends on always being right by virtue
of a ‘flair’ or a ‘hunch’—words which point to his inability to give
grounds for his pronouncements. It is because his authority derives from
such personal pecularities that failure tends to be fatal. This is a
very important empirical generalization about a necessary condition for
the exercise of authority which applies at much more mundane levels.’
The point, however, is that in the case of these extreme types of
charismatic authority revelation and success are not simply necessary
conditions for the exercise of authority de facto. They are also grounds
‘Ernest Gellner has pointed out to me that in many societies there are
institutional devices for covering up failure so that the authority can’t
be wrong. AUTHORITY 89 for establishing the right to
be an auctor. This can be shown, too, in more mundane spheres where we
speak of a person being an authoritv. He has not been putin authority; he
does not hold authority according to any system of rules. But because of
his training, competence and past success in this sphere he comes to be
regarded as an authority. He has a right to speak. It may be the case
that people do not exercise authority in various spheres unless they are
competent and successful as a matter of fact; but it is also the case
that they come to be regarded as authorities because these necessary
conditions come to be regarded as grounds for a right. The notion of an
authority, therefore, implies, as it were, a self-generating system of
entitlement which is confined to specific spheres of pronouncement and
decision. We speak ofan authority on art, music or nuclear physics. The
grounds which entitle a manare directly connected with his personal
history and achievements in a specific sphere. These grounds vary from
the extremes of revel- ation, initiation and vocation, through less
esoteric grounds like study of inaccessible material in history, to the
more public and accessible training of a scientist. But in all these
spheres success seems to be a usual ground of entitlement.
8. De facto authority: its necessary conditions and meaning. It was
suggested by reference to the Wittgenstein example, that there was a
gradation from the purely de jure sense of ‘authority’, through the
concept of ‘an authority’ to the de facto sense of ‘authority’. The
analysis of de facto authority must now be tackled and the question faced
whether the term ‘authority’ can ever be used properly if there is no
suggestion of a right to make decisions and issue commands or
pronouncements. Does the exercise of authority de facto presuppose that
the person who exercises it must be in authority or an authority? In the
Admirable Crichton situation the butler, in fact, exercised authority,
though the lord was in authority. Are we to assume that, in some sense
the butler had a right to make decisions? Or does saying that the butler
had authority over the lord mean simply that the lord accepted the
butler’s decisions just because they issued from a parti- cular man in
whose presence his ‘genius was rebuked’? Of course most people who
exert authority de facto do so because of the deference paid to their
office or status rather than because of any outstanding personal
characteristics. But there is often a mixture of both as in the case of
Julius Caesar or Queen Elizabeth the First. Indeed there is subtle
interweaving of these institutional and personal conditions for the
exercise of authority de facto. For, as we say, the office go R.
S. PETERS makes the man; and often the man gives dignity to the
office. The same tendency is to be observed in cases where it is more
appropriate to speak of there being an authority. The entitlement
accorded has a snowball effect. Often the outcome is
disastrous—portentous pro- nouncements which are unquestionably accepted
but which turn out to be erroneous. The generalization to other spheres
is also a well- known phenomenon—one which Socrates spent so much
time attacking. There is, therefore, a widespread connexion
between being in authority or an authority and the de facto exercise of
authority. But this is a contingent connexion, not a necessary one. And
as Admirable Crichton situations are not unusual, it looks as if being in
authority or an authority are only frequently conditions for exercising
authority; it does not look as if they are even necessary
conditions. What then of the cases where a man exercises authority
de facto purely because of certain personal characteristics—when either
there is no deference paid to his office if he is an official, or when he
is not in a position of authority at all? There are two questions here
which need to be distinguished. The first is about the conditions other
than being in authority or an authority which are necessary to the
exercise of authority de facto. The second is the logical question of
what it means to exercise authority de facto in this tenuous sense. Is it
the case that always the exercise of authority implies that in some
sense, a man must be regarded as entitled to command, make decisions and
so on? Are there necessary conditions which, as in the case of
‘anauthority’ come to be regarded as grounds for aright? To answer this
it will be as well to deal briefly with the sorts of things which might
be suggested as necessary conditions. A variety of
generalizations can be made about necessary conditions for bringing about
unquestioning conformity—for instance, that a man’s decisions tend to be
accepted in proportion to the extent to which he has been proved right
before. Success, too, strengthens another necessary condition for the
exercise of authority—the expect- ation of being believed, followed or
obeyed. People will tend to accept decisions and obey orders in
proportion as the man who makes them or gives them expects that they
will. The more successful he is, the less questioning there will be and
the greater will be the confidence sa which he utters them. We have
phrases like ‘an air of authority’, ‘ authoritative voice’, and Jesus, it
is said, produced ae oh because as a boy he spoke ‘with authority’ in the
temple. Such descrip- tions draw attention to the outward signs of the
inner certitude which AUTHORITY gi is usually
necessary for the exercise of authority. For itis not sufficient for a
man to be in fact wise or shrewd or a felicitous prophet, if he is to
exercise authority. He must also be known to be so. It is said that
Attlee’s authority in the country suffered in his early days as Prime
Minister because he did not have a good public relations officer. A man
cannot exercise authority if he hides his light under a bushel. Such
empirical generalizations are the province of the social psychologist.
The question of philosophical interest is whether any such empirical
conditions must come to be regarded as grounds for a right if a man is to
be said properly to exercise authority without being in authority or an
authority. A concrete case will help here. Suppose there is an explosion
ina street ora fire ina cinema. Someone comes forward who is not a
policeman or a fireman or manager of the cinema and who is quite unknown
toall present—.e. he is not regard- ed as ‘an authority’ in virtue of his
personal history or known competence in an emergency. Suppose he starts
issuing orders and making announcements. And suppose that he is
unquestioningly obeyed and believed. Would we say that such a man exerted
authority in a crisis? I think we would only say so if we thought that
his orders were obeyed simply -because they were his. There would have to
be some- thing about him in virtue of which his orders or pronouncements
were _regarded as being in some way legitimately issued. Maybe it would
be his features; maybe it would be the tone of his voice.! Maybe he
would have a habit of command. But those who heard him would have
to think in an embryonic way that he was the sort of man who could
be trusted. It would put the matter altogether too strongly to say that
they thought he had a right to take control. For obviously, in any
useful sense of ‘right’, he has not got a right. He has not been
appointed; he is nota status-holder; he possesses no credentials of a
more person- al sort. All that can be said is that there is something
about him which people recognize in virtue of which they do what he says
simply because he says it. Perhaps the word ‘faith’ is required here;
for, as Hobbes put it, the word ‘faith’ is required when our reasons for
assent derive ‘not from the proposition itself but from the person
pro- pounding’. It may be, however, that the search for some vague
ground for the acceptance of orders in this unquestioning way is to
approach the 'Cf. King Lear, Act. 1 Sc. IV. Lear: Who wouldst thou
serve? Kent: You. Lear: Dost thou know me fellow? Kent: No sir: but you
have that in your countenance which I would fain call master. Lear:
What’s that? Kent: Authority. 92 R. S. PETERS
analysis of ‘authority’ in its de facto sense in too positive a manner.
Perhaps the use of the term ‘authority’ is to deny certain characteristic
suggestions rather than to assert a positive ground for unquestioning
obedience. People often do what theyare told because they are threat-
ened or bribed or physically forced. After all, obedience in a crisis can
be produced by a fire-hose or machine gun, irrespective of who is manning
it. Maybe the term ‘authority’ is necessary for describing those
situations where conformity is brought about without recourse to force,
bribes, incentives or propaganda and without a lot of argu- ment and discussion,
as in moral situations. We describe such situa- tions by saying that an
order is obeyed or a decision is accepted simply because X gave it or
made it. This is a way of excluding both that action was taken on moral
grounds and that the person acted under con- straint or pressure or
influence. The use of authority, in other words, is a manner of
regulating human behaviour which is an intermediary between moral
argument and the use of force, incentives and pro- paganda.
g. Common features of all uses of ‘authority’. There are,
therefore, features which all uses of the term ‘authority’ have in
common. In so far as the de facto sense implies that, in an indeterminate
and embryonic sense, the person who exercises author- ity is regarded as
‘having a right’ to be obeyed, and so on, the de facto sense is parasitic
on the de jure sense. But the common features of both senses are,
perhaps, best brought out by summarizing and making explicit the peculiar
nature and réle of authority in the regulation of human behaviour—the
point at which I embarked on this analysis in the company of Hobbes and
de Jouvenel. (a) In contrast to ‘power’. The first feature to
stress is the connexion between ‘authority’ and the use of certain types
of regulatory utter- ances, gestures and symbolic acts. A person in
authority has a right to make decisions, isstie pronouncements, give
commands and perhaps perform certain sorts of symbolic significant acts.
To have authority with another man is to get him to do things by giving
orders to him, by making pronouncements and decisions. The
main function of the term ‘authority’ in the analysis of a social
situation is to stress these ways of regulating behaviour by certain
types of utterance in contrast to other ways of regulating behaviour.
This is to reject the more usual attempts to analyse ‘authority’ in terms
of ‘power’ as exemplified by Weldon, for instance, who claims that
‘authority’ means power exercised with the general approval of those
AUTHORITY 93 concerned. (Vocabulary of Politics, p. 56.)
This, of course, is not to deny that it may be important, as Warrender
stresses, to distinguish physical power from political power, the latter
being confined to cases where an element of ‘consent’ is involved, as
when a man does something because he is threatened, cajoled or duped, in
contrast to when he is physically coerced—e.g., bound and put into
prison. (See The Political Philosophy of Hobbes pp. 312/3.) It might,
therefore, be tempting to regard the exercise of authority as a species
of the exercise of political power distinguished by approval as opposed
to mere acceptance on the part of the victim. But this, surely, is an
over-simplification. For often what we want to bring out when we say that
men are in authority or exert authority over other men is that they get
their way or ought to get their way by means other than those of force,
threats, incentives and propaganda, which are the usual ways of
exercising power. It is only when a system of authority breaks down ora
given individual loses his authority that there must be recourse to power
if conformity is to be ensured. The concept of ‘authority’ is necessary
to bring out the ways in which behaviour is regulated without recourse to
power—to force, incentives and propaganda. These ways are intimately
bound up with issuing pronouncements, making decisions and giving
com- mands. I suppose the concept of ‘power’ can be extended to
cover these ways of influencing people. But my claim is that ‘power’
usually has meaning by contrast with ‘authority’ rather than as a
generic term of which ‘authority’ is just one species. In so
far as there is a positive connexion between ‘power’ and ‘authority’ it
is better conceived along other lines. For instance, it might well be
true that a common condition for the exercise of authority de facto is
the ability to dispose of overwhelming power, if necessary. Or,
alternatively, power might be regarded as a ground of entitlement. The
old saying that there can be no legitimacy without power might be
interpreted in this second way—as claiming that one of the grounds which
give a man a right to command must always be, directly or indirectly, the
ability to dispose of power, if necessary. Or it could be interpreted in
the first way as an assertion that the posses- sion of power is a
necessary condition for the de facto exercise of authority, the
legitimacy of which might be established in other ways. And, of course,
this necessary condition, like others which I have mentioned before, can
come to be regarded as a ground of entitle- ment. There is, however, no
need to explore this positive connexion in detail. For my claim is that
these are answers to other questions— questions about the grounds of
entitlement or about the necessary 94 R. S. PETERS
conditions for the exercise of authority, not questions about the meaning
of ‘authority’. There is little mystery about why authority should
be so intimately connected with the problem of the analysis of human
institutions. For men, pace Aristotle, are rule-following animals; they
talk and regulate their own behaviour and that of others by means of
speech. Men perform predictably in relation to each other and form what
is called a social system to a large extent because they accept systems
of rules which are infinitely variable and alterable by human decision.
Such systems can only be maintained if there is general acceptance
of procedural rules which lay down who is to originate rules, who is
to decide about their concrete application to concrete cases, and who
is entitled to introduce changes. In other words, if this peculiarly
human type of order is to be maintained there are spheres where it is
essential that decisions should be accepted simply because somebody,
specified by rules of procedure, has made them. It is very difficult to
play cricket without an umpire, just as it is difficult to conceive of an
army working without a hierarchical system of command. The term
‘authority’ is essential in those contexts where a pronouncement,
decision or com- mand must be accepted simply because some person,
conforming to specifications laid down by the normative system, has made
or given it—where there must be a recognized ‘auctor’. More liberal
societies, of course, guard against injustice and stupidity by
instituting further procedures for appealing against decisions of those
in authority. But this ismerely a device whereby a higher authority is
instituted tocorrect the mistakes of a lower one. It is still a
regulatory device which relies on the institution of authority and in no
way abrogates the duty of obedience to the lower authority, provided that
the lower authority is acting intra vires. (b) Incontrast
tomoral and sctentific regulation of conduct and opinions. This analysis
of ‘authority’ accounts also for a long tradition which stresses the
incompatibility between authority and certain specific human enterprises
like science and morality. For it would be held that in science the
importance of the ‘auctor’ or originator is at a minimum, it never being
justifiable in scientific institutions to set up individuals or bodies
who will either be the originators of pronouncements or who will decide finally
on the truth of pronouncements made. The pro- cedural rules of science
lay it down, roughly speaking, that hypotheses must be decided by looking
at the evidence, not by appealing to a man. There are also, and can be,
no rules to decide who will be the origin- ators of scientific theories.
In a similar way, it would be held thata rule AUTHORITY 95
cannot be a moral one if it is to be accepted just because someone
has laid it down or made a decision between competing alternatives.
Reasons must be given for it, not originators or umpires produced. Of
course, in both enterprises provisional authorities can be consulted. But
there are usually good reasons for their choice and their pro-
nouncements are never to be regarded as final just because they have made
them. In science and morality there are no appointed law- givers or
judges or policemen. This is one of the ways in which life in the
laboratory differs from life in the army and law-courts. This
analysis of ‘authority’ readily explains, too, the connexions so often
made between ‘authority’ and ‘command’. For commands, roughly speaking,
are the sorts of regulatory utterances for which no reasons need to be
given. A man can only give a command ifhe is ina position of authority or
if he exerts authority i in a de facto sense. For as an occupant of an
office or as a status holder he has a right to make decisions which are
binding and to issue orders. Similarly, if the de facto sense of
authority is being used, to say that a man has authority over other men
is to say, amongst other things, that they will do what they are told
without questioning the prudence, wisdom and good sense of the decision.
They may, of course, question its legality; for questions can be raised
about a man’s right to issue commands in general or in a particular
sphere. These are questions about his right to an office or status, or
about the sphere of its competence or his prerogative. But once it is
granted that he occupies an office or holds a status legitim- ately, and
once it is made clear that he is not straying from its sphere of
competence or exceeding his prerogative, there can be no further question
of justifying his commands. For commands just are the type of regulatory
utterance where questions of justification are ruled out.
Authority, however, is not exercised only in the giving of
commands. There are also the spheres of making pronouncements and
decisions and the performance of symbolic acts. Behaviour or opinion in
these spheres is regulated by the utterance of a man which carries with
it the obligation for others to accept, follow or obey. The claim put
forward by Hobbes and Austin, that law is command, is right in stressing
the connexion between law and authority but wrong in conceiving of
commands as the only form of authoritative utterance. Similarly those who
speak of ‘the authority of the individual conscience’ cannot be supposed
merely to be saying that in moral matters a man must give himself orders,
which sounds, in any case, a little quaint; rather they are saying that
in moral matters a man must decide himself between conflicting claims and
principles and not accept the pronouncements 96 R. S$.
PETERS and decisions of others simply because they issue from
determinate sources. In morals a man must be his own ‘auctor’.
10. Conclusion. To conclude: my thesis is that the concept
of ‘authority’ can be used in a de jure and a de facto sense. Amongst the
former uses it is very important to distinguish the kind of entitlement
implied in being i authority from that implied in being an
authority. Authority in a de facto sense is parasitic on the de jure
sense in that it implies that decisions are in fact accepted or
commands obeyed simply because they issue from a certain person whose
attributes are in some way regarded as bestowing legitimacy on them. The
grounds for this legitimacy are often much more indeter- minate than
those more impersonal grounds characteristic of de jure authority. There
are, however, more general negative features which all senses of
‘authority’ share. The term is always used to speak of ways in which
conduct is regulated as distinct from the mere use of power—e.g. the
giving of commands, the making of decisions and pronouncements, as
distinct from the use of force, incentives and propaganda. Secondly,
within the sphere of decisions, pronounce- ments and other such
regulatory utterances, authority is confined to those which are or must
be obeyed simply because someone has made them. This second feature of
‘authority’ brings out the contrast between laws, commands and religious
utterances, on the one hand, and those of science and morality on the
other. Both these features of ‘authority’ are rooted in the Latin word
‘auctoritas’ which implies an originator in the sphere of opinion,
counsel and command. (2) PETER WINCH The concept of
authority does not merely give rise to isolated philosophical
difficulties of its own. It is intimately connected with some of the most
central issues in philosophy. Hence Dr. Peters is right to start with
Hobbes: for Hobbes’ account of authority is closely bound up with his
general philosophical account of the nature of human life, thought and
society. Indeed, the connexions between the philosophy of society and
politics on the one hand and metaphysics and epistemology on the other
have probably never been so clearly brought out as they were by Hobbes.
(Thus I think itis a great mistake to try, as some have lately tried, to
treat Hobbes’ account of politics as if it had nothing logically to do
with his epistemological presup- positions. It is not merely a mistaken
interpretation of Hobbes but is also a symptom of wrong ideas about the
relevance of philosophy to politics. Of course, in saying this I should
not be taken as endorsing the specific account Hobbes gives of
epistemology and of politics.) But my agreement with Dr. Peters,
fortunately for the future of this symposium, ends there. Although I
think that he starts off with a genuine philosophical problem, and one
which an analysis of the concept of authority should have much to
contribute to, I do not accept the analysis which he offers; I should
like to suggest, moreover, that the defects in it which I hope to be able
to point out arise out of a failure on Peters’ part to keep his initial
problem clearly in mind and go deeply enough into it. My method,
therefore, will be to develop my argument independently from the same
starting point as Peters’, trying to show en passant what seems to me
wrong with the account of authority which he offers. What
light then does the notion of authority throw on the nature of the
cohesion or unity which is characteristic of societies of human beings as
opposed to what Peters calls ‘natural wholes’? As Peters notes, Hobbes
uses the notion in a legalistic way: for him, the unity of a society is a
sort of legal fiction, involving the quasi-legal notion of
representation, which he regards as closely analogous to author- ization
and hence as involving the notion of authority. A multitude of
men, are made one person, when they are by one man, or one person,
represented; so that it be done with the consent of every one of that
multitude in particular. For it is the unity of the representer, not the unity
of 98 PETER WINCH the represented, that maketh the
person one. And it is the representer that beareth the person, and but
one person; and unity, cannot otherwise be under- stood in
multitude. (Leviathan, Ed. Oakeshott, p. 107.) What is
important here for my purposes is that the real unit, in Hobbes’
conception, is the individual will. His problem is to say how a large
number of wills can be conceived as co-ordinated in the way with which we
are familiar in human societies. Now M. de Jouvenel equally, in those
passages which Peters cites, seems to take the indivi- dual will as his
starting point: he thinks of a society in terms of the mutual influence
of such wills. Social movements, for him, start as the projects of
individual wills; authority is the faculty of interesting the wills of
others in one’s own projects. Peters himself does not, I think,
explicitly declare himself on this issue. Nevertheless, I think it is
fair to ascribe to him too the view that the starting point in the
analysis of authority should be the success of the individual in getting
his decisions accepted by other individuals. This is implicit, for
instance, in his account of the notion of ‘natural’, ‘de facto’
authority, with his stress on the importance of purely personal qualities.
My paper starts from a point of view which is opposed to this.
Although a man who exercises authority does indeed influence the wills of
other men, authority cannot be understood as a peculiar sort of influence
of one will upon another. If that sounds paradoxical, let us recall that
although a man who has knowledge does indeed believe something, knowledge
cannot be understood as a peculiar kind of belief. This analogy points to
a parallel, which I think may be quite illuminating, between the problem
in political philosophy of giving an account of the distinction between
authority and power and the problem in epistemology of giving an account
of the distinction between knowledge and belief. The connexions between
these ques- tions are brought out in the argument of Plato’s Gorgias; I
shall return to the parallel subsequently. Authority is not a
sort of influence. It is not a kind of causal relation between individual
wills but an internal relation. The very notion of a human will, capable
of deliberating and making decisions, presup- poses the notion of
authority. I shall try to show this by considering the whole question of
the nature of the unity of a human society from a different point of
view. I want to say first that the chief way in which this unity
differs from AUTHORITY 99 that of what Peters calls
‘natural’ wholes is that it is a unity essentially involving concepts. It
would obviously be going much too far to say that a human society is a
conceptual unity in the sense in which one can say this of a system of
ideas; but there are analogies. For the interaction of human beings in
society, unlike that of animals, involves communication, speech and
mutual understanding (or, of course, misunderstanding). It is a type of
interaction which can be accounted for adequately neither in terms of
instinct nor of conditioned reflex.’ It follows from this that one
cannot give a full account of the nature of a human society without
giving an account of the way in which con- cepts enter into the relations
which men have to each other in sucha society. Wittgenstein
has shown how notions like communication and understanding presuppose the
notion of following a rule. He has also offered an account of this latter
notion which brings out the peculiar kind of social interaction which it
involves: what he calls “agreement to go on in the same way’. Now Peters
mentions, in Section g of his paper, that activities which are governed
by rules can be carried on only if there is agreement that somebody
should be in authority to make crucial decisions. But he does not seem to
me to see the full bearing of this fact on the analysis of the concept of
authority. Itis not clear whether he regards the connexion between
rule-governed activ- ities and authority as merely contingent (arising
out of the tendency of men to come into mutual conflict), or whether he
is making a gram- matical statement about what is involved in the.very
notion of a rule. 1 think it is important to see that the connexion is
conceptual rather than contingent. The acceptance of
authority is not just something which, as a matter of fact, you cannot
get along without if you want to participate in rule- governed
activities; rather, to participate in rule-governed activities is, in a
certain way, to accept authority. For to participate in such an activity
is to accept that there is a right and a wrong way of doing things, and
the decision as to what is right and wrong ina given case can never
depend completely on one’s own caprice. (Cf. Wittgenstein: Philoso-
phical Investigations, I, 258.) For instance, pace Humpty Dumpty, J
cannot (at least in general) make words mean what J want them to mean: I
can use them meaningfully only if other people can come to under- stand
how I am using them. Of course, I can decide, in a certain context, to
make the sound ‘red’ mean what is commonly meant by the ‘For
reasons of space much must be taken for granted here. I have argued the
point at greater length in The Idea of a Social Science (Routledge &
Kegan Paul, 1958). 100 PETER WINCH sound ‘blue’; but
I can do this only in so far as I also understand the meanings of a great
many words which J have not decided upon. In other words, when it comes
to following rules I must (as a matter of logic) accept what certain
other people say or do as authoritative. This approach suggests
that there is an intimate conceptual con- nexion between the notion of
authority on the one hand and, on the other hand, the notion of there
being a right and a wrong way of doing things. That is the position that
I propose to maintain and develop in what follows. It may
sound far-fetched to start a discussion of the concept of authority at
this point; for the activity of speaking a language is not one in which
the exercise of authority is at all obtrusive.’ When we use words in the
right way we do not think of ourselves as bowing to the dictates of an
alien will. No; but then I want to say that to submit to authority (as
opposed to being subjected to power) is not to be subject to an alien
will. What one does is directed rather by the idea of the right way of
doing things in connexion with the activity one is perform- ing; and the
authoritative character of an individual’s will derives from its
connexion with that idea of aright way of doing things. (This, I think,
is partof the truth beind Collingwood’s odd, but in some ways
illuminating, definition of authority in The New Leviathan, 20. 45:
“Something capable of ruling itself sometimes appears to be (but is not
in fact) ruled by something else. I refer to the case in which one thing
is said to have authority over another.’) The réle of authority in
activities like speaking a language is ob- scured by the fact that the
authority in question is not esoteric. All educated Englishmen are
authorities on the correct speaking of English. This makes it
particularly easy to, and important not to, overlook the interwovenness
of the idea of there being a correct way of speaking, on the one hand,
and the established practice of a certain group of people (the
‘authorities’: in this case a very wide group), on the other.
All characteristically human activities involve a reference to an
established way of doing things. The idea of such an established way of
doing things in its turn presupposes that the practices and pronounce-
ments of a certain group of people shall be authoritative in connexion
with the activity in question. Further, we can give no account of the
‘Though, as Max Weber several times emphasizes, the exercise of
authority (in a more obvious sense) is certainly essential to the
maintenance of a language. Cf. Wirtschaft und Gesellschaft. Kapitel III:
‘It is the authority exercised in school which puts the seal on what
counts as the orthodox, correct way of writing and speaking’ etc.
AUTHORITY 101 nature of the wholes which we call human societies,
as opposed to that of ‘natural’ wholes, except by giving an account of
what is involved in characteristically human activity. It is in this way,
I suggest, that the notion of authority is important to the conception of
a human society. It should be noted that I have made no explicit
reference here to the idea of one individual human will’s influencing
another. A relation of authority, as opposed to one of power, is an
indirect relation between X and ¥ involving as an intermediary the
established way of performing the activity on which X and Y are engaged.
I can now amplify my earlier remark that authority is an internal
rather than a causal relation. It is so because of its connexion with the
ideas embodied in the form of activity within which it is exercised. (I
use the notion of a ‘form of activity’ here in an extended sense to
include not merely activities like tree-felling, chess-playing, etc., but
also moral and political behaviour, which constitute forms of activity in
a somewhat different sense. De Jouvenel’s distinction, to which | shall return
shortly, between the ‘team of action’ and the ‘milieu of existence’, may
be helpful in explicating this distinction.) If N is trying toteach
mechess and Iam trying to learn, N and I are internally related by way of
my acceptance of his authority on the right way to play chess. Again, if
Nis a judge trying a case in which I am litigating, his authority over me
is an internal relation which can only be understood in terms of the
system of (legal, moral and political) ideas which give such legal processes
their sense in our society. In neither of these two examples can the
relation of authority between N and me be understood in purely causal
(sociological or psychological) terms. Much of Peters’ argument
turns on his belief that ‘it is very impor- tant to distinguish the kind
of entitlement implied in being in authority from that implied in being
an authority’ (Section 10). His Weberian idea of ‘natural’ authority,
depending on purely personal qualities, commits him to a denial of my assertion
that the notion of an ‘established’ way of doing things 1s essential to
the notion of authority as such. I am saying, in a sense, however, that
someone who is in authority is always an authority on something. I am
aware of the difficulties this way of speaking raises, especially in
connexion with those situations where Weber speaks of the exercise of
‘charis- matic’ authority; I shall reserve discussion of these until
later. I should like first to show that the kind of analysis I propose is
capable of easing certain long-standing philosophical difficulties which
the notion of authority gives rise to. Earlier I cited a
remark of Collingwood’s to the effect that to 102 PETER
WINCH be subject to authority is not to be in somebody else’s
power. This brings us face to face with the whole question of how the
necessity for authority in human affairs fits in with men’s freedom of
choice. To be subject to somebody else’s will is for one’s own
freedom of choice to be reduced; but there is a powerful
philosophical tradition to the effect that the exercise of legitimate
authority is not a curtailment of this freedom. De Jouvenel, for
instance, writes: ‘Authority is the faculty of inducing assent. To follow
an authority is a voluntary act. Authority ends where voluntary assent
ends. There is in every state a margin of obedience which is won only by
the use of force or the threat of force: it is this margin which
breaches liberty and demonstrates the failure of authority.’
(Sovereignty, Pp. 33.) This line of thought seems to me one which it is
important to empha- size. I shall now try to show that authority,
according to the acceunt I have been giving of it, is not by any means a
curtailment of liberty but is, on the contrary, a precondition of
it. The liberty in question is the liberty to choose. Now choice,
as Hobbes (though in a misleading way) emphasized, goes together
with deliberation (Leviathan, Ch. 6). To be able to choose is to be able
to consider reasons for and against. But to consider reasons is not,
as Hobbes supposed, to be subject to the influence of forces.
Considering reasons is a function of acting according to rules; reasons
are intelligible only in the context of the rules governing the kind
of activity in which one is participating. Only human beings are
capable of participating in rule-governed activities, hence other
animals cannot be said to deliberate and choose, though Hobbes,
consistently with his premises, maintained otherwise. Thus it is only in
the context of rule-governed activities that it makes sense to speak of
freedom of choice; to eschew all rules—supposing for a moment that we
under- stood what that meant—would not be to gain perfect freedom, but
to create a situation in which the notion of freedom could no longer find
a foothold. But I have already tried to show that the acceptance of
authority is conceptually inseparable from participation in rule-
governed activities. It follows that this acceptance is a precondition of
the possibility of freedom of choice. Somebody who said that he was going
to renounce all authority in order to ensure that he had perfect freedom
of choice would thus be contradicting himself. (A conceptual version of
the man who thought that he could fly more easily if only he could escape
the inhibiting pressure of the atmosphere.) Consider an example. If
1 am being taught chess, then the pro- nouncements of my teacher are
authoritative for me because of my AUTHORITY 103
recognition of the fact that he is telling me the correct way to move the
pieces. If I make a wrong move and he corrects me, this is not in any
intelligible sense an encroachment on my freedom of action. Until I know
how to play chess the question of my being free or not to play the sort
of game I choose cannot arise. And I can only learn how to play by
accepting the pronouncements or example of some mentor or mentors as
authoritative. I realize that this example loads all the dice in my
favour, and it is time now to consider some cases which give me more
difliculty. In this connexion I must draw attention to two aspects of the
chess example. (1) Playing or not playing chess is itself a matter of
choice; but it is certainly not true of all cases of authority that it is
accepted volun- tarily in this sense. Very often authority cannot be
accepted or rejected at will because it is not a matter of choice for us
to participate or not to participate in the form of activity within which
it is exercised. Indeed, one of the most telling criticisms frequently
made of social contract theories of authority is precisely that they
overlook this point. (2) In the chess example the meaning of the
expression ‘the right way to proceed’ is clear and unambiguous. People
who know how to play chess do not dispute about what moves of the various
pieces are legitimate (and this fact belongs to our idea of the game of
chess). But this feature is lacking from many of the cases in which
authority is exercised, and particularly from those which give the most
philosophical trouble. There will, for example, certainly be no general
agreement about whether or not a given exercise of political authority
was ‘right’ or not (and this belongs to our idea of politics). Peters is
so impressed by this that he is led to think that the concept of
authority becomes applicable precisely where the concept of ‘the right
way to proceed’ ceases to apply. That, at any rate, is how I interpret
his insistence that an appeal to authority is a way of avoiding having to
give reasons for what one does or says. Now I agree that this lack of
agreement about what is right creates philosophical diffi- culties; but I
do not think that Peters’ way of dealing with them is satisfactory.
I shall now deal with these two objections in turn. (1)
Consider the following two cases in which the authority exercised over a
person clearly does not depend on his choice to participate in any
particular form of activity: (a) the authority of adults over children;
(b) political authority. (a) The point about children is that they
are not yet ina position to exercise freedom of choice in the full sense,
because they have not 104 PETER WINCH yet been
sufficiently educated in modes of social life to be able to deliberate.
The exercise of authority over them, therefore, cannot be an encroachment
on their freedom: it is via the exercise of authority that they will be
inducted into modes of social life and thus be made capable of
deliberating and exercising choice. A child is obviously not in a
position to choose to do this or that until he has learned how to do this
and that. (6) The difficulty raised by political authority is quite
different. It is not, characteristically, exercised over children (and
any attempt to derive it from the notion of paternal authority is, I
think, completely misconceived). But still, like the liability of
children to adult authority, one’s liability to political authority does
not depend on a decision to subject oneself to it; in this way it is
unlike the case of someone who subjects himself to the authority of those
who know howto play chess in deciding to learn chess himself, or the case
of someone who subjects himself to the authority of the priest by
deciding to become a Roman Catholic. To deal with this I
shall use a modified version of de Jouvenel’s distinction, already
alluded to, between the ‘milieu of existence’ and the ‘team of action’
(op. cit., Chapter 4). Activities like playing chess, building bridges,
performing religious duties, going to war, etc., do not take place in
isolation. Thev presuppose an established social framework. No society
can be understood as just one big action group. But neither can it be
properly understood as just the sum of the various action groups which
compose it. For new (political) problems (that is, problems not specific
to any particular action group) arise out of the fact that action groups
influence each other: either by mutual assistance or by conflict.
Moreover, no indivi- dual will belong to just one action group, with the
result that (moral) problems of divided loyalty occur within the life of
the individual. Along with those new problems go specific ways of
treating and thinking about them: conventions dealing with right and
wrong ways of settling conflicts, for example. And the carrying out of
those conventions will, in the public sphere, involve the exercise of
authority. This is the sphere of Jouvenel’s ‘milieu of existence’ and the
authority exercised within it is what he calls the authority of the rex
as opposed to that of the dux who leads the team of action.
For my purposes it is important to emphasize that our very idea of
the kind of activity carried on by the action group carries with it the
idea of a milieu of existence in which some kind of political
AUTHORITY 105 authority is exercised in the settling of conflicts.
We do not know what it would be like for such a mode of activity to be
carried on in complete isolation: apart, that is, from other modes of
activity with which it is in contact, with which it may conflict, and for
which conflicts there must be conventions governing their equitable
settle- ment. Although, therefore, one does not choose to accept
political authority; although its applicability to one does not depend on
any decision one may or may not have made to ‘engage in politics’;
nevertheless, the fact that one is a human social being, engaged in
rule-governed activities and on that account able to deliberate and to
choose, is in itself sufficient to commit one to the acceptance of
legitimate political authority. For the exercise of such authority isa
precondition of rule-governed activities. There would, therefore, bea
sort of inconsistency in “choosing to reject’ all such authority. And
since the acceptance of such authority is implied in the kind of
behaviour to which alone the category of freedom of choice is applicable,
it would be absurd to regard it as a derogation from a man’s freedom of
choice. (2) I turn now to the other objection: that whereas there
is general agreement on what counts as ‘right’ when we are dealing
with the moves of chessmen, this is not true of other situations in
which authority is exercised—of politics, for instance. Now I agree
that here—and in some other contexts too—general agreement on the
right course of action is lacking; I agree, too, that it is precisely
here that it is necessary to have someone in authority. That is, where
we have no agreement about what is to be done, we must, unless we
are to lapse into chaos, have some agreement about who is to decide
what is to be done. But I still wish to maintain, in opposition to what
I take to be implied by Peters’ position, that we have to deal with
genuine authority, as opposed to bare power or ability to influence, only
where he who decides does so under the idea of what he conceives to be
the right decision. This fundamental fact is not altered by the
controversial character of the distinction between right and wrong here.
Consider for instance the authority of the Pope over Roman
Catholics which is, in a sense, absolute in religious matters. All the
same, if a Pope were to issue an Encyclical denying the existence of God
and advocating the practice of free love, 1 doubt whether this would be
recognized as carrying the papal authority along with it. Papal
authority, that is, is not completely beyond the possibility 106
PETER WINCH .of all criticism;! and this, I want to say, is true
of all authority, because authority is essentially bound up with systems
of ideas, and systems of ideas essentially involve the possibility of
discussion and criticism. Again, certainly not everyone would
agree that the Labour Government acted rightly in nationalizing the steel
industry. Never- theless part of that act’s authoritative character
derived from the fact that it was claimed to be the right thing to do in
the circumstances (and some sort of case had to be made out for it). A
great deal of authority would have been lost if the action had been
generally and seriously regarded as an arbitrary act of dispossession for
the sake of personal enrichment or for the sake of a social grudge. An
authority can be allowed to make mistakes (up to a certain point) about
what is the right course to follow, and still retain its authoritative
character: but for it to be thought that it no longer cares about what is
right and what is wrong (in the sense appropriate to the context in
which it operates) is for it to degenerate from authority into force.
For reasons connected with this, M. de Jouvenel seems to me to be
saying something of considerable philosophical importance, in his book
on Sovereignty, when he recalls the attention of political
philosophers from the problem of who is to decide to the problem of what
is to be decided. This second problem is not merely pragmatically
important; it is conceptually interwoven with the first problem via the
concept of authority. I shall now consider the implications
of what I have been say- ing for the distinctions which Dr. Peters
attempts to draw in his paper. His position appears to be the following.
On the one hand we have authority of what Weber called the ‘traditional’
and ‘legal- rational’ types. It is characteristic of these that the
authority in question attaches to a status or an office defined and held
accord- ing to some more or less explicit system of rules. On the
other hand we have ‘de facto authority’ a watered-down version of
Weber’s ‘charismatic’ authority, which attaches to a specific person
in view of certain personal qualities which he exhibits—as in
Peters’ quotation from King Lear. Intermediately, we have authority
which ' Peters said, in an earlier version of his paper, that a man
who supports what he says by claiming to speak with the voice of God (cf.
Hobbes, op. cit., p. 243) is trying to rule out the need to produce
arguments. Perhaps he is ruling out arguments of acertain sort;
but what he is producing is itself an argument of a different sort, which a
religious man may give (religious) reasons for accepting or
rejecting. 2Cf. G. C. Homans: The Human Group, p. 171 for an
illuminating illustration of the close connexion between the idea of
authority and that of the right way to behave. AUTHORITY 107
is accepted by virtue of what Peters calls ‘credentials of a
personal sort’—a history of outstanding success, for example, in a given
field of activity. Peters has difficulty with the notion of
‘de facto authority’; for while, on the one hand, he is unwilling to say
that this may depend on a set of rules of some sort—as this would seem to
endanger its distinct- ness from ‘de jure authority’; yet, on the other
hand, in order to distinguish it from mere power, he has somehow to bring
in the notion of there being some right to exercise it on the part of the
person who does so. He concludes: ‘All that can be said is that there is
something about him (sc.the wielder of de facto authority) which people
recognize in virtue of which they do what he says simply because he says
it.’ This sounds to me suspiciously evasive. Either people do what he
says simply because he says it, or else they do what he says in virtue
of something else about him, which they recognize. If the latter, then
it will be part of the philosopher’s job to say what that ‘something
else’ is. I suggest that the way in which Peters has drawn his
distinctions precludes him from doing this. I can show this
better by considering the distinctions of Max Weber’s on which Peters
leans. According to Weber ‘traditional’, ‘legal-rational’, and
‘charismatic’ authority represent three ‘ideal types’. That is, they are
conceptually distinct though seldom, if ever, found in their pure forms
in actuality. I want to suggest, on the contrary, that these three types
are not even conceptually distinct. Both the idea of the ‘legal-rational’
and that of the ‘charismatic’ presuppose the idea of a tradition.
I will concentrate here on the notion of charisma. Weber says quite
explicitly that charismatic authority is not at all tied to a tradition.
(Cf. Wirtschaft und Gesellschaft, p. 555.) In the same strain he remarks
that the characteristic attitude of the charismatic leader is: ‘It is
written that....But I say unto you....(Ibid., p. 141.) Charismatic
authority is conceived as a revolutionary force, as one of the main
agencies by which new ways of living and thinking are introduced into a
society. Granted that this is so, it is still very misleading to
oppose charisma to tradition. The point about it is not that it stands
apart from established ways of doing things but that it stands to them
in a very special relation. Apart from the tradition to which it
stands in such a relation it is quite unintelligible and
inconceivable. Jesus Christ certainly revolutionized the religion
of the Jews. The authority that he exercised was clearly very different
from that 108 PETER WINCH of an orthodox rabbi. But
what Jesus was, what he did and said, and the kind of authority he
exercised, are completely unintelligible apart from the Jewish religious
tradition. He came to fulfil the Law. When he opposed what he said to
what was written he cannot sensibly be taken to have meant that he was
replacing what was written by something completely different. Rather, he
threw new light on what was written; and what he said could not be
understood as it was intended except by someone who had some knowledge of
what was written. (This question is discussed with great illumination by
Schweitzer in his The Psychiatric Study of Jesus.) Or, to take a
very different example, William Webb Ellis when in 1823 he picked up the
ball and ran and thereby created the game of Rugby Football, exercised a
sort of charismatic authority over his fellow-participants in the game:
an authority very different in kind from the legal-rational sort wielded
by the duly appointed captain of a football team. But still, Ellis could
not have done what he did apart from the rules of the game as they then
existed; and we can only understand the nature of the authority which he
exercised by considering what he did, and the effects of what he did, in
relation to those rules. Peters says that the charismatic or
natural de facto leader is unable to give reasons for what he does.
Perhaps so. Nevertheless, what he does or proposes has a sense; and it
derives this sense from the tra- dition of activity in the context of
which it occurs, whether this bea context of religious thought and
practice, rules of football, or whatever. To say that X is
exercising de facto authority when his decisions are accepted simply
because they are his does not go far enough. As Peters implicitly
recognizes when he says that his decisions are accepted because people
recognize ‘something about him’, we must look further than the mere fact
that his decisions are accepted, if we are to account for his authority.
We must ask what lies behind that accep- tance. And what will be found to
lie behind it is the tradition of activity which gives his proposals and
decisions, and other people’s acceptance of them, their sense. His
authority consists in the fact that his followers trust him to show them
the right course to pursue in the context of that activity. And his
exercise of that authority. may, in genuinely charismatic cases, result
in the giving of a new sense to the notion of ‘the right course to
pursue’. Let us consider a little more closely the external marks
of natural authority which Peters emphasizes in Section 8 of his paper.
Let us AUTHORITY 109 ask what makes a certain air, a
certain tone of voice, a certain demean- our, a sign of authority.
Certainly not anything intrinsic to the demeanour itself. In the film
about the exploits of H.M.S. Amethyst, ‘Yangtse Incident’, the
‘authoritative’ demeanour of the rating who dressed up as an officer in
order to bluff the Chinese commandant was merely laughed at by his fellow
ratings. A given demeanour can only be a sign of authority in a special
sort of context. If we try to explain what (even de facto)
authority 1s in terms of these external marks—as when Peters wonders
‘whether any such empirical conditions must come to be regarded as
grounds fora right’ — we shall get into the same kind of difficulty as
Descartes got into in trying to account tor knowledge in terms of the
clearness and distinct- ness of ideas. The clearness and distinctness of
one’s ideas may bea sign that one knows what one is talking about, but
will not by itself serve as a criterion of the truth of what one is
saying. Similarly, the confidence of one’s demeanour may be a sign that
one knows the right thing to do and that what one proposes may therefore
be accepted as authoritative. But even the success of one’s
confident demeanour in inducing others to do what one proposes is not
the ultimate test of one’s authority. The test of whether or not
other people were right to accept one’s authority will be the
subsequent assessment of the rectitude of what was done at one’s instigation.
The parallels are close between the misguided attempts in political
philosophy to account for authority in terms of the properties and
relations between individual wills and the equally misguided attempts in
epistemology to account for knowledge as a property of the individual
mind. Authority is no more a sociological concept than knowledge is a
psychological one. Postscript (1967) The subject of
this symposium was authority sans phrase, rather than political
authority, and I want to emphasize that my paper was concerned with the
more general question. This is important for the following reason: what I
wrote about specifically political authority is badly mistaken {as I
realized as soon as the original paper had gone to the press) and the
mistake tends to some extent to give a misleading appearance to my whole
argument. It is a central point of Hobbes’s thesis that the answer
to the question, “What constitutes the unity of the state?’ also
provides the answer to the question, ‘What are the conditions under which
we 110 PETER WINCH are entitled to call a collection
of individuals a human society?’ Now I believe it is a consequence of my
line of argument that Hobbes is quite mistaken in what he says about
this. But this is obscured by the impression my paper gives that it is
concerned with just the same question as Hobbes was concerned with in the
passages quoted by Peters and myself. The question to which my remarks
are relevant is, ‘What is it about human life that makes the concept of
authority applicable at all?’; and I tried to show that the answer to
this question is also part of the answer to the question ‘What is a human
society ?’ But though these latter questions have to be answered by
anyone who wishes to clarify the peculiar nature of political
authority, their answers will not in themselves provide such a
clarification, which requires an analysis not just of the way concepts in
general enter into life in human societies, but of the way a
particular set of political concepts enters into the life of a body
politic and into the binding together of its members under a common
regime. My failure, in my paper, to make these distinctions clear
enough led me to make the following quite false remark: ‘the fact that
one is a human social being, engaged in rule-governed activities and on
that account able to deliberate and to choose, is in itself sufficient
to commit one to the acceptance of legitimate political authority’.
This position is close to Locke’s analogy between a political ruler and an
umpire; and there are two considerations which show it to be quite
mistaken. (1) There is, it now seems to me, no good reason to suppose
that social life is impossible in the absence of anything like the
authority of the state. (2) The authority of the state, where it exists,
is suz generis and somehow imposed from without on other social
institutions. (This is one of the main points of Hume’s criticism of
Locke in his essay ‘Of the Original Contract’, the argument of which I
think is by and large correct.) But J still think that Hume’s
argument needs to be supplemented by something like the main argument of
my paper. Though the state faces other social institutions as something
like an external force with its own, in a way independent, sources of
authority, still this force and this authority are what they are by
virtue of the fact that there exists a concept of the state in the
society within which they are exercised—a concept which enters into what
subjects will and will not submit to from the state and into the
activities of the officers of the state. This concept is not itself
imposed by the state; it manifests itself in the spontaneous life of the
society, even though its existence AUTHORITY 111 makes
possible the imposition of certain things in a way which would not
otherwise be possible. To say this much is to do no more than state
a problem: what is the peculiar character of this concept and what
difference does its existence make to the life of a society? I do not
attempt to answer this question here; the purpose of this postscript is
simply to correct the misleading appearance of my original paper to claim
to have provided an answer. VI THE PUBLIC
INTEREST BRIAN BARRY I A TRIBUNAL of Enquiry
claims that the public interest requires journalists to disclose their
sources of information; the Restrictive Practices Court invalidates an
agreement among certain manufac- turers as contrary to the Restrictive
Practices Act and therefore contrary to the public interest; the National
Incomes Commission says that a proposed rise for the workers in an
industry would be against the public interest. These examples could be
multiplied end- lessly. Each day’s newspaper brings fresh ones. In
arguments about concrete issues (as opposed to general rhetoric in favour
of political parties or entire societies) ‘the public interest’ is more
popular than ‘justice’, ‘fairness’, ‘equality’, or ‘freedom’.
Why is this? Roughly, there are two possible answers. One is that
‘the public interest’ points to a fairly clearly definable range of
considerations in support ofa policy and ifitisa very popular concept at
the moment all this shows is that (for better or worse) these
considerations are highly valued by many people at the moment. This is my
own view. The other answer is that politicians and civil servants find it
a handy smoke-screen to cover their decisions, which are actually
designed to conciliate the most effectively deployed interest.
These sceptics often buttress their arguments by pointing out that
most theoretical writing about ‘the public interest’ is vague and
confused. This theme is copiously illustrated by Frank J. Soraufin his
article ‘The Public Interest Reconsidered’, Journal of Politics, XIX
(Nov. 1957) and by Glendon Schubert in his book The Public Interest :
Critique of a Concept. But it is a familiar idea that people who are
perfectly well able to use a concept may nevertheless talk rubbish about
it, so even if many of the writings about the concept are confused it
does not follow that the concept itself is. A more cogent line of
argument is to construct a definition of ‘the public interest’ and then
From Proceedings of the Aristotelian Society, Supp. Vol. 38 (1964), pp.
1-18. Reprinted by courtesy of the author and the Editor of the
Aristotelian Society. THE PUBLIC INTEREST 113 show
that, so defined, nothing (or not much) satisfies it. From this, it can
be deduced that most uses of the phrase in political discussion must be
either fraudulent or vacuous. Like Sorauf and Schubert, the best known
expositors of the view are Americans—one may mention A. F. Bentley’s The
Process of Government and D. B. Truman’s The Governmental Process. But
the most succinct and recent treatment is to be found in Chapters Three
and Four of The Nature of Politics byJ.D.B. Miller, and it is to a
criticism of these chapters that I now turn. I]
Miller defines ‘interest’ as follows: ‘we can say that an interest exists
when we see some body of persons showing a common concern about
particular matters’ (p. 39). On the basis of this he later puts forward
two propositions. First, one is not ‘justified in going beyond people’s
own inclinations in order to tell them that their true interest lies
somewhere else’ (p. 41). It ‘seems absurd’ to suppose that an interest
can exist if those whose interest it is are not aware of it (p. 40). And
secondly, a ‘common concern. . . must be present if we are to say that a
general interest exists’. “A common concern will sometimes be found in
the society at large, and sometimes not. More often it will not be there’
(p. 54). Apart from the last point, which is a statement of fact
and one I shall not query here, these propositions follow analytically
from the original definition of ‘interest’, though Miller does not see
this clearly. Everything hinges on that slippery word ‘concern’ which
plays sucha crucial part in the definition. One can be concerned at (a
state of affairs) or concerned about (an issue) or concerned with (an
organiza- tion or activity) or, finally, concerned dy (an action, policy,
rule, eéc.). The noun, as in ‘so-and-so’s concerns’ can correspond to any
of the first three constructions, and it seems plain enough that in these
three kinds of use nobody can be concerned without knowing it. In
the fourth use, where ‘concerned by’ is roughly equivalent to
‘affected by’, this is not so: someone might well be affected by an
economic policy of which he had never heard. But the noun ‘concern’ does
not have a sense corresponding to this, nor does Miller stretch it to
cover it. Naturally, if ‘interest’ is understood in terms of actual
striving, no sense can be given to the idea of someone’s having an
interest but not pursuing it. Similarly, if ‘interest’ is defined as
‘concern’ it hardly needs several pages of huffing and puffing against
rival conceptions (pp. 52-54) to establish that “common or general
114 BRIAN BARRY interest’ must be equivalent to ‘common or
general concern’. Since, then, Miller’s conclusions follow
analytically from his definition of ‘interest’, with the addition of a
factual premise which 1 am not here disputing. I must, if I am to reject
his conclusions, reject his definition. Miller can, of course, define
‘interest’ any way he likes; but if he chooses a completely idiosyncratic
definition he can hardly claim to have proved much if it turns out that
most of the things that people have traditionally said about interests
then become false or meaningless. He clearly believes himself to be
taking part in a debate with previous writers and it is because of this
that he is open to criticism. Let us start from the other
end. Let us begin by considering the things we normally want to say about
interests, the distinctions which we normally want to draw by using the
concept, and then see whether it is not possible to construct a
definition of ‘interest’ which will make sense of these ordinary speech
habits. The first part of Miller’s definition, which makes interests
shared concerns, conflicts with our normal wish to drawa distinction
between someone’s private or personal interests on the one hand and
the interests which he shares with various groups of people on the
other hand. Simply to rule out the former by fiat as Miller does seems
to have nothing to recommend it. It might perhaps be argued in
defence of the limitation that only interests shared among a number of
people are politically important, but it can surely be validly replied
that this is neither a necessary nor a sufficient condition.
The second part of the definition equates a man’s interests with
his concerns. This conflicts with a great many things we ordinarily want
to say about interests. We want to say that people can mistake their
interests, and that while some conflicts are conflicts of interests,
others (e.g., “conflicts of principle’) are not. We distinguish between
‘disinterested’ concern and ‘interested’ concern ina particular matter;
we find it convenient to distinguish ‘interest groups’ (e.g., The
National Farmers’ Union) from ‘cause’ or ‘promotional’ groups(e.g., The
Abortion Law Reform Association). ‘They co-operate because they have a
common interest’ is ordinarily taken as a genuine explana- tion, rather
than a pseudo-explanation of the ‘vis dormitiva’ type, as it would be if
co-operation were identified with (or regarded as a direct manifestation
of) acommon interest. We allow that one can recognize something as being
in one’s interest without pursuing it. Finally, we do not regard it as a
contradiction in terms to say, ‘I realize that so-and- so would be in my
interests but nevertheless I am against it’. These THE PUBLIC
INTEREST 115 points are all inconsistent with Miller’s definition,
and in addition the last of them is inconsistent with any attempt such as
that of S. I. Benn to define a man’s interests as ‘something he thought
he could reasonably ask for’ (‘“Interest’’ in Politics’, Proceedings of the
Aristotelian Society, 1960, p. 127). Can a definition be
found which will make sense of all these uses of ‘interest’ ? I suggest
this: a policy, law or institution is in someone’s interest if it
increases his opportunities to get what he wants—what- ever that may be.
Notice that this is a definition of ‘in so-and-so’s interests’. Other
uses of ‘interest’ all seem to me either irrelevant or reducible to
sentences with this construction. Thus, the only unforced sense that one
can give to “What are your interests ?’, which Benn imagines being put
seriously to a farmer, is that it is an enquiry into his favourite
intellectual preoccupations or perhaps into his leisure
activities—applications of ‘interest’ whose irrelevance Benn himself
affirms. Otherwise, it has no normal application, though a ‘plain man’
with an analytical turn of mind (such as John Locke) might reply:
‘Civil interest I call life, liberty, health and indolency of body; and
the possession of outward things, such as money, lands, houses, furniture
and the like’ (Letter Concerning Toleration). This might be
regarded as a specification of the kinds of ways in which a policy, law
or institution must impinge on someone before it can be said to be ‘in
his interests’. Unpacked into more logically trans- parent (if more
long-winded) terms it might read: ‘A policy, law or institution may be
said to be in someone’s interests if it satisfies the following
conditions... .’ The main point about my proposed definition,
however, is that it is always a policy that is said to be ‘in so-and-so’s
interest’—not the actual manner in which he is impinged upon. (From now
on I shall use ‘policy’ to cover ‘policy, law or institution’.) There are
straight- forward criteria specifying the way in which someone has to be
affected by a policy before that policy can be truly described as being
‘in his interests’; but whether or not a given policy will bring about
such results may quite often be an open question. It is this
feature of ‘interest’ which explains how people can ‘mistake their
interests’—item number one on the list of ‘things we want to say about
interests’. The stock argument against this possibi- lity is that if you
assert it you must commit yourself to the view that ‘some people know
what’s good for other people better than they do themselves’. But this
can now be seen to rest on a gross equivocation. 116 BRIAN
BARRY The presumably illiberal, and therefore damaging, view to be
saddled with would be the view that policies which impinge on people
in ways which they dislike may nevertheless be said to be ‘in their
interests’. But this is not entailed by the statement that people may
‘mistake their interests’. All that one has to believe is that they may
think a policy will impinge upon them in a way which will increase their
opportunities to get what they want when in fact it will do the opposite.
Whether his opportunities are increased or narrowed by being unemployed
is something each man may judge for himself; but it is surely only
sensible to recognize that most people’s opinions about the most
effective economic policies for securing given ends are likely to be
worthless. In his Fireside Chat on June 28, 1934, President Roosevelt
said: ‘The simplest way for each of you to judge recovery lies in
the plain facts of your own individual situation. Are you better off than
you were last year? Are your debts less burdensome? Is your bank account
more secure? Are your working conditions better? Is your faith in your
own individual future more firmly grounded?’ It is quite
consistusc to say that people can ‘judge recovery for themselves’ without
respecting their opinions about the efficacy of deficit financing.
The other ‘things we normally want to say’ also fit the proposed
definition. People may want policies other than those calculated to
increase their opportunities—hence the possibility of ‘disinterested
action’ and ‘promotional groups’. Similarly, a man may definitely not
want a policy which will increase his opportunities (perhaps because he
thinks that the policy is unfair and that others should get the increase
instead). Hence the possibility of someone’s not wanting something that
he acknowledges would be in his interests. Finally, nothing is more
common than for someone to agree that a policy would increase his
opportunities if adopted, and to want it to be adopted, but at the same
time to say that the addition of his own efforts to the campaign to
secure its adoption would have such a small probability of making the
decisive difference between success and failure for the campaign that it
is simply not worth making the effort; and of course if everyone is in
the habit of reasoning like this a policy which is in the interests of a
great many people, but not greatly in the interests of any of them, may
well fail to receive any organized support at all. No doubt
there is room for amplification of my definition of what THE
PUBLIC INTEREST 117 it is for a policy to be in someone’s
interest. In particular the phrase ‘opportunities to get what he wants’
needs closer analysis, and account should be taken of the expression
‘so-and-so’s best interests’ which tends to be used where it is thought
that the person in question would make such an unwise use of increased
opportunities that he would be better off without them (e.g., a heavy
drinker winning a first dividend on the football pools). However, 1 doubt
whether refinements in the definition of ‘interest’ would alter the
correctness or incorrectness of what I have to say about ‘the public
interest’, so I turn now to that expression. iil
If ‘interest’ is defined in such a way that ‘this policy is in A’s
interest’ is equivalent to ‘A is trying to get this policy adopted’ it is
decisive evidence against there being in any but a few cases a ‘public
interest’ that there is conflict over the adoption of nearly all policies
in a state. But on the definition of ‘interest’ I have proposed this
would no longer be so. A policy might be truly describable as ‘in the
public interest’ even though some people opposed it. This could come
about ina way already mentioned: those who oppose the policy might have
‘mistaken their interests’. In other words, they may think the policy in
question is not in their interests when it really is. Most opposition in
the U.S.A. to unbalanced budgets can be explained in this way, for
example. Disagreements about defence and disarmament policy are also
largely disagreements about the most effective means to fairly obvious
common goals such as national survival and (if possible)
independence. There are two other possibilities. One is that the
group opposing the measure is doing so in order to further a different
measure which is outside the range of relevant comparisons. The other
possibility is that the opposing group have a special interest in the
matter which counteracts their interest as members of the public. I do
not expect these two descriptions to be clear; I shall devote the
remainder of the paper to trying to make them so, taking up the former in
this section and IV, and the latter in V. Comparison enters
into any evaluation in terms of interests. To say that a policy would be
in someone’s interests is implicitly to, compare it with some other policy—often
simply the continuance of the status quo. So if you say that a number of
people have a common interest in something you must have in mind some
alternative to it 118 BRIAN BARRY which you believe
would be worse for all of them. The selection of alternatives for comparison
thus assumes a position of crucial impor- tance. Any policy can be made
‘preferable’ by arbitrarily contrasting it with one sufficiently
unpleasant. Unemployment and stagnation look rosy compared with nuclear
war; common interests in the most unlikely proposals can be manufactured
by putting forward as the alternative a simultaneous attack by our
so-called ‘independent deterrent’ on Russia and the U.S.A. All this need
do is remind one that one thing may be ‘in somebody’s interest’ compared
with something else but still undesirable compared with other
possibilities. The problem remains: is there (in most matters) any one
course of action which is better for everyone than any other? Fairly
obviously, the answer is: No. Any ordinary proposal would be less in my
interest than a poll tax of a pound a head, the proceeds to be given to
me. And this can be repeated for everybody else, taking each person one
at a time. This, however, seems as thin a reason for denying the
possibility of common interests as the parallel manoeuvre in reverse was
for assert- ing their ubiquity. In both cases the comparison is really
irrelevant. But what are the criteria for relevance? The simplest answer
(which will later have to have complications added) is that the only
proposals to be taken into account when estimating ‘common interests’
should be proposals which treat everyone affected in exactly the same
way. Take the traditional example of a law prohibiting assault (including
murder). If no limitation is imposed upon the range of alternatives it is
easy to show that there is no ‘common interest’ among all the members of
a society in having such a law directed equally at everyone. For one
could always propose that instead the society should be divided into two
classes, the members of the first class being allowed to assault the
members of the second class with impunity but not vice versa, as with
Spartans and Helots; or each member of the first group might be put in
this position only vis-d-vis particular members of the second group.
(Examples of this can be drawn from slave-holding, patriarchal, or
racially discriminatory systems such as the ante- bellum South, ancient
Rome and Nazi Germany respectively.) It could perhaps be argued that the
‘beneficiaries’ under such an unequal system become brutalized and are
therefore in some sense ‘worse off’ than they would be under a regime of
equality. But the whole point of ‘interest’—and its great claim in the
eyes of liberals—is that the concept is indifferent to moral character
and looks only at oppor- tunities. Yet even the most
sceptical writers often admit that a law prohibiting THE PUBLIC
INTEREST 119 assault by anyone against anyone is a genuine example
of something which is ‘in the public interest’ or ‘in everyone’s
interest’. This becomes perfectly true when the alternatives are
restricted to those which affect all equally, for then the most obvious
possibilities are (a) that nobody should assault anybody else and (b)
that anybody should be allowed to assault anybody else. And of these two
itis hardly necessary to call on the authority of Hobbes to establish
that, given the natural equality of strength and vulnerability which
prevents any- one from having reasonable hopes of gaining from the latter
set-up, the former is ‘everyone’s interest’. IV
A convenient way of examining some of the ramifications of this theory is
to work over some of the things Rousseau says in the Social Contract
about the ‘General Will’. Judging from critiques in which Rousseau
figures as a charlatan whose philosophical emptiness is disguised by his
superficial rhetoric, it is hard to see why we should waste time reading
him, except perhaps on account of his supposedly malign influence on
Robespierre. I doubt the fairness of this estimate, and J am also
inclined to deprecate the tendency (often though not always combined with
the other) to look on Rousseau through Hegelian spectacles. We need to
dismantle the implausible psycholo- gical and metaphysical theories
(e.g., ‘compulsory rational freedom’ and ‘group mind’) which have been
foisted on Rousseau by taking certain phrases and sentences (e.g.,
‘forced to be free’ and ‘moral person’) out of context. As a small
contribution to this process of demythologiziny Rousseau I want to
suggest here that what he says about ‘the general will’ forms a coherent
and ingenious unity if it is understood as a treatment of the theme of
common interests. Rousseau’s starting point, which he frequently makes
use of, is that any group will have a will that is general in relation to
its constituent members, but particular with respect to groups in
which it in turn is included. Translating this into talk about interests
it means that any policy which is equally favourable to all the members
of a given group will be less favourable to member A than the policy
most favourable to A, less favourable to member B than the policy
most favourable to B, and so on; but it will be more favourable to each
of the members of the group than any policy which has to be equally
beneficial to an even larger number of people. Suppose, for example, that
a fixed sum—say a million pounds—is available for wage increases
120 BRIAN BARRY in a certain industry. If each kind of employee
had a separate trade union one might expect as many incompatible claims
as there were unions, each seeking to appropriate most of the increase
for its own members. If for example there were a hundred unions with
a thousand members apiece each employee might have a thousand
pounds (a thousandth of the total) claimed on his behalf, and the total
claims would add up to a hundred million pounds. At the other extreme if
there were only one union, there would be no point in its putting in a
claim totalling more than a million pounds (we assume for convenience
that the union accepts the unalterability of this amount) and if it made
an equal claim on behaif of each of its members this would come to only
ten pounds a head. Intermediate numbers of unions would produce
intermediate results. Rousseau’s distinction between the ‘will of
all’ and the ‘general will’ now fits in neatly. The ‘will of all’ is
simply shorthand for ‘the policy most in A’s interests, taking A in
isolation; the policy most in B’s interests, taking B in isolation; and
so on’. (These will of course normally be different policies for A, B and
the rest.) The ‘general will’ is a single policy which is equally in the
interests of all the members of the group. It will usually be different
from any of the policies mentioned before, and less beneficial to
anyone than the policy most beneficial to himself alone. We
can throw light on some of the other things Rousseau says in the one-page
chapter II.iii. of the Social Contract by returning to the trade union
example. Suppose now that the leaders of the hundred trade unions are
told that the money will be forthcoming only ifa majority of them can
reach agreement on a way of dividing it up. A possible method would be
for each leader to write down his preferred solution on a slip of paper,
and for these to be compared, the process continuing until a requisite
number of papers have the same proposal written on them. If each started
by writing down his maximum demand there would be as many proposals as
leaders— the total result would be the ‘will of all’. This is obviously a
dead end, and if no discussion is allowed among the leaders, there is a
good chance that they would all propose, as a second best, an equal
division of the money. (There is some experimental evidence for this,
presented in Chapter 3 of Thomas Schelling’s The Strategy of Conflict.)
Such a solution would be in accordance with the ‘general will’ and
represents a sort of highest common factor of agreement. As Rousseau puts
it, it arises when the pluses and minuses of the conflicting first
choices are cancelled out. THE PUBLIC INTEREST 121
If instead of these arrangements communication is allowed, and
even more if the groups are fewer and some leaders contro} large block
votes, it becomes less likely that an equal solution will be everyone’s
second choice. It will be possible for some leaders to agree together to
support a proposal which is less favourable to any of their members than
each leader’s first choice was to his own members, but still more
favourable than any solution equally bene- ficial to all the
participants. Thus, as Rousseau says, a ‘less general will’
prevails. In IL.iii. Rousseau suggests that this should be
prevented by not allowing groups to form or, if they do form, by seeing
that they are many and small. In the less optimistic mood of IV.i., when
he returns to the question, he places less faith in mechanical methods
and more in widespread civic virtue. He now says that the real answer is
for everyone to ask himself ‘the right question’, i.e., ‘What measure
will benefit me in common with everyone else, rather than me at the
expense of everyone else?’ (I have never seen attention drawn to the fact
that this famous doctrine is something of an afterthought whose first and
only occurrence in the Social Contract is towards the end.) However, this
is a difference only about the most effective means of getting a majority
to vote for what is in the common interest of all. The essential point
remains the same: that only where all are equally affected by the policy
adopted can an equitable solution be expected. ‘The undertakings
which bind us to the social body are obligatory only because they are
mutual; and their nature is such that in fulfilling them we we cannot
work for others without working for ourselves... ... What makes the will
general is less the number of voters than the common interest uniting
them; for, under this system, each necessarily submits to the conditions
he imposes on others: and this admirable agreement between interest and
justice gives to the common deliberations an equitable character which at
once vanishes when any particular question is discussed, in the absence of
a common interest to unite and identify the ruling of the judge with that
of the party. (I1.iv. Cole’s translation.) Provided
this condition is met, nobody will deliberately vote for a burdensome law
because it will be burdensome to him too: this is why no specific
limitations on ‘the general will’ are needed. Disagreements can then be
due only to conflicts of opinion—not to conflicts of interest. Among the
various policies which would affect everyone in the same way, each person
has to decide which would benefit himself most—and, since everyone else
is similarly circumstanced, he is 122 BRIAN BARRY
automatically deciding at the same time which would benefit everyone else
most. Thus, to go back to our example of a law prohibiting assault:
disagreement will arise, if at all, because some think they (in common
with everyone else) would make a net gain of opportunities from the
absence of any law against assault, while others think the opposite. This
is, in principle, a dispute with a right and a wrong answer; and evervone
benefits from the right answer’s being reached rather than the wrong one.
Rousseau claims that a majority is more likely to be right than any given
voter, so that someone in the minority will in fact gain from the
majority’s decision carrying the day. This has often been regarded as
sophistical or paradoxical, but it is quite reasonable once one allows
Rousseau his definition of the situation as one in which everyone is
co-operating to find a mutually beneficial answer, for so long ; as
everyone is taken as having an equal, better than even chance of giving
the right answer, the majority view will (in the long run) be right more
often than that of any given voter. (Of course, the same thing applies in
reverse: if each one has on average a less than even chance of being
right, the majority will be wrong more often than any given voter.)
The formula for this was discovered by Condorcet and has been
presented by Duncan Black on page 164 of his Theory of Committees and
Elections. To illustrate its power, here is an example: if we have a
voting body of a thousand, each member of which is right on average
fifty-one per cent of the time, what is the probability in any particular
instance that a fifty-one per cent majority has the right answer? The
answer, rather surprisingly perhaps, is: better than two to one (69%).
More- over, if the required majority is kept at fifty-one per cent
and the number of voters raised to ten thousand, or if the number
of voters stays at one thousand and the required majority is raised
to sixty per cent, the probability that the majority (5,100 to
4,900 in the first case or 600 to 400 in. the second) has the right
answer rises virtually to unity (99.97%). None of this, of course, shows
that ‘Rousseau was right’ but it does suggest that he was no
simpleton. To sum up, Rousseau calls for the citizen’s
deliberations to com- prise two elements: (a) the decision to forgo
(either as unattainable or as immoral) policies which would be in one’s own
personal interest alone, or in the common interest of a group smaller
than the whole, and (b) the attempt to calculate which, of the various
lines of policy that would affect oneself equally with all others, is
best for him (and, since others are like him, for others). This kind of
two-step deliberation is obviously reminiscent of the method recommended
in THE PUBLIC INTEREST 123 Mr Hare’s Freedom and
Reason, with the crucial difference that whereas Mr Hare will settle for
a willingness to be affected by the policy in certain hypothetical
circumstances, Rousseau insists that my being affected by the policy must
actually be in prospect. There is no need to construct a special planet
to test my good faith—my bluff is called every time. By the same token,
the theory I have attributed to Rousseau requires far more stringent
conditions to be met before something can be said to be in the common
interest of all than the vague requirement of ‘equal consideration’ put
forward by Benn and Peters in their Social Principles and the Democratic
State. Vv Even if Rousseau can be shown to be
consistent it does not follow that the doctrine of the Social Contract
has wide application. Rousseau himself sets out a number of requirements
that have to be met before it applies at all: political virtue
(reinforced by a civil religion), smallness of state, and rough economic
equality among the citizens. And even then, as he points out plainly, it
is only a few questions which allow solutions that touch all in the same
way. If only some are affected by a matter the ‘general will’ cannot
operate. It is no longera case of each man legislating for himself along
with others, but merely one of some men legislating for others. It is
fairly obvious that Rousseau’s requirements are not met in a great modern
nation state—a conclusion that would not have worried him. But since
lam trying to show that ‘the public interest’ is applicable in just such
a state it does have to worry me. It is here that I must introduce
my remaining explanation of the way in which something can be ‘in
the public interest’ while still arousing opposition from some.
Think again of the examples with which I began this paper. The
thing that is claimed to be ‘in the public interest’ is not prima face in
the interests of the journalist whose sources may dry up, the workers
whose rise is condemned or the businessmen whose restrictive prac- tices
are outlawed. But do first appearances mislead? After all, the journalist
along with the rest gains from national security, and workers or
industrialists gain along with the rest from lower prices. To avoid a
flat contradiction we need more refined tools; and they exist in ordinary
speech. Instead of simply saying that some measure is ‘in his interests’
a man will often specify some réle or capacity in which it is favourable
to him: ‘as a parent’, ‘as a businessman’, ‘asa house owner’ and so on.
One of the capacities in which everyone finds himself is that of ‘a
member of the public’. Some issues allow a 124 BRIAN BARRY
policy to be produced which will affect everyone in his capacity
as a ‘member of the public’ and nobody in any other capacity. This
is the pure ‘Rousseau’ situation. Then there are other issues which
lack this simplicity but still do not raise any problems because those
who are affected in a capacity other than that of ‘member of the public’
are either affected in that capacity in the same direction as they are in
their other capacity of ‘member of the public’ or at least are not
affected so strongly in the contrary direction as to tip the overall
balance of their interest (what I shall call their ‘net interest’) that
way. Although this is not quite what I have called the ‘Rousseau’ situation,
the ‘Rousseau’ formula still works. Indeed, Rousseau sometimes seems
explicitly to accept this kind of situation as satisfactory, as when he
says (III.xv.) that ina well-ordered state ‘the aggregate of the common
happiness furnishes a greater proportion of that of each
individual’. Finally, we have the familiar case where for some
people a special interest outweighs their share in the public interest.
The journalist may think, for example, that compulsory disclosure of
sources would indeed be in the public interest but at the same time
conclude that his own special interest as a journalist in getting
information from people who want to stay anonymous is more important to
him than the marginal gain in security that is at ‘stake. In such cases
as this Rousseau’s formula will not work, for although everyone still has
a common interest in the adoption of a certain policy gua ‘member
of the public’, some have a net interest in opposing it. To
adopt the policy which is ‘in the public interest’ in such a case is
still different from deliberately passing over an available policy which
would treat everyone equally, for in the present case there 1s no such
policy available. Even so, it involves favouring some at the expense of
others, which makes it reasonable to ask whether it is justifiable to
recommend it. Various lines of justification are possible. Bentham
seerris to have assumed that in most matters there was a public interest
on one side (e.g., in cheap and speedy legal procedures) and on the other
side the ‘sinister’ interest of those who stood to gain on balance from
abuses (e.g., ‘Judge & Co.’) and to have believed (what is surely not
unreasonable) that a utilitarian calculation would generally give the
verdict to the policy favouring ‘the public’. Ona different tack, it
might be argued that it is inequitable for anyone to benefit from
‘special privileges’ at the expense of the rest of the community. But
unfortunately neither of these is as clear as it looks because a hidden
process of evaluation has already gone on to decide THE PUBLIC
INTEREST 125 at what point an interest becomes ‘sinister’ and how
well placed someone must be to be ‘privileged’. The cheapest and
speediest dis- pensation of law could be obtained by conscripting the legal
profes- sion and making them work twelve hours a day for subsistence
rations; but this would no doubt be ruled out by a utilitarian as
imposing ‘hardship’ and by the believer in distributive justice as not
giving a ‘just reward’ for the work done. Thus, by the time one has fixed
the level of rewards beyond which one is going to say that ‘privilege’
and ‘sinister interest’ lie it is virtually analytic that one has defined
a ‘good’ solution (whether the criteria be utilitarian or those of
dis- tributive justice). It is clearer to say that in these
‘non-Rousseauan’ situations the public interest has to be balanced
against the special interests involved and cannot therefore be followed
exclusively. But ‘the public interest’ remains of prime importance in
politics, even when it runs against the net interest of some, because
interests which are shared by few can be promoted by them whereas
interests shared by many have to be furthered by the state if they are to
be furthered at all. Only the state has the universality and the coercive
power necessary to prevent people from doing what they want to do when it
harms the public and to raise money to provide benefits for the public
which cannot, or cannot conveniently, be sold on the market: and
these are the two main ways in which ‘the public interest’ is
promoted. This line of thought brings us into touch with the long
tradition that finds in the advancement of the interests common to all
ane of the main tasks of the state. The peculiarity of the last two
centuries or so has lain in the widespread view that the other
traditional candi- dates—the promotion of True Religion or the
enforcement of the Laws of Nature and God—should be eliminated. This
naturally increases the relative importance of ‘the public
interest’. A contributory factor to this tendency is the still
continuing process of social and economic change which one writer has
dubbed the ‘organizational revolution’. These developments have in
many-ways made for a more humane society than the smaller-scale, more
loosely articulated, nineteenth-century pattern of organization
could rovide. But they have had the incidental result of making
obsolete a good deal of our inherited conceptual equipment. Among
the victims of this technological unemployment are ‘public opinion’
and ‘the will of the people’. On most of the bills, statutory instruments
and questions of administrative policy which come before Parliament there
is little corresponding to the nineteenth-century construct of 126
BRIAN BARRY ‘public opinion’: the bulk of the electorate holding
well-informed, principled, serious views. Even when an issue is
sufficiently defined and publicized for there to be a widespread body of
‘opinion’ about it these opinions are likely to be based on such a small
proportion of the relevant data that any government which conceived its
job as one of automatically implementing the majority opinion would
be inviting disaster. This does not entail that voting with
universal suffrage is not a better way of choosing political leaders than
any alternative; but if ‘public opinion’ is a horse that won’t run this
means that ‘public interest’ has to run all the harder to make up, since
as we have seen it has the advantage of operating where those affected by
the policy in question have not even heard of it and would not understand
it if they did. Consider for example the arrangements which enable
the staffs of organizations whose members are affected by impending
or existing legislation to consult with their opposite numbers in
govern- ment departments about its drafting and administration. This
system of ‘functional representation’, which now has almost
constitutional status, would not get far if each side tried to argue from
the opinions of its clients (the organization members and ‘the public’
respectively) on the matter; but their interests do provide a basis for
discussion, a basis which leaves room for the uncomfortable fact that in
a large organization (whether it be a trade union, a limited company or
a state) information and expertise are just as likely to be
concentrated in a few hands as is the formal power to make
decisions. VI At the beginning of this paper I
suggested that the popularity of ‘the public interest’ as a political
justification could be attributed either to its vacuity or to its being
used to adduce in support of policies definite considerations of a kind
which are as a matter of fact valued highly by many people. If my
analysis of ‘the public interest’ is correct, it may be expected to
flourish in a society where the state is expected to produce affluence
and maintain civil liberties but not virtue or religious conformity, a
society which has no distinc- tion between different grades of citizen,
and a society with large complex organizations exhibiting a high degree
of rank and file apathy. I do not think it is necessary to look any
further for an explanation of the concept’s present popularity.
VII LIBERTY AND EQUALITY. E. F. CARRITT IN a
recently published collection of essays called ‘Why am I a Demo- crat?’!'
Mr. Ronald Cartland says: ‘What we must settle at once is whether we rate
freedom? above equality.’ ‘Equality involves subjug- ation and
repression.’ I select this statement only as a candid and contemporary
expression of a doctrine that has always seemed to me both paradoxical
and muddled. Left to myself I should have thought that liberty and
equality involved one another; indeed I should have found it hard to
separate them. Mr. Cartland himself seems not quite free from confusion
here for, between the two remarks which I have just quoted, he says:
“Toleration and equal justice are possible only ina democracy’, where
toleration, I suppose, means freedom of speech,— equal freedom,—and
democracy means political equality; equal justice, I suppose, is simply
justice, for unequal justice would be injustice. So it is implied that
freedom should be equal, and that itand justice are only possible with
equal political power. What then is the equality with which freedom is
supposed to be incompatible? To answer this question I think we must go
back to the history of the doctrine. For it is no new one.
Burke paid tribute to liberty, which he thought was conferred and
safeguarded by the British Constitution of his day, but to that
constitution he thought democracy or political equality was abhorrent.
With the enlargement of the franchise during the nineteenth century it
began to be assumed, at first by revolutionaries, later by Whigs, young
Tories and Tory Democrats, finally by almost all public speakers, not
only that we desired liberty but that what conferred and safeguarded it
was democracy, that is political equality, which they identified with the
British Constitution as revised. Consequently Burke on their view had
been wrong. But in the spirit of Burke it was From Law Quarterly
Review, Vol. 56 (1940), pp. 61-74. Reprinted by permission of the
author’s executors and the Law Quarterly Review. ‘Edited by R.
Acland (Lawrencé and Wishart). 71 use the words liberty and freedom in
the same sense. 128 E. F. CARRITT still declared, for
instance by both Gladstone and Disraeli, that this freedom was
incompatible with some other equality. These are platform politics,
but if we look at the considered statements of political theorists and
especially of historians, we find the same thing. Acton in
his Lectures on Liberty says that in the course of the French Revolution
‘the passion for equality made vain the hope of freedom’. Lecky in
Democracy and Liberty (1, 212-215) says that ‘Democracy (ie. equality of
political power) may often prove, the direct opposite of liberty... it
destroys the balance of classes’ (i.e. introduces class equality).
Bagehot in The English Constitution and Erskine May in Democracy in
Europe (11, 333) work the same theme, but perhaps the most striking
exposition is in Sir James Fitzjames Stephen’s Liberty, Equality and
Fraternity (p. 250): ‘I doubt much whether the power of particular
persons over their neighbours has ever in any age of the world been so
well defined and safely exercised as it is at present. If, in old times,
a slave was inattentive, his master might no doubt have him maimed or put
to death or flogged; but he had to consider that in doing so he was
damaging his own property, that when the slave had been flogged he would
continue to be his slave; and that the flogging might make him
mischievous or revengeful and so forth. If a modern servant mis- conducts
himself he can be turned out of the house on the spot, and another hired
as easily as you would calla cab. To refuse the dismissed person a
character may very likely be equivalent to sentencing him to months of
suffering and to a permanent fall in the social scale.’ Now what
can Sir James have been driving at? I think it is clear that he deplored
the power which employers have over their servants, as being so great
that the latter have less freedom than slaves. And he seems to attribute
this inequality of freedom, which of course is the correlative of an
inequality of power, to their equality in some other respect, I suppose
to their political equality. He gives no grounds for this attribution,
except the suggestion that it is seldom to the interest of a slave-owner
or cattle-breeder to injure his chattels. I can hardly think he would
have proposed to remedy the insecurity of wage- 'M. Arnold (Mixed
Essays, Equality) cites a speech of Lord Beaconsfield to Glasgow students
about 1856 and quotes Mr. Gladstone as ‘in his copious and eloquent way’
saying: ‘Call this love of inequality by what name you please,—the
complement of the love of freedom, or its negative pole, or the shadow which
the love of freedom casts, or the reverberation of its voice in the halls
of the constitution,— it is an active, living, and life-giving
power.’ LIBERTY AND EQUALITY 129 earners by
substituting an extreme servitude with a legal right in the owner to
kill, flog or maim his slaves. Nor does it seem likely that he is
consciously arguing for the more obvious remedy, that of increasing
freedom by adding economic to political equality. I cannot tell what he
wants. All he has shown is, what nobody can have doubted, that majority
government does not necessarily and immediately secure the maximum of
equal freedom. Nor does any form of government. He might have gone
further and said that it is possible for a majority government not only
to allow economic inequality and consequent interferences with liberty,
but actually itself to be as intolerant as any other government of free
speech and action. James Mill (Govern- ment, Encyclopedia Britannica) is
brutally frank : “Whenever the powers of the Government are placed in any
hands other than those of the community, whether those of one man, of a
few, or of several, those principles of human nature which imply that
Government is at all necessary, imply that those persons will make use of
them to defeat the very end for which Government exists.’ For the word
several which I have italicized he ought to have substituted the
majority. But he ought also to have added that those principles of human
nature which make stable government at all possible may counteract the
principles he has described. As Maitland points out (Liberty, Collected
Papers I) no form of government can guarantee liberty, but only ‘an
opinion of right’. (The phrase is Hume’s.) But I know of little reason to
think that majority governments are less favourable to economic equality
and the resulting equal liberty than are plutocracies, aristocracies or
despotisms. Even Plato, idealizing aristocracy, thought it must be
precluded by communism from the temptation to oppression. And I know of
no reason to think that democracies are less tolerant of free speech and
propaganda than other kinds of government. Such tolerance probably
depends upon the amount of security a govern- ment feels, which is apt to
be in proportion to the equality of political power. éveoti pap nw¢
todto TH Tupavvidt véonpa, toic pidowor uy nenobévan (Aesch. Prom.
Desm, 226). The only way, then, in which I can rationalize the
lamentations of Sir James Fitzjames Stephen is to suppose’ him an
unconscious socialist, who so desired equality of liberty to be secured
by economic equality that he was willing to sacrifice equality of
political power and to institute some class or personal
dictatorship. Perhaps the most influential source for this vague
antithesis of 130 E. F. CARRITT freedom to equality
is De Tocqueville’s L’Anaen Régime (1856). He says that countries without
an aristocracy are peculiarly liable to despotic or ‘absolute’ government
in its worst forms, and he quotes Mirabeau: ‘Cette surface égale facilite
exercise du pouvoir.’ He does not seem to think that an aristocratic
government could be despotic. The elements of aristocracy he enumerates
are: ‘parlement, pays d’état, corps de clergé, privilégiés,
noblesse’. The reason he gives for his view is that ‘When men are
no longer united by bonds of caste, class, corporation, family, they tend
to be wholly preoccupied with their private interests’, and in
particular with money-making. The inequality he thinks
necessary for freedom is clearly not economic; that existed in the France
of his own day, which he con- siders servile. He must mean political
inequality. He seems to have two points in mind: (1) A
highly centralized government is apt to be oppressive even if
unwillingly. But he shows no reason for supposing that democracy (i.e.
political equality) is especially favourable to centralization. He
emphasizes the high degree of centralization in the ancien régime.
(2) A ‘privileged nobility’ enjoys a good deal of freedom, though
the unprivileged masses may have none. This freedom, for instance
exemption from taxation, they will certainly try to defend against
aggression, and De Tocqueville seems to think that in doing so they may
incidentally defend or achieve some freedom for the unprivileged. In
England such defence happened to some extent in 1688, and such
achievement in 1832. In the ‘glorious revolution’ a land-owning
aristocracy resisted royal encroachment, with some advantage to the
liberty of the middle class. In the Reform Bill a new industrial
aristocracy by gaining liberty and political equality for itself made
them somewhat more accessible to the working classes; but it was opposed
by the landed and ecclesiastical aristocracy. Those who had neither
political nor economic privileges profited to some extent by the battle
between those who had both and those who had one and coveted the
other. What evidence is there that democracy is more susceptible
than aristocracy to dictatorship? Napoleon, Hitler, Mussolini perhaps
all rose with the aid of something like democracy. Louis XIV, Lenin and
Franco did not. England, France, America, the Scandinavian countries,
Switzerland, Belgium, Holland are as democratic as any countries, but
have as yet no dictators. Whether economic equality favours dictatorship
is a question on which there can be little historical LIBERTY AND
EQUALITY 131 evidence, since no near approach to economic
equality, unless in the U.S.S.R., as a result of ‘the dictatorship of the
proletariat’, has been made. But most countries where the contrasts of
wealth are com- paratively small, such as the Scandinavian, have remained
democratic. Ancient tyrannies generally arose out of economic inequality,
to champion those who feared either exploitation or expropriation.
Modern dictatorships have found backing both from depressed middle
classes and from frightened capitalists. Among a people secure in
anything like economic equality such backing would be hard to find. A
dictator, thought to have established such equality, as in the U.S.S.R.,
might indeed be enthusiastically retained, but that would be in the
belief, perhaps short-sighted, that he would maintain the liberty he had
thereby secured. How unequal was the liberty which De Tocqueville thought
equality endangered can be shown by one or two quotations.In spite of
corvée, milice, arbitrary arrest, aristocratic exemption from taxation,
he says: “Il régnait dans l’ancien régime beaucoup plus de liberté que de
nos jours, mais une liberté toujours liée a Vidée d’exception et de
privilége, toujours contractée dans la limite des classes.’ ‘France dans
ses classes supérieures était libre.’ ‘Les nobles ne se préoccupaient
guere de la liberté générale des citoyens.”! De Tocqueville then thinks
political equality leads to governmental oppression, and is not afraid of
class or personal oppression. Stephen thinks just the opposite; that
political equality leads to class or personal oppression. He feared the
infraction of one subject’s liberty by another more than its restriction
by government. But his con- temporaries who, like Mr. Cartland to-day,
preached the incom- patibility of liberty and equality, were mostly in
the tradition of laisser faire. Like De Tocqueville they were so
frightened of any governmental attempt to regulate or reform the economic
system of their day that they were careless how much that system itself
allowed of personal oppression. Lecky says (op. cit. pp. 212-215): “Equality
is only attained by a stringent repression of natural development.’
Nature is a familiar stalking horse for prejudice. It is equally true
that peace, order, security of life, limb, property are only attained by
a stringent repression of ‘natural’ development in one sense of nature;
and in that sense Hobbes thought the state of nature was one of pretty
equal fear and misery. The security of one man’s millions or hundreds
from crowds of overworked or unemployed is an IMy italics.
132 E. F. CARRITT inequality only maintained by a stringent
repression of the ‘natural’ development called ‘helping oneself’ .! But
there is another meaning of the word nature, a meaning which, in the
wilderness of the nineteenth century, Matthew Arnold raised his voice to
express. In his lecture to the Royal Institution on Equality (Mixed
Essays) he said: ‘Property is created and maintained by law. It
would disappear in that state of private war and scramble which legal
society supersedes. That property should exist and that it should be held
with a sense of security” and with some power of disposal, may be taken,
by us here at any rate, as a settled maticr.* But that the power of
disposal should be practically unlimited, that the inequality should be
enormous, or that the degree of inequality admitted at one time should be
admitted always—this is by no means so certain. The right of bequest was
in early times .. . seldom recognized. In later times it has been limited
in many countries.... The cause of your being ill at ease is the
profound imperfectness of your social civilization .... The remedy is
social equality. Let me direct your attention to a reform of the law of
bequest. On the one side inequality harms by pampering; on the other
by vulgarizing and depressing.’ The characteristic Arnoldian
refrain of the lecture is ‘Choose Equality’. And equality is to be chosen
because, far from repressing ‘natural’ development, it liberates a
‘natural and vital instinct’ of men, the instinct of ‘expansion’ or
‘humanization’. I think Arnold’s diagnosis was right. The equality which
his contemporaries thought incompatible with liberty was mainly economic
equality. They thought that the promotion of this by law would somehow impair
the liberty of more people, or to a greater degree, than does the
maintenance of economic inequality (for of course they did not think
there should be xo laws of property). In order to make up our minds how
far, if at all, this is so, we must decide as nearly as we can what we
mean by liberty. Vaguely of course we all know; that is to say we all
agree on extreme cases: that a manacled man is not so free as we are. But
there are dubious instances where we might differ from one another, or
from ourselves at another time. For example: how far is a man free who
cannot throw up an ill-paid job without 'Cf. Dickinson, Justice
and Liberty: ‘No regulation is more constant, more crushing, more radical
and severe, than that which is involved in property and the police.’
?This clause is otiose since Arnold clearly means by ‘property’ legal
security of possession. *Consumption necessitates
appropriation.’ Locke, Civ. Gout. I], 25-51. LIBERTY AND EQUALITY
133 losing his house when there is an extreme shortage of
housing?" To make discussion profitable we must try to fix
precisely the sense in which we are now going to use the word. In this we
must be careful to depart as little as possible from normal usage, while
avoid- ing as far as possible its vagueness. Many of the confusions of
theor- izing on this topic have arisen from arbitrary definitions which
went against the very usages where all plain men would agree. But
those who adopt such arbitrary definitions seldom succeed in
ridding themselves or their readers of the ordinary associations of the
word, and so their procedure increases the very ambiguity it was meant
to avoid. Hegel, for instance identified freedom with obedience to
the laws of my State.? But the inescapable associations of the word
enabled him to suggest that therefore in obeying my State I am always
doing what I really want to do. Hardly less at variance with usage, and.
consequently hardly less confusing, has been the identification of
liberty with the unimpeded power to do what we ought? (or perhaps what we
think we ought) or to ‘contribute to the common good’.t But it would go
dead against ordinary usage to say that am quite free if I am forbidden
under penalties to smoke or to play tennis on Sunday, though J never
thought that either of these were duties or ‘contributions to a common
good’. I think our definition of liberty should avoid the use of
any moral terms suchas ‘ought’, ‘right’, ‘good’. Only so can we avoid
prejudicing the subsequent questions whether liberty is incompatible with
equality, and if so, which we ought to promote, or which is
‘better’. I offer a preliminary definition of liberty as ‘the power
of doing what one would choose without interference by other persons’
action’ .° 1*We should not be searching for the definition if we
already knew precisely the meaning of the term; but the fact that we
accept a certain definition as correct shows that we think the definition
expresses more clearly the very thing we had in mind when we used the
term without knowing its definition. The correctness of a definition is
tested by two methods: by asking (i) whether the denotation of the term and
that of the proposed definition are the same; (ii) does the definition
express explicitly what we had implicitly in mind when we used the term?’
Ross, Foundations of Ethics, p. 259. 2Phil. d. Rechts. §§ 15, 140
(e), 206. Cf. Bradley, Ethical Studies. My Station and its Duties; and
Bosanquet, Philosophical Theory of the State, pp. 96, 181, 240, and
especially 107, 127. ct my Morals and Politics under ‘Hegel’ and
“‘Bosanquet’ and ‘Liberty’. 3 Acton, op, cit. and,
inconsistently enough, Hegel and Bosanquet. 4Green, Political
Obligation, §§ 24, 120, etc. 5Maitland, Liberty (Collected Papers,
1) defines it as the absence of ‘External restraints on human action
which are themselves the results of human action’, This is much the best
discussion of Liberty which I know. I assume that by ‘restraint’
134 E. F. CARRITT A maximum interference with liberty would be
imprisonment with manacles; a minimum, exclusion from one house or locked
safe which I wished to enter. Some of the elements of this definition
need justifica- tion. (1) ‘Doing’. (a) Our thinking cannot be
directly constrained (though it can be influenced) by other persons.
Thought is always free; (b) Our feelings can be very painfully affected
by others, for instance if they smack us or whistle out of tune, or (when
we love them) by their indifference or neglect. And we do speak of
‘freedom from anxiety’ ; but the qualification is necessary. A lover or
anxious parent is not thereby smpliciter unfree. (2) ‘What
one would choose’. (a) If I am ‘prevented’! from doing what I should not
choose to do, for instance, from cock-fighting or stepping over a cliff
in the dark, my freedom is not impaired. A penal law against murder,
then, limits the freedom of all who want to murder but not of others.
This is acceptable, but less welcome results seem to follow. It might be
plausibly argued that many, possibly most people in this country, are so
law-abiding that though they would gladly be better fed, and though there
is no just reason why they should not be, they would not choose to help
themselves, and that therefore the laws of property and theft do not
impair their freedom. They refrain from stealing even where detection is
impossible, and therefore not through fear. The answer I think is that
they act from an inarticulate recognition of the admitted truth, that
almost any system of law giving some security of possession is better
than none; even bad laws secure more equal freedom than anarchy does, and
so it is our duty to support any system of security unless the
contrary behaviour will, with reasonable probability, contribute to
substituting a better system, which pilfering and swindling cannot do. If
people willingly conformed to a law forbidding access to mountains
but gladly profited by its repeal, I think usage compels us to say it
had inpaired their freedom. If, however, they actually voted or agitated
against its repeal, I think we must say it did not. If by long custom
people actually prefer and petition to remain slaves, or if they cease
even to wish to enjoy what is in the occupation of others, then their
slavery or exclusion does not diminish their freedom, unless they change
their mind. We may call them free fools and blame somebody he
means actual restraint. And potential restraint only becomes actual when I
begin to want to do what is forbidden. If freedom were power to do what I
do not want, it would be worthless. ‘Or forbidden under
penalty. See below. LIBERTY AND EQUALITY 135 for
their folly.’ (b) Bribes and promises do not impair freedom. The man
likes earning the bribe better than not earning it, whereas the man
deterred by threats would have preferred to act otherwise could he have
done so fearlessly. (3) ‘Other persons’. (a) We can be prevented
from doing what we want by geographical conditions, weather, wild beasts
or our own bodily state. A swollen stream, a wolf, a broken leg do not
impair our freedom. If anybody thinks that usage is in favour of calling
such impediments a lack of freedom I would ask him to read in this
essay for ‘freedom (or liberty)’ ‘social freedom’. The same I think applies
to those who are prevented from doing what they like by belief about
the supernatural. They may be unfree from superstition or the fear of
God but not (socially or) sempliciter unfree. What influences their
action is not persons but the supposed nature of the universe. (b) But
any persons may impair my freedom: a neighbour, a dictator or a
majority. The fact that I have voted for the restriction makes no
difference if I should now like to break it. Ulysses’ sailors impaired
his freedom by his own orders when they prevented him from joining the
Sirens. I can even limit my own freedom by locking myself in an upper
storey and throwing the key out of the window; but not by vows or
promises without enforceable penalty. I am free to break them.
(4) ‘Interference’: so far as our action is impeded not by other
people’s action but merely by their failure to act, I think we should not
say our freedom was impaired. But the distinction here is clearly very
difficult to draw. To block my path limits my freedom. Not to clear or
repair it does not. (5) ‘Action’. (a) I mean action here to include
the credible threat of action, since the most usual diminution of freedom
is not by physical constraint or violence but by the fear of it. (b) But
I mean it, though I am not sure I am right, to exclude deception. It
seems clear that our freedom is not impaired by the withholding of useful
inform- ation, and I am inclined to think not even by the giving of
false information. That wrongs us in some other way. I should say
that drugging a man, or (if that is possible) hypnotizing him against
his 1Many women, e.g. resisted ‘emancipation’ from traditional
domestic inferiority. Their economic inferiority, which had only become
conspicuous with newconditions, was much more resented. Cf. Hume, Essays,
H, xvi: ‘The bulk of mankind being governed by authority, not reason, and
never attributing authority to anything that has not the recommendation
of antiquity.” How dangerous this innate conservatism is he shows two
pages later: ‘Exorbitant power proceeds not, in any government, from new
laws, so much as from neglecting to remedy the abuses, which frequently rise
from the old ones.’ And cf. I, iv, ‘Antiquity always begets the opinion
of right’. 136 E. F. CARRITT will, impaired his
freedom, but am inclined to think that propaganda and excitement by
rhetoric, music and similar tricks do not. To prevent or forbid his
access to contrary propaganda of course would impair his freedom to
obtain it if he wanted to do so. If our definition, so explained,
is accepted as the nearest we can get to consistency without much
violating common usage, two points become clear. (1) The
first is that there are other good things, or other things to which a man
has claims and which it may be our duty to secure him, besides liberty;
for instance education, food, society, a good water- supply.’ And it is
possible that such claims might conflict with the claim to liberty, and a
compromise have to be struck. The writers I have quoted seem to think
equality is one of these things. (2) The second point is that one
man’s liberty is apt to be inimical to his neighbour’s. I suppose the
ideally free man outside a desert island would be an irresponsible
world-despot not even threatened with assassination, but his freedom
would almost certainly involve a great deal of servitude for others. When
therefore we say that men have a right to freedom or that freedom is good
(unless we mean merely that each wants for himself all the freedom he can
get) we can only mean equal freedom. Indeed, if we use the language of
natural rights, the right to equality must be more fundamental than that
to liberty or life or anything else, since men cannot have absolute
rights to any of these things (for one man’s possession of them may be
incompatible with another’s) but only (ceteris paribus) equal clarms.?
Aristotle indeed identified justice (other than legal) with equality,
though an equality taking account of ‘desert’.? And justice (Recht) is
natural right. It is ‘the treatment of every man as an end’, ‘counting
‘Maitland points out that Alexander Selkirk was completely free and very
miserable. 1 may add that he might have a right to be rescued, but the
moment he set foot on ship his liberty would be diminished. He must obey
the captain. ?Equal claims to what is divisible (as liberty is)
imply rights to equal shares, e.g. to ten shillings in the pound where
the assets are half the liabilities. ‘An equal admission to the
means of improvement and pleasure is a law vigorously enjoined upon
mankind by the voice of justice. All other changes in society are good
only as they are fragments of this or steps to its attainment. Godwin,
Political Justice, VIII, iv. Here the utilitarian joins hands with the adherent
of natural rights. SEth. Nic. 129a 34, 130b 9, 131a 11, 158b
30, wat dfiav which I have rendered ‘desert’ might I think include ‘need’
and be paraphrased ‘ceteris paribus’. Need is so hard to assess that perhaps
law should only attempt to assess it in relation to efficient work. Does
one man ‘need’ a first-rate execution of Bach but only a country-inn
parlour, and another a ‘luxury hotel’ but only a cinema-organ? : :
LIBERTY AND EQUALITY 137 every man for one’, an equality numerical
till reason is shown to the contrary. And, if for the moment we neglect
other possibly conflicting claims, the amount of freedom a man has a
right to, the amount we ought prima facie to secure him, is just so much
as is compatible with an equal amount for others. The maximum of freedom
would be obtained if men were never interfered with by others in doing
anything they chose except when what they chose to do interfered with
others, and if they then always were. One thing most people want to do which
can hardly affect the liberty of others is to express their opinions and
feelings. So, if we are merely considering maximum liberty, speech should
be free, even, I think, arguments for slavery or censorship. It
remains then to ask how far equal liberty is favoured or impaired by
equality in other respects. (1) So far as ‘political equality’
goes, we have admitted that majority government does not infallibly
guarantee liberty any more than any other form of government does.
Empirically in most circum- stances, certainly in modern civilization, it
seems the most favourable to it. At any rate our allegiance to a
democratic or any other form of government would seem to depend upon the
degree in which it is likely (or more likely than anything we could
substitute) to secure men their rights,’ prominent among which would be
the right to equal liberty. (2) ‘Equality before the law’, if, as I
suppose, that only means law effectively carried out and not arbitrarily
perverted by caprice or partiality, 1 is implied i in the very nature of
law. And any system of law giving some security of person and property is
more favourable to liberty than the anarchic state of ‘private war and
scramble’. If 'Cf. Maitland, Liberty (Collected Papers, 1): ‘It is
not possible to decide who ought to govern until we know what a
government ought to do.’ Cf. Hume, Essays, 1, v: ‘Government having
ultimately no other object or purpose i.e. justification? but the
distribution of justice... obedience is a new duty which must be invented
to support that of justice.’ ‘No other’ is an exaggeration unless justice
is used in a very wide sense to include beneficence. A Sumerian king
claims fame as having given his people ‘equal justice and canals’ (Woolley,
Abraham). ?Known general laws, however bad, interfere less with
freedom than decisions based on no previously known rule.’ Maitland, op.
cit. p. 81. In weighing the risks of insecurity from innovation and of
injustice from obsolescence, we may remember the wise maxim of Hume that
the breakdown of order would be the worse evil but the loss of liberty is
the more probable. Essays, I, v, vii. The best reasoned defence of
anarchy is perhaps Godwin, Political Justice, VII, viii, Of Law. Since
‘every case is a rule to itself; it should be judged by pure equity,
assessed by the unguided reason of the judges. Presumably laws of
conformity in indifferent matters, like the rule of the road, would be
allowed. Yet later (VIII, ii) Godwin says: ‘It is not easy to say whether
misery or absurdity would be most conspicuous in a plan which should invite
every man to seize upon everything he conceived himself to want’, and
‘Unless I can foresee, 138 E. F. CARRITT “Equality
before the law’ means not only that the rules are kept, but also that
they are made for the equal advantage of all whose needs or deserts are
equal (as it might be maintained most of our laws of murder and assault
are) then the question is raised how far this is also true of our
property laws. But I prefer to avoid the wider question whether our
property laws are just and confine myself to the question whether the
inequality which they protect and favour is, as has been suggested,
favourable to liberty. To decide the wider question we should have to
ascertain whether these now are (even if they once were) favourable to
the securing of all men’s other claims, such as those to improved
opportunities for health, education, enjoyment, as well as to the equal
distribution of the opportunities already available. And that might
involve us in economic considerations. (3) What distribution of
property then should be promoted and protected by law if it is to secure
men the maximum amount of doing as they choose without interference? It
is clear that all laws and all taxes diminish, and are intended to
diminish, somebody’s liberty, frequently to the increase of general
liberty, sometimes justifiably on other grounds.’ A law which forbids me
to appropriate what is in my brother’s possession, if I want to do so,
impairs my liberty as truly as a law compelling me to give him half what
is inmine. We may not all covet our neighbour’s husband or wife, his ox
or his ass. But if we never covet his manservant or his maidservant, his
leisure, job, education, something that his money can buy, we are
lucky. What sort of property-distribution would produce the
general minimum of liberty as defined? Surely literal monopoly. Take
an extreme and simple case. If the total water supply of an island
were the legal property of one landlord and water-theft were a
capital offence, the rest of the population would desire more
passionately than anything else to do something which they were either
prevented from doing or could only do in fear of their lives. They would
be extremely unfree. No doubt the owner might be willing to sell at
a ‘reasonable’ rate, but so far as he had a monopoly also of other
goods he could not sell at a rate ‘reasonable’ to the purchasers. He
would have either to watch them perish, to sell water for labour, or to
stand drinks. Laws are not made good laws by being too absurd or
inhuman for enforcement. in a considerable degree, the
treatment I shall receive from my species . . . [can engage in no valuable
undertaking’. “No law can be made that does not take something from
liberty.’ Bentham; Anarchical Fallacies. Preamble. LIBERTY
AND EQUALITY 139 Now just in proportion as the ownership of water
were eq ualized, the prohibition of water-theft would become less
burdensome, less obstructive of what each desired to do, even though
still nobody had so much as he would have liked. The only loss of liberty
would be in the original monopolist, and probably his loss would not be
so great as the gain of any one of his neighbours, since he could
hardly have desired to use his superfluity of water (say in watering
orchids) so passionately as the other had desired to moisten his tongue.
To be forcibly deprived of superabundance or even of conveniences
impairs liberty less than to be forcibly prevented from
appropriating necessities.! If then we consider laws and
institutions of property merely so far as they directly affect liberty I
think we must conclude that those are most favourable to it which most
favour equality in proportion to need. Against such equality there may of
course be other reasons. There remains to notice the obvious
relation of economic equality with political equality and equality before
the law. Clearly, without freedom of speech, discussion, and information,
the bare possession of the vote is almost valueless, and great economic
inequality gives influence and power of propaganda which are as
destructive of any real equality of political power as a censorship
itself. Even ‘equality before the law’, that is legal justice itself, is
endangered by economic inequality in well-known ways. The expense of
expert legal advice and of protracted legislation heavily handicaps the
poor. From great economic inequalities rise class differences of education,
speech, standard of life, which may make it very difficult for judges to
sympathize with some of those who come before them.? Those who
contend that liberty and equality are incompatible inherit Burke’s naive
conservatism, the belief that the present British social system is ideal
and merely needs to be ideally admin- istered:—the machine is perfect, if
only we could eliminate friction, but to plana machine with less friction
is utopian. The liberty they praise is a liberty within that system, with
just the present institutions of ownership, inheritance, taxation,
combination, limited liability, banking, all compulsory. The equality
they condemn is any alteration of that system which would secure a
greater amount of liberty to a greater number of persons; within the
sacred system laisser-faire is ‘Hume, Enquiry, Mil: ‘Whenever we
depart from equality we rob the poor of more satisfaction |and liberty]
than we add to the rich’; and Essays, 1, vii: ‘Property when united
causes much greater dependence than the same property when dispersed.’
2And cf. Bentham, Book of Fallacies, 1: Appendix on ‘Sinister interest of
Lawyers’. 140 E. F. CARRITT divinely guided; but if
we do not enforce just that system, providence they think will lead us to
ruin. But ‘economics’ and ‘politics’ cannot be thus separated. We
must follow the same principle in judging what administration of the
lawis just and in judging what laws are just. If men have a right to
liberty and equality within the law, for the same reason they have a
right to laws that promote liberty and equality. Harrington in his
Oceana said that ‘Equality of estates causes equality of power, and
equality of power is liberty’, and Maitland (Equality, Collected Papers
11) adds the rider that equality of political power tends to produce
equality of property. And that tends to produce liberty. Godwin!
briefly stated a position sometimes attributed to later writers: ‘It is
only by means of accumulation that one man obtains an unresisted sway
over multitudes of others. It is by means ofa certain distribution of
income that the present governments of the world are retained in
existence. Nothing more easy than to plunge nations, so organized, into
war.’ Godwin really believed in both liberty and equality. His
peculiarity is that he could also believe in Jaisser-faire because he
believed in fraternity. ' Political Justice, VIII, iii
(1793). Vil ~ TWO CONCEPTS OF LIBERTY’ SiR
ISAIAH BERLIN TO coerce a man is to deprive him of freedom—freedom
from what? Almost every moralist in human history has praised freedom.
Like happiness and goodness, like nature and reality, the meaning of
this term is so porous that there is little interpretation that it seems
able to resist. | do not propose to discuss either the history or the
more than two hundred senses of this protean word, recorded by
historians of ideas. I propose to examine no more than two of these
senses—but those central ones, with a great deal of human history behind
them, and, I dare say, still to come. The first of these political senses
of freedom or liberty (I shall use both words to mean the same),
which (following much precedent) I shall call the ‘negative’ sense, is
involved in the answer to the question “What is the area within which
the subject—a person or group of persons—is or should be left to do or
be what he is able to do or be, without interference by other
persons?’ The second, which I shall call the positive sense, is involved
in the answer to the question ‘What, or who, is the source of control
or interference, that can determine someone to do, or be, one thing
rather than another?’ The two questions are clearly different, even
though the answers to them may overlap. The notion of ‘negative’
freedom Iam normally said to be free to the degree to which no human
being interferes with my activity. Political liberty in this sense is
simply the area within which a man can act unobstructed by others. If I
am prevented by other persons from doing what I could otherwise do,
I From the revised version of his Inaugural Lecture “Two Concepts
of Liberty’ (Clarendon Press, 1958, pp. 6-19) in Four Essays on Liberty
by Sir Isaiah Berlin to be published as an Oxford University Press
Paperback. Reprinted by permission of the author and the Clarendon
Press. , ‘ine pages of the beginning and end of the original text
have here been omitted. Ed. 142 SIR ISAIAH BERLIN
am to that degree unfree; and if this area is contracted by other
men beyond a certain minimum, I can be described as being coerced, or,
it may be, enslaved. Coercion is not, however, a term that covers
every form of inability. If I say that I am unable to jump more than 10
feet in the air, or cannot read because I am blind, or cannot
understand the darker pages of Hegel, it would be eccentric to say that
lam to that degree enslaved or coerced. Coercion. implies the deliberate
inter- ference of other human beings within the area in which I could
other- wise act. You lack political liberty or freedom only if you are
prevented from attaining a goal by human beings.' Mere incapacity to
attaina goal is not lack of political freedom. This is brought out by the
use of such modern expressions as ‘economic freedom’ and its
counter- part, ‘economic slavery’. It is argued, very plausibly, that ifa
man is too poor to afford something on which there is no legal ban—a
loaf of bread, a journey round the world, recourse to the law
courts—he is as little free to have it as he would be if it were
forbidden him bylaw. If my poverty were a kind of disease, which
prevented me from buying bread or paying for the journey round the world,
or getting my case heard, as lameness prevents me from running, this
inability would not naturally be described as a lack of freedom, least of
all political freedom. It is only because I believe that my inability to
get a given thing is due to the fact that other human beings have made
arrange- ments whereby I am, whereas others are not, prevented from having
enough money with which to pay for it, that I think myself a victim of
coercion or slavery. In other words, this use of the term depends on a
particular social and economic theory about the causes of my poverty or
weakness. If my lack of material means is due to my lack of mental or
physical capacity, then I begin to speak of being deprived of freedom
(and not simply of poverty) only if I accept the theory. If, in addition,
I believe that 1 am being kept in want by a specific arrangement which |
consider unjust or unfair, I speak of economic slavery or oppression.
‘The nature of things does not maddenus, only ill will does’, said
Rousseau. The criterion of oppression is the part that I believe to be
played by other human beings, directly or 1T do not, of course,
mean to imply the truth of the converse. ?Helvétius made this point
very clearly: ‘The free man is the man who is not in irons, nor
imprisoned in a gaol, nor terrorized like a slave by the fear of punish-
ment. .. it is not lack of freedom not to fly like an eagle or swim like a
whale.’ 3The Marxist conception of social laws is, of course, the
best-known version of this theory, but it forms a large element in some
Christian and utilitarian, and all socialist, doctrines. TWO
CONCEPTS OF LIBERTY 143 indirectly, with or without the intention
of doing so, in frustrating my wishes. By being free in this sense I mean
not being interfered with by others. The wider the area of
non-interference the wider my freedom. This is what the
classical English political philosophers meant when they used this word.!
They disagreed about how wide the area could or should be. They supposed
that it could not, as things were, be unlimited, because if it were, it
would entail a state in which all men could boundlessly interfere with
all other men; and this kind of ‘natural’ freedom would lead to social
chaos in which men’s minimum needs would not be satisfied; or else the
liberties of the weak would be suppressed by the strong. Because they
perceived that human purposes and activities do not automatically
harmonize with one another; and, because (whatever their official
doctrines) they put high value on other goals, such as justice, or
happiness, or culture, or security, or varying degrees of equality, they
were prepared to curtail freedom in the interests of other values and,
indeed, of freedom itself. For, without this, it was impossible to create
the kind of association that they thought desirable. Consequently, it is
assumed by these thinkers that the area of men’s free action must be
limited by law. But equally it is assumed, especially by such
libertarians as Locke and Mill in England, and Constant and Tocqueville
in France, that there ought to exist a certain minimum area of personal
freedom which must on no account be violated; for if it is overstepped,
the individual will find himself in an area too narrow for even
that minimum development of his natural faculties which alone makes
it possible to pursue, and even to conceive, the various ends which
men hold good or right or sacred. It follows that a frontier must be
drawn between the area of private life and that of public authority.
Where it is to be drawn is a matter of argument, indeed of haggling. Men
are largely interdependent, and no man’s activity is so completely
private as never to obstruct the lives of others in any way. ‘Freedom for
the pike is death for the minnows’ ; the liberty of some must depend on
the restraint of others.? Still, a practical compromise has to be
found. 1*A free man’, said Hobbes, ‘is he that...is not hindered
to do what he hath the will to do.’ Law is always a ‘fetter’, even if it
protects you from being bound in chains that are heavier than those of the
law, say, arbitrary despotism or chaos. Bentham says much the same.
2‘Freedom for an Oxford don’, others have been known to add, ‘is a very
dif- ferent thing from freedom for an Egyptian peasant.’ This
proposition derives its force from something that is both true and important,
but the phrase itself remains a piece of political claptrap. It is true that to
offer 144 SIR ISAIAH BERLIN Philosophers with an
optimistic view of human nature, and a beliet in the possibility of
harmonizing human interests, such as Locke or Adam Smith and, in some
moods, Mill, believed that social harmony and progress were compatible
with reserving a large area for private life over which neither the state
nor any other authority must be olitical rights, or safeguards
against intervention by the state, to men who are palf-naked. illiterate,
underfed, and diseased is to mock their condition; they need medical help
or education before they can understand, or make use of, an increase in
their freedom. What is freedom to those who cannot make use of it?
Without adequate conditions of freedom what is the value of freedom?
First things come first: there are situations, as a nineteenth-century
Russian radical writer declared, in which boots are superior to the works
of Shakespeare; individual freedom is not everyone’s primary need. For
freedom is not the mere absence of frustration of what- ever kind; this
would inflate the meaning of the word until it meant too much or too
little. The Egyptian peasant needs clothes or medicine before, and more
than, personal liberty, but the minimum freedom that he needs today, and
the greater degree of freedom that he may need tomorrow, is not some
species of freedom peculiar to him, but identical with that of professors,
artists, and millionaires. What troubles the consciences of Western
liberals is not, I think, the belief that the freedom that men seek
differs according to their social or economic conditions, but that
the minority who possess it have gained it by exploiting or, at least,
averting their gaze from the vast majority who do not. They believe, with
good reason, that if individual liberty is an ultimate end for human
beings, none should be de- prived of it by others; least of all that some
should enjoy it at the expense of others. Equality of liberty; not to
treat others as I should not wish them to treat me; repayment of my debt
to those who alone have made possible my liberty or pros- pertty or
enlightenment; justice, in its simplest and most universal sense—these
are the foundations of liberal morality. Liberty is not the only goal of men. I
can, like the Russian critic Belinsky, say that if others are to be
deprived of it—f my brothers are to remain in poverty, squalor, and
chains—then I do not want it for myself, I reject it with both hands and
infinitely prefer to share their fate. But nothing is gained by a
confusion of terms. To avoid glaring inequality or wide- spread misery I
am ready to sacrifice some, or all, of my freedom: I spe do so willingly
and freely: but it is freedom that I am giving up for the sake of justice
or equality or the love of my fellow men. I should be guilt-stricken, and
rightly so, if I were not, in some circumstances, ready to make this
sacrifice. But a sacrifice is not an increase in what is being
sacrificed, namely freedom, however great the moral need or the
compensation for it. Everything is what it is: liberty is liberty, not
equality or fairness or justice or culture or human happiness or a quiet
con- science. If the liberty of myself or my class or nation depends on
the misery of a number of other human beings, the system which promotes
this is unjust and immoral. But if I curtail or lose my freedom, in order
to lessen the a eels of such inequality, and do not thereby materially
increase the individual liberty of others, an absolute loss of liberty
occurs. This may be compensated for by a gain in Justice or in happiness
or in peace, but the loss remains, and it is a confusion of values to say
that although my ‘liberal’, individual freedom may go by the board, some
other kind of freedom—‘social’ or ‘economic’—is increased. Yet it remains
true that the freedom of some must at times be curtailed to secure the
freedom of others. Upon what principle should this be done? If freedom is
a sacred, untouchable value, there can be no such principle. One or other
of these conflicting principles must at any rate in practice yells not
always for reasons which can be dearly stated, let alone generalized into
rules or universal maxims. TWO CONCEPTS OF LIBERTY 145
allowed to trespass, Hobbes, and those who agreed with him,
especially conservative or reactionary thinkers, argued that if men were
to be prevented from destroying one another, and making social life a
jungle or a wilderness, greater safeguards must be instituted to keep
them in their places, and wished correspondingly to increase the area of
centralized control, and decrease that of the individual. But both sides
agreed that some portion of human existence must remain independent of
the sphere of social control. To invade that preserve, however small,
would be despotism. The most eloquent of all defenders of freedom and
privacy, Benjamin Constant, who had not forgotten the Jacobin
dictatorship, declared that at the very least the liberty of religion,
opinion, expression, property, must be guaran- teed against arbitrary
invasion. Jefferson, Burke, Paine, Mill, compiled different catalogues of
individual liberties, but the argument for keeping authority at bay is
always substantially the same. We must preserve a minimum area of
personal freedom if we are not to ‘degrade or deny our nature’. We cannot
remain absolutely free, and must give up some of our liberty to preserve
the rest. But total self- surrender is self-defeating. What then must the
minimum be? That which a man cannot give up without offending against the
essence of his human nature. What is this essence? Whatare the standards
which it entails? This has been, and perhaps always will be, a matter
of infinite debate. But whatever the principle in terms of which the
area of non-interference is to be drawn, whether it is that of natural
law or natural rights, or of utility or the pronouncements of a categorical
imperative, or the sanctity of the social contract, or any other concept
with which men have sought to clarify and justify their convictions,
liberty in this sense means liberty from; absence of inter- ference
beyond the shifting, but always recognizable, frontier. “The only freedom
which deserves the name is that of pursuing our own good in our own way
’, said the most celebrated of its champions. If this is so, is
compulsion ever justified? Mill had no doubt that it was. Since justice
demands that all individuals be entitled to a minimum of freedom, all
other individuals were of necessity to be restrained, if need be by
force, from depriving anyone of it. Indeed, the whole function of law was
the prevention of just such collisions: the state was reduced to what
Lassalle contemptuously described as the func- tions of a nightwatchman
or traffic policeman. What made the protection of individual
liberty so sacred to Mill? In his famous essay he declares that unless
men are left to live as they wish ‘in the path which merely concerns
themselves’, civilization 146 SIR ISAIAH BERLIN
cannot advance; the truth will not, for lack of a free market in ideas,
come to light; there will be no scope for spontaneity, originality,
genius, for mental energy, for moral courage. Society will be crushed by
the weight of ‘collective mediocrity’. Whatever is rich and diver- sified
will be crushed by the weight of custom, by men’s constant tendency to
conformity, which breeds only ‘withered capacities’, ‘pinched and
hidebound’, ‘cramped and warped’ human beings. ‘Pagan self-assertion is
as worthy as Christian self-denial.’ ‘All the errors which a man is
likely to commit against advice and warning are far outweighed by the
evil of allowing others to constrain him to what they deem is good.’ The
defence of liberty consists in the ‘negative’ goal of warding off
interference. To threaten a man with persecution unless he submits to a
life in which he exercises no choices of his goals; to block before him
every door but one, no matter how noble the prospect upon which it opens,
or how benevolent the motives of those who arrange this, is to sin
against the truth that he is.a man, a being with a life of his own to
live. This is liberty as it has been conceived by liberals in the modern
world from the days of Erasmus (some would say of Occam) to our own.
Every plea for civil liberties and individual rights, every protest
against exploitation and humiliation, against the encroachment of public
authority, or the mass hypnosis of custom or organized propaganda,
springs from this individualistic, and much disputed, conception of
man. Three facts about this position may be noted. In the first
place Mill confuses two distinct notions. One is that all coercion is, in
so far as it frustrates human desires, bad as such, although it may have
to be applied to prevent other, greater evils; while
non-interference, which is the opposite of coercion, is good as such,
although it is not the only good. This is the ‘negative’ conception of
liberty in its classical form./The other is that men should seek to
discover the truth, or to develop ‘a certain type of character of which
Mill approved—fearless, original, imaginative, independent, non-
conforming to the point of etteiitiicity, and so on—and that truth can be
found, and such character can be bred, only in conditions of freedom.
Both these are liberal views, but they are not identical, and the
connexion between them is, at best, empirical. No one would argue that
truth or freedom of self-expression could flourish where dogma crushes
all thought. But the evidence of history tends to show (as, indeed, was
argued by James Stephen in his formidable attack on Mill in his Liberty,
Equality, Fraternity) that integrity,-love of truth and fiery
individualism grow at least as often in severely disciplined
fave one se om TWO CONCEPTS OF LIBERTY
147 communities among, for example, the puritan Calvinists of Scotland
or New England, or under military discipline, as in more tolerant or
indifferent societies; and if this is so accepted, Mill’s argument for
liberty as a necessary condition for the growth of human genius falls to
the ground. If his two goals proved incompatible, Mill would be faced
with a cruel dilemma, quite apart from the further difficulties created
by the inconsistency of his doctrines with strict utilitarianism, even in
his own humane version of it. In the second place, the doctrine is
comparatively modern. There seems to be scarcely any discussion of
individual liberty as a conscious political ideal (as opposed to its
actual existence) in the ancient world. Condorcet has already remarked
that the notion of individual rights is absent from the legal conceptions
of the Romans and Greeks; this seems to hold equally of the Jewish,
Chinese, and all other ancient civilizations that have since come to
light.? The domination of this ideal has been the exception rather than
the rule, even in the recent history of the West. Nor has liberty in this
sense often formed a rallying cry for the great masses of mankind. The
desire not to be impinged upon, to be left to oneself, has been a mark of
high civiliza- tion both on the part of individuals and communities. The
sense of privacy itself, of the area of personal relationships as
something sacred in its own right, derives from a conception of freedom
which, for all its religious roots, is scarcely older, in its developed
state, than the Renaissance or the Reformation.’ Yet its decline would
mark the death of a civilization, of an entire moral outlook.
The third characteristic of this notion of liberty is of greater
importance. It is that liberty in this sense is not incompatible with
some kinds of autocracy, or at any rate with the absence of self-
government. Liberty in this sense is principally concerned with the area
of control, not with its source. Just as a democracy may, in fact,
‘This is but another illustration of the natural tendency of all but a very
few thinkers to believe that all the things they hold good must be
intimately connected, or at least compatible, with one another. The
history of thought, like the history of nations, is strewn with examples
of inconsistent, or at least disparate, elements artificially yoked together
in a despotic system, or held together by the danger of some common
enemy. In due course the danger passes, and conflicts between the allies
arise, which often disrupt the system, sometimes to the great benefit of
mankind. 2See the valuable discussion of this in Michel Villey,
Lecons d’Histotre de la Philosophie du Droit, who traces the embryo of
the notion of subjective rights to Occam. Christian (and Jewish or
Moslem) belief in the absohute authority of divine or natural laws, or in
the equality of all men in the sight of God, is very different from
belief in freedom to live as one prefers. (ane! (2-6)
148 SIR ISAIAH BERLIN deprive the individual citizen of a
great many liberties which he might have in some other form of society,
so it is perfectly conceivable that a liberal-minded despot would allow
his subjects a large measure of personal freedom. The despot who leaves
his subjects a wide area of liberty may be unjust, or encourage the
wildest inequalities, care little for order, or virtue, or knowledge; but
provided he does not curb their liberty, or at least curbs it less than
many other régimes, he meets with Mill’s specification.'! Freedom in this
sense is not, at any rate logically, connected with democracy or
self-government. Self- government may, on the whole, provide a better
guarantee of the preservation of civil liberties than other régimes, and
has been defended as such by libertarians. But there is no necessary
connexion between individual liberty and democratic rule. The answer to
the question “Who governs me?’ is logically distinct from the
question ‘How far does government interfere with me?’ It is in this
difference that the great contrast between the two concepts of negative and
positive liberty, in the end, consists.! For the ‘positive’ sense of
liberty comes to light if we try to answer the question, not ‘Whatam I
free to do or be?’, but ‘By whom am I ruled?’ or ‘Whois to say what I am,
and what I am not, to be or do?’ The connexion between demo- cracy and
individual liberty is a good deal more tenuous than it seemed to many
advocates of both. The desire to be governed by myself, or at any rate to
participate in the process by which my life is to be control- led, may be
as deep a wish as that of a free area for action, and perhaps
historically older. But it is not a desire for the same thing. So
different is it, indeed, as to have led in the end to the great clash of
ideologies that dominates our world. For it is this—the ‘positive’ conception
of liberty: not freedom from, but freedom to—which the adherents of
the ‘negative’ notion represent as being, at times, no better than a
specious disguise for brutal tyranny. ‘Indeed, it is arguable that
in the Prussia of Frederick the Great or in the Austria of Josef IJ, men
of imagination, originality, and creative genius, and, indeed, minorities
of all kinds, were less persecuted and felt the pressure, both of institutions
and custom, less heavy upon them than in many an earlier or later democracy.
*‘Negative liberty’ is something the extent of which, in a given case,
it is difficult to estimate. It might, prima facie, seem to depend nape
on the power to choose between at any rate two alternatives.
Nevertheless, not all choices are equally free, or free at all. If in a
totalitarian state I betray my friend under threat of torture, perhaps
even if I act from fear of losing my job, I can reasonably say that I did
not act freely. Nevertheless, I did, of course, make a choice, and could,
at any rate in theory, have chosen to be killed or tortured or
imprisoned. The mere existence of alternatives is not, therefore, enough
to make my action free (although it may be TWO CONCEPTS OF LIBERTY
149 II The Notion of Positive Freedom The
‘positive’ sense of the word ‘liberty’ derives from the wish on the part
of the individual to be his own master. I wish my life and decisions to
depend on myself, not on external forces of whatever kind. I wish to be
the instrument of my own, not of other men’s, acts of will. I wish to be
a subject, not an object; to be moved by reasons, by conscious purposes
which are my own, not by causes which affect me, as it were, from
outside. I wish to be somebody, not nobody; a doer—deciding, not being
decided for, self-directed and not acted upon by external nature or by
other men as if I were a thing, or an animal, or a slave incapable of
playing a human role, that is, of conceiving goals and policies of my own
and realizing them. This is at least part of what I mean when I say that
I am rational, and that it is my reason that distinguishes me as a human
being from the rest of the world. I wish, above all, to be conscious of
myself as a thinking, willing, active being, bearing responsibility for
his choices and able to explain them by reference to his own ideas and
purposes. I feel free to the degree that I believe this to be true, and
enslaved to the degree that I am made to realize that it is not.
The freedom which consists in being one’s own master, and the
freedom which consists in not being prevented from choosing as I do
voluntary) in the normal sense of the word. The extent of my freedom
seems to depend on (a) how many possibilities are open to me (although
the method of counting these can never be more than impressionistic.
Possibilities of action are not discrete entities like apples, which can
be exhaustively enumerated); (b) how easy or difficult each of these
possibilities is to actualize; (c) how important in my plan of life, given
my character and circumstances, these possibilities are when com- pared
with each other; (d) how far they are closed and opened by deliberate
human acts; (e) what value not merely the agent, but the general
sentiment of the society in which he lives, puts on the various
possibilities. All these magnitudes must be ‘in- tegrated’, and a
conclusion, necessarily never precise, or indisputable, drawn from this
process. It may well be that there are many incommensurable degrees of
freedom, and that they cannot be drawn up on a single scale of magnitude,
however conceived. Moreover, in the case of societies, we are faced by
such (logically absurd) questions as ‘Would arrangement X increase the
liberty of Mr. A more than it would that of Messrs. B, C, and D between
them, added together?’ The same difficulties arise in applying
utilitarian criteria. Nevertheless, provided we do not demand precise
measurement, we can give valid reasons for saying that the average subject of
the King of Sweden is, on the whole, a good deal freer today than the
average citizen of the Republic of Rumania. Total patterns of life must
be compared directly as wholes, although the method by which we make the
comparison, and the truth of the con- clusions, are difficult or
impossible to demonstrate. But the vagueness of the concepts, and the
multiplicity of the criteria involved, is an attribute of the
subject-matter itself, not of our imperfect methods of measurement, or
incapacity for precise thought. 150 SIR ISAIAH BERLIN
by other men, may, on the face of it, seem concepts at no great logical
distance from each other—no more than negative and positive ways of
saying the same thing. Yet the ‘positive’ and ‘negative’ notions of freedom
historically developed in divergent directions not always by logically
reputable steps, until, in the end, they came into direct conflict with
each other. One way of making this clear is in terms of the
independent momentum which the, initially perhaps quite harmless, metaphor
of self-mastery acquired. ‘I am my own master’; ‘I am slave to
noman’; but may I not (as, for instance, T. H. Green is always saying) be
a slave to nature? Or to my own ‘unbridled’ passions? Are these not
so many species of the identical genus ‘slave’-—some political or legal,
others moral or spiritual? Have not men had the experience of liberating
themselves from spiritual slavery, or slavery to nature, and do they not
in the course of it become aware, on the one hand, ofa self which
dominates, and, on the other, of something in them which is brought to
heel? This dominant self is then variously identified with reason, with
my ‘higher nature’, with the self which calculates and aims at what will
satisfy it in the long run, with my ‘real’, or ‘ideal’, or ‘autonomous’
self, or with my self ‘at its best’; which is then contrasted with
irrational impulse, uncontrolled desires, my ‘lower’ nature, the pursuit
of immediate pleasures, my ‘empirical’ or ‘heteronomous’ self, swept by
every gust of desire and passion, needing to be rigidly disciplined if it
is ever to rise to the full height of its ‘real’ nature. Presently the
two selves may be represented as divided by an even larger gap: the real
self may be conceived as something wider than the individual (as the term
is normally understood), as a social ‘whole’ of which the individual is
an element or aspect: a tribe, a race, a church, a state, the great
society of the living and the dead and the yet unborn. This entity is
then identified as being the ‘true’ self which, by imposing its
collective, or ‘organic’, single will upon its recalcitrant ‘members’,
achieves its own, and, therefore, their, ‘higher’ freedom. The perils of
using organic metaphors to justify the coercion of some men by others in
order to raise them to a ‘higher’ level of freedom have often been
pointed out. But what gives such plausibility as it has to this kind of
language is that we recognize that it is possible, and at times
justifiable, to coerce men in the name of some goal (let us say, justice
or public health) which they would, if they were more enlightened,
themselves pursue, but do not, because they are blind or ignorant or
corrupt. This renders it easy for me to conceive of myself as coercing
others for their own sake, in their, not my, interest. I am then
TWO CONCEPTS OF LIBERTY 151 claiming that I know what they truly
need better than they know it themselves. What, at most, this entails is
that they would not resist me if they were rational, andas wise as I, and
understood their interests as I do. But I may go on to claim a good deal
more than this. I may declare that they are actually aiming at what in
their benighted state they consciously resist, because there exists
within them an occult enuty—their latent rational will, or their ‘true’
purpose—and that this entity, although it is belied by all that they
overtly feel and do and say, is their ‘real’ self, of which the poor
empirical self in space and time may know nothing or little; and that this
inner spirit is the only self that deserves to have its wishes taken into
account.! Once I take this view, I am in a position to ignore the actual
wishes of men or societies, to bully, oppress, torture them in the name,
and on behalf, of their ‘real’ selves, in the secure knowledge that
whatever is the true goal of man (happiness, fulfilment of duty, wisdom,
a just society, self-fulfilment) must be identical with his freedom—the
free choice of his ‘true’, albeit submerged and inarticulate, self.
This paradox has been often exposed. It is one thing to say that I
know what is good for X, while he himself does not; and even to ignore
his wishes for its—and his—sake; and a very different one to say that. he
has eo ipso chosen it, not indeed consciously, not as he seems in
everyday life, but in his role as a rational self which his empirical
self may not know—the ‘real’ self which discerns the good, and cannot
help choosing it once it is revealed. This monstrous impersonation, which
consists in equating what X would choose ifhe were something he is not,
or at least not yet, with what X actually seeks and chooses, is at the
heart of all political theories of self-realization. It is one thing to
say that I may be coerced for my own good which I am too blind to see:
this may, on occasion, be for my benefit; indeed it may enlarge the scope
of my liberty; it is another to say that if it is my good, then I am not
being coerced, for I have willed it, whether I know this or not, and am
free—or ‘truly’ free—even while my poor earthly body and foolish mind
bitterly reject it, and struggle against those who seek however
benevolently to impose it, with the greatest desperation. This
magical transformation, or sleight of hand (for which William “The
ideal of true freedom is the maximum of power for all the members of
human society alive to make the best of themselves’, said T. H. Green in
1881. Apart from the confusion of freedom with equality, this entails
that if a man chose some immediate pleasure—which (in whose view?) would
not enable him to make the best of himself (what self?) what he is
exercising is not ‘true’ freedom: and, if deprived of it, he would not
lose anything that mattered. Green was a genuine liberal: but many a
tyrant could use this formula to justify his worst oppression. 152
SIR ISAIAH BERLIN James so justly mocked the Hegelians), can no
doubt be perpetrated just as easily with the ‘negative’ concept of
freedom, where the self that should not be interfered with is no longer
the individual with his actual wishes and needs as they are normally
conceived, but the ‘real’ man within, identified with the pursuit of some
ideal purpose not dreamed of by his empirical self. And, as in the case
of the ‘positively’ free self, this entity may be inflated into some
super- personal entity—a state, a class, a nation, or the march of
history itself, regarded as a more ‘real’ subject of attributes than the
empirical self. But the ‘positive’ conception of freedom as self-mastery,
with its suggestion of a man divided against himself, has, in fact, and
as a matter of the history of doctrines and of practice, lent itself
more easily to this splitting of personality into two: the
transcendent, dominant controller, and the: empirical bundle of desires
and passions to be disciplined and brought to heel. This demonstrates
(if demonstration of so obvious a truth is needed) that the conception
of freedom directly derives from the view that is taken of what
constitutes a self, a person, a man. Enough manipulation with the
definition of man, and freedom can be made to mean whatever the
manipulator wishes. Recent history has made it only too clear that the
issue is not merely academic. IX TWO CONCEPTS OF
DEMOCRACY JOSEPH SCHUMPETER 1-THE CLASSICAL DOCTRINE OF
DEMOCRACY 1. THE COMMON GOOD AND THE WILL OF THE PEOPLE THE
eighteenth-century philosophy of democracy may be couched in the
following definition: the democratic method is that institutional
arrangement for arriving at political decisions which realizes the common
good by making the people itself decide issues through the election of
individuals who are to assemble in order to carry out its will. Let us
develop the implications of this. It is held, then, that there
exists a Common Good, the obvious beacon light of policy, which is always
simple to define and which every normal person can be made to see by
means of rational argument. There is hence no excuse for not seeing it
and in fact no explanation for the presence of people who do not see it
except ignorance—which can be removed—stupidity and anti-social interest.
Moreover, this common good implies definite answers to all questions so
that every social fact and every measure taken or to be taken can
unequivocally be classed as ‘good’ or ‘bad’. All people having therefore
to agree, in principle at least, there is also a Common Will of the
people (= will of all reasonable individuals) that is exactly coterminous
with the common good or interest or welfare or happiness. The only
thing, barring stupidity and sinister interests, that can possibly bring
in disagreement and account for the presence of an opposition is a
difference of opinion as to the speed with which the goal, itself common
to nearly all, is to be approached. Thus every member of the community,
conscious of that goal, knowing his or her mind, dis- cerning what is
good and what is bad, takes part, actively and responsibly, in furthering
the former and fighting the latter and all the members taken together
control their public affairs. From Capitalism, Socialism and
Democracy by Joseph Schumpeter (grd edn., Allen & Unwin, 1950), pp.
250-83. Copyright 1942, 1947, by Joseph A. Schumpeter. Copyright 1950 by
peel and Brothers. Reprinted by permission of George Allen and Unwin and
Harper and Row, Publishers. 154 JOSEPH SCHUMPETER It
is true that the management of some of these affairs requires special
aptitudes and techniques and will therefore have to be entrusted to
specialists who have them. This does not affect the principle, however,
because these specialists simply act in order to carry out the will of
the people exactly as a doctor acts in order to carry out the will of the
patient to get well. It is also true that ina community of any size,
especially if it displays the phenomenon of division of labour, it would
be highly inconvenient for every individual citizen to have to get into
contact with all the other citizens on every issue in order to do his
part in ruling or governing. It will be more convenient to reserve only
the most important decisions for the indivi- dual citizens to pronounce
upon—say by referendum—and to deal with the rest through a committee
appointed by them—an assembly or parliament whose members will be elected
by popular vote. This committee or body of delegates, as we have seen,
will not represent the people in a legal sense but it will do so in a
less technical one—it will voice, reflect or represent the will of the
electorate. Again as a matter of convenience, this committee, being
large, may resolve itself into smaller ones for the various departments
of public affairs. Finally, among these smaller committees there will be
a general-purpose committee, mainly for dealing with current administration,
called cabinet or government, possibly with a general secretary or
scapegoat at its head, a so-called prime minister." As
soon as we accept all the assumptions that are being made by this theory
of the polity—or implied by it—democracy indeed acquires a perfectly
unambiguous meaning and there is no problem in conne- xion with it except
how to bring itabout. Moreover we need only forget a few logical qualms
in order to be able to add that in this case the democratic arrangement
would not only be the best ofall conceivable ones, but that few people
would care to consider any other. It is no less obvious however that
these assumptions are so many statements of fact every one of which would
have to be proved if we are to arrive at that conclusion. And it is much
easier to disprove them. [There is, first, no such thing as a
uniquely determined common ood that all people could agree on or be made
to agree on by the force of rational argument] This is due not primarily
to the fact that some people may want thirigs other than the common good
but to the much more fundamental fact that to different individuals and
groups 'The official theory of the functions of a cabinet minister
holds in fact that he is appointed in order to see to it that in his
department the will of the people prevails. Y
(3) TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 155 the common good is
bound to mean different things. This fact, hidden from the utilitarian by
the narrowness of his outlook on the world of human valuations, will
introduce rifts on questions of principle which cannot be reconciled by
rational argument because ultimate, value ur. conceptions of what
life and what society should be—are beyond the range of mere logic. They
may be bridged by compro- mise in some cases but notin others.
Americans who say, “We want this country to arm to its teeth and then to
fight for what we conceive to be right all over the globe’ and Americans
who say, ‘We want this country to work outits own problems which is the
only way it can serve humanity’ are facing irreducible differences of
ultimate values which compromise could only maim and degrade.
Secondly, even if a sufficiently definite common good—such as for
instance the utilitarian’s maximum of economic satisfaction'—proved
acceptable to all, this would not imply equally definite answers to
individual issues. Opinions on these might differ to an extent important
enough to produce most of the effects of ‘fundamental’ dissension about
ends themselves. The problems centring in the evaluation of present
versus future satisfactions, even the case of socialism versus
capitalism, would be left still open, for instance, after the conversion
of every individual citizen to utilitarianism. ‘Health’ might be desired
by all, yet people would still disagree on vaccination and vasectomy. And
so on. The utilitarian fathers of democratic doctrine failed to see
the full importance of this simply because none of them seriously con-
sidered any substantial change in the economic framework and the habits
of bourgeois society. They saw little beyond the world of an
eighteenth-century ironmonger. But, third, as a consequence of both
preceding propositions, the particular concept of the will of the poops
or the volonté générale that the utilitarians made their own vanishes
into thin air. For that concept presupposes the existence ofa uniquely
determined common good discernible to all. Unlike the romanticists the
utilitarians had no notion of that semi-mvystic entity endowed with a
will of its own—that ‘soul of the people’ which the historical school of
jurisprudence made so much of. They frankly derived their will of the
people from the ‘The very meaning of ‘greatest happiness’ is open
to serious doubt. But even if this doubt could be removed and definite
meaning could be attached to the sum total of economic satisfaction of a
group of people, that maximum would still be relative to geven situations
and valuations which it may be impossible to alter, or compromise on, in
a democratic way. 156 JOSEPH SCHUMPETER wills of
individuals. And unless there is a centre, the common good, toward which,
in the long run at least, a// individual wills gravitate, we shall not
get that particular tvpe of ‘natural’ volonté generale. The utilitarian
centre of gravity, on the one hand, unifies individual wills, tends to
weld them by means of rational discussion into the will of the people
and, on the other hand, confers upon the latter the exclusive ethical
dignity claimed by the classic democratic creed. This creed does not
consist simply in worshipping the will of the people as such but rests on
certain assumptions about the ‘natural’ object of that will which object
is sanctioned by utilitarian reason. Both the existence and the dignity
of this kind of volonté générale are gone as soon as the idea of the
common good fails us. And both the pillars of the classical doctrine
inevitably crumble into dust. IJ. THE WILL OF THE PEOPLE AND
INDIVIDUAL VOLITION Of course, however conclusively those
arguments may tell against this particular conception of the will of the
people, they do not debar us from trying to build up another and more
realistic one. I do not intend to question either the reality or the
importance of the socio- psychological facts we think of when speaking of
the will of a nation. Their analysis is certainly the prerequisite for
making headway with the problems of democracy. It would however be better
not to retain the term because this tends to obscure the fact that as
soon as we have severed the will of the people from its utilitarian
connotation we are building not merely a different theory of the same
thing, but a theory of a completely different thing. We have every reason
to be on our guard against the pitfalls that lie on the path of those
defenders of democracy who while accepting, under pressure of
accumulating evidence, more and more of the facts of the democratic
process, yet try to anoint the results that process turns out with oil
taken from eighteenth-century jars. But though a common will
or public opinion of some sort may still be said to emerge from the
infinitely complex jumble of individual and group-wise situations,
volitions, influences, actions and reactions of the ‘democratic process’,
the result lacks not only rational unity but also rational sanction. The
former means that, though from the stand- point of analysis, the
democratic pvocess is not simply chaotic—for the analyst nothing is
chaotic thai can be brought within the reach of explanatory
principles—yet the results would not, except by chance, be meaningful in
themselves—as for instance the realization of any TWO CONCEPTS OF
DEMOCRACY 157 definite end or ideal would be. The latter means,
since that will is no longer congruent with any ‘good’, that in order to
claim ethical dignity for the result it will now be necessary to fall
back upon an unqualified confidence in democratic forms of government as
such— a belief that in principle would have to be independent of the
desir- ability of results. As we have seen, it is not easy to place
oneself on that standpoint. But even if we do so, the dropping of the
utilitarian common good still leaves us with plenty of difficulties onour
hands. In particular, we still remain under the practical necessity
of attributing to the will of the individual an independence and a
rational quality that are altogether unrealistic. If we are to argue that
the will of the citizens per se is a political factor entitled to
respect, it must first exist. That is to say, it must be something more
than an indeterminate bundle of vague impulses loosely playing about
given slogans and mistaken impressions. Everyone would have to know
definitely what he wants to stand for. This definite will would have to
be implemented by the ability to observe and interpret correctly the
facts that are directly accessible to everyone and to sift critically the
information about the facts that are not. Finally, from that definite will
and from these ascertained facts a clear and prompt con- clusion as to
particular issues would have to be derived according to the rules of
logical inference—with so high a degree of general efficiency moreover
that one man’s opinion could be held, without glaring absurdity, to be
roughly as good as every other man’s." Andall this the modal citizen
would have to perform for himself and independently of pressure groups
and propaganda,” for volitions and ‘This accounts for the strongly
equalitarian character both of the classical doctrine of democracy and of
popular democratic beliefs. Ic will be pointed out later on how Equality
may acquire the status of an ethical postulate. As a factual statement
about human nature it cannot be true in any conceivable sense. In
recognition of this the postulate itself has often been reformulated so
as to mean ‘equality of opportunity’. But, disregarding even the
difficulties inherent in the word opportunity, this reformu- lation does
not help us much because it is actual and not potential equality of
performance in matters of political behaviour that is required if each man’s
vote 1s to carry the same weight in the decision of issues.
It should be noted in passing that democratic phraseology has been
instrumental in fostering the association of inequality of any kind with
‘injustice’ which is so impartant an element in the psychic pattern of
the cnsucdiadlell and in the arsenal of the politician who uses him. One of
the most curious syenproms of this was the Athenian institution of
ostracism or rather the use to which it was sometimes put. Ostracism
consisted in banishing an individual by popular vote, not necessarily
for any ‘veaie? reason: it sometimes served as a method of eliminating
an un- comfortably prominent citizen who was felt to ‘count for more than
one’. 2This term is here being used in its original sense and not
in the sense which it is rapidly acquiring at present and which suggests
the definition: propaganda is any 158 JOSEPH SCHUMPETER
inferences that are imposed upon the electorate obviously do not
qualify for ultimate data of the democratic process. The question whether
these conditions are fulfilled to the extent required in order to make democracy
work should not be answered by reckless assertion or equally reckless
denial. It can be answered only by a laborious appraisal of a maze of
conflicting evidence. Before embarking upon this, however, I want
to make quite sure that the reader fully appreciates another point that
has been made already. I will therefore repeat that even if the opinions
and desires of individual citizens were perfectly definite and
independent data for the democratic process to work with, and if everyone
acted on them with ideal rationality and promptitude, it would not
necessarily follow that the political decisions produced by that process
from the raw material of those individual volitions would represent
anything that could in any convincing sense be called the will of the
people. It is not only conceivable but, whenever individual wills
are much divided, — very likely that the political decisions produced
will not conform te ‘what people really want’. Nor can it be replied
that, if not exactly what de want, they will get a ‘fair compromise’.
This may be so. The chances for this to happen are greatest with those
issues which are quantitative in nature or admit of gradation, such as
the question how much is to be spent on unemployment relief provided
everybody favours some expenditure for that purpose. But with qualitative
issues, such as the question whether to persecute heretics or to enter
upon a war, the result attained may well, though for different reasons,
be equally distasteful to all the people whereas the decision imposed
by a non-democratic agency might prove much more acceptable to
them. An example will illustrate. I may, I take it, describe the rule
of Napoleon, when First Consul, as a military dictatorship. One of
the most pressing political needs of the moment wasa religious
settlement that would clear the chaos left by the revolution and the
directorate and bring peace to millions of hearts. This he achieved by a
number of master strokes, culminating in a concordat with the Pope (1801)
and the ‘organic articles’ (1802) that, reconciling the irreconcilable,
gave just the right amount of freedom to religious worship while
strongly statement emanating from a source that we do not like. I
suppose that the term derives from the name of the committee of cardinals
which deals with matters concerning the spreading of the Catholic faith,
the congregatio de propaganda fide. In itself therefore it es not
carry any derogatory meaning and in particular it does not imply
distortion of facts. One can make propaganda, for instance, for a
scientific method. It simply means the presentation of facts and
arguments with a view to influencing people’s actions or opinions in a
definite direction. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 159
upholding the authority of the state. He also reorganized and refinanced
the French Catholic church, solved the delicate question of the
‘constitutional’ clergy, and most successfully launched the new
establishment with a minimum of friction. If ever there was any
justification at all for holding that the people actually want some-
thing definite, this arrangement affords one of the best instances in
history. This must be obvious to anyone who looks at the French class
structure of that time and it is amply borne out by the fact that this
ecclesiastical policy greatly contributed to the almost universal
popularity which the consular regime enjoyed. But it is difficult to see
how this result could have been achieved in a democratic way. Anti-
church sentiment had not died out and was by no means confined to the
vanquished Jacobins. People of that persuasion, or their leaders, could
not possibly have compromised to that extent.' On the other end of the
scale, a strong wave of wrathful Catholic sentiment was steadily gaining
momentum. People who shared that sentiment, or leaders dependent on their
good will, could not possibly have stopped at the Napoleonic limit; in
particular, they could not have dealt so firmly with the Holy See for
which moreover there would have been no motive to give in, seeing which
way things were moving. And the will of the peasants who more than
anything else wanted their priests, their churches and processions would
have been paralyzed by the very natural fear that the revolutionary
settlement of the land question might be endangered once the clergy—the
bishops especially—were in the saddle again. Deadlock or interminable
struggle, engendering increasing irritation, would have been the most
probable outcome of any attempt to settle the question democratically.
But Napoleon was able to settle it reasonably, precisely because all
those groups which could not yield their points of their own accord were
at the same time able and willing to accept the arrangement if
imposed. This instance of course is not an isolated one.” Ifresults
that prove in the long run satisfactory to the people at large are made
the test of government for the people, than government by the people,
as conceived by the classical doctrine of democracy, would often fail
to meet it. 'The legislative bodies, cowed though they were,
completely failed in fact to support Napoleon in this policy. And some of
his most trusted paladins opposed it. 2Other instances could in
fact be adduced from Napoleon’s practice. He was an autocrat who,
whenever his dynastic interests and his foreign policy were not con-
cerned, simply strove to do what he conceived the people wanted or needed. This
is what the advice amounted to which he gave to Eugéne Beauharnais
concerning the latter’s administration of northern Italy.
160 JOSEPH SCHUMPETER III. HUMAN NATURE IN POLITICS
It remains to answer our question about the definiteness and independence
of the voter’s will, his powers of observation and interpretation of
facts, and his ability to draw, clearly and promptly, rational inferences
from both. This subject belongs to a chapter of social psychology that
might be enutled Human Nature in Politics.’ During the second half
of the last century, the idea of the human personality that is a
homogeneous unit and the idea of a definite will that is the prime mover
of action have been steadily fading—even before the times of Théodule
Ribot and of Sigmund Freud. In particular, these ideas have been
increasingly discounted in the field of social sciences where the
importance of the extra-rational and irrational element in our behaviour
has been receiving more and more attention, witness Pareto’s Mind and
Society. Of the many sources of the evidence that accumulated against the
hypothesis of rationality, I shall mention only two. The
one—in spite of much more careful later work—may still be associated with
the name of Gustave Le Bon, the founder or, at an rate, the first
effective exponent of the psychology of crowds (psychologie des foules).?
By showing up, though overstressing, the realities of human behaviour
when under the influence of agglomeration—in particular the sudden
disappearance, in a state of excitement, of moral restraints and
civilized modes of thinking and feeling, the sudden eruption of primitive
impulses, infantilisms and criminal propensities—he made us face gruesome
facts that everybody knew but nobody wished to see and he thereby dealt a
serious blow to the ‘This is the title of the frank and charming
book by one of the most lovable English radicals who ever lived, Graham
Wallas. In spite of all that has since been written on the subject and
especially in spite of all the‘detailed case studies that now make it
possible to see so much more clearly, that book may still be recommended
as the best introduc- tion to political psychology. Yet, after having
stated with admirable honesty the case against the uncritical acceptance
of the classical doctrine, the author fails to draw the obvious conclusion.
This is all the more remarkable because he rightly insists on the
necessity of a scientific attitude of mind and because he does not fail to take
Lord Bryce to task for having, in his book on the American commonwealth,
professed him- self ‘grimly’ resolved to see some blue sky in the midst
of clouds of disillusioning facts. Why, so Graham Wallas seems to
exclaim, what should we say of a meteorologist who insisted from the
outset that he saw some blue sky? Nevertheless in the constructive part
of his book he takes much the same ground. | *The German term,
Massenpsychologie, suggests a warning: the psychology of crowds must not
be confused with the psychology of the masses. The former does not neces-
sarily carry any class connotation and in itself has nothing to do with a study
of the ways of thinking and feeling of, say, the working class.
TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 161 picture of man’s nature which
underlies the classical doctrine of democracy and democratic folklore
about revolutions. No doubt there is much to be said about the narrowness
of the factual basis of Le Bon’s inferences which, for instance, do not
fit at all well the normal behaviour of an English or Anglo-American
crowd. Critics, especially those to whom the implications of this branch
of social psychology were uncongenial, did not fail to make the most of
its vulnerable points. But on the other hand it must not be
forgotten that the phenomena of crowd psychology are by no means confined
to mobs rioting in the narrow streets of a Latin town. Every
parliament, every committee, every council of war composed ofa dozen
generals in their sixties, displays, in however mild a form, some of
those features that stand out so glaringly in the case of the rabble, in
particular a re- duced sense of responsibility, a lower level of energy
of thought and greater sensitiveness to non-logical influences. Moreover,
those phenomena are not confined to a crowd in the sense of a
physical agglomeration of many people. Newspaper readers, radio
audiences, members of a party even if not physically gathered together
are terribly easy to work up into a psychological crowd and into a
state of frenzy in which attempt at rational argument only spurs the
animal spirits. The other source of disillusioning evidence
that I am going to mention is a much humbler one—no blood flows from it,
only nonsense. Economists, learning to observe their facts more
closely, have begun to discover that, even in the most ordinary currents
of daily life, their consumers do not quite live up to the idea that
the economic text-book used to convey. On the one hand their wants
are nothing like as definite and their actions upon those wants
nothing like as rational and prompt. On the other hand they are so
amenable to the influence of advertising and other methods of persuasion
that producers often seem to dictate to them instead of being directed
by them. The technique of successful advertising is particularly instruc-
tive. There is indeed nearly always some appeal to reason. But mere
assertion, often repeated, counts more than rational argument and so does
the direct attack upon the subconscious which takes the form of attempts
to evoke and crystallize pleasant associations of an entirely
extra-rational, very frequently of a sexual, nature. The
conclusion, while obvious, must be drawn with care. In the ordinary run
of often repeated decisions the individual is subject to the salutary and
rationalizing influence of favourable and unfavour- able experience. He
is also under the influence of relatively simple and 162 JOSEPH
SCHUMPETER unproblematical motives and interests which are but
occasionally interfered with by excitement. Historically, the consumers’
desire for shoes may, at least in part, have been shaped by the action of
pro- ducers offering attractive footgear and campaigning for it; yet at
any given time it is a genuine want, the definiteness of which
extends beyond ‘shoes in general’ and which prolonged experimenting
clears of much of the irrationalities that may originally have
surrounded it.! Moreover, under the stimulus of those simple motives
consumers learn to act upon unbiased expert advice about some things
(houses, motor-cars) and themselves become experts in others. Itis simply
not true that housewives are easily fooled in the matter of foods,
familiar household articles, wearing apparel. And, as every salesman
knows to his cost, most of them have a way of insisting on the exact article
they want. This of course holds true still more obviously on
the producers’ side of the picture. No doubt, a manufacturer may be
indolent, a bad judge of opportunities or otherwise incompetent; but
there is an effective mechanism that will reform or eliminate him.
Again Taylorism rests on the fact that man may perform simple
handicraft operations for thousands of years and yet perform them
inefficiently. But neither the intention to act as rationally as possible
nor a steady pressure toward rationality can seriously be called into
question at whatever level of industrial or commercial activity we choose
to look.? And so it is with most of the decisions of daily life
that lie within the little field which the individual citizen’s mind
encompasses with a full sense of its reality. Roughly, it consists of the
things that directly concern himself, his family, his business dealings,
his hobbies, his friends and enemies, his township or ward, his class,
church, trade union or any other social group of which he is an active member—
the things under his personal observation, the things which are familiar
to him independently of what his newspaper tells him, which he can
directly influence or manage and for which he develops the kind
‘In the above passage irrationality means failure to act rationally upon a
given wish. It does not refer to the reasonableness of the wish itself in
the opinion of the observer. This is important to note because economists
in appraising the extent of consumers’ irrationality sometimes exaggerate
it by confusing the two things. Thus, a ee Es finery may seem to a
professor an indication of irrational behaviour for which there is no
other explanation but the advertiser’s arts. Actually, it may be all she craves
for. If so her expenditure on it may be ideally rational in the above
sense. 2This level differs of course not only as between epochs and
places but also, ata given time and place, as between different
industrial sectors and classes. There is no such thing as a universal
pattern of rationality. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 163
of responsibility that is induced by a direct relation to the favourable
or unfavourable effects of a course of action. Once more:
definiteness and rationality in thought and action’ are not guaranteed by
this familiarity with men and things or by that sense of reality or
responsibility. Quite a few other conditions which often fail to be
fulfilled would be necessary for that. For instance, generation after
generation may suffer from irrational behaviour in matters of hygiene and
yet fail to link their sufferings with their noxious habits. As long as
this is not done, objective consequences, however regular, of course do
not produce subjective experience. Thus it proved unbelievably hard for
humanity to realize the relation between infection and epidemics: the
facts pointed to it with what to us seems unmistakable clearness; yet to
the end of the eighteenth century doctors did next to nothing to keep
people afflicted with infectious disease, such as measles or smallpox,
from mixing with other people. And things must be expected to be still
worse whenever there is not only inability but reluctance to recognize
causal relations or when some interest fights against recognizing them.
Nevertheless and in spite of all the qualifications that impose
them- selves, there is for everyone, within a much wider horizon, a
narrower field—widely differing in extent as between different groups
and individuals and bounded by a broad zone rather than a sharp line—
which is distinguished by a sense of reality or familiarity or respon-
sibility. And this field harbours relatively definite individual
volitions. These may often strike us as unintelligent, narrow,
egotistical; and it may not be obvious to everyone why, when it comes to
political decisions, we should worship at their shrine, still less why we
should feel bound to count each of them for one and none of them for
more than one. If, however, we do choose to worship we shall at least
not find the shrine empty.? ‘Rationality of thought and
rationality of action are two different things. Rationality of thought
does not always guarantee rationality of action. And the latter may be
present without any conscious deliberation and irrespective of any ability to
formulate the rationale of one’s action correctly. The observer,
particularly the observer who uses interview and questionnaire methods,
often overlooks this and hence acquires an exaggerated idea of the
importance of irrationality in behaviour. This is another source of those
overstatements which we meet so often. 21t should be observed that
in speaking of definite and genuine volitions I do not mean to exalt them
into ultimate data for all kinds of social analysis Of course they are
themselves the product of the social process and the social environment. All
Imean is that they may serve as data for the kind of special-purpose
analysis which the economist has in mind when he derives prices from tastes
or wants that are ‘given’ at any moment and need not be further analysed
each time. Similarly we may for our pur- 164 JOSEPH
SCHUMPETER Now this comparative definiteness of volition and
rationality of behaviour does not suddenly vanish as we move away from
those _concerns of daily life in the home and in business which
educate and discipline us. In the realm of public affairs there are
sectors that are more within the reach of the citizen’s mind than
others. This is true, first, of local affairs. Even there we find a
reduced power of discerning facts, areduced preparedness toact upon them,
areduced sense of responsibility. We all know the man—and a very good
speci- men he frequently is—who says that the local administration is not
his business and callously shrugs his shoulders at practices which
he would rather die than suffer in his own office. High-minded
citizens in a hortatory mood who preach the responsibility of the
individual voter or taxpayer invariably discover the fact that this voter
does not feel responsible for what the local politicians do. Still,
especially in communities not too big for personal contacts, local
patriotism may be a very important factor in ‘making democracy work’,
Also, the problems of a town are in many respects akin to the problems
ofa manufacturing concern. The man who understands the latter also
understands, to some extent, the former. The manufacturer, grocer or
workman need not step out of his world to havea rationally defensible
view (that may of course be right or wrong) on street cleaning or town
halls. Second, there are many national issues that concern
individuals and groups so directly and unmistakably as to evoke volitions
that are genuine and definite enough. The most important instance is afforded
by issues involving immediate and personal pecuniary profit to individual
voters and groups of voters, such as direct payments, pro- tective
duties, silver policies and so on. Experience that goes back to antiquity
shows that by and large voters react promptly and rationally to any such
chance. But the classical doctrine of democracy evidently stands to gain
little from displays of rationality of this kind. Voters thereby prove
themselves bad and indeed corrupt judges of such issues,’ and often they
even prove themselves bad judges of their own ps speak of genuine
and definite volitions that at any moment are given independent- of
attempts to manufacture them, although we recognize that these genuine
volitions themselves are the result of environmental influences in the
past, propagandist influences included. This distinction between genuine
and mukeldared will (see below) is a difficult one and cannot be applied
in all cases and for all purposes. For our purpose however it is
sufficient to point to the obvious common-sense case which can be made
for it. 'The reason why the Benthamites so completely overlooked
this is that they did not consider the possibilities of mass
corruption in modern capitalism. Committing in their political theory the
same error which they committed in their economic theory, TWO
CONCEPTS OF DEMOCRACY 165 long-run interests, for it is only the
short-run promise that tells politically and only short-run rationality
that asserts itself effectively. However, when we move still
farther away from the private con- cerns of the family and the business
office into those regions of national and international affairs that lack
a direct and unmistakable link with those private concerns, individual
volition, command of facts and method of inference soon cease to fulfil
the requirements of the classical doctrine. What strikes me most of all
and seems to me to be the core of the trouble is the fact that the sense
of reality’ is so completely lost. Normally, the great political
questions take their place in the psychic economy of the typical citizen
with those leisure- hour interests that have not attained the rank of
hobbies, and with the subjects of irresponsible conversation. These
things seem so far off; they are not at all like a business proposition;
dangers may not materialize at all and if they should they may not prove
so very serious; one feels oneself to be moving ina fictitious
world. This reduced sense of reality accounts not only for a reduced
sense of responsibility but also for the absence of effective volition.
One has one’s phrases, of course, and one’s wishes and daydreams and
grumbles; especially, one has one’s likes and dislikes. But ordinarily
they do not amount to what we call a will—the psychic counterpart of
purposeful responsible action. In fact, for the private citizen musing
over national affairs there is no scope for such a will and no task at
which it could develop. He is a member of an unworkable committee, the
committee of the whole nation, and this is why he expends less
disciplined effort on mastering a political problem than he expends on a
game of bridge.” they felt no compunction about postulating that,
‘the people’ were the best judges of their own individual interests and
that these must necessarily coincide with the interests of all the people
taken together. Of course this was made easier for them because actually
though not intentionally they philosophized in terms of bourgeois
interests which had more to gain from a parsimonious state than from any
direct bribes. ‘William James’ ‘pungent sense of reality’.
The relevance of this point has been particularly emphasized by Graham
Wallas. 2It will help to clarify the point if we ask ourselves why
so much more intelligence and clear-headedness show up at a bridge table
than in, say, political discussion among non-politicians. At the bridge
table we have a definite task; we have rules that discipline us; success
and failure are clearly defined; and we are prevented from behaving
irresponsibly because every mistake we make will not only immediately
tell but also be immediately allocated to us. These conditions, by iheit
failure to be fulfilled for the political behaviour of the ordinary
citizen, show why it is that in politics he lacks a 1 the alertness and
the judgement he may display in his profession. 166 JOSEPH
SCHUMPETER The reduced sense of responsibility and the absence of
effective volition in turn explain the ordinary citizen’s ignorance and
lack of judgement in matters of domestic and foreign policy which are
ifany- thing more shocking in the case of educated people and of people
who are successfully active in non-political walks of life than it is
with uneducated people in humble stations. Information is plentiful
and readily available. But this does not seem to make any difference.
Nor should we wonder at it. We need only compare a lawyer’s attitude
to his brief and the same lawyer’s attitude to the statements of
political fact presented in his newspaper in order to see what is the
matter. In the one case the lawyer has qualified for appreciating the
relevance of his facts by years of purposeful labour done under the
definite stimulus of interest in his professional competence; and under
a stimulus that is no less powerful he then bends his acquirements,
his intellect, his will to the contents of the brief. In the other case,
he has not taken the trouble to qualify; he does not care to absorb
the information or to apply to it the canons of criticism he knows so
well how to handle; and he is impatient of long or complicated
argument. All of this goes to show that without the initiative that comes
from immediate responsibility, ignorance will persist in the face of
masses of information however complete and correct. It persists even in
the face of the meritorious efforts that are being made to go
beyond presenting information and to teach the use ofit by means of
lectures, classes, discussion groups. Results are not zero. But they are
small. People cannot be carried up the ladder. Thus the
typical citizen drops down to a lower level of mental performance as soon
as he enters the political field. He argues and analyses in a way which
he would readily recognize as infantile within the sphere of his real
interests. He becomes a primitive again. His thinking becomes associative
and affective.’ And this entails two further consequences of ominous
significance. First, even if there were no political groups trying to
influence him, the typical citizen would in political matters tend to
yield to extra-rational or irrational prejudice and impulse. The weakness
of the rational processes he applies to politics and the absence of
effective logical control over the results he arrives at would in
themselves suffice to account for that. Moreover, simply because he is
not ‘all there’, he will relax his usual moral standards as well and
occasionally give in to dark urges which the conditions of private
1See ch. xii. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 167 life help
him to repress. But as to the wisdom or rationality of his inferences and
conclusions, it may be just as bad if he gives in to a burst of generous
indignation. This will make it still more difficult for him to see things
in their correct proportions or even to see more than one aspect of one
thing at a time. Hence, if for once he-does emerge from his usual
vagueness and does display the definite will postulated by the classical
doctrine of democracy, he is as likely as not to become still more
unintelligent and irresponsible than he usually is. At certain junctures,
this may prove fatal to his nation.’ Second, however, the weaker
the logical element in the processes of the public mind and the more
complete the absence of rational criti- cism and of the rationalizing
influence of personal experience and responsibility, the greater are the
opportunities for groups with an axe to grind. These groups may consist
of professional politicians or of exponents of an economic interest or of
idealists of one kind or another or of people simply interested in
staging and managing political shows. The sociology of such groups is
immaterial to the argument in hand. The only point that matters here is
that, Human Nature in Politics being what it is, they are able to fashion
and, within very wide limits, even to create the will of the people. What
we are confronted with in the analysis of political processes is
largely not a genuine but a manufactured will. And often this artefact is
all that in reality corresponds to the volonté générale of the
classical doctrine. So far as this is so, the will of the people is the
product and not the motive power of the political process.
The ways in which issues and the popular will on any issue are
being manufactured is exactly analogous to the ways ot commercial
advertis- ing. We find the same attempts to contact the subconscious. We
find the same technique of creating favourable and unfavourable
associa- tions which are the more effective the less rational they are.
We find the same evasions and reticences and the same trick of
producing opinion by reiterated assertion that is successful precisely to
the extent to which it avoids rational argument and the danger of
awakening the critical faculties of the people. And so on. Only, all
‘The importance of such bursts cannot be doubted. But it is possible to
doubt their genuineness. Analysis will show in many instances that they
are induced by the action of some group and do not spontaneously arise
from the people. In this case they enter into a (second) class of
phenomena which we are about to deal with. Persona! ly, I do believe that
genuine instances exist. But I cannot be sure that more thorough analysis
would not reveal some psycho-technical effort at the bottom of
them. 168 JOSEPH SCHUMPETER these arts have
infinitely more scope in the sphere of public affairs than they have in
the sphere of private and professional life. The picture of the prettiest
girl that ever lived will in the long run prove powerless to maintain the
sales of a bad cigarette. There is no equally effective safeguard in the
case of political decisions. Many decisions of fateful importance are of
a nature that makes it impossible for the public to experiment with them
at its leisure and at moderate cost. Even if that is possible, however,
judgement is as a rule not so easy to arrive at as it is in the case of
the cigarette, because effects are less easy to interpret. But
such arts also vitiate, to an extent quite unknown in the field of
commercial advertising, those forms of political advertising that profess
to address themselves to reason. To the observer, the antira- tional or,
at all events, the extra-rational appeal and the defenceless- ness of the
victim stand out more and not less clearly when cloaked in facts and
arguments. We have seen above why it is so difficult to impart to the
public unbiased information about political problems and logically
correct inferences from it and why it is that information and arguments
in political matters will ‘register’ only if they link up with the
citizen’s preconceived ideas. As a rule, however, these ideas are not
definite enough to determine particular conclusions. Since they can
themselves be manufactured, effective political argu- ment almost
inevitably implies the attempt to twist existing volitional premises into
a particular shape and not merely the attempt to im- plement them or to
help the citizen to make up his mind. Thus information and
arguments that are really driven home are likely to be the servants of
political intent. Since the first thing man will do for his ideal or
interest is to lie, we shall expect, and as a matter of fact we find,
that effective information is almost always adulterated or selective! and
that effective reasoning in politics consists mainly in trying to exalt
certain propositions into axioms and to put others out of court; it thus
reduces to the psycho-technics mentioned before. The reader who thinks me
unduly pessimistic need only ask himself whether he has never heard—or
said himself—that this or that awkward fact must not be told publicly, or
that a certain line of reasoning, though valid, is undesirable. If men
who according to any current standard are perfectly honourable or even
high- minded reconcile themselves to the implications of this, do they
not thereby show what they think about the merits or even the
existence of the will of the people? Selective information,
if in itself correct, is an attempt to lie by speaking the truth.
TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 169 There are of course limits to all
this.! And there is truth in Jefferson’s dictum that in the end the
people are wiser than any single individual can be, or in Lincoln’s
about the impossibility of ‘fooling all the peaple all the time’.
But both dicta stress the long-run aspect ina highly significant way. It
is no doubt possible to argue that given time us_as highly reasonable and
even shrewd. History however consists “of a succession of short-run
situations that may alter the course of events for good. If all the
people can in the short run be ‘fooled’ step by step into something they
do not really want, and if this is not an exceptional case which we could
afford to neglect, then no amount of retrospective common sense will
alter the fact that in reality they neither raise nor decide issues but
that the issues that shape their fate are normally raised and decided for
them. More than anyone else the lover of democracy has every reason to
accept this fact and to clear his creed from the aspersion that it rests
upon make-believe. IV. REASONS FOR THE SURVIVAL OF THE CLASSICAL
DOCTRINE But how is it possible that a doctrine so patently
contrary to fact should have survived to this day and continued to hold
its place in the hearts of the people and in the official language of
governments ? The refuting facts are known to all; everybody admits them
with perfect, frequently with cynical, frankness. The theoretical basis,
utilitarian rationalism, is dead; nobody accepts it as a correct theory
of the body politic. Nevertheless that question is not difficult to
answer. First of all, though the classical doctrine of collective
action may not be supported by the results of empirical analysis, it is
powerfully supported by that association with religious belief to which I
have adverted already. This may not be obvious at first sight. The
utilitarian leaders were anything but religious in the ordinary sense of
the term. In fact they believed themselves to be anti-religious and they
were so considered almost universally. They took pride in what they
thought was precisely an unmetaphysical attitude and they were quite out
of sympathy with the religious institutions and the religious move-
ments of their time. But we need only cast another glance at the picture
they drew of the social process in order to discover that it embodied
essential features of the faith of protestant Christianity and was in
‘Possibly they might show more clearly if issues were more frequently
decided by referertdum. Politicians presumably know why they are almost
invariably hostile to that institution, ; 170 JOSEPH SCHUMPETER
fact derived from that faith. For the intellectual who had cast off
his religion the utilitarian creed provided a substitute for it. For many
of those who had retained their religious belief the classical
doctrine became the political complement of it.! Thus transposed
into the categories of religion, this doctrine—and in consequence the
kind of democratic persuasion which is based upon it—changes its very
nature. There is no longer any need for logical scruples about the Common
Good and Ultimate Values. All this is settled for us by the plan of the
Creator whose purpose defines and sanctions everything. What seemed
indefinite or unmotivated before is suddenly quite definite and
convincing. The voice of the people that is the voice of God for
instance. Or take Equality. Its very meaning is in doubt, and there is
hardly any rational warrant for exalting it into a postulate, so long as
we move in the sphere of empirical analysis. But Christianity harbours a
strong equalitarian element. The Redeemer died for all: He did not
differentiate between individuals of different social status. In doing
so, He testified to the intrinsic value of the individual soul, a value
that admits of no grada- tions. Is not this a sanction—and, as it seems
to me, the only possible sanction’—of ‘everyone to count for one, no one
to count for more than one’—a sanction that pours super-mundane meaning
into articles of the democratic creed for which it is not easy to find
any other? To be sure this interpretation does not cover the whole
ground. However, so far as it goes, it seems to explain many things that
other- wise would be unexplainable and in fact meaningless. In
particular, it explains the believer’s attitude toward criticism: again,
as in the case of socialism, fundamental dissent is looked upon not
merely as error but as sin; it elicits not merely logical counterargument
but also moral indignation. We may put our problem
differently and say that democracy, when motivated in this way, ceases to
be a mere method that can be dis- ‘Observe the analogy with
socialist belief which also is a substitute for Christian belief to some
and a complement of it to others. It might be objected that,
however difficult it may be to attach a general meaning to the word
Equality, such meaning can be unravelled from its context in most if not
all cases. For instance, it may be permissible to infer from the circumstances
in which the ge pi address was delivered that by the ‘proposition that
all men are created free and equal’, Lincoln simply meant equality ae
legal status versus the kind of inequality that is implied in the
recognition of slavery. This meaning would be definite enough. But if we
ask why that proposition should be morally and politically binding and if
we refuse to answer ‘Because every man is by nature exactly like every
other man’, then we can only fall back upon the divine sanction supplied by
Christian belief. This solution is conceivably implied in the word
‘created’. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 171 cussed
rationally like a steam engine or a disinfectant. It actually becomes
what from another standpoint I have held it incapable of becoming, viz.,
an ideal or rather a part of an ideal schema of things. The very word may
become a flag, a symbol of alla man holds dear, of everything that he
loves about his nation whether rationally con- tingent to it or not. On
the one hand, the question how the various propositions implied in the
democratic belief are related to the facts of politics will then become
as irrelevant to him as is, to the believing Catholic, the question how
the doings of Alexander VI tally with the supernatural halo surrounding
the papal office. On the other hand, the democrat of this type, while
accepting postulates carrying large implications about equality and
brotherliness, will be in a position also to accept, in all sincerity,
almost any amount of deviations from them that his own behaviour or
position may involve. That is not even illogical. Mere distance from fact
is no argument against an ethical maxim or a mystical hope.
Second, there is the fact that the forms and phrases of classical
democracy are for many nations associated with events and develop- ments
in their history which are enthusiastically approved by large majorities.
Any opposition to an established regime is likely to use these forms and
phrases whatever its meaning and social roots may be. If it prevails and
if subsequent developments prove satisfactory, then these forms will take
root in the national ideology. The United States is the outstanding
example. Its very existence as a sovereign state is associated with a
struggle against a monarchial and aristocratic England. A minority of
loyalists excepted, Americans had, at the time of the Grenville administration,
probably ceased to look upon the English monarch as their king and the
English aristo- cracy as their aristocracy. In the War of Independence
they fought what in fact as well as in their feeling had become a foreign
monarch and a foreign aristocracy who interfered with their political
and economic interests. Yet from an early stage of the troubles
they presented their case, which really was a national one, as a case of
the ‘people’ versus its ‘ruler’, in terms of inalienable Rights of Man
and in the light of the general principles of classical democracy.
The wording of the Declaration of Independence and of the
Constitution ‘It might seem that an exception should be made for
oppositions that issue into frankly autocratic regimes, But even most of
these rose, as a matter of history, in democratic ways and based their
rule on the approval of the people. Caesar was not killed by plebeians.
But the aristocratic oligarchs who did kil him also used democratic
phrases. 172 JOSEPH SCHUMPETER adopted these
principles. A prodigious development followed that absorbed and satisfied
most people and thereby seemed to verify the doctrine embalmed in the
sacred documents of the nation. Oppositions rarely conquer when the
groups in possession are in the prime of their power and success. In the
first half of the nineteenth century, the oppositions that professed the
classical creed of democracy rose and eventually prevailed against
governments some of which— especially in Italy—were obviously in a state
of decay and had become bywords of incompetence, brutality and
corruption. Naturally though not quite logically, this redounded to the
credit of that creed which moreover showed up to advantage when compared
with the benighted superstitions sponsored by those governments. Under
these cir- cumstances, democratic revolution meant the advent of freedom
and decency, and the democratic creed meant a gospel of reason and
betterment. To be sure, this advantage was bound to be lost and the gulf
between the doctrine and the practice of democracy was bound to be
discovered. But the glamour of the dawn was slow to fade. Third, it must
not be forgotten that there are social patterns in which the classical
doctrine will actually fit facts with a sufficient degree of
approximation. As has been pointed out, this is the case with many small
and primitive societies which as a matter of fact served as a prototype
to the authors of that doctrine. It may be the case also with societies
that are not primitive provided they are not too differentiated and do
not harbour any serious problems. Switzerland is the best example. There
is so little to quarrel about in a world of peasants which, excepting
hotels and banks, contains no great capitalist industry, and the problems
of public policy are so simple and so stable that an overwhelming
majority can be expected to understand them and to agree about them. But
if we can conclude that in such cases the classical doctrine approximates
reality we have to add immediately that it does so not because it
describes an effective mechanism of political decision but only because
there are no great decisions to be made. Finally, the case of the United
States may again be invoked in order to show that the classical doctrine
sometimes appears to fit facts even in a society that is big and highly
differentiated and in which there are great issues to decide provided the
sting is taken out of them by favourable conditions. Until this country’s
entry into the First World War, the public mind was con- cerned mainly
with the business of exploiting the economic possi- bilities of the
environment. So long as this business was not seriously interfered with
nothing mattered fundamentally to the average citizen TWO CONCEPTS
OF DEMOCRACY 173 who looked on the antics of politicians with
good-natured contempt. Sections might get excited over the tariff, over
silver, over local misgovernment, or over an occasional squabble with
England. The people at large did not care much, except in the one case of
serious disagreement which in fact produced national disaster, the Civil
War. And fourth, of course, politicians appreciate a phraseology
that flatters the masses and offers an excellent opportunity not only
for evading responsibility but also for crushing opponents in the name
of the people. 2-ANOTHER THEORY OF DEMOCRACY I.
COMPETITION FOR POLITICAL LEADERSHIP I THINK that most students of
politics have by now come to accept the criticisms levelled at the
classical doctrine of democracy in the preced- ing chapter. I also think
that most of them agree, or will agree before long, in accepting another
theory which is much truer to life and at the same time salvages much of
what sponsors of the democratic method really mean by this term. Like the
classical theory, it may be put into the nutshell of a definition.
It will be remembered that our chief troubles about the classical
theory centred in the proposition that ‘the people’ hold a definite and
rational opinion about every individual question and that they give
effect to this opinion—in a democracy—by choosing ‘represent- atives’ who
will see to it that that opinion is carried out. Thus the selection of
the representatives is made secondary to the primary purpose of the
democratic arrangement which is to vest the power of deciding political
issues in the electorate. Suppose we reverse the roles of these two
elements and make the deciding of issues by the electorate secondary to
the election of the men who are to do the deciding. To put it
differently, we now take the view that the role of the people is to
produce a government, or else an intermediate body which in turn will
produce a national executive!or government. And we define: the democratic
method is that institutional arrangement for arriving at political
decisions in which individuals acquire the 1The insincere word
‘executive’ really points in the wrong direction. It ceases however to do
so if we use it in the sense in which we speak of the ‘executives’ of a
business corporation who also do a great deal more than ‘execute’ the will of
stock- holders. 174 JOSEPH SCHUMPETER power to
decide by means of a competitive struggle for the people’s vote.
Defence and explanation of this idea will speedily show that, as to
both plausibility of assumptions and tenability of propositions, it
greatly improves the theory of the democratic process. First of
all, we are provided with a reasonably efficient criterion by which to
distinguish democratic governments from others. We have seen that the
classical theory meets with difficulties on that score because both the
will and the good of the people may be, and inmany historical instances
have been, served just as well or better by govern- ments that cannot be
described as democratic according to any accepted usage of the term. Now
we are ina somewhat better position partly because we are resolved to
stress a modus procedendi the presence or absence of which it is in most
cases easy to verify. For instance, a parliamentary monarchy like
the English one ful- fils the requirements of the democratic method
because the monarch is practically constrained to appoint to cabinet
office the same people as parliament would elect. A ‘constitutional’
monarchy does not qualify to be called democratic because electorates and
parliaments, while having all the other rights that electorates and
parliaments have in parliamentary monarchies, lack the power to impose
their choice as to the governing committee: the cabinet ministers are in
this case servants of the monarch, in substance as well as in name, and
can in principle be dismissed as well as appointed by him. Such an
arrange- ment may satisfy the people. The electorate may reaffirm this
fact by voting against any proposal for change. The monarch may be
so popular as to be able to defeat any competition for the supreme
office. But since no machinery is provided for making this competition
effective the case does not come within our definition. Second, the
theory embodied in this definition leaves all the room we may wish to
have for a proper recognition of the vital fact of leadership. The
classical theory did not do this but, as we have seen, attributed to the
electorate an altogether unrealistic degree of in- itiative which
practically amounted to ignoring leadership. But collectives act almost
exclusively by accepting leadership—this is the dominant mechanism of
practically any collective action which is more than a reflex.
Propositions about the working and the results of the democratic method
that take account of this are bound to be infinitely more realistic than
propositions which do not. They will not ‘See however the fourth
point below. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 175 stop at
the execution of a volonté générale but will go some way toward showing
how it emerges or how it is substituted or faked. What we have termed
Manufactured Will is no longer outside the theory, an aberra- tion for
the absence of which we piously pray; it enters on the ground floor as it
should. Third, however, so far as there are genuine group-wise
volitions at all—for instance the will of the unemployed to receive
unemploy- ment benefit or the will of other groups to help—our theory
does not neglect them. On the contrary we are now able to insert them
in exactly the role they actually play. Such volitions do not as a
rule assert themselves directly. Even if strong and definite they
remain latent, often for decades, until they are called to life by some
political leader who turns them into political factors. This he does, or
else his agents do it for him, by organizing these volitions, by working
them up and by including eventually appropriate items in his
competitive offering. The interaction between sectional interests and
public opinion and the way in which they produce the pattern we call
the political situation appear from this angle in a new and much
clearer light. Fourth, our theory is of course no more
definite than is the concept of competition for leadership. This concept
presents similar difficulties as the concept of competition in the
economic sphere, with which it may be usefully compared. In economic life
competition is never com- pletely lacking, but hardly ever is it
perfect.! Similarly, in political life there is always some competition,
though perhaps only a potential one, for the allegiance of the people. To
simplify matters we have restricted the kind of competition for
leadership which is to define democracy, to free competition for a free
vote. The justification for this is that democracy seems to imply a
recognized method by which to conduct the competitive struggle, and that
the electoral method is practically the only one available for
communities of any size. But though this excludes many ways of securing
leadership which should be excluded,? such as competition by military
insurrection, it does not exclude the cases that are strikingly analogous
to the economic ‘In Part II we had examples of the problems which
arise out of this. 21It also excludes methods which should not be
excluded, for instance, the acquisition of political leadership by the
people’s tacit acceptance of it or by election guast per inspirationem.
The latter differs ee election by voting only by a technicality. But the
former is not quite without importance even in modern politics; the swa held by
a party boss within his party is often based on nothing but tacit
acceptance of his leader- ship. Comparatively speaking however these are
details which may, I think, be neglected in a sketch like this.
176 JOSEPH SCHUMPETER phenomena we label ‘unfair’ or
‘fraudulent’ competition or restraint of competition. And we cannot
exclude them because if we did we should be left with a completely
unrealistic ideal.! Between this ideal case which does not exist and the
cases in which all competition with the established leader is prevented
by force, there is a continuous range of variation within which the democratic
method of government shades off into the autocratic one by imperceptible
steps. But if we wish to understand and not to philosophize, this is as
it should be. The value of our criterion is not seriously impaired
thereby. Fifth, our theory seems to clarify the relation that
subsists between democracy and individual freedom. If by the latter we
mean the existence of a sphere of individual self-government the
boundaries of which are historically variable—no society tolerates
absolute freedom even of conscience and of speech, no society reduces
that sphere to zero—the question clearly becomes a matter of degree. We
have seen that the democratic method does not necessarily guarantee a
greater amount of individual freedom than another political method
would permit in similar circumstances. It may well be the other way
round. But there is still a relation between the two. If, on principle at
least, everyone is free to compete for political leadership? by
presenting himself to the electorate, this will in most cases though not
in all mean a considerable amount of freedom of discussion for all.
In particular it will normally mean a considerable amount of freedom
of the press. This relation between democracy and freedom is notabsolute-
ly stringent and can be tampered with. But, from the standpoint of the
intellectual, it is nevertheless very important. At the same ume, it is
all there is to that relation. Sixth, it should be observed that in
making it the primary function of the electorate to produce a government
(directly or through an intermediate body) I intended to include in this
phrase also the func- tion of evicting it. The one means simply the
acceptance of a leader or a group of leaders, the other means simply the
withdrawal of this acceptance. This takes care of an element the reader
may have missed. He may have thought that the electorate controls as well
as installs. But since electorates normally do not control their
political leaders in any way except by refusing to reelect them or the
parliamentary majorities that support them, it seems well to reduce our
ideas about this control in the way indicated by our definition.
Occasionally, 1As in the economic field, some restrictions are
implicit in the legal and moral principles of the community.
? Free, that is, in the same sense in which everyone is free to start
another textile mill. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 177
spontaneous revulsions occur which upset a government or an in- dividual
minister directly or else enforce a certain course of action. But they
are not only exceptional, they are, as we shall see, contrary to the
spirit of the democratic method. Seventh, our theory sheds
much-needed light onan old controversy. Whoever accepts the classical
doctrine of democracy and in con- sequence believes that the democratic
method is to guarantee that issues be decided and policies framed
according to the will of the people must be struck by the fact that, even
if that will were undeniably real and definite, decision by simple
majorities would in many cases distort it rather than give effect to it.
Evidently the will of the majority is the will of the majority and not
the will of ‘the people’. The latter is a mosaic that the former completely
fails to ‘represent’. To equate both by definition is not to solve the
problem. Attempts at real solutions have however been made by the authors
of the various plans for Proportional Representation. These
plans have met with adverse criticism on practical grounds. It is in fact
obvious not only that proportional representation will offer
opportunities for all sorts of idiosyncrasies to assert themselves but
also that it may prevent democracy from producing efficient governments
and thus prove a danger in times of stress.’ But before concluding that
democracy becomes unworkable if its principle is carried out
consistently, it is just as well to ask ourselves whether this principle
really implies proportional representation. As a matter of fact it does not.
If acceptance of leadership is the true function of the electorate’s
vote, the case for proportional representation collapses because its
premises are no longer binding. The principle of democracy then merely
means that the reins of government should be handed to those who command
more support than do any of the competing individuals or teams. And this
in turn seems to assure the standing of the majority system within the
logic of the democratic method, although we might still condemn it on
grounds that lie outside of that logic. Il. THE PRINCIPLE
APPLIED The theory outlined in the preceding section we are now
going to try out on some of the more important features of the structure
and working of the political engine in democratic countries.
'The argument against proportional representation has been ably stated
by Professor F. A. Hermens in ‘The Trojan Horse of Democracy’,
Social Research, November 1938. 178 JOSEPH SCHUMPETER
1. In a democracy, as I have said, the primary function of the
elector’s vote is to produce government. This may mean the election of a
complete set of individual officers. This practice however is in the main
a feature of local government and will be neglected hence- forth.!
Considering national government only, we may say that producing
government practically amounts to deciding who the leading man shall be.?
As before, we shall call him Prime Minister. There is only one
democracy in which the electorate’s vote does this directly, viz., the United
States.* In all other cases the electorate’s 'This we shall do for
simplicity’s sake only. The phenomenon fits perfectly into our
schema. *This is only eerie! true. The elector’s vote does indeed
put into power a group that in all normal cases acknowledges an individual
leader but there are as a rule leaders of second and third rank who carry
political guns in their own right and whom the leader has no choice but
to put into appropriate offices. This fact will be recognized
presently. Another point must be kept in mind. Although there is reason
to expect that a man who rises to a position of supreme command will in
general be a man of considerable ersonal force, whatever else he may
be—to this we shall return later on—it does not ollow that this will
always be the case. Therefore the term ‘leader’ or ‘leading man’ is not
to imply that the individuals thus designated are necessarily endowed
with qualities of leadership or that they always do give any personal
leads. There are political situations favourable to the rise of men
deficient in leadership (and other qualities) and unfavourable to the
establishment of strong individual positions. A party or a combination of
parties hence may occasionally be acephalous. But everyone recognizes
that this is a paidloged state and one of the typical causes of defeat.
3We may, I take it, disregard the electoral college. In calling the
President of the United States a prime minister I wish to stress the
fundamental similarity of his position to that of prime ministers in
other democracies. But I do not wish to minimize the differences,
although some of them are more formal than real. The least important of
them is that the President also fulfils those largely ceremonial functions of, say,
the French presidents. Much more important is it that he cannot dissolve
Congress— but neither could the French Prime Minister do so. On the other
hand, his position is stronger than that of the English Prime Minister by
virtue of the fact that his leadership is independent of his having a
majority in Congress—at least legally; for as a matter of fact he is
checkmated if he has none. Also, he can appoint and dismiss cabinet
officers (almost) at will. The latter can hardly be called ministers in the
English sense of the word and are really no more than the word ‘secretary’
conveys in common parlance. We might say, therefore, that in a sense the
pens Me is not only prime minister but sole minister, unless we find an
analogy between the functions of an English Cabinet minister and the
functions of the managers of the administra- tion’s forces in
Congress. There is no difficulty about interpreting and explaining
these and many other peculiarities in this or any other country that uses
the democratic method. But in order to save space we shall mainly think
of the English pattern and consider all other cases as more or less
important ‘deviations’ on the theory that thus far the logic of
democratic government has worked itself out most completely in the English
practice though not in its legal forms. TWO CONCEPTS OF
DEMOCRACY 179 vote does not directly produce government but an
intermediate organ, henceforth called parliament,! upon which the
government-producing function devolves. It might seem to account for the
adoption or rather the evolution of this arrangement, both on historical
grounds and on grounds of expediency, and for the various forms it took
in different social patterns. But it is nota logical construct; it isa
natural growth the subtle meanings and results of which completely
escape the official, let alone legal, doctrines. How does a
parliament produce government? The most obvious method is to elect it or,
more realistically, to elect the prime minister and then to vote the list
of ministers he presents. This method is rarely used.? But it brings out
the nature of the procedure better than any of the others. Moreover,
these can all be reduced to it, because the man who becomes prime
minister is in all normal cases the one whom parliament would elect. The
wayinwhich heis actually appoint- ed to office, by a monarch as in
England, bya President as in France or by a special agency or committee
as in the Prussian Free State of the Weimar period, is merely a matter of
form. The classical English practice is this. After a general
election the victorious party normally commands a majority of seats in
Parliament and thus is in a position to carry a vote of want of
confidence against everyone except its own leader who in this negative
way is designated ‘by Parliament’ for national leadership. He receives
his commission from the monarch—kisses hands’—and presents to him his
list of ministers of which the list of cabinet ministers is a part. In
this he includes, first, some party veterans who receive what might be
called complimentary office; secondly, the leaders of the second rank,
those men on whom he counts for the current fighting in Parliament
and who owe their preferment partly to their positive political value
and partly to their value as potential nuisances; third, the rising
men whom he invites to the charmed circle of office in order to
“extract the brains from below the gangway’; and sometimes, fourth, a
few men whom he thinks particularly well qualified to fill certain
offices.* ‘It will be recalled that I have defined parliament as
an organ of the state. Although that was done simply for reasons of
formal (legal) logic, this definition fits in par- ticularly well with
our conception of the democratic method: Membership in parlia- ment is
hence an office. For example, it was adopted in Austria after the
breakdown in 1918. ’To lament, as some people do, how little fimess
for office counts in these arrange- ments is beside the point where
description is concerned; it is of the essence of democratic government
that political valles should count primarily and fitness only
incidentally. 180 JOSEPH SCHUMPETER But again, in all
normal cases this practice will tend to produce the same result as
election by Parliament would. The reader will also see that where, as in
England, the prime minister has the actual power to dissolve (‘to go to
the country’), the result will to some extent approximate the result we
should expect trom direct election of the cabinet by the electorate so
long as the latter supports him.! This may be illustrated by a famous
instance. 2. In 1879, when the Beaconsfield (Disraeli) government,
after almost six years of prosperous tenure of power culminating in
the spectacular success of the Congress of Berlin,? was on all
ordinary counts entitled to expect a success at the polls, Gladstone
suddenly roused the country by a series of addresses of unsurpassable
force (Midlothian campaign) which played up Turkish atrocities so
success- fully as to place him on the crest of a wave of popular
enthusiasm for him personally. The official party had nothing to do with
it. Several of its leaders in fact disapproved. Gladstone had resigned
the leader- ship years before and tackled the country single-handed. But
when the liberal party under this impetus had wona smashing victory, it
was obvious to everyone that he had to be again accepted as the
party leader—nay, that he had become the party leader by virtue of his
national leadership and that there simply was no room for any other. He
came into power in a halo of glory. 1If, as was the case in
France, the prime minister has no such power, parliamentary cotenes
acquire so much independence that this parallelism between acceptance of
a man by parliament and acceptance of the same man by the electorate is
weakened or destroyed. This is the situation in which the parlour game of
parliamentary politics runs riot. From our standpoint this is a deviation
from the design of the machine. Raymond Poincaré was of the same
opinion. Of course, such situations also occur in England. For the
Prime Minister’s power to dissolve—strictly, his power to ‘advise’ the
monarch to dissolve the House of Commons—is inoperative either if his party’s
inner circle sets its face against it or if there is no chance that
elections will strengthen his hold upon Parliament. That is to say, he
may be stronger (though pase still weak) in Parliament than he is in the
country. Such a state of things tends to develop with some regularity after a
govern- ment has been in power for some years. But under the English
system this deviation from design cannot last very long. 21
do not mean that the temporary settlement of the questions raised by the Russo-
Turkish War and the acquisition of the perfectly useless island of Cyprus were
in themselves such masterpieces of statesmanship. But I do mean that from
the stand- pan of domestic politics they were just the kind of showy
success that would normally atter the average citizen’s vanity and
would greatly enhance the government’s prospects in an atmosphere of
jingo patriotism. In fact it was the general opinion that Disraeli would
have won if he had dissolved immediately on returning from Berlin.
TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 181 Now this instance teaches us a lot
about the working of the demo- cratic method. To begin with, it must be
realized that it is unique only in its dramatic quality, but in nothing
else. It is the oversized specimen of a normal genus. The cases of both
Pitts, Peel, Palmerston, Disraeli, Campbell Bannerman and others differ
from it only in degree. First, as to the Prime Minister’s political
leadership.! Our example shows that it is composed of three different
elements which must not be confused and which in every case mix in
different proportions, the mixture then determining the nature of every
individual Prime Minister’s rule. On the face of it, he comes into office
as the leading man of his party in Parliament. As soon as installed
however, he becomes in a sense the leader of Parliament, directly of the
house of which he is a member, indirectly also of the other. This is more
than an official euphemism, more also than is implied in his hold
upon his own party. He acquires influence on, or excites the antipathy
of, ‘It is characteristic of the English way of doing things that
official recognition of the existence of the Prime Minister’s office was
deferred until 1907, when it was allowed to appear in the official order
of precedence at court. But it is as old as democratic government.
However, since democratic government was never introduced by a distinct
act but slowly evolved as part of a comprehensive social process, it is
not easy to indicate even an approximate birthday or birth eae There is a
long stretch that presents embryonic cases. It is tempting to date the
institution from the reign of William III, whose position, so much weaker
than that of the native rulers had been, seems to give colour to the
idea. The objection to this however is not so much that England was no
‘democracy’ then—the reader will recall that we do not define demo- cracy
by the extent of eects ae that, on the one hand, the embryonic case of
aay haa occurred under Charles II and that, on the other hand, William III
never reconciled himself to the arrangement and kept certain matters
successfully in his own hands. We must not of course confuse prime
ministers with mere advisers, however powerful with their sovereign and
however firmly entrenched in the very centre of the public power plant
they may be—such men as Richelieu, Mazarin or Strafford for instance.
Godolphin and Harley under Queen Anne were clearly transitional cases.
The first man to be universally recognized at the time and by political
historians was Sir Robert Walpole. But he as well as the Duke of
Newcastle (or his brother Henry Pelham or both jointly) and in fact all
the leading men down to Lord Shelburne (including the elder Pitt who even
as foreign secretary came very near to fulfilling our requirements in
substance) lack one or another of Me characteristics. The first full-
fledged specimen was the younger Pitt. It is interesting to note
that what his own time recognized in the case of Sir Robert Walpole (and
later in that of Lord Carteret Earl of Granville]) was not that here was
an organ essential to democratic government that was breaking through
atrophic tissues. On the contrary, public opinion felt it to be a most
vicious cancer the growth of which was a menace to the national welfare
ahd to democracy—‘sole minister’ or ‘first minister’ was a term of
opprobrium hurled at Walpole by his enemies. This fact is significant. It
not only indicates the resistance new institutions usually meet with. It
also indicates that this institution was felt to be incompatible with the
classic doctrine of democracy which in fact has no place for political
leadership in our sense, hence no place for the realities of the position
of a prime minister. 182 JOSEPH SCHUMPETER the other
parties and individual members of the other parties as well, and this
makes a lot of difference in his chances of success. In the limiting
case, best exemplified by the practice of Sir Robert Peel, he may coerce
his own party by means of another. Finally, though in all normal cases he
will also be the head of his party in the country, the well-developed
specimen of the prime ministerial genus will have a position in the
country distinct from what he automatically acquires by heading the party
organization. He willlead party opinion creative- ly—shape it—and
eventually rise toward a formative leadership of public opinion beyond
the lines of party, toward national leadership that may to some extent
become independent of mere party opinion. It is needless to say how very
personal such an achievement is and how great the importance of such a
foothold outside of both party and Parliament. It puts a whip into the
hand of the leader the crack of which may bring unwilling and conspiring
followers to heel, though its thong will sharply hit the hand that uses
it unsuccessfully. This suggests an important qualification to our
proposition that in a parliamentary system the function of producing a
government devolves upon parliament. Parliament does normally decide
who will be Prime Minister, but in doing so it is not completely free.
It decides by acceptance rather than by initiative. Excepting
patho- logical cases like the French chambre, the wishes of members are
not as a rule the ultimate data of the process from which
government emerges. Members are not only handcuffed by party obligations.
They also are driven by the man whom they ‘elect’—driven to the act
of the ‘election’ itself exactly as they are driven by him once they
have ‘elected’ him. Every horse is of course free to kick over the traces
and it does not always run up to its bit. But revolt or passive
resistance against the leader’s lead only shows up the normal relation.
And this normal relation is of the essence of the democratic method.
Gladstone’s personal victory in 1880 is the answer to the official theory
that Parliament creates and cashiers government.! ‘Gladstone
himself upheld that theory strongly. In 1874, when defeated at the polls,
he still argued for meeting Parliament because it was up to Parliament to pass
the sentence of dismissal. This of course means nothing at all. In the
same way he studiously professed unbounded deference to the crown. One
biographer after another has marvelled at this courtly attitude of the
great democratic leader. But surely Queen Victoria showed better
discernment than did those biographers if we may judge trom the strong
dislike which she displayed for Gladstone from 1879 on aid which the
biographers attribute simply to the baleful influence of Disraeli. Is it really
necessary to point out that professions of deference may mean two
different things? The man who treats his wife with elaborate courtliness
is not as a rule the one to accept comrade- ship between the sexes
on terms of equality. As a matter of fact, the courtly attitude is
precisely a method to evade this. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY
183 3. Next, as to the nature and role of the cabinet.’ It is a
curiously double-faced thing, the joint product of Parliament and
Prime Minister. The latter designates its members for appointment, as
we have seen, and the former accepts but also influences his
choice. Looked at from the party’s standpointitisanassemblage of subleaders
more or less reflecting its own structure. Looked at from the Prime
Minister’s standpoint it is an assemblage not only of comrades in arms
but of party men who have their own interests and prospects to consider—a
miniature Parliament. For the combination to come about and to work it is
necessary for prospective cabinet ministers to make up their minds—not
necessarily from enthusiastic love—to serve under Mr. X and for Mr. X to
shape his programme so that his colleagues in the cabinet will not too often
feel like ‘reconsidering their position’, as official phraseology has it,
or like going ona sit- down strike. Thus the cabinet—and the same applies
to the wider ministry that comprises also the political officers not in
the cabinet— has a distinct function in the democratic process as against
Prime Minister, party, Parliament and electorate. This function of
inter- mediate leadership is associated with, but by no means based
upon, the current business transacted by the individual cabinet officers
in the several departments to which they are appointed in order to
keep the leading group’s hands on the bureaucratic engine. And it has
only a distant relation, if any, with ‘seeing to it that the will of the
people is carried out in each of them’. Precisely in the best instances,
the people are presented with results they never thought of and
would not have approved of in advance. 4. Again, as to
Parliament. I have both defined what seems to me to be its primary
function and qualified that definition. But itmight be objected that my
definition fails to do justice to its other functions. Parliament
obviously does a lot of other things besides setting up and pulling down
governments. It legislates. And it even administers. For although every
act of a parliament, except resolutions and 1§till more than the
evolution of the prime minister’s office, that of the cabinet is blurred
by the historical continuity that covers changes in the nature of an
institution. To this day the English cabinet is legally the operative
part of the Privy Council, which of course was an instrument of
government in decidedly predemocratic times. But below this surface an
entirely different organ has evolved. As soon as we realize this we find
the task of dating its emergence somewhat easier than we found the
analogous task in the case of the prime minister. Though embryonic
cabinets existed in the time of Charles II (the ‘cabal’ ministry was one,
and the committee of four that was formed in connexion with Temple’s experiment
was another), the Whig ‘junto’ under William UI is a fair candidate for
first place. From the reign of Anne on only minor points of membership or
functioning remain to disagree on. 184 JOSEPH SCHUMPETER
declarations of policy, makes ‘law’ in a formal sense, there are
man acts which must be considered as administrative measures. The
budget is the most important instance. To make it is an
administrative function. Yet in this country it is drawn up by Congress.
Even where it is drawn up by the minister of finance with the approval of
the cabinet, as it is in England, Parliament has to vote on it and by
this vote it becomes an act of Parliament. Does not this refute our
theory? When two armies operate against each other, their individual
moves are always centred upon particular objects that are determined
by their strategical or tactical situations. They may contend for a
par- ticular stretch of country or for a particular hill. But the
desirability of conquering that stretch or hill must be derived from the
strategical or tactical purpose, which is to beat the enemy. It would be
obviously absurd to attempt to derive it from any extra-military
properties the stretch or hill may have. Similarly, the first and
foremost aim of each political party is to prevail over the others in
order to get into ower or to stay in it. Like the conquest of the stretch
of country or the hill, the decision of the political issues is, from the
standpoint of the politician, not the end but only the material of
parliamentary activity. Since politicians fire off words instead of
bullets and since those words are unavoidably supplied by the issues
under debate, this may not always be as clear as it is in the ~ilitary
case. But victory over the opponent is nevertheless the essence of both
games.! Fundamentally, then, the current production of
parliamentary decisions on national questions is the very method by which
Parlia- ment keeps or refuses to keep a government in power or by
which Parliament accepts or refuses to accept the Prime Minister’s
leader- ship.? With the exceptions to be noticed presently, every vote is
a vote ‘Sometimes politicians do emerge from phraseological mists.
To cite an example to which no objection can be raised on the score of
frivolity: no lesser politician than Sir Robert Peel characterized the
nature of his craft when he said after his arliamentary victory
over the Whig government on the issue of the latter’s policy in Jamaica:
‘Jamaica was a good horse to start’. The reader should ponder over this.
2This of course pee to the pre-Vichy French and pre-Fascist Italian
practice just as much as to the English practice. It may however be
called in question in the case of the United States where defeat of the
administration on a major issue does not entail resignation of the
President. But this is merely due to the fact that the Constitution,
which embodies a different political theory, did not permit parlia-
mentary practice to develop according to its logic. In actual fact this logic
did not entirely fail to assert itself. Defeats on major issues, though
they cannot displace the President, will in general so weaken his
prestige as to oust him from a position of leadership. For the time being
this creates an abnormal situation. But whether he wins or loses the
subsequent presidential election; the conflict is then settled in a way
that does not fundamentally differ from the way in which an English Prime
Minister deals with a similar situation when he dissolves Parliament.
TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 185 of confidence or want of
confidence, and the votes that are technically so called merely bring out
in abstracto the essential element that is common to all. Of this we can
satisfy ourselves by observing that the initiative in bringing up matters
for parliamentary decision as a rule lies with the government or else
with the opposition’s shadow cabinet and not with private members.
It is the Prime Minister who selects from the incessant stream of
current problems those which he is going to make parliamentary issues,
that is to say, those on which his government proposes to introduce bills
or, if he is not sure of his ground, at least resolutions. Of course
every government receives from its predecessor a legacy of open questions
which it may be unable to shelve; others are taken up as a matter of
routine politics; it is only in the case of the most brilliant
achievement that a Prime Minister is in a position to impose measures
about a political issue which he has created himself. In any case however
the government’s choice or lead, whether free or not, is the factor that
dominates parliamentary activity. If a bill is brought in by the
opposition, this means that it is offering battle: such a move is an attack
which the government must either thwart by purloining the issue or else
defeat. If a major bill that is not on the governmental menu is brought
in by a group of the governmental party, this spells revolt and it is
from this angle and not from the extra-tactical merits of the case that
it is looked upon by the ministers. This even extends to the raising of a
debate. Unless suggested or sanctioned by the government, these are
symptoms of the government forces’ getting out of hand. Finally, if a
measure is carried by inter-party agreement, this means a drawn battle or
a battle avoided on strategical grounds.! 5. The exceptions to this
principle of governmental leadership in ‘representative’ assemblies only
serve to show how realistic it is. They are of two kinds. ‘Another
highly significant piece of English technique may be mentioned in this
connexion. A major bill is or was usually not proceeded with if the majority
for it fell to a very low figure on the second reading. This practice
first of all recognized an important limitation of the majority principle
as actually applied in well-managed democracies: it would not be correct
to say that in a democracy the minority is always compelled to surrender.
But there is a second point. While the minority is not always compelled
to yield to the majority on the particular issue under debate, it is
practically eae ante oa were exceptions even to this—compelled to yield
to it on the question whether the cabinet is to stay in power. Such a
vote on the second reading of a major government measure may be said to
combine a vote of confidence with a vote for shelv- ing a bill. If the
contents of the bill were all that mattered there would hardly be any
sense in voting for it if it is not to make the statute book. But if Parliament
is primarily concerned with keeping the cabinet in office, then
such tactics become at once under- standable. 186 JOSEPH
SCHUMPETER First, no leadership is absolute. Political leadership
exerted accord- ing to the democratic method is even less so than are
others because of that competitive element which is of the essence of
democracy. Since theoretically every follower has the right of displacing
his leader and since there are nearly always some followers who have
a real chance of doing so, the private member and—f he feels that
he could do with a bigger hat—the minister within and without the
inner circle steers a middle course between an unconditional allegiance
to the leader’s standard and an unconditional raising of a standard
of his own, balancing risks and chances with a nicety that is
sometimes truly admirable.! The leader in turn responds by steering a
middle course between insisting on discipline and allowing himself to
be thwarted. He tempers pressure with more or less judicious con-
cessions, frowns with compliments, punishments with benefits. This game
results, according to the relative strength of individuals and their
positions, in a very variable but in most cases considerable amount of freedom.
In particular, groups that are strong enough to make their resentment
felt yet not strong enough to make it profitable to in- clude their
protagonists and their programmes in the governmental arrangement will in
general be allowed to have their way in minor questions or, at any rate,
in questions which the Prime Minister can be induced to consider as of
minor or only sectional importance. Thus, groups of followers or even
individual members may occa- sionally have the opportunity of carrying
bills of their own and still more indulgence will of course be extended
to mere criticism or to failure to vote mechanically for every government
measure. But we need only look at this in a practical spirit in order to
realize, from the limits that are set to the use of this freedom, that it
embodies not the principle of the working of a parliament but deviations
from it. Second, there are cases in which the political engine
fails to absorb certain issues either because the high commands of the
government’s and the opposition’s forces do not appreciate their
political values or because these values are in fact doubtful.? Such
issues may then ‘One of the most instructive examples by which the
above can be illustrated is afforded by the course taken by Joseph
Chamberlain with respect to the Irish question in the 1880’s. He finally
outmanoeuvered Gladstone, but he started the campaign while officially an
ardent adherent. And the case is exceptional only in the force and
brilliance of the man. As every political captain knows, only mediocrities can
be counted on for loyalty. That is why some of the greatest of those
captains, Disraeli for instance, surrounded themselves by thoroughly
second-rate men. *An issue that has never been tried out is the
typical instance of the first class. The typical reasons why a government
and the shadow cabinet of the opposition may tacitly agree to leave an
issue alone in spite of their realizing its potentialities are technical
difficulty of handling it and the fear that it will cause sectional
difficulties. TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 187 be taken
up by outsiders who prefer making an independent bid for power to serving
in the ranks of one of the existing parties. This of course is perfectly
normal politics. But there is another possibility. A man may feel so
strongly about a particular question that he may enter the political
arena merely in order to have it solved in his way and without harbouring
any wish to start in on a normal political career. This however is so
unusual that it is difficult to find instances of first-rank importance
of it. Perhaps Richard Cobden was one. It is true that instances of
second-rank importance are more frequent, especially instances of the
crusader type. But nobody will hold that they are anything but deviations
from standard practice. ~ We may sum up as follows. In observing human
societies we do not as a rule find it difficult to specify, as least in a
rough common-sense manner, the various ends that the societies under
study struggle to attain. These ends may be said to provide the rationale
or meaning of corresponding individual activities. But it does not follow
that the social meaning of a type of activity will necessarily provide
the motive power, hence the explanation of the latter. If it does not,
a theory that contents itself with an analysis of the social end or
need to be served cannot be accepted as an adequate account of the
activi- ties that serve it. For instance, the reason why there is such a
thing as economic activity is of course that people want to eat, to
clothe them- selves and so on. To provide the means to satisfy those
wants is the social end or meaning of production. Nevertheless we all
agree that this proposition would make a most unrealistic starting point
fora theory of economic activity in commercial society and that we
shall do much better if we start from propositions about profits.
Similarly, the social meaning or function of parliamentary activity is no
doubt to turn out legislation and, in part, administrative measures.
But in order to understand how democratic politics serve this social
end, we must start from the competitive struggle for power and office
and realize that the social function is fulfilled, as it were,
incidentally— in the same sense as production is incidental to the making
of profits. 6. Finally, as to the role of the electorate, only one
additional point need be mentioned. We have seen that the wishes of
the members of a parliament are not the ultimate data of the
process that produces government. A similar statement must be made
con- cerning the electorate. Its choice—ideologically glorified into
the Call from the People—does not flow from its initiative but is
being shaped, and the shaping of it is an essential part of the
democratic process. Voters do not decide issues. But neither do they pick
their members of parliament from the eligible population with a
perfectly 188 JOSEPH SCHUMPETER open mind. In all
normal cases the initiative lies with the candidate who makes a bid for
the office of member of parliament and such local leadership as that may
imply. Voters confine themselves to accepting this bid in preference to
others or refusing to accept it. Even most of those exceptional cases in
which a man is genuinely drafted by the electors come into the same
category for either of two reasons: naturally a man need not bid for
leadership if he has acquired leader- ship already; or it may happen that
a local leader who can control or influence the vote but is unable or
unwilling to compete for election himself designates another man who then
may seem to have been sought out by the voters acting on their own
initiative. But even as much of electoral initiative as acceptance
of one of the competing candidates would in itself imply is further
restricted by the existence of parties. A party is not, as classical
doctrine (or Edmund Burke) would have us believe, a group of men who
intend to promote public welfare ‘upon some principle on which they are
all agreed’. This rationalization is so dangerous because it is so
tempting. For all parties will of course, at any given time, provide
themselves with a stock of principles or planks and these principles or
planks may be as characteristic of the party that adopts them and as
im- portant for its success as the brands of goods a department store
sells are characteristic of it and important for its success. But the
depart- ment store cannot be defined in terms ofits brands and a party
cannot be defined in terms of its principles. A party is a group whose
members propose to act in concert in the competitive struggle for
political power. If that were not so it would be impossible for different
parties to adopt exactly or almost exactly the same programme. Yet
this happens as everyone knows. Party and machine politicians are
simply the response to the fact that the electoral mass is incapable of
action other than a stampede, and they constitute an attempt to
regulate political competition exactly similar to the corresponding
practices of a trade association. The psycho-technics of party
management and party advertising, slogans and marching tunes, are not
accessor- ies. They are of the essence of politics. So is the political
boss. Xx JUSTICE AND THE COMMON GOOD BRIAN
BARRY I Social Principles and the Democratic State, by S. 1.
Benn and R. S. Peters (George Allen & Unwin, London, 1959) is far
more than a textbook; for the authors’ object is not merely to say,
‘Justice means this, equality means that, freedom means the other. Where
they conflict you take your pick’. Their thesis is the daring one that
all political arguments fit into a single pattern and that this pattern
is identical with morality. The authors reject any sociological
definition of ‘moral rule’. According to them, a rule is moral if and
only if it is: critically accepted by the individual in the light
of certain criteria. The criteria can be summarized by saying that a rule
should be considered in the light of the needs and interests of people
likely to be affected by it with no partiality towards the claims of any
of those whose needs and interests are at stake. (p. 56)
People have interests and needs which they put forward as claims.
The criteria of impersonality and respect for persons are satisfied when
claims are assessed on relevant grounds, and privileges excluded as a
basis for allowing a claim. (p. 51) I think the
inconvenience of this definition is fairly clear: it follows from it, for
example, that one can never talk about the moral rules of a group unless
one has first ascertained whether everyone who acts on the rules and
expects others to act on them has accepted them after an impartial
consideration of their effects. The theoretical disadvantages of making
stipulative restrictions on the expression ‘moral rules’ are very similar
to the disadvantages (which the authors recognize) of calling only good
laws ‘laws’. My main objection, however, is that no single scheme
can be suf- ficient to cover all the arguments which even in
liberal-democratic From Analysis, Vol. 21 (Blackwell, 1960-61),
pp. 86-g0. Reprinted by permission of the author, Analysis, and Basil
Blackwell. fy 190 BRIAN BARRY
communities would ordinarily be thought ‘moral’. If Benn and Peters do
succeed in interpreting their schema so as to fitany argument pre- sented
into it, this is ata cost of both misrepresenting most arguments and
making the schema vacuous. II This must be so, I
suggest, because when we are dealing with interests there are two
conflicting principles at work: aggregative and distributive. They are
both, it seems to me, independently operative in most men’s minds; and
where they give conflicting answers there is no higher principle to which
the conflict can be referred. Suppose, for example, that one can
see no reason in terms of desert or need why science teachers should be
paid more than others; but that one also believes that unless all the money
available for raising pay goes to them the standard of science teaching
will decline with grave results. Or again, suppose that one believes on
the one hand that dropping two atomic bombs on Japan will cause less
suffering than continuing the war with ‘conventional’ weapons, but that
it is unjust to use weapons which rely on devastating civilian
populations rather than military targets. In both cases we have a
conflict between an aggregative result and a distributive principle. If
these were all the relevant considerations (which in fact they are not)
then how one decided would depend on how highly one ranked the two kinds
of principle (moral philosophers can be divided according to which
side they exaggerate at the expense of the other). The point
I wish to make is that ‘impartiality’ is no help here in providing a
schema for decision. If it means ‘everyone to count for one and nobody
for more than one’, this is satisfied by the result of aggre- gation,
which may still be morally unacceptable to many people. Ifon the other
hand one is to say, ‘The arts teachers aren’t given enough con-
sideration by straight aggregation; they must be given some more’, my
objection is that the formula is now useless as a guide to decision. It
merely gives us a thoroughly misleading way of justifying ex post facto
whatever decision we may in fact reach. Ill There is
still, however, one possible escape route for the authors’ formula. This
lies in emphasizing the bit about ‘relevant grounds for treating people
differently’. But this manoeuvre fails in one of two JUSTICE AND
THE COMMON GOOD 191 ways, depending on the construction of
‘relevant’. If you say that what subject someone teaches is not a relevant
criterion in determining his pay, you certainly get the answer that
scientists ought not to be paid more. But this is too good a
demonstration, for according to the authors, anyone who admits this and
still says that science teachers ought to be paid more is not arguing
morally; yet such a position seems to me perfectly reasonable. Some one
who takes this view has chosen in favour of the education of children and
against professional equity—surely a perfectly reputable thing to do. If
on the other hand you say that what subject someone teaches is made relevant
simply by the fact that science teachers are in shorter supply than
others and paying them more will keep up educational standards, you are
right back at a simple aggregationist position. In fact the
authors give some support to each interpretation. Thus, on p. 112, they
say‘... it is up to whoever should make distinctions to justify the
criteria in terms . . . ultimately of a balance ofadvantage to all
concerned’. Phrases such as ‘beneficent consequences’ and ‘beneficial
results’ occur in a similar context on pp. 169 and 170. This sounds like
a straight aggregationist position: you show that something is just, or
for the common good, by showing that it makes relevant distinctions, and
these distinctions are relevant if they provide ‘a balance of advantage
to all concerned’. This form of argument is certainly used by the authors
and I shall discuss an example in section IV. Against this,
they say on pp. 272-3: Two politicians may each say, with perfect
sincerity, that he is seeking the public interest, or the common good,
though one proposes to ex- propriate private capital and the other to
defend it for the death. Does one of them have to be wrong... ? Is the
disagreement about fact at all? It may be...but the probability is that
this is less important than a disagree- ment on moral principle. One
holds private capital to be an immoral thing in itself, the other that it
represents the legitimate fruits of thrift, industry, and other economic
virtues..,. What then have the two politicians in common that enables
them to appeal, with equal sincerity to ‘the common good’? ... (Each) is
saying, in effect, that having considered the claims of all sections in a
spirit of impartiality, the balance of advantage lies in the course he
recommends. Here it is quite clear that ‘the balance of advantage’
is not something obtainable by aggregation; it is simply a repetition of
the procedural point that one must have considered all claims impartially.
To say on thus analysis that relevant distinctions are those based on a
balance 192 BRIAN BARRY of advantage is to add
nothing. ‘We have to decide what is relevant’ (p. 113). My
object in pointing out this inconsistency is not to score a cheap
debating point but to substantiate my view that it is impossible to fit
into one theory questions of distributive principle (the sort of thing
the two politicians in the argument are disagreeing about) and
aggregative ones (which phrases such as ‘balance of advantage’ would
naturally be thought to refer to). IV In this section
I shall apply the above analysis to two of the discussions of particular
questions in the book to illustrate how the authors’ insistence on trying
to show all concepts as aspects of a single criterion leads them to
distort characteristic forms of argument. In the first example, we see a
straight question of distribution obscured by reference to an aggregative
concept. On p. 272, the authors say: ...the government would have
resented being told in 1957 that decon- trolling rents was not for the
common good. But the government clearly had to choose between the
interests of the landlords and the interest of the tenants. Whether or
not it chose rightly, it did little good to the tenants. Now if it
is correct that the issue is one where one side’s losses are the other
side’s gains, I would suggest that the ‘common good’ is out of place. Of
course the government would resent being told its action was not for the
common good; but neither would it justify the measure by saying it was
for the common good. The concept is out of place. If the government is
willing to admit that it is simply transferring money from one set of
pockets to another, it will say, for example, that control was unfair
between owners of different forms of property, or between owner-occupiers
and tenants, or that it was unjust between landlords and tenants; i.e.,
it would support a distributive change by distributive arguments. (More
likely, of course, it would deny that only one side would be benefited,
pointing to the benefits of a free market in producing a rational
allocation of resources, and then it could talk about the common good;
but I follow the authors’ assump- tion for the sake of the argument.)
What I am trying to show is that it is not an accident that we have
different concepts; they really do have different jobs. We have one set
which point out various distributive comparisons, such as justice,
fairness, equity, equality (that these all differ is not hard to show but
JUSTICE AND THE COMMON GOOD 193 it would take me out of my
way here. One example: a lottery is fair if honestly run, but a lottery
which distributed prizes justly, i.e., according to desert or need, would
no longer be fair). And we have another set which point out the results
of various methods of aggrega- tion, such as ‘public interest’, ‘common
good’ and ‘general welfare’ (‘good’ and ‘interest’ for example require
one to include different ways in which people are affected). To say, as
Benn and Peters do, that ‘to seek the common good’ means ‘to try to act
justly’, is to make nonsense of the subtle and complex way in which we go
about criti- cizing political programmes, in the pursuit of a tidy but
barren theory. My second example shows the same error
operating in reverse. In chapters 4 and 5, the authors have an excellent
study of the grounds on which one might justify various claims to income.
Unfortunately, however, they are again hampered by their theoretical
apparatus, for all claims, according to their general theory, must be
established by being shown to be just. This works excellently for claims
based on personal desert and need; but it does not work at all for
arguments for property based on the advantage of having a group of
politically independent or cultured citizens (pp. 167-70):
If it were true that fortunes based on inheritable property were indis-
pensable for an elite of this sort, and if such an elite were really so
valuable, the property system would be justified by its beneficient
consequences. (p. 169) ; . Now, this is fine; and the
situation should in my view be summed up by saying that in this case
justice would have to be qualified by utilitarian considerations.
But this course is not open to Benn and Peters. They have to say
that the general advantage of property makes the amount of money your
father had a relevant and therefore just ground for differences in income
(pp. 169-70). This seems to me highly misleading. Although Hume used the
expression ‘rules of justice’ to cover precisely such things as property
rules, ‘justice’ is nowadays analytically tied to ‘desert’ and ‘need’, so
that one could quite properly say that some of what Hume called ‘rules of
justice’ were unjust. Again, we see how the attempt to reduce all
arguments to one pattern forces Benn and Peters to assimilate quite
different kinds of arguments to one another. NOTES ON THE
CONTRIBUTORS JOHN PLAMENATzZ is Chichele Professor of Social and
Political Theory at Oxford and a Fellow of All Souls College. He was
formerly a Fellow of Nuffield College. His German Marxism and Russian
Communism was published in 1961, and Man and Society, in two volumes, in
1963. P. H. PARTRIDGE teaches at the Australian National
University, Canberra. H. L. A. HART has been Professor of
Jurisprudence in Oxford since 1952. Among his publications are Causation
in the Law (1961), and Law, Liberty, and Morality, (1963).
STANLEY I. BENN, until recently Lecturer in Government at the University
of Southampton, is now at the Australian National University, Canberra.
He is the author, with R. S. Peters, of Social Principles and the
Democratic State (1959). R. S. PETERS is Professor of the
Philosophy of Education in the University of London Institute of
Education. Among his publications are The Concept of Motivation (1958),
Soctal Principles and the Democratic State (with S. I. Benn, 1959), and
Ethics and Education (1966). PETER WINCH, formerly of the
University College of Swansea, is now Professor of Philosophy at King’s
College, London; his The Idea of a Social Science was published in
1958. BRIAN BARRY has been a Fellow of Nuffield College, Oxford,
since 1966. His book Political Argument was published in 1965.
E. F. CARRITT, who’ died in 1963, was for many years a Fellow of
University College, Oxford. His book Ethical and Political Thinking was
published in 1947, and he wrote also on the philosophical problems of
aesthetics. Sir IsataH BERLIN is President of Wolfson College,
Oxford. He was Chichele Professor of Social and Political Theory at
Oxford from 1957 to 1967. Among his publications are The Hedgehog and the
Fox (1953), a study of Tolstoy, and Karl Marx (2nd. edn., 1956).
JOSEPH A. SCHUMPETER went to Harvard from his native Austria in 1932, and
taught there for many years before his death in 1950. He published a
number of widely influential works in the field of econo- mics.
BIBLIOGRAPHY (not including material in this volume)
I. General and Methodological The best elementary
introduction to political theory is J. D. Mabbott’s The State and the
Citizen (Hutchinson, London, 1948). © Charles Vereker’s The Development
of Political Theory (Hutchinson, London, 1957) gives an overall survey of
the historical development of the subject. S. I. Benn and R. S. Peters,
in Social Principles and the Democratic State (Allen and Unwin, London,
1959), cover the main topics of political theory from the point of view
of analytic philosophy. Arnold Brecht’s massive Political Theory
(Princeton U.P., Princeton, 1959) does the same thing in a more Teutonic
and elaborately scholarly way. G. H. Sabine’s History of
Political Theory (Harrap, London, 1937) deserves its reputation as a
model text-book, being lucid, thorough and reliable to a very high
degree. J. P. Plamenatz’s Man and Society (Longmans, London, 1963) is
confined to the major figures in the history of political thought but
subjects their ideas to a full critical examination. Sheldon Wolin’s
Politics and Vision (Allen and Unwin, London, 1961) is more
interpretative again and is as much concerned with the historical setting
as with the logical cogency of political theories; a most impressively
intelligent and original book. A useful, if somewhat mechanically
written, survey of methodolo- gical issues is The Study of Political
Theory by Thomas P. Jenkin (Random House, New York, 1955). The relations
between political philosophy and political science are thoroughly and
penetratingly examined with a wealth of references in David Easton’s The
Political System (Knopf, New York, 1953). T. D. Weldon’s The Vocabulary
of Politics (Penguin Books, London, 1953) expresses the hostility of some
analytic philo- sophers to political theory with the artless enthusiasm
ofaconvert. At the opposite extreme is the defence of the traditional
attitude, which takes political theory to be concerned to demonstrate the
timeless, essential nature of the state, in Leo Strauss’s What is
Political Philosophy (Free Press, Glencoe, 1959). G. H. Sabine’s ‘What is
political theory ? in the Jowmal of Politics (1939), and Isaiah Berlin’s
‘Does political theory still exist?’, in Philosophy, Politics and
Society, second series, ed. Laslett and Runciman (Blackwell, Oxford,
1962) are noteworthy brief general 196 BIBLIOGRAPHY
statements. Cf. also J. D. Mabbott, ‘Political Concepts’ in Philosophy,
(1938); J. M. CameronandT. D. Weldon, ‘The Justification of Political
Attitudes’ in the Proceedings of the Aristotelian Society, Supplementary
Volume (1955); H. B. Action ‘Political Justification’ in Contemporary
British Philosophy, Third Series, ed. H. D. Lewis (Allen and Unwin,
London, 1956). R. M. Maclver’s The Web of Government (Macmillan,
New York, 1947) is a large, reflective survey of the field of political
science. Robert A. Dahl’s Modern Political Analysis (Prentice-Hall, New
Jersey, 1963) is an elementary introduction to political science with a
strong methodo- logical emphasis. S. M. Lipset’s Political Man
(Doubleday, New York, 1960) is a notable example of political
sociology. II. State, law and morality A definition of
the political is developed in chapter 2 of Robert A. Dahl’s Modern
Political Analysis (Prentice-Hall, New Jersey, 1963). For sovereignty and
related issues see S. 1. Bennand R. S. Peters, Social Prinaples and the
Democratic State (Allen and Unwin, London, 1959), chapters 11, 12 andiz-
A.D. Lindsay’s ‘Sovereignty’ in Proceedings of the Aristotelian Society
(1923-4); W. J. Rees’s ‘The Theory of Sovereignty Restated’ in Mind
(1950) and in Philosophy, Politics and Society, first series, ed. Laslett
(Blackwell, Oxford, 1956). A classical and much-discussed
definition of law is to be found in H. Kelsen’s General Theory of Law and
the State (Harvard 1945). There isa most delicate and penetrating
discussion of the subject in H. L. A. Hart’s The Concept of Law
(Clarendon Press, Oxford, 1961). See also Benn and Peters, Op. cit., chapter
3. On rights in general and natural rights in particular see E.
F. Carritt, Morals and Politics (Clarendon Press, Oxford, 1935),
chapter 13, and also his Ethical and Political Thinking (Clarendon
Press, Oxford, 1947); J. P. Plamenatz, Consent, Freedom and Political
Obliga- tion (Clarendon Press, Oxford, 1938); A. C. Ewing, ‘The Rights of
the Individual against the State’ in Revue Internationale de Philosophie
(1948), and in chapter 2 of his Individual, State and World Government
(Mac- millan, New York, 1947); M. Macdonald, ‘Natural Rights’, in
Proceed- ings of the Aristotelian Society (1946-7), and in Philosophy,
Politics and Society, first series, ed. Laslett (Blackwell, Oxford,
1956); J. D. Mabbott The State and the Citizen (Hutchinson, London,
1948), part B; A. P. d’Entréves Natural Law (Hutchinson, London, 1951);
J. P. Plamenatz and H. B. Acton, ‘Rights’, in Proceedings of the
Aristotelian Society, Supplementary Volume (1950); A. I. Melden and W. K.
Frankena, BIBLIOGRAPHY 197 ‘Human Rights’, in
Proceedings of the American Philosophical Association, Eastern Division,
volume 1 (1952); S$. M. Brown and W. K. Frankena, in Philosophical Review
(1955) (commenting on chapter 3 of this antho- logy, Hart’s ‘Are There
Any Natural Rights ?’); Benn and Peters, op. cit., chapter 4; R. B.
Brandt, Ethical Theory (Prentice-Hall, New Jersey, 1959) chapter 17; J.
Hospers, Human Conduct (Harcourt Brace, New York, 1961), chapter
19. III. Political Obligation The first chapter of J.
P. Plamenatz’s Consent, Freedom and Polttical Obligation (Clarendon
Press, Oxford, 1938) on consent is an excellent example of the
clarificatory power of philosphical analysis in the field of political
ideas. Chapter 7 of the same book deals with political obligation.
Theories of obligation are discussed in E. F. Carritt’s Morals and
Politics (Clarendon Press, Oxford, 1935), chapter 14, and in his Ethical
and Political Thinking (Clarendon Press, Oxford, 1947), part II, chapter
14. Benn and Peters, op. cit., chapter 14, give a brief and convenient
survey of different grounds of political obligation. The social
contract theory is reinterpreted in a somewhat far- fetched way in H. D.
Lewis’s ‘Is there a Social Contract?’ in Philosophy (1940). A survey of
the history of the contract theory from its first beginnings in Greek
thought is given in J. W. Gough, The Social Contract (Clarendon Press,
Oxford, 1936). Discussions of the general will theory are more
numerous. See H. D. Lewis ‘Natural Rights and the General Will’ in Mind
(1937); J. P. Plamenatz, Constant, Freedom and Political Obligation
(Clarendon Press, Oxford, 1938) chapters 2 and 3; J. D. Mabbott, The
State and The Citizen (Hutchinson, London, 1948), part D; G. R. G. Mure,
‘The Organic State’ in Philosophy (1949); B. Mayo, ‘Is there a case for
the general will?’, in Philosophy (1951), and in Philosophy, Politics
and Society, first series, ed. Laslett (Blackwell, Oxford, 1956); B.
Blanshard, Reason and Goodness (Allen and Unwin, London, 1961), chapter
14. Traditionalism is examined in H. B. Action, ‘Tradition and
some other forms of order’, in Proceedings of the Aristotelian Soctety
(1952-3), and supported in M. Oakeshott, Rationalism in Politics
(Methuen, London, 1962). IV. The ends of government
J. R. Pennock’s Liberal Democracy (Rinehart, New York, 1950) is a
good general survey of liberal ideals, from the point of view of both
meaning and justification, and contains a most valuable bibliography.
198 BIBLIOGRAPHY As a counterpoise mention may be made of a
piece of writing much older than any other included here, J. F. Stephen’s
Liberty, Equality, Fraternity (Smith Elder, London, 1873), both on
account of its analytic clarity and the trenchancy of its opinions. B. M.
Barry, Political Argument (Routledge, London, 1965) is a recent work of
comparable scope, much greater philosophical technicality and utterly
different opinions. Liberty is defined in chapter 5 and
justified in chapter 6 of J. P. Plamenatz, Consent, Freedom and Political
Obligation (Clarendon Press, Oxford, 1938) with the author’s
characteristic clarity and definiteness. C. I. Lewis’s ‘The Meaning of
Liberty’, in Revue Internationale de Philosophie (1948), is brief but
all-embracing. See also Benn and Peters, op. cit., chapter 10.
On democracy see R. A. Dahl, Preface to Democratic Theory (Chicago
U. P., 1961); Benn and Peters, op. cit., chapter 15; J. Hospers, Human
Conduct (Harcourt Brace, New York, 1961) chapter 18; R. Wollheim, ‘A
Paradox in the Theory of Democracy’, in Philosophy, Politics and Society,
second series, ed. Laslett and Runciman (Blackwell, Oxford, 1962); C. B.
Macpherson, The Real World of Democracy (Clarendon Press, Oxford,
1966). On justice and equality see H. Spiegelberg in Philosophical
Review (1944); D. D. Raphael, ‘Equality and Equity’, in Philosophy
(1946), and his ‘Justice and Liberty’ in Proceedings of the Aristotelian
Society (1950-51). I. Berlin and R. Wollheim, ‘Equality’, in Proceedings
of the Anstotelian Society, Supplementary Volume, (1955); R. B. Brandt,
Ethical Theory (Prentice-Hall, New Jersey, 1959), chapter 16; J. Rawls,
‘Justice as fairness’, in Philosophical Review (19 58); J. Hospers, Human
Conduct (Harcourt Brace, New York, 1961), chapters 20-22; Bennand Peters,
op. cit., chapters 5 and 6; B. A. O. Williams, ‘The idea of equality’ in
Philosophy, Politics and Society, second series, ed. Laslett and Runciman
(Blackwell, Oxford, 1962). INDEX OF NAMES (not including
authors mentioned only in the Bibliography) Acton, Lord, 128
Aristotle, 1, 54n., 136 Arnold, Matthew, 132
Austin, John, 6, 67, 95 Bagehot, W., 34, 128
Barker, Sir Ernest, 68n., 6gn., 71n. Barry, B. M., 3, 13, 18
Benn, S. I., 3, 9, 115, 123, 189-93 Bentham, Jeremy, 7, 138n.,
139n. Bentley, A. F., 113 Berlin, Sir Isaiah, 17, 52n.
Black, D., 122 Bodin, J., 67 Bosanquet, B., 34,
133n. Bradley, F. H., 133n. Braybrooke, D., 32n.
Brecht, A., 32n. Bryce, Lord, 67, 79n., 160n. Burke,
Edmund, 24, 25, 46, 127, 139, 145, 188 Campbell, A. H., 58n.
Carritt, E. F., 18 Cartland, R., 127, 131 Catlin, G. E. G.,
32n. Cobban, A., 32n. Collingwood, R. G., 100, 101 Condorcet,
147 Constant, Benjamin, 143, 145 Crosland, A., 39
Dahl, R. A., 35, 41, 43, 46n., 50-52 Descartes, 109 Dicey,
A. V., 67 Dodds, E. R., 88 Downs, E., 46n, 47N., 49n. Duguit,
L., 71n. Durkheim, E., 21 Engels, F., 30 199 200
INDEX Erasmus, 146 Field, G. C., 32n. Freud,
S., 29n., 160 Gallie, W. B., 4 Gellner, E., 88n.
Godwin, W., 140 Gray, J. C., 6gn. Greaves, H. B.,
32n., 36n. Green, T. H., 34, 38n., 133n., 150, 151n.
Hampshire, S., 53n. Hare, R. M., 123 Harrison, W.,
32n. Hart, H. L.A., 9 Hayek, F. A., 2
Hegel, 1, 7, 12, 13, 22, 33, 34, 52M., 133, 142 Helvetius,
142n. Hermens, F. A., 177n. Hobbes, 1, 12, 15, 33, 34,
83-6, 91, 95, 97-8, 102, 109, 110, 119, 131, 143N., 145
Hohfeld, W. N., 55n., 64n. Homans, G. C., 106n.
Horsburgh, H., 45n. Hume, 10, 11, 110, 129, 135N., 137N.,
139N., 193 Jaffa, H. V., 32n. James, William, 152,
165n. Jefferson, 145,
169 Jouvenel, B. de, 83-4, 86, 98, 101-2, 104, 106 Kant,
56 Kelsen, H., 69n., 73n., 75~7 Lamont, W. D.,
55n. Laslett, P., 32n. Lassalle, F., 145 Le
Bon, G., 160, 161 Lecky, W. E., 128, 131 Lincoln,
Abraham, 169, 170n. Lindsay, Lord, 68n. Locke, 1, 5, 7, 12, 33, 110, 115, 143,
144 Macdonald, M., 38n. Machiavelli, 1 Maitland,
F. W., 129, 133n., 136n., 137N., 140 Marshall, G., 70 Marx,
2, 23, 24, 30, 40n. INDEX 201 May, Erskine, 128
Mill, James, 129 Mill, J. S., 1, 17, 50, 143-8 Miller,
J. D. B., 113-5 Morris Jones, W. H., 41n. Murdoch, Iris, 39
Myrdal, G., 39 Niebuhr, R., 43 Paine, Thomas,
145 Pareto, V., 160 Peters, R. S., 3, 13, 97-9, 101,
103, 105-10, 123, 189-93 Plamenaw, J., 3, 5, 32N., 36n.
Plato, 1, 33, 54n., 88, 129 Polanyi, M., 44
Popper, Sir Karl, 4, 41, 44 Rees, J. C., gan.
Rees, W. J., 67, 68n., 6gn., 71n., 74n., 77-8, 80 Ribot, T.,
160 Ross, Sir David, 133n. Rostow, W. W., 48n.
Rousseau, 1, 12, 13, 15, 22, 34, 119-24, 142 Salmond, J. W.,
6gn. Schelling, T., 120 Schubert, G., 112
Schumpeter, J. A., 17, 46-50, 51 Shils, E., 41, 497.
Shkiar, J., 36n. Smith, Adam, 144 Sorauf, F. J.,
112 Stephen, Sir J. F., 128, 129, 146 Strachey, J., 39
Strauss, R., 32n. Tocqueville, A. de, 34, 130, 131, 143
Truman, D. B., 113 Villey, M., 147n. Wallas, G., 34,
160n., 165n. Warrender, H., 85, 93 Weber, M., 6, 86-8,
100n., 101, 106, 107 Weldon, T. D., 2, 22, 23, 33, 92 Winch,
P. G., 13 Wittgenstein, L., 99 Wollheim, R. A.,
72n. “At Oxford,” Grice said, “we hear a lot about Macchiavelli – as he
should not! We should hear so much more about Guicciardini: my kind of decent
chap!” Keywords: Grice, Guicciardini, giustizia
politico-legale, giustizia politica, giustizia legale, giustizia morale.
Aristotle, logically developing series, constituzione. Filosofo fiorentino.
Filosoco toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana, Italia. Guicciardini. Grice:
“Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli, as
Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice: “There
are various topics of interest: the italian of Machiavelli and Guicciardini in
the development of a philosophical political lexicon; there’s the trope of the
centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy of the type
enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!” Terzogenito
dei Guicciardini, famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima
formazione umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi
storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze
seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova
per seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze,
esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello
Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Dieci
anni prima si chiudono quelle Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono
le premesse degli avvenimenti riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di
cui G. si occupa, nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla
politica fiorentina. In occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato
a pratica dalla signoria, ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa
Liberata. Questi progressi portarono G. anche ad una rapida ascesa nella
politica, ricevendo dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso
Ferdinando il Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica
nacque la Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di
teoria politica in cui G. sostiene una riforma in senso aristocratico della
Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a
far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici,
avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio
pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo
piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore
di Reggio Emilia e di Parma. Nominato commissario generale dell'esercito
pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza
che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia
d'Italia. Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di
Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo
l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne
inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie
più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.
Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati
regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in
un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a
Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo
del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica
aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai
Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in
queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi
trascorsi medicei, si ritira nella villa G. di Finocchieto, nei pressi di
Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la defensoria, ed una
Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio ficta, nella quale
espose le accuse imputabili alla sua condotta con le adeguate confutazioni, e
finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le Considerazioni intorno
ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la prima deca di Livio",
in cui accese una polemica nei confronti della mentalità pessimistica
dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione definitiva dei
Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di nuovo al
servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a Bologna.
Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea come
consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare lo
stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non
fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro,
Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di
Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili,
raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad
Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata. Guicciardini
è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle
vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e
il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e
più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche
Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti. L'opera
districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del
Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come
spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati
eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione
delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo). G. è l'uomo dei
programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al
saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire
"con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si
determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da
leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del
pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il
saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come
realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di
agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non
va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione
solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare
pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica
situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).
In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della
fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia
moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di
verifica della sua Storia d'Italia. La reputazione di G. poggia sulla
Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono
gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue
memorie. Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad
un'accurata conoscenza della sua personalità. «L’angolo di prospettiva
dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII,
l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori
secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole
Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio G. sopra il Giovio,
sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani
colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la
superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi
dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità
fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento
con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario,
una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare,
superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e
precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato
esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i
meno benevoli alla Storia.» Il giudizio di Francesco De Sanctis
Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Sanctis non ebbe simpatia
per G. ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente Machiavelli. Nella sua
Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come G.
fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in
linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli".
De Sanctis affirma:“Il dio del G. è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno
assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli
ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene
insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che
l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più
corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata,
è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale
è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto
e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. G. nega tutto quello che
il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più
logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a
volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di
asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo
istrumento". Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per
l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia
del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che G. vale più come
analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a
prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione. "Qualsiasi
oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle autopsie".
Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie fiorentine; Discorso
di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi politici e
civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra la
politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le cose
fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi, presso Zanichelli, Bologna; presso Istituto per gli studi di politica, Firenze;
presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di
grandissimo animo e molto virile", secondo G. (Storie fiorentine). N. Sapegno,
Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G.
BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il
Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla
grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le
tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser
ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in
maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani,
che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi,
Venezia, Il legame del pensiero politico
tassoniano con quello di G. (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli
storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli
antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il
Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica.
(Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma, T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra
del paragone politico, I, Bari, Binni, I
classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia,
Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia
di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti
autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia
d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R.
Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R.
Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, G. Dalla politica alla
storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per G. Quattro studi, Roma, E.
Cutinelli-Rèndina, G., Roma, Famiglia G.. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Propositioni, overo Considerationi in
materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, et Concetti
Politici di G., Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello Salicato, Opere illustrate
da Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca
italiana. Il principe, che colmezo del suo Ambasciatore vuole ingannar Paltro, deue
prima ingannar l'Ambasciatore, perche opera, en parla con maggior efficaccia, credendo
che cosi sia la mente del fuo Principei, lche non farebbese credesse essere simulatione,
eg il medesimo ricordousi ogn'uno, che permezo d'altrivuoleper Juaderea un'altro
il falso. DAL fareò non fare una cosa che paiaminima, depende ben spejlo momento
di cose importantissime, o però nelle cosepiccole deue fieffere auuertito, ceonsiderato.
FÁCIL cosa è guastarsi un bel'esere dificile al racquistarlo, però chi si truong
in buon grado deue fareogni sforzo di non lasciar selovscirdimano. E' Pazzia sdegnarsi
con quelle persone con le quali per la grandezza loro, tu non puoi sperare di poter
uendicarti, però se bena pare essere ingiuriato da questi, bisogna patire, e simulare
NELLE cose di guerra nasconoda un'hora à vn'altra infinite varietà, però non
fide uepigliare troppo animo dele nuoue prospere, nè uiltà delle auuerse, perche
speso nasce qualche mutatione, ma questo deue insegnare, che a chi se li presenta
l'occasione non la perda, perche dura poco. COME il fine de mercanti è il piu delle
volte il fallire; quello de nauiganti il fom mergere, cofi spesso di chi lungamente
gouerna il fine è capitar male QYESTI ricordi son REGOLE, che in qualche caso particolare
che ha diversa LE cose che sono uniuerfalmente
desiderate, rare uolte riescono, la ragione è cheli pochi sono quelli che communemente
danno il motto alle cose, e a li fini, di che sono contrarij al jaigli appetitidi
molti TVTTE le sicurtà che si possono hauere del'inimico son buone, di fede, di
amici, di promesse, ed'altre assicurationi, ma per la mala conditione degli huomini,
e variatione de tempi nissuna altraè migliore, et piu ferma, che accommodarsi in
modo, chel'inimico non habbia poteftà d'offenderti. Nessuna cosa deve desiderare
piu l'huomo in questo modo, nè attribuirlo piu a fua felicità, che uedere l'inimico
fuo prostrato in terrae ridotto a termini tali, che tu l ' habbia a discretione.
Ma quanto è felice a chi accade questo, tanto deve farsi glorioso conl'ofarla laudabilmente,
cioè esser clemente a perdonare, cofa propria degli animi generofi, et eccellenti:
ragione, ragione, hanna eccettione, ma quali fiano quei casi particolari,
si pofono male insegnare altrimenti, chceon la difcrettione. diuèdicarsi dite, non
lo faccia precipitosamente, anzi aspetti il tempo e l'occasione, la quale senza
dubbio liuerrà di forte, che senzas coprirsi maligno, o appasionato, potrà sodisfareal
fuo desiderio. Chi ha da gouernare Città, opopolieli vogliatenercoreti, Sappia che
ordina riamente basta punire i delinquenti aföldiquindici per lira, ma è necessario
punirli tutti, che in effetto si acustigato ogni delitto, ma si può ben far
qualche misericordia, eccetto delli casi atroci, che bisogna dar essempio. Il
ricordo di sopra, bisogna usarlo in modo chel'acquistarno medinoneser bene.
fattore, nonfaccia, chegl'huomini fugghino, et a questo si prouedefacilmente, con
beneficiar n feuor della REGOLA qualch’ono, perche naturalmente ha tanta si g
noria negl’huomini LA SPERANZA che piuti valerà presso agl’altri, et piu essempio
favno che tu haba bia beneficiato, che cento che non habbino datehauutor emuneratione.
S. Auuertimenti di ingengnate vi di non venire in mal concetto appresso di chi è
superiore nella patria vostra, ne uifidate del buon gouerno del uiuer nostro, che
sia tale, che non pensiate d'hauerglia capitar nelle mani; per che nascono infiniti,
e non pensati casi di hauer bisogno di lui, è conuerso il Superiore se ha voglia
di punire. Tutti gli huomini sono buoni, cioe doue non cauano piacere o utilità
del male, piace piu loro il ben che il male: ma sono varie le corruttele del
mondo e fragilità loro; et spesso perl'interesse proprio inclinano al male. Però
da faui Legislatorifie per fondamento delle Republiche trovato il premio e la pena,
non per violentare gli huomini, ma per che seguiti ng l’inclinatione naturale. Piu
tengono a memoria gl'huomini l'ingiuria, che i beneficij riceuuti, anzi quando pure
si ricordano dei benefici, lo fanno nell’imagine sua minore, che non furiputun
dosimeritar piu che non meritano. Il contrario si fa dell'ingiuria, che duolead
ogniuno E 'laudato appresso gl'antichi,& è verissimo prouerbio: Magistratus
virumostédit, perche con questo paragone non solo si conosce per il peso che siba,
sel'huomo è d'assai o da poco, ma per lapoteftà, e licenza si scuoprono le affettioni
dell'animo, cioè di che natural'huomo fia, perche quanto altrui è piu grande tanto
manco freno, e rispetto ha ala sciarsi guidare da quel chegl'è naturale. SE li Scrittori
fufero discreti, o gratisarebbe honesto, e debito, che li padroni li beneficiassero
quanto potesero, ma perche sono il piu delle volte d'altr anatura, e quando
fono pieni, o li lasciano, ò li straccano, però è piu vtile andare con loro con
la mano stretta, e trattenendoli con SPERANZA, darloro di effetti tanto che bastia
fare che non si di Sperino. piu, che ragione nol mente non doveria dolere, però
douegl'altri termini. forpara guardate uidi far quelli piaceri, che di necessità
fanno ad un altro dispiacere vguale, perche per la ragione detta di sopra, si perde
in grosso, piu chen on si guadagna., perche per esperienza si vede che gli huomini
non son grati, però nel fare i calcoli tuoi, òneldi segnar disponer degli huomini
fa maggior fondamento in chi ne consegue vtilità, che in chi s’ha da muouer folo
per rimunerarti, perche in effetto i beneficij si dimenticano. che procede da
bron’animo, fi vede, che pur tal volta è remunerato qualche beneficio, e anche spesso
di forte, che ne paga molti, et è credibile che aquella potestà ch'èso pragli buomini
piaccino l'ationinobili, e però non consenta che sia no senza frutto: Ingegnate
vid’hauere degli amici, perche son buoni in tempi, luo ghie casi, che voi non pensarete,
e questo ricordo ben che vulgato, non lo può considerare profondamente quanto vaglia,
achinon è accaduto in qualche fua importanza fen tirne l'esperienza: PIACE
vniuersalmente, chi è dinatara vera e liberă, et è cosa generosa, ma talvolta nuoce.
Ma dall'altro canto, la simulatione è vtile,ma'è odiata, G hadelbrut the è necessaria
per le male nature de glialtri, però non sò quale si debba eleggere, Credo però,
che si possa vsare l'onaordinariamente, senza abbandonarl'altra, cioè nel
corsotuo ordinario comume vjarla prima in modo, che acquisti no medi persona libera,
non dimeno in certi casi importanti potrai sare la simulatione, la quale à chi vi
ue così è tanto piu vtile, e si crede meglio quanto per bauernome del contrario,
tiè facilmente creduto E INCREDIBILE quanto giouia chi ha amministratione, che le
cose sue fieno segrete, perche non solo i disegni suo qiuando sifanno, possono eser
prenenuti, e interrotti, ma ancora l'ignorare i suoi pensieri, fa che gl'huomini
fanno sempre attoniti. Piu fondamento potete fare invnoc'habbia bisogno divoi, oc'habbia
in qua! Che caso l'interese commune che in vnoc'habbia riceuuto daboi beneficio.
Ho posto i ricordi di sopra, perche sappiate viuere, e riconosciate quelche le cose
possono, non accio che viritiriate dal beneficiare, perche oltreche è cosa generosa,
en PER Le cagioni di sopra, non laudo chi viue sempre con simulatione, et con arte,
mascufo benechi qualche voltal'vja. $1A
certo che se tu desideri, che non si sappia che hai fatto, ò tentato qualche cosa,
che è sempre a proposito il negarla. Perche ancora che il contrario sia quas iscoperto
et publico, tutta uia negandola efficacemente, sebene non lo persuadia chi hai ndi
tij, o crede il contrario, non dimeno per la negatione gagliardasegli mette il ceruello
à partito. A 3 e sospetti, e fofpetti, aoßeruare le sue attioni. Ed'ogni
fuominimo moto, si fannomille commente ti,& interpretationi, il che glidà gran
riputatione, però chi è in tal gradodo uerebbe auezzare i suoi ministri non solo
à tacere le cose che mai sifappino, ma ancor tutte quel le che non è ptilechesi
publichino. Ancora quelli che attribuendo tutto alla prudenza, o virtů, s'ingegnano
escludere la fortunna, o n possono negare, che non si agrandissi ma forte
nascere d quel tempo, o abbattersi a quelle occasioni, che sienoin prezzo quelle
parti,o pirtùinchę tu vali . NON voglio già ritirar quelli che infiammati dall'amore
delta Patriasi metto Ho a pericolo per rimetterla in libertà, e liberarla da
Tiranni; ma dico bene, che chi cerca mutatione distato per suo intereffe non è sauio,
perche è cofa pericolosa, eli vede cõeffettiche pochissimi trattati sono qui che
riescano, e poi quando bene è successo, fide e quasisempre che nella mutatione
tu no conseguisci di gran lunga quel che tu hai disegnato, et in oltre ti oblighià
vno perpetuo trauaglio, perche sempre tu hai da dubitare, non tornino quelli, che
tu hai fcacciatijeti vecidino. Chi pur puo leattendere'atratati,si ricordi, che
nefunacosa lirouinapiucheit desiderio di volerli condurre troppo fieuri, perchéchi
vuolfarperinter ponere manco tē po, implica piu huomini, e mescola piu cose, dalla
qual causa si scopronosempre fimili pratiche. Et anco è da credere che la
fortuna, sotto l'animo di chi son qoueste cose si j de gniconchi vuolliberarsi dalla
potestà fua et asicurarsi, però è piu sécuro volerli esem quire con qualche pericolo,
che controppasicurta. Non disegnates ù quello, che non hauete, nè spendete fuli
guadagni futuri; perche molte volte non fuccedono, eti troui inuiluppato, et si
vede il piu dele volte, che li mercanti groffifalliscono per quefto, quando per
SPERANZA d'vin maggior guadagno futuro, entrano suo cambi; la moltiplicatione de
quali è certa, et ha tempo determinato, ma li guadagni molte volte,o non nengono,
o fiallungano piu che ildia. Osserva I quando ere Ambasciatore in Ispagna appresso
il Re Ferdinan do d'Aragona Principefauio, et glorioso, che egli quando voleua fare
una guerra, impresa nuoua, ò altra cosa d'importanza, non prima lap ublicaua, e
poi la giustificaua, ma per il contrario vsaua arte che innāzi s'intendesse quellocʻbaueuain
animo, er fi diuulgana il Re douerebbe per letali cagionifar questo in modo, che
doppo publicandosi quelche già pareuagiufto ad ogni unoo necesario, è incredibile
con quanta lände erano riceuute le fue deliberationi. Rcon vi affaticatea quelle
mutationi che non parteris con oaltro, she mutarei viside gl’huomini: perche che
beneficio ti recafe quel medesimo male, o dispeto che ti faccia Pietro ti faccia
Giovanni? Jegne, Tegno, di modo, che quella impresa che tu haueni cominciata
come vtile, tiriescedania nofiffima SE hauete falit openfate la bene, e misurate
la bene, tananzi che entriate inprigio ne perche ancorach'il cafo fusse molto dificile
a scoprire, tamen è incredibile, a quante cose pensa il giudice diligente e desideroso
di trovare la verità,& ogni minimo spiras glio è bastante a far uenire
tutto a luce, o fa tiche. Ma quelchela fa forse desiderabile ancora all'anime purgate,
è l'appetito che s'had'essere fuperiore agl'altrihuomini, il che è certo. cafa bella
et beata, attesomaffia me ch’innessuna altra cosa ci pesamo assomigliare a Dio
denti subiti de repentini, cosa che agiudiciomio è rarissima pericoli,& mai
la medesima ragione fa, che quanto piul'huomo inuecchia, tanto pingli per fatica
il morire, e sempre piu conleattioni, e con li penfieri viue, comes ejapesenon ha
weremaia morire. SI CREDE, et anco spesso fe uede per esperienza che le ricchezz
emale acquistate, non passano la terza generatione. Sant'Agoftino dice, che Dio
permette, che chi l'haacquistate goda in rimuneratione di qualche bene, che ha fatto
in vita, ma poi non passano troppo innanzi, perche è giudicio di Dio ordinariamente,
che cosi nada di male larob amale acquistata. Iodiligiàadun Padre, che ameoccor
reua un'altra ragione, perche chi ha acquistata la roba, è communemente
allenato dapouero, l'amascsal'arte di conferuarla, ma i figliuoli che sono nati
et allcuatida ho desiderato come glialtri huomini l'honore et l'otile, et infinquiper
gram tia di Dio è fucceduto sopra il disegno, e nondimeno quando ho conseguito quelche
desiderauo, non uiho ritronato dentro alcuna di quelle cose che mi haueuo imaginato,
ragione, à chi ben la considerasse, che doueri abastare ad eftinguere affai la fete
degli huomini. La grandezza di ftato vniuersalmente è desiderata, per che tuto il
bene ch'èin Jei-apparisce difuori, il male stà dentro occulto, il quale chinedesse
non ebarebbe forse tant anoglia, perche è pienasenza dubbio di pericoli, di sospetto
di mille trauagli. Le cose non prenedute, nuocono senza comaratione pisa, che le
prouifte; però chiama moio animo grande e perito, quelo che regge, e non si sbigotisce
porili Non è dubbio, che quanto piu l'huomo
inuecchia, piu cresce l'auaritia. Si dice communemente esserne causà, perche l'animo
diminuisce, ragione, che amenon è capace, perche è bene ignorante quel uecchio,
che non conosce hauerne minor bisogno, quan ldpiu inuecchia, et inoltre ueggo, che
ne'uecchi s'augmenta per il cotrario la lusuri dico l'apetito e non la forza la
crudeltà, egl'altriuitij però credo, che la ragion ue-: safia, che quanto piu si
uiue, tanto piu l'huom os'habitua alle cose del mondo o per consequente piu l'amaricchi,
A 4 ricchi, non sanno che cosa sij l'acquistar roba, et non hauendo
arte, ò modo di conservarla facilmente la disipano. Non fi può biasimare l'apetito
di hauer figliuoli, perche è naturale: ma dico bene, che è fpecie di felicità non
hauorne, perche etiandio chi gli ha buoni, e saur,' perdita ditenpošle quali
cosesono tenute male neli nostri giudicij, che l’impossibile, chel'huomo se bene
è d'ottimo ingegno, e giudicion a turale posa aggiugnère s& bene intendere certi
particolari, però è necessaria le sperienza, la qual non altro gli insegna, e
questo ricordo lo intenderà meglio, chi ha maneggiato facende assai, perche con
le sperienza medesima ha imparato quantovan glia, e sia buona l'esperienza. Stretto
non toglie à nessuno, pinsono quelli che patiscono del le grauezze del prodigo,
che quelli che hanno beneficio della fica larghezza: La ragione dunque al mio giudicio
è, che neglihuomini puo piu la SPERANZA che il timore, et piu Sono quelli che ferono
coseguire qualche cosa dalui, che qui, che temono essere oppressi. Auuertimenti
di senza dubbi omolto piu dispiacere di loro, che cosolatione. L'esempio l'ho veduto
in mio Padre, che a suoi dì era essempio a Firenze di padre ben dotato di figliuoti,
però pensa secomestia, chi gli ha di mala forte. Piace senza dubbio piu vn Principe
c'habbia de lprodigo, chevnoo’habbia dello stretto, ő tamendo uer ebbe essere il
contrario perche il prodigo è neceßitato fa reestorsioni, Grapine, lo sha
messia sua volontà, et afuo beneplacito, perche la legge non gli ha voluto dar poteftà
di farne gratia, ma non potendo nei casi particolari, per la varietà delle circostanze
darne precisa determinarione,si rimette all'arbitrio del giudice,cioè alla sua conscienza,
che considerato il tutto, faccia quelche glipare piu giusto, et bonefo, et chi altija
menti l'intendesse, s'inganna, perche la forza della legge lo affolue di hauerne
a dar conto, perche non hauendo il caso determinato, si può sempre scusare, ma non
gli dàf a caltàdi far dono della roba d'altri. Si ved per esperienza, che i padroni
tengono poco conto de seruitori, e per ogn si ua commodità, et appetito gli mettono
da parte. Tolaudoque seruitori, che pigliando essempio da padroni, tengono più conto
dele interesi suoi, che di loro, il che però consiglio che si faccia, salvando sempre
l'honore e la fede. Erra chi crede che li casi, che la leggerí mette ad arbitrio
del giudice, fienorin. Non biasimo interamente la giustitia ciuile del Turco, che
è piu tosto precipitosa, che fommaria: perche chi giudica a occhi chi usi ragionevolmente,
spedisce la meta delle cause giustamente, e liberale parti daspese, et spesso farebbe
piu per chi ha ragione ha uere hauuto da prima la sentenza contra, che conseguirla
doppo tanto difpendio, do ti trauagli, senza che à per malignità, o per ignoranza
delli giudici;ó ancora per oflervanza delle leggi si fa del bianconero. L’in deui
offeruare questa opinione, etiamcon qualche tua incommodità, et in questo s'ingannano
spesso gli huomini, perche si muovondo a qualche poco di danno, che apparisce,
et non confiderano quanto siano grandi i beni, che non si veggono, perche i sudditi
non veggono, e non misurano appunto quelche tu puoi fare, anzi imaginando si molte
voltela potestà tua maggiore, che non è, credono a quelle cose che tu non li potresti
costringerė. Sono alcuni huomini saui a sperare quello che desiderano, altri che
ma i lo crea dono, in fin, che non neson obensicuri, et senza dubbio piuv tileè
sperare in simili casi poco, che molto, perche la SPERANZA ti fa mancare di diligenza,
e ti dà piu dispiacere, quando la cosa non succede. Quanto bendisse colui. Ducunt
volente sfatano lentestrahunt, se ne veg gono ogni dìtante esperienze, che a me
non pare, che mai cosa alcuna sia icelj imeglio. Saui, che si devgeodere il
beneficio del tempo. L’intendersi bene con li frateli, e con li parenti, fa infiniti
beni, che tu non conosci, perche non appariscono advi per vno, ma infinite cose
ti profitta, fatti hauere in rispetto, però altrimenti è impossibile che lungamente
sia tenuto buono. Chi non sicura d'essere
buono, ma desidera buona fama, bisogna che sia buono. Fuigid d'opinione dinonvedereetiam
col pensare assai, quelche non vedeuo presto: ma conl'esperienza ho conosciuto esere
falsissimo, però fáteuibefe di chi di ce altrimenti. Quanto piu si pensano le cose,
tanto meglio s'intendono, á si fanno: Quando ti verrà occasione di cosa che tu desideri
pigliala senza perdere tempo, perche le cose del mondo si variano tanto spello,
che non si può dire di hauer cofa alcuña, finche non si a in mano. Et quando ti
è proposta qualchecosa che ti dispiace, cerca il diferirla piu che tu puoi, perche
ogni borasi vede che il tempo porta accidenti, che ti cauano di queste difficoltà,
e così s’ha da intendere quel prouerbio, che dicono i ILTIRANNO faestrema diligenza
di scoprire l'anitzetio, ciodseti con tentidel tuostato, consider agliandamenti
Ünnodituoi, concetičare dritesdiertocat chi chi ha autorità, et signoria puo fpingersi,
et flenderla ancora sopra le forze sue. Se tu vuoi conoscere quali fieno i pensieri
de Tiranni, legi CORNELIO TACITO (si veda), quan do fa mentione degloltimi ragionamenti
c'hebbe OTTAVIANO con TIBERIO. Il medesimo CORNELIO TACITO achibenlo considera,
insegnaper eccellenza come s'ha da gouernarechi vine sotto a un tiranno. Thì
CONVERSA teco, e con ragionarte co di varie cofe, et ponerti domandarti
partiti, et parere, però se non vuoi che t'intenda, bisogna che ti guardi congrandissima
diligenza, da mezzi che egli vsa, non vsartermir: A chi ha conditione nella patria,
efiafotoon tiranno fanguinofo et beftia le, si posjondare poche REGOLE, chseieno
buone, eccettoiltorso l'esilio Ma quando il tiranno, o per prudenza, ò per necessità
del suo stato si gouerna con sospetto, on’huomo ben qualificato deue cercare di
essere tenuto da affai, e animoso, ma di natura quieto, nè cupido d'alteraresenon
è sforzato, perche in tal caso il Tiranno ti accarezza, e cerca dinondarti caufa
di farnouità, il che non fariaseti conoscesse in quieto, perche all’hora pensa in
ogni modo che tu non sia perftarefermo, onde è neceffitato pensare
sempreťoccasione di spegnesti. Secondo il termine di sopra,è meglio non esere de
li piu intimie confidenti del Tiranno, perche non solo ti accarezza, ma in molte
cose, famanco asicurtàte co, che conli suoi, cosìtugodilasua grandezza, et nella
rouina sua diuenti grande, ma di questo ricordo non se ne può valere chi non ha
conditione grande nella sua patria. E differenza dhauereli fudditi disperati, ad
hanerli malcontenti, perche quelinon pensa no mai ad altro, che a mutatione di
stato, e la cercano etiam con suo pericolo, questi sébenenon si contentano, e
desiderano cose nuouteamennoninui tanole occasioni, ma aspettano che da
seuenghino. Non posono gouernare i suditi bene senza le verità, perche la
malignità de gli buomini cerca cosim, asiuvolemescolar destrezza, et fardimostratione,
accioche glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità,
esalute publica. Si doverij atendere a li efeti non ale dimostrationi, esuperficie,
e non di manco dincredibile quanta gratia, cöfauoveticöcilino
appresoglihuominileca rezze, et lahumanità di parole. l ragione credo che sia,
perche ogni uno sistima, par meritare piu che non uale, e però sisdegna', quandonede,
chetunontieniquel contodilui, che gli pare che se gli conuenga. Avvertimenti di che babbino a dar sospetto,
guardandoco meparli, etiam conlintimi tuoi, e secoragionando, e rispondendo di forte,
chenonti poljacauare, i!che tiriuscirà, seti presupponi sempre que l'obbietto,
che egli quanto puoticirconuieneperscoprirti. E cosa honoreuoleà un'huomonon
prometterese non quello cheuuole offer nare,ma communemente
tuttiquelligachituneghi,á giustamente, restano malfo dif fatti, perche gli huomini
non Jilalano gouernare dalla ragione: Il contrario intra uiénea chi promette, perche
intra uengono molti casi, che fanno che non accade fare l'esperienza di quello,
chetuhaipromello, e cosihaiso disfatto conlamēteyetse pure s'hadauenire al'ato non
mancano Spedoscuse, emoltisonofigrofli, che si lasciano aggirare con parole,
nondimeno è fi brutto mancare alla parola sua, chequestopre pondera ogni
utilità ch esitragga dal contrario, e però l'huomo sideue ingegnaredi
trattenersi quanto puo con risposte
generali, e piene di buona SPERANZA, ma non difor techeti oblighino precisamente.
Perche è paz giafarsi nimico senza proposito, et ueloricordo, perche quafi ogni
unoerrainque fta leggerezza. Chi entrane' pericolisenza confiderarequel
chepossono, oimportino, si chiama bestiale, maanimosoè quello che conoscendo i pericoli
uientra francamente, operne cefftà, o per honoreuol cagione. ranno. mad ti i popoli,
Credono molti, che unfauio, perche uede tuti i pericoli, non possaessere animoso:
io sono di contraria opinione, che non possa essere savio chi non è animoso,
per che manca di giudicio, chi stima a d auuenire il pericolo, piuc he non si
deve, ma per auuentura questopaso, che è confuso, deue si considerare, che non tutti
i pericoli hanno effetto, perche alcuni neschi fal'humo cola diligenza, et industria,
et franchezza sua, altriil caso iftesoet mille accidenti che nascono portano uia,
però chi conoscos pericoli, no li deve mettere tutti ad entrata, e presupponere
che tutti succedano,m a discorrerecon prudenza quelche altruipuò sperare d'aiutarsi,
edoue il caso verisimilmente gli può farfauore, farsianimo, nè ritirarsi dall’impresedirili,
e honoreuoli per paura di tutti i pericoli che conosce esser nel caso. Erra
chidice che le lettere e gli studij guaftano il cervello degli huomini, perche
forseè veroachil' ha debole, ma doueleletteretrouanoil naturale buono, lo fanno
perfetto, perche il buon naturale congiunto coʻl buono accidentale fanno buonif
Jima compositione. Livi E sen a
comparatione piudetestabilein vn principe l'avaritia,cheinun priuato,
non solo perch ehauendopiú facultà da diftribuire, priua gli huomini tanto più:
maetiam perche quello che ha vn priuato è tutto fuo, et per uso fuo, e
nepuòsenze giufta querel ad'alcuno disponere, ma tutto quello che ha il principe,
gli èdatopervalós e beneficio d'altri, et per òritenendolo in fe, frauda gli huomini
di quel ch edeueloro. Guardate vI da tutto quello cheuipuonuoceree non giouare,
però in presenza d'altri, non ditemai senza necessità cose, che dispiaccino,
Non furonotrouatii Principipe rfarbeneficioaloro, perchenessunofefareb
bemessoinseruitù grauiffima, ma perinteresedepopoli, perchefuserobenegouernati,
peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli, nonèpiu Principe Dico che il
Principe che famercantia, questononsolofacosavergognosa, ma è Tiranno, facendo
quelloche è oficio de priuati, enonde Principi, et peccatanto verfa Auuertimenti di ipopoli, quanto peccherienoi
popoliversolui, volendointromettersiinquel che è oficio solo del Principe. Le
cosedelmondo sono varie, edipendonodatanticasi, e accidenti, che difficilmente si
puo far giudicio del futuro, et sivedeperesperienza, che quasi sempre le
conietture de sanij sono fallaci, però non laudo il consiglio di quelli che
lasciano la commodità d'onben presente, ben che minore, per paura d'on mal
futuro, benche maggiore, se non è molto propinquo, et moltocerto, peichenon
succedendo poispessoquello dichete meui, titrouipervna pauravanahauerlasciato quello
chetipiaceua, et peròèfauio quelprouerbio. Dicosanascecosa. Nelle cose dello
stato ho veduto spessoerrarechi fa giudicio, perche esamina quello che ragione
uolmentedouerebbfear questoe quel Principe, et no consideraquel loche farà,verbigratiail
Re di Francia, perche deue hauer piu rispeto, qualsialana tura& costumi don
Francese, che àquello douerebbe farciascun Principe, prudente, faggio, e
giusto. Ho detto molte volte, etlodicodinuouo, ch’oningegno capace, et chesappia
farecapitaled el tempo, non ha causa di lamentarsi, chelauitasiabreue, perche può
attendereadinfinitecose, e spendereytilmente il tempo, gli auanza tempo. Non
èfaciletrouarequestiricordi, ma è piu dificileesequirli, perche spesso
l'huomoconosce, manonmetteinatto, però volendo vsarlisforzate la natura,e fate
niunbuonhabito, colmezodelquale, nonfolo farete questi, ma ancoravi verrà fatto
senza fatica, tutto quello che vi comanda la ragione. sottol'Imperio, che Tiberio
huomo tiranno, et superbo haueuaesofa tantadappocagine. SE hauetemala satisfattione
d'ono, ingegnateui quantopotete,chenonsen'accor ga, perche
subitofialienaràdavoi, et vengonomoltitempi, e occafioni chevipollo noferuire,
viseruirebbe, secol dimostrare d'haverlo in mal concetto, nonvelbauesti
giocato, e ioconmiavtili tàn 'ho fatto l'esperienza, che inqualchetempoho hauuto
mal animo versod'ono, che non accorgendosenem 'hapožinqualche occasionegiouato,
com'è statoamico. L'AM. Non simarauigliardd ell'animobasoeseruilede molti popoli
chi leggera in CORNELIO TACITO che li ROMANI solitià dominare il mondo et viuere
in tanta gloria, ferui uanosivilmente. Chi vuoletrauagliare, nonsilascicanaredi
possessionedellefacende, perchedal l'onanascel'altra, siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa
tione che tiportailtrouartiin negotio, et peròsipuo. Ancoa questo adattare il prouerbio:
Di cosa nasce cosa. 1 1 e nefas, como ècausad'infinitimali. Però veggiamo cheli
Signori fimilichehannoquestoobiet to, nonhannofreno alcuna, o fannounpiano dellaroba,
et vita degli altri, purche, cosigli conforti il rispetto dela sua grandezza.
similimodi, ha piu lungo trattocheprimanons'haveb becreduto, come ancora intrauieneadvno
che muore d'etico o ditisico, chelasuavi tasempresipro lungaoltra l'opinione che
hanno hauutoimedici, colivnmercăteinan zichefalisca, peresere consumato dagli interesi
fireggepiutēpo, cbenöera creduto. M'e parfasempredificilea credere, che Dio babbiaa
per mettere, chelifigliuoli del Duca Lodovico, habbinoagoder quello stato,
quando ioconsidero, cheilpadresuo l'havfurpatofceleratamente, é
pervfurparloèstato causadellarouina, seruity d'ITALIA editantitraua gli seguiti
in tutta Christianità, a questichelibiasimama no sono pazzi, perche starebbefrescala
Città, cóloro, seiltiranno non hauesseattor noaltrichetristi. L'ambitione
dell'honore, e della gloria è laudabile, et vtilealmondo, perche da caujaa gl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse.
Nonècosi quella dela grandezza, perchechilapigliaperidolo, vuolhauerlaperfas,
L'imprese e cose, che hanno da accaderen on per impeto, ma perche prima si consumano,
vannoassai piu in lungo, chenonsicredeuadaprincipio, perchegli
huominisiostinanoapatire, apatiscono, lopportano molto piu, chenonsisarebbe
creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerra ches'babbiaa finire per fame, per l'incomodità,
per mancamento didanari, et Favev1beffe di
questi che predicano lalibertà, non dicoditutiman’ec cettuo benpochi, perche ogni
unodiquestitali, chesperasjehauerepiubeneinvnosta tostreto, cheinun libero,
vicorrerebbeperleposte, perchequasituttipostponeran noilrispeto
del'intereseloro, esonpochifimi queli che conoscono quanto vagliala gloria et l'honore.
gottirti, e coltenere il capo franco non tilassar eleuare facilmente. Chi conversa
congrandinonfilafcileuara cavallo da carezzee dimostrationi fuperficiali,
conlequaliefe fanno communementebalzar gli huomini come vogliono, @affogarli nel
fauore. Et quantoquestoè piu dificile adifendersitanto piudeuesbir Non
potetehauermigliorparte, chetenereconto dell'honore, perche chi faque
ftonontemei pericoli, nefamaicosa che sia brutta, perotenetefermo questo capo,
ú faraquasiimpossibile, chetuttononvi succeda.bene, expertusloquor. Dico
cheunbuoncittadino, e amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi
coltirrannopersua sicurtà, perche è in pericolo quando è hauuto insospeto, ma anco
ta per beneficio de la patria, perche gouernandosi cosi, gli viene occasione con
consigli, e conopere di favorire molti buoni, e disfauorire molti mali Lav städod imezzo tu sempre rilieuietuincachisi uoglia.
La natura de popoli è come quella de privati, diuoleresempre augumentare del
gradoinchesitrouano, peròèprudenzanegareloroleprime cose, che domandono, per
che concedendo non lifermi, anzigliinuitiadomandar piu, et con maggior instanza,
che non faceuonoda principio, perche col.darlispessodaberesegli accresce
lasete. Osservate con diligenza le cose de tempi passati, perche fannolumealle
future, cumsitcheilmondofia sempred'unamedesimaforte, e che tutto quello che è,
sarà,èstatoinaltro tempo, perchele medesime coseritornano, mafotodiuerfinomiz e
colori, però ogni uno non le conosce, ma solo chi è sauio, e le considera diligentemente.
SE Oferuate bene, trouate che d'età in età si mutano non solamente i uocaboli,
modideluejlire, eticostumi, maancoraquelcheèpiui gusti el'inclinationi dell'arme,
et questa diuersità si vede etiam in un tempo medesimo dipaeseinpaese, douenonso
lo è diuersità delle inftrutioni, maancorade gusti decibiedegliappetitiuarij degli
huomini. Lamene pericolo dell auittoria,
ma Auuertimenti di i . Laudo chi nelle guerre d'altri staneutrale, chi è potentediforte,
hatalconsi d erationedistato, che non ha da temere il uincitore,
perchefuggeilpericolo, elaspesa, ela Stracchezza, di disordini d'altri possono pararti
qualche buona occasione: fuordi questi termini la neutralità è una pazzia, perch
eattacãdoticonuna delle parti corriso Senza dubbio hamigliortempoinquestomondo,piulungavita,
esipuochia mareinuncertomodo felice, chi èd'ingegno piubasso, che questi intellett
ieleuati, pero chel'ingegnonobile, seruepiutostoa trauaglio, et cruciato diehi l'ha,
nondimeno l’uno participapiu dell'animal brutto che d'huomo, l'altro trascende il
grado dell'huomo, s'accosta piu alle nature celesti. Inanzi a nelqualtempol'ambitione, &cecita
del Duca Ludouico aperse la uia alla rouina d'Italia, erano come
ogn'unosaimodidels la guerra molto diuersi da questiloppugnatione delle città, le
uccisioni, i conflit id'ale traforte, et quasisenzafanguein modo che chihaueuaunostato
difficilmente glipote wa effertolto, dipo ifiridusse, che chi era padrone della
campagna, haueua uinta la guerra, comein un momento, se erano due eserciti in campagna
siueniua in un trattoale la giornata, et era data la sentêza dela guerra, cosi uedemo
senza rompere lancia per dersi il Regno di Napoli, il Ducato di Milano, econla fortuna
d'unsologiocarsi tutto lostato de Venetiani. Hoggi il Signor Profpero primo ha
dimostrato diuerfo modo di guerra, che col mettersi nelle terre hafoggiogato l'impeto
di chi era padrone della camopagna, ma non riuscirebbe bene questo, a chi non
hauesse dispositione de popoli fauor e wole, cornehahauuto egli quella di
Milano contra Francesi. Le medesime impres eche fatte fuordi tempo, Sono štate dificiliseme,
ò impoffibile, 1 quando quando sono accompagnate
daltempoe dall'occasiones ono facilißime, però nonsiuuo letentarle attrimenti,
perche setuletenti fuor del tempo suo, non solononti fuccedono, ma porti pericolo,
checon l'hauerle tentate non leguasti per quel tempo, che facilmente farebbono riuscite,
però sono tenuti sauiji patienti. Non è gran cosa, ch'un gouernatore vsando spesoaffrezza,
ò efetidife uerità, si facciatemere, percheisudditi hanno facilmente paura di chi
li puo sforzare, erouinare, et viene facilmente all'esecutione, ma laudo io
quelli governatori, che con far poche affrezge, et esecutioni, fanno acquistarsi,
et conferuarno medi terribili. Ricordate vi di quello che altre volte ho detto
di questi ricordi scheno s'hanno ad osseruare sempre indistintamente, ma in qualche
caso particolare, che ara gionediuer fanonsono buoni, et quali sieno questi
casi, non sipuocomprendereconrego laalcuna, nesitroua libroche l'insegni, ma è necessario
che questolumetelodia prima la natura, et poil'esperienza cui diseon popolo,
diseveramente un pazzo, perche egli è un moftro pieno di tonfusione; ó
d'errore, perche le sue opinionisonotanto lontan de alla uerità, quanto secondo
Tolomeo, la Spagna dall'India. Come A mio giudicio innesjungrado, ò antoritàsiricercapiu
prudenza, et qualitàec cellente, cheinvn Capitano d'onoesercito, perche sono infinite
quelle cose, a cheproue deré, et comandare sinfiniti accidenti, etcasivarijsche
d'hora in hora se gli presentano, in modo che peramente bisogna che habbia piu occhi
d'Argo, e non soloper l'importanza sua, ma per la prudenza, che li bisognare putoinogni
altro peso niente. E differenzaa desereanimoso, et non fuggire ipericoliper rispeto
del'bonore, Psta noe l'altro conosce i pericoli, ma quello seconfidapoterfenedifendere,
efenonfusseque sta confidēza nõ gliaspetarebe, questo puoeferschetema piu del debito
znè sia faldo, perche non habbia paura, ma perche si risolueavolerpintosto ild ãnocbe
la uergogna. Ho osseruatowe' mieigouerni, che quando mièvenutain anzi vna
causa, cheho hauutoper qualche giusto rispetto desiderio d'accordarla, nonhoparlatod'accordo,
ma folmetterevariedilationi, et ftrachezzehofatto chelemedesime
partilhannoricer cato, cosiquello, che se nel principio io l'haueßi proposto, sariastatoributtato,
s'eridotto intermine, chequando è venuto il tempo suo, io ne sono stato pregato.
Non, che chi tiene gli stati non sia necessitato, metterle mani nel sangue, ma di
cobene che non si de vefarsenzagran neceßità, et che ilpiy delle volte se ne perde,
piuchenonseneacquista, perchenon solo s'offende quellichesonotocchi, ma
ancorasa dispiace all'vniuerfale deglialtri, efebenetuleui quello inimico, o quello
ostacola, non pero se ne spegne il seme, cumsits che in luogo di quello sott'entrano
degli altri, et fpeffo intrauiene, come si dice dell'hidra; che per ognuno jnenafcesette.
Non possoio, ne sofarmibello, ne darmi riputatione diquelle cose, che inperin
tànonsono cosi, et tamenfariapiuvtile fare il contrario, perche è incredibile quanto
giouila riputatione, e opinioneche hanno gli huomini, che tu siagrande. Con questoru
mor esolo ti corrono dietro, senza che tun'habbiavenireacimento. che
ilpadrone,eproportionatamenteil superiore li sudditi, perche non si presenta ianzialuitali
quali si presentano agl'altri, anzi cercano coprirsialui, et parered'altra forte
che inveronon sono, e pericoli, qual forte habbia piu ad esiderare una città,
òdicadere nel gouernod'vno, òdimolti, odipochi. perch e d'hora in hora nascono
occasioni, che egli commette a chi vede, ò a chi gli è piu e propinquo, che
seti hauesse a cercare ò aspettarenonti si commetterebbe, e chi perde vn principio
benche piccolo, per despesso l'introduttione, e aditaarose grandi. Fawpus ēruitori
che fanno il medesimo versoi padroni, non facendo peracosa che sia contra l afede,
l'honore. Auvertimenti di Com Ecolui c'haagiutato, òeftata caufa, che unosalgainun
grado, louuolgouer nareinquelgrado, giàcominciaa cancellare il beneficio, che gliha
fato, volendo usarper se, quelche prima ha operato, che sia di quell'altro, eglihagiusta
causa di non comportarlo, ne pe rquesto merita eserechiamato ingrato. Ron
s'atribuisca a laudedifa, ò chi non fa quelle cose, lequalife potefse, ofa
cesje meriteriabiasimo. Dice il prouerbio Castigliano, il filsirompedallatopiudebole,
sempreche pensi venire in concorrenza è compa ratione di chi è piu potente o
rispettato, piu succumbe il piudebole, nonostante, che la ragione è l'honestà, ò
la gratitudine volesse il contrario, perche communemente; s'ha piu rispeto al'interese,
che al debito: Niuno conosce peggio liferuitorisuoi ve lo dico di nuouo, li padroni fanno poco conto
de seruitori, et per ogni interesse listrascinano senza rispeto, perosono. Tu
chéstai in cortë, et seguition grande, e desideriessereado per atodaluiinfa
cende, ingegnati di Starli tutta niadinanzia gl'occhi, pome Concordano tutiefere
megliore lo stato d'vno quando è buono, ibedi pochiedimolti,o buoni, e le ragioni
sono manifeste, cosi concludono, che quellod'ono piu facilmente di buono diuenta
cattiuo, chegl'altri, et quando è cattivo è peggiore di tutti, tanto piu quando
vaperfiu è ceffione, percherade volte ad un padre buono fa uio, succedeun figliuolo
simile. Pero vorrei che questi politici m'haueJero dichiarato, considerate tute
queste conditioni Chi si conosce hauere buonaforte, puotentarl'imprese con maggior
animo, ma è da auuertire che la forte non solo pko essere varia di tempo in
tempo, ma anco in un tempo medesimo puoelervaria nellecose, perche chiosseruauedr
à per esperienza, mol tiessere fortuna tiinunaspeciedicoje, et in un'altra essere
sfortunati, et io in mio parricolare ho hauutoin fino a questo dàtre di.in molte
cose bonißima forte, tamen non Pho simile nelle mercantie, one glihonori, cheiocerco
d'havere, perche noncercandolimicorrono naturalmente dietro,ma come cominciò a
cercarli, pare chesidiscostino. Le cose del mondo non stānoferme, anzi hanno sempre
progresso al camino, àche ragione uolmente per fua naturahannodaandare, e
finire, ma tardanospeso piache il credere nostro perche non le misuriamo secondo
la vita nostra, che è breue, e non secondo il tempo suo, cheèlungo, et però ipaffifuoifono
piu tardi, che non sonoino fri,& fitærdipersua natura, cheancorachefimoui non
onci accorgiamo spesode fuoi moti, e per questo sono fpefjofalsii giudicij, chenoi
facciamo, Ron sosesideuono chiamare: fortunatiquelli, a chi vnavoltasipresentavna
grande occasione, perchechino nè prudente, non lafa bene vsare, masenzadubbiofo
no fortuna tiffimi quelli, aqualivna medesima grande occasione sipresentadue uol
te, perche non è buomo cosi dappoco, che la seconda volta non la sappia vsare,
cosi in questocasosecondos' hadahauere tutta l'obligatione conla fortuna, done nel
primo ha luogo ancora la prudenza, che uiuonoinlibertà, ma queli, nei qualiera
meglio prouifto alla conferuatione delle leggi e della giuftitia.
fannoinuentione diquel löche s'aspeta, òsicrede, e piuorecchivi preftosefononuoue
strauaganti, o'inaspettate, perche mancooccorre agli buomini fare inuentioni, ò
persuadersi quello chenon è in alcuna consideratione, e di questo ho veduto io molte
uolte l'esperienza. Gruan forte è quelladegli astrologi, che ancora, che la loro
profeffione fiava Non ha maggiore inimico
l'huomo, che fe fteso, perche quasi tutii mali, pericoli, et trauagli superflui,
che ha non procedono da altro, che dalla sua troppa cupiditate. L’appetito della robanasceda animo balo, o malcomposto, fenonside.
fiderasseperaltro, che per poterlagodere, ma essendocorrottoilviuere delmondo, co
me èchidefidera riputatione, è neceßitato à desiderareroba, perche.coneffarilucono
Levirti,cfono inprezzo lequaliinunpouerosono pocoftimate, et mã coconosciute. La libertà delle republiche è ministra della giustitia,
perche non è fondataa dal trofine, se non per difensione, chel'onononsiao presso
dal'altro, però chi potesse efsore sicuro, che in uno stato d'unoòdipochis'ofjeruaje
la giustitia, non harebbetau fa di desiderare la libertà. Questa è la ragione, che
gli antichisauij, e FILOSOFI non laudornopiu degli altrique'gouerni Quando
lenuoue s'hanno d'Autore incerto, et fieno nuoue verisimili, d aspettate, io li
presto poca fede, perche gli huomini facilmente; nito, Auuertimenti di mità, ò perdiffettodell'arte,
ofuo,tamenpiufedeglidàvna verità, chepronostica no, checento falsità, é tamenne
gli huominiintrauiene il contrario, cheunabugia, chse a reprobata da vno, a, che s i s tàsospeso a crederli tutte
l'altre verità, et procede daldesiderio grande c'hanno gl ibuomini di sapere il
futuro, diche non hauendo altro modo dihauerecertezza; credonofacilmente, a chi
fa professione di saperlolor dire, comeall'infermoilmedico, che li promette la salute,
ò dalla uoluntàdiquelli, chedominano, perche non han uendesia cūbattere con ragioni
immutabili, ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille cafi, che facilmente tisolleuanoda
chi puo pretendere di leuartidiposeso. scarso, perche nessuna cosaof fende più l'animo
d’un fuperiore che il parergliche non lisiahauuto quel rispet oeri uerenza, che
giudica conuenirseli. Ë ogni cosa per non trouarui done si perde, perche ancora,
chenonuisia colpa isoftra, ne hauete sõprecarico, nè si puo andareatuttele piazze
getbanchiagiu Stificarsi, come chi si troua doue fi vince, siporta sempre laudeetia
Jenza suo merito. fa nellecosepriuate, trouarsi in poffeffione antica, chele
ragioni non fi mutano, imodidegiuditye di consignareil suo fono ordinarü, et fer
mi, masenza cumparatione è molto maggiore vantaggio in quelle cose che dependono
dagli accidenti delli stati Fu crudele il decreto de Siracusani, dichefamentione
Liuio, che insino alle donne nate de tiranni fussero ammazate, ma non però al
tutto senza ragione, perche mă Catoiltiranno, quelli che uiueuano uolentieri sotto
di lui, sepotefjerone farebbono un'altrodicera, e non essendo cosi facile uoltare
la riputationea un'huomo nuouo,si ri tirano sottoogni reliquia, che refti di quello.
Però una città, che esca nuouamente dalla tirannide, non ha mai bensicura la libertà
Se non spegnetutta la razza, et pro genie de tiranni, dicoperò glimaschi, e non
le femine. Non è inpoteftà d'ogniuno eleggersiil grado, e le facende, chel'huomo
uno le, ma non bisogna spessofarquelle, che t'appresentalatuaforte, et che sonoconfor
mialostatoincheseinato, però tutta lalode consiste in farla sua bene, comeinuna
comedia, nonèmancolodato, chi ben rappresenta la perfona d'unferuo, chequelli, a
chi sono meffiindosso i panni del Re, od'altra persona degna, ogni unoinefeto nel
grado fuopufoarsi honore. E vantaggio come ognun Chi desidera eseramato da superiori,
bisogna mostrare d'hauere loro rispetto, e riuerenza,e con questo efer piutofto
abbondante, che Ogniuno in questo mondo fa deglierrori, daqualinascemaggioreomi
nordanno, secondo gli accidenti, et casicheseguitano, ma buona forte hanno quelli,
che s'abbattono adevrarein cofe di minore importanza, ò dalle quali nes eguitaman
codisordine. E 'gran felicità potere viuere in modo che non siriceua, nè f ifaccia
ingiuria ad altri, ma chi s'adduce in grado, che sia necessitato, o aggrauare, ò
apatire, deue per mio consiglio pigliare il tratto auantaggio, percheè cosi giusta
difesa, quella chesifa pernonesser offeso, comequella, chesifaquando l'offesati
è fatta, èneroche bisogna bendiftinguericasi, nè per superflupaauradarsi senza causa
adintendere d'eserene ceshtato a preuenire, nèpercupidità, nè per malignità,
doue in vero non hainèdeui hauere sospetto volere con allargare questo timore giustificare
la violenza, chetufai. Ne glihuominie lapatienza, el'impetosono
bastantiapartorirecosegranuis perche l'onoopera conl'urtare gli buomini,
esforzare le cose, l'altra con lostraccara li, evineerlicol tempo,
el'occasioni, però in quello chenuocel'ono, gioual'altro, Grå conuerfo, et chi potesse
congiugnerli, et vsareciascuno al tempo suo sarebbe diuino, ma perche questo è impoßibile,
credo che ožbus cõputatis, la patienza e moderationfi: landabile in un Principe
percõdurre maggior coseafine, chel'impeto e la pcipit. iticne. Nelle cose dellEconomica il uerbo principale è
risecaretute lespese superflue, ma quello in che mi pare, che consista l'industria,
è chi fa le medesime spese con piu vantaggio, e come si dice volgarmente, spendere
il foldo per quattro quattrini. Diceva
un padre, che piu bonoretifa un ducato in borsa, chediecichene baispesi,
parolemoltodanotare, non per diventar fordido, nè per mancare nelle cose
honoreuoli,e ragionevoli, maperchetifafrenoafuggirelecose superflue. la
malitia, o che nel maneggiare le cose s'accorgono di quello harebbono di bisogno,
si cerca fardireal iStruméti quello che l'huomo vorrebbe ch edicese, però quando
sono gli inftrumenti di cose vostre d'importanza, habbiate pervfariza faruelilenare
subito, et hauerliincasainforma autentica.
Rarissimi sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano, madopo
fatisecondo che gli huomiui pensano. Se bengli huomini deliberano con buono
consiglio, gliefetisono peròlpelocat tiui, tanto sono incerte le cose future,
non dimenononsiuuole come bestiadarsiinpicito da alla fortuna, ma come huomoandarconta
ragione, et chièSauio, hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio, ancor
chel'efeto sia stato cattiuo, che feconvá con figlio cattivo, hauessehauuto l'effetto
buono. Tenete amente, chechiguadagna, seben puo spendere qualche cosadi piu che
non guadagna, tame nè pazzia spendere largamente sul fondamento de guadagni,
seprimanonhai fato buono capitale, perche l'occasione del guadagnare non dura sempre,
et fe mentre essa dura non ti sei acconcio, passata che ella èytitroui pouero
come prima, ed i piu hai perduto il tempo, e l'honore, perche alla fine è tenuto
di poco ceruello, chi hahauuta l'occasione bella,& non l'ha saputa usare bene,
e questo ricordo tenetelo bene a mente, perche ho visto amjeidi infiniti errori.
E Cer B2 puo alcuna uolta mettendo insieme
la gratitudine che si sente datuttiefere notabile. Del fare un'opera buona, et laudabile
non si vede sempre il frutto, peròchi non sisatisfafolum del ben fare di
sesteso, lascidifarlo, non parendo gli trarneuti lità, maquesto è inganno degli
huomini non piccolo, perche il farelaudabilmente, se ben non ti portasje altro frutto
euidente, spargebuonome, et buona opinione dite, la qual in molti tempi et cafitire
cautilità incredibile. Progresso di tempo si poche cofe verificate, come s i
trova a capo dell'anno degli astrolpogei, rche le cose del mondo
sonotroppouarie. Nelle cose importantinonpuo fare buono giudicio, chi non fa bene
tuttii particolari, perche speso una circonftantias et minima, nariatutto il caso,
mauidice bene, che non hanotitiaad altro, chedigenerali, et questo medefimo giudica
peggio intesii particolari, perche chi non hailceruello molto perfetto e molto netto
dalle paf fioni, facilmente intendend o molti particolari si confondeeuaria. Se
d'unos'intendedlegge, che senza alcuno fuo commodo, è interefe, ampor. E' eerto,
chenonsitien conto deliseruitij fattial i popoli in uniuersale, comedi
quellichesifanno in particolare, perche toccando col commune, nessuno sitienseruito
inproprio, peròchi s'affaticcaperli popoli, et vniuersità, nosperiche s'affatichin
oper luiinunsuo pericolo, ò bisogno, ò che per memoria de beneficij, la fcino una
loro como modità, non dimeno non sprezzate tanto il fare seruitio a popoli che quando
ui si presenti l'occasione la perdiate, perche se ne uiene in buon nome, e buon
concetto, cheè fruttoasai dela fatica, senzapure, chein qualche casogioua quella
memoria, e rin mzoneachiè beneficiatosenonsi calda mente, comeli benefici propri,
al manco sarà parte di quanto si conuiene, et fonotanti questi achi tocca
questa lorleggieraimpres fione, che Chi
facesse fu un'accidente giudicareda un'buomo sauio gli effetti, che nasce
ranno, et scriuese il giudicio, trouerebbe tornando a uederlo in Spesso
s'inganna, chi sirifoluesui primiauuifi, cheuengono delle coseper ebeuengono
semprepiu caldi, et piu spaventosi, che non riefconopoi congli effettin però
chino nè neceffitato aspetti semprei secondi, ed imano in mano gli altri. Chi
ha la cura d'una terra, che babbiaa essere combattuta, ò assediata, deue fa
repochiffimo fondamento in tutti quei rimedij, che allunganogestimare assai ogni
cosa che tolga tempo, etiam piccolo aliiniinici, perche spessoundì piu, o
un'borapor taqualche accidente, chelalibera. Non combattere mai con la
religione, neconle coseche pare che dependono immediate da Dio, perche questo
obietto ha troppa forza nelle menti degli huomini. Il male E' buon mezo
aguadagnarsi fauori il mostrarea quelli, da chi tu duoi guadagnare il fauore di
farli capis Quando si fa una cosa, se si potesse sapere quel che farebbe seguito,
senon sifufefatta, sòi fusse fatto il cotrario, senza dubbio molte cose sono da
gli huominilau dati,chenon fariano, anzi meriter ebbono contraria sentenza:
Accade: molte uolte in una deliberatione cheha ragione da ogni banda, che
ancora chel'huomo habbia diligentemente penfato, ch e poiche ha fatto la deliberatione,
gli parebauere letto la parte peggiore, laragioneè, che poiche tu hai deliberato
tisi rappresentano solamente alla fantasia le ragioni, cheeranonell'opinione
contra riale quali confiderate senz a il contrapeso dell'altre ti paiono piu graui,e
pire importanti Ir i male,cheilbene; fi deue
chiamarbeftiae, t non huomo, poichemanca dell'appetia naturale, no a fauorire
quello, che per altr o harebbono disfauorito
NON credete aquestiche predicano cheamano laquiete, etd'essere Stracchi
dell'ambitione, et hauere lasjatele. facende, perche quasi sempre hanno nel
cuore il contrario, esisonoridottia vita appartata, et quieta, òpersdegno, òpernecessità,
ò per pazzia, l'essempio seneuede tutto il dì, perchea questi tali subito
ches'appres Senta qualche spiraglio di grandezza, abbandon erannola tanta lodata
quiete, et nifi mettono con quel pericolo, che fa il fuoco, ad una cosa fecca.
L’inclinationi, e deliberationi de popoli sono tanto fallaci, et Menate
piuspesso dal caso, chedallaragione, che chi regola il traino deluiuer fuo, non
in altro che infüi la speranza d'hauere adesere grande colpo
polozhapocogiuditios per che oppor si è piutosto venturacbe fenno.
autoridiquellacosa, nella qualen'haidibisogno, perche la piupartede glihuomini,
presida quella uanità, ò ambitione, uisiaffettionanoinmo do, che dimèticatii
rispetti contrari, ancora depiu ragione uolie piuur genti comincia. Infinite
sono le varietà delle nature, da de pensieri deg’uomini, però non si puo
imaginare cosa, nè sìstrauagante, nè si contra ragione, che non sia secondo il
cervello d'alcuno, per questo quando sentirete dire, ch'altri habbia detto,
ofattoco. Facche non ui parra uerifimile, nè che possa cadere in concetto
d'huomo, nonuënefat te leggiermente beffe, perche quello che non quadraate, puo
facilmente trouareachi piaccia, òpaiaragionevole. Pare che i principi siene piu
liberi,e piupadroni delle loro volontà, che gl’altri uomi nózno nè uero ne principi
che si governano prudentemente, perches o non e cefsitati procedere con infinite
considerationi, rispetti, in modoche molte voltecat tiuanoi lor disegni, i loro
appetiti, el'altre volontà loro, io che l'ho osservato, n'ho pedutemolte esperienze,
diriandare tutte le ragioni, che sono hinc, e inde, perche queen sto concorso e
contrarietà, che tiapprefentiinanzi, fa,
che leragioni che si concede ilano, non ti paiane piu di maggiorpesoso importanzadiquello,
cheveramente quando nelle consulsteono pareri contrarij, se alcuno esce fuora con
qual. Che partito di mezo, quasiche sempre è approuato, non perche i partiti di
mezo, il piu delle volte nonsier: o peggiori, ma perchei contradittori calano piu
volentierid quello, che all'openione contraria, e ancoglialtri, ò per non dispiacere,
opernonef jerecapaci, si gettano aquello che parloro, che habbia manco disputa.
Possono malegli huomini priuati, biafimareolo dare molto leationide principi, non
solo per non sapere le cose come stanno e per essergli interessi, e ilo to
finiin cognitismi ancora perche la differenza è dall'hauere avverzo il cervello
advsode Principi, ad hauerlo aurezzoadvsode privati, fa che ancor che lo stato,
i fini delle cose, e gli intereshfulero all'uno noticome al'altro, le considerationi
Auvertimentidi portanti, che non pareuanoin anzi, che tu deliberasi: Il rimedio
di liberarsi da questo molestia, è sforzarsi No huomo, chenonsia prudente, non si
puo reggere senza consiglio, nondime no egli
è molto pericoloso pigliar consiglio, perche chi dà consiglio, ha speso piu consideratione
all'interesse suo, che aquello che lo domanda, anzi propone ogni suopicciolo
rispetto, et fodisfattione all'interesse, benche grauissimo,a importantijimo diquela
l'altro, peròdico, cheintalgradobifogna, che s'abbatta conamici fedeli, altrimenti
porta pericolo di non far male apigliar consiglio, et male et peggiofa, ànolopigliare.
molte volte in terzo o quarto caso, che non fumai in consideratione, e che difficilmente
fisar ebbe imaginato, che potese essere molte utolte si trova ingannato. Non si
puo chiamare infelice vna città, che fiorita lungamente, uieneabal Sezza, perche
questo è il fine delle cose humane, në sipuoimputareinfelicitàlelle resoto postoa
quellalegge, che è commune atuti gl’altri, mainfelicesonoque i cittadini,a i quali
ha dato la forte nascere piu presto nella declinatione della sua patria, chenel
tempo della sua buona fortuna. fono. Però Si chi sul far giudicio del futuro vuol
pigliare qualchedeliberatione, comespesso
calcula, la tal cosa anderà, ònel tal modo, ò nel tale., e su questo discorso pigliail
suo partito, perche per la varietà delle cose, ed egli accidenti del mondo, viene il principe, che volessetorreil creditoagli Astrologi,
che stampano i giudicij vniuersalmente, non harebbe il piu facilmodo, che comandare,
che quando si stampa il giudicio loro, perl'anno futuro, fusseri stampato, e
appiccato conesso loro il giudicio dell'annopaljato, perche gl’uomini rileggendoin
quelloquantopoco fifienoa p posti del passato, farel bono sforzati non prestar fede
al futuro, et hauendosi dimenticato le bugie dell'annopaljato, la curiosità naturale,
che hanno gli huomini di sapere, quelche ha da essere, gliinclina facilmente a prestarli
fede. 1 però sono molto diverse, äsi discorrono le cose con diuerso occhio,
sigiudicano condiversogiudicio,& infine, l'uno le misura con diversa misura
dall'altro. fareogni opera possibile, fa checoluiilpiu delleuoltè cominci a acre
dere, che non lo voglia seruire; il contrario intrauienea chi fa larghezza disperan
2a, e di facilità, perche s'acquista piu
colui, ancorche l'efeto non riesca, cosi si Dede, che chi si governa con arte,
o perdir meglio con qualche avvertenza, è piu grato, et piu fa il fatto suo, nè
procede da altro, se non da essere la piu parte degli huomini ignoranti al mondo,
che s'ingannano facilmente in quello che desiderano onesto ma utilitario, ambizioso
e positivo, considerato il dramma della ruina italica, in mezzo al quale si
svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare
la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima
sua,che vibra d'ambizione, di collera, discoraggiamento, dibeffardo scetticismo
e anche di nobili entusiasmi. e Machiavelli posemano ai suoi Discorsi sulle
deche di LIVIO (si veda), elifinìmolto più tardi: liandò leggendo negl’orti oricellari,
circondato dai fiorentini,che pendeno ammirati dalle sue labbra. Egli dice, sin
dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto argomento dal bisogno
di operare quelle cose che crede adatte a recare comune beneficio a ciascuno. E
se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose presenti, la debole notizia
delle antiche, faranno questo suo conato difettivo e di non molta utilità,
daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso e giudizio, possa
a questa sua intenzione soddisfare. Più apertamente manifesta questo suo
desiderio, concludendo. Benchè questa impresa sia difficile, nondimeno aiutato
da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato, credo portarlo
in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato. G.
ne accetta l'invito e scrive le sue osservazioni intorno ai discorsi di
MACHIAVELLI, fermandosi a con Machiavelli, nel proemio al primo libro dei
Discorsi. MACHIAVELLI tratta delle origini delle città e os serva che se
trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed operosi : ma se
si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le
leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità della terra. Se non
che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle conquiste,e per questo I
ROMANI fondarono la loro città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la
via dell'imperio. Al ri manente rimediarono con leggi severissime, le quali
resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte G., che assai ammira l'arte
militare dei ROMANI e non troppo il governo e la politica loro, osserva che
Roma e bensìposta in paese fertile, ma per non avere contado e essere cinta di
popoli potenti, e forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la
concordia; e questo si discorre non in una città che voglia vivere alla filosofica,
ma in quelle che vo siderare i primi due libri e appena qualche capitolo
del terzo, perchè gli mancò iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse
spicca la differenza di mente fra G. e Machiavelli: questi guarda le questioni
da sublime altezza e sotto un aspetto più generale, abbandonandosi alla sua
geniale idealità, nello studiare l'organizzazione dello stato. G. invece, ricco
di tanta esperienza,vero genio del senso pratico, non segue il suo amico nei voli
poetici, ma si ferma soltanto a rettificare quelle idee di Machiavelli a lui
sembrate erronee. In ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza
profonda dei governi. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i
principati, ne studia l'indole per cercare il governo migliore. Parla dei modi
di comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli stati,di
condurre le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni.
Ragiona sulla natura umana, dominata dai due istinti del bene e del male.
gliono governarsi secondo il comune uso
del mondo, come è necessario fare; altrimenti sarebbono,essendo deboli,
oppresse e conculcate da’ vicini. Moltissime sono le osservazioni di G. circa
le varie specie di governo, le guarentigie da prendersi per custodire la
libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.”
Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e
quello degli ottimati. Il frutto del governo regio, così G., è che molto meglio, con più ordine, con
più celerità, con più segreto, con più risoluzione si governano le cose
pubbliche quando dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono
nell'arbitrio di più. Ma se il sovrano è cattivo, gl’effetti ne sono pessimi. E
però, secondo lui, è necessario farlo perpetuo, ma limitargli l'autorità, con
fare che da sè solo non possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà
d'azione in quelle che sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degl’ottimati
è il bene, perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti
rannide, come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con
più prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose
proprie e opprimono il popolo: l’ambizione fa nascere in essi le sedizioni e
per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del
governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere
buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o
per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di
buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini
; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1
FEgli, nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del
popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e
l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina che
senza comparazione il popolo sia più in grato; perchè, e per essere gli uomini
distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco
distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade
più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o
di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta
; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più
qualità di loro e questi sempre desiderano abbas vi è che il popolo,per
la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e
desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato
dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati,
che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni. G., inchinevole più al
governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di
scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è
uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi. Del
resto G. reputa ottima la forma del governo misto di
principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando
indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma
presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è
quellalodatapure da Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono
dei governi secondo le idee di Polibio, ma G., profondo conoscitore delle
condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei varî re gimi e delle
passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il popolo ad
impadronirsi dello Stato. sare. Crede G. di non saper bene ciò che voglia dire la
questione presentata da Machiavelli, se si deve porre l a guardia della libertà nel popolo o ne'grandi. Se
intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo, ciò spetta,nei governi
misti c o m e quello di Roma, tanto ai patrizî c o m e ai plebei, che salvarono
spesso la libertà della patria. Ma quando fosse necessario mettere in una città
o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di
nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare
si mettino in qualche forma ragionevole, che in una plebe,la quale essendo
piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se
non che precipiti e commetta ogni colpa. Lo stesso disprezzo per il popolo lo
rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degl’ateniesi
verso iloro cittadini più illustri.Ciò accade per chè nella natura dei Romani
non è la leggerezza degl’ateniesi e anche per la diversità del governo. In
Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire presto in potenza e
farsi grandi: ma i capi, in questo g o verno popolare, caddero più facilmente
in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione furono oppressi. La
plebe romana trova il contrappeso della nobiltà, poichè nel Senato si
trattavano le cose più gravi. La qualità quindi del governo dei Romani,più
tempe rato e prudente, fu causa che icittadini ebbero meno degli Ateniesi
aperta la via alla tirannide e vi furon meno battuti. Ma quando G. vuol
dimostrare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato
da leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene
aspro e quasi violento contro il popolo. Perchè dove è minor numero, èlavirtùpiùunita,epiùabileapro
durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensiero edesame, ne'negozî
più risoluzione; ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta
dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non
può essere nè discorso ragionevole, nè riso luzione fondata, nè azione ferma.
Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le qualis
econdo i venti che tiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna regola, senza
alcuna fermezza.' I principi e con essi i più eminenti statisti della
Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un trovato
dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla responsabilità
delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata so pra i
soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse sgorgare
direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni del paese.
G. soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava un governo misto, ma
inten deva accordare al popolo la minore ingerenza possibile in esso:pure
ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria della repubblica, era
il democra tico, malgrado gli errori in cui era caduto.Tuttavia a lui,
osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle cose e dice che un
popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con difficoltà
mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia stato
libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo caso
si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette, ed
essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la
difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso
necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri
quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico il
popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le
ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un
popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso
sono vane le dolcezze.? A G., nel meditare sulle vicende storiche del passato,
appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di
governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al
trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli
stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi
bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi
estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. Ma, ripetiamo, egli accordava
al popolo una piccola partecipazione al governo, mentre l'aveva avuta
grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura
delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione
di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione G. mostra
la differenza fra l'indole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava
che in ROMA antica non si puo trovare mezzo più efficace per cementare la
libertà che ammazzare i figli di Bruto. G., rispondendogli, riconosce la
necessità di tuffare a suo tempo le mani nel sangue, tuttavia fa voti perchè «
non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini
contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la
severità ;perchè se bene è necessario in simili casi mettere mano nel sangue,
sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che BRUTO (si veda) non
avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare. Nell'agitare la quistione
sulla bontà dei governi, si discute, da G. e da Machiavelli,non solo intorno ai
mezzi di ringagliardire la repubblica,ma anche il principato . Se un principe,
secondo il G., si trova di fronte a un popolo che ami la li bertà,ilsolo
rimedio sarà quello o di farsi dei par
tigiani di qualità, che siano potenti a opprimere il popolo, ovvero, co l battere
e annichilire il popolo di sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi
tatori e di qualità che non abbino a avere causa di desiderare la libertà? »
Così, senza parere, egli sembra accostarsi molto alle idee di Machiavelli, ma
tosto cerca di rendere meno cruda e assoluta la sentenza emessa. Però bisogna
che il principe abbia animo a usare questi estraordinarî, quando sia
necessario; e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta q u a lunque
occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co’benefizî,
non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale
sempre piacquono sopra modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il
Machiavelli è d'opinione che a fondare una re pubblica bisogni essere solo e
che per questo fece bene Romolo ad ammazzare ilfratello.A luir isponde G. Non è
dubbio che uno solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e
che uno in una città disordinata merita laude, se, non potendo riordinarla
altrimenti,lo fa con la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. Ma è da
pregare Dio che le repubbliche non abbino necessità diesserer acconceper similevia,
perchè gl’animi degl’uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto
colore occupare la tirannide. Inoltre bi sogna prima bene leggere e considerare
la vita di ROMOLO, il quale sebbene mi ricordo si dubitò non fosse ammazzato
dal senato per arrogarsi troppa autorità. E mentre Machiavelli entusiasmato
parla della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta
l'opera, senza lasciare lo stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del
popolo, ecco G. interromperlo e osservare che questi pensieri che i tiranni
deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro
posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle
immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto. Ammette, con
Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno
Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e
suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del
Machiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli
creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario
fiorentino. Dimostra Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con
fraude che con la forza ; ma G. Osserva. Se lo scrittore chiama fraude ogni
astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la
conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto,
ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama
fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro
procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni
e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno, di questi Cesare, che di
cittadino privato con altre arti che di fraude si 1Presuppone Machiavelli che
tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re
pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per
necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la
maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha
altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che
ci porge lanatura,da doversi più prestochiamaremostroche uomo.È adunque ogni uomo
inclinato al bene, ma, essendo la natura sua fragile, può essere deviata dal
retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal l'avarizia: leleggi si devono fare
in maniera da impe dirgli di fare il male di cui sente l'impulso, e nel tempo
stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene Machiavelli essere sempre la
frode un mezzo di in grandimento. G. talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata
da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Machiavelli
sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè
varino i condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e
lo appetito di dominare Ma,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia
sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno
si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie
l'occasione di con seguire gl'intenti suoi. Tutti e due eran d'accordo che
l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però G. non accetta in
modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua
indole, molto più pratica,se si para gona a quella di Machiavelli ; più
sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non
conduce alla meta agognata. Considerazioni al proemio del lib . luoghi, la qual
cosa equivale a dire che sempre nella umana famiglia il bene e il male si
equilibrano. All’incontro G., con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a
sè le età passate,risponde di no :e anche riconoscendo che l'antica non è
superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del
bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî: Chi non
sa in quanta eccellenza fussino a tempo de' Greci e poi de’ ROMANI la pittura e
la scultura, e quanto di poi restassino oscure in tutto il mondo ; e come dopo
essere state sepolte per molti secoli siano da centocinquanta o dugento anni in
qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo
appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i
tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte
del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle
lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per
tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha
visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace
; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose
umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali
spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla
necessità.?» Per G. è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando
viene usata come elemento di forza nello stato, e ad esso sottomessa : tuttavia
non condivide col Machiavelli l'opinione che i romani doveno alla religione una
sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere l’armi maggiormente
contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla
religione dei romani si collega Considerazioni al proemio. e e 2
particolare circa l'influenza del papato sui destini d'Italia, in cuii due
eminenti filosofi hanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma
Machiavelli avere la chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere
stata causa che non potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più
principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere
preda dei barbari potenti e di chiun quel'assaltasse. G. risponde. Non si può
dire tanto male della corte romana, che non m e riti se ne dica più, perchè è
un'infamia, un esemplo di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo. È con vinto
essere stata causa la grandezza della chiesa che l'Italia non è caduta in una
monarchia. Pure è dubbioso se il non essersi organata nella monarchia sia stata
felicità o infelicità di questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti
dominî, malgrado le sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali.
Osservazione profonda e vera, poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio
di uno solo, le varie regioni, in cui si divise, non produceno l'energia in
dividuale dei comuni, che crea tanti tesori in molte parti dello scibile e
della attività umana, nei commerci e nelle industrie, preparando gli splendori
della Rinascenza, che sono fiaccola alla civiltà del mondo. G. rimane ad
osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire
Machiavelli, che lancia il suo guardo di aquila oltre i confini d'Italia, a
osservare il formarsi delle nazioni unitarie, giovani e forti, aventi un vivo
sentimento patrio. Secondo il segretario fiorentino, l'Italia, divisa e debole,
non puo difendersi dalle loro cupidigie d'ingrandimento, e già cade sotto i loro
colpi brutali, mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure puo
divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed
ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità. Nella quistione
sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agita ROMA e Firenze, non vanno
d'accordo. Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze sono esiziali alla
città, perchè la vittoria del popolo porto la rovina dei grandi: quelle di Roma
inveceriescirono di grandezza allo stato, perchè il popolo, rimasto a
combattere sulla via della legalità, si accontenta di rivendicare i suoi giusti
diritti; e, conseguitili, divise coll’aristocrazia il governo. A queste giuste
e originali osservazioni risponde G., e combatte la maniera assoluta con cui
sono dette. Se da principio o non è stata questa distinzione tra patrizî e
plebei, o se al manco si è data la metà degl’onori alla plebe come si fa poi,
non nasceno quelle divisioni, le quali non possono essere laudabili, nè si può
negare non fossero dannose, sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa
avrebbero fatto più nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno
infermo la infermità, per la bontà del rimedio che gl’è stato applicato. E
ponendo mente all'ambizione di uomini cospicui, che approfittarono delle lotte
fra popolo e nobiltà per impadronirsi del governo, G. dice come APPIO CLAUDIO
(vedasi) e rovesciato dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere
il popolo, mentre doveva fare altrimenti, ma perchè tenta di rovesciare la
repubblica, la quale e allora governata da ottime leggi, piena di santissimi
costumi e ardentissima nel desiderio della libertà. MANLIO CAPITOLINO, sebbene
procedesse contro il senato con arte meramente popolare, pure fu oppresso dal
popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà. SILLA occupa
la tirannide a Roma elastabili con l'aiuto della nobiltà; il duca d’Atene si
fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli
per la sua imprudenza e leggerezza. GIULIO CESARE si fa signore di Roma col
favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti esempi e
ciascuna parte ha le sue buone ragioni. I partiti non si possono pigliare con
una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori della città,
dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e altre oc
correnze che girano. Secondo G. chi ha seco la nobiltà ha un fondamento più
gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua parte ha più seguaci, ma la
potenza sua è meno sicura, per il mutarsi degli umori della moltitudine. Il
principio annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una
repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal G, trovato
giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non bisogna confondere gli esempî, perchè
qual che volta può darsi che le forme della libertà sieno così disordinate e le
città ripiene tanto di discordie civili,da condurre qualche cittadino,non
potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la
cerca. Mentre è detestabile in GIULIO CESARE, pieno dialtavirtù,ma oppresso dall'ambizione
del dominare : accade pure al governo della plebe di diventare tirannico e
allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello Stato. G., quando
siferma a meditare sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio
del politico,non con quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono
esistiti veramente ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero
presso la gente romana così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli
umanisti delsecoloXV, non la tocca nonemmeno. Egliguarda soltanto ai caratteri
della politica romana, e, contro il parere del Machiavelli, afferma che,
eccettuata disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte
partidifettoso, come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le
azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli, anche
togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare
dell'autorità senatoria uomini onorandi come MAMERCO EMILIO. Egli è pure del parere
del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi
volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati
eseguitocoire. Ma il fondamento dei malifula corruzione della città, la quale, datasi
all'avarizia,alle delizie, era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne
nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si
viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione
degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte
volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che se non fussino state le pro
lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la
repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via, essendo la
città corrotta? Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici
fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in
disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra, Machiavelli sostiene che
si deve fare col ferro e non coll'oro: ibuoni sol dati soltanto sono il nervo
della guerra e non l'oro: occorrono certo I danari,ma in secondo luogo,essendo
impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Guicciardini, che si attiene
alla vita reale, in cui nonc'erano armi proprie,se si eccettua il tentativo
fatto in Firenze sotto il gonfaloniere SODERINI, per impulso generoso di
Machiavelli; CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. G., ilquale
era stato governatore di pro vincie, commissario generale negli eserciti e cono
sceva la venalità dei capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano
la fede giurata e rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello
stesso avviso,sapendo per esperienza che occorreva danaro per avere illustri
capitani, milizie e buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è
il nervo della guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra,
nè siano più necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi
cola. All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo
di danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo
sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni
e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto
profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene
qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle
vittorie li provvede, nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi
:e in ogni caso e in ogni tempo non corronoidanari dietro agli eserciti, se non
da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle
fortezze e alle armi da fuoco,che Machiavelli, per stare troppo attaccato
all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose
che utili. G. lo riprende con ragione e dice. Non si deve lodare tanto
l'antichità che l'uomo biasimi tutti gli ordini moderni che non erano in uso
appresso a’ Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon
considerate dagli antichi, e, per essereinoltrei fondamenti diversi,con vengono
o sono necessarie a una delle cose che non convenivano,o non erano necessarie
all'altre.Però se i Romani nelle città suddite non usarono edificare fortezze, non
è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per
i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel
Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali
portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un
principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che
in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro
tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina, perchè
gliuomini, sotto fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e
dalle cagioni che fanno infermare? Certo si deve deplorare che queste fortezze
G. l’estimasse utili soltanto ai principi per guar darsi dai popoli,desiderosi
di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso
questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del
l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle
stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile
conflitto. G., come uomo di stato, supera d'assai Machiavelli, e bastano a
dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai discorsi del
celebre segretario sulla prima deca di LIVIO (vedasi), nelle quali, colla
fredda acutezza della sua mente calma, colpisce sempre il lato debole
dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile, i ragionamenti
poetici ed entusiastici, mettendone a nudo ora la fallacia, ora la
indeterminata incertezza. Nella storia dei filosofi italiani non si trova una
figura che puo reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia mancato a G.
per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima deca
di LIVIO (vedasi), perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della
vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del
se gretario fiorentino. Nome compiuto: Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords:
implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini:
l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guzzi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della lingua inaudita
-- la lingua inaudibile, la lingua audita – filosofia lazia – scuola di Roma --
filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Roma). Abstract. Grice: “There’s something self-consciously
witty about the Italianism of a ‘lingua inaudita.’ But even in the ‘positive’ –
lingua audita – is a bit of a figure of speech already – it’s not a TONGUE that
we hear – but a sound – Indeed, “Someone is hearing a noise” is my example in ‘Personal
identity’ and ‘Negation and Privation’ (Somone is NOT hearing a sound’). But it
is not strictly ‘noise’ or ‘sound’ we hear – we hear phones, and phonemes –
these are THEORETICAL CONCEPTS, in the sense that, as I reflect on ‘soot’
versus ‘suit’ – they require an analysis – a componential analysis – in terms
of ‘distinctive features’. The phenomenon of ‘suit’ being pronounced like ‘soot’
– as in ‘foot’ or ‘put’ – is best understood through the lens of phonological
variation and the evolution of English vowel ounds. Here’s a breakdown of the
phonological explanations. VOWEL MERGER AND historical sound changes.
Historically, the vowel in words like ‘suit’ – originating from French loans –
involved a DIPTHONG like /ju:/ -- a ‘yoo’ sound. Over time, particularly in
certain dialects and regions, the initial ‘j/ or “y” sound in the dipthong was
LOST, leaving only the /u:/ sound – as in ‘moon’ or ‘boot’ --.Meanwhile, ‘soot,’
a native English word, has typically been pronounced with the SHORTER, laxer
/u/ sound – like in ‘foot’ or ‘put’. However, in SOME DIALECTS, a MERGER
between /u:/ and the /u/ sound has occurred, especially when these vowels are
in similar phonological environments. This means that in these specific
dialects, words like ‘suit’ and ‘soot’ can become homophones, pronounced
identically. The pronunciatn of ‘suit’a ‘soot’ is not universal across all
English dialects. Some tend to retain the /u:/ sound in ‘suit,’ while certain dialects
exhibit the pronunciation with the /u/ sound. The fact that ‘soot’ can be used
as an informal rendering of ‘suit’ in writing highligs the phenomenon of
homophony, were words wth different meanings and spellings are pronounced
IDENTICALLY. In essence the pronunciation variation in ‘suit’ can be attributed
to historical sound changes – th loss of the /j/ sound and potential vowel
mergers – and regional and dialectal differences: variations in how the English
language has evolved and in spoken across different regions. It is important to
remember that language is constantly evolving, and pronunciation shifts are a
natural part of that process!” Keywords: Grice, Guzzi. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a
foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore
dei seminari del Centro studi Eugenio Montale. La poetica di G., fin
dall'inizio, si è concepita come un'esperienza spirituale, una ricerca di stati
più dilatati della coscienza, sulla scia della linea che da Hölderlin, e
attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore ermetismo. La ricerca
teoretica di G, ha affrontato, in particolare nel saggio filosofico La svolta,
significativamente sottotitolato "La fine della storia e la via del
ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo avviso l'uomo è
chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere: Raccolte di
poesia Anima in vetrina, Il Giorno,
Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca, Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella
mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline, Saggi di filosofia e di religione La Svolta,
Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio,
Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La
profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità,
Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine
all'inizio, Paoline, Dodici parole per
ricominciare, Ancora Il cuore a nudo,
Paoline, Buone Notizie, Ed. Messaggero Imparare ad amare, Paoline L'Insurrezione dell'umanità nascente,
Edizioni Paoline, Fede e Rivoluzione,
Paoline Il profilo dell'Uomo di Dio,
Paoline Alla ricerca del continente
della gioia, Paoline “Dizionario della
lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with ‘lingua inaudita’ – literally
‘unheard of’ – but ultra-literally turns his dictionary into a magical
oxymoron! Nome compiuto: Marco
Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guzzo: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- pagine di filosofi –
idealisti ed empiristi -- filosofia campanese – filosofia napoletana – la scuola
di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Abstract.
Grice: The Italians have the BIBLIOTECA ITALIANA DI FILOSOFIA – Oxonians don’t!”
– Guzzo published “Idealisti ed empiristi’ for the Biblioteca!” Grice’s philosophical
formation was admirable. Having been accepted as a scholar at Corpus, it did
not come as a surprise to him that Philosophy was only introduced after the
completion of the third term. Whereas
in Italy, “they teach philosophy in the licei!” -- Keywords: Grice, Guzzo,
pagine di filosofi pei giovani italiani. Filosofo napoletano. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. Grice: “I admire Guzzo; he founded ‘Filosofia,’ a
philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected ‘pagine di filosofi
per i giovani italiani.’ He wrote
interesting essays on “Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a
very systematic philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes
sphynx – that says it all!” Si
laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e Pisa. Fonda
"Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo di Gentile. È
considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo. Saggi:
“Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”; “Idealisti ed
empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo” (Brescia,
Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”; “Religione;
“Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario
Biografico degli Italiani, Treccani.L’ISAGOGE DI PORFIRIO E I COMMENTI DI
BOEZIO TORINO L’ERMA, ESTRATTO dagl’Annali dell’ Istituto Superiore di
Magistero del Piemonte. TORINO - L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio.
Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. Questioni su le
Categorie. L’Isagoge. Il prologo. Il primo commento di Boezio al prologo
dell’Isagoge. Il secondo commento di Boezio. Le cinque voci. Il genere. La
specie. La differenza. La qualità. L’accidente. Quel che hanno di comune le
cinque voci. Comparazione del genere con le alti e quattro voci. Comparazione
della differenza con le altre quattro voci. Comparazione della specie con le
altre quattro voci. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci.
Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. Il primo commento di
Boezio alla dottrina delle cinque voci. Il dialogo premesso al primo commento
di Boezio. Divisione della filosofia. Il secondo commento di Boezio.
Conclusione. Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti
costituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato nell’Istituto
Superiore di Magistero del Piemonte, Volevo dare una conoscenza possibilmente
precisa di quel che e l’istruzione e la cultura nell’alto medioevo ed esposi i
testi che in quei secoli sono più meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo
sfondo d’idee su cui sorse più tardi, sui primi periodi dell’Isagoge, la
disputa degli universali. Porfirio, che è autore della celebre Isagoge, o
Introduzione alle X Categorie di Aristotele, è anche autore di un meno noto
commentario alle medesime categorie. Sarà utile studiare almeno la prima parte,
cioè la parte introduttiva di tale commentario. Forse si troverà in essa la
spiegazione del punto di vista dal quale si pone Porfirio nell’Isagoge. Questo
commentario ci è pervenuto mancante dell’ultima parte - quella riguardante le
ultime quattro categorie e i post-predicamenti - e assai scorretto e guasto
anche nella parte precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato, in un codice
della Marciana, in uno dell’Escuriale, in uno parigino, in uno della
Laurenziana. E' però dimostrato che di tutti questi codici il primo, da cui
tutti gli altri dipendono direttamente, è quello modenese. Di sul codice
parigino il commento e stampato a Parigi apud Bogardum. Su questa edizione, che
è l’edizione principe, del commentario, e condotta la versione latina di
Feliciano, stampata in Venezia apud Scotum. L’ edizione critica si deve alle
cure ogica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari. Ma avviciuarli
alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo corso, che e rimasto
inedito, va messo tra i lavori da me preparati per l’Istituto Superiore di
Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli: Apologia dell’idealismo (Discorso
inaugurale), Torino, Paravia; Introduzione e Commento al i^edone di Platone,
Commento alla Repubblica di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera
Religione^Firenze, Vallecchi; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro- duzione,
Commento e Appendici, Firenze, Vallecchi; Tommaso d’Aquino, Il maestro,
Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze, Vallecchi; Giudizio e azione,
Venezia, «La Nuova Italia»; Agostino e il sistema della grazia, Torino,
«L’Erma»; Il concetto di individuazione e il problema morale (Discorso
inaugurale), Torino, L’Erma; La Summa contra Gentiles, Torino, « L’Erma », 1931
; I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma] di Busse, nell’edizione dei commenti
ad Aristotele, promossa dall’Accademia Prussiana: Porphyrii Isagoge et in Aristotelis
Categorias commentarium edidit Busse. — Berolini, Typis et impensis Reimer). Il
commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in londo, un dialogo, ma
in cui le persone degli interlocutori non hanno alcun rilievo ; la domanda
parte da uno che non sa e chiede spiegazioni. La risposta enuncia,
evidentemente, la soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle
varie questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano il più
giusto significato da attribuire alla lettera del testo del LIZIO, prima
vertono su problemi che investono rimpianto stesso del piccolo saggio del
LIZIO. Prima questione. “Categoria” in greco vuol dire accusa, denunzia, fatta
all’AGORA, o assamblea. Come mai Aristotele chiama categorie l' I essenza, la
II quantità, la III qualità, ecc.? La risposa è che il filosofo, costretto
talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a dare un significato nuovo a parole
consuete, adopra la parola “categoria” per indicare le espressioni enunciative
delle cose (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat-
YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espressione enunciativa, quando
sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice categoria. Per esempio:
se la cosa che vien mostrata è questa pietra che tocchiamo e che vediamo,
quando di essa diciamo: «questa è pietra», l'espressione «pietra» è il
categorèma, giacché indica la cosa e vien detta di essa. Seconda questione. —
Il LIZIO chiama il suo scritto Categorie o, come altri, Le X Categorie?
Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto quanto gli
altri. Prima della Topica, dei generi dell'essere, dei X GENERI generi. Non
Prima della Topica perché in tal caso sarebbe stato più esatto dire Prima
degl’Analitici, anzi prima dell’interpretazione, chè il saggio delle Categorie
è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa, E
piuttosto sarebbe Prima della parte fisica della filosofia. Anziché Prima della
Topica: chè è opera della natura l’ I essenza, il quale e simili. Nè il saggio
potrebbe in nessun caso intitolarsi “Dei generi dell’essere” o “dei X generi,”
perchè gl’esseri e i loro generi e le specie e le differenze sono cose e non
voci. Invece, Aristotele, enumerando le X categorie, l’ I essenza, il II quale,
il III quanto e le rimanenti, dice che ciascuna delle dette si dice per sé
stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione, o affermazione, avviene
mediante connessione di esse tra loro. Or se è la connessione delle categorie
quella che dà luogo all’asserzione, e se l’asserzione consiste in voce
indicativa e discorso dimostrativo (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), il
saggio aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè in generale le
cose. Chè non la connessione delle cose costituisce l’asserzione, bensì la
connessione della voce significativa che indica la cosa. E Aristotele stesso
dice che ciascuna delle categorie dette senza alcuna connessione significa o
l’essenza o il quanto, con quel che segue. Ora, se Aristotele parla di cose,
non direbbe “”significa” l’essenza, chè la cosa NON SIGNIFICA, bensì E
SIGNIFICATA. Ciò che SIGNIFICA è la voce, la parola: di voci, di parole dunque,
tratta Aristotele nelle Categorie. Perchè, poi, debba essere questo il titolo
dello scritto, e chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto
proprio del saggio. Quale è dunque il contenuto proprio delle Categorie?
Porfirio risponde rifacendosi di lontano. L’uomo - egli scrive - giunto a
indicare e significare le cose circostanti, pervenne a nominarle con la voce e
a indicare con questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fa delle
parole e rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci e di parole; col
quale riferimento delle voci alle cose questo chiama “sedile”, quello “uomo”,
quell’altro “cane” e quell’altro “sole”. E ancora questo colore chiama
“bianco”, quello “nero”; e questo chiamò numero, quello grandezza ; questo “due
cubiti”, quello “tre cubiti”; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi
significativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della voce.
Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune parole, l’uomo,
passando ad una seconda impresa e riflettendo sulle parole stabilite, quelle
che si uniscono agl’articoli chiamò nomi, e quelle come io passeggio, tu passeggi
chiamò verbi. Di modo che, se nella prima imposizione di nomi questo chiamò oro
e quello sole, nella seconda la voce oro chiamò nome e la voce passeggio verbo.
Ora il contenuto delle Categorìe del LIZIO è precisamente il primo stabilimento
delle parole, quello che mostra le cose: giacché studia le voci significative
semplici, in quanto significative delle cose, distinguendole non l’una
dall’altra individualmente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose
che significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appartengono. Ora
l’infinità degl’enti e delle parole che li significano si lasciano ridurre a X
generi: giacché X sono le differenze di genere degl’enti, e X anche le voci che
le indicano. Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano le
differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca principale sia,
nelle Categorie intorno alle voci significative, e non intorno alle differenze
di genere degli enti. X sono i generi delle parole in quanto significative di
cose: ché significano o l’essere (la I sostanza), ó la II quantità, la III
qualità, la IV relazione, ecc. (i IX ACCIDENTI della SOSTANZA). Due, invece,
sono le parole che significano il tipo a cui appartengono; giacché tutte le
voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla quale seconda ricerca -
grammaticale, non logica, diremmo noi appartiene anche distinguere la
espressione propria dalla metaforica e dagli altri tropi. Presentata cosi la
ricerca delle Categorie come una ricerca nè metafìsica, nè grammaticale, nè retorica.
Non metafìsica perchè secondo Porfirio, è incidentale il riferimento ai generi
dell’essere, essendo l’attenzione rivolta ai generi delle parole significative,
in quanto appunto significano questo o quello. Non grammaticale, perchè nelle «
Categorie » non si distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è
distinzione tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che
significano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. Porfirio osserva
che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca delle Categorie come
una ricerca, noi diremmo, di filosofia del linguaggio, e gl’antichi dicevano di
logica, comunemente identificando col pensiero la sua significazione verbale,
si schieravano tanto quelli che ritenevano oggetto principale delle Categorie
la ricerca metafisica intorno ai generi dell’essere, quanto quelli che.
credendo oggetto delle Categorie la ricerca retorica delle espressioni proprie
e delle figurate, ritenevano la distinzione aristotelica delle Categorie o insufficiente
o incomprensiva o, al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per
esempio, i seguaci di ATENODORO e di CORNUTO, studiando le espressioni proprie
ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse appartenessero, non
trovando nel saggio aristotelico risposta a tale domanda, ritennero manchevole
e difettosa l’enumerazione aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci
significative. Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto
d’Aristotele POETO nel suo commento alle Categorie, e più brevemente ERMINIO.
Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli che in natura sono i primi
e generalissimi generi nè studia quali siano le prime ed elementari differenze
delle parole, come se la trattazione riguardasse le parti del discorso; ma
piuttosto verte sulla specie di parole che risulti appropriata a ciascun genere
di enti: onde e necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui le parole
si riferiscono -- chè non si intende la significazione propria di ciascun
genere se qualcosa intorno ad esso non s’anticipa. Poiché X sono i generi, X
sono le categorie. E si potrebbe magari anche intitolare lo scritto
aristotelico Dei X generi se con ciò si significasse solo un riferimento ai X
generi, giacché non di essi si occupa principalmente il saggio. Perchè il libro
verte su le Categorie e s’inizia con una trattazione su gl’omonimi e i
sinonimi? Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve fare uso
in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra considerazione. Tralasciamo,
ora, il seguito del commento Porfiriano; ma ci gioverà aver visto come Porfirio
intende quelle Categorie alle quali s’assunse lo storico compito di introdurre
. La celebre Isagoge di Porfirio tratta del genere, della differenza (che,
entro ciascun genere, distingue l’una dall’altra le specie), della specie,
della proprietà (che caratterizza ciascun genere e ciascuna specie) e
dell’accidente, che, senza essere intrinsecamente proprio d’una sostanza, le si
attaglia in talune circostanze. La trattazione del genere è, però, preceduta da
una famosa introduzione, nella quale Porfirio si rivolge a CRISAORIO, patrizio
romano suo discepolo, dicendo. oiché, o Crisaorio, è necessario anche per la
dottrina aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che differenza,
e che sia specie e che proprietà e che accidente; siccome e per assegnar le
definizioni e in generale per quel che riguarda la divisione e la-
dimostrazione è utile l’indagine di tali cose: io, facendo per te una
compendiosa trattazione, tento brevemente, come a mo’di introduzione, di
spiegare il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più € profonde
e investigando, invece, opportunamente le più semplici. Le ricerche più
profonde, da cui Porfirio professa di astenersi, riguardano la realtà dei
generi e delle specie, in una parola degli universali. Difatti Porfirio
continua. Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece c stiano
solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi o incorporei, e se
separati o esistenti nei sensibili e non fuori di essi, io evito di dire,
profondissima essendo questa questione e richiedendo essa altra maggiore
ricerca. Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà a cercare d’esporre a
CRISAORIO ciò che gli’antichi meditarono intorno a questi argomenti, e tra essi
specialmente il LIZIO. Porfirio, dunque, tratta dei generi e delle specie senza
determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici concetti, esistenti
solo nella mente che li pensa. Ma, per conto suo, per quale di queste dottrine
propende? Grià si è visto che egli considera generi, specie e differenze cose,
non voci e che, in generale, ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro
ragion d’esseie in altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno
espressione. Per Porfirio dunque, generi e specie riguardano l’essere, e se
egli prelude alla logica aristotelica trattando d’essi, in fondo egli ridà alla
logica d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta a
distinguere generi e specie e valida, nella filosofia di Platone, tanto
oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente, come logica. Questo
punto di vista realistico da cui è scritta l’intera Isagoge non sfugge,
nonostante tutto, al commentatore BOEZIO, il quale torna sulla importante
questione cosi nel primo come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge. È noto
che i due commenti son diversi tra loro in quanto il primo si dirige ai
principianti e quindi evita le discussioni troppo complicate e sottili, il
secondo, invece, vuol indurre i discepoli già provetti a una ginnastica mentale
adatta alle loro forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che
la questione degli universali, giacché ormai di essa si tratta, e impostata
diversamente nei due commenti, sebbene la trattazione giunga a risultati assai
affini. Il primo commento di BOEZIO giunge a interpretare il prologo
dell’isagoge solo al decimo capitolo, e mostra chiaro lo sforzo di ricorrere
alle argomentazioni e dimostrazioni più semplici, affinchè i principianti possano
intenderle ed afferrarle. In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni: se
generi e specie esìstano davvero o stiano solo neirintelletto e nella mente; se
siano corporei o incorporei; se siano separati o uniti con i sensibili.
Rispetto alla prima questione, se generi e specie esistano davvero, o stiano
solo nell’intelletto e nella mente, BOEZIO sembra interpretarla in un modo che
forse non coincide interamente con ciò che intende Porfirio. Questi intende
domandarsi: generi e specie sono idee platoniche, cioè enti, o invece concetti
aristotelici, cioè universali puramente mentali nati nel pensiero e dal
pensiero? Se sono idee platoniche, si intende che sono, non solo incorporee, ma
separate. Se invece sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella
mente, a forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili. La
questione, dunque, è: gli universali vanno concepiti platonicamente, ante rem,
o aristotelicamente, post rem, giacché in re essi esistono, ma intimi alle
stesse cose particolari? Se questo è ciò che intende domandarsi Porfirio, si
capisce come egli preferisca rimandare questa controversia prò ACCADEMIA o prò
LIZIO a un momento in cui il suo discepolo CRISAORIO sia già innanzi negli
studi filosofici. Ma BOEZIO intende la questione in maniera assai diversa. Egli
non intende i generi e le specie se non come universali mentali post rem, come
concetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la sensazione: per sensuum
qualitatem res sensibus subiectas (animus) intellegit. Dalla sensazione lo
spirito parte per concepire le specie ed i generi: et ex bis -- le cose
sensibili -- quadam speculatione concepta, viam sibi ad incorporalia
intellegenda praemunit. Così, quando vede i singoli individui umani, sa d’aver
visto uomini, sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale a
discernere la stessa specie uomo, incorporea perchè non si concepisce che con
la mente e l’intelligenza. Ma, come movendo dalla sensazione lo spirito giunge
a comprendere le cose incorporee, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo
spirito arriva a immaginarsi, per esempio, un centauro, la cui fallace immagine
si compone di elementi della forma umana ed elementi della forma equina. Or si
domanda: generi e specie sono concepiti con verità, sicché comprendiamo la
specie uomo giustamente ricavandola dai singoli uomini corporei, o invece sono
immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla ORAZIO nell’Arte
Poetica, quando dice: fiumano capiti cervicem pictor equinam iungere si velit?
Come si vede, BOEZIO non crede che la domanda di Porfirio sia rivolta a sapere
se gl’universali siano reali o puramente mentali, ma se siano concetti veri o
pure finzioni dell’immaginazione. Il che significa porsi già su terreno
prettamente aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gl’universali
post rem siano rettamente pensati o fallacemente immaginati, o, con altre
espressioni, se siano concetti o puri sogni e chimere. La risposta che BOEZIO
dà a questa domanda è, se non erriamo, singolarmente infelice. Per lui non è
dubbio che i generi e le specie sono veramente. Difatti, come tutte le cose che
veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non si può
dubitare che anche queste cinque son concepite con verità -- vere intellectas.
Che è una strana maniera di presupporre gl’universali reali nelle cose
sensibili, quando proprio la domanda è se gli universali siano reali o fallaci.
Per BOEZIO, genere, specie, differenza, proprietà, ed accidente, queste cinque
distinzioni nelle cose sono conglutinatae et quodam- modo coniunctae atque
compactae. Difatti, perchè Aristotele parla delle prime X espressioni
(sermonibus) significanti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro
differenze e proprietà e toccherebbe degl’accidenti, se non li avesse visti
nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti -- in rebus intima et
quodammodo adunata ? In base a questa argomentazione BOEZIO conclude che se è
cosi, non c’è dubbio che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni)
con giusta riflessione -- certa animi consideratione. Ma si vede chiarissimo
che BOEZIO dà per certa e dimostrata la concezione aristotelica degl’universali
come forme immanenti nelle cose particolari, onde conclude che lo spirito,
pensandoli, è nel vero e non nell’errore delle pure finzioni immaginarie. Ma se
la questione erper Porfirio se gli universali fossero reali o puramente
mentali, e per BOEZIO se fossero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè
la questione porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con l’appellarsi
alla concezione aristotelica di universali reali nei particolari, e quindi
veri, post rem, nello spirito umano. Questo è un affermare il temperato
realismo aristotelico, non un risolvere la questione con un procedimento
dimostrativo. BOEZIO presuppone dimostrato l’aristotelismo per decidere in
senso aristotelico e su l’autorità del LIZIO la questione da lui posta.
Senonchè BOEZIO trova un’altra conferma realistica- della sua opinione
nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio. Giacché, egli dice,
Porfirio, come se già fosse risaputa e provata la realtà degl;universali,
domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola
e assurda se non si fosse prima assodata, per gl’universali, quella realtà che
ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche qui forse BOEZIO,
neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello che egli intende dire. Porfirio
domanda: — generi e specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso
platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può ad essi
attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire, se reali, nel senso
platonico, sono separati: se meramente men- tali, non possono concepirsi che
immanenti nei corpi, congiunti con essi e da essi inseparabili, tranne che per
astrazione nel pensiero umano. Se questa che qui proponiamo fosse una
interpretazione plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi
contenute in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono reali,
o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei corpi? cioè, sono
separati, o intrinsecati nei corpi e da essi inseparabili? Ma BOEZIO le intende
come tre domande, ciascuna delle quali presupponga già risolta in un
determinalo senso le precedenti. Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda
se gli universali siano reali si risponde affermativamente, si può poi
domandare se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo se a
questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli universali, si può domandare
se, essendo incorporei, esistano separati dai corpi o siano da essi
inseparabili. Rispetto alla seconda questione se gli universali siano corpi o
incorporei BOEZIO tratta separatamente il genere dalla specie. Quanto al genere
egli dice, quia incorporeorum prima natura est, può una cosa incorporea essere
madre di una corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza essendo il
genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non può essere
corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non potrebbe
subordinarglisi. Dal che discende che il genere non deve essere nè corporeo nè
incorporeo, si da poter avere per specie così il corporeo come Tincorporeo. E
qui Boezio solleva una questione di grandissima importanza. Se il genere non
può avere nessuna delle determinazioni che costituiscono le proprietà delle
specie e le loro reciproche differenze, donde nascono nelle specie queste
differenze che nel genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? Non si
può pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della
ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse- dere in sè due
contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che, per poter dare luogo cosi
alBuna come alEaltra delle due specie, il genere non abbia nè Buna nè Taltra
delle due differenze specifiche: non sia nè Tuna nè l’altra specie, pur
contenendole entrambe « vi sua et potestate. Ed anche questa è, come si deve,
una soluzione prettamente aristotelica della questione: il genere è «in
potenza» le sue specie, senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui
il caso di saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile tentativo di
spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del nascere delle differenze, le
presuppone già esistenti, e tuttavia non ancora reali, giacché sono potenziali,
virtuali. Si è visto dunque che per Boezio il genere non è nè corporeo, nè
incorporeo : il che significa, su questo punto, non rispondere alla domanda di
Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E la ragione di tutto ciò è chiara. Porfirio è
tutt’ altro che convinto che gli universali siano puri concetti: ecco perchè
egli tende ad affermarli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono
semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con Platone ed
anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura, prima del corporeo, pure è
costretto, dalla sua concezione mera- mente logica e non metafisica degli
universali come concetti e non come idee, a pensare il genere come privo delle
determinazioni che saranno proprie delle specie: a costo di non sapere più d
donde derivino alle specie queste differenze, che sono estrai alla sola fonte
delle specie che è il genere. Ma BOEZIO si illude che ammettere la potenziale
presei delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: (inoltra
nella considerazione meramente logica del genere co semplice concetto, adatto
esclusivamente alle classificazi scolastiche dei concetti secondo la loro
estensione, mentre, ] Platone, il genere era pregnanza di realtà o idea. Quanto
alle specie BOEZIO ne ammette di corporee e di ine poree: specie corporea
l’uomo; incorporea: il divino. Parimenti le differenze: quadrupede è differenza
cor rea ; ragionevole differenza incorporea. Cosi anche le proprietà: corporee
di cose corporee; ine poree di cose incorporee. E lo stesso è degli accidenti:
accidente incorporeo è nello s ritolascienza: accidente corporeo èsul capo la
capigliatura cres Insomma per BOEZIO, solo il genere è neutro, nè corpor nè
incorporeo: ma le specie, le differenze, le proprietà e accidenti sono corporei
se appartengono ai corpi, incorporei appartengono allo spirito. Senonchè, in
questa teoria, lo stesso BOEZIO, che non potuto riconoscere incorporeo il
genere per la sua conside zione meramente logica di esso, ammettendo corporee
le spe( le differenze, le proprietà e gl’accidenti delle cose corpor rinunzia a
considerare specie, differenze ecc. come distinzi meramente logiche, e non solo
le pensa metafisicamente intr secate nelle cose singole, ma fatte una cosa sola
con esse, da ricevere la loro stessa natura. Torna, bensì, a una considerazione
meramente logica de distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora
espos una seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo altrui.
Secondo questa teoria il genere va considerato coi genere, come pura
determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere
considerata come una sostanza, ma come un genere, cioè come qualcosa che ha
delle specie sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno specie
della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure specie, cioè come concetti
che stanno sotto un genere. Parimenti le differenze: bipede e quadrupede sono
differenze in quanto l’uno contrapposto all’altro: vanno, dunque, considerati
non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze logiche. Similmente
le proprietà non vanno considerate nel loro contenuto, ma come pure
caratteristiche logiche della specie. Così intesi, generi, specie, differenze e
proprietà, come pure distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria
che Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli accidenti
avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb- bero quindi corporei o
incorporei a seconda delle sostanze. Sia qui notato subito che questa
affermazione metafìsica della incorporeità di quattro fra le cinque distinzioni
porfiriane proprio perchè distinzioni meramente logiche, è una affermazione
cosi male impostata da non poter resistere alla più semplice critica. Come
semplici distinzioni logiche esse non hanno nessuna natura: il loro contenuto
ha una determinata natura, non esse: nella specie uomo, l’uomo è corporeo e
ragionevole, ma € la specie nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi la
incorporeità della specie come distinzione logica, come concetto, è
impossibile; per dirla incorporea bisogna considerarla come idea, come ente
metafìsico, non come determinazione logica. Ma dirla incorporea perchè logica è
un abuso inammissibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo
oscillar e tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella tradizione
LIZIA. Pensati gli universali come concetti, essi non sarebbero più
suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: invece continuano a essere
dichiarati, metafìsicamente, incorporei, primi per natura, ecc., mentre, come
puri concetti, essi non sono che vuoti termini classifìcatorii. Ma Boezio
continua a esporre la teoria della incorporeità delle distinzioni logiche,
dicendo che coloro i quali sostengono tale teoria s’appoggiano all’autorità di
Porfirio stesso, il quale, come se fosse già dimostrata la incorporeità dei
generi, delle differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose
sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare se siano
disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. BOEZIO, invece, dà tutt’altra
interpretazione a questa domanda porfiriana, in quanto la intende come se
suonasse: gli universali sono sempre separabili dai particolari sensibili, o a
volte inseparabili?, e però non gli sembra che la domanda porfiriana
presupponga, come se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte
le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determinazioni logiche.
Egli passa perciò a interpretare direttamente la terza domanda, lasciando da
parte la teoria della incorporeità dei concetti, ed ha l’aria di averla
riferita a puro titolo di informazione, ma ritenendola infondata e
insostenibile. Per lui, dunque, le specie sono talune corporee, talune
incorporee. Si domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o
possano a volte disgiungersene. BOEZIO, per chiarire la domanda porfiriana,
distingue tre specie di cose incorporee: Cose incorporee affatto insuscettive
di corpo, come lo spirito e Dio; Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come
lo spazio vuoto che è immediatamente oltre i termini di una figura geometrica ;
Cose incorporee che sono corpi e possono essere senza corpo, come l’anima. Si
domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli incorporei sempre
separati da corpo, o di quegli altri che mai non possono separarsene, o infine
di quelli che a volte si uniscono, a volte si separano. La risposta di BOEZIO è
che possono congiungersi e possono separarsi: che nelle cose corpoi'ee son
congiunti a corpo, nelle incorporee disgiunti da corpo. Ma non bisogna credere
che tutte le specie, le differenze, le proprietà, ecc. siano congiungibili o
disgiungibili dai corpi; al contrario quelle delle cose corporee sono
inseparabili da tali cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai corpi che
limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà dello spirito non si
trovano che nello spirito, che è perfettamente separato dal corpo. BOEZIO
ribadisce la sua concezione: ci sono due ordini di realtà: corporee ed
incorporee; le incorporee sono per natura e dignità anteriori alle corporee, e
andrebbero considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le corporee
e le incorporee come tra loro coordinate, e le subordina entrambe ad un genere
nè corporeo nè incorporeo, che avrà magari in sè la potenza delle une e delle
altre, ma che intanto, così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di
una classificazione logica da scuola, non la genesi del reale. Nel secondo
commento di BOEZIO le domande di Porfirio sono presentate ed interpretate come
nel primo: ma ne è diversa la trattazione. Le questioni et perutiles et
secretæ, et temptatæ quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutæ, non
trattate ancora da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore
impreparato, ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato
dal sapere, sappia che domandare, sono da BOEZIO formulate così: Lo spirito o,
con l’intelletto, concepisce, afferra quello che realmente esiste in natura e,
con la ragione, lo copia in sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge
a sé medesimo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che
noi abbiamo del genere^ della specie, ecc.: se intendiamo generi e specie come
cose esistenti delle quali prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi
ci inganniamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono. Che se si
ammette che dei generi, delle specie, ecc. abbiamo un vero concetto, rimane da
determinare se siano corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve
essere corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i generi e le
specie finché non si sappia se porli tra le cose corporee o le incorporee. Che,
se si ammette che generi, specie, ecc. siano incorporei, rimane ancora da
stabilire se, pur essendo incorporei, esistano nei corpi, o se invece sembrino
essere sussistenze indipendenti anche senza corpi. Giacché ci cono due specie
di cose incorporee (qui BOEZIO sopprime la terza specie da lui distinta nel
primo commento: quella delle cose incorporee che a volte si uniscono ai corpi,
a volte se ne separano, e la fonde senz’altro con la prima specie): ci son cose
incorporee che possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano
nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose incorporee, invece,
non possono esistere senza i corpi, come la linea, la superficie, il numero e
le varie qualità, che noi diciamo incorporee perchè non si estendono nelle tre
dimensioni, ma che esistono nei corpi siffattamente da non poterne essere
strappate o separate, o da svanire se separate dai corpi. Come si vede, le
questioni sono impostate come nel primo commento. Ma qui BOEZIO si propone di
trattarle altrimenti: primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam,
post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare temptabo. nsomma,
prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere a fondo, contro ogni
concezione dell’ACCADEMIA o del LIZIO degl’universali, sia come reali, sia come
concetti: poi giustificherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare
che son veri, nel pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in natura,
se non nei particolari. BOEZIO scrive: i generi e le specie o sono e
sussistono, o si formano con l’intelletto ed esistono solo nel pensiero, ma non
possono essere generi e specie. Anzitutto, generi e specie possono essere
considerati reali? Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più altre, non
può essere una: specialmente se sia tutta in molte contempora- neamente. Ora il
genere dovrebbe essere uno in tutte le sue specie: e non nel senso che ogni
singola specie prenda per sè una parte del genere, ma nel senso che ogni
singola specie ha in sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in
ciascuna delle sue specie contemporaneamente, come può essere uno? giacché, se
è tutto in più specie, in sè non può essere uno di numero. E se non può essere
uno, non è nulla assolutamente, perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo
stesso va detto della specie. Che se si dice che la specie o il genere esiste,
ma molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo, bensì avrà sopra
di sè un altro genere, che includa quella moltepli- cità nella propria unità.
E, daccapo, se questo nuovo genere sarà a sua volta molteplice, non uno,
rinvierà ancor esso a un altro genere: e cosi di seguito, airinfinito, senza
che sia dato trovare un genere che sia uno di numero pur essendo comune a tutte
le sue specie. Che se si dice che il genere è uno di numero, non potrà essere
comune a molti. Giacché una cosa può essere comune a molte, ma solo in uno di
questi tre casi: che ciascuna sua parte si applichi ad un particolare diverso:
sicché il genere non stia tutto in ciascuna specie, ma in ogni specie una sola
parte del genere; che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché, ma
l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. Esempio : più persone hanno un
solo servo o un solo cavallo: si capisce che non possono servirsene tutte con
temporaneamente, ma l’una prima, Taltra dopo); che qualcosa sia comune a molte
persone, ma senza costituire la loro essenza. Esempio : il teatro è luogo
comune a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune ad essi
tutti). Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle tre forme ora
dette: giacché deve essere tutto in ciascuna specie, deve essere
contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi- tuire Tessenza delle
specie a cui è comune. Ora, se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè
molteplice (giacché, se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore), il
genere non è per nulla. E lo stesso va detto delle specie, delle diiferenze,
delle proprietà e degli accidenti. Se genere, specie, ecc. non sono, resta che
siano còlti solo con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una
realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da esso. Se
conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo nel pensiero, ma anche
nella realtà, e risorge la domanda come possano essere uni e molteplici ad un
tempo, con la conclusione di pocanzi, che cioè, genere, specie, ecc. non sono.
Se difformemente, non possono essere che vani e falsi dei concetti difformi
dalla realtà nel suo vero essere. Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono,
nè, quando son pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio
che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distinzioni
porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè su qualcosa di cui sia
possibile farsi un vero concetto. A questa obiezione che mirerebbe, come si
vede, a scalzare tutta intera la dottrina porfiriana delle cinque primissime
distinzioni logiche, BOEZIO risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di
Afrodisia, di cui accetta e riproduce Targo - montare. Non è vero, scrive
BOEZIO, che sia falso e vano ogni concetto che si scosti dall’essere reale delle
cose. Se la mente mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una
immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna, come quando si
immagina i centauri, componendone mentalmente la figura con elementi del corpo
umano e dell’equino. Ma quando la mente procede non per composizione, ma per
divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde a nulla di obbiettivo, e
tuttavia non è falso. Esempio: la linea non è concepibile che in un corpo:
staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi potè mai
cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da ogni corpo? Ma ciò non
esclude che possa separarla lo spirito e pensarla per sè sola, fuori di
qualsiasi corpo. Onde risulta, nel pensiero, incorporea e separata quella linea
che nella realtà è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso. Ora, i
generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono nei corpi singoli, ma
possono essere separati dai corpi, come puri universali. E come nessuno può dir
falso il concetto della linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre
essa fuori dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto
di genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali mentre essi non
esistono che nei particolari. Gtli è che è prerogativa dell’ntelletto cogliere
la somiglianza dei vari particolari sensibili, fissarla per sè sola e farne una
specie; e poi ancora, cogliere la somiglianza delle varie specie, fissarla e
farne un genere. Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza
d’essenza di individui diversi numericamente l’uno dall’altio: e il genere è un
concetto ricavato dalla somiglianza delle specie. Ma questa somiglianza, quando
è nelle cose singole, è sensibile; quando nelle universali, è intelligibile. O,
che è lo stesso, sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché
generi. specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei
corpi; universali quando son pensati, singolari quando son sentiti nei corpi in
cui hanno esistenza. Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi e
specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in un altro -
fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi e non avessero nei
particolari l’esser loro. Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte
esplicitamente: giacché per il LIZIO generi e specie son pensati incorporei ed
universali, mentre esistono nei particolari sensibili. Platone invece - BOEZIO
ama rammentarlo - ritiene che generi e specie non solo siano pensati come
universali, ma anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E BOEZIO
dichiara espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della
questione non perché egli la approvi di più, ma perché un lavoro, come il suo
commento, destinato a servir di introduzione alle Categorie del LIZIO, ha il
dovere di adottare, in questa questione, preliminare importantissimo, il punto
di vista aristotelico. Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso,
l’Isagoge - alla quale ci conviene ormai ritornare - può intendersi divisa in
due parti: la prima studia separatamente il genere, la specie, la differenza,
la proprietà e Taccidente; la seconda paragona prima il genere alla differenza,
alla specie, alla proprietà e all’accidente; poi la differenza alla specie,
alla proprietà e all’accidente; infine tra loro la proprietà e l’accidente.
Cominciamo ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese separatamente
ad una ad una. Porfirio osserva che la parola “genere” si usa con significati
diversi. Primo significato é quello per il quale genere (o piuttosto gente)
vuol dire stirpe. Esempi: Oreste è delle gente di Tantalo, cioè discende da
Tantalo; Pindaro è della gente tebana, cioè è tebano di nascita. Nel primo caso
è indicato il progenitore, nel secondo la patria. In entrambi il termine da cui
la stirpe, o gente, o genere proviene. Secondo significato è quello per il
quale il genere (o gente, vuol dire quella collettività che è stretta da
un’origine comune Esempio: Gl’Eraclidi costituiscono una gente (o genere)
perchè discendono tutti da un comune capostipite: Eracle. Terzo significato è
quello per il quale si dice genere quello a cui si subordinano le specie, la
cui moltitudine esso contiene sotto di sè. Questo terzo significato, che è
quello che la parola genere ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai
primi due in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi si
dice piuttosto stirpe, cioè l’origine da cui le specie derivano, da essa
prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da tutte la altre specie che
rientrano sotto altri generi. In questo terzo significato genere è quel che si
predica di più cose, differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse
sono. La quale definizione ha bisogno di essere chiarita punto per punto. Quel
che si predica di più cose. Difatti, un predicato (“shaggy”) o si riferiscono
ad una cosa singola o a più cose. Ad una cosa sola si rifere l’individuo, come
quando si dice: questi è Socrate, questi e Fido -- e anche a una cosa sola si
riferiscono: questi e questo. Invece a più cose si riferiscono i generi, le
specie, le differenze e le proprietà e quegli accidenti che risultano comuni,
non propri di una cosa sola. Esempio di genere: animale. Esempio di specie :
uomo. Esempio di differenza (che contraddistingue l’uomo dagli altri animali):
ragionevole. Esempio di proprietà dell’uomo: la capacità di ridere. Esempi di
accidenti dell’uomo: bianco, nero, muoversi. Ora il genere differisce
dall’individuo perchè si predica di più cose, non di una. Ma la definizione
precisa è: Genere è ciò che si predica di più cose differenti tra loro per la
specie», in quanto anche la specie si predica di più cose, ma di cose
differenti tra loro per numero, non per specie. Esempio: La specie uomo si
predica di Socrate e di Platone o CATONE e CICERONE, che differiscono
numericamente in quanto Socrate e Platone sono due individui diversi, mentre il
genere animale si predica dell’uomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro
non solo numericamente, ma per specie. Inoltre: genere è ciò che si predica di
più cose differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. Giacché
anche le differenze si predicano di cose differenti tra loro per la specie, ma
indicano qitali esse sono, non cosa sono. Esempio: se ci domandano che cosa è
Puorao, rispondiamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: Puoino è
animale; ma se ci domandano le qualità dell’uomo, rispondiamo indicando i suoi
caratteri differenziali, la ragionevolezza e la mortalità. Com’è chiaro, il
genere differisce dalla proprietà, perchè questa si predica d’una sola specie e
degli individui di essa, mentre il genere si predica di più specie. E
differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si predichino di più
cose differenti tra loro per specie, ne indicano la qualità, non l’essenza --
come, ad esempio, il color nero. Ricapitolando: il predicarsi di più cose
divide il genere dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di
specie lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la quiddità o essenza
lo divide dalle differenze e dagli accidenti comuni che indicano la qualità. E
questa trattazione del genere non contiene nulla nè di superfluo, nè di
manchevole. Anche specie ha più significati. Significa forma e significa, in
logica, ciò che rientra in un genere (uomo è specie compresa nel genere
animale; bianco è specie del genere colore; triangolo è specie del genere
figura). Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle sue specie, cosi
le specie sono specie solo rispetto al loro genere. Genere e specie cioè sono
concetti correlativi. Cosi la specie vien definita: ciò che è posto sotto il
genere, e di cui il genere si predica per indicarne l'essenza o quiddità. Ma
questa definizione conviene solo alle specie specialissime che sono sempre specie
e non mai generi, mentre le precedenti definizioni convengono anche alle specie
che non sono specialissime. Sono generi generalissimi quelli al di sopra dei
quali non esiste altro genere, come ad esempio I sostanza. Sono specie
specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono altre specie, come,
ad esempio, uomo, che ha sotto di sè immediatamente i vari individui umani. Tra
i generi generalissimi e le specie specialissime intercorrono generi
subalterni, come ad esempio sostanza animata, sostanza animata sensibile,
sostanza sensibile ragionevole. Ciascuno di questi concetti, intermedi tra
sostanza e uomo, è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra, è
genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra. Ad esempio: «sostanza
animata» è specie rispetto a sostanza, è genere rispetto a sostanza animata
sensibile. Ai due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo
che non è mai specie, e l’uomo, specie specialissima che non è mai genere,
mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte generi, a volte specie. Ora,
mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge- nitore in progenitore,
raggiungono il comune capostipite di tuttele famiglie, Giove, non è dato
rinvenire un genere generalissimo unico, a cui tutti i generi subalterni si
lascino ridurre. Al contrario, secondo Aristotele sono X i generi
generalissimi, assolutamente primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli
acci- denti (qualità, quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obiezione che
se questi X PREDICAMENTI sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo
unico, Ve^%ere\ chè, dice Porfirio, l’esenza si predica in senso assai diverso
della sostanza e dei vari accidenti, sicché l’unificazione delle X categorie
neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il significato essere
dall’uno all’altro predicamento. Ora, se i generi generalissimi sono X, i
generi subalterni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito : infiniti,
invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specialissime, e di essi
non si dà scienza. L’ACCADEMIA insegna a dividere, mediante le differenze
specifiche, ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a raggiungere le
specie specialissime, che si dirompono negli individui. Chi discende dai generi
generalissimi alle specie specialissime divide, cioè moltiplica l’unità. Chi,
al contrario sale dalle specie specialissime ai generi generalissimi, raccoglie
la moltitudine in unità. Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune
aduna. Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di esse. Giacché
i concetti più estesi si predicano dei meno estesi (il genere si predica delle
specie), i concetti equipollenti si predicano l’uno dell’altro e l’altro
dell’uno (la proprietà di nitrire si predica del cavallo nella proposizione: Il
cavallo è l’animale che nitrisce, e il cavallo si predica del nitrire nella
reciproca: L’animale che nitrisce è il cavallo), ma non mai i concetti meno
estesi si predicano dei più estesi (la proposizione: l’uomo è un animale » non
può convertirsi nella reciproca: l’animale è uomo. Così i generi generalissimi
si predicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie specialissime
e degli individui ad esse sottoposti; i generi subalterni si predicano di tutte
le specie ad essi inferiori, delle specie specialissime e degli individui ; le
specie specialissime si pre- dicano degli individui, e gli individui d’un solo
particolare. Gli individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è
totalità, mentre rispetto al genere è parte. Si parla di differenza nel
significato comune della parola, in senso proprio, e in senso rigoroso. Nel
significato comune differenza esprime la diversità d’una cosa da un’altra o da
sè stessa. Socrate differisce da Platone e differisce da sè stesso bambino. In
senso proprio, una cosa si dice differire da un’altra quando ne differisce per
un accidente inseparabile. Accidente inseparabile è, per esempio, avere il naso
curvo, essere ciechi, avere una cicatrice causata da una ferita. In senso rigoroso
una cosa si dice differire da un’altra quando se ne distingue per differenza di
specie. Ad esempio, un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a
specie diverse, l’uno essendo ragionevole, l’altro no. In generale dunque, ogni
differenza altera ciò a cui si innesta: ma le differenze comuni e proprie si
limitano a renderlo alterato, le rigorose lo rendono addirittura altro. E
queste differenze rigorose che rendono altro ciò a cui si applicano, si dicono
differenze specifiche, le altre si dicono semplicemente differenze. Queste non
producono che un’alterazione o un mutamento di stato, per esempio, il muoversi
rispetto al giacere, quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali si
definiscono appunto col genere e le differenze. Altra classificazione delle
differenze è la seguente: differenze separabili come il muoversi e lo star
fermi, l’essere sani o malati, e differenze inseparabili^ come l’avere un naso
aquilino o camuso e l’essere ragionevoli o irragionevoli. Le differenze
separabili si dividono ancora in differenze per se e differenze per accidens.
Differenza per se è, nell’uomo, la ragionevolezza, la mortalità, la capacità di
apprendere. Differenza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso. Le
differenze per se entrano nel concetto della cosa e la rendono altra (la
mortalità entra nel concetto di uomo e lo differenzia dall’altro essere animato
sensibile e ragionevole, ma immortale che è Dio); invece, le differenze
accidens, anche se insensibili, non entrano nel concetto della cosa e non la
ren- dono altra, ma solo alterata (il naso camuso non entra nel concetto di
uomo, e altera un individuo, ma non lo rende altro dai rimanenti uomini.
Parimenti le differenze per se non ammettono aumenti o diminuzioni (tutti gli
individui umani sono uomini egualmente, invece, le differenze per accidens
ammettono aumento o diminuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più
o meno curvo, ecc.. Fra le differenze inseparabili per se talune servono a
dividere i generi in specie, tali altre, invece, a specificare i generi già
divisi. Differenze inseparabili per se sono animato e inanimato, sensibile e
insensibile, ragionevole e irragionevole, mortale e immortale. Di queste
differenze, animato e sensibile sono differenze costitutive della sostanza animale;
mortale e ragionevole sono, invece, divisive della sostanza animale in quanto
per esse si giunge dal concetto del genere « animale al concetto della specie
uomo. Senonchè quelle differenze che son divisive pei generi, sono costitutive
per le specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le differenze ragionevole e
mortale, introducendo una divisione nel genere animale, costituiscono proprio
cosi la specie uomo. Divisive e costitutive poi sono tutte le differenze
specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le definizioni delle
specie, mentre a ciò non giovano nè le differenze inseparabili per accidens,
nè, molto meno, le separa- bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo
che abbiano il naso aquilino o camuso, differenze inseparabili per accidens, o,
peggio ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere). La differenza viene
anche determinata come quella che la specie ha in più del genere. L’uomo, ad
esempio, ha in più delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il
concetto di animale non include. (Or si domanda: se il genere non ha in sè le
differenze che caratterizzano le varie specie, queste donde le traggono?
Giacché le specie non derivano che dai generi, e questi non posseggono le
differenze, nè pos- sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero
riunire in sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che
contraddistinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione di questa
difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le differenze specifiche
nascano dal nulla, nè che il genere aduni in sè differenze contraddittorie,
perchè il genere ha in potenza le differenze che da esso nascono, senza averle
in atto. Altra definizione della differenza è: ciò che si predica di più cose
differenti tra loro per specie, per indicarne la qualità. Infatti, se uno ci
domanda: « che cosa è l’uomo?, noi rispondiamo indicando il genere a cui la
specie umana appartiene, e diciamo: l’uomo è un animale ; ma se uno ci domanda
la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri differenziali, e
diciamo: L’uomo è ragionevole e mortale. Porfirio paragona così il genere alla
materia e la differenza alla forma, e dice che come la figura rende statua il
bronzo, cosi la differenza rende specie il genere. Altra determinazione della
differenza è: ciò che è atto a dividere le cose che sono sotto il medesimo
genere. Difatti, ragionevole e irragionevole sono differenze atte a dividere
l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale. Altra definizione:
differenza è quella per la quale differiscono fra loro le varie cose, giacché
per il genere non differiscono. Per esempio: siamo animali mortali noi e gli
irragionevoli: la differenza ragionevoli vale a separarci da essi. E ancora:
siamo ragionevoli noi e gli Dei: la differenza mortali ci separa da essi.
Definizione più profonda è la seguente: Differenza non è una qualsiasi di
quelle determinazioni che valgono a dividere le cose che sono sotto il medesimo
genere ; ma quella determinazione che riguarda l’essere ed è parte dell’essere
d’una cosa. Per esempio: poter navigare, è particolarità esclusivamente umana,
e tuttavia non è differenza che costituisca la sostanza dell’uomo. Differenze
specifiche sono quelle che fanno altra la specie e sono accolte nel concetto di
essa indicandone la qualità. Ci sono quattro sorte di qualità: Proprietà che
convengono ad una sola specie, sebbene non intera, come per l’uomo essere
medico o geometra. Solo gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli
uomini sono tali. Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene non solo
ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi anche gli uccelli).
Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta la sua estensione, ma solo
in un determinato tempo, come per Puomo imbiancare nella sua vecchiezza.
Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta la sua estensione e
sempre, come per Tuomo poter ridere. (Non importa che non rida sempre: importa
che abbia natura di poter ridere. Sono queste ultime le vere proprietà giacché
possono con- vertirsi con ciò di cui sono proprietà. Chi è cavallo, può
nitrire; chi può nitrire è cavallo. Accidente è quello che può essere presente
o assente senza che il soggetto si corrompa. Ci sono intanto accidenti
separabili e accidenti inseparabili. Separabile è dormire; inseparabile il
color nero. E tuttavia, per quanto inseparabile, rimane accidente perchè,
sebbene corvi e etiopi sono neri, si può sempre pensare un corvo e un etiope
bianchi (albini). L'accidente è definito anche ciò che può contingentemente
esserci e non esserci; oppure ciò che senza essere nè genere nè specie nè
differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in un oggetto. Determinate ormai
tutte e cinque le distinzioni logiche, bisogna paragonarle tra loro per vedere
cosa hanno di comune e cosa hanno di diverso. Di comune hanno il potersi
predicare di più cose ; ma il genere si predica delle specie e degli individui
(animale si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo
bue); la differenza similmente delle specie e degli individui (irragionevole si
predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo bue); la specie
degli individui che sono sotto di essa (uomini si predica solo degli individui
umani); la proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli
individui di tale specie (poter ridere si predica tanto deiruomo quanto dei
singoli uomini); l’accidente cosi della specie come degli individui (nero si
predica cosi della specie dei corvi come dei corvi particolari, ed è accidente
inseparabile; muoversi si predica dell’uomo e del cavallo, ed è accidente
separabile), ma anzitutto si predica degl’individui, e in secondo luogo delle
specie che contengono gli individui. Ma conviene ora paragonare a due a due le
cinque distinzioni logiche. Comparazione del genere con le altre quattro voci.
Genere e differenza Cosa hanno di comune: Il genere e la differenza entrambi
contengono specie. Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne
contiene il genere. Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie:
uomo e il divino; mentre il genere animale contiene e le due anzidetto e tutte
le altre specie animali. Quel che si predica del genere come genere, si predica
anche delle specie comprese in tale genere: e quel che si predica della
differenza come differenza, si predica anche delle specie comprese in tale
differenza. Esempi: del genere animale si predica l’esser sostanza e l’essere
animato: che si predicano anche delle specie del genere animale e perfino degli
individui di tali specie. Della differenza ragionevole si predica l’esser
provvisto di ragione: che si predica anche delle specie comprese sotto tal
differenza, uomo e il divino, e degli individui di tali specie, i singoli
uomini e gli dei. Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo-
raneamente le specie che sono sotto di essi. Esempio: tolto il genere animale,
è tolta anche la specie uomo; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà
più nessun animale provvisto di ragione. Cosa hanno di diverso: È proprio del
genere predicarsi di più cose che non la differenza, la specie, la proprietà e
l’accidente. Esempio: il genere animale si predica egualmente dell’uomo, del
cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la differenza quadrupede si
predica solo degli animali di quattro piedi, la specie uomo solo degli individui
umani, mentre la proprietà del nitrire solo della specie cavallo e dei cavalli
particolari, e l’accidente star in piedi ancora di più poche cose. Il genere
contiene la differenza in potenza. Esempio: il genere animale si divide in
specie animali ragionevoli e specie irragionevoli, ragionevole e irragionevole
essendo le differenze che dividono il genere animale in specie diverse. I
generi sono anteriori alle differenze poste sotto di essi: tolti i generi, son
tolte contemporaneamente anche le diffe- renze, ma non viceversa. Esempio:
tolto il genere animale, son tolte tutte le differenze (ragionevole e
irragionevole; mentre, tolte tutte le differenze, si può ancora pensare la
sostnza animata sensibile, cioè l’animale. Il genere riguarda l’essenza o quiddità
d’una cosa: la differenza la sua qualità. Esempio: Cos’è l’uomo? Un animale.
Com’è l’uomo? Ragionevole. Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime
differenze. Esempio: il genere dell’uomo è animale; le differenze sono:
ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e d’imparare. Il genere è come
la materia, la differenza è come la forma. Giacché è la differenza che
determina il genere, come la forma determina la materia. Genere e specie Cosa
hanno di comune: Tanto il genere quanto la specie si predicano di più cose.
Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si predicano. Cosi il genere
come la specie costituiscono ciascuno un tutto. Cosa hanno di diverso: Il
genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono contenute, non contengono
i generi. Giacché sono i generi che, determinati da differenze specifiche,
producono le specie: onde sono naturalmente ad esse anteriori, e, tolti,
tolgono anche le specie, ma non viceversa, chè, posta la specie, è posto anche
il genere, ma posto il genere, non è posta con ciò stesso la specie. I generi
si predicano univocamente delle specie: non cosi le specie dei generi. I generi
sono superiori per le specie che comprendono sotto di sè, le specie per le
differenze che le determinano. I generi possono anche essere contemporaneamente
specie, ma non specie specialissime; e le specie possono essere
contemporaneamente generi, ma non generi generalissimi. Genere e proprietà Cosa
hanno di comune: Tanto il genere quanto le proprietà seguono le specie.
Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è animale quanto al genere; e se
di specie è uomo, ha la proprietà di poter ridere. Egualmente si predicano il
genere della specie e la proprietà di quelli che ne partecipano. L’uomo e il
bue sono animali allo stesso titolo; e cosi CATONE e CICERONE hanno egualmente
la proprietà di poter ridere. Si predicano univocamente il genere delle sue
specie e la proprietà di quelle cose di cui è propria. Cosa hanno di diverso:
Il genere è anteriore; la proprietà posteriore. Esempio: Bisogna che ci sia il
genere ahimale, poi sia diviso dalle differenze e dalle proprietà. Il genere si
predica di più specie, la proprietà di una sola specie, di cui è propria. La
proprietà si predica di ciò di cui è propria, cosi come ciò di cui è propria si
predica di essa: mentre il genere non si converte con nessun suo predicato.
Esempio: La proposizione che l’uomo è l’animale che ride si converte che es
animale che ride è l’uomo. Ma la proposizione che l’uomo è animale non si potrà
mai convertire: c l’animale è l’uomo. La proprietà è in tutta la specie di cui
è propria, in essa sola, e sempre: mentre il genere è in tutta la specie di cui
è genere, e sempre, ma non in essa sola. Esempio: la proprietà di ridere è di
tutti gli uomini, solo degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere
animale è in tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche in
molte altre specie oltreché neirumana. Poiché la proprietà e ciò di cui é
proprietà si convertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà, tolto
ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà. Esempio: tolta la proprietà del
ridere é tolto l’uomo: tolto l’uomo é tolta la proprietà del ridere. Al
contrario, tolte le specie non sono tolti i generi. Esempio : tolta la specie
umana non é tolto il genere animale. Genere e accidente Cosa hanno di comune:
Si é già detto che ci sono accidenti separabili come il muoversi, e accidenti
inseparabili come, ad esempio, il color nero: ora, cosi gli accidenti
separabili come gli inseparabili hanno di comune col genere il potersi
predicare di più cose. Neri sono i corvi, ma anche gl’etiopi e talune cose
inanimate. Cosa hanno di diverso: Il genere é avanti le specie, mentre gli
accidenti sono posteriori ad esse, anche se si tratti di accidenti
inseparabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é Taccidente. Del genere
tutte le specie che partecipano, partecipano egualmente; mentre degli accidenti
si partecipa più o meno. Dii accidenti sussistono principalmente negli
individui, mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle sostanze
individuali. Il genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale è e come è.
Esempio: Come è l’etiope? Nero. Comparazione della differenza con le altre
quattro voci. Differenza e genere sono già comparati quando si esaminano insieme
genere e differenza. Differenza e specie Cosa hanno di comune: Della differenza
e della specie si partecipa egualmente. Esempio: Gl’uomini singoli partecipano
egualmente della specie uomo e della differenza ragionevole. La differenza e la
specie sono sempre presenti in ciò che di esse partecipa. Esempio: Socrate è
sempre ragionevole e sempre uomo. Cosa hanno di diverso: La differenza dice
sempre la qualità delle cose, la specie la loro essenza o quiddità. Esempio:
Uomo non è qualità, se non per le differenze che, determinando il genere
animale, costituiscono la specie uomo. La differenza è in più specie. Esempio:
la differenza quadrupede è in vari animali di specie differente. La specie è
solo negli individui che sono sotto di essa. La differenza è altra cosa dalla
specie a cui dà luogo. Difatti, se si toglie la differenza ragionevole, si
toglie la specie uomo. Ma se si toglie la specie uomo, non si toglie la
differenza ragionevole, perchè vi è il divino. Una differenza si combina con
un’altra: ragionevole e mortale compongono la sostanza dell’uomo; mentre una
specie non si combina con un’altra per produrne una terza. Un cavallo e
un’asina generano un mulo. Ma non la specie cavallo con la specie asino
generano la specie mulo. Differenza e proprietà. Cosa hanno di comune. Della
differenza e della proprietà le cose partecipano egualmente. Esempio: gl’esseri
ragionevoli partecipano della differenza ragionevolezza, quanto gl’esseri che
possono ridere partecipano della proprietà di poter ridere. Differenze e proprietà
sono sempre presenti nelle cose che le hanno. Si potrebbe obiettare. Se un
bipede perde una gamba, non ha più la sua differenza di essere bipede. Ma
l’obiezione non é giusta. L’amputazione non toglie la natura di bipede al
manco. Del resto, anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura umana,
senza che gl’uomini ridano sempre. Cosa hanno di diverso. La differenza si
predica di più specie: ragionevole si dice dell’uomo e del divino. La proprietà
si predica di quella sola specie di cui è propria. La proprietà e ciò di cui è
proprietà si convertono. La proposizione che l’uomo è l’animale che ride
ammette la reciproca, che l’animale che ride è l’uomo. Mentre la differenza
segue quella cosa di cui è differenza, e non si converte con essa. Posto l’uomo,
è posta la ragionevolezza; ma, posta la ragionevolezza, non è posto l'uomo,
perchè ragionevole è anche il divino. Differenza e accidente Cosa hanno di
comune: Differenza ed accidente entrambi si predicano di più cose. Esempio:
Tanto la differenza della ragionevolezza quanto l’accidente del muoversi si
applicano a molte cose diverse. Tanto la differenza quanto gli accidenti
inseparabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano.
Esempio: Tanto la differenza bipede quanto l’accidente inseparabile nero
riguardano tutti i corvi e li riguardano sempre. Cosa hanno di diverso: la
differenza contiene, non è contenuta. La ragionevolezza contiene l’uomo perchè
non è solo di lui. Gl’accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono
in più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo; per un altro sono contenuti,
perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti. L’uomo, oltre al muoversi, è
anche bianco, alto, ecc. La differenza non ha aumento e diminuzione,
gl’accidenti sì. O si è ragionevoli, o no. Ma si è più o meno alti. Le
differenze contrarie non possono mescolarsi, bensì si mescolano gli accidenti
contrari. Bipede e quadrupede si escludono. Ma bianco e nero si mescolano a
produrre il grigio nella zebra. Comparazione della specie con le altre quattro
voci. Specie e genere sono già comparati quando si esaminano insieme Genere e
specie. Specie e differenza sono già comparati quando si esaminano insieme
Differenza e specie. Specie e proprietà Cosa hanno di comune: Specie e
proprietà si predicano l’una dell’altra: se è uomo, ha la proprietà di ridere;
se ha la proprietà di ridere, è uomo; giacché le cose partecipano egualmente
delle specie a cui appartengono e delle proprietà che le caratterizzano. Cosa
hanno di diverso: La specie può essere genere ad altre specie; la proprietà non
può essere di altre specie oltre quella di cui è propria. La specie sussiste
prima della proprietà, poi la proprietà ha luogo nella specie. Esempio: bisogna
essere uomo per avere la proprietà di ridere. La specie è sempre presente in
atto, nel soggetto; la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza.
Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre ride sebbene abbia natura
di poter ridere. La specie sempre è sotto il genere e si predica di più cose,
differenti tra loro numericamente, indicandone l’essenza o quiddità; mentre la
proprietà è solo in ciò di cui è propria, e in esso è sempre, e inerisce a
tutta la sua estensione. Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gl’uomini,
solo negl’uomini e sempre negl’uomini. Specie e accidente Cosa hanno di comune:
Si predicano di più cose. Cosa hanno di diverso: La specie dice il che di una
cosa, l’accidente il quale e il come. Ogni sostanza può partecipare di una sola
specie, ma di più accidenti separabili ed inseparabili. La specie si concepisce
prima degli accidenti, anche se inseparabili, chè bisogna ci sia il soggetto,
perchè qualcosa gli accada. Gl’accidenti invece sono posteriori e avventizi.
Della specie si partecipa sempre in egual misura, ma dell’accidente, anche
inseparabile, in misure diverse. Esempio: un etiope è più nero di un altro.
Comparazione della proprietà con le altre quattro voci. Proprietà e genere sono
già comparate quando si esaminano insieme Genere e proprietà. Proprietà e
differenza sono già comparate quando si esaminarono insieme Differenza e
proprietà. Proprietà e specie sono già comparate quando si esaminarono insieme
Specie e proprietà. Proprietà e accidente Cosa hanno di comune. Tanto la
proprietà quanto l’accidente inseparabile sono indispensabili a ciò in cui si
osservano. Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste uomo, cosi
senza color nero non esiste etiope. Tanto la proprietà quanto l’accidente
inseparabile sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro estensione.
Esempio: Tutti gl’etiopi sono neri, e sempre. Cosa hanno di diverso. La
proprietà è presente in una sola specie. L’accidente inseparabile in molte.
Esempio: La proprietà del ridere è solo dell’uomo. L’accidente inseparabile del
color nero è dell’etiope, ma anche del corvo, del carbone, dell’ebano, ecc.
Sicché la proprietà si converte con ciò di cui è proprietà, non cosi
l’accidente con ciò di cui è accidente. Esempio: Che l'uomo ha la proprietà di
ridere si converte in che chi ride è l'uomo. Ma che l'etiope è nero non si
converte in che chi è nero è l'etiope, perchè anche il corvo, il carbone, ecc.
sono neri. Della proprietà si partecipa sempre egualmente, degl’accidenti in
diversa misura. Si è più o meno neri. Comparazione dell’accidente con le altre
quattro voci. Accidente e genere sono già comparati quando si esaminano insieme
Genere e accidente. Accidente e differenza sono già comparati quando si
esaminano Differenza e accidente. Accidente e specie sono già comparati quando
si esaminano insieme Specie e accidente. Accidente e proprietà Or ora esaminati
come Proprietà ed accidente. L'Isagoge si chiude con l’osservazione che altri
elementi comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono, ma
quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel che hanno di comune.
Nei due commenti boeziani s’espone ciò che riguarda il celebre prologo sulla
realtà o meno degl’universali. Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei
due commenti, che tanta autorità ha in tutto il Medio Evo, e tanto
contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura latina quella
struttura rigorosamente logica che è rimasta loro caratteristica. Lo scopo da
BOEZIO assegnato ad un commento è assai semplice, giacché non va oltre la
illustrazione del testo. BOEZIO evita di accendere questioni, anche se il testo
vi si presti. Solo quando l;obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle
vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio, solo allora Boezio
interviene per chiarire il pensiero dell’autore, giustificare le sue
espressioni, e quindi, sgombrate le difficoltà, tornare alla illustrazione del
testo. Dove Porfirio propone più classificazioni, BOEZIO cerca di connetterle
tra loro, in maniera da renderle più facilmente assimilabili al lettore. E dove
Porfirio accenna appena a teorie assai note fra gli studiosi, ma forse poco
possedute dai principianti, BOEZIO interviene a rammentare tali teorie, e a
trattarle, sebbene compendiosamente, in modo da fornire al lettore
princicipiante, al quale il primo commento è diretto, le nozioni necessarie per
intendere il testo di Porfirio. Così BOEZIO torna due volte sulla teoria della
definizione, la quale, facendosi per genus et differentia nij è possibile solo
per gl’individui definiti entro la loro specie, per le specie definite entro il
loro genere, e per i generi subalterni definiti entro il genere immediatamente
superiore, fino ai generi generalissimi, ma non per i generi generalissimi, i
quali, non avendo nessun concetto più elevato sopra di sé, non possono essere
definiti, cioè determinati entro l’ambito di un concetto più vasto. Onde, non
potendosi definire, possono solo descriversi, con l’indicarne le proprietà. Un
accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già da Porfirio, alla teoria
dell’ACCADEMIA della divisione, che da ciascun genere generalissimo, mediante
dicotomia, cioè divisione in due, giunge fino alle specie specialissime. BOEZIO
cerca di rendere più evidente il nesso che stringe talune classificazioni che
Porfirio presenta l’una dopo l’altra, senza unificarle in un solo quadro
comprensivo. Questo avviene specialmente per le classificazioni che riguardano
le differenze. Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze in
differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni, tutte le
differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi stessi (tu cammini, io
seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino. Proprie le differenze individuali:
capelli crespi, occhio cieco, ecc. Rigorose le differenze che riguardano tutta
la specie: ragionevole, irragionevole, ecc.. Le quali ultime differenze sono le
differenze specifiche, con le quali si procede a dividere i generi in specie.
Ma questa prima classificazione può semplificarsi quando si avverta che tanto
le differenze comuni quanto le proprie si limitano a rendere alterato il
soggetto, mentre solo le differenze specifiche lo rendono altro. Si può dire
dunque che le differenze si dividono in differenze che rendono alterato il
soggetto e differenze che lo rendono altro. A questa prima classificazione
Porfirio fa seguire la seconda. Le differenze sono o separabili o inseparabili.
Questa seconda classificazione si può collegare con la prima osservando che
solo le differenze comuni sono separabili: il sedere, il correre, ecc. Sono
diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili dal loro soggetto,
mentre le differenze proprie e più proprie, cioè quelle che riguardano
l’individuo persistendo in lui e quelle che riguardano l’intera specie, sono
inseparabili: tanto un occhio cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri
differenziali permanenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede.
Senonchè, di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano
il soggetto, ma non lo rendono altro -- la cecità altera un uomo, ma lo lascia
uomo --, mentre le specifiche o più proprie rendono altro il soggetto (la
ragionevolezza rende l’uomo altro dai bruti). E inoltre, delle differenze
inseparabili, le individuali sono partecipate in misura diseguale, le
specifiche sempre egualmente. Ad esempio, i capelli biondi son carattere
differenziale di individui che sono l’uno più biondo, l’altro meno biondo;
mentre la ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie umana, i
cui individui, in quanto sono uomini, sono tutti egualmente partecipi della
ragione. Terza classificazione è quella per la quale le differenze si dividono
in differenze divisive del genere e differenze costitutive delle specie. Son le
medesime differenze che, prese in modo diverso, risultano una volta divisive
del genere, un'altra costitutive delle specie. Se prendiamo le differenze
contrarie ragionevole e irragionevole, esse dividono il genere animale; e se,
dopo, prendiamo le differenze contrarie mortale e immortale, esse dividono
l'inferiore genere animale ragionevole. Ma se prendiamo le differenze
subalterne ragionevole, concetto più ampio, e mortale, concetto restrittivo,
queste differenze subalterne costituiscono la specie dell'animale ragionevole
mortale, cioè dell'uomo. Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo
commento boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente nel secondo
commento. Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che tuttavia
contribuiscono alla elaborazione della salda logica medievale, riesce
interessante il breve schizzo che del sapere del tempo BOEZIO premette al suo
commento. Nel dialogo filosofico che egli immagina si fa chiedere da Fabio una
illustrazione e prima una introduzione all'Isagoge di Porfirio. L'introduzione
indicherà del’Isagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa
germano; la ragione del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca.
Sei punti, dunque, tratta BOEZIO, sulle orme di quel che già aveva fatto
Ammonio nel suo commento all’lsagoge. \Jintenio è trattare del genere, della
specie, delle differenze, delle proprietà e degli accidenti. futilità
deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle Categorie del LIZIO, ma è
anche più vasta. Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di che
sia la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa di nulla, vivax
mens et sola rerum primaeva ratio est. E questo amore di sapienza è
illuminazione dello spirito che conosce da parte di quella pura Sapienza, e in
qualche modo è un richiamo che questa fa dell’animo umano perchè torni ad essa,
di maniera che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della divinità e
amore della pura mente divina. È questa sapienza che riconduce alla forza e
purezza naturale le anime umane. Da essa nasce la verità delle speculazioni e
dei pensieri e la santa e pura castità delle azioni. Il che mena direttamente
alla divisione della filosofia, che è il genere, in teoretica o speculativa, e
pratica o attiva. (0 e II sono le due lettere che spiccano su la veste della
Filosofia nel De Consolatione Philosophiae). La teoretica, poi, ha tante parti
quanti sono gli oggetti che considera: si divide quindi in: Teologia o dottrina
di ciò che è sempre uno e medesimo, fermo sempre nella sua divinità, non
accessibile ai sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto: la quale
speculazione studia Dio e la incorporeità dello spirito; Dottrina che si occupa
di tutte le opere celesti del supremo divino, di ciò che nel mondo sublunare ha
animo più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime umane: tutte cose
che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto dei corpi, da intelligibili
divennero soltanto intelligenti, in maniera che possono ora divenire più beate
per purezza ed intelligenza quando si volgano ed applichino alle cose
intelligibili; Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura e le
passioni dei corpi. Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda è
meri- tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte l’animazione e
vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione e conoscenza delle cose
intelligibili. Anche la filosofia pratica si divide in tre parti: L’Etica che
s’orna ed accresce di virtù, nulla ammettendo nella vita di cui non possa
essere soddisfatta, e niente facendo di cui debba pentirsi; la Politica, che
assumendosi la cura dello Stato provvede alla salvezza di tutti con la saldezza
della sua 'preveggenza e prudenza, con l’equilibrio della giustizia, con la
sal- dezza della fortezza e la pazienza della temperanza; L’economia, che si
occupa del buon andamento della vita famigliare. Alle quali parti già descritte
della filosofia si aggiunge da vicino queirarte che i greci chiamano Logica:
parte della filosofia 0 suo strumento? BOEZIO rimette la trattazione di questa
questione ad una altra opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva
che questa disputa sul genere, la specie, la differenza, la proprietà e
l’accidente prepara la via a tutto lo studio della filo- sofia. Col dire cosa
sia genere e cosa sia specie ci fa inten- dere che la filosofia è genere, e teoretica
e pratica sono specie. Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di
intendere se la logica sia una specie della filosofia, differente, quindi,
dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la natura propria di
ciascuna differenza della filosofia. Col dire cosa sia accidente ci guarda dal
mettere tra le cose principali ciò che è secondario. Cosi la conoscenza di
queste cinque voci spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia. Utile
alla grammatica a cui insegna che il discorso è il genere e otto sono le sue
parti o specie. Utile alla retorica, a cui permette di distinguere tre generi
di causa, ciascuno diviso in specie a seconda dei soggetti. Utilissima alla
logica, che nulla puo definire, per genere e differenza, se non sapesse cos'è
genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc.; nulla puo dividere se non e
guidata dalla conoscenza delle cose che divide: i generi e le specie. E nulla
puo dimostrare giacché la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si
divide o qualcos’altro mediante le cose che si son divise. E l’Isagoge di
Porfirio precede tutta la logica del LIZIO, perchè senza di essa non si
intenderebbero la sostanza e i nove accidenti di cui è parola nelle Categorie.
Le quali voci significative sono quelle di cui si compongono le proposizioni,
di cui si tratta nel De interpretatione. Le quali proposizioni sono quelle di
cui si compone il sillogismo, il cui ordine, la cui struttura e le cui figure
sono studiati negl’Analitici primi, perchè sia poi possibile studiare il
sillogismo dialettico nella Topica e il sillogismo dimostrativo negl’Analitici
secondi. Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base prima di tutta la logica del
LIZIO. Come nel corso del primo commento non sono rare le occasioni in cui
BOEZIO è costretto a notare le imperfezioni e le oscurità della versione
VITTORINO (si veda), cosi nel secondo commento Boezio presenta una traduzione
propria, che indubbiamente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La
versione è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestre che nel
primo commento, e che, specialmente nei primi fra i cinque libri, mostra un
vigoroso proposito di rendere più robusta, più rigorosa ed organica la
trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con alcuni paragrafi
dedicati alla filosofia in generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc. Se
la filosofia - dice Boezio - è il più alto bene degli animi, convene
precisamente muovere dalle facoltà dell’anima. Una forza dell’anima è quella
vegetativa, comune anche alle piante, che non hanno sensi. Un’altra è la
sensitiva, che dove sorge assume la prima come sua parte. Una terza è la
intellettiva, che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica e
conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che l’immaginazione sopperisce.
La qual potenza della ragione si esercita a indagare, anzitutto, se una cosa
sia, poi che sia, poi quale sia, infine perchè sia. Ma, perchè il pensiero sia
preservato dal pericolo di cadere nel falso, occorre anzitutto una disciplina
che, studiando le maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa
additare qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre falso
quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è duplice l’uso
nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica, trattate entrambe dal
LIZIO, ma la prima trascurata dal PORTICO. Ora, questa logica è una parte della
filosofia o è solo il suo strumento? Quelli che la considerano parte della
filosofia ragionano così. Delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la filosofia
si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle due grandi parti della
filosofia, la speculativa che si occupa delle cose naturali, e l’attiva che si
occupa della morale, nessuna tratta del discorso, dei giudizi, dei
ragionamenti. Dunque, quella disciplina filosofica che d’essi si occupa non può
non essere considerata una nuova parte della filosofia; donde la tripartizione
di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali invece sostengono che la
logica sia strumento della filosofia, non sua parte, osservano che questa
scienza della ragione è diretta o a conoscere le cose (fisica) o a trovare quei
principi di morale che producono la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica
serve sempre o alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie
non si escludano a vicenda. Niente vieta che la logica sia ad un tempo parte e
strumento della filosofia; parte in quanto ha innegabilmente un fine proprio,
distinto dalla fisica e dall’etica; strumento in quanto, altrettanto
innegabilmente, essa serve così all’una come all’altra. Del resto, nel nostro
corpo, ciascun organo è al tempo stesso parte e strumento: la mano rispetto
all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte. Ma veniamo allo
scopo di questa introduzione porfiriana alle Categorie del LIZIO. Queste sono i
X generi di predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il genere.
Di ciascuno di essi si dànno varie specie --varie specie di sostanza, di
qualità, ecc. 00: ed anche ciò presuppone si sappia che sia specie, e che sia
la differenza per la quale ciascuna specie si allontana dall’altra e l’un
genere dall’altro. Inoltre, ogni genere ha le sue proprietà, mediante le quali
può essere descritto. E dei X predicamenti, IX sono accidenti. Donde la
necessità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per intendere le
Categorie del LIZIO. Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione
per le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come già si è
visto, per l’intendimento delle Categorie del LIZIO. Per le definizioni, perchè
bisogna ben distinguere il genere prossimo e la differenza specifica per fare
una giusta definizione; per la divisione in tutte le varie sue specie, giacché
vanno distinte divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni
accidentali. Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre ordini
-- divisione del genere nelle sue specie -- distinzione dei vari significati di
una parola; -- partizione d’un tutto nelle sue varie parti. Le divisioni
accidentali sono anche di tre ordini: divisione di un accidente secondo i
soggetti che lo ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo
-- divisione di un soggetto secondo gli accidenti (dei corpi, taluni sono
(bianchi, altri sono neri -- divisione di un accidente secondo altri accidenti
(delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide, altre molli. Per tutte
queste divisioni occorre sapere che sia genere e che sia differenza, quando
luna parola ha un significato solo univoca e quando più significati equivoca, e
che sia una parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze ed
accidenti. Infine, l’introduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni,
giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose convenienti, o dalle
prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse, o dalle cose inerenti. In
ciascuno di questi casi bisogna sapere che è genere e che è differenza, e che è
specie, giacché sono i generi quelli che sono anteriori per natura alle specie,
e quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause delle
specie. BOEZIO tratta del genere con un manifesto desiderio di porre più rigore
nella trattazione porfiriana, magari rifacendosi da teorie più vaste, che
sembrano essere presupposte da ciò che dice Porfirio. Cosi, per esempio, per
illustrare i significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si
riferisce a volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte al luogo da
cui una gente proviene, BOEZIO richiama la celebre dottrina aristotelica delle
quattro cause, efficiente, materiale, formale e finale, alle quali aggiunge due
principi accidentali, il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei
ROMANI, cioè dei discendenti da ROMOLO, si indica in costui la causa efficiente
della stirpe. Quando invece si dice Pindaro tebano, si indica in Tebe il luogo
da cui Pindaro i proviene. BOEZIO insiste ancora sulla differenza tra
descrizione e definizione. Il genere non può essere definito, chè, per essere
definito, dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando avesse un
genere sopra di sè, sarebbe specie, non genere. Sicché, non potendo essere
definito, il genere è *descritto*, cioè ne vengono indicate le proprietà, che
sono come i colori con i quali si dipinge un quadro. L’intera teoria del
genere, della differenza, della specie, della proprietà e dell’accidente, è
chiusa come in un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane. Ciò che si
Ciò che si predica predica di di più cose una cosa sola | S o in O ® og O ce 05
S ce p! ce<e •1-Ph o u Ph o <v Ph m 'Pce ^03 S OM ■Tj■ pP ceP■ cr cS a^ p
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rQ O .P O ■TP O O (D VP ce ^ P. P P ce p sostanzialmente accidentalmente
l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO. BOEZIO prosegue, poi, illustrando
via via i passi porfìriani che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni
speciali, del resto assai utili. Per esempio: in che senso si dice che
gl’uomini differiscono tra loro numericamente? Nel senso che si dice: Socrate è
un uomo, Platone è un altro uomo. B. tratta delle specie e non prima della
differenza nonostante che la differenza, contenendo in sè più specie, sia ad
essa anteriore, perchè la specie è specie del genere, come il genere è genere
della specie, epperò vanno studiati in connessione l’uno con l’altra. Le
illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo. Interessante può
essere l’atteggiamento di osseqio al LIZIO su le questioni delle X categorie;
atteggiamento che è di Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i X
predicamenti possono ridursi tutti dXVente [GRICE, ARISTOTLE ON THE
MULTIPLICITY OF BEING], perchè ente ha significati diversi secondo che
s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla quantità, ecc. Vale a dire è un
nome di più significati, e non un genere d’un significato solo. Del resto, come
ogni predicamento cosi ogni predicamento è un predicamento; sicché se ente
fosse genere, i X predicamenti avrebbero *due* generi: ente e uno\ e ciò è
assurdo, perchè non si può appartenere a più di un genere. B. tratta della
differenza, ripetendo lo sforzo, visibile già nel primo commento, di dare
organicità ed unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col connettere
insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una distinzione fondamentale,
tra differenze sostanziali e differenze accidentali, e col condannare più
risolutamente di Porfirio quelle definizioni che idem per idem definiunt,
quando dicono che differenza è ciò per cui una cosa *differisce* da un’altra, e
che non precisano davvero cosa sia differenza quando la definiscono ciò per cui
una cosa dista da un’altra, potendosi una cosa allontanare da un'altra per
qualità del tutto accidentali che non costituiscono diiferenze in senso
proprio. BOEZIO tratta anche della proprietà, rispetto alla quale osserva che,
se l’essere di una cosa è espressa dal suo genere, dalla sua differenza e dalla
sua specie, le sue proprietà non costituiscono la sua sostanza, ma qualcosa di
accidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che quando Porfirio distingue
proprietà di quattro sorte, non intende enumerare quattro specie del genere
proprietà, ma indicare i quattro significati diversi nei quali si parla di
proprietà. Il IV libro tratta infine dell’accidente, condannando, più di
Porfirio, la distinzione puramente negativa, per la quale accidente è ciò che
non è nè genere, nè differenza, nè specie, nè proprietà. BOEZIO illustra la
comparazione che Porfirio istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare
osservazione. Notevole è tuttavia che BOEZIO non lascia passare la divisione
porfiriana dell’animale razionale in animale razionale mortale (l’uomo) e
animale razionale immortale (il divino) senza notare che ciò si poteva dire
quando si riteneno il sole e gl’altri corpi celesti animati e divini. Su questi
testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gl’uomini del medioevo, come
su libri di profondissima sapienza. Se l’Europa usce dal medioevo cosi
fortemente razionalistica, essa s'e fatta la sua potente quadratura logica
meditando su questi ultimi fra gl’antichi, lungamente venerati e studiati. Grice: “I like Guzzo. For
one, he spent a tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s
latinizing Porphyry!”Nome compiuto: Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosofi per i giovani
italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile,
Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato,
Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del
principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova
per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino.
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The
Swimming-Pool Library.


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