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Tuesday, July 22, 2025

GRICE ITALO A-Z G GU

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guastella: SICILIANO, NON ITALIANO --  all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della conoscenza – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza  (Misilmeri). Abstract. Grice: “Guastella wrote about almost everything – excpet, perhaps, implicature!” Keywords: Implicatura. Filosofo italiano. Misilmeri, Palermo, Sicilia. Grice: “Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Figlio di Vincenzo farmacista, uno dei quattro figli, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e  “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Uno degl’aspetti più caratteristici del modo di pensare metafisico è lo sforzo di conoscere il reale A PRIORI, di costruirlo. Anzi possiamo dire, d’una maniera  generale, che a-priorismo è il sinonimo di metafìsica, come empirismo è il sinonimo di positivismo, almeno del vero positivismo, cioè quello che non ammette,  rigorosamente, che i fatti, i fenomeni, e le loro relazioni. Noi vedrenio in effetto nel saggio che, mentre il presupposto su cui si fonda il modo positivo di pensare è che non dobbiamo ammettere alcuna proposizione senza prova, non essendovi altra prova che la sperimentale, cioè l’induzione, la generalizzazione dei casi osservati, e, se la proposizione è particolare, la deduzione (il  sillogismo) fondata sovra un’induzione antecedente. Il modo metafisico si fonda invece, consapevolmente o inconsapevolmente, sul presupposto contrario, cioè che vi hanno dei principii che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, senza prova, e per conseguenza indipendentemente dall’esperienza e dall’induzione, in altri termini, a priori. Non vi ha dunque questione  più importante per la teoria della conoscenza che quella sulla possibilità e sui limiti della conoscenza a priori. E siccome la metafisica si propone di stabilire resistenza delle cose e il come di quest'esistenza non i loro rapporti nascenti d’una veduta della mente che le compara l’une con l’altre, cosi questa questione può circoscriversi per noi dentro confini più determinati. Possiamo noi  acquistare delle conoscenze  a/)r/or/ suiresistenza delle cose? O, in  altre  parole: questa esistenza può formare l’oggetto d’un giudizio a priori?  L'oggetto di questo saggio è di dare una risposta a questa domanda. Perciò noi non ricercheremo innnediatamente se la conoscenza o pretesa conoscenza a priori che oltrepassano il mondo dell’esperienza, siano o no legittime. Il nostro esame  si restringe, al contrario, nel dominio della conoscenza positiva, fenomenale. Il lettore puo fare da se stesso le sue inferenze su (luelle che stanno al di là di questo dominio. Ora un pò di riflessione mostra che la nostra questione, cioè se noi possiamo formare d’un giudizio a-priori concernenti l’esistenza della cosa, non si può risolvere senza prima esaminare la natura del giudizio e la  sua classificazione. Ma gl’elementi del giudizio sono le idee, e si ha necessariamente una o un altra teorica del giudizio, se per elementi d’esso si danno le idee astratte, come fanno le dottrine da lungo tempo dominanti, oppure le idee concrete. Vi ha dunque, prima di tutto, una questione preliminare che ci s’impone: esistono o no delle idee astratte, dei concetti? È questo l’argomento  di questo saggio. Tutti i termini, se si eccettuino i nomi propri, sono generali. Vale a dire essi si applicano non ad un solo oggetto particolare, ma a qualsisia di tutti gl’oggetti appartenenti ad una classe. Ora, le parole, essendo SEGNI dell’idee, si domanda quaU siano le idee SIGNIFICATE dai nomi generali. Non vi hanno che due  risposte. L’una  è: un termine generale non significa  che delle idee particolari, cioè delle idee d’oggetti individuali e concreti; solamente, mentre un nome proprio non suggerisce allo spirito che una sola idea particolare, un nome generale può suggerire ugualmente una o un altra delle idee degl’oggetti particolari appartenenti ad una  classe. Cosi IL SIGNIFICATO di questi nomi non è generale che potenzialmente, in quanto possono  richiamarci questo o quello degli oggetti della classe; ma il loro significato attuale, appartar propriamente, è sempre particolare, in quanto non ci richiamano effettivamente che un solo o alcuni di questi oggetti. Questa teoria si chiama nominalista. Ma secondo l'altra teoria, che chiameremo concettuahsta, a un termine generale corrisponde, non delle rappresentazioni particolari, ma una  nozione generale o idea astratta, che è come la rappresentazione di ciò che gl'individui di una classe hanno di comune, negligendo i tratti particolari che sono propri a ciascuno. La grande maggioranza dei  filosofi hanno adottato la teoria concettualista: alcuni, tra cui lo stesso Mill, quantunque si siano professati nominalisti, pure in fondo hanno ammesso il concettualismo, o almeno spesso hanno esposto le operazioni del pensiero in termini che implicano quest'ultima dottrina. Cosi non esitiamo [Mill non ammette che noi possiamo formarci delle idee separate delle proprietà astratte delle cose; egli non accorda allo spirito che delle rappresentazioni concrete e particolari. Ma secondo lui noi abbiamo il potere di prendere per oggetto della nostra attenzione una parte  o un elemento astratto della rappresentazione concreta, quantunque ci è impossibile di separarlo  completamente Non è evidentemente che un’altra forma del concettualismo. Bain intende per idea astratta un caso tipico o uno specimen, cioè un individuo particolare, il quale rappresenta per noi tutti i casi o individui della  classe; ovvero un SIMBOLO (cfr. H. P. Grice on J. L. Austin, SYMBOLO) verbale applicato alla classe (Dei sensi e dell’intelligenza). Qui egli sembra parlare perfettamente da nominalista. Ma altrove Logica egli ammette, come Mill, che lo spirito ad asserire che i tatti dell’intelligenza non sono mai stati studiati ad un punto di vista rigorosamente nominalista; per cui, accingendoci a dare una classificazione del giudizio fondata esclusivamente  su questo punto di vista, siamo obbligati a discutere il concettualismo d’una  maniera più larga clie non abbiano latto fin qui gl’autori  nominalisti. Fra i filosofi è Berkeley che ha dato i colpi più forti alla teoria dei concetti; ecco che cosa dice in sostanza questo filosofo. Noi vediamo un oggetto esteso, colorato e in movimento: tutti ammettono che queste tre qualità non esistono ciascuna per se stessa, ciascuna distinta e separata dalle altre; ma, secondo i filosofi concettualisti, lo spirito può considerare isolatamente ciascuna di queste qualità, e astratta dalle altre due,  il che si chiama formarsi un^dea astratta. Cosi lo spirito può formarsi la idea di colore air esclusione di quella di estensione, e Tidea di movimento air esclusione al tempo stesso di quelle di colore  e d'estensione. Inoltre, osservando che tutte le estensioni particolari percepite dai sensi hanno questa proprietà comune o questo punto di somiglianza, di essere estese. nbbia il potere di accordare la preferenza della sua attenzione all'uno o all'altro dej^H attril)uti d'un oggetto concreto p. e. uno scellino o una ruota; noi possiamo, egli dice, dare più attenzione alla rotondità e meno alla  grandezza, ma è impossibile che noi pensiamo alla rotondità, senza pensare a una certa grandezza o a un certo colore, Spencer, ammettendo che gli elementi dello spunto non sono che le sensazioni e i rapporti fra le sensazioni, non potrebbe ammettere le idee astratte: tuttavia egli atterma che i temimi del pensiero possono essere anche, non delle cose particolari e delle azioni particolari  compiute da esse, ma i caratteri generali delle cose e delle classi di cose, considerati separatamente dalle cose stesse p. e. PrinclpU di psf colorila. Cosi la sua opmione. sembra pure, al fondo, la stessa che quella di Mill. Questo semi-concettualismo è comune a tanti altri filosoll inglesi. ma differiscono perchè questo ha una certa figura, quello un'altra, questo una grandezza, quello un'altra, lo spirito si forma l’idea astratta di estensione, senza una figura o una grandezza determinata. Cosi può formarsi pure l'idea del colore in astratto, che non è né il rosso né l’azzuro né il bianco nò alcun altro colore determinato. Ma il fatto, dice Berkeley,  non va cosi. Noi possiamo formarci l’idea d'un uomo avente una grandezza, una figura, un colore determinato; ma non quella d'un uomo astratto, che non sia né Ijianco né nero né bruno né di un altro colore qualunque, né piccolo né grande né di statura media. Noi non possiamo, per qualunque sforzo di pensiero, concepire quest'idea astratta. Noi possiamo considerare la mano, l'occhio, il naso, l'uno dopo l'altro, separati dal resto del corpo. Ma (jualunque sia la mano o qualunque sia l'occhio a cui pensiamo, Ijisogna ch'essi abbiano una forma, un colore particolari. Cosi noi possiamo rappresentarci un colore particolare e con una gradazione determinata; ma non ci é possibile di formarci l'idea del colore astratto. Ci é ugualmente impossibile di formarci l'idea astratta di  movimento, distinto dal  corpo che si muove, e che non sia né rapido né lento, né curvihneo, né rettilineo, ecc.; e lo stesso deve dirsi di tutte le idee generali o astratte Priticlpil della conoscenza  umana, Indrodazione.  Il ragionamento di Berkeley non  che un appello diretto alla coscienza. Ci  impossibile, esaminando noi stessi, di sorprenderci nell' atto di avere un' idea astratta. Noi possiam o astrarre in un senso, in quanto possiamo pensare separatamente delle cose o dei fenomeni che nella realt sono inseparabili. Cosi possiamo considerare isolatamente una parte di un oggetto, quantunque l'esperienza non ce la mostri mai isolata, ma sempre accompagnata dalle altre parti. Della stessa maniera, possiamo concepire isolatamente un avvenimento, quantunque nella realt esso sia sempre preceduto, seguito e accompagnato da altri avvenimenti determinati. In una parola, tutto ci che ha un'esistenza distinta e una posizione separata nel tempo e nello spazio, noi possiamo concepirlo separatamente. Inoltre, ed  quello che ha pi somiglianza con ci che i filosofi chiamano un'idea astratta, noi possiamo concepire isolatamente delle propriet d'uno stesso oggetto, ma che noi percepiamo per dei sensi differenti: il colore d'un oggetto a parte della temperatura, del sapore, dell'odore, ecc., quantunque nella realt queste qualit non si trovino separate. Ma tutto ci che noi possiamo concepire sia una semplice qualit sensibile o un oggetto conosciuto per un complesso di qualit sensibili, sia un oggetto intero ovvero una parte, sia un fenomeno che duri un istante indivisibile e che occupi un posto appena percettibile nello spazio, ovvero un gruppo di fenomeni successivi e simultanei deve sempre essere un oggetto o un fenomeno assolutamente determinato, deve avere la tinta particolare e, per dir cosi, la fisonomia di qualche cosa d'individuale. Tuttavia, questo appello all'osservazione interiore, in cui consiste l'argomentazione di Berkeley, quantunque trattandosi d'un fatto della coscienza, non possa esservi una prova migliore, pu nondimeno lasciare qualche dubbio. Infatti l'osservazione interiore, per consenso dei migliori fra i psicologi moderni,  un metodo fallace o almeno insufficiente; e per quanto riguarda i fatti pi semplici del pensiero, la coscienza non  capace di rivelarcene chiaramente alcuni la cui esistenza  pure indubitabile. Nessuno dei psicologi contemporanei segue Condillac, il quale riduceva tutti i fatti mentaU a sensazioni attuali e riproduzioni di sensazioni passate: tutti ammettono invece che vi ha inoltre nell'intelligenza un altro ordine di fatti cio la percezione dei rapporti che lo spirito scopre tra i fenomeni paragonandoli fra loro. Ebbene ! tutti sappiamo in che consista un rapporto di somiglianza tra due cose; ma chi potrebbe rappresentarsi il fatto interiore, in cui consiste la percezione d'un rapporto di somiglianza? Ma se l'argomento dell'osservazione interiore non basta a convincere di falsit la teoria concettualista,esso ci mostra almeno quale sia la natura di questa teoria il concetto non  che un'ipotesi, non  un fatto di coscienza, non  qualche cosa che bisogni ammettere perch sia mai caduto sotto le prese dell'osservazione. Che ciascuno faccia attenzione a se stesso nell'atto di pensare egli non scoprir che delle immagini di cose particolari, e s' egli pensa a qualche argomento astratto, non si accorger di pi che delle rappresentazioni di alcuni segni o termini generali, che non sono essi stessi se non delle immagini particolari di un certo ordine di sensazioni. Che alcuno dimostri, p. e., un teorema sul triangolo non  al triangolo astratto che egli penser, ma a un triangolo concreto e determinato, sia tracciato sulla carta, sia rappresentato nell'immaginazione. E s'egli non avr in mente alcuno di questi triangoli concreti, vorr dire che tutto il suo ragionamento si ridurr ad un' operazione meccanica, in cui i segni delle idee terranno il posto delle idee medesime. Prendiamo dunque la teoria dei concetti per quello che , per un'ipotesi destinata a dar conto delle operazioni del pensiero, ed esaminiamo il valore di quest'ipotesi, in se stessa e nelle sue conseguenze, e alla stregua dei fatti e delle leggi conosciute dello spirito umano. In primo luogo bisogna far attenzione al rapporto che noi naturalmente stabiliamo tra il pensiero e la cosa pensata. Quantunque l'oggetto immediato del nostro pensiero non sia che un'idea, cio una modificazione o uno stato di noi stessi, un fatto puramente interiore che non esiste altrove che nella nostra coscienza n in un altro tempo che nel momento in cui pensiamo; pure ci che noi intendiamo di pensare, ci che rammentiamo o prevediamo o immaginiamo, ci di cui, in una parola, affermiamo 1' esistenza, non  gi il nostro pensiero stessO;. ma  un oggetto o un avvenimento gi passato o futuro, una cosa o un tatto per lo pi esteric^re, o, se interiore, un latto almeno sempre distinto dal fatto attuale di coscienza con cui lo pensiamo. Ora in che consiste questo legame del pensiero con un oggetto fuori del pensiero stesso? Si dir che noi abbiamo la coscienza che il pensiero rappresenta un oggetto esteriore ? ci equivale a dire che noi abbiamo, oltre al pensiero, la coscienza d'un oggetto esteriore che corrisponde al pensiero; ma la coscienza di quest'oggetto esteriore non i)Otendo essere che un' idea, la quistione non lia fatto un passo con (juesta supposizione, e resta ancora a spiegare come quest'idea si riferisca ad un oggetto esteriore. La difficolt non pu avere, io credo, che una soluzione. Per un' illusione naturale e primitiva, senza di cui non si puo immaginare come il pensiero potrebbe avere i)er noi un valore obbiettivo, avviene che 1' idea s'identifica per noi con la cosa pensata, e che nell'atto del pensare, noi non crediamo gi di aver presenti alla mente delle mere rappresentazioni, ma d'involgere e di penetrare le cose stesse. Ci  tanto vero che Reid, il (luale intendeva di ritornare alle credenze naturah del genere umano, soppresse le idee come rappresentazioni^ e r^etese cJie lo si)irito ha (Urettamente coscienza delle cose esteriori. E che questa sia veramente una credenza, naturale, ciascuno pu farne l' esperienza in se stesso se io j)enso, per esempio, al mio amico il tale,  certo che io credo di avere d'innanzi alla mente il mio amico stesso, e non un'immagine di lui. Nel pensiero avviene dunfjue come nella sensazione le nostre rappresentazioni si staccano dall' aggregato fisico psichico che si chiama io, di cui realmente fanno parte, ci appariscono obbiettive, e prendono jer noi il posto delle cose stesse. A noi non importa per ava di spiegare quest' illusione naturale lo faremo nel secondo Saggio .(lucilo che c'importa  di domandarci se questo fatto gencu^ale della nostra intelligenza sia compatibile o no con l'esistenza delle idee astratte. Ora  evidente che non lo . Se nell'atto del pensare noi crediamo di essere coscienti^ non dell'idea, ma dell'oggetto che l'idea rappresenta; se l'idea si confonde per noi e si scambia con la realt ; in altre parole, se noi oljbiettiviamo e realizziamo le nostre idee ; non potremo quindi pensare un'idea astratta senza realizzarla, senza credere di pensare, non ad un' idea astratta, ma ad un oggetto astratto. Platone aveva dun({ue ragione di pretendere che, se vi hanno delle nozioni astratte e universali, vi saranno degli esseri astratti e universali  a ci che si riduce in sostanza quasi tutta la sua argomentazione per dimostrare l'esistenza delle Idee ma la conscienza smentisce la sua dottrina, mostrando che se la conseguenza  giusta, il principio  falso ; poich se vi fossero le idee astratte, 1' esistenza degli esseri astratti dovrebbe essere, non una teoria laboriosamente costruita da un metafisico, ma una credenza naturale del genere umano. Noi arriviamo ad un risultato analogo, se ricerchiamo quale potreblje essere T origine di queste pretese idee astratte. Secondo la massima parte dei filosofi che le ammettono, un'idea astratta non  che un'idea parziale : essa nasce (juando noi rivolgiamo l' attenzione a ({ualche nota o elemento comune a molte rappresentazioni particolari. Essendoci noi formate, p.e., le idee di pi oggetti particolari che tutti appartengono alla stessa specie^ il 2. Saggio, parte 1. il Supplemento sulla imiiuincnza delle Idee platoniche. Locke Saoglo JllosoficosalVintenr^nento umano; WOLE Psicologa empirica s ecc.; GALLUPPI (vedasi) Saggio filosofico sulla critica della conoscenza; SERBATI (vedasi) Saggio sullorigine dellidee; ecc. 12 t ascummo tutte le particolarit clie fanno di ciascuna di queste Idee lidea d'un in,lividuo particolare e diverso dag 1 altri, e non riteniamo cl.e le note o elementi comuni a utti, ed e cosi secondo questi filosofi, clie ci formiamo lidea generale della specie. Quest'nltima idea non  cosi secondo essi, che una parte della rappresentazione del1 oggetto concreto ; e l'astrazione non altro che una separazione o una decomposizione. Essa trae un'idea universale da un'idea particolare, fissando la nostra attenzione sovra uno dei suoi elementi: quindi ta osservare quest'elemento (1 elemento comune a molte idee particolari), non lo genera. Questo elemento preesisteva dunque, secondo 1 concettualisti, ed era gi contenuto nelle idee particolaried una rappresentazione concreta non  che un fascio' una somma di tali elementi astratti. Ciascuno di questi elementi, ripetiamolo, esisteva gi per se stesso e a parte nella rappresentazione totale; l'astrazione non fece che iso arlo dagli altri, farlo riconoscere come un elemento distinto e separato. Ora la rappresentazione totale o concreta non  die una copia esatta dell' oggetto reale, in quanto almeno noi siamo capaci di conoscere gli oo-c^etti reali gli elementi astratti non potrebbero dunque stare nella rappresentazione concreta, a meno che nell' orioinaie, cio nell'oggetto reale, non si trovassero gli elementi corrispondenti; in altri termini, un oggetto reale individuale non sar, come la sua rappresentazione, che un lascio o una somma di elementi astratti E se noi vo Il Sergi I.a ammesso esplicitamente questa conseguenza Ln immagme sensazionale, un individuo in  presentazioni particolari e senza nomi non vi ha pensiero. Questo fatto  stato ammesso da quasi tutti i concettualisti, a cominciare da Aristotele. L'anima, dice questo filosofo, non intende mai senza immagini: gl'intelligibili non sono immagini, ma non sono senza immagini . Ora perch un concetto non si troverebbe mai puro, ma sem])re congiunto a un'immagine particolare o ad un nome? Questa difficolt se la  proposta gi I. Mill. A questo eminente pensatore pu tarsilo stesso rimprovero ch'egli ha fatto ad Hamitton, di \o\qv tenere, cio, un piede nel nominali Galton Limmagini generiche, nella Revue scientifque; Huxley D. Marne, sua rifa, sua filosq/ia, traduzione francese; Delboeuf// sonno e i sogni ^ \>ag.'m; Binet Psicologia del ragionamento De Anima, De memoria et reminiscentia ediz. Didot. 16 smo e un altro nel concettualismo pure egli  al fondo (e ci parr incredibile a un lettore disattento) un vero concettualista. Secondo il Mill, noi non abbiamo presenti nella mente gli attributi che costituiscono un concetto, se non come formanti, per la loro unione con altri attributi, l'idea d'un oggetto particolare. Solamente, noi abbiamo il potere di fissare la nostra attenzione sugli attributi costituenti il concetto, negligendo gli altri attributi coi quali li concepiamo congiunti. Ci va sii. al punto che noi possiamo anche, per un po' di tempo, non aver iirescnti allo spinto che questi attributi che costituiscono il concetto, o, in una parola, il solo concetto. Filosofia di Hamilton traduz. frane. Ma perch noi non pensiamo l'idea astratta separatamente, ma solo come una parte d'un'idea concreta? E' clie il primo caso, dice il Mill,  effettivamente impedito dalla legge dell' associazione inseparabile. In altri termini, noi non abbiamo mai sperimentato un attributo astratto, se non come congiunto o combinato con altri attributi in un individuo determinato; quindi la rappresentazione degli attributi generici si trova indissolubilmente associata con la rappresentazione delle particolarit individuali. Ma questa una soluzione sufficiente della difficolt? Alcune partilarit individuali, o (lualche eceeit (perch  impossibile discutere un po' a fondo la teoria dei concetti senza impiegare il linguaggio dei realisti) sono costantemente congiunte con gli altributi generici e specifici, ma non certamente sempre la stessa ecceii, le stesse circostanze individuali. Nessuna dunque di queste particolarit indivividuanti potrebbe essere inseparabilmente associata al con cetto generico o specifico. Senza dubbio, 1' associazione per contiguit, in molti casi, lega, non due idee paI^ticolari determinate, ma due tipi d'idee. E ci che avviene quando dalla presenza di un fenomeno inferiamo un altro fenomeno, in virt d' un rapporto costante che abbiamo osservato nella nostra esperienza passata. N il fenomeno inferito n quello da cui s' inferisce il pi delle volte, per non dire mai, sono perfettamente simih ai fenomeni passati tra cui abbiamo sperimentato il rapporto; solamente, appartengono allo stesso tipo. Ma le circostanze individuanti, proprie ai diversi individui d'un genere, non appartengono allo stesso tipo, perche tutto ci che vi ha di comune, di somigliante, in questi individui,  stato separato da queste circostanze individuanti, e fa parte del concetto del genere. Ne segue che il legame indissolubile del concetto con l'idea delle circostanze . individuanti, cio col resto della rappresentazione particolare di cui il concetto , si pretende, una parte, non potrebbe essere spiegato dall'associazione per contiguit, che  quella che pu invocarsi in questo caso. Similmente, riesce inesplicaljile perch un'idea astratta, per lare la sua comparsa nella coscienza, abbia bisogno dell aiuto d'un nome.  l'associazione con un nome generico, CI SI dice, Cile richiama i concetti nella coscienza e h fissa nell'attenzione non vi ha infatti pensiero astratto senza segni, n un sistema sviluppato di concetti astratti senza un linguaggio sviluppato. Ora quest'associazione del concetto con un nome suppone due cose prima che Il concetto possa essere conservato nella memoria, e poi che sia capace di contrarre delle associazioni con le altre Idee, e possa cosi venire riprodotto. Ma se  cosi che bisogno VI ha che il concetto sia costantemente associato con un nome? non basterebbero, perch noi ce lo richiamassimo, quei mille legami svariati che ciascuna idea ha con le altre, per cui le leggi dell'associazione possono riprodurla al momento opportuno? perch solo un nome e non qualunque altro antecedente mentale, quegli stessi p. e. che richiamano il nome, sarebbe capace di richiamarci il concetto? La dottrina di Mill non , in verit che il nome  necessario per richiamarci il concetto. Secondo lui, come abbiamo detto, il concetto non  ({ualclie cosa che esista nello spirito d'una maniera isolata. Esso non  che un complesso di note o elementi parziali d'una rappresentazione concreta, e non esiste che congiuntamente alle altre note o elementi di questa rappresentazione. Solamente, (juesti elementi costituenti il concetto vengono vivamente suggeriti allo spirito, mentre degli altri non abbiamo che una coscienza debole. L'associazione costante con un nome o, in generale^ un segno,  duncjue necessaria, non propriamente per richiamarci il concetto, ma per dirigere specialmente la nostra attenzione sul complesso delle note parziali di una rappi'esentazione che costituiscono il concetto. Ma la (juistionc  sempre la stessa. Perch qualsiasi altra idea, legata, come (piella del nome o in generale del segno, non esclusivamente con Tidea di tale o tal altro oggetto particolare, ma con quelle, in generale, degli oggetti possedenti l'attributo corrispondente al concetto, non sarebbe pure capace di dirigere la nostra attenzione sulla parte della rappresentazione i)articolare che costituisce il concetto?.La teoria concettualista non pu Il Mii.L conviene clie F ininiauinc visuale d'un oiigctto pu comjtiere lo stesso ulicio del nome relativamente al concetto di quest'oggetto; e soggiunge che lo stesso pu fare una sensazione forte e molto interessante (p. e. la soddisfazione della fame) relativamente al concetto della classe fondata sull'attributo di produrre questa sensazione. Gontuttoci egli mantiene che i segni sono necessari, non solo alla conservazione, ma jmche alla formazione dei concetti, e ammette sempre, in pratica, che questi segni sono i nomi generali. Secondo il Mill, il nome non  solamente necessario al concetto perch  esso che dirige V attenzione sulla serie degli attributi, contenuti nella rappresentazione concreta, che costituiscono il concetto, ma anche perch  1' associazione con un nome che d una unit nella coscienza a questa serie di attributi;  quest'associazione ci che li lega insieme nello spirito, con un legame pi forte di (juello che li associa al resto dclTimmagine concreta. Questa proposizione dipende evidentemente dalla dottrina dell'autore che dunque spiegare perch i nomi siano necessari alla formazione e alla riproduzione dei concetti, pi di quanto i)0s.sa piegare perch il concetto non si pensi mai isolat(j, ma sempre con Timmagine o neirimmagine. (j.^ Noi potremmo moltiplicare agevolmente le nostre obbiezioni alla teoria concettualista, ma per non annoiare inutilmente il lettore, non ne aggiungeremo qui, per (luanto riguarda i concetti in se stessi, che un'altra sola. La psicologia odierna, seguendo lo spirito generale delle scienze Vologiche, di cui non  che una parte, non [)u vedere neiruomo qualche cosa di eccezionale e d'isolato, e come un regno nel regno della natura animata. La leciie delil concetto  costituitn dagli attributi connotati dal nome, e che di nome connota, non tutti gli attributi comuni alla classe, ma solo una porzione determinata di questi attributi. In effetto, se si ammette che il concetto comprende tutti gli attributi della classe,  evidente che, i)er legare insieme questi attributi nello spirito, ])asta la ripetizione delle esperienze in cui li a)l)iano trovato in congiunzione, e che ogni altra spiegazione sarebl)e superflua. Si dir che, frapposta la dottrina di Mill, che fa dipendere il contenuto dei concetti dal significato convenuto dei nomi, si spiega pure facilmente perch sia il privilegio del nome di dirigere la nostra attenzione frulla parte della rappresentazione concreta che costituisce il concetto. E ci  vero, ma solamente ])er i concetti delle classi comprendenti una i>lumlit di attril)uti. Ma Tanalisi arriver infine agli attributi semplici, cio indecomponijjili in altil attributi jii sem]>lici, e bisogner ammettere anche dei concetti corrispondenti a ciascuno di questi attributi. Ora il contenuto di questi concetti non dipende dall'uso dei nomi, come (juello dei concetti complessi ch'essi formano per la loro combinazione; per conseguenza questa dottrina di Mill non i^otrebbe spiegare la necessit dei nomi per la formazione e la conservazione di questi concetti. Intanto  su di essi che deve volgere sovratutto la quistione perch i nomi generali siano una condizione necessaria per l'acquisto delle idee astratte, poich sono essi che costituiscono Toggetto proprio della l)rctesa facolt di astrarre, per la formazione degli altri concetti non occorrendo un atto particolare di astrazione, ma una semjlice riunione di astrazioni gi formate. 1 evoluzione non permette che un fenomeno essenzialmente nuovo risalti tutto ad un tratto dal fondo dei fenomeni antecedenti ; e i fatti dello spirito umano non possono essere essenzialmente differenti dai fatti psichici degli altri esseri sensibili, n essere governati da leggi diffferenti. Cosi i fatti mentali d^un ordine superiore e appartenenti a delle facolt che si dicono propriamente umane, non possono essere che uno sviluppo e una complicazione dei fatti d'un ordine inferiore e appartenenti alle facolt che si ammette che l'uomo ha in comune con gli altri animali. La stessa distinzione tra questi fatti o facolt d ordine superiore e d'ordine inferiore non pu essere che relativa e sino ad un certo punto arbitraria, per la stretta continuit che deve ammettersi frale une e le altre. Ora le idee astratte, in cui si  sempre vista una prerogativa dell'uomo, costi' tuirebbero una di quelle soluzioni di continuit, uno di quei salti, che non sarebbero compatibili n col principio dellevoluzione n con 1' unit delle leggi dello spirito. Non solo la comparsa delle idee astratte per se stesse dovrebbe concepirsi necessariamente come un fatto essenzialmente nuovo nella storia degli esseri sensibili, ma di pi un ordine complesso di fatti, dipendenti dall'impiego di questa specie d'idee, scaverebbe un abisso pi profondo ancora tra lo spirito che possederebbe le idee astratte e quello che non le possederebbe. Nessuno negher, p. e. che si possono formare dei giudizi senza fare uso delle idee astratte gli animali pi inteUigenti e i bambini sono certamente capaci di rammentarsi, di prevedere certi fenomeni che loro sono pi familiari, di percepire gli oggetti reali quando alcuna delle propriet sensibih di essi cade sotto i loro sensi, di conoscere le somiglianze e le differenze delle cose, in una parola, di fare molti atti mentali che tutti implicano il giudizio, e ci senza bisogno d'impiegare idee generali. Gli stessi concettualisti devono anche convenire che la formazione dei concetti suppone gi molti di questi giudizi estra concettuali. Cosi ecco due ordini^ di giudizi essenzialmente differenti: l'uno che ha per termini dei fatti 0 delle idee particolari e le loro relazioni; l'altro che ha per termini dei concetti, cio dei soggetti ed attributi, e le loro relazioni, le quali sono esse pure essenzialmente differenti dalle prime. La stessa duplicit nel ragionamento. Allo spirito senza idee astratte si conceder senza dubbio una sorta di ragionamento: sar ci che Leibnitz chiamava una consecuzione d" immagini, un passaggio da alcune idee particolari ad altre idee particolari fondato suU' analogia. Noi vedremo che non vi ha in realt altro ragionamento che questo ; ma se si ammettono le idee astratte, il vero ragionamento sar di una natura essenzialmente differente poich allora dovr ammettersi che alla proposizione generale, che  il punto di arrivo della induzione e il punto di partenza della deduzione, corrisponde una nozione, parlando rigorosamente, generale e questo ragionamento sar esclusivamente proprio dell'uomo, che solo possiede delle nozioni astratte e generaU. Ecco dunque come la teoria dei concetti separa violentemente la ragione dell'uomo dal resto della natura, rompendo l'unit della vita psichica, e mettendosi in contraddizione con lo spirito della scienza moderna. Esaminiamo ora i concetti, per dir cosi, in azione, e vediamo in quale ginepraio inestricabile la teoria concettuaKsta ha cacciato i filosofi, che hanno fondato su di essa la teoria del giudizio e la sua classificazione. Noi incontreremo altre difficolt insormontabili della dottrina  il SUO concetto ne  sempre un'altra, e il giudizio concerne il fatto, non il concetto. (Filosofia cU Hamilton, trad. Franc. Ma che vi sar nella nostra mente invece del fatto concepito? vi sar il concetto del fatto, o no? vi sar, io voglio dire, un concetto astratto, o Tidea di un fatto concreto e particolare? Se non vi saranno che delle ideo di fatti o cose concrete e particolari, e falso che noi non aljljiamo nello spirito cfie degli attributi, perch questi sono astratti, n degli oggetti particolari potrebbero stare fra loi^o nella rflazione di soggetto ed attributo. Vi saranno dunque dei concetti, e Topinione di Mill rientra nella teoria concettualista comune. Ma dice Mill: il giudizio afferma che gli attributi che formano il predicato sono uniti con ^li attributi clie formano il so^getto, non per nella nostra concezione, ma in fatto; e si pu dire che il giudizio afferma che due concetti sono compatibili, ma nel senso che essi possono essere realizzati obbiettivamente Vuno a lato delU altro, E dun(]ue il realismo che Mill vuole sostituire al concettualismo? Questa proposizione il corpo  grave , esprime secondo lui ciie due sistemi d' attributi, la gravit e la corporiet, coesistono e sono obbiettivamente r uno a lato deir altro ma percli due cose coesistano, bisogna gi che siano due cose realmente distinte e ciascuna avente un'esistenza propria.Dir il Secondo il R \in, U\ proiusizioni che aflerinano hi situazione reciproca delle cose neUo spazio, e quelle che afierinano l'inerenza di pi proi)riet nello stesso soggetto, non sono die due variet distinte delle ])roi)osizioni di coesistenza. Invece d'una certa situazione locale con intervalli che i^ossono essere apprezzati numericamente, abbiamo (nelle seconde) la coesistenza di due o pi attribu'i [josti in uno stesso luogo. Una massa d'oro contiene in ciascuno dei suoi atomi gli attributi che caratterizzano questo metallo: il peso, il colore, il lustro, la durezza, eco: {Logica). DuiKiue, secondo Hain, il peso dell'oro, il s^o colore giallo. Mill che noi prendiamo in un senso proprio ci ch'egli ha detto solo in un senso traslato? Ma se non si vuole stare al senso proprio, le sue espressioni non dicono niente di preciso, e convengono egualmente a qualsiasi sistema, al realismo cosi bene che al concettualismo e al nominalismo. Poich allora non direbbero se non questo che la proposizione unisce due termini generali, di cui ciascuno pu fare da predicato, e che se la proposizione  vera, deve esservi nella realt un non so che, che corrisponde alla proposizione. Noi stiamo dunque in un trilemma che  fatale per la teoria dei concetti. Q Taffermazione del giudizio ha per oggetto delle cose concrete e particolari, e noi non possiamo avere nello spirito, quando giudichiamo, che le idee di cose concrete e particolari. O l'oggetto deiraffermazione non  che una relazione tra concetti, e allora il giudizio concerne solo dei concetti, e non ha che fare con le cose reali. O infine il giudizio, mediante i concetti, stabilisce una unione o un rapporto qualunque tra cose reali, e in questo caso queste cose reali non possono essere degli oggetti o fenomeni concreti e particolari perch, per ipotesi, le idee corrispondenti sono assenti dal nostro spirito ma dalle realt adequate ai concetti, cio degU attributi obbiettivamente esistenti, delle astrazioni realizzate. Si  visto che noi crediamo naturalmente che, nell'atto del pensiero, non sono le rappresentazioni, ma gli oggetti stessi, che ci stanno dinnanzi allo spirito. Vi hanno dei filosofi i quali affermano che questa credenza naturale non c'inganna, e che il nostro pensiero prende e investe realmente gli stessi oggetti reaU. Secondo noi questa  una il suo splendore, la durezza, la fusibilit, la duttiUtn, la capacit di essere; disciolto dall'acqua regia, sono delle entit situate in uno stesso luogo e contenute in ciascuna molecola d'oro. Ma se non  questa, che sar mai la realizzazione delle astrazioni? illusione, 0 noi non possiamo avere iFinnanzi allo spirito che (Ielle idee o delle rappresentazioni; solamente queste rappresentazioni si scambiano e si confondono naturalmente con gli stessi oggetti rai)presentati. L^idea e la cosa hanno, per esprimerci cosi, la stessa forma, ma luna ha una esistenza subbiettiva, l'altra una esistenza obbiettiva: ora, (juando pensiamo, V idea ci ai)parifece come qualche cosa (H obljiettivo e di reale, che ha per la forma stessa dell' idea, in altri termini, noi obbiettiamo e realizziamo naturalmente le nostre idee. Cosi avviene che (juando noi giudicliiamo, ({uantunque non abbiamo nello spirito che delle idee, tuttavia IVjggetto del nostro giudizio sono i fenomeni o le cose stesse corrispondenti alle idee. Ma se noi avessimo nello s[)irito dei concetti astratti, come potrebbero le nostre ailermazioni avere per oggetto le realt? soltanto obbiettivando e realizzando questi concetti astratti, mettendo al loro posto qualche cosa che avrebbe un' esistenza obbiettiva, ma che avrebbe pure la stessa forma delFidea astratta, cio una astrazione obbiettivata e realizzata. A ci si risponder forse che, (juantun(|ue Toggetto reale deiratlermazione siano gli attributi astratti delle cose, e non le cose stesse nella loro concretezza, pure non  necessario che ])erci noi intendiamo di considerare questi attributi astratti come realmente distinti e separati ; noi non li distinguiamo che per una veduta mentale che li sc[ara ciascuno dal resto della cosa concreta a cui inerisce, ma senza ammettere perci che essi esistano per se stessi, distinti e separati. Ma ragioniamo un poco sulla ipotesi della verit delle nostre credenze naturali, cio sulla supposizione che il nostro pensiero colga l'oggetto stesso reale. Abbiamo riiiia da noi negletto, accompagna costantemente ciascun complesso di fatti, cio ciascun oggetto particolare, a cui corrisponde il concetto. Bisogna dunque aver percepiti degli oggetti, rammentarceli, paragonarli, ecc. Ma non si j)u concepire un oggetto senza attenuare la coesistenza delle propriet sensibili costituenti quest'oggetto, la sua permanenza nel tempo, in una parola, la coesione di tutto un gruppo di fenomeni, che sono caduti o possono cadere sotto i nostri sensi, successivi e simultanei. Non si pu rammentarlo senza affermare che esso  esistito nel passato ed  caduto sotto la nostra esperienza. Il paragone di tutti questi oggetti poi importa Y affermazione dei loro rapporti di somiglianza e di differenza. Dunque in un concetto sono, per dir cosi, condensati e fissati un gran numero di giudizi. Ora ciascuno di questi giudizi ha bisogno almeno di un concetto, T attributo. Osi dir che sono giudizi estra concettuali, i cui termini non sono un soggetto e un attributo, ma unicamente delle idee di fatti particolari? Ci sarebbe arbitrario, perch ciascuno di questi giudizi  suscettibile di ricevere la forma della proposizione, e di avere per predicato un termine generale. D'altronde Toggetto di questi giudizi non pu differire sostanzialmente da quello di tutti gli altri; perch, come abbiamo visto, in tutti i giudizi Taffermazione, la credenza, volge sempre su dei fatti e sui loro rapporti. Questo  dunque un circolo vizioso, ed  impossibile alla teoria dei concetti di uscirne con onore: la formazione di ogni giudizio suppone dei concetti antecedenti, e la formazione di ogni concetto suppone dei giudizi antecedenti. Forse la dottrina delle idee innate romper, come credeva il Rosmini, questo circolo? no, perch un po' di riflessione mostrer che i concetti, che questi giudizi primitivi, anteriori alla formazione dei concetti acquisiti, implicherebbero, sono le nozioni di fatti e di rapporti tra i fatti, che non possono venirci evidentemente se non dairesperienza. Andiamo ora finalmente alla classificazione di SERBATI (vedasi) Xuoco Saggio sulVovgine delle idee; e confi. FERRARI (vedasi) elio su questo punto  un rosminiano Sa^^'iO sul principio e i limiti della filosofia della storia, cap. 1. giudizio. Come si sa, i concettualisti ammettono una doppia quantit o contenenza reciproca nei concetti. Una classe pi generale contiene un certo numero di classi meno generali subordinate: tutti i predicati che possono attribuirsi alla classe pi  generale, possono altresi attribuirsi alle classi subordinate, ma di pi pu a ciascuna di queste ultime attribuirsi un certo numero di predicati che le  speciale. I concettualisti dicono che il concetto della classe pi generale contiene nella sua estensione i concetti delle classi subordinate, e il concetto di ciascuna di queste ultimo classi contiene nella sua comprensione il concetto della classe pi generale e inoltre una o pi note che gli sono proprie. La contenenza o quantit in estensione  esterna ai concetti, appartenendo essa, piuttosto che ai concetti stessi, agli aggregati di oggetti classati insieme, a cui si riferiscono i concetti ; la contenenza o quantit in comprensione, al contrario,  una propriet interna dei concetti, e si riferisce ai concetti stessi nella loro mutua relazione. Cosi il concetto di animale contiene in s o comprende i concetti pi generali di essere, di corpo, di vi^ venie, e, oltre di questi, una o pi note, che potranno essere sensibile, semovente, ecc ; tutti questi concetti o note, comuni e proprie, sono contenuti in comprensione nel concetto di animale, e quindi appartengono intrinsecamente a questo concetto stesso. Viceversa i concetti di essere, di Qorpo, di vivente, contengono in estensione il concetto di animale, il quale per conseguenza, piuttosto che far parte, per se stesso, di questi concetti per se stessi, si riferisce a una cosa che fa parte delle cose a cui questi concetti si riferiscono.  su questa relazione dei concetti che  fondata la divisione principale dei giudizi, in analitici e sintetici. Quando il concetto significato dal predicato  compreso nel o fa parte del concetto significato dal soggetto, il giudizio  analitico^ quando il concetto del predicato non fa parte del concetto J.t 1 del soggetto, ma tuttavia si afferma del soggetto, il giudizio  sintetico. Far parte o essere compreso vuol dire in queste definizioni essere contenuto in comprensione. Ma quando  che il concetto del predicato  compreso nel concetto del soggetto, cio quali sono le note che un concetto, capace di Jungere da soggetto, contiene nella sua com[)rensione, e quali sono le note che non contiene? La risposta a questa domanda, sulla quale pertanto deve essere t'ondata la legittimit della classazione dei giudizi in analitici e sintetici, ha gettato i filosofi in mille perplessit, in mille difficolt insolubili, in un laljirinto, in una parola, da cui  impossibile Tuscita. Il concetto , come si ammette generalmente, il significato di un nome generale. Ora i logici distinguono nel senso di un nome la sua connotazione e la sua denota-^ zione. Un termine denota ciasomo degli oggetti particolari a cui esso si applica: uomOy p. e, denota ciascuno degli esseri particolari che vengono cosi chiamati. In quanto alla connotazione del nome, non s potrebbe spiegarla con tuttala chiarezza necessaria senza pregiudicare la quistione antecedente; ma noi diremo, d'una maniera generale, che il nome connota ci che si afferma d'un oggetto jjer ci solo ciie gli si applica il nome. Ora che si afferma di un essere particolare, chiamandolo uomo? che egli deve essere classato fra gli uomini, cio che ha un certo rapporto di somiglianza con altri esseri gi da noi conosciuti, e che siamo soliti chiamare uomini. Cosi jrendendo per punto di partenza che il concetto  precisamente ci che il nome connota, si dir che il concetto comprende quelle note o attributi, che noi intendiamo affermare di un oggetto mettendolo nella classe corrispondente e dandogli il nome di questa classe, note o attributi senza di cui esso non sarebbe classato e nominato cosi, ma altrimenti. A (j\iesto punto di vista, non tutti gli attributi che si possono affermare in generale degli oggetti di una classe, fanno parte del concetto di questa classe, ma solo ima porzione determinata di questi attributi. Tanto pi che, siccome il senso, cio la connotazione del nome deve essere la stessa per tutti (luelli che parlano la stessa hni?ua, senza di che non potrebbero intendersi fra loro, cosi nel concetto della classe se il concetto  la connotazione del nome non devono entrare che quegli attributi che tutti debbono conoscere perch possano fare un retto uso del nome. Ma vi ha un altro punto di vista affatto differente, se si ha riguardo, piuttosto che alla connotazione del nome, cjuale noi Y abbiamo spiegata, alla sua denotazione. Che significa intatti uomo, se non gli oggetti reali che vengono cosi chiamati  In una proposizione che ha per soggetto qualche uomo o in generale Fuomo, qual  il soggetto reale del nostro giudizio, cio qual  Toggetto di cui giudichiamo o affermiamo un certo predicato, se non gli uomini stessi, vale a (hre delle sostanze reali quali esistono effettivamente? fJra cosa pu essere una sostanza, se non il tutto costituito dalle sue propriet o modi di essere? vi ha un attributo che non appartenga alFessere a cui si attribuisce, o non ne faccia parte? Dunque, se ciascun oggetto significato dal nome  il tutto costituito dalle qualit o attributi che gli appartengono, il significato generale del nome, il concetto, non pu essere che ci che tutti gli oggetti nominati hanno di comune, vale a dire il complesso di tutte le note o attributi, che i)Ossono predicarsi di tutti gli og^^Qi della classe corrispondente. La divisione ordinaria del giudizio in anahtico e sintetico suppone il primo di questi due punti di vista. Essa  stata introdotta da Kant nella filosofia moderna, ce II corpo  esteso  , secondo lui, un giudizio analitico, perch Testensione  una nota che fa parte del concetto di corpo ; ma   sintetico, i)erch la gravit non fa parte di questo concetto. Similmente, sizioni notae per se equivalgono ai giudizi analitici, e quelle notae per alind ai sintetici. In effetto, secondo i concettualisti, la definizione  appunto la esplicazione del concetto, la sua decomposizione nelle note parziali che Io costituiscono; donde si vede anche che il giudizio da Kant chiamato analitico non  che o una definizione o la parte di una definizione. Quando noi ci domandiamo ammesso anche il presupposto che il contenuto del concetto deve desumersi dal senso in connotazione del nome corrispondente, se un giudizio  analitico o no, cio se l'attributo fa parte o no della comprensione del concetto del soggetto, noi ci troviamo il pi spesso nella pi grande perplessit. Cosi, loro  un metallo giallo  per Kant un giudizio analitico (v. Prolegomeni ad ogni metafisica futura  cf. Grice/ Strawson, In defence of a dogma). Questi due concetti dunque, metallo e giallo, fanno parte secondo ldella comprensione del concetto delForo. iMa se il colore giallo  compreso nel concetto dell'oro, noi dobbiamo ugualmente comprendervi il suo splendore. La durezza^'e la fissit, come anche la fusibilit, faranno parte ugualmente di questo concetto: e come non comprendervi ancora che esso  il pi pesante di tutti i corpi  Ma se noi vi comprendiamo queste note, non vi jia ragione di escluderne la duttilit; e pertanto l'oro  duttile  sarebbe, secondo il traduttore di Kant, un giudizio sintetico (v. Critica della ragion pura traduzione italiana, Introduzione, IV, quarta nota del traduttore). La capacit di essere disciolto nelTacqua regia far pure parte del concetto delForo, essendo essa una delle propriet che ci servono a differenziare questo metallo. E se noi ci decidiamo a far entrare nel concetto tutte queste propriet, noi siamo costretti a continuare a farvi entrare Tuna dopo Taltra tutte le propriet conosciute deir oro. Non vi ha ragione decisiva per preferire una ad un'altra; fermarci ad un punto qualunque sarebbe arbitrario. Si creder forse di rispondere con precisione alla nostra domanda, dicendo che un giudizio  analitico, cio che il concetto delFattributo fa parte della comprensione del concetto del soggetto, quando Tattributo fa parte delFessenza del soggetto, o, ci che  dire lo stesso con altre parole, quando rattrijuto  un elemento della definizione del soggetto. Ma se vogliamo sapere ancora quaU attributi siano capaci di entrare, nella definizione del soggetto, o siano a lui essenziali, noi ci troviamo naturalmente nelle stesse perplessit. Cominciamo per determinare che cosa sia lessenza d una cosa, o, ci che vale lo stesso, in die consista una definizione. Fra gli attributi o propriet appartenenti ad un genere dato, gli antichi filosofi distinguevano come un piccolo nucleo (sufficiente a distinguere il genere da tutti gli altri) di propriet riguardate come primitive e da cui si supponeva che tutte le altre derivassero; era questo nucleo che si chiamava propriamente l'essenza della cosa, e definizione la proposizione che Tesprimeva. Questa nozione, come si vede nel 2^ Saggio, venne introdotta da Platone: essa era uno degFingredienti della sua dialettica, e derivava dal suo metodo di divisione, Aristotile l'adott ; e cosi venne naturalmente a fetr parte del bagaglio della metafisica, la quale, non contenta mai di conoscere Yqzi delle cose, ma aspirando a conoscere il Sizi, della stessa maniera che cerca il legame intimo che unisce l'antecedente e il conseguente nella relazione causale, cosi vorrebbe trovare l'altro legame intimo che unisce le diverse propriet coesistenti in un oggetto dato. Ma se si eccettui la geometria, non vi ha nella scienza alcuna di queste definizioni, espressive dell'essenza reale, e da cui tutte le altre propriet della cosa definita possano dedursi: le cose della natura sono fornite d'un numero indefinito di propriet, irriduttibili e senz'alcuna connessione percettibile a priori, e di cui molte certamente sono ancora sconosciute. Cosi, siccome le nuove propriet delle cose sono state generalmente scoverte per l'osservazione^ e non derivate da qualche idea dell'essenza, *si venne naturalmente all'opinione pressoch universale che le essenze delle cose ci sono sconosciute: e l'essenza, che per quelli che introdussero questa nozione era ci che pi immediatamente e pi chiaramente si conosceva delle cose,  divenuta, per conseguenza, ci che vi ha in esse di pi oscuro ed incomprensibile. Alla essenza reale degli antichi filosofi, per un efietto di questo agnosticismo, viene cosi ordinariamente, per gli usi della logica, sostituita, presso i moderni, l'essenza logica o nominale, che dovrebl^e con pi propriet chiamarsi l'essenza concettuale.  a questo secondo senso della parola essenza che si riferisce la distinzione tra gli attributi essenziali e i non essenziali, con cui ha da fare una teorica del giudizio. L'essenza d'una cosa, in questo senso,  l'insieme delle propriet che costituiscono il concetto di questa cosa, o la connotazione del suo nome; e la definizione, per conseguenza, l'analisi del concetto, o la spiegazione del senso (in connotazione) della parola. Cosi, se domandiamo quali siano gli attributi che vanno compresi nel concetto, ci si risponder che sono quelli che fanno parte dell'essenza o della definizione ; ma se vogliamo sapere quali siano gli attributi che fanno parte dell'essenza o della definizione, ci si dir che sono quelli compresi nel concetto. Tuttavia, siccome i logici concettualisti hanno dato un'esposizione pi sviluppata della dottrina della definizione che di quella del concetto, noi possiamo sperare di rischiarare la seconda per la prima. Quando si tratta di determinare quali siano gli attributi che costituiscono l'essenza, o che devono entrare nella definizione, riappariscono naturalmente i due punti di vista sulla comprensione del concetto, di cui sopra abbiamo fatto menzione. La maggior pfirte dei logici insegnano che la definizione si fa per il genere prossimo e la differenza specifica: cosi sarebbero due i concetti elementari che devono entrare nella definizione. Questa dottrina sulla definizione  un antecedente naturale della teoria che per determinare la comprensione del concetto, parte dalla connotazione del nome, quale noi Y abbiamo gi spiegata. Questa ultima teoria infatti avendo bisogno d nn minimum di note per la costituzione del concetto, trov naturalmente ci che le occorreva nella dottrina comune della definizione. Ma vi hanno altri filosofi, come il Bain, i quaU pensano che nella definizione devono entrare tutti gli attributi ultimi o irriduttibili della classe che sono conosciuti . Si pu certamente ammettere come pi conci) V. Bain Logica. Cosi la mortalit fa parte, secondo Ban, della essenza dell'uomo, e dicendo ruomo  mortale, non si esprimerebbe che una parte della defmizione deiruomo, essendo la mortalit un attributo primitivo degli esseri viventi, che non pu dedursi da alcun altro. Ma r uomo fa la cucma  non esprime una parte della defmizione, perch quest'attributo deriva da un attributo anteriore dell'uomo, ch'egli  industrioso, e quest'altro deriva dagli attributi realmente primitivi, e quindi essenziali che  intelligente e ha delle mani. Il Bain distingue, coi logici antichi, dagh attributi essenziali a primitivi, cio quelli che entrano nella detlnizione, non solo i propri, che derivano da quelli, ma anche gli accidentali. Tuttavia un accidente rigorosamente universale, o inseparabile, non differisce al fondo, come dice egli stesso, da un attributo essenziale, e deve quindi considerarsi come tale, ed entrare nella definizione. Secondo il Bain, la defmizione classica per genas et (UtJeren^ tiam, e cos pure ogni altra defmizione che non esaurisce la totalit deizli attributi essenziali o irriduttibili della classe, e una definizione incompleta: essa serve, non ad esprimere tutta la conforme all'uso ordinario della definizione, ed anche al senso etimologico della stessa parola defmizione, che non sia necessario di racchiudervi tutti gli attributi della classe, e nemmeno gFirriduttibili, ma semplicemente quelli che bastano a distinguere gli oggetti appartenenti alla classe da tutti gli altri oggetti che esistono fuori della classe, ed  su ci che  fondata la regola ordinaria, secondo cui basta una sola differenza specifica per formare la definizione. Ma questo processo non deve illuderci fino al punto di credere che questa capacit di definire o differenziare notazione della classe, come fa la definizione completa, ma solamente a distinguerla da ogni altra classe. A parte la dottrina della connotazione dei nomi, sulla quale noi ritorneremo, ({uesta distinzione del Bain della definizione completa (che espone tutti i caratteri primitivi o irriduttibili della ciassc) e della definizione incompleta (che distingue la classe da tutte le altre), si pu ammettere, quantunque sarebbe forse pi proprio e pi conforme all'uso della parola definizione, di chiamare piuttosto descrizioni le definizioni complete del Bain, quando esse comprendono molti caratteri. Anche per il Mill  una definizione incompleta quella che si fa per il genere e la differenza (Logica): ma il Mill non si allontana tanto quanto il Bain da questa forma tradizionale della definizione ; una definizione completa, per il primo, non essendo, come per il secondo, la enumerazione di tutti i caratteri (irriduttibili) della classe. Per il Bain tutti questi caratteri entrano neUa connotazione del nome, e quindi nefia definizione, ma per il Mill solo un numero limitato di essi. L' uomo  mortale , non  per Mill un predicato essenziale, ma lo  per Bain, sin tanto almeno che non si mostrer che la mortalit  un proprium, derivante da qualche attributo essenziale dell'uomo e, in generale, degli esseri viventi. Noi andiamo a mostrare che la dottrina sulla connotazione dei nomi, sulla quale  fondata questa esclusione della pi parte dei caratteri (d' altronde universali e irriduttibili) di una classe dalia sua essenza, non  che una mera finzione dei logici. Non pu farsi alcun uso corretto della parola essenza, se non per designare la somma di tutti i caratteri (almeno i non derivati) comuni a una data classe di oggetti. una classe sia la prerogativa esclusiva di quella tale differenza specifica che noi mettiamo nella nostra definizione, e che le note che noi scegliamo per una definizione abbiano con la natura della cosa o con la nozione di essa un rap{3orto molto pi intimo che qualsiasi altro attributo conosciuto della cosa. Questo non sarebbe che un pregiudizio trasmessoci dair antica teoria realista delFessenza che, come si sa, ha formato il punto di partenza di tutte le ricerche logiche di quest'ordine. L'uomo  un animale ragionevole ,  senza dubbio una definizione preferibile a qualsiasi altra dcfinizion i dell'uomo, perch essa fa comprendere il pi facilmente quale sia l'oggetto definito, il genere prossimo essendo di quelli di cui tutti hanno un'idea sufficientemente esatta, e la differenza essendo ugualmente conosciuta da tutti come un carattere differenziale tra il definito e le altre specie del genere. Non  certamente facile, per gli esseri naturali, di trovare molte definizioni simih. Ma che cosa vieterebbe di definire l'uomo altrimenti, prendendo per genere, non l'animale, ma il vertebrato o il mammifero o qualsiasi altra delle classi d'ordine inleriore, a cui pu essere subordinato l' uomo, e per differenza il bimane, p. e., o qualsiasi altra particolarit della struttura umana, capace a distinguere la nostra specie da tutte le altre del genere riguardato come prossimo? Ora non  di questa maniera evidente che qualunque propriet sia generica sia specifica dell'uomo sarebbe capace di entrare in una definizione di esso? Ma si crede che la differenza specifica di una vera definizione logica sia, non pi veramente un attributo pi fondamentale nella natura della cosa, ma un attributo implicato invariabilmente nella connotazione del nome, e che, per questa ragione, fa parte della comprensione del concetto.  ci infatti che si vuol dire al fondo, quando si dice, con linguaggio pieno di mistero, che un attributo essenziale  ci senza di cui la cosa finirebte di essere CIO che : ci che  significa un uomo, un cavallo, un albero, ecc.; e un attributo essenziale  cosi ci senza di cui la cosa non sarebbe chiamata uomo, cavallo o albero. Ora,  vero che tutte le note di una definizione, fatta secondo le regole dei logici, sono implicate invariabilmente nella connotazione del nome? Se fosse cosi, noi chiameremmo invariabilmente uomo qualsiasi essere, reale o immaginario, che avesse insieme con l'animafit l'attributo ragFonevole, e rifiuteremmo con la stessa costanza questo nome a qualsiasi essere non avente quest'attributo Ma un po' di riflessione mostrer che non  cosi clie noi facciamo di fatto. Immaginiamo infatti clic esistessero dei pappagalli, o altri esseri organizzati aventi una struttura assai^ diversa dall'umana, i quali nelle loro parole e nei loro atti mostrassero altrettanta ragione che l'uomo:  certo che noi non chiameremmo affatto uomini queste creature immaginarie. Supponiamo invece, come tante volte ne  corsa la voce per il passato, che si scopra una razza di esseri, simili in tutto nella forma e nella struttura all'uomo, ma che non avessero V uso del linguaggio e della ragione:  quasi certo che noi li chiameremmo uomini. E sen7^ correre tanto con 1' inunaginazione, non chiamiama forse uomini g' idioti? Si dir forse che la definizione trasmessaci dagli antichi  insufficiente, e che avrebbe bisognato definire 1' uomo anzitutto per la sua figura esteriore. Cerchiamo dunque di definirlo cosi. Certamente noi non diremo, come Democrito , che 1' uomo Jia la Jtf/nra che conosciamo, se vogliano fare una definizione;. ma determineremo i caratteri della figura esteriore che sono propri dell'uomo. Ora dobbiamo noi ammettere che un essere deve avere precisamente tutte le particolarit di questa forma esteriore per potere essere chiamato uomo?; Aristotile De partiba^ animalUini, iib. 1., e. l, e Sesto Empirico Adrcrms Mathematicos ma per il passato  corsa pure la voce deiresistenza di uomini, simili in tutto a noi, dotati di i)arola e di ragione, ma con una coda pelosa fra le gambe, il che, se esistessero in realt, non c'impedirebbe certamente di chiamarli uomini. Se dunque non  il possesso di tutte le ])articolarit 0 attributi della forma esteriore, che sarebbe necessario per applicare il nome, allora Tuna delle due: o l'assenza o presenza della coda verrebbe considerata come una particolarit insignificante, ma vi sarebbero altre parti pi importanti della figura umana che sarebbero considerate come necessarie; o nessuna delle particolarit della forma sarebbe necessaria, ma ciascuna isolatamente potreljbe variare, purch un certo numero di esse o la maggior parte restasse invariabile. Ora noi non possiamo ammettere il primo dei due casi, perclie come si  parlato di uomini con la coda, si  ugualmente parlato di uomini senza testa o aventi la testa sotto le spalle: non vi ha dunc^ue parte alcuna o carattere della forma esteriore, la cui presenza si ritenga necessaria per applicare il nome.  il secondo caso che si deve ammettere? ma sarebbe confessare che nessuna delle note della definizione accompagna invariabilmente l'impiego del nome uomo.Cosi qualunque sia il numero delle note che facciamo entrare nella definizione, sia che ci contentiamo di una sola differenza specifica sia che ne impieghiamo molte allo stesso tempo^ non  mai NcUa connotazione d uomo, dice Mill, vi lui cortamente una certa forma esteriore, ma sarel)be impossibile di dire qual deviazione dalla forma ordinaria sia sufficiente per rifiutare il nome di uomof/.or/iVa). Ma cosi dicendo il Mill confessa che l'applicazione del nome non  fondata sulla partecipazione di certi caratteri determinati, ma sovra una somiglianza generale. L'applicazione del nome non importa dunque V attribuzione di certi predicati definiti: ma che diventa ollora la dottrina della connotazione dei nomi? Questa oljbiezione d'altronde rientra nella difficolt sollevata da una pro]>oslzione di Wewell, di cui appresso. ammissibile che le note della definizione accompagnino invariabilmente l'applicazione del nome, e facciano parte della sua connotazione. Intanto  ci che deve necessariamente pretendere la dottrina che identifica la comprensione del concetto con la connotazione del nome, dottrina che  tutto quello che i concettualisti hanno detto di chiaro su questa comprensione. L' imposizione di un nome o Y aggregazione ad una classe non implica che una somiglianza generale del nuovo membro con gli altri membri conosciuti della classe stabilita; non importa la riconoscenza di un gruppo preciso di caratteri speciali definiti, che siano rigorosamente comuni a tutta la classe. Io voglio dire che se un buon numero di questi caratteri speciali si trova ordinariamente comune a tutti i membri della classe, tuttavia nessuno di questi caratteri, preso isolatamente, si ritiene come assolutamente necessario ]:)erch un altro membro si faccia rientrare nella classe. Se un naturalista conosce una specie per quanto ben definita, ma poi viene a trovare un gruppo d'individui, che manchino di uno qualunque o pi dei caratteri specifici che definiscono la specie stabilita, egnon esister a classare questi nuovi campioni come una semplice variet della stessa specie, purch essi siano sufficientemente vicini agh individui gi conosciuti. Vi hanno anche, come osserva Darwin (Origine delle specie, cap. 14^), delle classi nella storia naturale, in cui due forme situate agh estremi opposti della serie, possono appena avere un sol carattere comune di quelli su cui la classe  fondata, o anche non avere affatto alcun carattere comune; ma siccome nondimeno tutte le forme della serie sono connesse l'una con l'altra per una catena continua di affinit, ci basta per farle riconoscere tutte come appartenenti alla classe. Cosi alcuni, come Wewell, hanno proposto di fondare la classificazione, non sovra un gruppo di caratteri definiti comuni, ma sul grado di affinit con dei tipi che ^m-^ possano rapi )resen tare la classe. E in generale, nella formazione di una classe, no' non incominciamo per istabilire una definizione, alla quale contiamo di uniformarci strettamente per conoscere Y estensione possibile della (l) MiLT. ninntiene contro Wcwell rafTcrmazionc clic una classe  fondata sulla definizione, cio sul possesso di caratteri determinati. Tuttavia eirli ammette che i caratteri, in ragione di cui sono costituiti i grui>i>i naturali, cosi bene che le classi artificiali, sono, non i soli caratteri rigorosamente comuni a tutti gli oggetti compresi nel grupi)0, ma riuelli che si trovano tutti nella pi parte degli oggetti, e la pi iarte in tutti {Lor/ca). 11 Mill dice altrove che in questo caso, cio (pianilo un nome di classe viene alTermato d'una sostnnza. la (fuale non possiede che alcune delle propriet caratterizzanti la classe, ci cie si afferma non  il possesso di un certo numero di predicati definiti, ma semplicemente la somiglianza con gli altri oggetti designati dol nome. Quindi . secondo lui, il senso del nome  ditt'erente, quando viene applicato a un individuo normale (rigorosamente conforme alla definizione), e quando a un individuo anomalo. 1/ ambiguit del termine in questo caso sarebbe perfetta, essendo diversa tanto la denotazione quanto la connotazione. Una classe sarebbe dun(iue formata. i)rima da un gruppo d'individui rigorosamente conformi alla definizione, e sarel)be la classe propriamente detta ; poi da un' appendice, composta dei casi aberranti, riuniti attorno alla classe, ma fuori, a parlar proi>riamente, di questa, quantunque i>i vicini ad essa che alle altre classi. Il nome di classe non si applicherei)! )e con propriet che al primo gruppo. Cosi, se noi volessimo esprimerci esattamente, noi noi> dovremmo, secondo 1 principi! tlel Mill, dire, p. e., d'un idiota; (luesto  un uomo ; ma l>ensi: (juesto non  uomo, ma  simile airuomof(cfr. Locke Saf7{//o ecc.). Ora siccome per ogni gruppo naturale, noi i^ossiamo sempre supporre di questi individui anomali (non conformi rigorosamente alla definizione, della classe), ne segue che ogni nome d classe  in realt ambiguo : ma allora, Tapplicazione di un nome di classe non implica pit Taffermazione di attributi definiti, e non vi ha pi alcun criterio per distinguere la i^roposizione analitica dalla i^roposizione sin^ letica. Il Bain si propone anch' egli la difficolt sollevata dal Wewell, Noi possiamo immaginare, egli dice, un gruppo t classe; ma prima stabiliamo la classe per Tapprezzamento complessivo delle affinit reciproche fra i suoi membri, di cui alcune forse indefinibili e insignificanti, e delle differenze tra essi e i membri delle altre classi, e poi cerformato da dieci caratteri, ma composto d'individui, nei quali uno o due di questi caratteri non sono marcati, bench si rassomiglino per il pi gran numero di caratteri. Noi possiamo anche fare ([uesta supposizione estrema, che la fluttuazione  t^le che alcuno dei dieci caratteri non persiste in tutti gl'individui, donde, rigorosamente, noi potremmo concludere che non vi ha pi un sol carattere comune, bench vi siano un gran numero di rassomiglianze. La difllcolt sollevata da Wewell, soggiunge il Bain, pu essere risoluta, se si accorda l'esistenza d'un margine, d'un intervallo vago, d'una transizione incerta, che  essenziale a dei cosi di continuit molto meno complicati che non lo  la distinzione dei gruppi in storia naturale  (p. e. la transizione fra la notte e il giorno, fra lo stato solido e lo stato li(iuido, fra cui vi hanno delle gradazioni insensibili, in modo che  impossibile di tirare una linea preciso di separazione.  su casi simili che si fondava l'antico solsma del sorite o del cumulo, . Si pu osservare anzitutto su questa soluzione del Bain, che nei casi della quistione di Wewell non si tratta d'una transizione incerta o indeterminata: gl'individui anomali il pi spesso vengono senza esitazione ricondotti a una classe, non vi ha dubl)o ch'essi appartengano a una specie o a un genere dato. Ma anche il fatto d' una transizione incerta sarebbe una dilTcolt grave per la dottrina del Bain della definizione e della connotazione dei nomi: se vi hanno dei casi tali, che  dubbio se gl'individui appartengano a una classe data e se il nome generale debba applicarsi, ci prova che la classazione e l'applicazione del nome non implicano l'affermazione di caratteri definiti. La ditlicolt. contenuta nella proposizione del Wewell  anche per il Bain pi grave che per il Mill: ente che alcun altro ha espostoiliondamcnto di questa divisioTie. Dopo avere rimproverato ad Hamilton che questi fa tutti i giudizi anahtici. perch comprende nel concetto tutti gli attributi conosciuti del genere, egli dice: Il concetto d'un genere;il mioconcetto d'uo sogliono avere per oggetto speciale, non di spiegare il senso di un nome, ma di segnare dei limiti in una classificazione scientifica. I logici antichi, egli aggiunge giustamente, sembrano aver creduto che la definizione ordinaria (per genus et dii-ferentiam) avea per oggetto di formulare la classificazione usuale e, secondo loro, naturale delle cose. Nondimeno persiste a chiamare tah definizioni definizioni di nome; perch eiili dice se l-i definizione  l'esposizione completa della connotazione del nome e gi per ci stesso sufficiente a fissare i limiti della classe ed  quindi tutto ci che pu essere una definizione (ini) ' I nomi di una nomenclatura tecnica (p. e. della botanica) hanno per connotazione, secondo il Mill, i caratteri per cui la classe  defimta secondo lo scopo speciale propostosi:  questa connotazione particolare, egli dice, che fa il senso del nome, perch noi ci fondiamo sui caratteri per applicarlo. Se ai primi caratteri si sostituiscono altri caratteri come pi i^roprii a distinguere la specie, 1 senso del nome cangia, secondo l'autore, quatunque la classe %Tr. V^V' P Uomo, egli dice altrove, nell'uso comune connota la razionalit ma nella classificazione di un naturalista pu avere una connotazione differente ; p. e. nel sistema di Linneo connota: quattro denti incisivi a ciascuna mascella, dei canini solitari, e la stazione retta . La parola uomo ha dunque due sensi differenti, quantunque denoti sempre la stessa cosa; e l'ambiguit, aggiunge il Mill diverrebbe evidente, se supponiamo che si scoprisse qualche nuovo ammale avente i tre caratteri di Linneo, ma non quelli connotati nell accezione comune del nome uomo. I Linneani allora se ve ne fossero, o dovrebbero chiamare questi nuov i animali uomini , o dovrebbero abbandonare la classificazione, e con essa la sgn.flcazione tecnica del termine. In verit l'esito dell'alternativa iiiMilia'aiimiiwa mo p. e., in quanto  distinto dalla mia rappresentazione mentale d'un uomo individuale, racchiude, non tutti gli attributi che io assegno alluomo, ma quelli soltanto di essi su cui riposa la classazone, e che sono implicati nel senso del nome. L'uomo  un essere vivente o Tuomo  ragionevole, sarebbero dei giudizi analitici, perch gli attributi vita e ragione sono del numero di quelli che si trovano gi nel concetto uomo. Ma: Tuomo  mortale, sarebbe contato come un giudizio sintetico, poich, per proposta ai Linncani non potrebbe essere dubbio: essi al)bandonerebbero la definizione, e continuerebbero a fare del nome uomo lo stesso uso cbe ne facciamo noi. Ci mostra che non  sui caratteri definiti, come vuole il Miil, che noi ci fondiamo per apiilicare il nome, e che  una pura finzione il dire con lui che l'autore di una nuova definizione scientifica cangia il senso del termine, anche quando le cose denotate restano le stesse. Ma se si rigetta (juesta finzione logica della connotazione dei nomi, diviene evidente, per la stessa confessione del Mill, che una definizione scientifica, avenrio per oggetto speciale piuttosto li stabilir*^ una classazione che di far conoscere fuso di un termine,  una definizione,di cosa piuttosto che di nome. Nella dottrina del P,ain non vi ha pi distinzione possibile tra definizioni di nonij e di co^a ; il senso in connotazione del nome . Dire che un corpo  solido, eiuivale a dire che se la mia mano far pressione su di esso, io sentir della resistenza, o i generale, che questo corpo olfrir della resistenzs, se una causa esteriore tender a mutare la i>osizione reciproca delle sue parti. Similmente, dire che un corpo ha un certo colore, e(iuivale a dire che se un fascio di raggi luminosi cade sul corpo, esso rilletter certi raggi determinati. Cosi fra proposizioni ipotetiche e categoriche pu stabilirsi una differenza grammaticale, ma non logica. Proposizioni particolaii. Alcuni uomini sono dotti  non jotrel)l)e essere una proposizione analitica, percida una parte dotto non  un attributo del genere, e d'altra parte la voce alcuni  un termine dimostrativo, e non attributivo, n pu (juindi niente aggiungere alla comprensione del concetto, di cui non modifica die l'estensione. Se il concetto dotti fosse contenuto nel concetto alcuni uomini , noi non itotremmo dire mai: Alcuni uomini sonoignoranti. Tuttavia FRANCHI (vedasi) (Teorica del giudizio), sostiene che questa  una proposizione analitica, perch l'attributo della dottrina inerisce o appartiene agli uomini di cui si parla, cosi bene che la ragione, o qualsiasi altro attril)uto del genere, a tutti gli uomini. Proposizioni negatile. Una tale proposizione esclude rattri])uto dal soggetto, non lo include: come dunque potrebl)e l'attributo essere contenuto nel soggetto, e il giudizio essere analitico? Tuttavia non hanno mancato dei filosofi . tra cui citer Lindner (Compendio di logica formale, Dottrina elementare, GALLUPPI (vedasi) (Saggio sulla critica della conoscenza, tomo 4 ^ 38. smess CO prendere tutte le note che possono predicarsi della classe. D'altronde il concetto dovendo rappresentare la natura o r essenza della cosa, e questa natura o essenza non potendo consistere che nel complesso delle propriet della cosa poich una essenza costituita solo da un minimum di propriet non  che una finzione metafisica (essenza reale degli antichi) o una finzione logica (essenza nominale o logica dei moderni) il concetto d una classe non pu essere quindi formato che dairinsieme degli attributi della classe, e cosi ogni giudizio, almeno se  universale ed affermativo, non pu essere che analitico (v. specialmente FRANCHI (vedasi) Teorica del giudzio, lettera 2^ li VI, lett. 4^ X, lett. 7^ XI, lett. l:> , ecc). ) e lo stesso Kant (Critica della ragion pura, Analitica trascendentale), che hanno riconosciuto il carattere analitico anche in tali proposizioni, in quanto, come dice il primo, il giudizio anahtico hnporta che non si deve uscir fuori della comprensione dei concetti, soggetto ed attributo, per vedere la loro compatibilit o incompatibilit. Di fatti, quando diciamo luomo  un animale, e l'uomo non  una pianta, l'operazione mentale checiueste due proposizioni supi^ongono, non pu ditlerire essenzialmente. Aggiungiamo elio talvolta le cose non potrebbero meglio esser definito che per la negazione di qualche attributo. Se vi ha un concetto della pianta, come non includere in esso l'assenza della sensi])ilitn, quando i)er il maggior numero  questo il carattere distintivo fra la i)ianta e l'animale? Giadizi di relazione. Alcuni, come Krause e Drobisch (v. FRANCHII (vedasi), Teorica del giudizio, lettera), distinguono i giudizi die affermano una propriet che si trova nel soggetto stesso, e quelli che affermano una relazione del soggetto con un termine diverso da lui. I primi sarebbero analitici, e i secondi sintetici. Ma questa distinzione  necessariamente incerta ed arbitraria GH attributi indispensaljili per costituire il concetto d'un oggetto, se si ammette che possiamo formarci di questo oggetto un concetto qualsiasi, non possono non annoverarsi tra i predicati che danno luogo alla prima classe di giudizii. Ma che cosa rester del concetto dei corpi, se si tolgono gli attributi, che loro provengono Contro questa dottrina si ripresentano naturalmente, ma molto pi gravi, le obbiezioni gi fatte al giudizio anahtico della divisione kantiana. La distinzione, ammessa in tutti i tempi, fra verit necessarie (di cui V opposto  inconcepibile; e verit contingenti (di cui l'opposto pu concepirsi) non  compatibile con questa dottrina: tutti i giudizii divengono necessari, perch direbbe una contraddizione colui che negasse un attributo, il quale gi fa parte del concetto del soggetto. Ogni giudizio infatti per questa dottrina non sarebbe che tautologico, e Tatto del daha relazione con altre cose? Noi non conosciamo e non distinguiamo 1 corpi che per la loro azione su noi stessi (sui nostri sensi) (i sugli altri corpi, in una parola per le loro proi)riet relative e una proposizione che aiferma ciascuna di queste propriet, esprime un giudizio di relazione.Giudizi comparatici. Questa sarebbe la specie pi certa dei giudizi (h relazione: cosi FRANCHI (vedasi) (V. op. cit. lett., ecc.) esita a riconoscere in queste proposizioni il carattere analitico, anzi lo nega addirittura. Ma tanti altri filosofi, che pure non estendono quanto FRANCHI (vedasi) la classe dei giudizi analitici, ma ammettono la distinzione ordinaria in analitici e sintetici, dichiarano le proposizioni comparative essenzialmeate analitiche, perch la relazione scaturisce necessariamente dai termini comparati ed  COSI implicitamente contenuta in (juesti termini, che devono considerarsi come il soggetto del giudizio. Noi abbiamo visto anche che gh esempli pi tipici delle proposizioni analitiche esprimono dei giudizi comparativi. Cosi per la maggior parte dei filosofi che ammettono la distinzione ordinaria dei giudizi analitici e sintetici le proposizioni matematiche, che sono la classe pi importante dei giudizn comparativi, sono delle proposizioni analitiche, e tra questi lllosoh bisogna comprendere anche il Krause. In seguito parleremo pi diflusamente di quest'argomento: per ora notiamo quanto deve essere oscura ed arbitraria la nozione del giudizio analitico, quando gli stessi giudizi, che per alcuni costituiscono la porzione pi importante, la sola importante quasi, deha classe dei giudizi analitici, por altri invece sono i soli forse fra i giudizi categorici, che devono escludersi da questa classe. Io non spinger pi oltre questa enumerazione, per amore di brevit. I giudicare diventerebbe il pi frivolo esercizio dello spirito. Tutte le proposizioni, o alm eno tutte le proposizioni generali, sarebbero verbali, come dicono i logici inglesi, e nessuna reale e istruttiva. Ora, era gi diffcile il credere che delle proposizioni come queste: Tuomo  animale ,  ragionevole *, fossero puramente verbali, e non potessero apprenderci niente pi del senso delle parole. Ma cUe diremo, quando si pretende che proposizioni come queste altre: Fuomo  un mammifero placentato, la materia  grave,  inerte , siano anch'esse verbali e identiche?. Infatti, si volga la cosa come si vuole, se Il Bain, ammettendo clie tutti i caratteri ultimi di un genere entrano nella definizione, e che la definizione non  che l'analisi del senso in connotazione del nome, ha fatto un passo considerevole verso la dottrina che tutti i giudizi (universali) sono analitici. La dottrina presenta anche sotto la forma di Bain un aspetto pi paradossastico, per la semplice ragione che, presso i logici inglesi, la nozione del giudizio anahtico non si trova pi involta in una specie di misticismo, come presso la pi parte degli altri filosofi, ma il giudizio analitico  chiaramente presentato come un giudizio tautologico e verbale. Secondo il Bain, la proposizione: La materia  inerte ,  puramente tautologica e verbale. poich chi comprende il senso (scientifico) di materia, sa che vi  contenuta la propriet dell'inerzia (1' espressione di questa propriet essendo la prima legge del movimento di Newton ). Cos pure . quando il naturalista espone tutti i caratteri ultimi di una specie (e non importa se questi caratteri sono pi di dieci o di cento), egli non fa che una proposizione verbale e identica: sia che i caratteri vengano espressi tutti congiuntamente (nella definizione), sia ciascuno separatamente, vi ha in amendue i casi, non una predicazione realCy ma rerbale. In verit il Bain non espone questa dottrina senza fare delle riserve. Vi ha dei casi, secondo lui, in cui la predicazione, in tali proposizioni,  reale, e non verbale e tautologica, e questi casi si riducono a tre: L Alcuno pu essere imperfettamente istruito delle propriet di una classe complessa, quantunque ne sappia abbastanza^ per riconoscerla: le propriet che egli ignora, necessariamente, non sono per lui implicate nel senso della parola; ogni determinazione dunque, aggiunta a ci che  gi implicato nella parola, questa proposizione: ce il corpo  grave )>  analitica, essa non vorr mai dire altro che questo: e ci che e esteso, impenetrabile e grave,  grave . Ammetttiamo pure che la proposizione dica d'una maniera distinta ci che il soggetto diceva d'una maniera indistinta, che in essa si dica esplicitamente ci che nel soggetto si diceva solo implicitamente. Ma  vero o no che, secondo questa dottrina, prima di giudicare che il corpo  grave, bisogna aver concepito gi il corpo come grave, e quindi aver conosciuto che il corpo  grave? Ma a che serve allora il giudizio? Del resto, quand'anche noi avessimo, prima di costituir unairermazione sintetica o reale. Ma questa determinazione nuova, una volta comunicata, compresa e impressa nella memoria, cesser essa stessa di essere un predicato reale, e diverr, a partire da questo momento, una proposizione verbale o analitica, poich non far che ripetere ci che il nome suggerisce o connota da se stesso, per ognuno di cui le conoscenze sono state -aumentate in questo senso. Tutte le propriet nuovamente scoverte sono dei predicati reali, quando per la T>rima volta si presentano a noi ; ma dacch sono state introdotte nella scienza, esse divengono verbali . (Noi vedremo che su (juesta veduta si fonda una terza dottrina intermediaria sui giudizi analitici e sintetici). 2. La proposizione pu supporre il risultato d'un' induzione anteriore, la quale ha costatato il fatto che le propriet d' una classe complessa o d'una nozione sono realmente unite nella natura. Cosi delle affermazioni come le seguenti: L' affinit chimica  sottomessa a delle proporzioni definite ; essa produce calore ; essa  seguita da un cangiamento di propriet , costituiscono una serie di proposizioni verbali o analitiche, le parole affinit chimica esprimendo (piesti tre tatti. Ma vi ha al fondo una predicazione reale, cio che l'unione in proporzioni definite di due corpi  accompagnata da una produzione di calore e da un cangiameto di propriet. 3. La proposizione verbale pu utilmente essere impiegata come un memento, sia che si voglia esporre un fatto conosciuto, sia che si voglia prenderio come principio a fine di tirarne una conseguenza {Logica). Riassumendo, il Bain ammette che, sotto la forma di una proposizione verbale o anahtica, pu contenersi un' aflermazione reale o sintetica, e ci avviene quando la [)roposizione comunica o rammenta la conoscenza fare questo giudizio: il corpo  grave ^ la nozione del corpo come "grave, sarebbe sempre un errore di credere che il senso di (juesta proposizione sia quello che devono supporre i filosofi che la ritengono analitica. Ci che noi intendiamo dire effettivamente per (jnesta proposizione, sia la prima volta o no che noi la torniamo,  che  un tatto generale nella natura che par tutto dove vi ha materia neir universo, riuesta materia  sempre grave; che non sincontra mai il caso che vi sia un corpo, ma npn sia grave; insomma che esiste o non esiste (lualche cosa nella realt, un latto o una legge, e che  questo Toggetto della nostra affermazione. Al contrario, un giudizio ana(li qualche fatto, di (iiialclie coesistenza di attributi. Ma  evidente? che 1 casi clie il Bain d come eccezioni, costituiscono invece la regola, e che l'eccezione  quando una delle proposizioni, che egli chiama analitiche, ha per oggetto di spiegare una parola. Tuttavia la quistione . si pu dire, senza interesse, quando si tratta unicamente di apprezzare la dottrina dei giudizi analitici. Sia una serie di proposizioni, in cui si contenga la descrizione di una specie naturale, p. e. deU' ossigeno, la enumerazione deUe sue propriet fondamentah. La forma tecnica e corretta di queste proposizioni sarebhe, dice il Bain, questa: esiste nella natura un aggregato di (lualit che sono: la materia, la trasparenza, lo stato gazoso, un peso speciftco e un potere di combinazione determinati, e cosi di seguito: a questo aggregato di propriet si  applicato il nome di ossigeno. Vi ha qui dunque al tempo stesso una proposizione reale: esiste nella natura un aggregato di qualit, ecc., e una proposizione verbale: a quest'aggregato si  dato il nome di ossigeno. Il Bain considera contuttoci come verbaU le proposizioni contenenti la descrizione deU'ossigeno, come se esse avessero per oggetto principale di darci la conoscenza dell'uso di un nome, e solo accidentalmente ci dessero la conoscenza di un fatto; altri pi facilmente considerer come oggetto piicipale la conoscenza della cosa, e come accessorio quella del nome. Ma in seguito viene la quistione: una proposizione verbale , in quanto verbale, una proiX)sizione analitica o tautologica? Al contrario, essa  una proposizione istruttiva e sintetica ; essa c'istruisce sulluso di un nome, ci fa conoscere un rapporto particolare di concomitanza fra una parola e la presenza di una classe determinata litico non pu avere alcuna presa sulla realt, sull'esistenza : esso afferma che un oggetto, che pu essere reale o solo possibile, il quale insieme ad altri attributi abbia la gravit,  grave; ma se vi siano o no dei corpi gravi, di oggetti o la loro rappresentazione. Le proposizioni verl)ali, dice il Bain, ci apprendono, da un lato, qual nome bisogna applicare a una cosa data ; e dall'altra parte c'insegnano il senso d'una parola data .  questo dunque che intendono i logici inglesi chiamando verbale una proposizione: il Mill definisce le proposizioni verbali della stessa maniera. Cos essendo, proposizione analitica per i logici inglesi, vuol dire, non proposizione verbale (che  una specie di proposizione sintetica), ma proposizione identica tautologica. Ora una proposizione tautologica non  una proposizione, nel senso logico di questa parola: essa  tanto una proposizione quanto una petalo prlncipU  un ragionamento. La petitio pruicipu SI d l'aria di essere un ragionamento; cos la proposizione tautologica si d l'aria di esssere una proposizione. Essa come dice lo stesso Bain, non  che un' attenuazione apparente,' e non non ha che la forma esteriore, vebale, della proposizione dib. L e. 2, 7):  in quesLo senso che pu dirsi meritamente prol)osizione verbale. Una proposizione identica o tautologica  dunque una proposizione ingannevole, sofistica, il cui carattere essenziale e di dare l'illusione, solauienie l'illusione, di aver affermato y, interpretata in comprensione significa che il latte produce su noi questa sensazione determinata; interpretata in estensione, significa che il latte deve annoverarsi fra gli oggetti bianchi. La prima afferma l'esistenza d'un fatto reale; la seconda un'assimilazione del latte ad altre cose, una classazione. Questi due sensi differiscono certo logicamente, ma sono due giudizii diversi. Ora, di questi due giudizi quale  quello che somiglia di pi al tipo degli anahtici?  certamente quello in estensione, perch non afferma che una classazione come quest'altro: l'uomo  un animale Noi potremmo conoscerlo confrontando semplicente tra loro le nostre idee; perch avendo l'idea del latte quale lo abbiamo osservato, e l'idea degli altri oggetti che diciamo bianchi, noi vediamo subito che il latte deve entrare nella classe di questi . Esso  cosi a priori e necessario, mentre la stessa proposizione, interpretata in comprensione,  a posteriori e contingente. Noi vediamo dunque qui un' inconseguenza della dottrina dei concetti; percli il giudizio in comprensione potrebbe essere analitico, ma non il giudizio in esten'Sont\ nel quale per assegnare Tattributo si esce necessariamente dall'idea del soggetto: ci  tanto vero che alcuni, come FRIES (Critica della ragione), hanno ricondotto i giudizi analitici a quelli in comprensione, e i sintetici a quelli in estensione. ^ 17. Noi possiamo ora riassumere con poche parole i risultati i>i importanti di questa discussione sulla dottrina concettualista del giudizio e sulle diverse maniere di determinare la comprensione del concetto, su cui si fondano le digerenti i'oi-me di (juesta dottrina. Se nel concetto si comprende solo una porzione determinata degli attributi della classe,  questa una finzione, smentita dalla connotazione reale dei nomi ; se invece si com[)rendona tutti gli attributi della classe,  un'altra finzione, ])ereli bisogna ammettere un concetto campato neir aria che non  il concetto di nessuno, o almeno un concetto che non  mai elfettivamente pensato quale esso . Se il inaino modo di determinare il contenuto del concetto non  compatibile col senso in den(jtazione del nome soggetto, il secondo modo non  compatibile con la costanza nella significazione delle parole, che non si tonda su altro che sulla loro connotazione costante. Se infine il giudizio sintetico conduce inevitabilmente alla realizzazione delle astrazioni, il giudizio analitico non  alla sua volta che un frivolo giuoco dello spirito. Un osservazione esatta sulla connotazione dei nomi ci mostra poi che il senso attributivo erazioni. se prima non si  fermato questo punto, che ai nmni ixenerah corrisi>ondono, non delle idee genoi*ali e astratte, ma rielle idee di latti [articolari e concreti. Ci che solitamente si (lice un' idea generale, non  dunque che ini nome ili classe, col corteggio delle rappresentazioni associate, pronunziato o inteso mentalmente, cio, come dice il Taine, *ercepito o immaginato, sveglia in me la rappresentazione sensibile, pi o meno espressi^, d'un individuo della classe; questo legame  esclusivo; esso non svegha in me la la rappresentazione d'un indivivuo cVun'altra classe. D altra parte, tosto che io percepisco o inunagino un individuo della classe, immagino questo suono stesso, e sono tentato di pronunziarlo; questo legame  pure esclusivo; la presenza reale o mentale d'un individuo d'un ahra classe non lo evoca nel mio spirito e non U> chiama sulle mie labbra (Taine Lintelligenza). Non vi ha cosi alcuna difficolt sul significato dei nomi, quando si considerano ciascuno isolatamente: il significato della parola uomo  di denotare questo o quelli > degli oggetti appartenenti alla classe uomini; il significato volosi, (inali i centauri e simili mostri della aiilologia. si lliiij:(n'an delle specie ditl'ereiiti insepara])ilniente leprate e riunite in un essere unico. Ciirito umano di credere neres-iar/c (luelle connessioni tra i fatti che gli sono estremamente familiari. (V. Saprgio) ^ della parola bianco di denotare ({uesto 0 quello degli oggetti appartenenti alla classe delle cose bianche. Ma che avviene quando due termini sono in congiunzione, p: e. un sostantivo e un aggettivo, uomo e bianco? Allora Tuno dei due termini, p: e: Taggettivo, determina o circoscrive in limiti pi stretti il significato dellaltro termine, del sostantivo. Uomo bianco significher non uno qualunque tra gli oggetti della classe uomini 0 della classe bianchi, ma uno qualunque soltanto tra gli oggetti che possono classarsi al tempo stesso tra gli uomini e tra i bianchi. Tale  la funzione delFattributo nella proposizione: bisogna dun(|ue guardarsi dal credere che, poich l'attributo e il soggetto sono due nomi distinti, noi nella proposizione necessariamente uniamo due idee distinte. Alcuni uomini sono bianchi non esprime la congiunzione ileiridea della bianchezza con Tidea di alcuni uomini: ma noi, per questa proposizione, ci rappresentiamo certi oggetti, a cui conviene tanto il nome d'uomo quanto (j[uello di bianco, e ne affermiamo l'esistenza. Noi abbiamo distinto nel significato dei nomi la denotazione e la connotazione: il nome denota gli oggetti a cui esso viene applicato, e connota, non un attributo astratto o un gruppo di attributi astratti, come vogliono i concettualisti, ma una somiglianza dell'oggetto con gli altri oggetti a cui il nome  stato dato. Tuttavia il vero significato del nome e la sua suggestione, cio le rappresentazioni (particolari) che esso suggerisce. Noi possiamo chiamare questa suggellane del nome la sua denotazione suhbiettiea, poich il nome non  associato soltanto con degli oggetti reali (denotazione obhiettica del nome) ma esso pu richiamarci le idee tanto di oggetti reali quanto di oggetti possbili o anche semilicemente immaginari. La connotazione del nome segna i limiti della sua denotazione iOinio obbietti e a quanto subbiettira: \a\e a dive, il nome pu suggerirci qualsiasi rappresentazione che abbia il grado definito di somiglianza, connotato dal nome, con le cose a cui il nome  stato dato. Ma il senso del nome, quando esso si unisco, con un altix) per formare una i^roposizione, domanda altre spieIn una proposizione il soggetto pu essere un termineparticolare 0 generale, ma lattributo , di regola, generale: nondimeno i tatti che noi affermiamo, e le idee che ne abbiamo, sono sempre particolari. Un predicato generale non determina il fatto affermato d\ma maniera assoluta; lo determina genericamente, ma non individualmente. Ma ci non vuol dire che noi ci formiamo del fatto delle rappresentazioni indeterminate e semplicemente generiche; solamente, noi non intendiamo affermare con precisione resistenza di un tal fatto determinato, ma di uno od un altro tra quelli compresi in una classe determinata. Se io affermo che io morr, io posso immaginarmi morto sul mio letto, neir estrema vecchiezza, e con altre circostanze determinate: ma io non potrei affermare che il fatto avverr precisamente cosi; io potr morire vecchio o giovane, sul mio letto e dopo una lunga malattia, o sulla strada per un accidente o perla mano (Fun assassino, ecc.. Tutte le mie rappresentazioni sono di casi determinati, ga/.ioni. !1 nomo soggetto, dicono quasi t'itti i lo-ici, si prende nelln sua estensione (denotazione); ma il nome predicato si prende (il pi smesso almeno) nella sua comprensione. Ci potrebbe far supporre cli3 la predicazione non possa avere per noi altro senso che di attribuire ci che il nome connota, cio Tassimilazione, Taggregazione ad una classe determinata. Ma non  cosi: la predicazione non ha en'etivamento (piesto senso che nelle proposizioni interpretate, come si dice, in estensione, ma non in quelle che s'interpretano in comprensione. (L' uomo  mortale, interpretata in comprensione, significa che tutte le volte che noi conosciamo l'esistenza di un uomo, possiamo imferirne che esso morr; interI>retata in estensione, significa che gli uomini vanno aggregati alla classe dei mortali). In che consiste dunque il senso in comprensione della predicazione? L'estensione di un nome, quando esso diventa predicato in una proposizione, si restringe nei limiti dell'estensione del soggetto: mortale, nella proposizione: l'uomo  mortale, non denota pi tutti i mortali, ma solo una parte, gli uomini. Ma la estensione o la denotazione del nome soggetto non viene modificata per la sua congiunzione col nome predicato. Tuttavia ci non  vero che per la denotazione obbiettiva del soggetto ; ma per la 8t ed io affermo che uno o un altro di questi casi si verificher; ma la mia mente vaga dall'uno all'altro, e non sa decidersi con sicurezza per questo o per quello. Io trovo possibile che ciascuno di questi casi avvenga, ma dubito se realmente V uno o Y altro avverr: ci che io assolutamente escludo  qualsiasi affermazione che mi rappresentasse la serie dei fenomeni che io chiamo la mia vita, come prolungantesi indefinitamente. Per indicare (juesto stato del nostro spirito, cio questo vagare da una idea airaltra, questa indecisione del nostro giudizio, questo trovare possibile uno qualunque tra una classe di fatti, ma impossibile ogni altro che esca fuori della classe, noi diciamo di avere un'idea generica o astratta; e l'assegnare sua denotazione subbcettlca il caso  differente. Uomo ed uomo mortale denotano gii stessi oggetti reali; ma la suggestione di uomo e pi estesa che la suggestione di uomo mortale. Il nome uomo sarebbe anc^he applicabile a degli esseri immaginari, simili in tutto all'uomo, ma immortali. La proposizione: l'uomo  mortale, afferma che non esistono di tali esseri, che noi non dobbiamo rappresentarci come reali uomini immortali, ma soltanto uomini mortali. Adunque la restrizione nella denotazione del soggetto e del predicato,dovuta alla loro congiunzione,  reciproca: anche il predicato viene a restringere la estensione o la denotazione del soggetto, la sua denotazione subbiettica, quantunque non la sua denotazione obbiettra. La suggestione dei due nomi accoppiati nella proposizione  pi ristretta che quella s dell'uno che dell'altro separatamente presi.  su questa restrizione che il predicato apporta nella denotazione subbiettiva del soggetto, che si fonda il senso in comprensione della predicazione. Vi hanno tuttavia dei casi, in cui il predicato non pu apportare alcuna restrizione alla denotazione subbiettiva del soggetto a cui si unisce: allora la proposizione non ha alcun senso in comprensione. Ci avviene tutte le volte in cui il nome soggetto non sarebbe applicabile ad alcun essere (reale o possibile), a cui il predicato non fosse pure applicabile. Noi non daremmo il nome di uomo a qualsiasi chimera della nostra immaginazione, a cui non pottessimo dare anche il nome di animale: noi non chiameremmo mai corpo ci che non potessimo chiamare anche esteso. Uomo e uomo animale, corpo e corpo esteso, hanno la stessa denotazione subbiettiva ; quella del soggetto non viene per attributo un termine generale non solo  una necessit del linguaggio, ma  anche Tespressione o il simbolo di questo stato mentale. Quando la proposizione  generale, in altre parole, quando il soggetto della proposizione  ancli^esso un termine generale, questo termine significa, non, come Tattributo, uno o un altro dei casi d\ma classe, ma la totalit. Questi casi, e quindi il significato della proposizione generale, possiamo dividerli in due porzioni: Funa definita sono i casi clie abbiamo osservati o altrimenti conosciuti; Taltra indefiniiasono quelli che non abbiamo osservati ristretta per la sua unione col predicato.  questo fatto che Tu intravisto dagli autori delia dottrina del giudizio analitico. Ma non bisogna dimenticare che la proposizione in questo caso non ha alcun senso in comprensione, ma solo un senso in estensione, la predica/ione consistendo nella classazione, ossia nella contenenza del soggetto neir attributo, e non nella contenenza dell' attributo nel soggetto, come vuole (luella dottrina. Vi lia pure un altro caso, nel quale deve dirsi che la predicazione  in comprensione, ma nondimeno il predicato non restringe la denotazione subbiettiva del soggetto. Ci conviene quando il predicato appartieno?iecessaramente al soggetto, in modo che sareb)e impossibile di concepire il soggetto senza il predicato. Sia ])er esempio la proposizione: 1 raggi del cerchio sono eguali. Eguaglianza non restringe la denotazione subl)iettiva di Raggi del cerchio . essendo inconcepibile un cerchio che non abbia i raggi eguali. Allora, come mostreremo in seguito, la predicazione non  r aiTermazione deiresistenza di un fatto; la proposizione non atferma che il soggetto esiste d'una maniera determinata, ma atferma un rapporto di somiglianza o di differenza. Adunque questa seconda eccezione  sostanzialmente identica alla prima (al giudizio analitico, in cui non vi ha alcun senso in comprensione), poich si tratta, in amenroposizione La giustizia comanda il rispetto  la stessa che (luest'altra: Le persone giuste sono rispettate.  Ma la parola astratta indica qui, con pi forza che ogni altra espressione, questo fatto che l'effetto prodotto, cio il rispetto, ha per causa unica il rapporto che esiste fra tutte le persone giuste (in altri termini, esso dipende da ci. che queste persone sono giuste, che si  fondati a chiamarle cosi o ad ammetterle in questa classe) I termini astratti sono dei possenti mezzi di abbreviazione; ed  per questa ragione che sono stati introdotti in cosi gran numero nel linguaggio ordinario. Le circonlocuzioni a cui si  obbligati d ricorrere per evitarli, Inastano a provare la loro utilit sotto questo rapporto Un esercizio logico importante, destinato a scovrire gli errori che mantiene Fuso delle parole astratte, consiste a convertire le proposizioni presentate sotto ferma astratta in proposizioni equivalenti composte di nomi generali che non siano astratti (Bain Logica. Classazione dei giudizi. Dopo avere stabilito che l'oggetto del nostro pensiero e delle nostre affermazioni sono sempre dei fatti concreti e particolari, noi dobbiamo ora domandarci che cosa  che affermiamo di questi fatti. Noi possiamo dire d'una maniera generale che le proposizioni si riducono airaffermazione o negazione delFesistenza di certi fatti particolari. Per prevenire dei malintesi, aggiungeremo che per fatto o il suo equivalente fnomeno intendiamo un oggetto, reale o possibile, sia dei sensi esterni, sia del senso intimo, o della coscienza. Sarebbe desiderabile di avere un termine per denotare ci che pu essere Foggetto immediato d'una sensazione unica o d'un atto unico della coscienza (p: e: un suono, un odore, un piacere, un dolore, lo stato in cui un oggetto si presenta alla nostra vista per un istante indivisibile, ecc:), un altro termine per denotare i percepiti pi semplici in cui ci che cade sotto una sensazione unica, ma complessa, pu decomporsi (p: e: i minimi visibili di cui si compone Foggetto della vista), e un altro termine ancora per denotare i percepiti pi complessi che noi non potremmo abbracciare che per pi sensaziont distinte (p: e: un cangiamento o un gruppo di congiamenti). Ma questi termini non li abbiamo; perci noi indichiamo uguakuente con la parola fenomeno gli oggetti appartenenti alFuna o all'altra di queste tre classi di percepiti. In generale possiamo dire quantunque abbiamo distinto pi classi di fenomeni secondo il grado della loro semplicit o della loro complessitche il fenomeno  Velemento della realt sensibile, al punto di vista dell'ordine successivo con cui noi ce ne formiamo Tidea. Gli oggetti esteriori da una parte, e dall'altra parte l'interiore di noi stessi che noi chiamiamo spirito, sono dei complessi di lenomeni: noi non conosciamo altrimenti la realt che come un tessuto di fenomeni. Ci si obbietter forse che di questa maniera noi prendiamo di leggieri per accordato che solo la realt sensibile esiste, e che non vi ha altra realt; ma in verit noi non facciamo per ora questa supposizione. Tutti i nostri discorsi familiari e tutte le proposizioni scientifiche non volgono clic sulla realt sensibile: quindi le pi semplici ragioni di metodo c'impongono di portare immediatamente la nostra analisi sulle proposizioni che volgono su questa sorta di realt; poi le nostre conclusioni potranno estendersi al sovrasensijile, se si trover che possiamo affermarne qualche cosa. Noi dobbiamo aggiungere ancora che, quando diciamo di qualche astrazione, p. e. della gravit, che  un fatto, ci deve intendersi come una maniera abbreviata di dire che gli avvenimenti concreti, di cui la proposizione, p. e. la materia  gmvc *,  l'espressione, sono dei fatti; poich il fatto non  un' astrazione, ma, come abbiamo detto, un oggetto, reale o possille, dei sensi 0 della coscienza. i^ 2. Per le proposizioni singolari,  chiaro che esse non affermano so non l'esistenza di certi fatti: Socrate fu, egli fu incarcerato, egli bevve la cicuta. Socrate aveva il naso camuso, afferma che egli esist con questa particolarit nella sua figura, non altrimenti. Quell'albero  verde, vuol dire che vi ha l un'albero verde, non di altro colore, a meno che non si voglia classare quest' albero tra gU oggetti verdi, sorta di affermazioni di cui in seguito parleremo specialmente. Negli esempi addotti l'affermazione  categorica, cio incondizionale: ma in altri casi l'affermazione  ijiotetica. Se inaffieremo la pianta, essa rester verde; Se Socrate non fuggir dalla prigione, egli morr. Qui noi affermiamo pure l'esistenza, ma non d'una maniera categorica, jensi d'una maniera ipotetica, o condizionale: noi affermiamo che certi fatti avranno luogo, alla condizione che altri fatti abbiano o non abl)iano luogo. Le proposizioni particolari si riducono pure con facilit a proposizioni esistenziali. Alcuni uomini sono neri, vuol dire che vi hanno degh uomini neri. Alcuni triangoli sono equilateri, vuol dire che o vi hanno nel mondo reale dei triangoli equilateri, o almeno questi triangoli sono possibili, cio possiamo formarcene la concezione. Alcuni animali sono uomini, significa che esistono degli uomini, e che essi fanno parte della classe degli animali. Noi mostreremo in seguito come una classazione si risolva nell'affermazione dell' esistenza di certi fenomeni; per ora osserviamo che uomini, uomini neri, triangoli equilateri, della stessa maniesa che Socrate e albero verde, non indicano che delle presentazioni, reah o possibili, dei nostri sensi, e per conseguenza, dei complessi di fenomeni, nel senso che abbiamo spiegato della parola fenomeno. In quanto alle proposizioni generali, noi le abbiamo, nel capitolo antecedente, risolute in proposizioni esistenziali, ammettendo che una proposizione generale afferma che esistono certi fatti, o piuttosto, certi gruppi di fatti, tali che loro conviene tanto il nome soggetto quanto il nome predicato, ma non esistono altri fatti, tali che loro convenga il nome soggetto, ma non il nome pi^dicato. In seguito per ne abbiamo dato un' analisi pi profonda, riguardando una proposizione generale come un simbolo, che  al tempo stesso un documento dei fatti osservati (da cui  stata tirata per induzione), e una formula per tirare delle inferenze (cio delle deduzioni) sui casi nuovi i cui antecedenti si presenteranno alla nostra osservazione. Il significato d'una proposizione generale, a questo punto di vista, si risolve dunque nelle affermazioni particolari, o meglio singolari, di cui essa  un segno e che pu suggerirci. Essa , per dir cosi, come un effetto commerciale: noi la scambiamo, da una parte, coi fatti osservati, e dall'altra, con quelli che siamo in grado di predire; il suo valore non  che di convenzione, e il valore reale non appartiene che alle affermazioni dei fatti osservati e di quelli inferiti. Questo s(3Condo modo di considerare il significato delle proposizioni generali mette in rihevo ci clie non fa il primo questo tratto caratteristico di tali proposizioni, che  d'indicare una congiunzione di due fenomeni o complessi di fenomeni, tale che, dato l'uno, noi possiamo inferirne l'esistenza dell'altro. Siccome sotto il riguardo pratico, che  il pi importante, il significato di una ])roposizione generale  appunto questo, d'indicarci che dalla esistenza di certi fatti noi possiamo concluderne quella di certi altri, cosi potrebbe credersi che il vero senso di queste proposizioni sia di affermare, non i fatti stessi, ma la relazione tra alcuni di questi fatti (quelli che noi possiamo concludere) e le loro condizioni (gli altri da cui possiamo concluderli). L'acqua arruginisce il ferro, significa che, se il ferro si mette in prossimit dell'acqua, esso far della ruggine. L'uomo  un bipede  significa che, quando noi abbiamo tanto osservato 0 altrimenti conosciuto d'un oggetto, che ci basti per dire:  un uomo, noi possiamo inferire la presenza in esso di due piedi. Potrebbe sembrare perci che, in quanto alle proposizioni generali, Herbart ha avuto ragione di ammettere che le categoriche sono anch'esse, in sostanza, ipotetiche. Ma se si esamina la cosa pi minutamente, SI vedr che non  cosi. Una proposizione generale, abbiamo detto,  un segno, con cui noi notiamo i fatti osservati, e che ci serve di Ibrmula per tirare delle inferenze ad altri fatti; per conseguenza il suo significato si risolve nelle affermazioni particolari, di cui essa  il segno, 0 che ci suggerisce. Cosi, se la proposizione d'acqua arrugginisce il ferro ci richiama i fatti osservati, l'affermazione  categorica: l'acqua si  trovata in prossimit del ferro, e dopo ci il ferro si  arrugginito. Se la proposizione CI serve in un caso nuovo, ma reale, l'affermazione  ugualmente categorica: noi osserviamo l'acqua in prossimit del ferro; ne inferiamo: il ferro far della ruggine. Se infine il caso, in cui noi tiriamo l'inferenza,  non reale, ma semphcemente ideale, allora l'affermazione  ipotetica: se metteremo il ferro in prossimit dell'acqua, il ferro far la ruggine. Cosi una proposizione generale significa delle atferinazioni particolari, fra cui ve ne lia delle categoriche, e ve ne ha delle ipotetiche. iMa il senso pi importante d'una proposizione scientifica rsalvo, come vedremo in seguito, le matematiche pure)  il categorico: quello che importa, in effetto,  di conoscere il corso degli avvenimenti reali, di sapere che i fatti che abbiamo osservati e quelli che siamo in grado di predire, si sono svolti e si svolgeranno d'una data maniera o con un ordine dato. Potrebbe credersi tuttavia che alcune proposizioni della scienza sono puramente ipotetiche, in quanto esse non si verificano rigorosamente che supposti certi dati ideali, a cui la realt non  mai conforme. Tale  la proposizione sul pendolo ideale, che esso oscillerebbe perpetuamente, ovvero quella proposizione fondamentale della meccanica secondo cui, se non intervenissero delle cause esterne, i corpi continuerebbero a muoversi in linea ree con una prestezza uniforme. Non vi ha infatti n  posH^Wtffl-Brl^-gafc* m sibilo al3uii pendolo ivalc die si conrormi alle condizioni del pendolo ideale, n un corpo, p e. una palla che esce dal cannone, continua mai a muoversi in linea retta e con la stessa velocit. Ma dire che le supposizioni espresse da questi proposizioni della meccanica sono vere,  dire che esse sono conformi al corso reale degli avvenimenti della natura, ai fatti che abbiamo osservato e a quelli che siamo in grado di predire per il futuro. Cosi noi veniamo implicitamente ad affermare, per queste proposizioni, che gli avvenimenti reali sono accaduti e accadranno d'una certa maniera, (juella che giustifica le su[)i)Osizioni della meccanica, ed  questa la parte pi importante delle affermazioni c!ie esse contengono. Noi simboleggiamo il seguito dei fatti reali delFosservazione con certe sequenze tipiche o ideali, che formiamo ])er r astrazione o eliminazione di alcune fra le condizioni multiple dei fenomeni reali; poi, nellapplicazione di queste regole ai casi concreti, abbiamo cura di restituire ai fatti tutte le loro condizioni. Ma tutta la verit e V utilit di queste sequenze ideali, astratte, consiste nella lero corrispondenza ai fatti gi osservati dei casi concreti che costituis!3ono la loro base induttiva, e ai fatti degli altri casi concreti su cui possiamo portare delle inferenze: r affermazione volge dunque, in sostanza, sulFesistenza reale, e non su delle possibilit o delle semplici ideaUt. Non ho creduto inutile di toccare questa quistione, })erch alcuni filosofi, dopo aver ammesso che si pu a priori stabilire qualche cosa neir ordine del possibile, ma non neirordine del reale, il che in un certo senso  vero, lianno poi tracciata arbitrariamente la distinzione tra i due ordini, dando per affermazioni sul puro possibile delle proposizioni che, come queste, concernono invece resistenza reale. Bisogna notare che noi non affermiamo mai l'esistenza d'un fenmenoo isolato, ma sempre quella d'un sur 09 gruppo di fenomeni, successivi o simultanei, mettendo cosi ogni fenomeno di cui affermiamo l'esistenza, in rapporti di precedenza, sequenza o coesistenza con altri fenmeni. Infatti le nostre i)roposizioni affermano il lAii ordinariamente i cangiamenti degli oggetti ; e quand'anche esse affermano la semplice esistenza degli oggetti, non l'affermano come semplici fenomeni fuggitivi, ma come aveuna permanenza nel tempo, una durata: ora siccome noi non conosciamo il tempo che per la successione, noi non possiamo conoscere la durata che come la contemporanea di una successione, e (piindi come consistente essa stein una certa successione. Di pi, un oggetto concreto, non solo  un aggregato di parti localmente separate, ma  ancora un complesso di pi propriet sensibili, cio di pi fenomeni che noi percepiamo, non per un solo senso, ma per diversi. E per esprimere il fatto d'una maniera generale, noi non affermiamo mai un fenomeno dei nostri sensi come qualclie cosa d'isolato, ma o lo proiettiamo nel mondo esterno, riconoscendovi cosi una parte di un aggregato fuori di noi, oppure vi riconosciamo una sensazione nostra, mettendolo cosi in rapporto con quest'altro aggregato che chiamiamo io. Aggiungiamo infine che (piesto fatto, cio che noi non affermiamo mai un fenomeno isolatamante, ma sempre in congiunzione con altri fenomeni, non  che una conseguenza delle leggi dell'associazione delle nostre idee, (h cui le nostre conoscenze, le nostre affermazioni, non sono al fondo che dei casi. Noi affermiamo un fatto, sia sulla fede della nostra memoria, sia in virt di una inferenza. Nel primo caso, un po' d riflessione mostrer che noi non distinguiamo un ricordo da una semplice immaginazione, se non perch sentiamo che l'idea del fatto si presenta in una stretta connessione con le idee di altri fatti, antecedenti, susseguenti 0 concomitanti.  cosi che il fatto rapprentato ac(juista un posto nella nostra storia personale; ])i (juesto I 100 corteggio di associazioni  numeroso e ben serrato, pi questa localizzazione  precisa e sicura, e meno si  esposti a confondere la memoria con la semplice immaginazione ; ma pi le circostanze del fatto sono scarse e debolmente associate, pi la localizzazione  vaga ed incerta, e meno evidente  il contrasto fra la memoria e rimmaginazione. Se poi il fatto affermato  un inferenza, come potremmo noi non affermarlo nel suo rapporto con gli altri fatti, antecedenti, susseguenti o concomitanti, da cui r inferenza viene tirata? L'oggetto dell'affermazione non  dunque mai la semplice esistenza dei fenomeni, ma resistenza dei fenomeni con certi rapporti di successione o di coesistenza. 4^ Per coesistenza deve intendersi la simultaneit nel tempo o la coesistenza nello spazio. Ma la coesistenza nello spazio non  essa stessa che una specie di simultaneit nel tempo, la quale non si distingue dalle altre che per la natura speciale degli elementi sensoriali che entrano nelle nostre rappresentazioni di spazio. Ci  vero, qualunque sia Y ipotesi che adottiamo sulF origine delle nozioni spaziali. Se noi ammettiamo infatti la teoria nativista, nella sua forma pi logica, per cui la terza dimensione non  essa stessa, come le due altre, che un dato immediato del senso della vista, noi dobbiamo ammettere che ogni punto visibile lia immediatamente il suo posto determinato nel campo visuale, in tutte e tre le direzioni. Questa posizione determinata  una differenza sensoriale di ciascun punto visibile, cosi bene che il colore ne  un'altra: questa differenza sensoriale, che noi potremmo chiamare il carattere locale (non il segno locale) di ciascun punto visibile,  il germe di tutte le nostre nozioni dei rapporti nello spazio. Percepire dunque o rappresentarsi certi rapporti di spazio fra due o pi punti (e con noi) non , secondo questa teoria, che percepire o rappresentarsi simultaneamente questi punti, ciascuno sur 101 col SUO carettere locale determinato, cio con la sua posizione differente nel campo visuale. Naturalmente deve ammettersi che la sensazione della vista non pu dare che le distanze apparenti: cosi le distanze, sia assolute, sia reciproche, in cui noi vediamo questi pvmti, non possono corrispondere alle distanze reali, che quando essi sono molto vicini a noi e fra di loro. Inoltre queste stesse posizioni apparenti non possono esserci date dalla sempUce sensazione della vista, che per gli oggetti che possono essere compresi in uno stesso campo visuale, cio che possono essere veduti simultaneamente dall' occhio immobile. Cosi, quando gli oggetti sono lontani, in modo erci aleuni osservatori, in un senso, ( rai-i(me di anunettere che un cieco nato non ha alcuna coiKscenza dell'estensione). I/ohblio o r ignoranza di nueLa diiferenza fondamantale tra la teoria nativista e la empirica consiste, in ultima analisi, nel contenuto o significato differente assegnato alle nozioni di spazio. La seconda teoria traduce l'estensione in termini di movimento muscolare: secondo essa, dire che certi punti no in certe posizioni reciproclie,  dire clie bisognano certi movimenti per i)assare da uno a un altro di questi I)unti, (juesti movimenti essendo percepiti per la sensazione che accompagna la nostra attivit muscolare, e che varia secondo la (quantit e la direzione del movimento ( V. specialmente Bain / semi e /' liiteUl(ien.m, \ parte, e. V\ li, 2^ e 2 parte, e. V\ V, Della percezione delle distanze e delle grandezze dei corpi esteriori), (vluesf analisi sembra risolvere Fidea dell'estensione in un'idea di sequenza, mentre lestensione implica evidensla verif  la sorgente principale degli eTori e delle conirovtM'sie suirorigin(i delle nozioni di spazio. Io annnetto la teo-la initirier lo spazio visuale, e la teoria em/tfrira])Qv lo s]!azio toltile. Si(M-ome le nozioni dello spazio tatlile non jossono risuitnre che dalie esperienze sui)biettive del moviiuento, se ne  coiicluso che anche ar!a come se la coscienza fosse, non la stessa cosa clic i suoi pro|rii stati, ma uno si^ettatore che guarda cpiesti stati, e pu, per un'illusione, vederli dive samente da quel che sono in realt. Un punto luminoso che gira rai)idamente in tondo, proluce, non le impressioni successive di un i)unto che si muove, ma l'impressione sinmltonea di un (terchio di fuoco, perch, l'eccitazione di ciascun punto della retina i ersisterdo jer qualche tempo doi)0 che esso  stato stimolato, i d i versi punti della retina si trovano contemporaneamente in uno stato di eccitazione. Noi non ahliamo dunroduce l'impressione della sinuiltaneit; la simultaneit  originariamente fra gli stati di coscienza stessi, e noi non apprendiamo che questa simultaneit subbiettiva corrisponde a una successione obbiettiva, che rettificando questa esperienza particolare per altre esperienze. Delle rappresentazioni di seipienza, sia pure rovesciato. non ci daranno che l'idea della se(pienza, non mai (juella ere o immaginare che vi ha tra le cose una coesistenza reale, che  alcun che di distinto dalla doppia successione con cui noi la ]>ensiamo. anzi di opposto ad essa, senza formarci una idea di coesistenza, che non e la doppia successione a cui Spencer l'iduce il rapi)orto di (.'oesistenza. suhbiettivamenLe considerato? Se possiamo alTermare che vi ha tra le cose una coesistenza i*eale, ciocche non  una dJueste sensazioni delle superfcie che costituiscono la nozione deirinterno del corpo, noi non potremmo provarle che successivamente; tuttavia la nostra affermazione che ci che ci sta dinanzi agli occhi  un corpo, implica Taftermazioue deiresistenza simultanea di tutte queste .superfcie, per tutto il tempo in cui la palla ha esistito ed esister: ci vuol dire che ciascuna di queste superfcie noi non potremmo o avremmo potuto vederla solamente in qualche momento determinato, ma in qualsiasi momento, della esistenza passata e futura della palla, lo credo inutile di spingere pi oltre que scanalisi, mostrando in dettaglio che le altre propriet che noi attribuiamo alla palla, la durezza, la elasticit, la quiete o il movimento, la temperatura, il suono, ecc.-, non significano se non che npi proviamo preseutemente o proveremo o abbiamo provato, o potremmo o avremmo potuto provare, certe sensazioni determinate. Solo bisogna aggiungere che queste sensazioni, attuali o possibili, e le altre che abbiamo enumerato e potremmo enumerare, noi non le affermiamo solamente di noi stessi, ma di tutti gli esseri senzienti, o almeno di tutti quelli di cui ammettiamo che hanno gli stessi nostri sensi e sentono come noi. Tali sono le nozioni che i filosof si formano degli oggetti esteriori: delle collezioni di sensazioni, attuali o possibih; taU sono pure quelle che se ne forma il volgare. Ma vi hanno tra le nozioni dei filosof e quelle del volgare delle differenze che non bisogna negligere. Anzitutto il volgare non ammettala distinzione che fanno i filosof, tra le cose jn s e le cose relativamente a noi, cio ai nostri sensi; egli non sa niente n di atomi n di centri di forza n di monadi n d' Inconoscibile n di qualsiasi altra ipotesi sulle cose in s; Fidea ch'egh ha del mondo esteriore si riduce unicamente, come quella di Stuart-Mill o di Bain, a delle semphci sensazioni. Ma quest'idea differisce da quella di Mill e Bain, e in una parola, degl'idealisti o fenomenisti, nei tre punti seguenti: P Le sensazioni possibili cio quelle che non proviamo n abbiamo provato effettivamente, ma che proveremmo o avremmo provato, se si verificassero o si fossero verifcate le condizioni necessarie perch i nostri sensi venissero affettati non sono, pei filosof, niente di reale ; non sono che delle mere possibilit. Ma per il volgare, cio per tutti quelli in cui la riflessione flosofca non ha distrutto la credenza istintiva del genere umano (alla quale del resto anche i flosof si conformano nella loro maniera pi abituale di rappresentarsi le cose), le sensa::^ ioni possibili sono r^ali non meno che le stesse sensazioni reah. Quando egli non guarda la palla, tutto ci che il flosofo crede,  semplicemente che, se in questo momento egU guardasse verso la parte in cui noi diciamo che Ja palla  situata, egli avrebbe la sensazione di una certa superfcie curva, bianca, ecc., Ma il volgare crede invece che anche quando  re noi anticiiamo in un certo modo sulla seconda (juistione, questa persistenza essendo uno di quei rapporti ira gli stati successivi di un oggetto, che, come vedremo, ci fanno riconoscere questi come stati di uno stesso oggetto). Per ispiegare in che consista la coesistenza in uno stesso oggetto di propriet sensibili ciie noi percepiamo per sensi diterenti, si dice ordinariamente che queste propriet sensibili non sono che degli etietti diversi di una stessa causa, cio delle impressioni differenti che lo stesso oggetto produce sui nostri sensi. Ma siccome Toggetto non  per noi che il complesso di queste impressioni differenti, attuali o possibih, sui nostri sensi, noi non possiamo contentarci di (juesta spiegazione, poich il tutto non pu essere certamente la causa delle sue parti. Questa spiegazione suppone evidentemente, al di l delle nostre sensazioni, un ^ A' che  la causa di queste sensazioni: se non che in quesf iix)tesi resterebbe a spiegare come noi, non conoscendo niente di questo .Y n della sua azione sui nostri sensi, sappiamo nondimeno che le impressioni differenti dei nostri sensi sono degli effetti di un solo e stesso A'. Per rendere conto dunque di questo fatto, cio dellattri'./fi 'mi m buzione che noi facciamo a uno stesso oggetto, delle impressioni che esso produce sui nostri diversi sensi, noi dobbiamo seguire un altro metodo, sostituendo ad AT e alla sua azione sui nostri sensi, che  un altro A", qualche cosa di dato e di conosciuto. Vi ha, nel gruppo dei sensibili che noi chiamiamo un oggetto, un nucleo, per dir cosi, centrale e fondamentale, costituito dalle sue propriet visibili e tangibili: Testensione, la forma, il colore, la resistenza e il grado di questa resistenza.  di queste propriet che si compone la nostra rappresentazione abituale dell'oggetto;  per esse che abitualmente noi lo identifichiamo, e lo distinguiamo dagli altri oggetti. Un' altra circostanza importante  che  a questo nucleo che appartengono le qualit dei corpi che ci servono a spiegare i fenomeni; cosi la fisica, che non lascia alla materia altri attributi che queUi che sono necesari alla spiegazione dei fenomeni, non le attribuisce qualit sensibili che lestensione, la figura e la resistenza. 11 nostro nucleo corrisponde dunque in qualche sorta a ci che si chiamano le propriet primarie dei corpi : sempUcemente, a queste noi aggiungiamo il colore, sia perch l'estensione e la figura sono anzitutto, per noi veggenti, l'estensione e la figura visibih, e queste sono inseparabili dal colore, sia perch il colore  evidentemente uno dei mezzi pi importanti di cui ci serviamo per identificare e distinguere gli oggetti.  questo nucleo centrale e fondamentale dell' oggetto, che, per la nostra rappresentazione,  in qualche sorta l' oggetto stesso, che noi dobbiamo sostituire all' A" dei filosofi:  ad esso che noi do)3* biamo riattaccare le altre propriet sensibili dell'oggetto cio le altre impressioni che questo fa sui nostri sensicome degli effetti diversi alla loro causa comune. Noi ammetteremo dunque che, dicendo che un dato oggetto ha un certo odore, un certo sapore, un certo suono, un certo grado di calore, ecc., ci che noi vogliamo significare  iiiiifigiHiiriif%"a che lina certa cosa visibile e tangibile, cio che noi conosciamo e ci rappresentiamo come un che di esteso, di figurato, di colorito e di resistente,  la causa di certe sensazioni, che noi abbiamo o potremmo avere, di odore, di sapore :, di suono, di temperatura, ecc. Ci non vuol dire per che l'odore, il sapore, il suono, il calore, non sono per noi che delle semplici sensazioni, che esistono solamente nel momento in cui le sentiamo e in quanto le sentiamo. Il volgare, al contrario, oggettiva queste sensazioni, cio, come abbiamo spiegato, egli riguarda le possibili come reali, le considera tutte,*Ie attuali e \e possibili, come indi|jendenti dagli esseri senzienti, e identifica quelle di ciascun essere senziente con le corrispondenti che gli altri provano simultaneamente. Ma che Fodore, il sapore, ecc., cosi oggetivati, siano riguardati, non solamente come coesistenti tm loro e con gli altri sensibiU che costituiscono r oggetto, ma come coesistenti in uno stesso oggetto, ci significa semplicemente che le nostre sensazioni di odore, di sapore, ecc., vengono riattaccate, come abbiamo detto, slVoggetto visibile e tangibile, come alla loro causa comune. Naturalmente  con lo stesso principio che noi dobbiamo spiegare la coesistenza della propriet tangibile del nucleo (la resistenza) con le propriet visibili (restensione, la figura, il colore).  evidente in effetto che, se una certa resistenza clie noi abbiamo sentita, Tattribuiamo a un dato oggetto,  perch sappiamo che noi abitiamo provato questa sensazione, portando la mano o un altro membro sulla superficie colorata che quest'oggetto esibisce alla nostra vi^ta. Noi riguardiamo dunque in un certo modo la resistenza come un efietto della parte visibile del nucleo. In quanto alle stesse propriet visibili, noi supporremo eh' esse sono dei dati originali della sensazione visuale (teoria nati vista): noi non avremo bisogno perci di spiegare la coesistenza del colore con l'estensione da figura, e vedremo in (jueste tre propriet tre punti di vista astratti di considerare uno stesso sensibile. La coesistenza di pi i\ SUI r.iMiTi E l' oggetto deij.a conoscenza a priori f propriet sensibili cio che noi percepiamo per sensi diflerenti in uno stesso oggetto, non implica dunciue, oltre all'idea della semplice simultaneit, che delle idee di causazione: noi aljbiamo visto che questa non  che un caso particolare della sequenza. . Sul rapporto che deve esistere fra gli stati successivi di una sostanza, perch siano riconosciuti come stati di una stessa sostanza, noi non possiamo stabilire delle regole assolute. Vi ha fra questi stati, non un rapporto definito e costante, ma una tendenza a un tale rapl)orto. Il rapporto reale fra gli stati successivi delle sostanze dell'esperienza non pu, per conseguenza, essere formulato in se stesso, ma solo relativamente a questo ra[)porto definito e costante, a cui esso non fa che tendere, e che noi dobbiamo considerare come un ideale, a cui le sostanze: dell' esperienza non si conformano che d'una maniera approssimativa, e largamente approssimativa. Per esporre il rapporto reale nelle sostanze dell'esperienza, noi supporremo dunque il rapporto ideale realizzato in una sostanza ipotetica, che sar per noi come il tipo delle sostanze: la definizione del rapporio ideale in questa sostanza tipo ci dar in un certo modo quella del i^pporto reale nelle sostanze dell'esperienza, jerch (juesto, come a>biamo detto, non pu formularsi che in relazione a (|uello. Il nostro metodo somiglier in (jualclie maniera a ({uello che alcuni logici hanno proposto per sopperire alla (hfficolt che vi ha a determinare le classi naturali, riferendosi a certi caratteri definiti: cio di sostituire alla definizione un tipo, vale a dire un caso della classe, considerato come possedente eminentemente il carattere della classe. (V. Mill Logica). Noi presenteremo come sostanza tipo l'atomo. Il carattere della sostanza tipo, al punto di vista del rapporto tra i suoi stati successivi,  l'assoluta immutabilit, tranne nei suoi ra])porti ih posizione con le altre sostanze. La sostanza tipo conserva sempre le stesse propriei sensibili: se potesse essere un oggetto dei nostri sensi, questi riceverebbero sempre da essa delle impressioni identiche, e non percepirebbero mai in essa altro cangiamento che quello della sua posizione nello spazio. Alla nostra sostanza tipo, cio airatomo, non si attribuiscono altre propriet sensibili che V estensione coi suoi modi e la resistenza; ma queste propriet sono sempre identiche: l'atomo ha costantemente la stessa forma e la stessa grandezza,  insuscettibile di deformazione, di dilatazione e di compressione, e se noi potessimo trattarlo con le nostre mani, ollrirebbe sempre ai nostri sforzi lo stesso grado di resistenza. La stessa immutabilit, che compete alla sostanza tipo nelle propriet che le appartengono considerata assolutamente, cio in se stessa, le compete pure nelle propriet che le appartengono considerata nella sua azione mutua con le altre sostanze: un atomo ha costantemente le stesse attitudini a modificare gli altri atomi e ad esserne modificato va da s che, trattandosi di atomi, o generalmente, di sostanze tipo, non pu supporsi altra modificazione che r alterazione del loro stato di riposo o di movimento, perch, come a^biamo detto, la sostanza tipo non  suscettibile di altro cangiamento che della sua posizione nello spazio. 11 cangiamento di posizione dell'atomo come di qualsiasi altra sostanza, ipotetica o empirica ha una condizione, la contumt: in una parola, il movimento  contlnuo. Per questa continuit s'intende, come si sa, che un corpo non pu passare da una posizione ad un allra senza passare prima per le posizioni intermediarie. IMa qusta continuit  assoluta? in altri termini, il corpo, prima di passare a una nuova posizione, deve passare per tutte le posizioni intermediarie fra di essa e l'antica? Io credo con SERBATI (vedasi) (v. Saggio sulVorigine delle idee e Psicologia) e con r altri filosofi, che ci  logicamente impossibile e contrad-, e che il movimento  continuo solo in un senso relativo. Per questa continuit relativa del movimento bisogna intendere, secondo me, che il cangiamento di posizione di un corpo si fa per una gradazione insensibile, in modo che ogni cangiamento discernibile sia il risultato e la somma di piccoli cangiamenti indiscernibili: in altre parole, fra due posizioni successive di un corpo, che noi possiamo percepire come differenti, s'interpone sempre qualche posizione intermediaria (una o pi), in se stessa distinta certamente da quelle due, ma che noi non possiamo conoscere, nel momento della percezione, come differente da esse. Le posizioni imme he la continuit, nel senso assoluto, sia o no da attribuirsi al movimento noumeno supposto che vi sia un movimento noumeno, cio che esistano delle cose in s e che il movimento sia un loro attributo, ci che ci sembra evidente  che noi non possiamo affatto attribuirlo al movimento fenomeno, vale a dire al movimento come nostra percezione e rappresentazione. In effetto, percepire il movimento d'un corpo non  che percepire successivamente questo corpo in posizioni differenti; tutto ci che noi percepiamo del movimento non  che questo: la differenza nelle posizioni successive di un corpo. Ora queste posizioni successi vp non possono formare un'estensione continua, come sarebbe se la continuit del movimento fosse assoluta. Fissiamo infatti un punto qualsiasi nell'estensione del corpo in movimento: in ciascuna delle percezioni elementari successive, da cui risulta la percezione complessa del movimento del corpo, noi vedremo questo punto occupare un punto differente dello spazio. Se il movimento fosse assolutamente continuo, il punto del corpo, per passare da uno a un [ altro punto dello spazio, dovrebbe passare prima per tutti i punti intermediari. Ma i punti intermediari tra un punto e un altro dello spazio sono infiniti, e il punto del corpo non potrebbe percepirsi come occupante successivamente due qualunque di questi punti, che con due percezioni distinte e successive: dunque la percezione del movimento come continuo, nel senso assoluto, importerebbe, in un tempo finito, un numero infinito di pervezioni successive, ci che  impossibile e contraddittorio. Di pi, ammessa anche g&gy^^^g^^l^^^ iiff.MiiiHa tt^sn^^siswsms^emmfim^ 2C,diatainente successive clie un corpo pu occupare, sono dunque per noi indifferenziabili, quantunciue distinte in se stesse; e per conseguenza noi possiamo assegnare, come una condizione perch gli stati successivi di una sostanza siano riconosciuti come stati di una stessa sostanza, che questa sostanza, nei suoi stati successivi, cio nei jnomenti successivi della sua durata, sia o possa essere percepita, o come occupante la stessa posizione nello spazi(j, .0 come cangiante questa i)Osizione, ma per una transizione insensibile, in modo che la posizione susseguente sia per noi indiscerni))ile dalla posizione immediatamente precedente. r ipotesi di un'intnit di percezioni successive (in ciascuna delle (luali il corpo fosse percepito in una posizione distinta), la continuit assoluta del movimento sarel)])e sempre impossi})ile. In ell'etto. che le percezioni successive delle posizioni distinte del corpo siano finite o infinite, vi saranno, nell'un caso come nell'altro, delle percezioni immediatamente successive. Consideriamo due (lualunquo di queste. Nella seconda percezione ciascun ]>unto del corpo sar visto occupare una posizione distinta da quella che era visto occupare nella prima; ma due posizioni del juinto non possono essere distinte, che se vi ha fra di loro un certo intervallo, per quanto sia piccolo; dunque noi abbiamo percepito, per queste due percezioni, non un cangiamento assolutamente continuo, ma nn cangiamento in realt saltuario (quantunque il salto possa sfuggire, e sfugga elTettivamente, alla nostra osservazione, perch, come abbiamo detto, tra due posizioni diterenziabili di un corpo s'interpone sempre  Le attitudini, le'gate a q^sS gruppi d, sensibili, a modificare altri gruppi contemporanei o piendeia facilmenle che io non intendo qui parlare di un Identit assoluta, ma di una certa identiti relativa, che sarebbe superfluo di spiegare circostanziatamente). Riunendo una moltitudine di fenomeni successivi in una nozione unica, e chiamando il tutto una sostanza, ci che noi vorremmo dire, supposto, ci che non , che U "i nouiu (li sostanza non si accordasse che alle sostanze perfette cio conformi alla sostanza tipo, non sar(3l)]jc altro se non che in (jiiesti fenomeni, riuniti in questa nozione unica, si verificano queste tre condizioni. Ma due d queste condizioni, la prima e Tultima, nelle sostanze deir esperienza non si verificano mai rigorosamente. Tutti gli esseri sono in un cangiamento continuo, si rispetto alle loro propriet assolute che a (fuelle relative ad altri esseri: come diceva Eraclito, niente permane, tutto diviene. Se le sostanze reali si conformassero pienamente alle condizioni della sostanza tipo, ogni cosa dovrei )be avere sempre la stessa forma, la stessa grandezza, lo stesso colore, lo stesso odore, ecc.; gli esseri viventi non cangerebbero incessantemente, (^ome fanno, gli elementi materiali ciie li costituiscono, n si svilupperebberoci che vale a dire (^.he non vi sarebljero pi affatto esseri viventi; non vi sarebbe pi cangiamento nello stato fisi(^o dei corpi ; ecc. Nondimeno  evidente che, per identificare gli oggetti, noi teniamo conto anche, e principalmente, deiridentit delle i)roi)riet; in altri termini, che il segno pi imi)ortante, per riconoscere che ciotremmo, per esempio, n3lla lenta distruzione che il tempo ik di un oggetto, fissare il limite sino al quale noi consideriamo ancora quest'oggetto come lo stesso; noi non potremmo nemmeno, nella lenta evoluzione per cui si forma un essere vivente, fissare un momento in cui noi i)Ossiamo cominciare a considerare quest'essere come gi esistente, e riguardare Fembrione come lo stesso essere che la pianta o l'animale che esso diverr in se contenere niente di pi che ci che  contenuto nella loro intuizione-, (juando cpiesta intuizione  completa ed esatta ; noi possiamo tenere come sufficientemente stajilito che non vi ha niente di pi, al punto di vista obbiettivo, nelle nostre idee sull'universo sensibile, che dei fenomeni e dei rapporti di successione e di simultaneit tra questi fenomeni. Qui per dobbiamo mettere in guardia il lettore contro una generalizzazione troppo assoluta. La proposizione che tutte le nostre idee sull'universo sensibile non contengono niente di pi che delle sequenze e coesistenze di fenomeni, non  rigorosamente vera che per la parte di quest'universo aperta ai nostri sensi esterni: per l'altra parte, quella che  l'oggetto del senso interno o della coscienza, cio lo spirito, non potrebbe essere ammessa senza siserva. Certamente lo spirito, in quanto almeno noi Ijossiamo conoscerlo, non  anch'esso, come la materia, che una collezione di sensazioni, successive o simultanee: vale a dire, oltre alle sensazioni propriamente dette, di sentimenti, d' idee, di volizioni, ecc. Ma tra queste sensazioni successive e simultanee che compongono uno spirito, una coscienza, non vi hanno, come tra quelle che compongono il mondo materiale e le unit in esso esistenti, d^i semplici rapporti di successione e di simultaneit. Mi sembra al contrario indubitabile che vi ha tra gli stati 0 porzioni di una stessa coscienza un rapporto pi intimo, che fa che essi compongono una stessa coscienza e non pi coscienze distinte ; un legame sui ge-, che non trova alcun riscontro negli oggetti del mondo esteriore, e che, come tutti i fatti ultimi, noi non possiamo definire, ma solo esprimere con le parole: unit o continuit della coscienza. Questo fatto sar evidente, se si considerer una rappresentazione complessa, costituita da pi rappresentazioni successive o simultanee, p. e. l'immagine di un corpo in movimento, o semplicemente un'immagine visuale (jualunque, anche istantanea, composta necessariamente di una moltitudine di parti. Non  chiaro che tra le rappresentazioni parziali che costituiscono la rappresentazione totale, vi ha un rapporto pi intimo che non vi sarebbe fra di esse, se ciascuna rappresentazione distinta appartenesse a una coscienza distinta ? E qual  la differenza tra i due casi, se non che tra le differenti rappresentazioni vi sarebbe, nel secondo caso, un semplice rapporto di successione o di simultaneit, mentre, nel primo caso vi ha fra di esse, oltre questo rapporto, un altro rapporto sui generis, che noi non possiamo indicare, se non dicendo che tutte queste rappresentazioni fanno parte di una sola e stessa coscienza? Questo fatto che il Galluppi (v. Saggio sulla critica della conosccn;^a tomo 4. e. 2. ed Elementi di filosofia t. 3. S.) chmma. unit sintetica della percezione e del pensiero, bisogna distinguerlo dslVunit metafisica del me che, con altri metafisici, egli ne deduce, se per questa seconda unit s'intende, come fa questo filosofo, quella d'un substratum sconosciuto dei fenomeni della coscienza, che resta sempre lo stesso nel flusso continuo di questi fenomeni (sostanza me). Noi accettiamo il fatto, che ci sembra incontestabile, ma l'ipotesi che se ne deduce, quella della sostanza me, la lasciamo ai metafisici, riserbandoci di spiegarne rorigine nel Saggio. Notiamo per incidtmte che, tacendo di essere il sinonimo di sostanza (\,. (i*^), noi non ab])iamo inteso parlare che degli esseri materiali: lo spirito  clie d'altronde^ per noi, il solo vero essere di cui possiamo atterinare l'esistenza non  una sostanza, perch, coniti ben osserva Kant (Analitica trascendentale, 1. 2, Scolio generale al sistema dei i)rincipii), la sostanza importa la permanenza, e questa non compete che a ci che esiste nello spazio (mentre lo spirito  un divenire continuo). In quanto all'unione tra lo spirito e il corpo, noi non abbiamo nessuna restrizione a tare alla proposizione generale die il reale, i>er quanto almeno noi possiamo conoscerlo, si risolve in sequenze e coesistenze di fenomeni. Si  visto in questa unione il mistero per eccellenza; ma, qualunque sia il mistero, non  che (juello generale della causazione, l'unione tra lo spirito e il corpo non consistendo elle nei loro l'apporti di azione reciproca; e noi sappiamo che la causazione, che che sia al senso metafsico, non (' al senso fisico, cio empirico, che un caso della sequenza. Tra i fatti di cui possiamo atlermare 1' esistenza, ve ne ha una classe che  in un contrasto cosi marcato con tutte le altre, ed ha una si grande im[)ortanza intellettuale, che noi dobbiamo farne una divisione distinta, opponendola a tutto il resto: sono le somiglianze^ e le differenze che esistono tra i fatti. Noidobljiamo vedere senza dubbi(j, anche in questi rapporti, dei latti particolari ; perch cosa pu essere un rapporto di somiglianza di ditlerenza, se non ciuel sentimento speciale che noi proviamo, (juando delle cose, che chiamiamo simili o diferenti, ci vengono presentate insieme, e le mettiamo in confronto? Una somiglianza o una differenza non  certamente una propriet che esista nelle cose in se stesse, perch essa non esiste n nell' uno n nell'altro dei due termini del rapporto presi a parte, e non esistendo in questi, non i)u esistere altrove fuori del nostro spirito, poich nessuno immaginer clie una somiglianza o una differenza sia come un tratto d'unione interiX)sto fra le due cose che diciamo simili o differenti. Un rapporto di somiglianza u di difterenza non  dun(|ue qualche cosa di obbiettivo, ma una percezione, una veduta dello spirito, clie mette in coiifwnto le cose. Se non pertanto noi ci esprimiamo come se la somiglianza e la differenza fossero (jualche cosa di obbiettivo,  (juesta una circostanza che non  special, ai soU sentimenti di somiglianza e di ditlerenza. Noi diciamo che due oggetti sono in se stessi simili o differenti, nello stesso senso in cui diciamo che un'azione o una cosa  in se stessa ])Uona o bella; noi intendiamo di dire in questo caso che il sentimento del buono o del bello prodotto nel nostro spirito, non  (jualche cosa di ar>itrario e di variabile, ma di costante e di necessario, in modo che la capacit (H produrre questo sentimento determinato noi la consideriamo come insei)arabile dalPazione o dalla cosa stessa. Della stessa maniera, affermando che due ogge^tti sono simili o differenti, noi intemhaino (U dire che la capacit di i>rodurre il sentimento di somiglianza o di differenza  inseparabile dagli oggetti stessi; che vi ha un legame necessario fra gli oggetti e il sentimento, tale che la i)resentazione o la rajipresentazione dei primi svegli in noi irresistibilmente il secondo. Donde si vede pure che, come le somiglianze e le diff*erenz(3 sono anch'iisse dei fatti, cio dei fenomeni del nostro spirito d' una natura particolare, cosi le affermazioni delle somiglianze e delle differenze rientrano anch'esse in una delle (hie classi di cui abbiamo parlato sin qui, non essendo, al fondo, cliedell(. affermazioni di sequenze d'una natura particolare. Per l'affermazione di una somiglianza o una ditlerenza non si afferma niente sull'esistenza dei fatti tra cui si stabilisce questo rapporto: i termini del rap])orto possono essere reali o no, ci non fa niente alla realt del rapporto stesso. Che esistano o no dei triangoli e degli angoli retti, nella natura, ci non l'a niente alla verit della proposizione geometrica che gU angoli d'un triangolo sono eguali a due retti. I giudizi della somiglianza e differenza sonouna sorta di proposizioni ipotetiche, in cui noi affermiamo che, dati i termini, vi sar una certa relazione fra di loro. Noi divideremo dunc^ue i giudizi in due classi. Gli uni affermano resistenza delle cose, e questi, come abbiamo visto, non affermano mai la semplice esistenza, ma resistenza simultanea o successiva, la coesistenza o la sequenza; ancora questa sequenza o coesistenza essi r affermano sia d'una maniera categorica sia ipotetica; cio affermano ovvero che pi fatti coesistono o si seguono, ovvero che, dati certi fatti, altri coesisteranno con essi o li seguiranno. I giudizi deiraltra classe non affermano niente sulFesistenza delle cose, ma semplicemente la loro somiglianza e la loro differenza. Sotto questi nomi noi comprendiamo naturalmente Tidentit e la diversit, la eguaglianza e la disuguaglianza,. la maggioranza e la minoranza, ecc. Perch la somiglianza ha molti gracU: se le due cose sono simili in modo da essere indiscernibili, si ha un rapporto d'identit; la somiglianza assoluta sotto un punto di vista particolare, p. e. del numero o della grandezza, si chiama eguaglianza. Quando poi una grandezza  uguale a una parte d'un'altra grandezza, noi chiamiamo minore la prima grandezza, e maggiore la seconda. Osserviamo che la somiglianza e la differenza non sono due fatti distinti e separati, ma un fatto solo, visto da due lati:  lo stesso dire di due cose che si somigliano molto o che differiscono poco. La differenza non  dunque che un grado minore di somiglianza, e non vi hanno cose talmente differenti che non siano pure simili; p. e. i nostri stati di coscienza pi differenti hanno almeno fra di loro quella somiglianza che permette ^ di classarli insieme, dando loro gli stessi nomi: siato di coscienza, fenomeno, uno, ente, ecc. Noi diremo dunque, con un nome unico, i giudizi della prima classe giudizi suWesistenza, e (luelli della seconda giudizi sulla somi^ glianza. Sono (jueste le denominazioni che esprimono con pi propriet la natura delle due classi; ma se vogliamo marcare la loro opposizione per Tantitesi dei termini che li denotano, noi possiamo anche chiamare i primi positivi, e i secondi comparativi. La nostra classazione del giudizio coincide al fondo con quella ini , non si afferma solamente che h seguir ad a, ma ancora che la sequenza tra a q h avviene secondo una sequenza uniforme e in variai ie tra due tipi di fenomeni, di cui a e sono degU esempi particolari. Per conseguenza una tale proposizione involge tre affermazioni distinte: il rapporto (di sequenza o coesistenza) tra due fenomeni particolari, il rapporto generale di cui esso  un caso, e la classazione del primo rapporto come un caso del secondo. Se poi diciamo, non che a avr per effetto b, o die b ha dovuto avere per causa a, ma, supponendo preconosciuta la sequenza tra a e h, clie a  la causa e b il suo effetto, allora delle affermazioni distinte nella proposizione precedente, la prima viene a mancare, e non restano che le due altre. L'affermazione pu anciie ridursi ad una sola, se si su[)[)one ])ure preconosciuto il rapporto generale di causazione, di cui la causazione in (luistione  un caso particolare: in (jucsta ii)Otesi, la proposizione che a  la causa di b, o che b  l'effetto di a, non  che una sem}>lice classazione, quella della sequenza tra a q b con le sequenze simili che sono gli altri casi del rap[)orto generale (U cau-, e non esprime quindi che un giudizio sulla somiglianza. Terminando, io far quest'avvertenza generale, che ci nei sapitoli susseguenti sar detto sui giu(Uzi di somiglianza, non  applicabile che (luando questi giudizi sono stati distinti da quelli suiresistenza, con cui essi sono implicati, o con cui potrebbero confondersi.  ci che bisogner sempre tener presente, i)er valutare le o))biezioni, che potranno presentarsi, contro le proposizioni che stabiliremo sui caratteri speciali a questa classe di giudizi, e la loro opposizione, al punto di vista particolare dell'argomento di questo scritto, con ([ucUi di sequenza e di coesistenz Giudzi a priori e giudizi a posteriori. La divisione dei giudizi in a priori e a posteriori, ngGi'osaiaeiitc tracciata, corrisponde a quella, stabilita nel capitolo i>recedente, in comparativi o sulla soniig lanza .3 positivi o sulla esistenza. I rapporti di somiglianza e di differenza tra le cose noi possiamo scoprirli per il solo esame delle idee di queste cose, e senza bisogno dell'osservazione delle cose stesse. Quand'anche noi non avessimo mai fa,tto il confronto attuale di tre oggetti, noi iiotreinino, consultando i nostri ricordi, conoscere, pelli semj)lice conlronto delle rap!>resentazioni di questi' oggetti, che due di essi sono pi somiglianti Ira di loro che col terzo, per il colore, 0 per la forma, o per la grandezza, ecc. Noi ijotremmo pure conoscere per lo stesso mezzo (luale di essi  pi grande e quale pi piccolo, e se due riuniti superano, per la somma delle loro grandezze, 1 a grandezza dell' altro, o le restano inferiori. Similmente per vedere che il verde non  il rosso, 0 che il rotondo non  il quadrato, cio che questi due colori 0 queste due figure sono differenti, noi non abbiamo bisogno d'una comparazione attuale di questi colori 0 di queste figure, ma ci basta la comparazione delle ler noi, quando si tratta di tali proposizioni, il tii)0 della certezza logica, e il solo senso intelligibile che [.uo avere in riuesto caso la parola certezza. 3 " Tuttavia, quantunque la pretesa che l'esperienza non i)u dar luogo a proposizioni rigorosamente umversali sia evidentemente illusoria, (luesta illusione e si generalmente ditusa tra i metafisici, e si  imposta con tanta forza anciie a dei pensatori che, per lo spinto g;eneralc delle loro dottrine, possono riguardarsi come dei campioni dell'empirismo lo scetticismo di Hume e le opinioni di Locke sull'incertezza delle conoscenze positive essendo appunto fondati su questo presupposto-, che noi non i)Ossiamo qui dispensarci di accennare ai motivi psi-, da cui essa si origina. ( )tre alle verit intuitive (cio a (luelle date immediatamente nell'osservazione dei latti particolari), vi hanno, anche nei limiti delle propcjsizioni sull'esistenza, delle verit o pretese verit generali con un grado tale di certezza che la maggior parte delle conoscenze induttive non i.otrebbero oguagliario. Esse sono delle inferenze, e l.cr conseguenza anch'esse induttive ; ma queste induzioni si fondano sulle espei-ienze che ci sono le pi familiari di tutte. Non  che una generalizzazione tirata da (mesti fatti i pi familiari, sia logicamente meglio fondata di un'altra tirata da fatti meno familiari: ma i^er una conseguenza delle leggi dell'associazione delle idee, vi lia  t tra lo due si)eciedi proposizioni una direrenzsi psicologica, determinata dalla somma disuguale delle esperienze. Ora tali generalizzazioni tirate dai latti pi lamiliari, sono caratterizzate da ({uesta circostanza, che tra le idee che esse uniscono, si  stabilita una coesione cosi intima, che non solo la loro certezza ci pare superiore a quella delle altre proposizioni induttive, ma esse ci sembrano certe (Fun'evidenza intrinseca, vale a dire, noi siamo disposti ad ammetterle indipendentemente dalla loro base logica, dalle esperienze passate che esse generalizzano, e la coesione stessa che noi sentiamo tra le idee, ci sembra nn criterio sufficiente della loro vei^it. (Questo  al fondo il sofisma a priori di Stuart-Mill, che egli esprime sotto U(') dubitare. Si possono prendere per esempio tutte le relazioni (U numeri; ti^e e due fanno cinque; noi non possiamo concepire clie sia altrimenti. Noi non i)ossiamo per alcuno sforzo del pensiero immaginare che tre e due facciano sette. Ci che dobbiamo notare  che questo non  vero solamente delle verit matematiche (della matematica pura) che si conoscono intuitivamente, ma anche di quelle cJie, \)(v essere ammesse, hanno bisogno di una dimostrazione. Non solo  una verit necessaria che due e due fanno quattro, ma anclie (^iie gli angoli del triangolo sono eguali a due retti; noi non possiamo concepire che tra la somma degli angoli del triangolo e due angoli retti sarebl)e possibile un rapporto differente da quello che noi conosciamo esistere realmente fra di loro, cio di eguaglianza. Nel seguito di questo Saggio  in questo stretto significato, di un'assoluta inconcepibilit del contrario, che noi impiegheremo i termini necessit e proposizione necessaria, ^ ij'' Gli arfioinenti di cui i filosofi razionalisti si servono per istabilire la loro dottrina, talliscono dunriue il loro scopo: Tuno non prova afiatto clie vi siano dei ;'u> dizi a priori, Y altro non prova che vi siano dei giudizi a priori sull'esistenza. Ma non solo la dottrina dei razionalisti manca di prove, essa presenta inoltre le pi gravi difficolt intrinseche. Cn giudizio a priori anzituttto, nel senso dei razionalisti, non pu essere che una necessita primitiva e inesplicabile del pensiero. Di queste necessit bisogna ammetterne altrettante, tutte indipendenti Ira di loro, quante sono le verit o pretese verit assiomatiche : non vi ha, i)er le proposizioni che esprimono queste verit, una condizione generale per T unione del soggetto e del predicato. N bisogna lasciarsi illudere dal linguaggio metaforico dei razionalisti. Quando una verit o pretesa verit a priori non  dedotta da altre verit pi primitive, essi dicono che si conosce intaiticaniente SemJDra che questa espressione e le altre corrispondenti non siano che delle figure rettoriche,. destinate a supplire in (jualche modo al difetto radicale della dottrina. Sia p. e. l'assioma che due quantit eguali ad una terza sono eguali fra di loro. Conosciuto che A  uguale a B e che B  uguale a C, noi conosciamo che A e C sono eguali: questa conoscenza i razionalisti la chiamano un'intuizione. Ma ci vuol dire forse che noi abbiamo la percezione attuale dell'uguaglianza tra A e C? Certamente no, perch i razionalisti non ammetti no che noi conosciamo questa eguaglianza immediatamente, ma che inferiamo da altre eguaglianze conosciute. Che cosa vuol dire dunque, in questo caso, un" intuizione  Lo abbiamo detto, non altro che una necessit primitiva e inesplicabile del pensiero. Sia che la conoscenza delPassioma si consideri come un possesso innato del nostro spirito (conformemente alla vieta dottrina delle idee innate); sia che si consideri come accjuisita, ma si sup[)Onga che sin dalla prima volta che abbiamo avuto la coscienza di due quantit eguali ad una terza, (juesta coscienza  stata indissolubilmente legata a quella dell'eguaglianza di queste due quantit fra di loro; e in {juest'ultima ipotesi, sia che si ammetta, con la pi parte dei filosofi razionalisti, che airorigine noi apprendiamo la verit dell'assioma per il confrondo dei concetti astratti, cio come principio generale, e che (juando la riconosciamo nei casi particolari, non lo facciamo che per un'applicazione di questo principio generale; sia che si ammetta mvece con altri, come Locke e Stewart, che nei casi particolari noi conosciamo la verit dell'assioma d'una maniera immediata: sarebbe sempre im[)0ssibile, nella dottrina dei razionalisti, di assegnare una ragione perch noi uniamo il soggetto della pro}>osizione col suo predicato; non  che per un impulso cieco e istintivo del nostro spirito, per una legge primitiva della nostra vita mentale, di cui si deve rinunziare a dare una spiegazione. Di queste leggi primitive bisogna aiiunetterne una i)er l'assioma di cui abbiamo parlato, un'altra per (juello che le somme di quantit eguali sono eguali, altre i)er il principio di causalit, per quello della sostanza, ecc.: ogni verit immediata supj)one una legge particolare distinta; non vi ha, nella dottiina razionalista considerata per se stessa, cio a parte le ipotesi sussidiarie di cui diremo nel paragrafo seguente, alcuna legge superiore, che comprenda queste leggi particolari, e da cui esse possano dedursi. Niente di pi naturale n di pi semplice della spiegazione, che la teoria dell'esperienza d di questi fatti, ultimi e inesplicabili per la dottrina razionalista. Possono i razionalisti mettere in dubbio che nella nostra esperienza passata si trovano i fatti particolari che, secondo la spiegazione empirista, servono di base induttiva alle verit assiomatiche? ovvero negare che noi siamo portati costantemente a fare delle induzioni, a generahzzare la nostra esperienza, ad estendere al futuro ci che sappiamo del passato, a rappresentarci Fignoto e il non sperimentato a somig:lianza del noto e dello sperimentato? Hanno essi mai dato una ])rova che queste verit si trovano nel nostro spirito anteriormente airesperienza? Essi dicono solamente ma noi abbiamo visto l'erroneit di queste atlermazioni die Tesperienza non pu dar luogo a delle pro[)Osizioni necessarie e rigorosamente universali. In verit anche la teoria deiresperienza arriva a un tatto, che  esso stesso ultimo e inesplicabile. Perdio ci rappresentiamo il futuro a somiglianza del passato, Fignoto a somiglianza del noto? Si dir che questo  un eietto delle leggi delFassociazione delle idee? ma queste non possono ricondursi ad altre leggi superiori, e sono, almeno per il momento, inesplicabili. (Questa  del resto la condizione comune di tutte le siegazioni della scienza: tutte devono fermarsi a un certo punto, al di l del quale non si pu andare. Ma la dottrina razionalista non fa nemmeno il primo i)asso: lungi di ricondurre i fatti a delle leggi generali, essa chiude gli occhi sulle analogie pi evidenti, e li considera come isolati ed eccezionali. La teoria delFesperienza non solo rende conto delForigine dei fatti mentali che, secondo la teoria contraria, sarebbero inesplicabili, ma d pure Tunica spiegazione che noi possiamo comprendere, di questa conformit tra il pensiero e le cose, in cui consiste la conoscenza. Ma se noi ammettiamo che il nostro spirito possiede delle conoscenze sul reale anteriormente alFesperienza, se non  rimpressione delle cose stesse che determina le nostre credenze, com' che queste credenze possono essere vere? Perch questa coincidenza tra il pensiero la realt? Che ragione si avrebbe per supporre che i fatti obbiettivi devono corrispondere alle necessit subbiettive del nostro spirito? Nell'ipotesi dei razionalisti la conoscenza non  che un azzardo fortunato; un errore a priori sarebbe cento volte [ probabile che una verit a priori. Nesoserebbe di ammettere, alla vista di un ritratto ras*somigliante, che l'autore non ha mai visto n altrimenti conosciuto l'originale, n niente altro che potesse rappresentarglielo : ma non vi avrebbe niente di strano in paradosso, che non si ritrovi esattamente nell'ipotesi razionalista. Ci che si deve notare  che queste ditticolt della dottrina razionalista non esistono nella nostra tesi sui giudizi a priori. Ad essa non pu rimproverarsi, come a quella, l'assenza d'una condizione generale, che spieghi l'unione del soggetto e del predicato. Questa condizione, nella nostra tesi, che noi possiamo trasportare le somiglianze, osservate tra le rappresentazioni, alle cose stesse rappresentate. N  sorprendente in questo caso la coincidenza tra il pensiero e la realt. Sostituiamo ai termini realt e pensiero gli equivalenti sensazione e rappresenta:^ ione, o meglio sensazione forte e sensazione debole. Un rapporto di somiglianza o di diferenza  un'impressione prodotta nel nostro spirito al seguito di certe sensazioni: per conseguenza, la coscienza della somiglianza o della differenza  legata a queste sensazioni, tanto se sono originarie, quanto se sono riprodotte, tanto se sono allo stato forte, quanto se sono allo stato debole, e i rapporti j3ercepiti fra le nostre idee non possono non corrispondere a quelli percepibili fra gli oggetti stessi. ^ %.!.'' Ci che abbiamo detto nel paragrafo precedente si applica alla dottrina razionalista considerata nel suo concetto generale, cio come consistente nella proposizione che afferma che i legami necessari (d'una necessit sia assoluta sia relativa) tra le idee esistono indipendentemente dall'esperienza e anteriormente ad essa, e sono ima propriet originaria del nostro spirito. Ma i filosofi razionalisti si limitano raramente a questa proposizione: la pi parte di essi alla tesi principale ed essenziale del razionalismo agginngono delle ipotesi sussidiarie, destinate appunto ad ovviare alle ditticolt di cui abbiamo parlato. Queste ditticolt sono due: lassenza d\ina condizione generale, che spieghi lunione del soggetto e del predicato nei diudizi a priori, e l'incomprensibilit, in questi giudizi, della coincidenza tra il pensiero e la realt. (Quantunque (jucste ipotesi sussidiarie dei filosofi razionalisti abbiano tutte per oggetto, in lin dei conti, di sopperire tanto alFuna (pianto all'altra difficolt, tuttavia noi possiamo dividerle in due classi, secondo che esse principalmente all'una ovvero allaltra. La prima, (luella che si propone principalmente di assegnare una condizione generale per l'unione dei concettiquasi tutti i iilosof razionahsti ammettono il concettualismol'onda le conoscenze a priori su un legame logico tra questi concetti. Il caso pi ordinario, se non runico, di questa classe d^ipotesi  quella che ammette che nei giudizi a priori il predicato  implicitamente contenuto nel soggetto, e che perci questi giudizi sono fondati sui principii d'identit e di contradizione. Questa forma della dottrina analitica dobjiamo distinguerla dalle due altre che abbiamo discusse nel primo capitolo. L'una di esse ammette che tutti i giudizi, o almeno tutti i giudizi universali categorici affermativi, sono analitici, e suppone che tutti gli attributi conosciuti, che possono predicarsi generalmente d'una classe, sono compresi nel concetto corrispondente a questa classe. L'altra quella che si fa rimontare a Kant ammette che i giudizi analitici sono delle definizioni o parti di definizioni, e suppone che un concetto comprende, non la totalit degli attributi conosciuti della classe ccrrispondente, ma una porzione determinata di questi attributi, quelli che, secondo i partigiani ^^v/'(' irodotto deirattivit intellet. Secondo (luesta detinizione delTidealismo, la dottrina di Berkeley, e tanto meno quella di Mill e di Bain, che negano la realt del mondo esteriore come indipendente dal sol?i;etto^ senziente, non sono tuttavia dei sistemi idealisti. delle opinioni tllosotclie ci dispensi dal tener conto della dottrina mistica delFintuizione razionale: la tendenza della filosofia contemporanea non  certo al misticismo, ed  ben lontano il tempo in cui la grande quistione dei filosofi italiani era se noi vediamo in Dio Tessere reale, come pretendeva GIOBERTI (vedasi), o solamente Tessere possibile, come voleva Rosmini. Tra le diverse forme delT idealismo tedesco quella di Kant  la sola che eserciti un' influenza reale nella filosofia contemporanea. D'altronde la dottrina dell'identit dell'essere e del pensiero non potrebbe riguardarsi propriamente come un'ipotesi, di cui uno degli scopi sia di sopperire alle difficolt della dottrina razionalista. Questa, come sistema psicologico, si limita ad ammettere che le coesioni tra le nostre idee, che attualmente ci sono date come indissolubili o quasi indissolubili, sono indipendenti dall'esperienza e anteriori ad essa. j\Ja la dottrina dell'identit dell'essere e del pensiero eleva tutte le conoscenze generali al rango di verit a 7)r/or?; essa suppone che lo spirito pu tirare la scienza dal suo proprio fondo, riproducendo in se stesso tutta la realt per la sola forza della ragione. Per conseguenza il nostro esame della dottrina razionalista sar sufiicientemente completo, se a ci che abbiamo detto in questo capitolo aggiungeremo una discussione della dottrina analitica sui giudizi a priori e di quella dei giudizi sintetici a priori di Kant. Nel capitolo seguente parleremo della prima. Dottrina aiiaitica dei giii(l2;i a priori. . 1.^' I/aitesignanC) di (jiiesta dottrina in Italia pu considerarsi GALLUPPI (vedasi). Questi essendo trai nostri maggiori filosofi (juello che, quantunque pi lontano di tempo, pi vicino a noi per lo s[)iritrj della sua filosofa, non crediamo inutile di discuterne le opinioni. Vi hanno secondo il Gallupjvi due ordini di verit generali : le prime sono necessarie, le altre sono contine genti. Per ac(|uistare la cognizione delle verit della seconda specie, noi non aljbiamo altro mezzo die Tesame dei casi particolari, per conseguenza, la sola esperisnza. Ma per le verit generali della prima specie, lo spirito non viene in cognizione di esse per mezzo della cognizione delle verit i)articolari, ma del semplice paragi^ne delle idee universali ch'egli si  formate. Come si vede, la teoria di GALLUPPI (vedasi) su])pone h\ dottrina delle idee astratte. Noi ammettiamo che vi hanno delle verit, a cui lo spirito i)u [)ervenire per il semplice paragone delle idee: ma le idee che lo spirito })aragona, non sono clie concrete e i)articolari. Il risultato di un paragone essendo Tintuizione (h una somiglianza o di : ima differenza, di una eguaglianza o di una disuguaglianza, ecc, in ({uest ordine di verit, come in tutte le altre, le prime acquisizioni dello spirito sono delle verit intuitive. Ma (juando lo spirito estende, per inferenza, la verit, dai casi particolari in cui egli l'ha conosciuta d\ma maniera intuitiva, agli altri casi particolari in cui Tintuizione fa ditetto, (jual (3 il fondamento di questa estensione ? Noi abbiamo potuto trovare in molti casi partico-, per il paragone delle nostre idee di certe grandezze, che due grandezze uguali ad una terza sono uguah fra di loro: noi Tabbiamo conosciuto (Uuna maniera intuitiva. Si tratti ora di dimostrare nn teorema; noi applichiamo rassi(jma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra (U loro, ad un'alt l'O caso particolare. In ciuesto caso la verit delFassioma non  conosciuta pi d\ma maniera intuitiva ; perch la dimostrazione di un teorema non consistendo che nelFapplicazione degli assiomi, se la nuova verit che si stabilisce per quest applicazione, fosse una verit intuitiva, noi conosceremmo allora il teorema per intuizione, e non per dimostrazione. Se noi conoscessimo d\ma maniera intuitiva che due grandezze sono eguali, noi non avremmo bisogno, per istabilire questa verit, di conoscere prima che le due grandezze sono eguali una terza. L applicazione d'un assioma  dunque un'inferenza o una deduzione ; e la deduzione reale, in questo caso come in tutti gli altri, non pu essere che dal particolare al particolare: dai casi particolari caduti sotto la nostra intuizione, a quelli die non vi sono caduti. Ma secondo il Galluppi la cosa non avviene cosi: non  pei' il paragone delle idee i)articolari,  per il paragone delie idee unicersali, che noi veniamo a conoscere una verit necessaria; se noi ammettiamo che la proposizione  vera in im caso particolare, ci avviene perch noi abbiamo gi preconosciuto la verit generale, che non lega che dei dati astratti e puramente generici. Una verit generale risulta dunque, secondo GALLUPPI (vedasi), dal paragone delle idee generali: ma qual  il rapj)orto che lo spirito percepisce fra le idee che egli paragona? (Questo rapporto, secondojil Galluppi,  un rapporto d'identit: una proposizione a priori  una proposizione analitica, in cui l'attributo  contenuto impHcitamente nel soggetto; e se queste proposizioni sono necessarie,  perch il contrario implicherebbe contraddizione. Una proposizione necessaria  dunque fondata, secondo il Galluppi, sulla identit delle idee: ma questa identit pu percepirsi o immediatamente, ci che avviene nelle veriti assiomatiche, o mechatamente, ci che avviene quando la verit necessaria , non assiomatica, cio evidente per se stessa, ma dedotta. (Queste verit dedotte che sono, per Galluppi, necessarie e fondate sul princijo dell'identit, noi possiamo distinguerle in due classi: alla |)rima appartengono le proposizioni delle matematiche pure, le quali esprimono, come noi sappiamo, dei giudizi coml)arativi; quelle delle seconda classe sono invece, secondo la nomenclatura che nyi abbiamo adottato, dei giu(hzi jx)sitivi o esistenziali. GALLUPPI (vedasi) ammette dunque delle verit esistenziali, che non sono fondate sull'esiierienza; tali sono, oltre il principio di causalit, alcune affermazioni della metafisica sull'assoluto, che in sostanza possono, secondo lui, ridursi a questa formula: se qualche cosa esiste, l'essere necessario esiste; e oltre a ci ancora i i)rincipi pi generali della meccanica. GALLUPPI (vedasi) non vuole fondare tutte (jneste proposizioni sull'esperienza e sull'induzione, ma vuole dimostrarle, cio dedurle; sia ])erch non gli jaresse possibile di stabihrle col primo metodo, sia perch credesse pi scientifico di stabilirle col secondo. Noi crediamo inutile di occuparci d'una maniera particolare dell(3 dottrine di GALLUPPI (vedasi) relative a questa seconda classe di proposizioni necessarie: ma la sua dottrina su quelle della prima, classe, cio sulle verit della matematica pura,  per noi, l pi interessante, ed  su di essa che volger specialmente la nostra discussione. S. 2^. 11 Galluppi trova assurda la nozione di un giudizio sintetico a priori: tutta la sua argomentazione generale contro questa specie di giudizi si assomma in due luoghi che noi riporteremo, perch T autore stesso cita altrove (piesti luoghi, come se fossero i pi probanti di tutti. La distinzione che la scuola trascendentale pone Tra i giudizi analitici ed i giudizi sintetici  assurda. Se le due idei A e B non hanno alcuna identit Tra di esse, lo Sjrito non pu riguardarle che come distinte e senz'alcun legame fra di loro;  impossibile dunque ch'egli vi perce[)isca un rapporto necessario di convenienza, e l'asserirlo  un porre una contraddizione nei termini; dire che le due idee A e H non sono affatto identiche  lo stesso che dire ch'esse som diverse; dire che son diverse  lo stesse che dire ciie l'una non pu affermarsi dell'altra,  lo stesso che dire che non vi ha alcun rapporto di convenienza Tra di esse; dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un rapporto di convenienza Tra d^ie idee diverse,  affermare che lo spirito \m() [)ronunziare una contraddizioni) evidente. Noi concediamo alla scuola trascendental(3 che vi sono nel nostro spirito dei giudizi sintetici a posteriori somministratigli dall'esperienza, e sono api)unto quei giudizi che Locke chiama di coesistenza, ina (piesti gimhzi sono a j)Osterioriy poich nel nostro spirito sono contingenti. Tutti i giudizi necessari debbono in idtima analisi risolversi nel principio di contraddizione, essi son dunque tutti analitici, ed i giudizi a priori non possono essere che necessari. Ammettere dei giudizi necessari non poggiati sul principio di contraddizione,  un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede alcuna contraddizione neiro})i)Osto di un suo giudizio, egli non pu certamente riguardarlo come necessario. I giudizi sintetici a jtriori non possono dunque esistere  (Saggio J/losq/ico sulla critica della conoscenza, t. 1,^ 55?. 115). XI: Ivi Se fra due idee non vi ha un rapi)orto d'identit, non vi ha, dice GALLUPPI (vedasi), alcun legame fra di loro, e lo spirito non pu percepirvi un rapporto necessario di convenienza. E perch? Perch dire che le due idee non sono identiche,  lo stesso che dire clie esse sono diverse ; e dire clie sono diverse,  lo stesso che dire che l'una non pu affermarsi dell'altra. Ma se questa ragione fosse valida, essa proverebbe, non solo che non esistono giudizi sintetici a priori, ma che non esistono affatto giudizi sintetici : tutti i giudizi, a priori o a posteriori, necessari o contingenti, sarebbero analitici. Intenderemo duncpie che di due idee non identiche 1' una non pu afCermarsi dell'altra con un giudizio necessario e a priori i" Ma allora tutto il ragionamento del Galluppi non  che una continua petizione di principio: il dunque non vi sta per indicare la conclusione di un raziocinio, ma sempUcemente la conversione di una proposizione in una forma equivalente.  che secondo il Galluppi  una verit evidente l)er se stessa che un giudizio necessario  un giudizio il cui contrario implica contraddizione. Ma questa pretesa verit evidente  una proposizione puramente gratuita. Perch sarebbe una contraddizione di dire, p. e., che la somma degli angoli d'un triangolo non  uguale a due retti?  perch questa propriet, di avere gli angoli uguali a due retti, si trova in tutti i triangoli che noi possiamo concepire, e perci essa  inseparabile dal concetto del triangolo, e fa parte della sua essenza? Non vi potrebbe essere altra ragione per affermare che la proposizione  contraddittoria; una proposizione non potendo contenere una contraddizione, se non quando il predicato viene a negare ci che si era gi affermato per l'attribuzione del soggetto. Noi siamo cosi andati all'incontro dell'altro luogo di GALLUPPI, che ci eravamo proposti di riportare. Se togliendo la nozione del predicato si toglie la nozione del soggetto, la prima deve essere o una parte della seconda o identica i)errettainente con essa; in questo caso il giudizio  necessario. Ma esso  ancora identico o analitico. Se togliendo la nozione del predicato non si toglie insieme quella del soggetto, il giudizio non  identico, ma sintetico; ma esso  insieme contingente, poich io posso ammettere il soggetto senza essere necessitato di ammettere il predicato. Un giudizio sintetico necessario  dunque un assurdo (tomo:*' .111). Ora una proposizione matematica , secondo la dottrina del Galluppi stesso, una verit di rapporto, un giudizio comparativo. In un rapporto si distingue la relazione stessa e il fondamento della relazione. In ({uesta proposizione: la somma degli angoli di un triangolo  uguale a due retti , ci clie si atlerina  una relazione d'eguaglianza: fra gli angoli del triangolo e due angoli retti. La relazione non esiste che per la comparazione: essa, secondo il Gallupi>i stesso, non  che una veduta ideale dello si)irito, (juando mette in confronto gli oggetti (v. t. 1" 32, t. 3 31, t. 4" 32, 34, 37 e segg, ecc). Cosi l'eguaglianza con due angoli retti non  una propriet degli angoli del triangolo considerati assolutamente ;  una veduta dello spirito, che mette in confronto la somma di questi angoli con due angoli retti. La relazione stessa dunque non fa parte dell'essenza del triangolo, e non  contenuta nella sua nozione. Si dir che vi  contenuto, se non la relazione stessa, il fondamento della relazione? Ma il tbndamento della relazione, a parte la relazione stessa, non  qualche cosa che lo spirito possa distinguere negli angoli del triangolo o nell' idea di questi angoli. Il fondamento della relazione, a parte la relazione stessa, non  altro che l'oggetto stesso o la sua nozione, non  una parte di quest'oggetto o di questa nozione. Una propriet relativa non acquista per lo spirito un'esistenza mentalmente distinta, che nell'atto stesso della relazione o della comparazione: fuori di questa relazione, lo spirito non pu distinguere nella nozione dell'oggetto la nozione della sua propriet. Per conseguenza, pensare gli angoli del triangolo come aventi in se stessi il fondauiento della relazione che la proposizione afferma, non  altro che pensare che essi hanno (juesta relazione. L' attributo affermato dalla proposizione, non pu essere dunque il fondamento della relazione, a parte la relazione stessa, perch questo, fuori della relazione, non ha un'esistenza mentale distinta. Ne che quest'attributo non pu essere che la relazione stessa. Ma se  cosi, la proposizione non (' analitica, i)erchi3, secondo il ( Tallup[)i stesso, l' idea della relazioii(3 non  contenuta nelF idea del soggetto. Se, malgrado ci, egli pretende che  analitica,  perch  necessaria, e quando la nozione del ])redicato non fa })arte della nozione del soggetto, noi possiamo, egli dice, ammettere il soggetto, senza essere necessitati di ammettere il predicato. Ma  questo principio che bisognerebbe provare, e che n il Galluppi n gli altri sostenitori della stessa dottrina non provano mai. i5i. 3". Queste due dottrine del Gallui)pi, per ciuanti sforzi egli abbia fatto per metterle d'accordo, non possono coesistere luna con l'altra. Non si [)u, come fa il Galluppi, sostenere senza contraddizione chele proposizioni matematiche sono verit di rapporto, e che il rapporto  una veduta dello spirito, distinta dalle idee che sono i termini del rai>porto (v. i l. i indicati nel ^ precedente), e al tempo stesso che queste proposizioni sono anahtiche. La circostanza che il rapporto deriva necessariamente dalla natura delle cose o delle loro idee, che  impossibile di avere le idee e non vederne il rapporto quando sono convenientemente paragonate (), non prova che il giudizio  analitico. 11 soggetto della proposizione, dice il Galluppi, non  il soggetto considerato assolutamente per se stesso, ma il soggetto comi)arato con un'altra cosa; e il giudizio ' analitico, perclir dice, non in verit ci che V idea  in se stessa, ma ci(') che l'idea  nel suo })aragone con un'altra. Ora in un giudizio comparativo si trovano tre idee: i due termini comparati, e la relazione, cio la veduta ideale dello spirito, che risulla dal i)aragone. Di queste idee (juale sar il soggetto della proposizione? Un termine nella sua comparazione con l'altro termine, dice il Gallu]>pi. Ma (juest'idea del primo termine deve [^rendersi separatamente dall'idea del rapporto ? in questo caso l'idea del rapporto non  contenuta neiridea del soggetto. G il soggetto comprende al tempo stesso l'idea del primo termine e l'idea della sua relazione con Taltro? Ma allora il giudizio consiste tutto nel soggetto ; e non bisogna dire che Y attributo  contenuto nel soggetto, perch  inutile di aggiungere al soggetto un attriljuto. Ci che vi ha di singolare  che Toperazione dello spirito, per cui esso paragona gli oggetti, e percepisce i loro rapporti, , secondo lo stesso Galluppi, una sntesi. I rapporti, dice egli ripetutamente, sono un prodotto dell'attivit sintetica dello spirito ; avere due idee non  la stessa cosa che conoscere la loro relazione. Perci si richiede un atto di comi)arazione: le nozioni dei rapporti sono il prodotto della comparazione ; esse non vengono dalle sensazioni, ma dall'attivit sintetica dello spirito, la quale le aggiunge agli oggetti sensibili. L'avere insieme nello spirito due percezioni, non  lo stesso che paragonarle. 11 rapporto  un'idea dello spirito, la quale nasce in seguito del paragone, e non  altra cosa fuori di quest'idea. I termini delle relazioni sono reali, ma le relazioni sono solamente idee dello spirito. L'azione dello spirito, da cui nascono le relazioni, e per cui queste si uniscono al soggetto paragonato, il Galluppi la chiama sintesi ideale. Ma se l'operazione, per cui lo spirito paragona gli oggetti, e conosce i loro rapporti,  una sintesi, cio un atto con cui esso aggiunge un nuovo elemento, una nuova idea, idee che gli sono state date ; come il giudizio, che non  se non un altro nome per indicare la stessa operazione paragonare e di conoscere i rapporti, sarebbe un'analisij cio un atto con lui lo spirito non aggiunge niente di nuovo, ma solo distingue un elemento gi contenuto negli stessi dati? La sintesi, dice il Galluppi,  una delle elementari dello spirito unmno: per essa noi paragoniamo le nostre idee e scovriamo i loro rapporti. La sintesi estende le nostre conoscenze: ma sarebbe un errore il confondere l'operazione sintetica, che ci d alcuni rapporti, vale a dire che ci d alcune idee, coi giudizi sintetici a priori. Nel giudizio lo spirito decompone una percezione complessa, e indi la ricompone con gii stessi elementi. Kant ha confuso l'operazione sintetica coi suoi prodotti, che sono le percezioni dei rapporti fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale  il principio efficiente, che pone un termine rapportato. Lo spirito nel termine rapportato vede un rapporto, ed esegue con ci un'analisi ; indi unisce questo rapporto che aveva separato dal termine rapportato, astesso termine, e compie il giudizio. Lo spirito, prima della comparazione, non aveva che il termine della relazione; dopo la comparazione ha un termine rapportato: l'attivit sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della relazione, il rapporto, e questo rapporto  un elemento soggettivo aggiunto all' oggettivo. Ma nel giudizio lo spirito non percepisce se non ci che si trova nel termine della relazione in quanto rapportato, nel che lo spirito non sorte dall'identit, poich nel termine rapportato  compreso evidentemente il rapporto. Quest'osservazione dilegua qualunque dubbio su la soluzione data circa l'utilit del raziocinio, e su V impossibilit dei giudizi sintetici a priori. Il raziocinio, si domanda, essendo poggiato su Tidentila, come esso  istruttivo? Abbiamo risposto, perch ci scovre i rapporti diversi delle nostre idee, che non possiamo immediatamente conoscere, ma questi rapporti, essendo nei termini rapportati, non si va fuori della legge deiridentit. 1 termini non sono rapportati se non dopo razione sintetica della comparazione. Il raziocinio nel suo risultamento scovre dunque un elemento nelle nostre idee, clie la comparazione vi ha i)Osto. pia operazione sullo stesso oggetto ? un'operazione primitiva, per cui lo spirito confronta le cose e percepisce il loro rapporto, ed  la comparazione; e uiroperazione secondaria, })er cui lo spirito ritorna o riflette sulla prima, ed  il giudizio? Ma la stessa distinzione potrebbe applicarsi con lo stesso fondamento a tutte le conoscenze che noi possiamo acquistare: la parte del giudizio potrebbe ridursi in tutte alla riflessione sulle conoscenze primitive. Ora non  evidente che il giudizi(^ cosi inteso avreb))e una parte molto accessoria nelle operazioni delTintelligenza? il vero giudizio, il giudizio fecondo, sarebbe, non questo giudizio, ma la sintesi i)rimitiva e originale, essendo questa, anche secondo il Galluppi, che (f estende le nostre conoscenze . D'altronde noi saremmo ritornati di (luesta maniera alla teoria, di cui sopra aljbiamo i)arlato, secondo la quale il giudizio sintetico e il giudizio analitico si distinguono, perch il primo  originale e primitivo, il secondo  ripetuto e riflesso. E allora la distinzione fra il giudizio analitico e il sintetico non corrispondereljbe pi, come vuole il Galluppi, a (luella fra il giudizio necessario o a priori e il contingente o sperimentale. Il Gallui)pi ha ben compreso (juesta verit: che tutte le pro])Osizioni della matematica i)ura sono comparative, (), come egli dice, delle verit di rapporto ; che questi ra[)porti non hanno al fondo che un'esistenza mentale; e che  dalla natura speciale di questi rapporti che deriva il carattere particolare di questa scienza, di essere un si-stema di conoscenze necessarie ed a priori. Ma egli ha avuto il torto di ostinarsi, malgrado ci, a pretendere che queste proposizioni sono analitiche:  che egli confonde le due nozioni di giudizio analitico e giudizio necessario. Dire che un rapporto comparativo nasce dalla natura stessa dei termini o delle idee comparate; che esso  un attributo essenziale al soggetto, e che il soggetto non pu concepirsi senza Tattributo; sono unicamente delle maniere diverse di dire che questo rapporto  una conoscenza necessaria e a priori, (Questa  una ragione per distinguere le proposizioni che ci danno una conoscenza di ({uesti rapporti, dalle proposizioni per cui conosciamc dei rapporti d'un altro ordine: ma non segue da ci(') che le prime proposizioni siano identiche e analitiche, cio che Tattributo sia compreso nel soggetto, e che esse siano fondate sui principii d'identit e di contraddizione. Anche nel caso in cui il contrario di questi 'giudizi  assolutamente inconcepibile, non si deve confondere, come si fa ordinariamente, Tinconcepibilit con la contraddizione; poich, se  vero che tutte le proposizioni contraddittorie sono inconcepibili, non  vero chC;, reciprocamente, tutte le proposizioni inconcepibili sono contrad. Galluppi ha un'altra ragione per provare il suo assunto: tutti i rapporti che noi stabiliamo fra gli oggetti comparati tra di loro, si riducono air identit e alla diversit. Ci proverebbe che i gi . dizi che hanno per contenuto questi rapporti, sono analitici e fondati sulFidentit. L'eguaglianza delle grandezze (l) La natura sintetica dei giiulizi matematici e stata ben capita dal Gio])erti. Tali griudizi . eg:\i dice, sono tutti sintetici, essendo fondati, non sulla identit, ma sulla relazione ( sulla corrispondenza e proporzione reciproca ) delle varie conformazioni quantitative del tempo e dello spazio.  dairintclligibile che lo spirito cava questa relazione, e Tanalisi pi sottile non potr mai farla scaturire dap:li elementi quantitativi del tempo e dello spazio, come tali. Nel giudizio: A eguale A, il concetto d'eguaglianza che  nel predicato, arziale) fra le due idee, della mediazione di altre idee? Siccome una proposizione necessaria non pu concludersi die da premesse tutte e due necessarie, (luelli che pretendono che le ]^roposizioni necessarie sono analitiche, e che di tali proposizioni ve ne hanno delle mediate o concluse, ilevono ammettere, almeno per questo caso, la dottrina del ragionamento die Stuart-Mill ha confutata in Ikimilton, e che noi possiamo chiamare la (ottrna an aliti a a del ragionamento. Secondo questa dottrina, la nozione indicata dal termine medio  compresa in (luella indicata dal termine minore (rapporto atcrmato nella premessa minore), e comprende alla sua volta la nozione indicata dal te^mine rnarfrjioie (rapporto alTermato nella p^emessa mar/ffioie); e dal confronto di questi due rai^porti ne risulta la conoscenza del terzo rapporto, quello affermato nella conclusione, cio che la nozione del termine minoie comprende quella del termine maggiore. 11 fondamento del ragionamento sarebbe cosi il principio evidente che una j^arte della ])arte  una parte del tutto. Ma come i>ossiamo aver ^isogno del ragionamento per riconoscere, nel caso particolare, che la parte della parte  una parte del tutto? Stuart-Mill ha ben messo in luce le inconcepibilit inerenti a questa dottrina:  impossibile di ammettere al tempo stesso che il ragionann^nto  una maniera di costatare che una nozione fa parte di un'altra, e che Fuso del ragionamento ha per iseopo di scoprire delle verit che non sono evidenti per se stesse. Come pu darsi, domanda il Mill, che una verit che consiste in una nozione che  una luirte contingenti, n^^^n si  d accordo su questo punto dai |u^irtigiani della dottrina analitica: ina alcuni ammettono ciie anche queste sono identiche; solo noi non cosciamo la loro identit, sia intrinseca, sia c'on altre verit ap])arentemente digerenti; non conosciamo la loro derivazione dal gran principio da cui nascono tutte le verit, il principio d'identit 0 di contraddizione. Ma se  cosi, che cosa pu apprenderci una proposisizione? e in che il ragionamento pu estendere le nostie conoscenze? Allora una verit assiomatica m^n ta che aliermare un'idea di se stessa, e una scienza deduttiva non  che una serie di esi)resioni digerenti delle stesse idee. Noi siamo forzatamente circoscritti ncWkcm per idem: le parole cangiano, ma le idee restano le stesse. Quando tiriamo un'interenza, noi pronunziamo un giudizio, che abbiamo gi pronunziato in altri termini nelle premesse; ben pi, tutte le proposizioni, ahneno le necessarie, non l'anno che ripetere sotto forme diiTerenti ucste conseguenze sono talmente inevitalli, che il pi celebre forse dei sostenitx)ri della dottrina, Condillac, le ha espressamente inculcate.  L' identit, dice quest'autore,  il segno al (^uale si riconosce che una proi)0sizione  per se stessa evidente; e si scorge Tidentit quando non si pu tradurre che in termini che tornino a (piesti: lo stesso  io stesso. In consegucnzix una proposizione per (l un' altra, non sia cvidt^nle por se stossa? Le nozioni sono immeuprosj/iono tutto e due nel nostro s]>irit. {Arte di ragionare, lib. 3*' e. XI). Il suo Trattato delle sensazioni non , secondo Condillac, che una serie di proposizioni identiche in se stesse, e il principio che comprende tutto il sistema pu brevemente enunciarsi di questa maniera: le sensazioni sono sensazioni. Se potessimo in tutte le scienze seguire ugualmente la generazione delle idee, e cogliere e vedere da per tutto il vero sistema delle cose, vedremmo nascere da una verit tutte altre, e ritroveremmo Tespressione abbreviata di tutto quello che sapremmo in questa proposizione identica: lo stesso  lo stesso  (Arte di pensare, e. 10). Ma se tutte le proposizioni d'una scienza dimostrativa sono identiche, obbietta a se stesso Condillac, non saranno perci stesso frivole? Le proposizioni, egli risponde, sono identiche, se esse sono vere; perch avendo dimostrato che e/ c/ie non sappiamo  la stessa cosa di ci che sappiamo,  evidente che non possiamo lare che delle proposizioni identiche, allorch passiamo da ci che sapiuamo a ci ciie non sappiamo. Ma non  r identit nello idee che la il frivolo,  V identit nei termini . Sei  sei  una ])roposizione identica e al tempo stesso frivola, perch T identit  nelle idee e nei termini. Ma tre e tre fanno sei non  una proposizione frivola, perche Tidentit  unicamente nelle idee  (Linr/iia dei calcoli). Noi non possiamo passare, dice Condillac, da cii) che sai)piamo a ci che non sappiamo, se non perch ci che non sappiamo  la stessa cosa di ci che sappiamo. Noi andiamo dal noto airignoto, perch l'ignoto si trcjva nel noto, e non vi si trova che perch  la stessa cosa. (Lingua dei calcoli, hb. 1" e. 5^). Ma se Tignoto, risponde il Galluppi,  lo stesso del noto, il cammino che si pretende che faccia lo s])irito, andando dal noto all'ignoto, non esiste allatto, perch quest' ignoto  una clamer: se il punto da cui io parto  1<3 stesso di quello a cui giung(3, non ho fatto alcun cannnino, io resto immobile, ed il parlare d'un passaggio da un punto ad un altro  un linguaggio visibilmente contraddittorio. (Galluppi^ Opera ci-, t. P 70).  evidente che questa obbiezione colpisce la dottrina del Galluppi stesso: cos'ha fatto quest' ultimo autore per risolvere la difcolt? Egli ha ricorso a due espedienti: il raziocinio, dice in primo luogo,  istruttivo, ed estende effettivamente la sfera delle nostre conoscenze, in quanto ci scopre i diversi rapporti delle nostre diverse idee, paragonate le une con le altre. I triangoli costruiti su basi eguali e tra le stesse parallele sono uguali. Se un triangolo e un parallelogrammo sono costruiti su basi eguali e fra le stesse parallele, il triangolo  la met del parallelogrammo ; queste proposizioni, dice il Galluppi, non sono identiche l'una all' altra ; la prima scopre il rapporto fra un dato triangolo e un altro dato triangolo ; la seconda scopre il rapporto fra un dato triangolo e un dato parallelogrammo ; or questi due rapporti son distinti nel nostro pensiero, e perci formano due conoscenze distinte. Non si pu dire che in queste proposizioni non si faccia altro che dire: 11 triangolo  triangolo, il parallelogrammo  parallelogrammo, poich queste proposizioni identiche non indicano alcun rapporto fra due figure distinte, (t. 1 81 V. anche t. 4<^ 38, t. 1 IGl, ecc.) Ma con questa risposta il Galluppi abbandona la dottrina dell'identit e del giudizio analitico ; o piuttosto, dovrebbe abbandonarla, se fosse conseguente. Noi abbiamo esservato, in effetto, che se, come insegna il Galluppi;, i giudizi matematici sono verit comparative o di rapporto, e il rapporto  una nozione nuova che lo spirito aggiunge alle nozioni dei termini comparati, i giudizi matematici non possono essere analitici o identici, perch questa seconda dottrina  in contraddizione con la prima. L'altra risorsa del Galluppi consiste nell'invocare la vecchia dottrina dei logici sul sillogismo: il ragionamento, egli dice, va dal generale al particolare, dal genere alla specie e dalla specie all' individuo. Ma T idea del genere non  perfettamente identica con quella della specie, poich v'ha pi nella specie che nel genere, pi nell'individuo che nella specie; cosilo spunto passa da nozioni pi semplici e generali a nozioni \)i\\ complesse e particolari. Dunque nella dimostrazione non vi ha una sola idea, e il Condillac ha torto di riguardare il raziocinio come una serie di (Utlerenti espressioni di una stessa idea (t. 1^ Js?. 73 e sgg). (xJuesta seconda risposta non vale j)i della prima: essa  t'ondata su un falso presu[)posto, cio che il sillogismo rappresenti il processo reale del ragionamento, ed  inoltre illusoria, perch, ammesso anche questo presupposto, il ])rogresso deirintelligenza, nel ragionamento, resterebbe sempre incomprensibile. . 8.'^ Uno dei fondamenti della dottrina analitica sui giudizi a priori  certamente Topinione, per lungo tempo dominante nella logica, clie il sillogismo  un ragionamento reale, anzi il tipo universale del ragionamento. E in eiletto rimpiego del metodo sillogistico, da una parte, ha dato la ragione apparentemente pi forte per credere che la costatazione di una semplice necessit logica, cio di una conseguenza fondata sui rapporti logici necessari tra le idee e non sulle analogie tra i fatti, pu dare un'estensione reale alle nostre conoscenze; e d'altra parte, l'oggetto della dottrina analitica dei giudizi a priori essendo di tbndare questi giudizi sulla semplice necessit logica, questa dottrina trovava perci uno strumento proprio e gi preparato nel sillogismo, qual  ordinariamente considerato dai logici. Cosi mentre, dopo la disfatta della scolastica, si trova generalmente nei filosofi novatori l'abbandono e il dispregio della logica formale, noi vediamo al contrario Leibniz, die si avrebbe ragione di riguardare come il fondatore della dottrina analitica dei giudizi a priori (v. il Saggio seguente, parte 1*, cap. 6^) quantunque egh non ammetta ancora, almeno esplicitamente, che in questi giudizi il predicato  contenuto nel soggetto , fare il pi gran conto del ragionamento sillogistico: secondo lui, tutte le verit razionali, anche ([uelle che si chiamano assiomatiche, devono essere dimostrate secondo le regole della logica, cio col metodo sillogistico, sinch si arrivi, come primi [)rincipii, a delle proposizioni di cui si veda chiaramente che sono delle verit identiche (v. Leibniz Nuovi Saggi Hitirintcndimenio umano, lib. 4'^ e. 2^ 7^ i)^ 12^ 17^; Meditationes de co-gniiione, veritate et ideis (Opera omnia, Datens, i.as 2us /% 17); Teodicea, Osserv'.zioni sul Uhro(i King, TI 0 K ecc), Dei filosofi, i quali credono che, in una ])roposizioistruttiva, l'idea del ]:)redicato pu fare parte dell'idea del soggetto, non possono vedere la (hfticolt che vi ha ad ammettere che un ragionamento, in cui la conclusione  contenuta nelle premesse, costituisca ci non ostante una vera inferenza, cio un progresso reale della conoscenza. jMa la diiticolt in se stessa  talmente evidente, che l'obbiezione contro il sillogismo che esso, considerato come una prova,  una pura petizione di principio,  tanto vecchia quanto il sillogismo stesso. Questa obbiezione  in effetto, come dice il Mill (Logica, h. 2^ e.:V^ ^. 1), un corollario legittimo del teorema del sillogismo, cio del principio, unaTiimamente ammesso dai logici, che nella conclusione di questo ragionamento non deve esservi niente di pi di ci che  gi dato nelle premesse. Quando si dice: Tutti ixM uomini sono mortali, Socrate  uomo, Dunciuo Socrate  mortale, gli avversari della teoria del sillogismo obbiettano irrefutabilmente che la proposizione Socrate  mortale   presupposta nell'asserzione pi generale Tutti gli uoiiiini sono mortali; che noi non possiamo essere sicuri della mortalit di tutti gli uomini, a meno d'essere gi certi della mortalit di ciascun uomo individuale; che se  ancora dubbioso che Socrate sia mortale, Tasserzione che gli uomini sono mortali  colpita della stessa incertezza; che il principio generale, lungi di essere una prova del caso particolare, non pu esso stesso essere ammesso come vero sinch resta Tombra d'un dubbio su uno dei casi che esso abbraccia, e sinch questo dubbio non  stato dissipato per una prova alunde; e allora che resta a provare al sillogismo?* (MW Logica hb. 2^ e. 3^ . 2^). Il ragionamento sillogistico non  dunque un'inferenza reale, ma verbale e apparente.  ci del resto che  implicitamente ammesso dai suoi stessi difensori, quando insegnano, come fanno generalmente, che la transizione dalle premesse alla conseguenza  giustificata dal semplice principio di contraddizione, cio che il solo motivo di accordare la conseguenza dopo aver accordato le premesse^  che vi sarebbe contraddizione se quella si supponesse falsa, queste essendo supposte vere. Cosi essendo, siccome la contraddizione consiste ad affermare e negare al tempo stesso le stesse cose, si deve confessare che, negando la conseguenza, si negherebbero dei fatti che le premesse affermano, o se ne affermerebbero che le premesse negano, e quindi, che ci che si afferma enunciando la conseguenza, era gi stato affermato enunciando le premesse. Ma ci vuol dire che, passando dalle premesse alla conseguenza, il pensiero non ha fatto che ripetersi^ che non si  fatto alcun passo in avanti, e che l'inferenza non  stata che apparente.  sorprendente come questo, che chiameremmo un paradosso se non fosse invece un luogo comune, cio che verit date possono contenere in se stesse altre verit, che sono nondimeno nuove e differenti dalle prime, ha potuto imporsi ai logici sino al Mill. Si credeva di vedere pie1 namente realizzato questo caso nelle scienze di puro ragionamento, in cui, come nella geometria, tutto un sistema di conoscenze importanti viene cavato, a quel che pare, da pochi principii semplicissimi supposti al cominciamento. Ma (juesta  un' illusione, dovuta all' impiego necessario del linguaggio, e per conseguenza, dei termini genemli: le verit dimostrate, nelle scienze cosi dette deduttive, non sono provate dalle verit pi generali, cio dagli assiomi, ma dai fatti particolari di cui queste ultime verit sono la generalizzazione. Ogni ragionamento, di qualunque specie esso sia, se  reale, cio se costituisce un progresso delle nostre conoscenze,  sempre un processo essenzialmente induttivo, cio un'assimilazione dei casi nuovi ai casi particolari dell'esperienza passata. La vera prova della mortalit di Socrate non  che tatti gli uomini sono mortali perch, come  stato detto sopra, se non si  ancora sicuri della mortalit di Socrate, non si pu essere sicuri della mortalit di tatti gli uomini, ma che A, B, C e tutti gli altri uomini che sono vissuti, sono morti. Se si dubita infatti che Socrate morr, non si pu esserne resi certi per la proposizione che tutti gli uomini sono mortali , percli sinch  dubbio il fatto particolare,  necessariamente anche dubbia la proposizione generale. Il dubbio non potr essere dissipato che per la enumerazione dei casi particolari, di cui questa  la generalizzazione induttiva. Sono dunque questi casi particolari che provano, tanto la proposizione generale che tutti gli uomini sono mortali, quanto la verit particolari che Socrate morr (v. Stuart Mill Logica, lib. 2^ e. 3^ o almeno questo scritto cap. P. 19^). L'inferenza non  mai dunque, come crede GALLUPPI dal generale al particolare, ma  sempre dal particolare al particolare.  questa del resto una conseguenza evidente del rigetto della dottrina dei concetti. Se noi non abbiamo che delle idee particolari, se non vi ha altro di generale che dei meri simlx)li, noi non possiamo ragionare che su dei fatti particolari, e Tinlerenza non pu andare che da alcuni altri di questi latti particolari. Ora questo genere d'inferenza non pu servire di base alla dottrina anaUtica dei giudizi a priori, perch questa pretende di fondare le conoscenze razionali sul principio di contraddizione, ma non vi ha contraddizione alcuna a negare la verit dei fatti inferiti (p. e. che Socrate morrai, mentre si ammette quella dei fatti da cui s'inferiscono (che A, B, C e tutti gli altri uomini che sono vissuti, sono morti). Il sillogismo bensi  fondato sul principio di contraddizione quantunque un fatto si chiaro sia contrastato da alcuni dei pi illustri logici moderni (v. in seguito,. 2G 20) ; ma appunto perci  un'inferenza apparente, e non pu dare un'estensione reale alle nostre conoscenze, come lo esige la dottrina analitica. La dottrina dei concetti non permette di vedere chiaramente ci(*) che vi ha di paradossastico e d'impossibile in quest' asserzione, che noi possiamo acquistare delle conoscenze nuove per il solo sviluppo di nozioni antecedenti. Quando si ammettono le idee astratte, si pu, appoggiandosi su questa vaga nozione: analisi, credere che si possa, sviluppando o esplicando un'idea, come si svolge, p. e., un gomitolo o si spiega una stoila che era ripiegata, mettere in luce altre idee che vi erano occultamente, o come si dice pi d'ordinario, imphcitamente, contenute. Un'idea non pu essere racchiusa in un'altra, in un ragionamento o in un giudizio reale, che come la scintilla  racchiusa nella selce, cio per una semplice metafora. Se i metafsici possono reaUzzare questa metafora,  per ci che vi ha di vago e di mistico in quest'altra nozione: il concetto, degna compagna di quella delYanalisi, Ma se si ammette che noi non pensiamo che per idee concrete e particolari, non vi avr pi alcun luogo, evidentemente, per l'analisi, n nel ragionamento n nel giudizio. Come nel ragionamento in cui il processo reale deirinferenza non ha potuto essere misconosciuto, che perch una proposizione generale si  riguardata come l'enunciato di una nozione, rigorosamente parlando, generale, e non sem[)liccmente come un segno per ricordarci dei fatti particolari dell'esperienza passata, e indicarci ci che doljbiamo attenderci, per l'avvenire, nei casi analoghi cosi anche nel giudizio, il principio che un'idea ne contiene un'altra che le viene aggiunta, non pu sembrare plausibile che per questo semi realismo, che d ai significati dei termini generali un'esistenza mentale distinta. Noi possiamo addurre ad esempio le proposizioni enunzianti le propriet dei numeri e delle figure geometriciie. Queste propriet non sono che delle relazioni (d'eguaglianza, d'ineguagUanza, ecc.) fra oggetti distinti;, ma il concettualista potr riguardarle come delle determinazioni intrinseche astratte delle figure e dei numeri in se stessi. Sia la proposizione: Due pi due fanno quattro. Se si comprende bene che essa non pu volgere che su dei fatti concreti, si vede subito che non afferma che ima relazione tra gruppi distinti di oggetti, i quali sono numericamente eguali, ma distribuiti differentemente nello spazio o nel tempo. Ma se si ammette che qaatti'o designa un concetto astratto, siccome questo concetto  necessariamente applicabile a due pi due, si vedr nella proposizione l'attribuzione a due pi due d'una propriet astratta che loro inerisce necessariamente, e per conseguenza, nel concetto quattro una nota inclusa necessariamente nel concetto due pi due. Cosi pure perla proposizione: Il triangolo rettilineo ha la somma degli angoU uguale a due retti. Essa non stabihsce che una relazione d'eguaglianza fra i tre angoli del triangolo e due angoli retti; ma la teoria concettualista la riguarder invece come attribuente al triangolo, considerato per se stesso e indipendentemente da qualsiasi relazione, una detmasmm^sim terminazione astratta acl esso inerente, e cosi la proposizione sembrer analitica. Non vi ha in ogni caso che a tradurre una proposizione nelle rappresentazioni reali che essa significa, e la dottrina analitica non potr pi fare illusione. Si sa che una delle proposizioni a cui di preferenza questa dottrina viene espressamente applicata,  quella enunciante il principio di causalit. Ora  ci che non pu sembrare possibile,. che smch questo principio si formula e si stabilisce servendosi di termini astratti. Allora il partigiano della dottrina analitica dir che nella proposizione: ogni effetto  prodotto da una causa ,  evidente che il concetto che la da attributo, cio di prodotto da una causa,  dato implicitamente nel concetto che fa da soggetto, cio in quello di effetto ; ovvero, dopo che gli si  fatto comprendere che la difficolt sta appunto nello spiegare perch noi riguardiamo tutto ci che comincia ad esistere come un effetto, forzer il senso delle parole, e si giover degli equivoci, a cui si prestano tutti i termini e specialmente gli astratti, per dimostrare che il concetto di effetto  o prodotto da una causa   contenito in qualche altro concetto o in alcuni altri concetti, che sono alla loro volta contenuti in quello di ci che comincia ad esistere . Ma svolgiamo il contenuto reale della proposizione; Uno specimen di queste pretese dimostrazioni del principio di causalit pu vedersi in SERBATI, Nuoco Saggio suW origine delle idee, la dimostrazione  presentata sotto la forma appropriata alla dottrina analitica, cio mostrando che il concetto di cominciare ad esistere  racchiude un altro concetto, e questo un altro ancora, il quale infine racchiude quello di avere una causa . Naturalmente ogni altra dimostrazione di questa o qualsiasi altra proposizione a priori o pretesa tale, fatta da un partigiano della dottrina analitica, che non riveste questa forma (come quella, pure del principio di causalit, che si trova in GALLUPI Saggio Jtlos. sulla rrit. della conosc.  o dovrebbe essere suscettibile di rivestirla. 'fa ' A*' i traduciamola in termini che indichino chiaramente le rappresentazioni concrete di cui essa  Te.spressione sommamaria; si vedr immediatamente che  un puro non senso il dire che essa unisce delle idee, di cui Tuna  contenuta neiraltra. La proposizione significa che un fenomeno  costantemente preceduto da un altro fenomeno; che la natura dei due fenomeni che costituiscono questa sequenza, non  arbitraria, ma che un fenomeno della classe a  sempre preceduto da un fenomeno della classe a^ o di una di un certo numero determinato di classi: a\ a^^ ecc.; il fenomeno della classe b da un fenomeno della classe b^ o di una di un certo altro numero determinato di classi, ecc.; che cosi  stato sempre in tutti i casi deiresperienza passata, 0 almeno in tutti quelli che abbiamo potuto conoscere; che per conseguenza noi ci attendiamo che anche cosi sar per Tavvenire e siamo certi che  stato nei casi del passato che non abbiamo potuto conoscere; che anche quando non si sa quale sia il fenomeno da cui un fenomeno dato  stato o sar preceduto, noi siamo sicuri almeno clic esso  stato o sar tale, che la sequenza tra i due fenomeni sia conforme alla sequenza tipica, o ad una delle sequenze tipiche, di cui Faltro fenomeno suole essere il termine conseguente. Non vi lia altro in tutto ci che delle rappresentazioni di sequenze di fenomeni e di somiglianze tra queste sequenze. Come dunque Tidea deireffetto pu contenere Tidea che esso  preceduto da una causa? la rappresentazione del fenomeno a contiene forse la rappresentazione del fenomeno a^ o di un altro fenomeno qualsiasi come suo antecedente? e quelle inoltre delle altre sequenze simili a cui questa sequenza particolare si conforma, e delle somiglianze fra tutte queste sequenze? quale analisi potrebbe trovare nelFidea del primo fenomeno le idee di tutti questi altri fenomeni con quelle delle loro relazioni? Tutte le nostre proposizioni non esprimono che dei raj>porti tra fenomeni, e la rappresentazione d'un fenomeno non contiene mai, n esplicitamente n implicitamente, la rappresentazione delPaltro fenomeno o degli altri fenomeni con cui esso  messo in rapporto, n quella del rapporto stesso o dei rapporti che vengono stabiliti tra questi fenomeni. Nel caso stesso in cui le cose espresse dai termini che si trovano in una proposizione, sono contenute Tuna nell'altra, nemmeno allora la relazione fra le rappresentazioni concrete che co> stituiscono il senso reale della proposizione,  veramente quella di contenente e contenuto. Quando diciamo: Questa casa ha il tetto, il giudizio non mette in rapporto la rappresentazione di un tutto e quella di una parte, non afferma che la seconda si contiene nella prima. Questa proposizione, evidentemente, non  analitica, ma sintetica: essa esprime un giudizio di coesistenza, il quale afferma che una parte, cio il tetto, coesiste con le altre parti, in quei rapporti di posizione reciproca che noi sogliamo osservare nelle case. In verit la proposiziono potrel)])(; onclic avere un altro senso, e per >orti particolari di somiglianza o di diltoronzo, vi ha come un ]>roscn ti monto del vero nella dottrina che tutti.' lo verit necessario sono analitiche. Noi abbiamo visto in elTotli cIk gli esempi tipici del liiudizio analitico, nel senso Kantiano, sono anch'essi dei giudizi comparativi, cio sulla somiglianza o la dilferenza. torto del (ialluppi e degli altri sostenitori della dottrina analitica  oltiv^ di non aver tracciato esattamente la linea  come soggetto e *:B'> come predicato, ovvero A e B come soggetti entrambi, e come predicato semplicemente :)^. Ma la rappresentazione di A e B* non contiene quella di :, e tanto meno la rappresentazione di (tA quella di :B'>; anche in ques^ipotesi, quindi, la dottrina analitica  inapplicabile. Limix)ssibiht di questa dottrina risulta duufpie chiaramente da una veduta corretta sulla natura delle idee e sul significato reale delle proposizioni. It). Come abbiamo mostrato nel paragi*al'o precedente, la dottrina analitica, che essa si applichi al giudizio o al ragionamentc ,  necessariamente legata alla dottrina dei concetti:  su di questa che si appoggia, e con essa deve cadere. Noi avremmo perci ragione di sorprenderci come uno dei pi geniali pensatori contem Ci che al)l)iaino dettu e ci rcsUi a dire nel presente caiitolo sulla dottrina analitica dei iriudizi a priori, deve essere completato per ci che dicemmo nel capitolo i su quella dei iriudizi analitici in ^^enerale. Sono specialmente applicabili anche alla prima dottrina le osservazioni fatte nei. 12 e li. Per rapplicazione della dotti'ina analitica al ragionamento, noi intendiamo, non ci che nella nota al J5\ 6. abbiamo chiamato la (fottrina euialitica del rafjionaiucfito, ma la dottrina pi irenerale che, in un ragionamento, la conseguenza  contenuta nelle premesse, e cie questo, quindi,  un'analisi: ci che necessariamente devono ammettere tuiti (luelli die credono che il sillogismo sia uninferenza re(de. r. **^\ I 'iS poranei, il Taine, rigetti della maniera pi categorica le idee astratte, e ammetta al tempo stesso in tutto il suo rigore la dottrina di Condillac che il principio d'identit e di contraddizione  il gran principio da cui derivano e devono farsi derivare tutte le conoscenze umane; che le verit formano una catena continua in cui non si passa dalFuna all'altra che in forza dell'identit; che una legge scientifica  una proposizione analitica, la quale accoppia due dati di cui il secondo  contenuto nel primo. Ma la sorpresa cessa, quando si riflette cJie, quantunque il Taine rigetti le idee astratte, egli ammette invece gli esseri astratti: essa non sparisce cosi sovra un punto che per ricomparire pi forte sopra di un altro. Per una singolarit senza esempio nella storia della quistione degli universali, il Taine ammette delle entit generali, ma non riconosce che delle idee particolari. Ci che noi chiamiamo un'idea generale, una vista d'insieme, non , dice il Taine, che un nome; non il semplice suono che vibra nell'aria e scuote il nostro orecchio, o l'insieme delle lettere che anneriscono la carta e colpiscono i nostri occhi, nemmeno queste lettere percepite mentalmente, o questo suono mentalmente pronunziato, ma questo suono o queste lettere dotate, quando noi le percepiamo o le immaginiamo;, d'una propriet doppia, la propriet di svegliare in noi le immagini degT individui che appartengono a una certa classe, e di questi individui solamente, e la propriet di rinascere tutte le volte che un individuo di questa classe e solamente quando un individuo di questa classe si presenta alla nostra memoria o alla nostra esperienza. Condillac era lungi di avere una dottrina perfettamente coerente sul soggetto delle idee astratte. Egli dice p. e. nella Lingua dei aalcoli 1. 1. e. 4. che le idee astratte non sono che dei nomi generali: ma che si legga, p. e., il cap. 8. (XdWArte di pensare; si vedr che egli suppone che lo spirito abbia il potere di fare delle astrazioni. l>IWl'*tl'IWJ!g {Llntellhjenza.L V\:i5), (t Un nome che si comprende  dun(iue un nome legato a tutti gii individui che noi passiamo percepire o innnaginare d' una certa classe e solamente agli individui di (juesta classe. A (juesto titolo esso corrisponde alla qualit comune e distintiva che costituisce la classe e clie la separa dalle altre, e corrispode solamente a questa (juaUt; tutte le volte che questa  presente, (juello  presente; tutte le volte che questa  assente, quello  assente; quello  svegliato da (juesta e non  svegliato che da essa. Di (juesta maniera esso  il suo rappresentante mentale, e si trova il sostituto d'una che ci  interdetta. Esso ci tiene luogo di questa esperienza, fa il suo ufficio, le equivale Artificio aminiraliile e spontaneo della nostra natura ! noi non r)Ossiamo percei)ire n mantenere isolate nel nostro spirito le (jualit generali, sorta di filoni preziosi che costituiscono Tessenza e fanno la classificazione delle cose, e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza bruta, j)er comprendere r ordine e la struttura interiore del mondo, bisogna che noi le tiiamo dalla loro ganga, e che le concepiamo a parte. Non bisogna credere che quando il Taine parla delle qualit generali come di altrettante realt distinte, egli non faccia che delle semplici metafore: no, vi hanno etfettivamente per lui delle cose generali, ed esse sono loggetto della conoscenza generale. Vi hanno delle cose generali , cio delle cose comuni a molti casi o individui; in altri termini vi Jianno dei caratteri comuni, di cui la presenza moltiplicata e ri])etuta lega fra loro i diversi individui della classe ; e questi caratteri sono la i^orzione uniforme e fssa dellesistenza (Uspersa e successiva  (t. 2 p. 230). Non siamo noi che li creiamo per la comodit del nostro pensiero ; non sono dei semplici mezzi di classare, degli strumenti di nmemotecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi, e spesso ben al di l della corta portata dei nostri sensi e delle nostre congetture ; ma ancora essi sono efficaci. Ciascuno di loro y per se stesso e per s solo, ne trascina con s un altro che  il suo compagno, il suo antecedente o il suo conseguente, e fa con esso una coppia che si chiama una legge  (pag. 237). Ci che noi chiamiamo una legge generale, non  dunque per Taine che un accoppiamento di questi caratteri generali: luno di questi caratteri ha per se stesso la propriet di essere legato alFaltro ; basta che esso esista, perch Taltro sia il suo compagno >. Dacch esso  dato, alcun'altra condizione non  richiesta ; le circostanze possono essere qualunque, ci non importa. Che esso sia dato in tale o tale individuo, con tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal luogo o momento, ci  indifferente ; la propriet che esso ha non dipende n dalle circostanze n dalPindividuo n dal gruppo circostante degli altri caratteri, n dal luogo, n dal momento; preso a parte e in se stesso, isolato perlastrazione, estratto dai diversi ambienti in cui si trova, esso possiede questa propriet. L] perci che in qualunque ambiente venga trasportato, esso la conserva con s. Se la ha sempre e da per tutto,  perch la ha da s stesso e per s solo; se la ha senza eccezione,  perch la ha senza condizione. Se tutti i triangoli racchiudono una somma d'angoli uguale a due retti,  perch il trlam/olo astratto ha la propriet di racchiudere una somma danwli uguale a due retti. Se tutti i pezzi di ferro sottoposti airumidit si arrugginiscono,  perch il ferro, preso a parte, in se stesso,. e sottomesso airumidit, presa a parte, in se stessa, possiede la propriet di arrugginirsi. Se la legge  universale,  perch essa  astratta. Niente di sorprendente in questa costituzione delle cose. Non  pi strano di trovare dei compagni, dei precursori e dei successori a un carattere generale, che di trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Senza dubbio nello sparpagliamento infinito e il flusso irrimediabile dell'essere, questa sorta di caratteri sono i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi ; ma essi non esistono in fuori degF individui e degli avvenimenti, come voleva Platone , n in un mondo altro che il nostro ; perch essi sono i caratteri degli avvenimenti e degFindividui che compongono il nostro mondo. Come gFindividui e gli avvenimenti, essi sono delle forme deir esistenza, e non difteriscono dagF individui e dagli avvenimenti che perch sono delle forme pi stabilire pi diffuse. A questo titolo noi dobbiamo attenderci a trovar loro pure dei contemporanei, dei precedenti, dei conseguenti, delle particolarit, delle propriet personali, e per riuscirvi, non si ha che ad osservarli per se stessi e a parte  (t. 2^ p. 300) . Tuttavia noi non abbiamo il potere di percepire o rappresentarci (Y una maniera qualunque queste cose o caratteri generaU. Un^idea generale e astratta  un nome, niente altro che un nome, il nome sirjnjeativo e compreso d'una serie di l'atti simili 0 d una classe d'individui simili  (t. 2^ 241). Ci che noi abbiamo in noi stessi, quando pensiamo le qualit e carattari generali delle cose, sono dei segni, e niente altro che dei segni, io voglio dire certe immagini o risurrezioni di sensazioni visuali o acustiche, affatto simili alle altre immagini, salvo in ci che esse sono corrispondenti ai caratteri e (jualit generali delle cose, e Qui il Taine coiiii'ivnde IMatone alla maniera tradizionale, come se le Idee platoniclie fossero in im alfro mondo. Ma in realt le cose o caratteri i^enerali del Taine non dilVeriscono dalle Idee di Platone: s le une che le altre non sono che gli elementi astratti e generali del mondo sensibile (V. il Saggio seguente, parte 1., il cap. 7. e il Supplemento sulla immanenza delle Idee platoniche). Per (jiiesto realismo del Taine vedi i luoghi di altre opero dello stesso autore, che noi citeremo nel 2. Saggio rimpiazzano la percezione assente o impossibile di questi caratteri e quaUt. Il nome equivale alla vista, esperienza o rappresentazione sensibile che non abbiamo e che non possiamo avere del carattere astratto presente in tutti gF individui simih. Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio. Cosi noi pensiamo i caratteri astratti delle cose mediante i nomi astratti che sono le nostre idee astratte, e la formazione delle nostre idee non  che la formazione dei nomi, che sono dei sostituti. Non vi ha dunque, secondo il Taine, nel nostro pensiero altro che dei nomi, quando noi pensiamo le cose generali o i caratteri generali ; ed  un^ illusione di credere che vi siano delle idee generali e astratte corrispondenti ai nomi generali e astratti. Noi abbiamo bisogno, per uscire dalla grossa esperienza bruta, di concepire a parte i caratteri generali o astratti delle cose: ma non vi riusciamo che sostituendo loro dei nomi, perch la loro rappresentazione  impossibile, tutte le nostre rappresentazioni non essendo che immagini di cose particolari. Ma come il nome pu essere un mezzo di concepire a parte una cosa, che noi non possiamo affatto rappresentarci a parte? Come il nome pu essere per noi il sostituto di una cosa, di cui non abbiamo e non possiamo avere Fidea? Se i nomi rappresentano le cose,  perch vi ha un legame fra i nomi e le idee delle cose per cui si suggeriscono reciprocamente, legame che, per dire le parole dello stesso Taine (t. 2^ p. 245), non  che un' associazione d' un certo genere . Come dunque il nome potrebbe rappresentare una cosa, con la cui idea esso non  associato, poich, per ipotesi, quesf idea ci manca? Noi possiamo, nei nostri ragionamenti, non avere per qualche tempo presenti nello spirito che dei nomi o dei segni, le idee delle cose stesse essendo per tutto questo tempo assenti dal nostro pensiero ; nondimeno noi applichiamo alle cose stesse il risultato del nostro ragionamento, operando cosi sui segni come se operassimo sulle idee stesse delle cose. In questo caso pu dirsi che il nome  per noi il sostituto dell'idea o della cosa: ma se noi non avessimo il potere di sostituire a vicenda i nomi alle idee e le idee ai nomi, i nomi non sarebbero il sostituto niente, essi non sarebbero che dei puri suoni. Ma il nome, dir il Taine,  un sostituto, precisamente perch ci manca 1idea ; perch adempie nella nostra mente lo stesso utticio che ademi)irebbe T idea, se essa vi jxDtesse essere ; i)ercli infine ci() che la cosa generale  nella realt, il nome generale  nel nostro pensiero.  per questa corrispondenza fra la cosa generale o astratta e il nome generalt o astratto, che il nome  il sostituto della cosa ; ed  cosi che noi abbiamo delle conoscenze generali. Non vi ila altro nel nostro spirito che delle proposizioni generali ; ma per questa sostituzione o corrispondenza dei nomi alle cose, una proposizione generale  una conoscenza generale, cio una conoscenza delle cose generali. Di questa maniei*a noi veniamo a conoscere le cose generali, quantunque non ne abbiamo Tidea. Ma come jjossiamo noi aftrmare che delle cose generali corrispondono ai nomi generali, se non abbiamo affatto ridea di (jueste cose? Si pu affermare una cosa senza pensarla, o si pu pensarla senz'averne Tidea? La contraddizione  talmente evidente, che noi non vi insisteremo di pi, perch la discussione non potrebbe renderla pi chiara. S 12. La stessa contraddizione naturalmente si riproduce nella teorica del giudizio e del ragionamento. Lo scopo del ragionamento, , secondo il Taine, di dare la ra[lione esplicativa, di trovare ci che egli chiama Vintermediario esplicativo. Una proposizione esprimendo l'unione di due dati, un soggetto e un attributo, vi ha un perch, una ragione esplicativa, dell'unione di questi due dati; ^ questa ragione o questo intermediario esplicativo  un terzo dato, i)er l'intromissione del quale i due dati della proposizione si trovano legati. Se Pietro  mortale,  perch egli  uomo, e ogni uomo  mortale ; se queste due rette tracciate su questa tabella e perpendicolari a una terza sono parallele,  perch esse sono perpendicolari a una terza, e tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Uomo, nel primo caso, e rette peiyendicolari a una terza, nel secondo, sono gl'intermediari esi)licativi . Nel caso degli oggetti individuali sottomessi a delle leggi conosciute, l' intermediario che lega ciascun oggetto alla propriet enunciata,  un carattere incluso in esso, pi astratto e pi generale di esso, comune ad esso e ad altri analoghi, e il quale, trascinando per la sua presenza la propriet cnunziata, la porta con s in ciascuno degl' individui a cui ^q\ appartiene. Se invece di spiegare un fatto particolare, si tratta di spiegare una legge generale, o, come dice il Taine, se si tratta, non pi (U legare una propriet a un oggetto individuale, ma di legare una propriet a una cosa generale, la natura e il posto dell' intermediario esi^icativo non  differente. Il primo dato della legge contiene l'intermediario, che contiene il secondo. A un altro punto di vista il primo dato  pi complesso dell' intermediario, che  pi complesso del secondo. A un altro punto di vista ancora, il secondo dato  pi astratto e pi generale dell'intermediario, che  esso stesso pi astratto e pi generale del primo. Ci posto, associamo i tre dati a due a due: noi avremo tre copf)ie di dati o leggi. Ogni pianeta  una massa; ora ogni massa tende ad avvicinarsi alla massa centrale con cui  in rapporto; dunque ogni pianeta tende ad avvicinarsi alla massa centrale con cui  in rapporto, cio al sole. Di queste tre coppie, la prima associa il primo dato e V intermediario ; la sesonda associa l'intermediario e il secondo dato; la terza associa il primo dato e il secondo, ed  la legge che bisognava dimostrare. Se pensiamo le tre coppie in quest'ordine, noi abbiamo tre proposizioni che loro corrispondono, e che si compongono di tre idee, associate a due a due, come le tre leggi si compongono di tre dati associati a due a due. Di queste tre idee, la prima, pi comprensiva della seconda, contiene la seconda, che, pi comprensiva della terza, contiene la terza, e lo spirito passa dalla pi comprensiva alla meno comprensiva per Tintromissione di quella di cui la comprensione  inedia. Cosi il ragionamento  un'analisi; e la dimostrazione di un teorema non  che un analisi, che decompone il primo dato (il triangolo, la sfera, l'ellissi, ecc.), per tirarne Tintermediario. L'intermediario esplicativo e dimostrativo si trova cosi, analizzando i termini della definizione; e Yanalisi in cui consiste la dimostrazione di un teorema,  l'analisi dei termini della definizione. La definizione contiene il primo intermediario, che contiene il secondo, che contiene il terzo, che contiene il quarto, ecc., che contiene la propriet enunziata.  come una serie di cassettini rinchiusi l'uno dentro l'altro; il pi largo  la definizione prima, e il pi piccolo  Y ultimo attributo annoilo elio si rinvo dimostrare); ciascun cassettino pi ^ruiuiu nu rcicjuiLiiiti uno pi piccolo, e noi non possiamo toccarne uno che dopo aver aperto 1' uno dopo F altro tutti quelU che lo racchiudono. Gli assiomi sono anch' essi dei teoremi, ma che noi ci dispensiamo di provare, sia percli la dimostrazione ne  molto facile, sia perch ne  molto difficile. Ma essi sono delle proposizioni analitiche, in cui il soggetto contiene l'attributo (t. 2^ p. 340); la loro dimostrazione, come quella degU altri teoremi,  un'anahsi, o una decomposizione dei loro dati; come gli altri teoremi, essi si dimostrano per la definizione prehminare dei termini. Dimostrare una proposizione assiomatica  mettere in luce l'identit latente dei suoi dati (t. 2 p. 386); tutti gli assiomi non sono che dei casi o delle applicazioni del principio d'identit.  da questa sorgente unica, che si espande in una dozzina di rivi, che derivano le innumerevoli correnti e tutti i fiumi della scienza. Se il contrario degh assiomi e delle loro conseguenze non pu essere creduto e nemmeno concepito,  perch esso  contraddittorio;  in questo senso che gli assiomi e le loro conseguenze sono delle verit necessarie (t. 2^* p. 38(i). Se le verit dette necessarie avessero la stessa origine che le verit d'esperienza, non vi sarebbe, almeno per noi, tra i fatti, alcun legame necessario ed universale. Noi saremmo capaci solamente di conoscenze relative e limitate; ma saremmo incapaci di conoscenze assolute e senza limiti. Per gli assiomi e le loro conseguenze, noi teniamo dei dati, che non solo s'accompagnano l'un l'altro, ma di cui l'uno racchiude l'altro. Se, come dice Mill, essi non facessero cli^ accompagnarsi, noi saremo obbligati di concludere che forse non si accompagnano sempre; noi non vedremmo la necessit interiore della loro congiunzione; noi non la porremmo che in fatto; noi diremmo che, i due dati essendo per loro natura isolati, possono incontrarsi delle circostanze che li separino; noi non aferineremmo la verit degli assiomi e delle loro conseguenze che riguardo al nostro mondo e al nostro spirito. Aia poich al contrario i due dati sono tali che il primo racchiude il secondo, noi stabiliamo per ci stesso la necessit della loro congiunzione: da per tutto ove sar il primo esso porter il secondo, poich il secondo  una parte di esso, e non pu separarsi da se stesso. j. Il cardine di tutta questa dottrina del Taine  la teoria della dimostrazione: il Taine adotta la forma particolare della dottrina concettualista del ragionamento, secondo la quale questa operazione del nostro spirito consiste a vedere che un'idea  contenuta in un'altra, per l'intromissione d'una terza idea media, la quale contiene la prima ed  contenuta nella seconda. Tralasciamo Tinsormontabile difficolt inerente a questa dottrina per se stessa, come possa farsi che una verit la quale consiste in una nozione che fa parte di un'altra, non sia evidente per se stessa, 6 vi sia bisogno di comparare queste nozioni con una terza, di cui si veda immediatamente che  una parte delluna e che laltra  una parte di essa. A questa inconcepibilit il Taine ne aggiunge un'altra che gli  propria: egli ammette la dottrina cori' ceitaalista, ma non ammette i concetti. Di queste tre idee, egli dice, la prima, pi comprensiva della seconda, contiene la seconda, che pi coni presi va della terza, contiene la terza, e lo spirito passa dalla i)i comprensiva alla meno comprensiva per Fintromissione (U (juella la cui comprensione  media. Ora che sono (jueste tre idee^ esse sono dei soggetti e dei predicati. Un soggetto pu essere un'idea concreta, ma un predicato  necessariamente una idea astratta. Di queste tre idee dunque, o due o tutte e tre sono delle idee astratte. Ma non vi lianno idee astratte, dice il Taine, non vi hanno che dei nomi. Come intenderemo (hmque questa identit parziale tra le idee, (questa contenenza delFuna nell'altra? E evidente che questa teorica del ragionamento suppone che il giudizio metta in rapporto due concetti, un soggetto e un predicato: se il giudizio non mette in rapporto dei concetti, ma delle rappresentazioni particolari e concrete, non potre]3be affatto dirsi che queste rappresentazioni sono luna parte dell'altra. Se il giudizio afferma le sequenze, le coesistenze, le somigianze tra i fenomeni, questi fenomeni che il giudizio mette in rapporto, non so no certamente l'uno parte dell'altro. Se dunque noi pensiamo per rappresentazioni concrete e particolari, il soggetto e il predicato sono gli elementi della proposizione, ma non sono gli elementi del giudizio. E delle idee contenute nel giudizio l'una non pu essere una parte dell'altra; quindi nemmeno le idee contenute in un ragionamento si comprendono l'una nell'altra, e lo spirito non passa, nel ragionamento, dalla pi comprensiva alla meno comprenper l'intromissione della media. Come dunque intenderemo il Taine, quando dice che delle tre idee, di cui consta il ragionamento, la prima contiene la seconda, e la seconda la terza? che noi vediamo che la terza  contenuta nella prima, perch vediamo che (j[uesta terza  contenuta nella seconda, e questa seconda nella prima? Queste tre idee non sono che idee astratte, e le idee astratte non sono che nomi. Dunque il primo nome contiene il secondo, e questo il terzo i La voce Pietro  o Grice -- contiene la voce uomo, e questa la voce mortale?, Confesser forse Taine che  un'impropriet di dire che un'idea ne contiene un'altra, e questa una terza ; ma deve intendersi che questi rapporti di contenenza esistono, non fra le idee astratte, che noi non abbiamo, ma fra i dati astratti, a cui corrisponderebbero queste idee, se noi le avessimo. Nel ragionamento dunque noi non percepiamo successivamente l' identit parziale fra i termini o fra le idee ; non percepiamo che un termine astratto  contenuto in un altro termine astratto, o che un'idea astratta  contenuta in un'altra idea astratta: noi percepiamo l'identit parziale fra i dati astratti, cio fra le entit astratte ; percepiamo immediatamente che la prima entit contiene la seconda entit, e questa la terza, e di l abbiamo la percezione mediata che la terza  contenuta nella prima. Ma se queste entit sono assenti dal nostro pensiero, perch noi non possiamo niente rappresentarci di astratto, come intuire questa identit parziale fra di loro? come conoscere che r una  contenuta nell' altra? Se il ragionamento  fondato suU' identit, la forza del ragionamento sar la percezione dell' identit: ma noi non possiamo percepire identit alcuna n altro rapporto qualsiasi fra coso di cui non abbiamo percezione n rappresentazione alcuna. Per iji a dir tutto in una parola, se questi dati astratti, cose generali 0 caratteri o entit, non sono gli oggetti del nostro pensiero, tanto meno possono essere gli oggetti del nostro rarfonamento . (l) Le dimostrazioni che d ii Taine dei primi principii sono fondate su questa realizzazione delie astrazioni, ed esse non potrebbero conservare alcuna pretesa ad essere delle dimostrazioni, se si ammette che noi non abbiamo idea di queste astrazioni. Tutte queste dimostrazioni sono foggiate sullo stesso tipo: noi ne daremo qualche esempio. Il Taine vuol dimostrare l'assioma: Se a quantit eguali si aggiungono (luantit eguali, le somme sono eguali.. Egli ]>remette una detnizione dell' eguaglianza, secondo la quale eguaglianza numerica significa la presenza (la Tuapooaia platonica) dello stesso numero, mentre ineguaglianza significa la presenza di due numeri differenti. Siano dunque due quantit eguali a cui si aggiungono delle quantit eguali. Secondo l'analisi precedente, ci significa che la prima collezione contiene un certa numero d'individui o d'unit, che le se ne aggiunge un certo numero, che la seconda contiene lo stesso numero d'individui o d'unit che la prima, che le se ne aggiunge lo stesso numero che alla prima, che nei due casi lo stesso numero  aggiunto allo stesso numero, e che, pertanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero aggiunto allo stesso numero, cio a dire lo stesso numero totale d'individui o d'unit, donde segue, secondo la definizione, che le due somme o grandezze finali sono delle grandezze eguali. Se in questo ragionamento lo stesso numero vuol dire due numeri eguali, la dimostrazione pretesa non sarebbe che una semplice petizione di principio: la forza probante della dimostrazione suppone dunque che lo stesso numero sia un numero astratto o ideale, uno in se stesso, ma presente in tutti i gruppi sensibili diversi che si dicono avere lo stesso numero. Ma se si ammette che noi non possiamo concepire quest'astrazione realizzata, la dimostrazione  impossibile; la sua nullit  provata dalle condizioni stesse del nostro pensiero. Veniamo ora alla dimostrazione dell'assioma, del quale Taine fa tanto conto, che ogni verit o proposizione ha la sua ragione esplcatlca. Per ragione esplicativa s'intende uno o pi caratteri del soggetto, inclusi in esso come un frammento in un tutto, pi astratti e pi generali di esso, e che essendo legati essi stessi all' attributo, legano 1' attributo al soggetto. Ci viene a dire che l'attributo non  legato al soggetto stesso tutto intero, ma ad uno 1 1 I 14^. Taine  arrivato a questo risultato, che un sistema di conoscenze reali pu essere fondato sul semplice principio d' identit e di contraddizione, non tanto per la via psicologica, come Condillac e GALLUPPI, quanto per la "^o pi caratteri astratti e generali del soggetto. Il princpio dell'induzione  secondo Taine un corollario del principio della ragione esplicativa: il principio dell'induzione sarebbe che un carattere generale indica sempre la presenza di un altro carattere generale a cui esso  legato. Questo principio si dimostra mediante il principio della ragione esplicativa, cosi: Un carattere generale  un attributo, lo stesso in molti soggetti distinti. Ora secondo l'assioma (della ragione esplicativa) esso appartiene non direttamente a tale o tal altro soggetto distinto, ma indirettamente a tutti per l'intermediario di una porzione che loro  comune, e che a questo titolo  un carattere generale: dimodoch esso suppone la i)resenza di un altro carattere generale a cui appartiene; cos la sua presenza basta per garantirci la presenza di quest'altro. Di i)i ({u*^st'altro a cui appartiene  generale, in altri termini esso gli appartiene in non importa qual soggetto, o ambiente, b luogo, o momento; in altri termini ancora, la presenza di quest'altro bosta per trascinare e pertanto per garantirci la sua presenza . Se dunque noi possiamo generalizzare la nostra esperienza, se supponiamo sempre con ragione che vi ha un ordine uniforme nella natura,  perch sappiamo che un carattere generale  sempre legato ad un altro carattere generale, e noi sappiamo questo in virt del principio della ragione esplicativa. Ora che conosciamo l'importanza di questo principio, vediamo la sua dimostrazione. Un attributo  comune a pii soggetti distinti, significa, dice il Taine, che esso  lo stesso in tutti questi soggetti distinti. Ma un soggetto distinto  una somma o riunione di caratteri che non si ritrovano tutti e rigorosamente gli stessi in alcun altro, per quanto simile si immagini. Questo parallelogrammo possiede almeno un carattere che gU  proprio, e lo distingue dagli altri parallelogrammi, il suo posto nello spazio. Se il soggetto , non particolare, ma generale, il pa^ rallelogrammo in s, esso avr pure qualche caretterc proprio, che lo distinguer dalle altre ligure simili. Se ora un attributo  comune ad un soggetto e ad altri soggetti distinti, cio se  lo stesso in soggetti die non sono gli stessi, vi hanno tre ipotesi possibili, e tre ipotesi solamente. O l'attributo appartiene direttamente alla somma dei carattei'i riuniti (di uno dei soggetti); o gli appartiene (al soggetto) indirettamente, sia appartenendo a questa porzione ontologica. Condillac e Galluppi, e con loro la maggior parte dei sostenitori della dottrina analitica, si tanno an (juesta domanda: in che consiste Yevidenza di ra(jlone Zea ci rispondono: essa  fondata sul rapix)rto d'identit fra le idee. Ma il problema per Taine invece  anzitutto ontologico o metafisico: in che consiste, egli domanda, il modo essenziale di produzione delle cose? questo legame necessario, (luesf incatenamento reale delle cause e degli effetti, che Tesperienza non pu mostrarci, non mostrandoci invece che delle semplici uniformit di della somma clie si compone lei oaratteri assenti nell'altro sojxf^^etto, sia appartenendo all'altra porzione. Ora le due i)rime ipotesi sono contraddittorie Infatti, danna parte, l'attributo non pu appartenere alla porzione della somma clie si compone dei caratteri assenti nel secondo soggetto; ioicli allora non apparterrebbe af secondo soggetto, perdio questi caratteri vi mancano; ora, per detinizione, gli appartiene. D'altra parte l'attributo non pu ap])artenere alla somma dei caratteri riuniti; perch allora non appartcrrebl^e al secondo soggetto, poicli questa riunione vi manca; ora. perdelnizione, gli appattiene. Queste due sui>posizioni essendo escluse, non resta ciie la terza. Donde segue che l'attributo a])partiene a (luesta porzione del nostro soggetto che si compone di caratteri presenti in esso e nel secondo soggetto, cio a dire comuni all'uno e all'altro, cio a dire infine generali. Questa  la dimostrazione. Ora perch l'attributo non potrey)be appartenere una volta alla somma dei caratteri riuniti del primo soggetto, e la seconda volta alla somma dei caratteri riuniti  del capitolo precedente nella sua forma generale non  che la tendenza, innata al nostro spirito, ad uni versaUzzare della maniera pi assoluta 1 dati della nostra esperienza pi famihare; e nella sua applicazione psicologica cio quale sofisma a priori della psicologia intuizionista-ima formularsi cosi I legami attuali fra le nostre idee, o fra le nostre sensazioni e le nostre idee, di cui l'origine empirica non  evidente, perch sono dovuti a un'inferenza automatica o incosciente cio le cui premesse sono assenti dalla coscienza e ci sembrano portare in se stessi la prova della loro validit obbietttiva, noi siamo portati a eredere che lianno sempre esistito, e non possono non esistere, nel nostro spirito e in quello di tutti gli uomini La dottrina analitica  dunque anzitutto uno sviluppo ulteriore di questo sofisma a priori. La psicologia razionalista comincia per supporre che vi Iianno delle necessita primordiali del pensiero, senza cercare di darsi ra^ gione di queste necessit. Ma il diletto assoluto di valore scientifico di (luesta ipotesi non le permette di mantenersi lungamente senza subire una trasformazione  la trasformazione  che si rende ragione di queste necessit del pensiero, riducendole a una necessit logica ; e siccome non si conosce altra necessit logica (derivante dai rapporti stessi delle idee e indipendente dall'esperienza) che quella fondata sui principii d'identit e di contraddizione,  per questi principii che si cercano di spiegare le pretese necessit del pensiero delia psicologia razionaliperche nessuno riguarderebbe i fatti di cui si tratta come delle operaziom della ragione. Per indicare dunque nella sua generalit la teoria psicologica che, rigettando la spiegazione empirista d come originarie allo spirito delle conoscenze o pretese conoscenze in realta avventizie ed acquisite, il termine razionalista non ci sembra adatto: noi impiegheremo perci, prendendolo dai filosofi inglesi, quello di intuizionista. sta (l. La dottrina analitica, in quanto concerne gli assiomi, si basa dunque sul rigetto di questo principio londamcntale della teoria deir esperienza, che ogn^inlerenza  dal particolare al particolare, in virt deir analogia tra il noto e rignoto. Ma se si comprende che (luesto i)rincipio  applicabile anche agli assiomi ; se si comi)rende che di antecedenti logici della conclusione A = C non som/gi A=:B e H=:C per se stessi, ma sono le osservazioni dcir esperienza passata, che ci hanno mostrato Teo-uaulianza Ira due grandezze legata con Teguaglianza fra ciasemia di ([ueste grandezze e una terza grandezza; non sar pi ix)ssibile di ammettere che la conoscenza dell'assioma riposa sulla semplice percezione di \\n legame logico Ira le idee che costituiscono Y assioma, (i si dovr KoiNe si vedrn una coiitraddizioiiL in ci che noi no.irhianio a'^li assiomi -enorali sulle egun-lianze il carattei'e d necessit del pensiero mentre riconosciamo in essi (luello di verit strettamente ncrcosizioni enuncianti due modi diversi di formazione dello stesso numero. Il pensiero  lo stesso, egli dice, nelle due proposizioni, ma il modo della generazione del pensiero  differente nella prima e nella seconda. Ora ci  un'estensione della nostra conoscenza. La sostituzione di un'espressione ad un'altra equivalente o identica nel senso conduce perci secondo iui alla scoverta della verit; e il principio logico per cui ci  permesso di passare da ima proposizione alla sua equipollente, come dalla prima alla seconda delle due proposizioni citate, egli lo chiama un principio generale per trovare la verit ignota, un principio luminoso che guida lo spirito indagatore alla scoverta del vero. (Sar/r/io Jlos). Il fondamento e l'essenza della dottrina anaitca consiste nella confusione tra l'inferenza reale e l'inferenza puramente apparente o verbale. E infatti che cosa pu essere una verit assiomatica, per questa dottrina, se non un'inferenza immediata come quella da una proposizione ad un'altra equipollente? Questa confusione si vede anche, d'una maniera palpabile, nellpiamo, era pure un partiiiiano estremo del sillogismo, d la forma sillo.i^istica alle inferenze immediate: cosi egli dimostra le roncersionc delle proposizioni per mezzo di silloijismi di (Uii uno premessa  una i>roposizione identica nei termini (O.s^ni A  A) -ci die fa vedere, egli dice, rutiiit delle proposizioni identiche i>i pure (cio anche nei tennnii)-(V. N. S. MiirintcnrL urn. lil). ^. e. viaino una tendenza tutta opposta in alcuni filosofi contemporanei, cio a ridurre o assimilare certe inferenze apparenti a quelle inferenze reali che vengono ritenute delle necessit primordiali del pensiero. Quantunque queste due dottrine sono in una certa guisa contrarie, tuttavia esse hanno un fondamento comune:  fassimilazione del-" le interenze reali e delle inferenze apparenti; solo, in un caso le prime sono ricondotte alle seconde, nell'altro caso le seconde alle prime. Ora questa seconda dottrina non  meno della prima in contraddizione coi principii della teoria dell esperienza; perch essa pure tende a stabilire che vi siano delle inferente reali, che non sono fondate suUesperienza e sulfinduzione. Bench gli autori in cui troviamo questa dottrina non ammettano sempre questo risultato di essa, e alcuni lo rigettino anche esplicitamente esso non ne sarebbe meno, secondo noi, una conseguenza logica. Cosi, sia per (luesta ragione, sia per if rapporto di (luesta dottrina con la dottrina analitica, non sembrer inop[)ortuno di parlarne; noi crediamo anzi che sia un complemento naturale della discussione della dottrina analitica. Spencer  uno degli autori, in cui noi troviamo la tendenza di cui  quistione: e^li non riconosce nel sillogismo ( (piale lo considera la logica formale, cio prendendo la premessa maggiore per una proposizione strettamentc generale, e non, come vuole Spencer, per una pro[K)sizione indicante una uniformit dell'esperienza passata) il carattere d^inferenza reale ( v. Prineipii di psi-^ cokxjux); ma non ammette che il sillogismo sia la sola forma logica della deduzione, e questo carattere cFinferenza reale eh egli nega al sillogismo, lo riconosce nondimeno a deduzioni clf egli considera^estrasillogistiche. Ora con ci questo filosofo si mette necessariamente in contraddizione coi principii della dottrina delfesperienza, clfegli generalmente segue nella sua Psicologia. Non pu esservi, secondo questi principii, una deduzione che non sia fondata sopra un^induzione: ora se  cosi, se ogni deduzione suppone un'induzione, ogni deduzione non pu essere che un'inferenza apparente, e non reale, e di pi non vi ha alcun vero ragionamento che sia estra-sillogistico, in quanto ogni ragionamento valido deve essere capace di passare per due fasi, di cui la seconda  sempre un sillogismo, come la prima  sempre un'induzione. Ma invece secondo Spencer vi hanno delle inferenze reali e necessarie che egli sembra considerare come indipendenti dalFinduzione (e perci pure dal sillogismo); e vi hanno inoltre delle inferenze puramente apparenti clfegli considera come reali. 2P. Nel primo caso si tratta degli assiomi matematici: Spencer sembra considerarli come delle intuizioni della ragione, indipendenti dairesporienza. Egli definisce il ragionamento rintuizione di un'eguaglianza o ineguaglianza, somiglianza o differenza, di rapporti. L'inferenza che noi facciamo in questo ragionamento: La fermentazione della birra sviluppa dell'acido carbonico; dunque la fermentazione in questo tino di ])irra sviluppa dell'acido carbonico ,  un' assimilazione del rapporto tra i due fatti afermato nella conclusione ai rapporti simili tra i fatti antecedentemente conosciuti, rapporti che sono riassunti nella premessa generale. Cosi, quando nella dimostrazione di un teorema geometrico s'invoca una proposizione antecedentemente dimostrata, vi lia l' intuizione dell' e^uaglianza fra il rapporto attuale nel caso particolare su cui volge la dimostrazione, e il rapporto anteriormente dimostrato nella proposizione invocata. Sin qui la teorica di Spencer non differisce essenzialmente dalla dottrina dei logici moderni, quale si trova in Mill o in Bain. Ma quando tratta invece di applicare, nella dimostrazione, non una proposizione anteriormente dimostrata, ma un assioma f>ulle eguaglianze o sulle ineguaglianze, l'intuizione non  pi, secondo Spencci*, (juclla dell' eguaglianza o somiglianza Ira il rapiX)rto stabilito nel caso particolare su volge la diiiiostrazione, e i rapporti analoghi antecesicologia associazionista e con la pi-oposizione tronerale tanle voUe emessa dall' autore, che le verit necessarie sono anciiesse dei risaltati da!resi>erienza (v. Prncipi di jsicolooia). La teorica di Spencer sulle verit necessaire , come si sa, un'ipotesi che pretende di conciliare le due teorie rivali suir origine di queste verit, Vaprioiista o intuizionista oAa empii ista, annnettendo che le conoscenze che la prima suppone dovute a necessit-i'i primordiali del pensiero, sono delle inferenze latenti dovute all'accumulazione oriranica delle esperienze avitiche ( 282, 284), e nega che essa riposi sul ragionamento. Spencer neir assioma matematico indicato vede un caso speciale di una verit pi generale, la pi (v. J'iincipii (li psicoloiiia, e Saufii di morale, di scienz-a e d'estetica, v. 3. Obbiezioni ai Primi principii e Hisi)oste).  una forma della teoria empirista: ma siccome Spencer non si mantiene sempre fedele alla teoria, e ammette esplicitamente che vi hanno delle verit che non sono il risultato deiresperienza, sia individuale che ereditariatale  il pi*incii>io della pei-sistenza della forza coi suoi corollari (indisti'uttibilit della materia. leg}2:e della causalit, ecc. v. questo Sagji:io cap. 9. nota ultima al??. > -cos non pare impossibile che (|uesto filosofo si allontani anche in altri casi dai i)rincipii che. in venerale, etili anuncttc in comune con la llosofia deiresperienza, secondo i juali oirni assioma matematico dovreb])e essere i^cr lui un'inferenza latente dovuta alle esperienze ereditarie. Nella {(iov\ex\ i\(i\ ragionatnento (/aantitatiro, in cui l'autore avrebbe avuto tante occasioni di alludere a (juesfipotesi suIForgine degli assiomi, egli non lo fa mai. mentre al contrario vi allude in un altro caso, d'unimportanza insignificante, d" inferenza matematica, che non  per assiomatica (Il caso  questo: Se A  dMilOO pi piccolo che H, si ]u concludere immediatamente che la met di A  pi grande cie il terzo di B. K questa, secondo Spencer, una conclusione immediata, uif inferenza latente, la cui genesi si si>iega peiM'ipotesi dell'accumulazione ereditaria delle esperienze. Mi sembra strano, sia detto di passaggio, che lo Spencer alVermi di questa )roposizione matematica che non si pu citare ne un princi]io generale ne un'espei-ienza particolare che servano di i)rincipio a questa conclusione, (juando l;i ])roposizione  facilmente dimostrabile, e si possono (juindi citare  principii generali da cui deriva, che non sono se non gli assiomi generali sulle eguaglianze, su cui riposa tutta la matematica). Ma non solo lo Spencer non fa la minima idlusione a questa ipotesi, di pi egli emette delle asserzioni che sono inconciliahH con (lualsiasi forma erlanto se quej4,i casi fossero di natura da ]>oter essere formulati in sillogismo . E pi generale che si possa conoscere per il ragionamento a rapporti congiunti (cio in cui i rappoi^ti comparati, che vengono dati^ hanno un termine comune): egli formula quesfassioma generale di questa maniera: Le cose che o-i dice 11 rairionamento doirhigegncro clic fi\ il suo ponto a tubo Tche ecrli adduce in esempio nel. 277) non pu esseiv messo m sillogismo N nella sua esperienza n in (piella degli alln uomini, il nostro in-egnere non ha trovalo un sol caso che possa servire di base alla sua conclusione. Tuttavia egli arriva a questa conclusione per un atto mentale che si pu analizzare quantuniue sia complicato: egli riconosce in un caso particolare (piesta venta generale che dei rapporti che sono eguali ciascuno a dei rapponi che sono ineguali tra loro, sono essi stessi ineguali. Che questo principio sia una verit assiomatica, come crede Spencer, o sia unaproposizlone dimostrabile e n. non , dice Spencer, una scienza delle leggi del pensiero; queste leggi di correlazioni necessarie che formula la logica, sono delle necessit obbiettive, non delle necessit subbiettive. Vi ha una distinzione difficile a comprendere in ragione del suo carattere molto astratto, tra la scienza della logica e la spiegazione del processo del rar/ionamento ... Ecco questa distinzione in poche parole: La logica formula le leggi pi generali d'una correlazione tra esistenze considerate come obbiettive; la spiegazione del processo del ragionamento formula le leggi pii^i generali di correlazione tra le idee corrispondenti a queste esistenze. L'una studia nelle sue proposizioni certi legami affermati, i quali sono contenuti necessariamente in altri legami dati questi legami essendo considerati come esistenti nel non me, sotto una forma qualunque, e indipendentemente dalla forma sotto la quale noi li conosciamo. L'altra studia il processo nel me, che conosce questi legami necessari  ( 302). mostrare questo carattere obbiettivo dei rap})orti della logica, Spencer si appoggia Sjjecialmente sui siilo-gismi numericamente definiti di Morgan: egli sviluppa lungamente dei sillogismi che sono delle applicazioni di questa formula: Se la pi parte dei B sono C, e la pi l)arte dei B sono A, dunque alcuni A sono C. Ma oltre questi sillogismi, che sono i soli, sembra, secondo Spencer, che formulano delle correlazioni obbiettive necessarie , vi hanno altre correlazioni di questa natura che Noi diciamo che questi sillogismi sono i soli a cui Spencer fa esprimere dei rapporti obbiettivi necessari: ma l'esposizione d\ (luesto punto della sua dottrina non ci sembra avere tutta la nettezza che si potrebbe desiderare, ed  difficile di essere sicuri rendere il vero i^ensiero dell' autore sul sillogismo Per provare il carattere ol)biettivo delle necessit logiche, egli cita pure la lju'china di lenons per fare sillogismi. i'\ qui evidente, egli dice, che il rapporto dato nella conclusione  obbiettivo, e che essi non possono abbbracciare. Un esempio che d T autore  quello che  contenuto in questa veccliia arguzia: supponiamo che vi siano pi persone in una citt che capelli nella testa d\ma persona qualunque; devono esservi almeno due persone in questa citt che abbiano nella testa lo stesso numero di capelU.  Questo caso, continua Spencer, oltre che ci mostra chiaramente resistenza di correlazioni obbiettive necessarie che, come abbiamo detto, formano la materia della scienza obbiettiva pi astratta, ci la vedere pure che la logica, considerata come essente questa scienza, comprende molte cose che non possono essere racchiuse nelle forme logiche ordinarie  questo rapporto obbiettivo era ncccssariaiiiente contenuto in questi aUri rapporti obbiettivi ohe costituiscono le premesse . Ma se  cosi, se la conclusione  contenuta neremessa maggiore non  il semplice equivalente dei fatti particolari dell' esperienza passata , perch in questa supposizione la conclusione non sarel)be cotenuta necessariamente nelle premesse ; ma il  tutti  signilca tutti i casi senza eccezione che sono compresi nella classe, senza escluderne il caso stesso della conclusione.  allora soltanto che il rapporto obbiettivo atermato nella conclusione  contenuto necessariamente nei rapporti obbiet-; tivi die costituiscono le premesse, e del resto  di questa maniera che i logici ordinariamente considerano il sillogismo. ^U\ nel sillgismo cosi considerato l'inferenza , come Spencer sostiene con ragione contro Hamilton, non reale, ma apparente. Se dunque le conclusioni ottenute per la macchina di levons non sono che delle semplici inferenze apparenti, come potrebbero esse corrispondere a delle correlazioni ohbiettice? Noi perci abbiamo considerato ci che Spencer dice a questo soggetto come detto semplicemente in grazia dell'argomento, e non valevole quindi a modificare l'interpretazione che noi abbiamo dato della sua dottrina, attribuendogU l'opinione che fra i sillogismi i soli numericamente definiti  esprimono delle correlazioni obbiettive necessarie. Studiando questa parte della teorica del ragionamento di Spencer, e considerandola isolatamente, potrebbe sembrare di aver da fare forse con qualche discepolo di Hegel. Se le correlazioni della logica sono obbiettive, siccome la logica ( formale ) non concerne che le correlazioni fra le proposizioni, e le proposizioni sono generali, bisogner dire che vi hanno delle entit generali, corrispondenti alle proposizioni generali, e le correlazioni obbiettive della logica saranno le correlazioni di queste entit. Ma Spencer non la intende a questo modo, ed egli non  un dispepolo di Hegel; egli  sempUcemente un discepolo, nella sua teorica del ragionamento, di questa scuola di logici inglesi che noi possiamo chiamare formalisti, perch il loro oggetto  precipuamente di sviluppare la logica formale, mentre la logica di Alili e di Bain  una logica tutta reale, che approfondisce la natura delle operazioni reali della ragione, e studia le condizioni generali della validit di queste operazioni. Senza dubbio, nella sua teorica del ragionamento, lo Spencer non ha per oggetto di sostituire e di aggiungere, come fanno questi logici fornialisti, delle nuove formule a quelle della logica tradizionale ; ma  evidente T influenza delle idee dei promotori di questa scuola su quelle di Spencer. Questa influenza io la riassumo in due punti: la confusione tra un' inferenza reale e un'inferenza apparente ; e le forme logiche ordinarie (induzione e sillogismo) considerate, non come il totale, ma come una semplice frazione, delle operazioni del ragionamento. Secondo Morgan, a cui (e ad Hamilton) si riattacca sovratutto questa scuola di logici formalisti, vi  una logica generale, di cui la logica ordinaria non  che un caso particolare. Gli assiomi della matematica, come: A = B, B = C, dunque A = C, non sono riduttibili alle forme logiche ordinarie: la logica delle matematiche e la logica ordinaria sono due casi speciali e paralleli della logica geiiemle. I Ibiicainenti del ragionamento (deduttivo) non sono i pi4nciiii d'identit, di contraddizione e del mezzo escluso: essi non giustificano i progi^ssi del pensiero. Il ragionamento  possibile per il carattere di iramitlcii appartenente alla copula (simtolo generale della relazione, che egli wkAq sostituito alle copula ordinaria  >), qualunciue sia il senso [^articolare ili essa. Il senso ddla copula pu essere uno di questi:  eguale a,  identico a,  legate a,  il fratello di, si accorda con, ecc. E il carattere di transitivit pu esprimersi per (piesta proposizione: Se una cosa  in una relazione data con una seconda e una tei^a cosa,* queste due ultime sono tra loro nella stessa relazione. (Soi ai )]jinmo gi trovato in Spencer una variante di questa lnnula). Nella logica irmale la copula indica Videntttk: ma la logica deYidentit e quella e\Veijua(jlian:^a non sono che due casi della logica generate della relazione. L'assioma del sillofiismo e l'assioma matematico sopraindicato (se A =: B e H C, A =C), come anche l'assioma deirargomento a foj'tiijri.'souo delle lorme particolari di (piest assioma generale: La relazione di una illazione  una relazione comiX)sta delle due. Tutti (jucsti assiomi sono delle necessit iJi^mitive e irriduttibili del nostro pensiero. Cos il sillogismo non  fondato sui principii d'identit e di contraddizione; ma esso non  che un caso della riduzione di due relazioni atl una sola, o della conposizione delle relazioni (V. Liard Lo(jici ine/ lesi contemporanei; . (Inlevans si riirovaiio, in uiraltra foriua, iie priK-4iM t^ssc^n/ialmcntt' identici. L'unico processo del ragionamento  la sostituzione dei simili. La logica generale procede per sostituzioni, Xkcrcli, in ogni relazione, una cosa  oon un* altra cosa nello j=ftesso rapiM3ito in cui essa  con una cosa identica, simile o eqiiivalente a questa, e in un insieme noi possiamo rimi)iazzarc una parte per il suo equivalente senza alterare il tutto. 11 rnj2:ionamento matematico i un caso di questa so.stituzione. A^-H: S 11 fondo di tutte queste affermazioni, in ci che esse hanno, secondo noi, di erroneo, consiste in questi due punti: che delle conoscenze dovute all'esperienza vengono considerate come delle intuizioni primordiali della ragionoi i>ossiamo sostituire, in ogni relazione, H ad A ed A a U. Se H , e levons Mannaie rll JjJdca (Manuali IocpU). 11 sistema di levons  certamente molto ingegnoso, tanto \mi che io stesso >rincii>io della sostituzione pu applicarsi alla sfu'egazioiKi del ragionamento per analogia. Tuttavia (juesto princ-ipio non potre)l3e passare per una rigorosa generoliz/azione scientilica, perch i fatti che si liuniscono in una unica formula generale non sono essenzialmente identici, ma dispaniti. Dei casi che si pn^sentano come paralleh, rieiitrtmo al contrario gli uii negli altri: le sostituzioni in matematica non sono infatti flei casi distinti did sillogismo e dall' induzione e paralleli ad essi, poi-ch queste soslitnzioni si fanno per l'applicazione degli assiomi, ({uind mediante sillogismi le cui i)remesse maggiori sono delle induzioni. Inoltre i>ef le sostituzioni dei termini nella logica formale il pensiero non fa alcun j^rogn^sst, e (jueste sostituzioni sf)no governate dal principio dell' identit: ma le sostituzioni in mjdematica costituiscono un vero pwgresso del ]*enilicazone particolare del principio generale, gi espresso iiKjUesta forma: y r'z. Questa sostituzione non , in altri termini, che la conclusione di questo sillogismo: Si pu sempre sostituire r'z ad // in qualunque proposizione // si trovi; ma questa espressione: v ^ry, che Boole chiama un'eciuozione,  una proposizione in cui si trova //; dunque in questa espressione si pu sostituire r\: ad //. Cosi, lungi che il sillogismo sia fondato sulla sostituzione,  al contrario la sostituzione che  fondata sul sillogismo. Se noi ora domandiamo a Boole donde sa egli che //=r^-?, cio che r'z pu sempre sostituirsi ad //, egli non potr dare al fondo una ragione che sia dirVerente dnlla vecchia massimo: nota notae est nota rei ipsius. ^-^j' . nei fatti reali e concpeti clic esse significano: dire che una proposizione  vera  dire semplicemente che i l'atti reali e concreti, che sono da essa significati, esistono realmente; cosi tutte le volte die la verit di date pro|XK sizioni implica resistenza di certe cose o di certi lenoineui, e resistenza di queste cose o di (luesti lenonieni stessi basta, senzaltro, perch una nuova proposizione sia vera, allora il passaggio dalle prime proposizioni alla , non un'inferenza reale, ma api)arente. I/inferenza  reale, quando invec3 l'esistenza dei fatti implicati dalla verit di proposizioni date non basta per se stessa perch la nuova proi)Osizione, a cui si passa, sia vera, bisognano perci altri fatti nuovi, sia d'alti^nde che questi, nel nostro pensiero, siano separabili dai primi, sia che siano legati ad essi d'una maniera inseparabile. Facciiuno ora lapplicazionc del nostro principio a queste pre* tese inferenze: Se A  prima di B e B prima di (:, A  prima di C; ovvero: se A  simultaneo con B e B  simultaneo con C, A  simultaneo con C. L' atiermazione delle conseguenze importa forse dei fatti nuovi che si aggiungono ai fatti implicati neUaHermazione delle premesse?  evidente che no: tuttavia si replicher che, Infatti Ui lettera r' indica unicamente die -:  i>iii esteso di^, e ci vuol dii'c die //  il soetto di questa proposizione predicare il predicato di //. K duiKiue luesta massima die  il vero princifuo su (^ui si fondano i processi di Hoole relativi al sillogismo, massima die non  se non una generalizzazione tirata dalle illazioni valide die noi ab})iamo gi fatte senza Taiuto n di (juesta n di altre massime, e in virt del semplice principdella coerenza, e die non ha niente di comune con gli assiomi su cui  fondato il processo della sostituzione in matematica. QJieste stesse osservazioni possono applicarsi al processo di sostituzione ammesso da levons.  implicata la coesistenza di A e di C, e che per V allermazione di quest'ultima coesistenza non vieie posto alcun fatto nuovo, che non fosse contenuto nella posizione delle  ])iettivo, se non un fatto obljiettivo, perch le eguaglianze sono dei fenomeni subbiettivi, delle percezioni, reali o possibili, che si distinguono realmente dalle percezioni dei fenomeni oljbiettivi tra cui le eguaglianze si staljilis^ono. Dicendo che A  uguale a C, io intendo (Hre che io o altri i)Otremmo avere la percezione attuale deireguaglianza tra (pieste grandezze, facendole coincidere perfettamente runa con l'altra, o misurandole e trovando che esse hanno la stessa misura, cio facendo coincidere Tuna e Taltra uno stesso numero di volte con uria stessa grandezza. Ora questi fatti, significati dalla proposizione: A  Uguale a C, sono dei l'atti nuovi, che non sono compresi tra i fatti significati direttamente dalle proposizioni: A  uguale a B, B  uguale a C. Ma niente di simile potrebbe dirsi per le coesistenze, perch una coesistenza o una sequenza non  un nuovo fenomeno, distinto dai fenomeni che si dicono coesistere o seguirsi; non  che un ordine nel tempo, cio un modo di esistere, di questi fenomeni: ora dato l'ordine nel tempo tra A e B e tra B e C,  dato gi con ci stesso quello fra tutti e tre questi fenomeni, e quindi pure tra A e C.  perci che l'assioma sulle eguaglianze esprime im'inferenza reale, mentre il preteso assioma sulle coesistenze, o quello sulle sequenze, non esprime che un inferenza apparente. Lo stesso deve dirsi delle proposizioni: Se A  fratello o camerata di B, e B  fratello o camerata di C, A e C sono fratelli o camerati , e di tutte le altre pretese inferenze, che si sono immaginate o possono immaginarsi sullo stesso tipo. Se esistono i fatti, i (piali sono le condizioni percli le due j^rime affermazioni siano dette vere, questi fatti stessi^ senz'altro, bastano perch la terza aMermazione sia detta anch'essa vera. N il caso  differente per la vecchia arguzia menzionata da Spencer: vi hanno pi i)ersone in una citt che capelli sulla testa di una persona qualunque, dunque vi hanno almeno in questa citt due persone con un numero eguale di capelli.  evidente che se esistono i fatti, i quali permettono di dire che la premessa  vera, gli stessi fatti, senz'altro, permetteranno i)ure di dire che  vera la conseguenza. Tuttavia qui vi sarebbe una difficolt al punto di vista della teoria concettualista: la premessa non determina con precisione quali siano i fatti particolari e concreti, con tutte le loro circostanze individuanti, a cui essa corrisponde. Perch essa sia vera,  certo che certi fatti particolari e concreti devono esistere, e questi fatti non possono esistere d'una maniera astratta e indeterminata, come le entit degli scolastici, ma con tutte le circostanze particolari che appartengono alle cose concrete e deter. Ma la proposizione non pone alcuna di queste circostanze particolari: cosi essa non afferma niente sul numero delle persene che esistono nella citt, sulla loro quaht, e su tutti i caratteri particolari che fanno di ciascuna di queste persone un tal individuo determinato; essa non afferma dunque che una condizione astratta dei tatti concreti, la quale si verifica in tutti i differenti casi possibili, in cui la proposizione non cessa di essere vera La stessa indeterminazione vi ha pure nella conclusione: questa afferma un'altra condizione astratta, alla quale i fatti sono necessariamente sottomessi tutte le volte che essi sono sottomessi alla prima, e l'inferenza  reale, in quanto afferma la correlazione necessaria fra queste due condizioni astratte, la necessit die la seconda segua la prima. Questo potrebbe dirsi al punto di vista della teoria concettualista: ma noi sappiamo che una propriet o una condizione astratta non  altro che la possibilit di applicare ad una cosa determinata o a dei fatti determinati una certa forma verbale; perci la correlazione necessaria fra due propriet o condizioni astratte non  altro che la correlazione necessaria tra due forme verbali, di cui se l'una  apphcabile, l'altra  pure necessariamente applicabile. La proposizione non enuncia che una condizione astratta: ci vuol dire semplicemente che le parole non sono perfettamente determinative ; non determinano d'una maniera assoluta i fenomeni particolari di cui esse sono i segni. Le parole essendo generali, non possono esprimere perfettamente l' individuale, ci che  assolutamente determinato: applicando la parola uorao, non affermiamo niente del colore, della statura e di tutte le particolarit infinite, che sono proprie dell'individuo, qualunque sso sia, a cui il nome viene applicato. Se si dice: vi ha 2fi(i l un uomo, un' infinit di rappresontazioni particolari j>ossono ugualmente essere suggerite al nostro spirito;  |)0ssil)ile che vi sia un uomo bianco o nero, di statura alta o di statura bassa, ecc. Qualunque sia di ([uesti casi possibili quello die si verifica, la propos izione  sempre vera, ma perch la proi^osizione sia vera, uno o un altro di questi casi passibili deve verificai'si La parola non determina dunque i tatti reali da essa indicati; ma ci presenta un numero infinito di jos sibilit, tra cui si  in certa guisa lilxn di scegliere. Essa traccia, i>er dir cosi> c^mi ui c3i*:ihio di pr>>i!jilit: uni o un'altra delle [xdssil)ilit comprese dentro il cerchio deve effettuarsi, ma nessuna di (luellc che re^stano fuori del cerchio pu effettuarsi, se la enunciaziiue  vera. Ora se, (jualunque sia quella fra le possibilit, incluse da una pro[X)sizione, che si verificili, i fatti saranno sempre tali che essi basteraimo, senz'altro, i)erch una seconda proposizione sia vera, vi ha allora un passaggio possil)ile dalla prima proposizione alla seconda, che noi possiamo, se vogliamo, chiamare un'inferenza, purch sia convenuto che 1* inferenza  in ({uesto caso semplicemente verijale o apparente, e non reale. . 25.*' Le stesse osservazioni i)Ossono applicarsi al sillogismo numericamente definito: La pi parte dei B sono C, la pi parte dei H sono A, dunque alcuni A sono C. Supponiamo, come fa Spencer, che la classe H raj)presenti gli animali d'una masseria, C i montoni, e A gli animali malati; ed esponiamo cosi il sillogismo in termini pi concreti: La pi parte degli animali della masseria sono montoni; la pi parte degli animali della masseria sono malati; dunque vi hamio tra gli animali della masseria alcuni montoni malati. Si i)aragoni (questa inferenza con quest'altra: Tutti i montoni che io ho conosciuti ruminavano ; dunque i montoni della masseria ruminano. Qui i latti significati dalla )remessa e i fatti significati dalla conseguenza sono dei fatti distinti: essi esistono separatamente nella realt, e noi i)Ossiamo rapseparatamente. I fatti del primo gruppo sono certamente in un tal rapporto con ({uelli del secondo gru[)po, che la verit dei primi ci permette di ammettere anche la verit dei secondi. Ma ci non toglie che resistenza fatti significati dalla prima proposizione: i montoni che ho conosciuto ruminavano >, non importa i>er se stessa la verit della seconda proposizione: i montoni della masseria ruminano ; la verit di (|uesta seconda proposizione implica l'esistenza di un altro gruppo di fatti, i quali, quantunque siano logicamente legati con quelli del primo gruppo, ne sono per assolutamente distinti. In (piesto (!aso perci l'inferenza  reale. Ma nel sillogismo numericamente definito di cui  quistionc, il caso non  lo stesso. Gli stessi latti implicati dalla verit delle due premesse, importano pure per s(3 stessi la verit della conseguenza. Se gli animali della masseria sono in tali condizioni che le due premesse siano vere, ci basta, senz'altro, perch la conseguenza sia pure vera. I fatti che permettono di enunciare le due prime pi^oposizioni, sono gli stessi fatti che permettono di enunciare la terza proIX)sizione. Le duo prime proposizioni, in verit, non determinano questi fatti d'una maniera assoluta: ma ci non toglie che i fatti reali, di cui esse sono i segni, siano dei fatti assolutamente determinati; poich le proposizioni non significano delle astrazioni, le quali non esistono n nella realt n nel .nostro pensiero, ma dei fatti concreti e particolari. I fatti reali, di cui le due piime proposizioni sono i segni, sono dunque gli animali della masseria con tutte le circostanze |)articolari con cui questi esistono. Ma le proposizioni non determinano che certe condizioni astratte dei fatti reali significati: ci vuol dire che esse lasciano aperto il campo ad un gran numero di possil>ilit,delle quali qualunque siano quelle che si verifichino, le proposizioni non cesseranno di essere vere. La pi parte degli animali della masseria sono montoni *: questa proposiziono ci permette di fare un'infinit di supposizioni sul numero degli animali, sulla proporzione precisa dei montoni con gli altri, sulla specie di questi altri, sullo stato di salute o di malattia e su tutte le altre condizioni particolari di ciascun individuo. La proposizione segna i limiti dentro cui possiamo fare delle supposizioni: una o un'altra di queste deve eifettuarsi, perch la proix)sizione sia vera; una o un'altra pu effettuarsi, la proposizione restando sempre vera. 11 somiretare le parole del leiiislatore. Del resto non si potrel)be attermare senza riserva che il silloiiismo numericamente definito sia un' inferenza, non reale, ma aj)]arente Ci ci seiid>ra vero del sillojjrismo clic Spencer adduce l>er esempio, ma non di (luclli a cui Morgan applica proprianu^nte la designazione di sii lori ^iit a ^/uantit nume rict unente (/cfinita. (juesti sillo.LTismi lianno luogo, ([uando sono dati dei numeri esatti. W e., in KM^i casi di non importa che cosa (siano 10(i animali 0 = 30 A's (montoni) devono essere Vs (malati). In questo caso non i>u dirsi che vi sia uaa semplice inferenza aiX>arente, i>erch ] er trovare il numero 'M) Insognano delle inferenze reali. (Questo numero esatto non pu trovarsi senza fare delle o[erazioni sui numeri dati; ocn (lueste operiizioni imi-licano l' ai>plicazione degli assiomi mateuatici sulle eguaglianze, e perci delle inferenze reali. In verit il sillogismo a quantit numericamente detinita, sotto la t'orma api>arente del sillogismo, non  che un vero problema di matematica, di cui le premesse presentano i dati, e la conseguenza d la soluzione. Es,so non dillei'isce da un altJ'o problema articr>lar.^:  a questa specie d'inferenza che si api>licano di tutto punto le massime e le regole odinarie sul sillogismo. D'altronde (piesta specie d'inferenza merita di occupjuv un posto proposizione distinta, vi sia necessariamente un i)roaresso i^ale del f>ensiero e una vera inferenza; questa illusione, dico,  tanto naturale al nostro spirito, che gli stessi i)rornotori della vera teoria del ragionamento, la nominalista, non ne sono stati del tutto esenti. 11 Mill e il Bain si sono aneli essi lasciati sedurre da questa falsa analogia tra le inferenze puramente apparenti della logica formale e le inferenze i-eali della matematica. Per evitare la difficolt che il ragionamento sia una semplice petizione di principio, e siegare al tempo stesso T intromissione d^ma seconda proposizione (la premessa minore), per cui un'inferenza mediata s lUstingue da un' inferenza immediata, il concetdistinto fra tutte le inferenze di cui  tjuistione o pu essere (juistione nella logica formale, perche, se essa si considera non l isolatamente, ma in connessione con l'induzione anteriore di cui la ^u^Milessa maggioi^e  il risultato, noi abbiamo il tipo a cui oimi inferenza reale legittima pu ricomlursi. Mn niente di tale pu dirsi di t^tte le altre inferenze apparenti della logica formale, e non imi)orta se abbiano una sola o due premesse. Queste ijderenze'con due premesse, le (juali non sono dei veri sillogisnn', nel senso che  stato delnito. potrebl>ero cMh\xunv^\ pseuclo -sillogismi 'Hdi sono oltre i silligismi numericamente definiti di Morgxuj. i sillogismi con premesse singolari, e i sillogismi ilK>tetici, di cro i)ure Hcondurre alla stessei categoria dei iseudosillogismi le inferenzxr di cui ^ stata  in ogni sillogismo, considerato come un argomento provante una conclusione, vi ha una petitio principu  {Logica). Ma contuttoci egli respinge il cUctam come principio del sillogismo, perch, il cUctum essendo una proiX)sizione identica, in questo caso il sillogismo sarebbe certamente, come spesso si  detto . una sollenne futilit. Sembra dunque che l'introduzione dell'assioma dell'autore abbia per oggetto di salvare il sillogismo, non dall'accusa di essere una petizione di i)rincipio, ma da quella di essere una futilit. Ma ci pare difficile di vedere una distinzione reale tra futilit e petizione di principio. Locke chiamava frivola una proposizione in cui lo stesso si predica dello stesso, cio in cui l'attributo  contenuto nel soggetto: un ragionamento frivolo o futile sar cos un ragionamento in cui lo stesso si prova per lo stesso, cio in cui la conclusione  contenuta nelle premesse, vale a dire una petizione di principio. Ammettere, come si fa generalmente, che il sillogismo  fondato sul principio di contraddizione,  riconoscere che esso, considerato come costituente una prova per se stesso,  realmente una petizione di principio. Se in effetto si ammette che  una contraddizione di negare la conclusione dopo aver affermato le premesse,  perche il principio generale, che fa da premessa maggiore, si considera come l'equivalente di tutte le verit particolari che esso abbraccia, e quindi la verit affermata dalla conclusione come una parte di quelle affermate dalla premessa maggiore. Ora, siccome  appunto perch la verit affermata dalla conclusione  una delle verit affermate dalla premessa maggiore, che questa proposizione  una prova di quella, ne segue che una cosa  la prova di se stessa, e che il ragionamento  un circolo vizioso. Questa obbiezione contro il sillogismo, clie esso non  che una petizione di principio, , come abbiamo detto, tanto vecchia quanto la teoria stessa del sillogismo. Nel sillogismo, dice Aristotile, pu trovarsi la difficolt di cui  quistione nel Me none . dove si dice che o non s'impara niente, o non pu impararsi che quello che gi si sapeva. Alcuni, egli aggiunge, risolvono questa difficolt, dicendo che ci che si preconosce (ci che Mill chiama gli antecedenti logici reali) non sono gi tutte le cose contenute sotto la !i lari ad esso, ma sono comuni a tutte le dottrine che vogliono fondare il sillogismo sovra un assioma, cio sovra un principio smteiieo e reale, e non sul semplice princidella coerenza, cio d'identit o di contraddizione. E prima di tutto, se fare un sillogismo  applicare un assioma, lapplicazione di quest'assioma al sillogismo partizro, d'un intendimento Ubero interamente dairinfluenza dei sensi, sembra giustamente al Lange una delle delx)lezze pi deplorevoli del sistema kantiano. La sintesi delle impressioni non presuppone, egli dice, la categoria della sostanza; al contrario la sintesi sensoriale delle impressioni  la base sulla quale solamente una categoria della sostanza potr svilupi)arsi. Non sono i concetti stessi che esistono avanti Tesperienza, ma solo delle disposizioni tali che le impressioni del mondo esteriore sono tosto riunite e coordinate conformemente alla regola fornita da questi concetti. Forse si trover, un giorno, il fondo dell' idea di causalit nel meccanismo del movimento riflesso e dell'eccitazione simpatica: allora avremo la Ragion pura di Kant tradotta in fisiologia, e resa cosi pi evidente (Storia del rnaterialisnio). A questa trasiormazione del kantismo si presenta naturalmente lo stesso dilenmia che noi dianzi abbiamo op[X)sto al sistema originale di Kant. Come bisogna intendere quest' organizzazione, in cui Lange vuol trovare la base della sintesi a priori, delle condizioni generaU di ogni esperienza possibile? E l'organizzazione fsica, fenomenale? Ma questa suppone gi le leggi generali del fenomeno, le condizioni di ogni esperienza possibile: essa non pu spiegare rordine dei fenomeni, perch essa stessa  parte di quest'ordine che si tratta di spiegare. Sar invece il lato trascendente dell'organizzazione fisica, fenomenale, la cosa in s del cervello. Ma non si pu, secondo i principii del criticismo, concepire la cosa in s, non si pu provarne \ esistenza. Noi non possiamo concepirla, perch le nostre concezioni sono limitate dalle forme subbiettive dell'intuizione sensibile e del pensiero ; noi non possiamo provarne resistenza, perch ogni prova riposa su dei principii che non sono che l'espressione delle condizioni generali dell'esperienza pos* sibile, e questi principii non possono applicarsi che nei limiti di questa esperienza stessa. Per altro questo compromesso tra i principii della Critica della ragion pura e queUi della psicologia fisiologica sembrer, dopo l'iflessione, non altro che una combinazione puramente arbitraria, che non soddisfa alle esigenze, i>er cui le i]:>otesi metafisiche, rimaneggiate in uno spirito di eclettismo, erano state unicamente create. Tanto la cosa in s, quanto la efficienza d'un principio subjiettivo sulle forme o sull'ordine con cui i fenomeni ci vegono presentati, sono delle veri i|30tesi metafisiche: vale a dire, esse sono destituite affatto di prove, e non si  inclinati ad ammetterle che in virt delle tendenze metafsiche dello spirito umano. Queste tendenze, come mostreremo nel Saggio 2,'' si riducono, nella loro origine, all'influenza di forti abitudini mentah, inse[)arabili dall'esercizio della nostra intelligenza. Noi non ammettiamo la cosa in s che per l'abitudine di obbiettivare le nostre sensazioni: tutta la forza e il valore dell'ipotesi si riduce a ci, che per essa  soddisfatto questo bisogno dell'obbiettivit che ha il nostro spirito. Similmente l'ipotesi kantiana, che le forme o l'ordine con cui ci vengono dati i fenomeni, hanno le loro catise nel soggetto conoscente, non deve la sua forza e il suo valore che alla tendenza generale, di cui essa  un caso, che ci porta ad elevare la nostra attivit, sia interna sia diretta sul mondo esteriore, a tipo di spiegazione universale. Questa tendenza proviene anch'essa dairinfluenza di una forte abitudine mentale, poich i fatti che servono di base alla spiegazione, come quelli che servono di base a qualsiasi altra spiegazione metafsica, non sono che dei fenomeni della nostra esperienza pi familare, la spiegazione metafisica consistendo appunto a ricondurre tutti i fenomeni a quelli che ci sono i pi familiari (v. Saggio 2 parte 1^). Cosi se all'attivit del pensiero, come principio determinante Tordine e la regolarit dei fenomeni, si* sostituisce il meccanismo delFazione riflessa, con cui solo il fisiologo ha qualche familiarit, o Fazione delle cosa in s del cervello, di cui alcuno non ha mai conosciuto n immaginato niente di simile, l'ipotesi cosi modificata non corrisponde pi alle condizioni e allo scopo d'un'ipotesi metafisica: essa non riduce pi i fatti al tipo di qualche fatto dei pi familiari della nostra esperienza quotidiana, e non  pi quindi una spiegazione. Da un alto canto,  pi soddisfacente per il nostro bisogno dell'obbiettivit, di riguardare con Spencer il nexus dei fenomeni come il correlativo di un nexus obbiettivo delle cose in se stesse, anzich di riguardarlo, con Kant e coi suoi, come il prodotto di un principio subbiettivo. Ma ci che Kant perdeva da questa parte, lo guadagnava dall'altra, perch egli dava una spiegazione di questo nexus dei fenomeni: al contrario, la perdita di Lange  senza compenso, perch la sua ipotesi sull'origine di questo nexus non , come abbiamo detto, una spiegazione. Del resto, sia che col vecchio kantiano Sigismondo Beck (in cui Fichte riconosceva il suo precursore) si sopprima l'azione della cosa in s nella produzione del mondo dei fenomeni; sia che col neo kantiano Lange si sopprima l'azione dei concetti; non si  fatto niente ancora per ehminare la contraddizione, inerente al sistema, di estendere al di l del mondo dei fenomeni la nozione di r: l'oggetto della conoscenza a priori 305 causa, che, sec^ondo i principii del criticismo, non serve che a completare il cervino delle conoscenze fenomenali. Se si sopprime la cosa in s, non si ta che riportare sui concetti la parte di causalit che a quella veniva attribuita; se si sopprime l'attivit dell'intendimento o dei concetti, la parte di causalit attribuita a questi viene riportata sulla cosa in s: ma, in ogni caso, ricercare con Kant l'origine e la produzione del mondo dei fenomeni, significa mettere in rapporto questo mondo dei fenomeni con qualche esistenza trascendente, mediante un legame che non pu essere che quello di causalit, qualunque sia d'altronde il nome con cui si voglia designarlo . (l) Non bisogna tacere che il Lange non lui. in fin dei conti, pi rispetto per la cosa in s che pei concetti dell'intendimento puro. Noi non sappiamo realmente, egli dice, se una cosa in s esiste. Noi sappiamo solamente che Tapplicazione logica delle leggi rendendo le mosse dai principii della Critica della ragion pura,  facilmente condotto. Kant si avvolgeva in una contraddizione Riassumiamo. Secondo Kant, ogni principio rigorosamente universale, che d un'estensione alia nostra conoscenza,  un giudizio sintetico a priori) e un giudizio sintetico a priori ha un valore obbiettivo, in quanto  il pensiero stesso che determina il suo oggetto. Un principio necessario ed universale dunque, o un giudizio sintetico a priori, non ha valore che nei limiti del mondo delle apparizioni, in (guanto queste sono, riguardo alla l'orma, insolubile (iiumdu, avendo posto come i)iincii>io che la nosti'a conoscenza  puramente fenomenale, si domandava poi donde ci l>rovenisse jiiesf oggetto fenomenale che noi conosciamo, il che supponeva che si potesse conoscere ((ualche cosa al di l del fenomeno. Il Lange poteva dunque felicitarsi di avere sl)arazzato il kantismo da una patente contraddizione, quando egli rigettava l'atfermazione categorica d'una cosa in s e la dottrina dell'intendimento puro che produce la sintesi delle impressioni sensibili, o l'ordine dei fenomeni. Ma cie resta allora di Kant? Non resta che ci che questo tilosofo ha di comune col vecchio Protagara: l'uomo  la misura di tutte le Qose. Il fenomenismo criticista non  il fenomenismo dei gi'and lilosofi em|>iristi inglesi: noi potremmo chiamare (piello di un Mill o di un Hain un fencmienismo ohbiettLro^ e (piello dei neo ktjntiani un fenomenismo .erchc quest'ordine non  che una forma della mia conoscenza: la connessione dei fenomeni non esiste che per lo spirito connettente. Vi furono realmente prima di' me degli esseri che sentirono e che pensarono? ve ne sono simultaneamente a me? ve ne saranno dopo di me? Il prima, il dopo, il simultaneamente iianno un' esistenza reale, ol)biettiva? No, secondo i Kantiani: il tempo non  niente fuori di me; 1' ordine non  nei fatti conosciuti, ma nel soggetto conoscente ; gli altri esseri, quali io li conosco, non sono che un prodotto della mia facolt conoscitiva; l'oggetto conosciuto non esiste per se stesso, ma pel soggetto conoscente.  questa impossibilit di uscire dal proprio me, quest'aj)l^erenza universale senza poter alTerrare aUuina realt, che  la conseguenza inevita)ile del Ivantismo. L ci che Fichte dichiara determinate dal pensiero. Ne segue ciie alcuna connessione fra le cose non  conoscibile, se non  una connessione tra apparizioni, in quanto questa viene determinata dall'attivit connettente del pensiero. Ne segue ancora che r esistenza di cosa alcuna non  conoscibile, se questa cosa non appartiene al mondo dei fenomeni, o delle apparenze; poich, da una parte, noi non abbiamo altro di dato die i fenomeni o le apparenze, e dallaltra parte, niente nei termini pi espliciti (v. Destina:: Ione deWuono, in line della 2. parte): egli vuol ricondurre per la credenza l'elemento della realt che sfugge allo conoscenza, ma cpiesto  semplicemente confessare rinsuficienza del sistema. (V. la stessa opera, parte 3. Noi dobbiamo ammettere, secondo Fichte, che le apparizioni che, nello spazio, si mostrano simili a noi stessi, sono realmente degli esseri simili a noi,.i>erch la coscienza morale ci ordina di riguardarle come creature libere, indipendenti da noi ed esistenti perse stesse, i che io chiamo corpi simili al mio, io ne inferisco che esse sono legate per gli stessi rai>porti di sequenza e d antecedenza con altri sentimenti simili a riuelli che io chiamo stati del mio spirito. Questi altri sentimenti che io inferisco, non fanno parte della mia coscienza; essi sono gli stati di altre coscienze, di altri spiriti simili al mio. Ma ci non toglie niente alla validit delle mie inferenze: io non ho potut.0 osservare i rapporti su cui queste inferenze si fondano, ne verificarle direttamente, che nei limiti della nu'a esperienza personale, cio della mia propria coscienza ; ma  nella esperienza personale di ciascuno che si trovano, in ultima analisi, gli antecedenti logici di tutte le conoscenze che egli pu acquistare. Se io ho appreso per la mia esperienza personale che certe possibilit di sensazioni, che noi chiamiamo (lei fatti del mondo materiale, sono in un rapi>orto costante con certi stati di coscienza o fatti del mondo spirituale, io sono autorizzato ad inferirne che lo stesso avviene al di l dei limiti della mia esperienza personale, cio al di fuori della mia propria coscienza. L'operazione induttiva, cosi bene che i dati da cui essa parte, sono ]>recisamente gli stessi che se io credessi alla realt della materiji, cio se io realizzassi, come fa il realista naturale, le possibilit di sensazioni (confr. Mill Filosofa di Hamilton). Questa inferenza, la (juale mi conduce all' affermazione di altri esseri fuori di me,  legittima, perch i rapporti sovra cui essa si fonda, sono dei rapporti reali, obbiettivi: ma un kantiano non ini fare legitLiinamentc  essere Teffetto dellattivit del pensiero, percli questa connessione non  altro che la stessa attivit del pensiero. Noi aljbiamo cosi delle conoscenze sulle cose e sulle connessioni tra le cose, che non sono limitate al inondo delle apparenze: se (jueste conoscenze fossero scientifiche o rigorose, dovrebjero essere il i)ortato di principii necessari e strettamente universali, e (juindi di giudizi sintetici a priori. Ma questi luto, esso non e che relativo al soggetto conoscente. Sinch il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto sono una sola e stessa cosa (la coscienza che ciascuno ha degli stati del suo proprio me), non vi ha una difhcolt seria: ci che io (come oggetto conosciuto) sono relativamente a me stesso (come soggetto conoscente), sar una realt in confronto di tutto ci che io posso essere relativamente ad altri soggetti conoscenti. Ma (juando si stabilisce un rai)i>orto (p. e. di anteriorit e posteriorit) fra esseri distinti, dove sar la realt? Il tempo non , secondo Kant,, che una forma del mio senso interno; la causazione, la reciprocit d'azione, ecc. non sono che categorie del mio intendimento; in una parola, non vi ha alcun rapi^orto reale tra i fatti stessi, e lordine che noi attribuiamo alle cose non  niente al di fuori della nostra rappresentazione. Un essere organizzato difterentemente da noi potrebbe loro attribuirne un altro: (juale sar la verit 1 Per ciascuno  rero ci che (jU pare: ecco la formula che riassume il criticismo fenomenista. Per Kant, che ammetteva i noumeni^ la verit era inaccessibile; per un kantiano che li rigetta, la verit non esiste. Senza dub])io, Protagora era pi logico di Kant e dei suoi discepoli, (juando dichiarava ugualmente vere tutte le apivarenze, tutte le opinioni: noi riconosciamo che vi ha in questa audace tesi dell'antico sofista un carattere veramente .^q/stlco (nel senso tradizionale della parola), ma  una conseguenza logica del lrincipio, ammes.so ugualmente dai kantiani, che l'oggetto conosciuto non  che relativamente al soggetto conoscente La verit  la corrispondenza fra il pensiero e le cose, fra la rappresentazione e gli oggetti rappresentati, aequatlo rei et intc/ectas: se questa corrispondenza non esiste, la verit non esiste, non vi ha i)i distinzione tra il vero e il falso, e tutte le opinioni sono egualmente vere (ed egualmente false). Xoi non potremmo tropiu insistere su questa din'erenza tra il E l'oggetto dell.v conosg:nza a priori 3giuilizi non hanno valore che unicamente nei limiti de! mondo delle apparizioni, perch non vi lia die un caso, secondo Kant, in cui un giudizio sintetico a priori  possibile: (juando  il pensiero che determina l'oggetto conosciuto. Per conseguenza o non  vero che sia questa che dice Kant la condizione della validit dei giudizi sintetici a priori, o non  vero che le conoscenze di cui sopra abbiamo parlato, le quali non potrel)bero essere che fenomenisuio di un empirista e (|uello di un criticista. Per Mill le cose risolvendosi in sensazioni, la verit  l'accordo fra le rapi>resentazioni e le sensazioni: quando i rapporti di sequenza o di coesistenza, che noi ci ra])i>resentiamo fra le sensazioni (nostre e de-gli altri), corrispondono al loro ordine reale, vi ha verit; la verit  assoluta, i^erch quest'ordine  assoluto, non  relativo al soggetto conoscente. Ma, per un kantiano, cosa pu essere la verit? F/universo (sono parole di Lange che in parte abbiamo gi citate)  non solo una rappresentazione, ma la nostra l'appresentazione, un prodotto dell'organizzazione del genere nei tratti generali e necessari di ogni esperienza, un prodotto dell'individuo nella sintesi che .lisi(ne liberamente del suo oggetto. Si i)u dunque dire che la realta  il fenomeno ])er il genei'e, mentre l'apparenza illusoria  un fenomeno per l'individuo, fenomeno che non diviene un errore, se non perch gli si attribuisce la realt, cio a dire l'esisteza ier il genere . Ma queste proposizioni di Lange possono sembraj'c un'inconseguenza in un darwiniano: esse su|>]^ongono che la' specie sia rigorosamente delimitata; che vi siano delle essenze o delle Idee, degli stampi insonmia su cui la natura modella costantemente gl'individui ; che unatlnit e una distinzione di si)ecie sia iariscono. Ter T.ange non  il pensiero che determina 1' *'S!)erienza, e non  nemmeno lespericnza che determina il pensiero, il giudizio essendo a priori: come spiegare dunque la loro coincidenza? Kant emette incidentalmente la congettura che le due sorgenti della conoscenza umana, i sensi e rintendimento, provengono forse da una l'adice comune:  essere fornita una proposizione sintetica, che non sia sperimentale; ma una proposizione sperimeniale non pu mai raccliiudere la necessit ed assoluta universalit, le (luaU costituiscono tuttavia il carattere essenziale di tutte le proposizioni geometriche. Quanto al primo e unico mezzo di acquistare queste cognizioni, vale a dire per semplici concetti o per intuizioni a priori,  cliiaro che da soli concetti non pu ricavarsi alcuna cognizione sinteti;:^, ma soltanto una analitica. Sia pure la proposizione che due linee rette non [xossono chiudere uno spazio, e che non si pu quindi con esse costruire una figura; e proviamoci di derivarla dai concetti della linea retta e del numero due. Oppure sia quest'altra, che per mezzo di tre linee rette si pu costruii'e una figura, e cercate ugualmente di ricavarla da questi concetti. Tutti i vostri slorzi saranno inutili; e sarete costretti di ricorrere alla intuizione, come ha fatto semjU'ela geometria. Voi dunque vi date un oggetto in intuizione: ma di ([uale specie  questa intuizione?  una intuizione pura o />r/or/, o una intuizione empirica? Se fosse empirica, non potrebbe certamente venirne mai una proposizione universale, molto meno una projxDsizione apodittica, percli l'esperienza non pu somministrarne. Dunque dovete darvi il vostix) oggetto a priori in una intuizione, e fondarvi la vostra proposizione sintetica. Ora se non fosse in voi una facolt di avere delle intuizioni a priori, se (juesta condizione, subiettiva quanto alla forma, non fosse al tempo stesso la condizione a priori, sotto la quale unicamente \)\\ darsi Foggetto di questa esterna intuizione; se infine quest'oggetto, p. e. il triangolo, tosse qualclie cosa in s e senza rapporto al vostro soggetto: come potreste dire, in tutti questi casi, che quanto  necessario, nella vostra condizione subbiettiva, per la costruzione di un triangolo, debba con uguale necessit convenire al triangolo in se stesso i Giacch ai vostri concetti (di tre linee) nulla potete aggiungere di nuovo (la figura), che dovesse perci trovarsi necessariamente neir oggetto, se questo oggetto  dato prima, e non niediante, la vostra cognizione. Se dunque lo si)azio (e cosi pure il tempo) non fosse una pura torma della vostra intuizione, clic contiene le condizioni a priori, sotto le quali soltanto delle cose possono essere per voi degli oggetti esteriori (chj non sono niente in se stessi, o senza queste condizioni subbiettive). voi non potreste niente pronunziare a jtriori e sinteticamente su questi oggetti y> ( Estet. trascemL.) Il principio che tutti i fenomeni sono grandezze estensive  quello clie rende applicabile, in tutta la sua precisione, agli oggetti deiresperienza la matematica pura: il che non sarebbe per s evidente senza questo principio, e ha dato anche occasione a molte contraddizioni. La visione empirica non pu aver luogo tramie mediante la pura (dello spazio e del tem[)0): il perch vale per quella, senza eccezione, ci che di questa dice la geometria ; n regge il pretesto che non corrispondano gli oggetti dei sensi alle leggi, per le quali si costruisce nello spazio (come alla divisibilit degli angoli o delle linee all'infinito). Giacch per tal guisa s impugnerebbe pure ogni valore obbiettivo allo spazio e a tutte le matematiche: n pi si saprebbe perch n sin dove esse sono applicabili ai fenomeni. Ci che rende possibile V apprensione di questi, quindi ogni esperienza esterna e qualsiasi conoscenza degli oggetti della medesima,  la sintesi degli spazi e dei tempi: e ci che provano le matematiche nel loro impiego puro a tal sintesi ha eziandio valore necessario nella esperienza. Le obbiezioni che sono state mosse incontrario si risolvono in meri cavilli di una ragione falsamente erudita: la quale avvisa, in modo erroneo, far liberi e separare dalla condizione formale della nostra sensibilit gli oggetti dei sensi: e, (juantunque non siano che mere apparizioni, li rappresenta otterti air intelletto quali oggetti per se stessi. Nel qual caso certamente nulla si potrebbe dire dei medesimi sinteticamente a />r/or/, per conseguenza mediante i concetti puri dello spazio ; e non sarebbe possibile la scienza che determina tali concetti, cio la geometria > (Analit. Ass, delliatuizione), ^. W\ I luoghi citati contengono, in sostanza, tutto ci('> che si trova in Kant sulla spiegazione delia possibiht dei giudizi sintetici a priori della matematica; e per quanto concerne la geometria, cui specialmente Fautore ha di mira, la dottrina di Kant si riduce a dire che la geometria pu essere una scienza a priori, perch, lo spazio essendo un elemento formale della conoscenza, noi possiamo avere un'intuizione a priori delle determinazioni dello spazio, e i giudizii ricavati da questa intuizione a priori possono applicarsi agli oggetti che ci vengono otferti dall'esperienza, in quanto niente pu essere oggetto dell'esperienza, che non sia conforme a questa condizione formale della conoscenza. Secondo questa dottrina di Kant, la grande obbiezione che i Ivantiani fanno alla teoria empirista  la seguente: Donde sappiamo noi e possiamo sapere che le linee reali rassomigliano perfettamente alle linee immaginarie? (Cohen ap. Lange Stor, del mater.) Due linee rette prolungate all'infinito non possono circoscrivere uno spazio. Noi non possiamo fare alcuna esperienza a questo riguardo nel senso volgare della parola. Secondo Mill l' immaginazione rimpiazza qui l'intuizione esteriore ; ma donde sappiamo noi che i quadri della nostra inmiaginaziono si comportano esattamente come le cose esteriori? Donde sappiamo noi che due linee rette ideali si comportano assolutamente come le linee reali? Kant risi>onde:  che stabiliamo quest'accordo noi stessi.... L'intuizione dello spazio, con le propriet che gli appartegono necessariamente,  un prodotto del nostro spirito nell'atto dcUesperienza; ed ecco perch essa appartiene egualmente e necessariamente ad ogni esperienza possibile come ad ogni intuizione dell" innnaginazione  ( Lange) Una quistione analoga si era proposta il Locke nel capitolo sulla realt della nostra conoscenza. La conoscenza consistendo per lui nella percezione della convenienza o disconvenienza delle nostre proprie idee, era naturale di domandatasi come una tale conoscenza possa istruirci sulla realt delle cose stesse. Per quel che riguarda le conoscenze matematiche, ecco come i*isponei^nto che la conoscenza ch'egli ha di qualsiasi verit o propriet che appartenga al cerchio o ad ogni alti*a figura matematica, non sia vera e certa, anche a riguardo delle cose realmente esistenti, perch le cose reali non entrano in questa sorta di proposizioni, e non vi sono considei'ate, se non altrettanto che esse convengono realmente con gli archetipi che sono nello spirito del nmtematico.  vero dell'idea del triangolo che i suoi tre triangoli sono eguali a due retti? La stessa cosa sar pure vera d'un triangolo, in qualunque luogo esso esista realmente. Ma clie ogni altra figura attualmente esistente non sia esattamente conforme all'idea del triangolo" ch'egli ha nello spirito, essa non ha assolutamente niente da lare con questa [)roposizione. E per conseguenza il matematico vede certamente che tutta la sua conoscenza toccante questa sorta d'idee  reale; perch non considerando le cose se non altrettanto che esse convengono con queste idee ch'egli ha nello spirito, egli  sicuro che tutto ci ch'egli sa su queste figure, mentre non hanno che un'esistenza ideale nel suo spirito, si trover pure vero riguardo a queste stesse figure, se esse vengono ad esistere realmente nella materia: le sue riflessioni non volgono che su queste figure, che sono le stesse, ovunque e di qualunque maniera esse esistano. Che la risposta di Locke contenga o no una soluzione soddisfacente della difficolt proposta dallo stesso autore, essa calza ad ogni modo alla domanda dei Kantiani: Donde sappiamo noi che le linee reali rassomigliano esattamente alle linee ideali? Ma se le linee reali non rassomigliassero esattamenta alle linee ideali che il matematico ha nello spirito, esse non sare])bero delle linee di quella specie determinata di cui parla il matematico: se sono di quella specie determinata, le linee reali non possono non rassomigliare esattamente alle linee ideali. Che esistano o no nella realt delle Unee conformi alle linee ideali, agh archetipi, come dice Locke, che sono nello spirito del matematico,  questa una quistione assolutamente estranea alla matematica, perch le proposizioni di questa scienza non affermano niente sull'esistenza. Se per l'osservazione delle immagini mentali di certe linee, veniamo a conoscere una propriet di questa s[)ecie di linee, noi non concludiamo gi che esistano nel mondo esterno delle linee aventi tale propriet: se vi saranno nella realt delle linee conformi a quelle che noi ci rap[)resentiamo, la nostra osservazione ideale varr anche per (pieste linee reali; ma se le linee della realt saranno differenti dalle nostre linee ideali, una proposizione fondata sull'osservazione delle seconde non riguarda le prime n punto n iK)co. Siano queste proposizioni: Due rette non iX)ssono chiudere uno spazio; Un triangolo rettilineo ha la somma degli angoli eguale a due retti; ovvero Y assioma, su cui la "seconda proi)Osizione  fondata: Per un punto non pu passare che una sola parallela ad una retta data. Secondo Kant il valore e Tuniversalit di (juesti giudizi dipende da ci, che gli oggetti dall' intuizione empirica sono conazio difirente dal nostro, quale potrer)lje supporsi secondo Riemann, le pretese rette chiudenti uno spazio sarebbero, non ci che noi attualmente chiamiamo rette, ma, secondo una definizione arbitraria della parola, le linee della pi breve distanza fra tutte quelle che potrebbero condursi in questo sup[)Osto spazio (lin'erento dal nostro. L*esistenza di questo si)azio non toglierebbe perci Tuni versalit deirassionia: Due rette non chiutlono uno spazio; peluche quest'assioma non si riferisce che alle rere rette, nra le pretese rette del nuovo spazio supposto, (pialunque sia la loro analogia con le vere rette, cio con le nostre, sarebbero sempre una classe diierente * biamo detto, delle vere rette, perch a queste pretese rette sarebbe applicaljile non la nostra nozione della retta, ma un'altra nozione. Dunque l'attributo di non chiudere uno spazio  una condizione della nozione della retta: due rette che non chiudesseso uno sj)azio non sarebbero delle rette, cio sarebbbero una nozione contraddittoria, e la pi*0[>()siziassare per lo stesso punto un numero iiide.inito di altre rette, di cui alcune, ma soltanto alcune, asservo che vanno ad incontrare la retta data. L'intuizione per la sem[)lice immaginazione pu,  vero, sostituire Tintuizione effettiva, ed estendere cosi ad altre delle rette che passano per il punto dato, la mia osservazione che esse incontrano la retta data. Ma, senza contare che n la mia intuizione efiettiva n la mia intuizione immaginaria pu comprendere ttitte le rette che possono passare per il punto dato, il loro numero essendo mfinito;  evidente che Timmaginazione non pu estendere Tintuizione reale che sino ad un certo punto. La vista deirimmaginazione, come quella dell'occhio, non pu seguire due rette che sino ad una certa distanza: noi non possiamo prolungarle indefinitamente, n nella realt n nella semplice immaginazione; noi non possiamo n vedere n immaginare delle linee che abbiano al d l di una certa lunghezza. Lungi dunque che F intuizione possa mostrarci la verit della proposizione nella totalit dei casi compitesi nella sua estensione, essa non pu nemmeno mostrarcela, rigorosamente, in un sol caso particolare. Qui, come da per tutto, non  che Finduzione quella che pu stai )ilire una verit generale. Kant salta a pi pari questa difficolt ; sembra anche di' egli r abbia appena intraveduta. Ma ascoltiamo lo stesso autore: La conoscenza filosofica  la conoscenza razionale per concetti, ma la conoscenza matcnjaticjx  la conoscenza razionale per la costriuione dei concetti. Ora, costruire un concetto  esporre a priori r intuizione che gli corrisjionde. Per la costruzione di un concetto bisogna dunque una intuizione non empirica, che abbia per conseguenza, come intuizione, un oggetto unico, ma die, nondimeno, come costruzione d'un concetto (duna rappresentazione generale), deve esprimere nella rappresentazione qualche cosa di universalmente valevole per tutte le intuizioni possibili che appartengono a questo concetto. Cosi io costruisco un triangolo, allorch espongo un oggetto che corrisponde a questo concetto, 0, ijer mezzo della semplice immaginazione, in intuizione pura, o, se^ondj rimmaginazionc ancora, sulla carta, in intuizione empirica, ma nell'uno e l'altro caso periettamentc a priori, senza averne preso 1' esemplare da alcuna esperienza. La figura particolare descritta  empirica, a serve nondimeno a esprimere il concetto senza l)regiudizio per la sua generaUt, perch in questa intuizione empirica non si considem mai che l'azione di costruire un concetto, al quale molte determinazioni ([). e. quella della grandezza, dei iati e degli angoli) sono affatto indifferenti, e si la per conseguenza astrazione da queste differenze che non cangiano il concetto del triangoloLa conoscenza filosofica non considera dunque il particolare che nel generale, e la conoscenza matematica il generale che nel i>articoIare, e anche nel singolare, quantunque tuttavia a priori e per mezzo della ragione; di tal sorta che, come il singolare  determinato da certe condizioni generali della costruzione, cosi l'oggetto del concetto a cui questo singolare corrisponde solamente come schema, deve essere concepito determinato universalmente.  {Metodologia trascendentale, e. 1". sez. l-\ ) E. |! un po' pili lungi: La filosofia si attiene seuipliceinente ai concetti generali ; le matematiche non possono nilare con questi semplici concetti, ma esse si affrettano di ricorrere airintuizione, nella quale considerano il concetto in concreto, quantunque tuttavia non empiricamente, ma semplicemente in una intuizione che esse propongono o costruiscono a priori, e nella quale ci che risulta dalle condizioni generali della costruzione deve valere i)ure generalmente per l'oggetto del concetto costruito '. Ma si domanda: come tacciamo noi a sapere, in vma figura particolare che abbiamo sotto gli occhi o nelFimmaginazione, se una i)ropriet determinata risulta dalle condizioni generali della costruzione del suo concetto, o appartiene soltanto a questo caso particolare? Riconoscere che una propriet appartiene in generale air oggetto del concetto costruito, e iipende dalle condizioni generali della costruzione di questo concetto, e non invece da una di quelle determinazioni particolari inditt'erenti al concetto, da cui si la astrazione perch questo non ne  mutato;  precisamente generalizzare, fare un'induzione, inferire da qualche caso particolare, esibito neirintuizione, a tutti i casi compresi nel giro dello stesso concetto. Sia . da dimostrare la proposizione ( l'esempio stesso di Kant) che gli angoli del triangolo sono eguali a due retti. Noi facciamo astrazione, egli dice, da tutte le determinazioni particolari della figura che non mutano il concetto (p. e. quelle della grandezza, dei lati e degli angoli): ma chi ci permette di fare quest' astrazione  di stabihre che la propriet dimostrata per questa figura particolare non  legata a queste determinazioni particolari che non cangiano il concetto X E che noi sappiamo che la stessa dimostrazione pu aver luogo per un altro triangolo, (pialunque ne sia la grandezza, i lati e gli angoli.  la stessa considerazione che ci autorizza, nel corso della dimostrazione, a l'are rapplicazione dei teoremi antecedenti, i Mi *l quali essi stessi non sono stati dimostrati che sopra una figura particolare. Ma infine la dimostrazione arriva agli assiomi ; fra di cui a quello di Euclide che non  che un'altra espressione dell' assioma di cui sopra abbiamo parlato, cio: che due rette inclinate 1' una verso l'altra, o in altri termini, che formano, con una trasversale, la somma degli angoli interni minore di due retti, prolungate . finiscono per incontrarsi. Come sappiamo noi che la propriet d'incontrarsi appartiene in generale all'oggetto del concetto: due rette inchnate l'una verso l'altra? cIkj risulta dalle condizioni generali della costruzione di questo concetto, e non dalle determinazioni particolari dell'esempio esibitoci nell'intuizione? Ciii ci autorizza, dopo aver verificato questa propriet nei casi particolari dell'intuizione, a stabilire ch'essa non  legata alle determinazioni particolari indifferenti al concetto, p. e. la (Ustanza o il grado d'inclinazione delle rette osservate sia nella visione reale sia nell'immaginaria  Sono certamente i casi particolari osservati che ci autorizzano, secondo il principio dell'analogia, ad estendere a tutti gli altri casi della stessa specie il risultato della nostra osservazione: noi possiamo dirlo, ma Kant non lo pu, percli egli nega che l'induzione possa stabilire delle proposizioni necesj^irie e rigorosamenie universali . (I) Non  forse imitilo di riportare altri luoghi di ICaiif, coiiii>r(>vanti che tale  elfettivamente la sua dottrina, cio che le i>rop()sizioni della matematica si fondano sull'intuizione, per conseguenza sullOsservazione dei casi particolari. >^(^\V IntroOuz . della Crii, (iella rafj. intra, V, (2. ediz.), egli dice: Il concetto di 12 nori  alTatto Iensato per ci solo che io concei^isco (juesta unione di 7 e di 5; ed io pos.^0 decomporre il mio concetto in altrettanti numeii possibili quanti io vorr, senza clie perci io vi trovi il numero 12. Risogna dunque lasciare (juesti concetti, e ricorrere a un'intuizione clie corrisponda alTuno dei due numeri, come alle cinque dita della Tiano, o (come Segner lia Tatto nella sua aritmetica) a cinciue punti, L'obbiettivit dei giu.lizi sintetici a priori, la possibilit di applicarli agli oggetti (bllesp^rienza,  fon lata, S3condo Kant, su di ci clic Tesperienza stessa, cio la sintesi dei fenomeni, si fa secondo le regolo di cui questi giudizi e agprLinuere succossivnnionte al concetto di sette le ciiKiue unit date in intuizione. Perch io prendo aUorn il numero sette, e ricorrendo alle mie dita comc^ ad aUretlante intuizioni per sip:nif(!are il numero cinque, io ag*2iunK0 successivamente a sette, staccandole dall'immagine totale che le rappresentava, le unit che io aveva prima riunite in intuizione, col mezzo delle mie dia\, per formare il numero cinque, e io vedo risultare da questa operazione cotnplessa il numero 12. Per l'addizione di 7 a 5 io ho in verit l'idea d'una sounna-^74-5, ma non l'idea che questa somma  uguale al numero 12. La proposizione aritmetica  dunque sintet'ca: ci che si vede pi chiaramente ancora (piando si prendono numeri [i grandi; gli  allora evidente che. di (jualunciue maniera noi rivolgiamo i nostri concetti, non ]tossiafno mai formare lasimma per il solo mezzo della decomposizione dei nostri concetti, senza ricorrere all'intuizione . }se\VKstetica tixisccndentac, dello spazio, a. 4: Tutti i i>rincipii della geometria, p. e. clic lue lati di un triangolo presi insieme sono pi grandi del terzo, nodittica dai concetti generali ili linea e di triangolo, ma dalla intuizione, ila una intuizione a priori . "ScWAnalit. trai della matematica non fanno i arte del sistema dei principi dell'intendimento puro, perch essi non sono presi che dalla intuizione, e non dai concetti dell'intendimento. E pi oltre, nello stesso cap.,sez. 3: Vi hanno dei principi puri a priori che io non posso i)ropriamonte attrihuire all'intendimento puro, perch essi non derivano da concetti puri, ma da intuizioni pure (iegazione ci abbandona precisamente al punto in (Uii una spiegazione diventa necessaria, vale a dii'e quando arriviamo alle generalit pi alte della scienza (Noi abbiamo gi osservato che Kant ebbe il torto di non vedere chiaramente ch'era necessario di distinguere con i'iuw i i^rinn })rincipii delia matematica, sui (juali doveva portare il suo esame, e le proposizioni derivate). La sua spiegazione  si poco propria a dar conto di questi princi]>ii generali, che, quando egli incontra gli assiomi la cui natura sintetica  la meno contestabile, vale a dire gli assiomi sulle eguaglianze, egli non sa decidersi a riconoscere il loro carattere sintetico Un piccolo numero di principii supposti dai geometri. iUcc ueW Introduzione, V. n. /., sono in verit analitici, e rii^osano sul principio di contraddizione; ma i)ure non servono, come ]>roposizioni identiche, che all'incatenamento del metodo, e non hanno alcun valore come princiii. Tali sono p. e. gli assiomi: a=:-a, un tutto  uguale a se stesso, o (a4-b)> a, cio il tutto  pi grande della parte. E tuttavia questi assiomi in se stessi, quantunque valevoli secondo semplici concetti, non sono ricevuti nelle matematiche che perch essi possono essere rappresentati in intuizione. Ci che ci fa generalmente credere che il predicato, in questa sorta di giudizi apodittici, si trova gi far parte del nostro concetto, e che il giudizio  per conseguenza analitico,  semplicemente l'ambiguit dell'espressione. Noi siamo obbligati ce aggiungere un certo predicato a un concetto dato, e questa necessit tiene gi ai concetti. Ma la quistione non  questa: Che dobbiamo noi aggiungere per il pensiero a un concetto dato? 3:^8 strettamente generali. Kant ha stabilito, analogamente a questo principio, che noi possiamo applicare agli oggetti reali deiresperienza i giudizi l'ondati suirintuizione pura o anticipata, perch gli oggetti reali delFesperienza proma (iiicst'aitra: Che vi i)eiisiarno noi realmente. (iuantun(iiie oscuramente? Si vede allora clie il predicato aderisce necessariamente a questo concetto, non gi come concei)ito nel concetto stesso, ma col mezzo di un'intuizione che deve aggiungervisi. hi questo luogo sono contenute due asserzioni contradittorie, che non si vede come possano conciliarsi: secondo la prima, questi assiomi sono l)roposizioni analitiche, secondo lultima, sono ]>roposizioni sinteticheSe il pensiero di Kant dovesse desumersi da piesto solo luogo, si sarehbe fondati ad attribuirgli almeno la st.'ssa esitazione risjHnto ai grandi assiomi delle matematiche: due grandezze uguali ad una terza sono uguali fra loro; aggiungendo grandezze eguali a grandezze eguali, le sonane sono eguali. Infatti la natura sintetica di queste i>roposizioni  pi evidente che quella delle proposizioni indicate da Kant. Ma altrove Fautore sembra pi esplicito: Per quel che riguarda la quantit, cio la i-isposta alla quistione: Qual  la grandezza di una cosa?, bisogna osservare che sotto (juesto rapporto non vi ha propriamente alcun assioma . (juantunciue molte di (juesta sorta di proposizioni siano sinteticamente e nnnediatamente certe (indemonstrabilia): perch che l'eguale aggiunto all'eguale o tolto dair eguale dia 1' eguale, sono queste delle proposizioni analitiche, poich io sono immediatamente certo dell' identiti della produzione duna quantit con l'altra, invece che gli assiomi devono essere dei principii sintetici . Al contrario le proposizioni evidenti esprimenti i rai>porti numerici, come le prol^osizioni geometriche, sono in verit assolulamente sintetiche, ma non generali, e non possono, precisamente per questa ragione, chiamarsi assiomi, ma solamente formule numeriche. Che 7-^5=12 ncm vi ha l nienie d'analitico QuantmKjue (fuesta proposizione sia sintetica, essa non  tuttavia che una proposizione singolare {Analit.). Lange riconosce la natura sintetica delle in'oposizioni che qui Kant dichiara analitiche. Le proposizioni matematiche, dice (luest'autore, dacch esse sono dimostrate per l'intuizione, svegliano tosto la coscienza della loro generalit e della loro necessit. Cos p.e. per mostrare che 7 e 5 fanno 12, io mi servir dell'intuizione, facendo un'addizione di punti, di lineette, di piccoli oggetti, ecc. In questo caso, l'esperienza m'indica solamente che i punti, lineette, ecc. ^ U t cedono dairintuizione pura. Ma con ci la necessit e la stretta universalit di questi giudizi non  spiegata ancora: non  dimostrato come, le condizioni generali deir intuizione pura, di cui gli assiomi sono Tespressione, non pr determinati m'hanno (luesta volta condotto a (luesta somma precisa Lix generalizzazione rapida e assoluta di ci che si e visto una volta non pu, spiegarsi che per la convinzione che tutti i rapporti numerici sono indipendenti dalla struttura e dalla disposizione dei corpi contati. La proposizione che i rapporti numerici sono indipendenti dalla natura degli oggetti contati e essa stessa una verit a priori.  facile di provare che essa e inoltre sintetica (Stor.rfel materiale ^. trad. Iranc.) ora la lroposizione di cui parla il Lange non  che l'assioma fondamentale  a grandezze eguali aggiungendo grandezze eguali le somme sono euuali, con gli assiomi secondari che ne derivano, come: da grandezze eguali togliendo grandezze eguali i resti sono eguali, occ V il primo assioma che ci autorizza, dopo aver verificato in un caso particolare che 7 -5--= 12, ovvero che 7-1^8, a stabilire m generale che in un altro caso qualunque 7 n saranno pure eguali a p> e 7 il offuali ad 8. Di qui si vede ancora che le sole proposi'zni generali indimostrabili della scienza dei numeri sono gli assiomi fondamentali sulle eguaglianze _ Kant dichiara, corno si  visto, analitiche (lueste propos.ziom: ma la cosa si ammetter difncilmente, dopo che si  gin ammesso che queste altre proposizioni: 2il^.3, 3-M^4. ecc. (che sono le sole formule numencie, per usare il linguaggio di Kant, che non possano dimostrarsi) non sono analitiche . ma sintetiche. K mteress-nte per l'apprezzamento della dottrina Kantiana, non che della  one onerale dei giudizi in analitici e sintetici, di confrontare emione e essere del loro avviso, perch quest ass omo, appartenendo .juanto gli altri alla nostra intuizione pura o forma^, non pu essere meno degli altri necessario ed a priori rll A' ??'",' ' Vnm-x^W sintetici delPintendimento puro iAnaht I., r.,,e^.S) dei principii mcacmmri, che Kantdisfmgue da. dinamici. Essi corrispondono alle categorie dello quantit e della qualit, e sono: il principio .leoli assk.nu deWinUU^o/if.Ogn. fenomeno  una grandezza estensiva ( un a^rgregato ^ w > di una lenta evoluzione scientifica, ma il patrimonio comune di ogni uomo c/ie viene in (jiiesto mondo. Per il principio di causalit,  una dottrina concorde degli avversari deirenpirismo che esso  una conoscenza innata o una necessit del i>ensiero, e non un })rodotto deiresperienza. Ma bastei^bbe la credenza quasi generale nel libero arbitrio per escludere la supposizione di una necessit del pensiero, che ci porti ad attribuire ad ogni avvenimento una causa determinante. Di pi vi sono stati dei filosofi, come tutta la scuola di Epicuro, che hanno ammesso una simile indeterminazione anche nei tatti del mondo materiale: Kant ha bel chiamare impudente EpicuiX) ixr questa sua dottrina, il tatto stesso che essa  stata anmiessa, costituisce una pix)va contro la teoria Kantiana che vede nella causalit una l'orma o una legge necessaria del soggetto conoscente. D'altronde questa distinzione tra i tatti del mondo moi'alc e quelli del mondo materiale non sarebbe ammissibile che al i)unto di vista delTuomo moderno che partecipa pi o meno alla coltura scientifica: non sarebbe un'ironia di dire che il selvaggio, o semjJicemente Fuomo superstizioso, il quale, in tutti i fenomeni della natura che sorpassano la sua stretta capacit di comprendere, vede Teffetto della volont capricciosa di agenti spirituali, creda alFincatenamento delle cause e degli eftetti, cio all'ordine uniforme o al determinismo universale, nei tatti del mondo materiale? Quanto ai due criteri di cui Kant si serve per distinguere questa sorta di proposizioni dalle sperimentati, noi abbiamo notato che, per ci che concerne Tassoluta universalit, si possono lare due quistioni distinte, quella, per dir cosi, del fatto, e quella del dritto. Alla prima cpiistione, cio se gli uomini sogliono effettivamente riguardare come assolutamente universali delle proposizioni indiscutibilmente ricavate dalFesperienza, noi aljbiamo gi risposto nftermativamentc: alla seconda, cio se alle gencralizzazioni delFesperienza si ha il diritto di accordare una universalit rigorosa, la precedente discussione ci autrjrizza a rispondere pure affermativamente, perch ci ha dimostmto l'insuccesso di ogni tentativo, come (luello di Kant, di fondare fuori delFesperienza la legittimit delle nostre conoscenze. In quanto all'altro criterio,  chiaro che le jn^oposizioni che Kant chiama traHcendeaiali, non possono affatto aspirare alla necessit dei principii della matematica. Sarebbe per noi certamente incredibile che un'eccezione al principio di causalit avesse luogo: ma quantunque sappiamo con certezza che tutti gli avvenimenti sono subordinati a questo principio, noi possiamo tuttavia immaginare che il contrario potrebl)e accadere di quello che sappiamo che eftettivamente accade. Lo stesso Kant ne conviene: Una proposizione sintetica della ragion pura e trascendentale  ben lungi, egli dice, dall'essere cosi evidente che la proposizione che due (i due fanno quattro. La filosofia non ha assiomi, e non le  permesso d'imporre puramente e semplicemente i suoi principii  biettivamente valido, senza una giustificazione o una deduzione conveniente. Una tendenza subbiettiva a credere non potrebbe i)er se stessa provare la legittimit della credenza. Neir ipotesi delF esistenza delle idee o dei giudizi a priori, non vi Jia niente che si possa opporre alla supposizione di giudizi a jtriori falsi ed illusori. Questa su^)posizione  stata di fatto ammessa: c cap. 0^);  il successo del metodo deduttivo in queste scienze che ha dato sovratutto occasione a pensare che si potrtbbe costruire a priori la scienza dell'universo reale cosi bene che quella dei numeri e delle figure. L^na ricerca minuziosa sull'origine e sulla natura dellevidenza particolare alla matematica non sar dunque uno sterile esercizio del pensiero e una vana micrologia, ma una preparazione indispensabile alla soluzione delle quistioni flosoficiie a cui il nostro spirito non cesser mai d'interessarsi, sul valore e sui limiti delle nostre conoscenze, sulla legittimit dei metodi proposti per perfezionarle, e sui principii che governano lo sviluppo della intelligenza umana. Gli empiristi hanno avuto torto di negare Y apriorit delle matematiche pure, che  la particorit pi saliente per cui esse si distinguono dalle scienze naturali e da tutte le altre scienze in generale: ma (juesta apriorit delle proposizioni delle matematiche non deve intendersi in un senso che escluda Torigine empirica o induttiva delle premesse di queste scienze. Essa consiste unicamente in ci, che le osservazioni, di (]ui queste premesse sono le generalizzazioni, non hanno bisogno di essere fatte sulle cose stesse, ma basta di contemplare le idee di queste cose. Per sapere che due e due fanno quattro, clie due rette non possono chiudere uno spazio, che la retta  la linea pi breve fra due punti dati, ecc., non c* bisogno di osservare delle collezioni di oggetti reali, n delle rette materiali: Inasta airuopo di rappresentarci due coppie di oggetti e delle linee rette. Cosi pure basta di rappresentarci distintamente tre grandezze eguali in una situazione conveniente, per verificare lassioma che due grandezze eguali ad una terza sono eguali fra loro. La scuola empirista non ha negato (piesta i)ropriet delle verit evidenti per se stesse della matematica: il Mill specialmente ha mostrato che essa basta per rispondere alle obljiezioni della scuola intuitiva contro Torigine empirica o induttiva di ([ueste verit. Le nostre impressioni di forma, dice il Mill, hanno questa propriet parttcolare  clie le idee o immagini mentali rassomigliano esattamente ai loro prototipi e li rappresentano adequatamente per Tosservazione scientilica. Di l e dal carattere intuitivo delF osservazione, che in questo caso si riduce alla semplice ispezione, segue che, cercando di concepire due linee rette che chiudono uno spazio, non possiamo evocare a questo fine nelFimmaginazione le due hnee senza, per quest'atto stesso, ripetere Tesperienza scientifica che stabilisce il contrario  (Logica). Oltre alFobbiezione che si fa airorigine empirica degli assiomi perch hanno per essi Tinconcepibilit della negativa, si dice che se il nostro assenso alla proposizione che due linee rette non possono chiudere uno spazio provenisse dai sensi, non potremmo essere convinti della sua verit che per un'osservazione attuale, cio vedendo o toccando le linee rette; mentre, in fatto, essa  riconosciuta vera solo pensandovi . Di pi per quesf assioma particolare si pu aggiungere che la sua evidenza, in virt della testimonianza attuale degli occhi, lungi di essere necessaria, non pu nemmeno essere ottenuta cosi j: che due rette, prolungate airinfnito, dopo la loro intensezione, non s'incontreranno mai, e continueranno a divergere Tuna dall'altra j> c( non pu provarsi in un caso particolare per un' osservazione diretta , perch non si possono seguire le linee all'infinito. A queste due obbiezioni si sar risposto d'una maniera soddisfacente, se si tien conto d'una delle propriet caratteristiche delle forme geometriche, che le rende atte ad essere figurate nell' immaginazione con una chiarezza ed una precisione eguali alla realt ; in altri termini, della perfetta rassomiglianza delle, nostre idee di forma con le sensazioni che le suggeriscono. Noi siamo perci in istato, prima, di farci (almeno con un po' di pratica) delle immagini mentali di tutte le combinazioni possibili di linee e d'angoli, che rassomigliano alle realt cosi esattamente che quelle che si potrebbero tracciare sulla carta; e in seguito, d' esperimentare geometricamente su queste immagini cosi sicuramente che sulle realt stesse; atteso che queste pitture, se esse sono sufficientemente esatte, manitestano tutte le propriet che sarebbero esibite dalle realt a un momento dato e per una semplice vista. Ora in geometria  di queste propriet che noi abbiamo ad occuparci, e non di ci che non potrebbe essere mostrato per delle immagini, Fazione mutua dei corpi gli uni sugli altri Queste considerazioni distruggono pure l'obbiezione l'ondata suirimpossilnlit di seguire ocularmente le linee prolungate air infinito. Perch, bench per vedere attualmente che due linee date non s' incontrano mai, sarebbe necessario di seguirle air infinito, noi possiamo tuttavia sapere, senza di ci, che, sedesse s'incontrassero, 0 se, dopo essersi allontanate, cominciassero a ravvicinarsi, ci dovrel)be accadere, non ad una distanza infinita . ma ad una distanza Unita, Supponendo dunque che  cosi, noi possiamo trasportarci in immaginazione a questo punto, e rappresentarci mentalmente ra[)parenza che presenterebbero l le due linee, apparenza a cui dob'biamo fidarci come assolutamente simile alla realt. Ora, sia che noi consideriamo (juesta pittura immaginaria, sia clie ci rammentiamo le generalizzazioni d'osservazioni oculari anteriori,  sempre la testimonianza deiresperienza che c'insegna che una linea retta che, do^Kj essere stata divergente da un'altra retta, comincia a ravvicinarsene, produce sui nostri sensi l'impressione che si designa per l'espressione di linea curva, e non per quella di linea retta (Logica). Quando si tratta I. linea retta, e non una linea spezzata o curva. Noi abbiamo bisogno di sapere che la Ibtografia rappresenta adequatamente Toriginale, per essere in grado di descrivere coscienziosamente quest'originale sulFosservazione della sola immagine, perch qui le nostre proposizioni sarebbero esistenziali. Esse stabilirebbero che esiste un animale rea,le, avente una tale forma esteriore o una tale struttura. Ma una proposizione geometrica relativa alla retta non stabilisce sulla retta niente di simile. La quistione qui sollevata dal Mill corrisponde alla difficolt dei Kantiani: donde sappiamo che le linee ideali si comportano come le linee reali? I Kantiani rispondono:  che stabiliamo quest'accordo noi stessi. Mill risponde invece: lo sappiamo per Tesperienza. Nella quistione presentata sotto questa forma vi ha un equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis]: la vera quistione non : perch sappiamo che le linee reali rassomigliano esattamente alle linee ideali? ma  invece: percii noi attribuiamo alle linee o alle formi reali i mutui rapporti che noi apprendiamo dall'osservazione delle linee o forme ideali? Il Mill nella sua risposta ad una critica si approssima alla vera soluzione. Il W'ewell aveva obbiettato che non si vede perch la rassomiglianza C(jn gli oggetti reali sareljbe considerata come particolare alle idee di spazio. A cui il Mill risponde: La particolarit non  che di grado. Nessuno potrebbe rappresentarsi un colore o un odore d'una maniera cosi distinta e completa che una retta o un triangolo. Nondimeno proporzionalmente al loro grado possibile di esattezza, i nostri ricordi degli odori e dei colori possono essere dei soggetti d'esperienza, cosi bene che quelli delle linee e degli spazi, e possono autorizzare delle conclusioni che saranno vere dei loro prototipi esteriori. Una persona in cui, sia naturalmente, sia per l'esercizio del senso, le sensazioni di colore sono molto vive e distinte, potr, se gli si domanda (juale di due fiori turchini ha un colore pi carico, dare una risposta soddisfacente sulla sola fede dei suoi ricordi, quand'anche non li avesse mai comparati, e nemmeno visti insieme; vale a dire che essa potr esaminare le sue immagini ^  Ogni proposizione dell'aritmetica e dell'algebra staljilisce, al fondo, delle eguaglianze o delle ineguaglianze. (xJuando nel calcolo aritmetico si mette il segno = fra i dati dell'operazione proposta e il risultato di quest'operazione, ovvero quando nel calcolo algebrico questo segno si pone fra due espressioni distinte, ci che si afferma non  semplicemente, come si ix)trebbe credere, che vi hanno due espressioni diverse iVuna stessa quantit, nel senso che la differenza consisterebbe unicamente nelle espressioni ma la cosa espressa sarebbe identica; al contrario, ci che si afferma sono delle relazioni fra cose realmente distinte. Fra 7+5 e 12 non vi ha identit assoluta, ma solo egualianza: 7+5 designa due gruppi di oggetti . ma 12 designa un gruppo unico; e la proposizione 7+5=12 afferma che i due primi gruppi presi insieme sono numericamente eguali al terzo gruppo. 7+5 e 12 possono anche denotare gli stessi oggetti, 7+5 prima della loro riunione in un gruppo unico, e 12 dopo questa riunione: ma la disposizione di questi oggetti, il loro modo di aggregarsi sarebbe diverso prima e dopo la riuninione. 11 risultato della somma potrebbe anche considerarsi come rappresentante, non un gru[)po unico, ma due grup])i formati, l'uno d'una decina, l'altro di due unit, perch in un sistema razionale di numerazione la valutazione di una somma di numeri per il numero totale pu essere riguardata come l'affermazione dell'equivalenza tra la soimna data e un'altra somma diversamente formata secondo un metodo generale, e che si esprime per il nome del numero o, in generale, il suo segno: nel sistema decimale, p. e., quest'ultima somma consiste nell'addizione di un numero di unit semplici e di numeri d'aggregati costituiti ciascuno da una delle })0tenze successivi di dieci. Della stessa maniera IX^ ~^^ afferma l'eguaglianza numerica fra quattro grup[)i di cin({ue oggetti ciascuno e un gruppo unico di venti o (kie di dieci. Cosi ancora in questa eguaglianza: (:}+2)''=*r^ +2 (3.2)+2~, la quantit indicata nei due mem])ri dell'eguaglianza  in un senso la stessa, ma la struttura interna, per dir cosi, di questa (juantit (come si potrebbe rappresentare sensibilmente per mezzo di i)untini segnati sulla carta) differisce nelle due espressioni: il modo di ag gregarsi delle unit, i gruppi che esse formano per la loro riunione, e i gruppi di second' ordine formati da questi gruppi, non che quelli di un ordine pi complesso ancora costituiti da questi gruppi di gruj^pi, sono diversi. Siccome noi abitualmente valutiamo i gruppi di (luantit, affermandone l'equivalenza con un dato numero, cio con un mm^imi&.^Ms^j..-.. aggregato formato secondo il sistema decimale, V eauaglianza suindicata pu interpretarsi, non come un rapporto immediato di eguaglianza fra i due membri, ma come un'equivalenza delluno e dell' altro allo stesso numero o aggregato del sistema decimale. La tbrmula (a -^ b ) ^ = a ^ +2 a b -i b ^  poi una proposizione generale, che indica un'infinit di equivalenze della stessa classe. Cosi pure la formula (a -} b) (a b) = a b 2 non indica un' identit reale fra due espessioni diverse^, ma delle equivalenze fra gruppi di quantit realmente distinti: essa dice che la somma di due numeri, a ( b, ripetuta tante volte quante sono le unit contenute nella differenza fra questi due numeri,  uguale ad un numero il quale, aggiunto a b^-, sar uguale ad a 2. Similmente la formula tv i^ ^^^, significa che il numero, il quale, ripetuto tante volte quanto sono le unit di b,  uguale ad a, se invece si ripete tante volte quante sono le unit di  e, sar uguale ad a e ; il che ancora indica, non un'identit assoluta, ma delle uguaglianze fra quantit e gruppi di quantit realmente distinte. Dagli esempi citati si vede facilmente di quale specie particolare sia l'eguaglianza con cui ha da fare la scienza dei numeri: si tratta sempre al fondo dell'eguaglianza numerica fra un aggregato o un certo gruppo di aggregati e un altro gruppo distinto di aggregati. Tale evidentemente  il ra[)porto che si afferma quando si fa un'addizione: in quanto alla molti[)licazione, essa non  che un caso dell'addizione, e l'elevazione a potenza un caso della moltiplicazione. Per le operazioni poi che sono le inverse di queste, la loro definizione mostra che esse si riconducono alle operazioni dirette corrispondenti. La sottrazione non differisce dall'addizione, se non perch ci l)e vedervi invece una proposizione di coesistenza, affermante l'unione dei due attributi. Quando una proposizione en\mcia clic da certe relazioni fra certi elementi delle figure dipendono altre relazioni fra altri clementi, si trover forse pi facilmente ancora che si tratti d\ina coesistenza. Cosi Spencer {Princ, di psicoL. ) nel teorema: In un triangolo al maggior lato  opposto il maggior angolo, vede un rapporto di coesistenza fra il maggior lato e il maggior angolo. Questo rapporto, egli soggiunge, non  semplicemente quello di coesistenza:  un rapporto di coesistenza in certe posizioni ris[)ettive . Ma  certo die il teorema non stabilisce che certe rette esistono insieme con certi angoli, o si trovano simultaneamente nelUo spazio, con una certa posizione rispettiva: questo intanto , alla lettera, il senso delle parole di Spencer. L^esistenza e la coesistenza delle rette e degli angoli  un dato, cio una supposizione, del teorema, jjerch 1' esistenza del triangolo stesso  un dato; ma queste affermazioni esistenziali sono affatto indipendenti dall'affermazione espressa nel teorema stesso. Esso aferma evidentemente, non una coesistenza tra grandezze, ma una coesistenza o dipendenza tra relazioni d'ineguaglianza definita, di cui queste grandezze sono dei termini. Si pu pretendere, continua lo Spencer, 'che in (jucsto caso come negli altri casi simili, i termini della relazione dovrebbero essere riguardati piuttosto come rapporti tra grandezze che com3 grandezze stesse. Per dilucidare questa quistione, esaminiamo il teorema: L'angolo che misura una semicirconferenza  un angolo retto. Qui la parola semicirconferenza  indica dei rapporti quantitativi definiti una curva di cui tutte le parti sono equidistanti da un punto dato, e di cui le due estremit sono riunite da una linea retta che passa per questo punto. Le parole angolo che misura una semicirconferenza ^ indicano altri rapporti quantitativi; negativamente quantitativi, se non positivamente quantitativi. E la cosa Secondo Spencer una proposizione geometrica die concerne soltanto la posizione, senz'alcun rapporto metrico,  negativamente fjuantitativa. V. Classcuone delle scienze, tamia I. fi: i3 I affermata  che con questo gruppo di rapporti quantitativi coesiste (luest'altro grupjo di rappor quantitativi, di cui la parola angolo retto indica l'esistenza fra le due linee che lo racchiudono.  In conclusione, secondo lo Spencer, questa proposizione: L'angolo che  nella semicirconferenza  retto, afferma la coesistenza dei rappjjrti che costituiscono l'angolo nella semicirconferenza  coi rapporti che costituiscono un angolo retto . Ora non  evidente che le espressioni di Spencer, se andassero prese alla lettera, impliclierebbero una realizzazione di astrazioni ? i rapporti che costituiscono l'angolo nella semicirconferenza hanno forse un'esistenza propria e separata dai (( rapporti che costituiscono l'angolo retto   Ma se non devono essere prese alla lettera, non vi ha altro in esse che un'espressione tortuosa del .fatto che l'angolo che  nella semicirconferenza ha quelle relazioni metriche determinato che noi inchcliiamo con le parole a/Kjolo retto. Il teorema non afferma dunque che un rapporto d'eguaglianza, il fatto che la parola retto indica non essendoaltro che un tale rapporto, come risulta dalla definizione dell'angolo retto: che si legga infatti in Euclide la dimostrazione di questo teorema; si vedr che ci che si dimostra  che l'angolo in quistione  uguale al suo angolo conseguente. Se una propriet astratta non deve mai considerarsi come avente, n realmente n mentalmente, un'esistenza distinta, ma risolversi sempre in una relazione fra termini concreti (ammenoch noi non vogliamo rinunziare a tradurre le parole nelle idee che esse significano); tanto meno sar permesso di trattare una determinazione quantitativa come qualche cosa che pu esistere o pensarsi all'infuori di una relazione. Che una determinazione metrica sia l'espressione di un rapporto fra due grandezze date, o che essa esprima la misura di una grandezza in modo che l'altra con cui essa viene paragonata non sia particolarmente indicata; il fatto  sempre che una determinazione tale non [)ii acquistare un'esistenza mentalmente distinta che per la comparazione di certe grandezze con altre grandezze. Se si considera una proposizione enunciante una propriet metrica o come analitica o come Faffermazione di una coesistenza (nel senso di cui abbiamo i)arlato), si dimentica questo fatto evidente, o si rinunzia volontariamente a rendere conto del pensiero per il i)ensiero stesso e non i)er la sua espressione verbale. Secondo alcuni autori, l'eguaglianza applicata alle grandezze estese non  altro che la coincidenza sensibile: quando noi diciamo che due grandezze sono eguali, noi vogliamo dire che esse coincidono o pjssono coincidere. Euclide stesso definisce Teguaglianza: la coincidenza visil)ile delle grandezze est(?se. ^Nla dice )ene il Mill: LY^guaglianza di due grandezze geometriche non pu differire essenzialmente da ([uella di due pesi, di due gradi di calore o di due intervalli di tempo, cose a cui questa pretesa definizione deireguaglianza non converrebbe affatto. Nessuna (U queste cose pu essere ai)plicata Funa sull'altra in modo da coincidere, e pertanto noi comprendiamo perfettamente ci che vogliamo dire quando le chiamiamo eguali. Delle cose sono eguali in estensione, in peso, quando costatiamo fra di loro ima somiglianza completa neirattrilmto che vi consideriamo. Applicando degli oggetti run(j suir altro nel primo caso, cosi jene che pesandoli per mezzo d'una bilancia nel secondo, noi non facciamo che porli in una posizione, in cui i nostri sensi possono riconoscere il diletto d'esatta rassomiglianza, che senza di ci ci sarebbe sfuggito {Logica). La coincidenza non  dunque che un mezzo, il pi sicuro, per costatare o percepire l'eguaglianza fra le grandezze estese; ma non pu essere nemmeno l'unico mezzo. Quando noi facciamo coincidere due grandezze, noi non ne con(^dudiamo soltanto che esse sono eguali nel momento in cui coincidono, ne concludiamo anche che erano e saranno eguali prima e dopo la coincidenza. Noi facciamo cosi, perch sappiamo che ordinariamente gli oggetti conservano, almeno d'una maniera approssimativa, la stessa grandezza, cio restano eguali a se stessi. Conosciamo noi ci unicamente perch abbiamo misurato pi volte gli stessi oggetti in tempi differenti? ma questo suppone la conoscenza che l'unit di misura stessa abbia conservato una grandezza determinata, cio sia restata uguale a se stessa  chiaro dunque che la nostra conoscenza delle eguaglianze suppone necessariamente almeno un mezzo di accertarci che una grandezza ^ uguale a se stessa in due momenti diversi, indipendente dall'applicazione delle grandezze l'una sull'altra; e che cosi l'eguaglianza delle grandezze estese e la loro coincidenza non possono essere una sola e stessa cosa. . ()^\ Si ammetter facilmente che i teoremi della geometria, che hanno per oggetto le relazioni metriche delle grandezze, sono delle proposizioni comparative ; ma si trover forse pi difficolt ad ammettere lo stesso per i teo remi che non hanno quest'oggetto. I geometri moderni dividono la scienza in due campi: la geometria della m/sura e la geometria di posizione. Alla prima appartengono i teoremi che considerano le relazioni di grandezza, cio le relazioni quantitative fra grandezze estese; alla seconda i teoremi che considerano i rapporti di posizione scambievole delle figure e dei loro elementi. Le pro})riet dunque, che sono l'oggetto dei teoremi di quest'ultima specie, sono, non delle propriet metriche o quantitative, ma grafiche o descrittive (V. tra altri Reye Lezioni di geo^ metria di posizione, Introduzione, e Ballzer Elementi di matematica, parte J% /, 0.) Alcuni dei teoremi di posizione stabiliscono che fra Noi ntondiauo la rarola in un senso pi loto di quello in E l'oggetto della conoscenza a priori certi punti, lince e superfcie certi rapporti di posizione sono 0 non sono possibili; come: Un poligono regolare pu essere inscritto o circoscritto ad un cerchio; Due cerchi non possono segarsi in pi di due punti; ecc. Ma la pi parte si propongono un altro quesito, clie noi possiamo formulare di questa maniera: in un sistema di punti, linee e superfcie, da dati rapporti di posizione reciproca, inferire altri di questi rapporti. Come esempi di questa seconda classe, la pi importante, dei teoremi di posizione, rammentiamo il teorema di Pascal: In .ogni esagono inscritto in una curva del secondo ordine, i punti d'incontro dei lati opposti sono in linea retta; e quello di Brianchon: In ogni esagono circoscritto ad una curva del secondo ordine, le diagonali che congiungono i vertici opposti si tagliano in uno stesso punto. A prima vista potrebbe sembrare che queste proposizioni, stabilendo che certi punti e linee sono in certe posizioni rispettive, ci che si afferma sia una coesistenza, quella specie di coesistenza che Alili chiama ordine nel luogo, {Logica). Tale sarebbe laffermazione, se la proposizione stabilisse, d una maniera assoluta, che certe cose si trovano in una certa posizione scambievole^ ma le nostre proposizioni non lo stabiliscono che condizionalmente. Ora date le condizioni, cio date le grandezze coi rapporti dati di posizione, il sistema si trova interamente determinato, e ci die dipende dalle condizioni o dai dati,. cio i rapporti dimostrati,  quindi implicitamente contenut(j nei dati stessi. Che si costruisca la fgura: s inscriva un esagono, p. e., in un cerchio, e si prolungliino i cui ordinariamantc rimpiegano i f>:eo metri: (luamlo tra forme metricamente determinate il teorema stabilisce dei rapporti di posizione, esso potrebbe classarsi fra i metrici: ma noi i>referiamo di vedervi un teorema di posizione, poicli il suo ogi^etto non  di stabilire dei rapporti quantitativi, ma dei semplici rapporti di l'osiyione. r lati opposti sino ai punti d'incontro ; queste, nel primo teorema, sono le condizioni date; ma per queste condizioni la fgura si trova assv)lutamente determinata, con tutti i rapporti di posizione scambievole fra i suoi elementi, tra di cui quelli stessi fra i punti d' incontro dei lati opposti. Cosi per il secondo teorema: circoscritto un esagono ad un cerchio, e congiunti i vertici opposti con le diagonali, questa circostanza, che le diagonali si tagliano in uno stesso punto, non  un fatto nuovo che si aggiunge ai precedenti; il teorema dimostra appunto che essa vi  necessariamente compresa. E evidente dunque che le propriet della fgura che il teorema suppone come date, e le propriet -che il teorema dimostra, non potrebbero avere, nello spazio, un'esistenza distinta e separata. Ma esse non possono averla nemmeno nel nostro pensiero; poich, una propriet astratta non essendo per se stessa un oggetto distinto del pensiero, le nostre nozioni sulle forme sono anch'esse delle idee concrete, e queste non possono essere che delle copie o rappresentazioni delle forme reali che esistono nello spazio. Qui noi ci troviamo dunque in presenza di questa difficolt: una proposizione generale afferma sempre una uniformit, un rapporto costante fra pi fatti distinti ; riducendo a due questi fatti, essa afferma che il secondo dipende dal primo, e gli  invariabilmente congiunto. Un teorema geometrico non pu dunque esso stesso affermare che una di queste uniformft, o congiunzioni costanti di fatti distinti: ma non per tanto in questo caso il fatto  uno solo; la condizione e ci che  condizionato non sono due fatti, ma uno stesso fatto, se per fatto noi intendiamo ci che pu essere separatamente l'oggetto d'una percezione distinta dei nostri sensi. Intanto si deve ammettere che alle propriet distinte fra cui il teorema stabilisce una connessione, corrispondono dei fatti realmente distinti: bisogna dunque cercare altrove questi fatti distinti che vengono posti in connessione. Kainineiitiaino brevemente il risultato di una precedente ricerca: un attributo astratto non  che il legame d'una cosa con una denominazione generale, la sua capacit di riceverla; denominazione a cui non corrisponde altro, come Tatto distinto, che una relazione definita di somiglianza dell'oggetto a cui si applica, con una certa classe di oggetti. Che cosa sono dunque le pro[)riet o attributi, ira cui il teorema di Brianchon stabilisce una connessione  Sono anzitutto delle denominazioni che noi possiamo applicare alle grandezze, da cui la figura  costituita, sia considerate assolutamente, sia considerate nei rapf)orti scambievoli di posizione; le parole esaf/ono, circostn'ito, cnrva del secondo ordine, diagonali, ecc. indicando la (jualit di queste grandezze o la loro posizione rispettiva. Il teorema stabilisce die, tutte le volte che noi possiamo applicare queste denominazioni: un esagono, circosar ilio ad una curca del secondo ordine, i vertici opposti del (piale sono congiunti dalle diagonali, noi possiamo anche dire che queste diagonali si tagliano in un sol punto. Ala se si domanda quali siano i l'atti clie corrispondono a (jueste denominazioni distinte, e su cui esse sono l'ondate, si deve rispondere che, in questo caso come in tutti gli altri, bisogna distinguere nelle parole un doppio significato: esse indicano i latti obbiettivi, cio gli oggetti delle nostre percezioni e delle nostre rappresentazioni, e li classano al tempo stesso. Ora, come abbiamo detto, i fatti obbiettivi indicati non sono, in questo caso, distinti: le parole che enunziano i dati ole supposizioni del teorema, e quelle che enunciano ci che dipende da queste supiX)Szioni e che il teorema deve dimostrare, non indicano due fenomeni, che siano ciascuno T oggetto di una percezione o una rappresentazione distinta. Ala queste parole significano pure delle classazioni: alle denominazioni distinte corrispondono degli atti mentali distinti, per cui noi classiamo le grandezze a, cui esse si applicano, sia considerate assolutamente, sia considerate nei loro rapporti scambievoli di posizione; e questi atti mentali si risolvono, come si sa, in affermazioni di somiglianze definite. Cosi una proposizione della geometria di posizione afferma, come qualsiasi altra proposizione generale, una uniformit, una dipendenza o connessione tra pi fatti distinti: ma questa connessione non  tra fenomeni obbiettivi distinti, come nelle proposizioni suiresistenza, ma solamente fra denominazioni distinte, da una parte, e dalTaltra, se noi vogliamo andare al di l delle [)arole, fra i rapporti distinti di somiglianza, che costituiscono le classazioni su cui queste denominazioni sono fondate. I rai)porti di somiglianza in cui si risolvono queste classazioni, non sono i soli che siano implicati in un teorema di posizione. Siccome il teorema non  vero in un sol caso particolare, ma in tutti i casi, noi dobbiamo aggiungere, come per tutte le proposizioni generali, un alti-a somiglianza, cio Tuniformit che ci permette di generalizzare. Infine, i)er ima gran parte di proposizioni, ve ne ha un' altra ancora che non si deve negligere: i numerosi teoremi in cui, come in (pielli che abbiamo citati, si dice che pi rette si tagliano in uno stesso punto o pi i)unti si trovano in una stessa retta, contengono i)ure evidentemente Taftcrmazione di una concordanza nella I)Osizione dei punti o delle rette che vi si considerano. Questa osservazione potrebbe estendersi a tanti altri casi; ma noi non ne parliamo che in linea secondaria, sembrandoci che questo non sia un carattere generale delle proposizioni geometriche di posizione. In conclusione, l'analisi delle proposizioni della geometria di posizione non ci d altre affermazioni reali che di soMiglianza ; risultato a cui si deve pervenire, d'una maniera o d'un'altra, tutte le volte che una proposizione non  esistenziale. Ogni affermazione essendo laftermazione di qualche fatto, una proposizione non pu che affermare, in senso lato, resistenza di certi fatti: se questi fatti non sono dei fenomeni sensibili, esterni ed obbiettivi, non possono essere che dei fenomeni interni e subbiettivi. Ora il solo fenomeno interno o suljbiettivo, con cui abbiamo da fare nella conoscenza obbiettiva,  la percezione o il sentimento di somiglianza che ci proviene dalla comparazione degli oggetti. Una proposizione geometrica dunque, non affermando niente suUesistenzadelle forme o delle grandezze stesse, non pu affermare che resistenza di somiglianze (o differenze; tra queste forme o grandezze. 7.^, ma a cui i geometri moderni danno quest'altra forma pi generale: Due rette che coincidono in due punti coincidono interamente  ; e V altro relativo al piano, cio, secondo Euchde, che Una retta che Jia due punti in un piano giace interamente nel piano . Oltre a ci le ricerche dei geometri moderni sulla teoria delle parallele hanno messo in chiaro che vi ha bisogno, per fondare questa teoria, d' un assioma speciale: quesf assioma  stato poco felicemente scelto da Euclide, e i geometri moderni gliene hanno generalmente sostituito un altro, che, espresso sotto una forma o sotto un'altra, sta5, in nota, dimostra alcuni degli assiomi secondari, deducenroposizioni ) cali e j^'imitive. cio indimostrabili. Del resto la distinzione fra gli assiomi e le definizioni rii)Osa sopra un fondamento logico, ed  a>l)astanza yrccisa.[/ assioma stabilisce una uniformit, un acco])piamento invaria))ile tra due fatti, in modo clie, il primo essendo dato, il secondo se ne ]ossa infei'ire. Ma la delnizione non serve come i)rincipio per fare delle inferenze, cio j-er passare da un fatto dato air altro che gli  costantemente legato: la definizione del cerchio, ]). e, non lia Io scopo di al)ililarci a fare lillazione: posto gi che ha i raggi eguali. Le definizioni duncjue, quantun(]ue siiuio proj^osiziorn /vah\ non sono, a pai'lar ]>ropriamente, delle [remesse della geouetria come gli assiomi: esse enunciano una propriet i>rimiMva di una forma geomctri(!a. la ((uale fa riconoscere (juesfjX forma, e alla (juale sdiranno legate tutte le altre iiropriet che verranno dimostrate una successione di sostituzioni, fatte in virt dei due assiomi fondamentali sulle eguaglianze: Quantit eguali aggiunte a quantit eguali danno quantit eguali; Due (]uantit eguali ad una terza sono eguali fra loro. Cosi, nella risoluzione delle equazioni, le sostituzioni che si fanno aggiungendo o togliendo una stessa quantit ai due memljri dell'equazione, moltiplicandoli o dividendoli amen due per la stessa quantit, hanno luogo in virt del primo assioma: ma quando nell'uno dei membri deirequazione si sostituisce ad una quantit il suo equivalente, si applicano tutti e due gli assiomi; in virt del primo si ammette che, per la sostituzione, il valore del membro deir ecjuazione in cui essa si fa non viene alterato, e in virt del secondo si ammette che Tequazione, cio T eguaglianza di questo membro con Taltro, sussiste ancora dopo la sostituzione, (ili stessi principii governano le operazioni deiraritmetica. Le operazioni sui numeri elevati si eseguiscono col metodo della divisione in operazioni parziali, metodo che suppone delle sostituzioni successive, ciascuna delle quali ha luogo in viri dei principii: Quantit eguali aggiunte a (luantit eguali sono eguali; Due (pianitt eguali ad una terza sono eguali fra loro. Siano da addizionare certi numeri: per mettere sotto gli occhi del letbjre un esempio, siano (>072 Secondo la regola, ciascun numero 7847 = 11819 si considera come composto di tanti numeri parziali, le unit di ciascuno dei quali sono di diverso oi'dine, il che  esattament conforme alla nozione del numero nel sistema decimale; e si fanno le somme parziali delle unit dello stesso ordine, sostituendo cosi ({ueste sonuue, i)rese insieme, ai numeri dati, o jnttosto a tutte le [larti, prese insieme, in cui i numeri dati si sono considerati comdecom|)Osti. Questa sostituzione  giustificata dairassioma che (Quantit eguali aggiunte a ciuantit eguali danno quantit eguali. Ma allo stesso tempo le unit dello stesso ordine che si trovano in queste somme parziali vengono esse stesse sommate, quando il risultato della somma delle unit di un certo ordine contenendo unit d'ordine superiore, queste ultime si riportano per unirle alla somma delle unit del loro ordine. Che il risultato cosi ottenuto sia eguale alle somme parziali primitive prese insieme,  ancora una conseguenza dall' assioma che Quantit eguali aggiunte a quantit eguali sono eguali; ma che esso possa sostituirsi a queste somme parziali nel rapporto d'equivalenza che lega queste ultime ai numeri dati, e venga perci riconosciuto eguale a questi numeri, ci avviene in virt dell'assioma che Due quantit eguali ad una terza sono eguali fra loro. Merc la divisione in operazioni parziah, le operazioni sui numeri di pi cifre si riconducono a quelle sui numeri d'una sola cifra; e l'aritmetica suppone come conosciuti i risultati dell'addizione e moltiplicazione di due qualunque di questi ultimi numeri. Ci per non vuol dire che essi non siano suscettibili di essere dimostrati; poich per tutta la serie dei numeri, ammesso che ciascun numero della serie si forma per l'addizione del mimer immediatamente inferiore e dell'unit, si possono dimostrare tutti i differenti modi di formazione di ciascuno per l'addizione di numeri minori. Si pu, p. e. dimostrare che 7+5= 12, ragionando di questa maniera: 5= l-f-4; aggiundendo ({uantit eguah, 7+5= 7+1+4; ma 7-f 1= ^; aggiungendo quantit eguali, 7+1+4= 8+4; e siccome due quantit eguali ad una terza scno eguali fra loro, 7+5= 8+4. Della stessa maniera si dimostra che 8+4= 0+:^, e quindi, perch due quantit eguali ad una terza sono eguali fra loro, 7+5= 0+3; e dimostrato similmente che 9+:]= 10+2, si dimostra infine che 7+5= 10+2 o 12, queste due ultime espressioni essendo assolutamente identiche di senso nel nostro sistema di nume i razione. Aggiungiamo che (jucste proposizioni stesse, le quali stabiliscono l'eguaglianza fra un numero e il numero immediatamente inferiore pi l'unit, non sono tutte ugualmente primitive: se quelle che concernono i pnmi dieci numeri devono ritenersi come primitive, le altre al contrario possono ritenersi come derivate. Cosi che 1^+1=15 pu a buon diritto considerarsi come una verit dedotta; infatti 14 non significando altro per noi che una decina e quattro unit, e 15 non significando altro che una decina e cinque unit, conosciuto che 4+1=5, noi ne possiamo inferire che, aggiungendo ai due membri di questa eguaglianza una stessa quantit, cio una decina, l'eguaglianza non viene alterata. Per non dobbiamo concluderne che queste sole verit immediate sulle eguagUanze numeriche, che sono il minimum indispensabile alla dimostrazione, siano evidenti per s stesse, e non vi siano altre conoscenze immediate ed evidenti della stessa maniera sulle eguaglianze numeriche: al contrario,  chiaro che noi conosciamo die due e due fanno (luattro e che tre e due fanno cinque d'una maniera cosi intuitiva come conosciamo che quattro e uno fanno cinque. Come dunque le premesse della geometria si riducono agli assiomi sull'eguaglianza pi altre poche verit particolari ugualmente evidenti per se stesse, assiomi o definizioni, ciascuna delle (juali enunzia una propriet di (jualche forma geometrica; cosi le premesse della scienza dei numeri si riducono agli assiomi dell'eguagUanza, che essa ha comuni con la geometria, pi alcune poche verit particolari, che potrebbero pure in un certo senso chiamarsi assiomatiche, per le quali conosciamo le somme dei numeri pi piccoli. La quistione dunque sulla Noi faremo qui un'osservazione analoga a (juella fatta sulle dctlnizioni geometriche. Le proposizioni sui rapporti numerici, o per impiegare il linguaggio l\ Kant, le formule numeriche, che sonatura flelle conoscenze niateniaticlie vol^e in sostanza sulla natura di queste i)Oclie proposizioni primitive: sono esse, per conseguenza, che noi dobbiamo particolarmente esaminare. Cominceremo per istabilire il loro carattei*e sintetico. . S^. In quanto agli assiomi sulle eguaglianze, per non misconoscere il carattere reale o sintetico di queste proposizioni, basta non dimenticare queste due verit: Primo, che un rapporto d'eguaglianza  esso stesso un tatto allo stesso titolo che un tatto sensibile qualunque, in quanto TaiTermazione d'un rapporto di tale natura non  che l'affermazione clie in circostanza date noi avremo o }jotremmo avere certe percezioni definite, che noi cliia-miamo d'eguaglianza. E, secondo, che i termini d'un rapporto d'eguaglianza sono delle cose concrete, realmente distinte le une dalle altre. Se in due (juantit eguali non si vedono che due designazioni diverse d'uno stesso numero astratto, allora sar tacile di trovare nell'assioma. Due quantit eguali ad una terza sono eguali 1 ra di loro , una proposizione analitica, imphcata in questa nozione del numero e deireguaglianza numerica. Cosi la geometria, per il no delle verit primitive, non meritano rro]>ritniiente il nome di assionn' : ma ci  per un'altra ragione che le definizioni iieometriche.  die la generalizzazione contenuta in queste proposizioni, non e una verit ultima, che non possa dedursi dagli assiomi sulle eguaglianze, lo voglio dire die, se noi i^ossiamo annuettere in un caso i>articolare la verit di alcuna di queste ]>roposizioni. noi ])0ssiamo generalizzarla in virt degli assiomi generali sulle eguaglianze. Se io prendo per accordato, p. e., clietiuattro oggetti particolari pi un altro oggetto che stanno a me d'innanzi, sono eguali a cin(iue, io ])osso perci sta)ilire in generale che, in tutti i casi, juattro pi uno sono sempre eguali a cinque, in virt dell'assioma che Le somme di quantit eguali sono eguali. K co>i. p. e., che fu Ilelmholtz. V. Berne scientiff/ue sei'. 3. t. i4 !>. Notiamo il fatto che Ilelmholtz crede cie gli assiomi lell'aritmetica si ricavino dalla nozione stessa dei numeri, perch Ili .seguito ci sar utile di tenerlo presente. ,  una pro|)Osizione sintetica per le stesse ragioni che lassioma Due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra loro. In (guanto agU altri assiomi geometrici suUeguaglianza, quelli che, come il Bain {Logica lib. 5^ e. 1^ (j), negano che r eguaglianza fra le grandezze sia un fatto distinto dalla loro coincidenza, negano anche naturalmente il carattere reale o sintetico della loro pro}X)sizione Due grandezze che coincidono sono eguah . Noi abbiamo detto le ragioni per cui (juesta opinione non ci sembra ammissibile. Pi [)lausibile })are T opinione del Bain, quando egli contesta il carattere di proposizione reale all'assioma d'Euclide, che \^olf ha laboriosamente dimostrato: La parte  minore del tutto. Per, ben considerando la cosa, si trover che anclie questa proposizione  reale o sintetica, altro essendo l'intuizione passiva di un tutto e di una parte, ed altro la percezione d'un rapporto d'ineguaglianza, quale viene affermato nell'assioma. Nondimeno quest'assioma d' Euclide presenta una difficolt reale: cio come possa intendersi, senza fare una proposizione identica, che la parte  minore del tutto, mentre, come noi stessi abbiamo ammesso, una gran.lezza si dice minore d' un'altra, i: r;o::i:;zTTO dem.a conosci-nza a Piuofu 3S5 ;> (luando la prima  uguale a una parte della seconda. Noi crediamo che questa difficolta si risolva cosi: l'assioma d'Euclide  certamente una proposizione affermativa, ma essa implica delle proposizioni negative corrispondenti, cio che la parte non  uguale n maggiore del tutto, e sono queste che danno all'assioma un significato reale. Intatti nei numerosi casi in cui Euclide si serve dell'assioma nella prova per l'assurdo, mostrando che da una certa ipotesi seguirebbe che la parte sarebbe uguale al tutto o mnggiore, l'assioma realmente invocato  che la parte non potrebbe essere uguale n maggiore del tutto. Quando invece egli si serve dell'assioma nella prova diretta, cio ({uando, dopo aver detto che una grandezza  uguale a una parte d'un'altra grandezza, soggiunge che quindi essa  minore di tutta la grandezza, egli non fa in realt alcun uso dell'assioma, non facendo alcuna inferenza reale, perch dire che una grandezza  minore d'un'altra,  precisamente dire che la ])rima  uguale a una parte della seconda. Il Bain nega egualmente il carattere di proposizioni reali o sintetiche agli assiomi particolari della geometria, che enunciano una propriet d'una determinata forma geometrica: Due rette non chiudono uno spazio ,  per lui una proposizione identica o puramente verbale: che due rette chiudessero uno s[)azio sarebbe, egli dice, una contraddizione. Il Bain considera la proposizione, non come un assioma, ma come un corollario della definizione della retta, la quale, secondo lui, : quando due linee sonO' tali clie esse non possono coincidere in due punti senza confondersi l' una con F altra, esse sono chiamate linee rette. E nel fatto Tassioma d'Euclide non  che un caso particolare di quest'assioma pi generale che i geometri moderni ordinariamente gli sostituiscono: se due rette coincidono in pi di un punto, esse coincidono interamente . La proposizione negativa Due rette non chiudono uno spazio  non  che Tequivalcnte della i)i*oposizione aflermativa Due rette che lianno in comune i due ])unti che le limitano, coincidono; ed  questo latto che si dimostra effetti vamente per rap[)licazione dell'assioma, (piando questo viene invocato (v. Euclide lib. 1,'^ i)rop. 4^^). Ora che questa proposizione o r altra pi generale di cui essa  un caso particolare, debba })i correttamente esprimersi sotto la forma di un assioma o sotto (juella di una definizione,  inditTerente per la (piistione se la proposizione sia sintetica o analitica, perch  evidente che dare ad una proposizione reale la forma della definizione, non basta perch essa diventi verbale o analitica. Vi ha certaniente un aspetto sotto cui la proposizione pu semjrare semplicemente verbale: queste due espressioni, Due rette clie coincidono in pi di un punto , e Due rette che coincidono interamente , non designano dei fatti reali distinti, ma un solo e stesso fatto, a cui conviene tanto la ])rima (|uanto la seconda designazione. Se la prima designazione  applicabile, i fatti obbiettivi sono tali, che ci basta, senz'altro, perch la seconda sia pure applicabile, e non vi ha bisogno perci deir esistenza di nuovi fatti reali distinti. Due rette che coincidessero in pi di un punto, ma che non coincidessero interamente, sarebbero un non senso; non sarebbe possiljile alcuna rappresentazione reale corrispondente a queste parole. Ma le stesse osservazioni sono applicabili, come abbiamo visto, a tutte le proposizioni geometriche di posizione. Non ci sareljbe possibile alcuna intuizione o rappresentazione di oggetti nello spazio, in cui si trovassero i rap[)orti che la proposizione suppone come dati, ma non si trovassero quelli che essa dimostra. La coesistenza necessaria affermata in tali proposizioni, non  quella di due fatti reali distinti e separati, ma quella di due propriet astratte dello stesso fatto, cio, al fondo, delle possibilit di venirgli applicate due denomina1 \ i-r srr [.iMiT[ i: i/oggktto dktj.v conoscenza a imiioii 387 zioni distinte. Ma da ci non segue che le pro])Osizioni della geometria di posizione siano semplicemente verbali; perch quantunque ci che  dato e ci che  inferito non siano dei fatti obbiettivi distinti e sej^arati, sono nondimeno delle relazioni differenti sotto cui gli stessi fatti obbiettivi possono considerarsi, e queste relazioni sono anch'esse dei fatti di un certo ordine. In generale, noi lo sapi)iamo, le proposizioni della matematica pura non affermano r esistenza o la simultaneit o la sequenza di fenomeni obbiettivi, ma delle relazioni di somiglianza o di thfferenza tra questi fenomeni, e delle dipendenze tra queste relazioni; e noi abbiamo visto, in particolare, che in una [)roposizione geometrica di posizione vi ha almeno un minimum di affermazioni reali di questa natura, le quali consistono a stabilire clie, se certi oggetti possono entrare in certe classi date, essi 230ssono per ci stesso entrare pure in certe altre classi. Ora, facendo l'applicazione di (juesto principio alla proposizione in quistione, si vedr che essa  sintetica, perch afferma una unione di fatti distinti di una natura particolare, cio di relazioni distinte di somiglianza definita: essa stabilisce che Due linee che possono classarsi tanto fra le rette quanto fra le cose che coincidono in pi di un punto, potranno per ci stesso classarsi pure tra le cose che coincidono interamente. Ma ci non basterebbe al Bain per chiamare sintetica e reale la proposizione, poich per luilasempUce percezione della somiglianza o della differenza fa parte del la nozione stessa della cosa, e (juindi un giudizio affermante delle semplici somiglianze o differenze, egli non lo considera che come anahtico o identico.  Cosi mentre il Mill avea classato i significati delle proposizioni in affermazioni della coesistenza, della sequenza e della somiglianza (oltre quelle della semplice esistenza), il Bain non amm(3tte, come abbiamo gi detto, la terza classe, cio delle proposizioni sulla somiilianza, parche questa costituisce, secondo lui, un predicato identico o verbale, e alla somiglianza di Mill sostituisce la quantit oTeguaglianza. AUi le osservazioni precedenti sulle proposizioni delgeometria di posizione mostrano che vi ha una lacuna nella classazione del Bain: queste proposizioni non dei rapporti metrici o quantitativi, delle eguaglianze ; in quale classe devono esse rientrare? Il Bain non parla mai di tali proposizioni: esse non possono classarsi fra le proposizioni di coesistenza, perch, da una parte, sarebbe inesatto, come noi abbiamo osservato, di anniiettere che esse aftermano quella specie di coesistenza che VW chiama ordine nel luogo, e d'altra parte contentarsi di ammettere, come la talvolta il Bain per certe proposizioni, che la coesistenza atlermata  una coesistenza di attributi nello stesso soggetto,  rinunziare ad un'analisi rigorosa del vero contenuto delle proposizioni. La coesistenza nel tempo o nel luogo presenta un'idea chiara: ma cosa vuol dire coesistenza d'attributi, se non si vogliono realizzare delle astrazioni? Vuol dire semplicemente che certe forme verbali si possono applicare simultaneamente, riferendosi allo stesso soggetto: ma si tratta sapere quali siano le rappresentazioni reali corrisponalla predicazione di queste forme verbali. Se, come abitiamo detto, nelle proposizioni della geometria (U posizione le affermazioni reali si risolvono in relazioni delinite di somiglianza, che non  eguaglianza, l'eguaglianza o la quantit A una categoria troppo stretta per contenere tutte le proposizioni della matematica, e bisogna ritornare per questa parte alla classazione di Mill, cio mettere la somiglianza al posto della eguaglianza o della quantit. Perch il Bain vede in una specie della somiglianza (cio l'eguaglianza) un predicato reale, e non nelle altre specie? 11 criterio ch'egli sembra seguire  clie una verit d'inferenza  reale o sintetica, mentre una verit intuitiva  verbale o analitica: infritti tra i principii della matematica egli non riconosce come sintetici cJie i due assiomi generali sulle eguaglianze, i quali costituiscono secondo lui il solo fondamento induttivo della scienza. Ma questo criterio non pu servire di base a una classazione rma sotto diverse espressioni, non si comprende come il raziocinio porti all'estensione delle nostre conoscenze {Op. cit. t. 1. 70), egli cerca di evitare questa diflicolt, chepm'e inerente alla sua propria dottrina, mostrando che il raziocinio ordinariamente procede dal generale al particolare. Ma se nella dimostrazione della proposizione in quistione non vi ha che una sostituzione tra il defuiito e la definizione, non vi ha allora alcun' a pplicazione di un i)i'incipio generale, e l'inferenza  che T accompagna, al conti'ario, afferma un fatto che pu(') condurre a delle conseguenze pi o meno importanti ; esso afferma Y esistenza attuale o })0ssil)il( di cose clie {possiedono la combinazione d'attributi dichiaraata dalla delnizione; e questo fatt(j, se  i*eale, pu essere il fondamento di tutto un edifzio di verit scientifiche. Mill fa un'obbiezione alla propria dottrina: Non  vero che esista un cerchio a raa'gi esattamente eguali: i postulati implicati nelle definizioni non sono dun(iue coml)letamente veri. Vi ha dunque qualche difficolt a conce[)ire che le conclusione l certe rii)Osano su i>remesse, che, lungi di essere certamente vere, non sono certamente vere in tutta l'estensione che comi)orta la loro enunciazione. Ma, risponde l'autore a quest'obbiezione, vi ha altrettanta verit nel postulato, quanta ne bisogna {er portare ci che vi ha di vero nella conclusione. Le definizioni devono essere considerate corno le nostre prime e pi evidenti generalizzazioni relative alle figure quali esse esistono negli oggetti naturali. (Queste generahzzazioni, in ({uanto generalizzazioni, sono i)erfettamente esatte. I^' eguaglianza (U tutti i raggi  vera di tutti i cerchi, altrettanto che essa  vera di un cerchio, ma essa non  completamente vera d' alcuno; essa non lo  elle d'una maniera molto approssimativa, e cosi a|)prossimativa ciie la suj)|)psizione che essa  assolutamente non trascinerebbe nella pratica alcun errore di qualche importanza. (v>uando ci accade d'estendeiv) queste induizioni 0 le loro conseguenze a casi, in cui l'errore sarebbe apprezzai )ile, noi correggiamo le nostre conclusioni combinandovi nuove proposizioni relative all'af)errazione . 11 carattere di rigore o di certezza i>articolare attribuito alle matematiche , dice percii") il Mili, un'illusione, la (juale non si mantiene, se non supponendo che ciueste verit si rapportano ad oggetti puramente ideali, mentre esse si rapportano invece agli oggetti realuKMite esistenti nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragionamenti si fondano non corrispondono, in geometria, )i esattamente che nelle altre scienze ai latti; ma noi .S77>jfoniamo che essi vi corrispondano, per poter tirare le conseguenze che derivano dalla su})posizione. Io trovo dunque esatta in sostanza l'opinione d Dugald Stewart, clic la geometria  fondata su delle ipotesi ; che  a ci che essa deve la certezza particolare che la (hstinguerebbe, e che in ogni scienza si [ui, ragionando su dell(i ipotesi, ottenere un insieme di conclusioni cosi certe clu; quelle della geometria, cio a dire cosi rigorosauKMite crjncordanti con le ipotesi, e forzanti cosi irresistibilmente l'assentimento, a condizione die le ipotesi sian(j vere >. (1. 2'^ e. 5 1). Ora, ammettiamo, coin vuole il Mill, che le [)rop(jsizioni della geometria siano i|)0teticlie: l'affermazione di una proposizione ipotetica implica forse l'atermazione categorica dell'ipotesi? Dire: se vi lia un pendolo nelle con (erai'si come definizioni, dineriscono dalle altre definizioni, in quanto non spieirano seniplicemente il senso di un nome, ma lanno pure la sui)[)Osizione che esistono nella realt de^uli oii'getti corrispondenti alle definizioni. Intatti, dice il Min, sarei )be evidentemente impossibile di dedurne alcuna verit di i^eometria da una i)roposizione che indicasse solamente la maniera di cui s'intende impiegare un segno particolare. Vi ha dunque una distinzione real(i tra le defhiizioni di nomi e ({uelle che si chiamano a torto definizioni di cose ; ma , che (lueste enunciano tacitamente, nello stesso tempo che la signific^azione di un nome, un punto di latto. Quest'asserzione tacita non  una definizione,  un postulato. La definizione  una sem})lice proposizione identica, che non insegna niente altro che Fuso della lingua, e dalla quale non si pu tirare alcuna conclusione relativa a dei tatti. Il postulat> che T accompagna, al contrario, all'erma un fatto che pu condurre a delle conseguenze i)iii o meno importanti ; esso atlerma Y esistenza attuale o possiljile di cose che {possiedono la combinazione (T attriljuti dichiaraata dalla definizione; e questo tatto, se  ideale, pu essere il tbndainento di tutto un edifzio di verit scientifiche (1. ^ e. 8' 5). Il Min ta un'obbiezione alla })ropi-ia dottrina: Non  vero che esista un cerchio a raa'd esattamente euuali; i postulati implicati nelle definizioni non sono dunque completamente V(3ri. Vi ha dunque qualche difficolt a concepire che le conclusioni pi certe rii)Osano su premesse, che, lungi Od essere certamente vere, non sono certamente vere in tutta lestensione che comporta la loro enunciazione. Ma, risponde Fautore a quest'obbiezione, vi ha altrettanta verit nel postulato, quanta ne l)isogna per portare ci che vi lia di vero nella conclusione. Le definizioni devono essere (considerate come le nostre prime e pi evidenti generalizzazioni relative alle figure quali esse esistono negli oggetti naturali. (^)ueste generalizzazioni, in (juanto generalizzazioni, sono j^erlettamente esatte. L' eguaglianza (H tutti i raggi  vera di tutti i cerchi, altrettanto che essa  vera di un cercliio, ma essa non  completamente vera d'alcuno; essa non lo  che d'una maniera molto approssimativa, e cosi approssimativa che la su])ppsizione che essa  assolutamente vera non trascinerebbe nella pratica alcun errore di qualche importanza. Quando ci accade d'estendere c[ueste induizioni o le loro conseguenze a casi, in cui l'errore sarebbe apprezzai )ile, noi correggiamo le nostre conclusioni combinandovi nuove proposizioni relative all'aberrazione . 11 carattere di rigore o di certezza jiarticolare attribuito alle matematiche , dice perci il Mill, un'illusione, la (juale non si mantiene, se non su[)pon(3ndo clie (jueste verit si rapportano ad oggetti puramente ideali, mentile esse si rapportano invece agli oggetti i*ealm(3nte esistenti nella natura. Le asserzioni sulle (juali i ragionamenti si l'ondano non corrispondono, in geometria, pi esattamente che nelle altre scienze ai tatti; ma noi .S7^y>poniamo ciie essi vi corrispondano, per poter tirare le conseguenze die derivano dalla sui)|)Osizione. Io trovo dunque esatta in sostanza l'oinnione di Dugald Stewart, che la geometria  fondata su delle ipotesi ; che  a ci('> clieessa deve la certezza i)articolare che la (Ustinguerebbe, e che in ogni scienza si i)u, ragionando su delie ipotesi, ottenere un insieme di conclusioni cosi certe ch(3 quelle della geometria, cio a dire cosi rigorosamente concordanti con le ipotesi, e l'orzanti cosi irresistibilmente l'assentimento, a condizione che le ipotesi siano vere . (1. 2'^ e. 5osizione geometrica non stabilisco che rapporti comparativi, vuoi fra le cose, vuoi fra le loro idee: questi rapporti dipendono certamente dalle idee o dalle cose; se si vuole, l'attributo, cio il rapporto, non  affermato del soggetto che per ipotesi, cio alla condizione che il soggetto esista. Ma l'esistenza del soggetto non  posta perci: questa esistenza  forse affermata per un altro atto del pensiero, ma non per quello che afferma il rapporto, e il giudizio esistenziale e il giudizio comparativo sono due giudizi logicamente indipendenti, r anmiissione dell' uno dei due non implicando affatto Tammissione dell'altro. Il Mill per provare che una conseguenza non pu tirarsi da una definizione per se stessa, ma solo da un'asserzione tacita suir esistenza, legata alla definizione, mostra che nel primo caso una conclusione Axlsa seguirebbe da premesse vere. Un dragone  una cosa die soffia delle fiamme; Un dragone  un serpente; Dunque qualche serpente soffia delle fiamme. La premessa reale in questo caso, dice il Alili, non  la definizione, ma la supposizione tacita dell' esistenza dell' oggetto definito. Ed  vero: ma la conclusione qui essendo una proposizione esistenziale, essa non poti'ebbe seguire che da un* altra afiermazione esistenziale. Al contrario, le proi)Osizioni dimostrate della geometria essendo, non proposizioni esistenziali, ma solo comparative, j)erc]i le premesse dovrebbero essere esistenziali? Se nelle scienze di fatto  impossibile, come nella geometria, di dedurre nuove verit da una definizione, ci non  perch nelle definizioni geometriche  implicata un'asserzione tacita sull'esistenza, ma non nelle definizioni degli esseri reah; ma perch come dice lo stssso Mill, le propriet distintive delle cose non nascono l'una dall' altra, in altri termini, non pu stabilirsi fra di loro una connessione a priori, come fra le propriet delle figure geometriche; il che non , come abbiamo osservato, che un caso di questa circostanza pi generale, clie la geometria  una scienza a priori e deduttiva, mentre le scienze degli esseri reaU sono sperimentali ed induttive. Quand'anche, aggiunge il Mill, si ammetta che la definizione geometrica, p. e. del cerchio, non postuli l'esistenza di cerchi reali, e sia semphcemente la descrizione della nostra nozione di un cerchio ideale, essa postulereb)je sempre la esistenza reale di quest' idea, prenderebbe per accordato che lo spirito pu formare e forma la nozione di un oggetto corrispondente alla definizione. Dentro questi limiti, cio che la definizione implica, non l'esistenza o la possibilit dell'oggetto definito nell'universo reale, ma la semplice rappresentabilit di quest' oggetto, la dottrina di Mill potrebbe, in un certo senso, ammettersi. I matematici dicono qualche volta che una definizione geometrica deve mostrare la possibiht della cosa definita, e i leibniziani, d'una maniera generale, distinimMiguevano la definizione reale dalla definizione nominale, ammettendo che la i)rima mostra questa possibilit, ci elle non la la seconda. Questo vuol dire semplicemente che una definizione geometrica ( noi sa{>piamo che sono queste definizioni clie hanno dato ai metafsici Y idea di definizione l'eale o essenziale) non  una pura torma verbale senza significazione reale, un semplice non senso, come sarel)le p. e. la definizione del hil/neo rettilineo: una fii'ura terminata da due linee rette  ; ma che ad essa corrispondono delle vere idee, delle ra[)presentazioTii etettive, (3 che ci deve essere evidente dairenunciato stesso della proposizione. Ma il Mill pretende che Tailermazione lY^ale contenuta in una definizione geometrica e un alermazione esistenziale; che il l'atto che essa aicrma (nel tempo stesso die spiega il senso di un nome), e che  il i)unto di partenza dei ragionamenti del geometra,  resistenza, se non di certe forme geometriche, delle rappresentazioni almeno di queste torme. Ora esaminiamo r atto mentale inq)licato nella riconoscenza del latto che r oggetto definito  possibile, o che vi hanno delle forme rappresentaijili conformi alla definizione. Il cerchio  una curva, i cui punti sono equidistanti da un punto interno che si chiama centro; L'ellissi  una curva, in cui la somma delle distanze di ciascuno dei suoi punti da due punti fissi che si chiamano fuochi,  costante . Ciascuna di queste proposizioni contiene due idee distinte: r intuizione (U una certa figura geometrica, e quella di una certa relazione fra certi elementi di (juesta figura ( della eguaglianza della distanza da un centro di tutti i punti del cerchio, o piuttosto, della circonferenza, e della eiruadianza delle sonime delle distanze dai due fuochi di ciascun punto della curva che termina relUssi). Dire che vi hanno degli oggetti, reali o possibili, conformi alla definizione,  dire che vi hanno, sia nell'universo reale, sia nel mondo roposizioni geometriclie sul cerchio sono necessarie, percli esse sarebbero egualmente vere, quand' anche non fossero mai esistiti n potessero mai esistere nella realt dei cerchi conformi, sia rigorosamente, sia approssimativamente^ alla definizione. Cosi ancora che esista la rappresentazione di un cerchio geometrico, che lo spirito umano aljbia la facolt di formarsela,  una proposizione anch'essa contingente: noi ])0ssiamo supi)orre facilmente la possibilit del contrario, tanto pi che noi sappiamo che gli uomini non j^ossiedono tutti allo stesso grado la facolt di rappresentarsi le forme dello spazio. Ma la definizione del cerchio  una proposizione necessaria, perch essa afferma semi)licemente una somiglianza definita tra i raggi del cercliio, senza niente decidere n suiresistenza di cerchi reali n su quella delle nostre rappresentazioni di cerchi possibili. Quando dice che le vere premesse della geometria sono, non le definizioni, ma i postulati in esse sottintesi, il Mill suppone che i postulati siano delle proposizioni esistenziali. Ma nemmeno questo ci sembra vero. I postulati (nel senso rigoroso in cui Euclide impiega questa parola) sono le pia semplici delle proposizioni geometriche di posizione, appartenenti alla classe di queste proposizioni che stabilisce che certe torme possono o non possono avere certi rapporti di posizione. Il postulato relativo alla retta dice che per due punti pu passare una retta (e una sola); il postulato relativo al cerchia dice che, dato un punto, ad un intervallo dato ria questo punto, in un piano, pu passare una circonferenza (e una sola), avente questo punto per centro. Queste proposizioni sono analoghe ai teoremi: Per due rette che si tagliano pu passare un piano, e uno solo ; Da un punto dato si pu condurre un piano, e uno solo, parallelo a un piano dato ; l?er quattro punti, non situati in uno stesso piano, pu passare una slei*a, e una sola; e^c. Tutte queste proposizioni non concernono per niente resistenza reale di oggetti nelle condizioni proposte. Supponiamo infatti che in un caso o in tutti i casi vi fosse un'impossibilit fisica a descrivere un cerchio, avente per centro un punto dato, e a im intei'vallo dato; forse allora il postulatosi trovere!jl>e falso  L'impossibilit dell'operazione materiale non toglierebbe niente alla possibilit ideale ammessa nel p stulat(^. Ciascuna (U (jueste proposizioni afferma semplicemente che non vi ha alcuna incompatibiht nelle condizioni proposte ; che il loro concorso  idealmente possibile ; che qualclie cosa, ma una sola, pu essere conforme alla definizione della retta, del cercliio, del piano, o della sfera, i suoi rapporti di posizione essendo al tempo stesso conformi ai rapporti enunciati nella proposizione; che cei'ti attributi, quelli p. e. di essere un cerchio, di essere situato in un piano dato, di essere a un intervallo dato da un punto dato, possono coesistere in un soggetto, ma in un solo. Ora la coesistenza in un soggetto di certi attributi, di certe propriet astratte, non  altro, noi lo m sapi)iamo, ch(3 la possiljilit per una cosa di ricevere delle denominazioni distinte, di cui ciascuna  ai>plicabile a tutta una classe di oggetti, e quindi ancora la suscettibiht che ha questa cosa di entrare al tempo stesso in pi classi distinte. Ma tutto ci che ciascuna di queste classazioni distinte implica, non sono che delle relazioni deinite di somiglianza: (piello dun(iue che queste proposizioni, ii ultima analisi, affermano  la possibilit o Timpossibilit della coesistenza in uno stesso soggetto di certi rapporti definiti di somiglianza. Le proposizioni di posizione indicate enunciano che una figura di una specie determinata [vu trovarsi in certi rapporti determinati di [)Osizione, e negano al tempo stesso che altre figure della stessa specie possano trovarsi negh stessi rapporti di posizione: ma un'altra variet dello stesso genere negano semplicemente che delle figure di una specie determinata possano trovarsi in certi rapporti determinati di posizione. V. e.: Due cerchi non possono segarsi in pi di due punti; questa proiH-)sizione afferma che (juando due figure possono classarsi tra i cerchi, non possono classarsi tra le figure che si segano in pi di due punti, e viceversa (pianolo possono entrare in questa seconda classe, non possono entrare nella prima. Tutto questo genere di proposizioni geometriche di posizione afferma dunijuc cfie la coesistenza di certi rapporti definiti di somiglianza  possibile o  impossibile, mentre un altro, il pi importante, della stessa classe di proposizioni (di cui abbiamo parlato al. 0^) afferma invece che una tale coesistenza  necessaria. Il Mill ammette pure, come il Bain, che la proposizione che enuncia la formazione di un numero per il numero immediatamente inferiore pi l'unit, pu considerarsi come la definizione del primo numero; ma questa definizione implica, secondo lui, come (luelle della geometria, Tafiermazione d'un punto di fatto. Il punto di fatto p. e. la cui affermazione  contenuta nella definizione di tre SSK wiiKnlaiiM^@Ms^^^gB9^^^^MHnn mmm {3=2+1),  che un gruppo unico di tre oggetti pu essere ottenuto, riunendo a un gruppo di due oggetti un altro oggetto unico, gi separato. In generale, dice il Mill, ci che il nome di numero connota  la maniera in cui degli oggetti del genere dato devono esssere agglomerati per formare quest'insieme particolare. Se si tratta d'un ammasso di sassi, e se noi lo chiamiamo due, questo nome implica che per formarlo bisogna aggiungere un sasso ad un altro sasso. Se noi lo chiamiamo tre,  che per produrlo bisogna riunire uno ed uno ed un sasso, ovvero aggiungere un sasso ad un aggregato del genere due, gi esistente. (,}uello che chiamiamo quattro ha un pi gran numero ancora di modi caratteristici di formazione Ogni proposizione aritmetica, ogni enunciato del risultato d'un'operazione aritmetica,  Tenunciato dell'uno dei modi di formazione di un numero dato. Vi si afferma che tale aggregato avrebbe potuto essere formato per la riunione di pi altri, o per la separazione di certe parti da un altro, e che per conseguenza si potrebbe per il processo inverso riprodurre questi altri aggregati. (Lor/ica). Noi abbiamo seguito l'idea del Mill che il totale d'una somma e i suoi dati designano degli oggetti, che fanno sui nostri sensi delle impressioni distinte, per una differenza d'ordine e di posto. Ma non possiamo seguirlo pi oltre in una via che conduce a misconoscere la differenza fra una proposizione esistenziale ed una comparativa. Per far comprendere in che noi rigettiamo le asserzioni del Mill, mettiamo in rapporto il luogo citato con la supposizione d'un autore citato dallo stesso Mill {Filosofia di Hamilton e. G^). Immaginiamo, dice quest'autore, un mondo costituito di tal maniera, che tutte le volte che due e due oggetti si volessero riunire in un gruppo unico, un altro oggetto apparisse improvvisamente, introducendosi nel gruppo totale. In un tal mondo sarebbe falso che due e due fanno quattro, ma due e due farebbero invece cinque. Ci proverebbe, secondo il Mill, che noi possiamo concepire il contrario di una proposizione pretesa necessaria. Ma se due e due fanno quattro  vuol dire che duee due sono eguali a quattro, e non che riunendo due oggetti e due oggetti si ottiene un totale di quattro, sarebbe sempre vero, anche nel mondo immaginario di cui si fa la supposizione, che due e due fanno quattro e non fanno cinque. La proposizione  dunque necessaria nel primo senso, contingente nel secondo:  necessaria, quando esprime un giudizio comparativo, sopra un'eguaglianza numerica; contingente quando esprime un giudizio esistenziale, sull'ordine con cui i fenomeni appariscono nella natura. Una proposizione sulla formazione di un numero  capace dell'uno e dell'altro senso: i due sensi sono strettamente legati nella nostra mente, ma per prendere nella sua jjurezza la vera portata della proposizione matematica, bisogna separare le due affermazioni. Che nel numero degli oggetti reali vi sia una costanza, almeno relativa, in modo che riunendo due gruppi di due oggetti ciascuno, noi siamo sicuri di ottenere un gruppo di quattro,  una verit dell'esperienza pi familiare, ma che non ha niente da fare con l'aritmetica. Se di questa maniera si pu(') dimostrare sensibilmente a un bambino, dopo che egli ha imparata la numerazione, che 7 pi 5 fanno 12, facendogli contare p. e. il gruppo di i3allQ ottenuto per la riunione di due gruppi di palle gi contati, uno di 7 e l'altro di 5; ci  buono per il bambino, che non sarebbe capace di comprendere una dimostrazione rigorosa. Ma una tale dimostrazione  tanto aritmetica, quanto sarebbe geometrica la dimostrazione della proposizione che gli angoli del triangolo sono eguali a due retti, misurando gli angoli per mezzo del quadrante. Sembra che il calcolo non avrebbe scopo alcuno, se non vi fosse una costanza nei rapporti numerici, 0 in generale quantitativi, dei fenomeni reali: cosi la geometria, se nella natura non vi fosse una costanza nelle forme e nelle grandezze. Come questa persistenza  intimamente legata alle pi semplici nozioni delle relazioni matematiche dei numeri, cosi essa  legata alle pi semplici nozioni della geometria. Affermare un' eguaglianza fra grandezze, tutte le volte che essa non  percettibile d'una maniera immediata,  affermare che esse avranno lo stesso rapporto air unit di misura. Ci suppone la possibilit di misurare le grandezze: ma questa operazione alla sua volta suppone che le grandezze e l'unit di misura non cangino durante il tempo dell'operazione. L' Helmholtz ha fortemente insistito su questo punto nei suoi scritti sugli assiomi geometrici (v. Revue scientifque). Non si pu parlare delle grandezze, egli dice, che se si conosce qualche metodo pratico secondo cui si possano comparare, divi-dere, misurare. Ogni misura dello spazio, ogn'idea di grandezza adattata allo spazio, suppone dunque la possibilit del movimento di elementi, di cui la forma e le dimensioni devono essere tenute per invariabiU.  ( Ree. seleni., artic. del IG giugno 77, VII.) Perci^, secondo lui, la geometria  fondata sulla supposizione che vi siano dei corpi solidi, e che essi possano spostarsi liberamente senz'alterazione della loro forma e delle loro dimensioni. L'Helmholtz considera come un assioma geometrico il principio enunciante il fatto d'esperienza ammesso in questa snpposizione: ma se egli intende per ci clie esso sia una premessa della geometria, sareblje questo certamente un errore. Si deve accordare ad Helmholtz che una proposizione affermante una relazione metrica fra grandezze non avrebbe senso, se non vi fosse un metodo pratico qualunque di compararle: affermare p. e. una eguaglianza fra due grandezze,  aflermare l' identit di risultato della loro misura. La proposizione dunque che atferma questa relazione metrica, contiene la suppo sizione che delle operazioni di misura siano eseguite, nelle condizioni in cui una tale operazione  possibile. Potrebbe quindi dii*si, a questo riguai'do, che una verit geometrica  una proposizione semplicemente ipotetica. Ma come noi abbiamo sopra osservato, la verit di una proposizione ipotetica non im[)lica la verit della supposizione: un principio dun(jue, che esprima d'una maniera generale la supposizione contenuta in tutte le particolari proposizioni geometriche, non  ima premessa della geometria. Se il preteso assioma di Helmholtz avesse una funzione logica anaIoga ai veri assiomi della geometria, la verit del suo contrario sareblje incompatibile con la verit delle proposizioni geometriche ; mentre  evidente che, se tutte le volte che le grandezze cangiassero di posto, la loro forma e le loro dimensioni venissero sensibilmente alterate, non ne seguiirebbe perci(') che i teoremi della geometria finirebbero necessariamente d'essere veri, e diverebl^ero Ma vi hanno casi in cui la possibilit dello spostamento delle figure senza cangiamento della loro forma o dimensioni sembra una vera i^remessa di una proposizione geometrica. 1^] quando un'eguaglianza viene dimostrata per una sovrapposizione immaginaria delle figure, com' il caso nella 1* proposizione d' Euclide. Questa [)roposizione  d'un'importanza speciale, perch mentre essa non suppone dei teoremi antecedenti, i teoremi susseguenti, al contrario, si appoggiano sopra di essa. La (piarta proposizione, dice il Bain, implica questa supposizione, che una figura pu essere sollevata e rivolta senza che cangi di forma  E THelmlioltz d'una maniera pi generale: La base d'ogni dimostrazione nel metodo euclidiano consiste a stabilire la congruenza di linee, d' angoli, di figure ])iane, di solidi, ecc. Per rendere questa congruenza evidente, si suppone che si ap[)lichino le figure geometriche le une sulle altre, senza cangiare beninteso le loro forme e le loro dimensioni. Quando noi vogliamo dare il carattere d' una necessit logica, rondandoci sulla possibilit di trasportare cosi le figure, senza cangiare la loro forma, in tutte le parti dello spazio, questa possibilit, secondo Helmholtz, implica una proposizione non ancora dimostrata. Perci ogni dimostrazione fondata sulla congruenza resta appoggiata sopra un fatto puramente sperimentale . Ora non  vero che la 4 proposizione (rEuclide e le altre la cui dimostrazione  analoga, suppongano la verit di questo fatto sperimentale, di questa affermazione esistenziale, che gli oggetti estesi possono cangiare di posto senza cangiare la loro forma e le loro dimensioni. La dimostrazione non ha bisogno di alcun processo materiale di questa sorta, die consista a prendere una grandezza, e trasportarla sopra di un'altra. Basta ad essa di supporre che  [KDSsibile, per una figura data, una figura esattamente eguale nella forma e nelle dimensioni, ma in un'altra posizione qualunque:  questo il postulato implicitamente ammesso, ed esso non ha che fare coi fatti del mondo reale, o con Tesperienza, nel senso stretto in cui Helmholtz intende questa parola. Dati i due triangoli A B C, D E F, aventi due lati AB ed A C uguali a due lati DE e D F, e Fangolo, compreso fra i lati eguali, eguale, Euclide suppoiie, a prenderlo alla lettera, che il triangolo A B C si adatti sul triangolo D E F, in modo che il punto A si ponga sul punto D e la retta A B sulla D E; e dimostra che, per conseguenza, i due triangoli devono coincidere perfettamente, e sono quindi eguali. Ma siccome ABCprima della sovrapj^xDsizione e A B C dopo la sovrapposizione sono degli oggetti di due percezioni distinte; e siccome la supposizione che questi oggetti siano due stati successivi d'uno stesso triangolo materiale , com' facile mostrare, inutile alla dimostrazione del teorema; cosi ci AM) C B' E FC' che Euclide supiX)ne , in realt, che un altro triangolo (per la parola altro noi intendiamo ci che  l'oggetto d'un'altra percezione^, esattamente eguale ad A B C, e che noi chiameremo A^ B^ C^ indicando con le stesse lettere i vertici corrispondenti dei due triangoli, si trovi in certi rapporti di posizione con D E F, cio gli sia sovrapposto, in modo che il lato A^ B' stia sul lato DEeilpuntoA^ coincida col punto D. Siccome la A^ B^  uguale alla 1) E, perch l'una e l'altra sono, per ipotesi, uguali alla A B, ne seguir che il punto B^ coincide col punto E, e tutta la retta A^ B^ con tutta la retta D E; e siccome l'angolo B^ A^ C^  uguale all'angolo E D F, perch uguali tutti e due a B A C, anche la A' C^ sar sovrapposta alla D F, e il pxmin O coincider col punto F, perch queste due l'ette sono amendue uguali alla A C, e quindi uguali fra di loro Vev conseguenza, siccome due rette i cui punti estremi coincidono coincidono interamente, anche il lato B' C coincider col lato E F, e anche gli altri angoli coincideranno con gli altri angoli, e i due triangoli coincideranno perfettamente, e saranno eguali. Ma il triangolo A^ B^ O , per ipotesi, eguale ad ABC; dun(jue anche A B C e D E F sono eguali. Siccome il postulato non  vero soltanto del triangol( A B C, ma di ogni altro triangolo qualunque nelle condizioni date; siccome, similmente, a D E F possiamo sostituire un altro triangolo (lualuncjue nelle condizioni date ; cosi la conclusione pu estendersi, per parit di ragionamento, dal caso particolare ihmostrato, a tutti gli altri compresi nella proposizione, come avviene nella dimostrazione di tutti gli altri teoremi. Cosi la diiiiostpazione della 4^ proposizione non  n pi sperimentale n meno rigorosa che quella delle altre: la j)remessa particolare che essa implica non concerne che delle possibilit ideali, e come tutti i postulati e tutte le premesse delle matematiche pure in generale, afferma dei rapporti comparativi fra oggetti rappresentabili, ua niente suUesistenza o sull'ordine dei tenomeni reali. . l.> Noi dobbiamo infine proporci la quistione se i risultati delle ricerche di alcuni moderni matematici, che sono conosciute sotto il nome generale di metamatematica o metageometria, possano infirmare quelli a cui noi siamo pervenuti sulla natura e Torigine delPevidenza matematica. La quistione si hmita per noi ai sistemi di geomemetria (htterenti dal nostro, che si pretende di costruire in uno spazio a tre dimensioni come il nostro. Le nozioni di questi sistemi essendo incompatiljili con le nozioni geometriclie ordinarie, pu sembrare che il fatto stesso dell'esistenza di tali speculazioni contraddica al carattere di verit necessarie, che noi abbiamo riconosciuto alle proposizioni geometrice. I geometri malerni fondano generalmente la teoria delle parallele sull'assioma che per un punto dato pu(') passare una sola parallela ad una retta data >, le parallele essendo definite delle rette situate nello stesso piano, che prolungate non s'incontrano mai . Ora se noi paragoniamo (juest'assioma agli aitri assiomi speciali della geometria elementare, come: . e. on la misura effettiva dei tre angoli d'un triangolo rettilineo . Fortunatamente risulta da queste misure effettive dei triangoli, come anche dalle osservazioni astronomiche, clie Tassioma delle parallele e i teoremi della geometria eucHdlana sono, almeno approssimativamente, veri. Se i matematici trascendentalisti avessero avuto un'idea pi giusta sui processi logici dello spirito umano, essi non avrebbero probabilmente contestato la legittimit delTassioma ordinario delle parallele. Quest'assioma non , lo abbiamo riconosciuto, una verit intuitiva, ma un'inferenza; il nostro punto di partenza per arrivare alla generalizzazione della i)roposizione , (|ui come altrove^ Tesperienza: solo, |)er la natura speciale dei rapporti che sono l'oggetto della geometria, non  necessariamente un'esperienza obbiettiva; ci )asta l'esperienza o l'osservazione tutta subbiettiva di oggetti ideali, o semplicemente posto di mettere da parte Tassioma, e di definire le parallele ]>er la equidistanza, fcnidando unicamente su questa delni/ione la teoria delle parallele K possijile infatti dimostrare i teoremi delle parallele, senza invocare altro principio die juello ammesso nella dellnizione indicata: il lettore che conosce gli elementi della ij:eometria, pu trovare facilmente la dimostra/ione, lo gli abbrevier il lavoro,. indicandogli la via che io stesso ho seguita. Prima ho dimostrato che nelle parallele le perpendicolari condotte all'una delle due dall'altra sono anche perpendicolari a quest'altra; poi le relazioni metematici trascendentalisti, hanno dei punti di contatto evidenti con certe dottrine odierne della scuola empirista (v. Stallo La materia e la fisica moderna e. lo"") non sono familiari con questa nozione che gli assiomi genetriche degli angoli formati con una trasversale; e doi>o di queste,, dimostrato prima che la somma degli angoli d'un triangolo  uguale a due retti, sono passato alle proposizioni reciproche, cio che se le relazioni metriche degli angoli formati con una trasversale sono queste, le due rette sono parallele. Infine ho dimostrato (juesto teorema, che due rette che non s'incontrano mai sono parallele (cio equidistanti per dimostrarlo mi sono servito della stessa dimostrazione con cui negli Elementi di Baltzer, i^arte 4,?? 2, 7, III, si dimostra che se in im triangolo la somma degli angoli  18, anche nelle parallele la somma degli angoli interni sar 180'' . ); e, come corollari di quest'ultimo teorema, l'assioma ordinario delle parallele ( vale a dire che per un punto pu passare una sola retta che non incontri mai un'altra retta data) e quello d'Euclide, cio l'XI (Erra dunque il Taine quando, dopo aver dato una dimostrazione, ch'egli crede rigorosa, della ecpiidistanza delle i)arallele, soggiunge tuttavia che l'assioma ordinario, di cui nega il carattere assiomatico, non pu dimostrarsi. V. L' Inlellgenza). Ma la dellnizione, su cui la dimostrazione sarel)be fondata,  .soddisfacente? si pu ammettere senza prova la possil^ilit delle parallele cos deinite? in altri termini, si pu anmiettere senza |rova che due lince situate nello stesso piano )Ossono al tem]to stesso avere queste due propriet, di essere rette e di essere equidistanti? Perch questa linea equidistante da una retta data sarebbe una, retta, e non jn'uttosto una curva, come p. e. nel sistema non euclidiano di \\o\\QV. {\ . Recue phlo^ophque sec. semestre 1870, Tannery La (jeometria fniniaf/inana). Io credo die si pu ovviare a quest'inconveniente, deducendo la equidistanza, ammessa nella delnizione, da un principio pi generale e pi assiomatico, ])reso dalle esperienze pi familiari che noi abbiamo della convergenza e divergenza delle rette. Tale principio potrebhc essere c]uesto: Se una retta  in due punti disugualmente distante da un'altra retta, le due rette s allontanano continuamente in una direzione, e si avvicinano continuamente nell'altra, sicch eSvSe restano situate luna dalla stessa parte dell'altra. Posto (juesto rali sulle eguaglianze sono ancir essi delle verit ac(iuisite e (F esperienza: quando essi applicano uno di questi assiomi, credono che si tratti d'una necessit puramente assioma, oun altro onalofro. (lefniremino scmplicciiientoleptirnllelf^ secondo il desidei-atiun di d^Memhert (FJcincntl dijlo^qfia, ScJuarimento suffli elementi (U geoiaetj /a): anta una retta, s'innalzino sn due punti (luaUimpie di essa e suHo stesso lato due perpendicolni-i uguali; la retta che con^iunire le estremit di (luestc, si cliianni/^arallela alia retta data. Da (piesta deHinzione si potrii dedurre, mediante l'assioma, che le parallele (cosi definite) sono eciuidistanti. Io ci-edo che non si possa contestare il cai^attere assiomatico del principio indicato: esso ha anche, sembra, un vonta^i'^io sulTassioma onlinario Per tutte le rette che noi vediamo o possiamo immaginare, noi osserviamo che quando una ronvor^a^ alciunnto verso un'altrji, la convergenza va sempre crescendo da un lato, mentre la divergenza va sempre crescendo dall'altro: al contrario, non di tutte le i*ette, reali o inmioginarie, che cominciano a convergere, noi possiamo osservare che esse finiscono per incontrarsi. Al nostro assioma si opporr forse che le esperienze familiari su cui esso  fondato, non hanno un rigore .sulciente ; la comparazione delle distanze dei punti di una retta da un'altia implicimdo, prima, lapprezzamento della linea pibwveche va da ciascun punto d'una i-ettii allaltra, e i^oi, la comparazione di (jueste linee le i)i brevi fi*a di loro. II rigore dunii sieui'i che noi conosciamo rocesso pi prinu'tivo, e necessariamente ]>i grossolano, per apprezzare le relazioni fra le grandezze: iier esso, come ]el nostro assioma, noi siamo ridotti alla testimonianza dei sensi (ai pone che durante 1' o]>ertizione. in cui noi facciamo successiviunente coincidere tre grandezze a due a due, (lueste non cangino; ora sapere ci  avere una conoscenza logica, che leghi le eguaglianze date alle eguaglianze inferite; essi non pensano che in questa inferenza, come in tutte le altre, noi ci fondiamo unicamente sulFosservazione anteriore. L'Helmholtz  certamente di (juest'opinione (V. Rev. Scient.) ; e lo stesso A. Comte, come abbiamo visto, ammetteva die la matematica astratta ha un carattere puramente logico, ed  as.solutamente indipendente dalTesperienza . Quando i metageometri dicono che gli assiomi e i teoremi d'Euclide ben potrebbero non essere che approssimativamente veri , non vi ha nella loro asserzione un assoluta inconcepibilit, in quanto questa non si trova, a parlar propriamente, che nel contrario delle verit che noi conosciamo d'una maniera intuitiva, mentre per quelle che conosciamo per inferenza, cio per induzione o per deduzione, si pu, prima della prova, dubitare, e quindi supporre la possibilit del contrario. Tuttavia anclie per tali verit il contrario , in un certo senso, inconcepibile. di eguaglianze, che non pu essere ottenuta per mezzo della coincidenza. L'assioma ordinario delle parallele, non conc^ernendo dei rapporti quantitativi fra grandezze, non mostra cosi ])ene come la i^rojosizione che gli abbiamo sostituita, che esso ha un fondamento analogo a quello degli assiomi generali della matematica e un valore logico eguale. Al contrario la nostra proposizione, stabilendo anch'essa delle n^lazioni metriche, ha pi punti di contatto con questi, e fattala comparazione, ne risulta che non si pu logicamente dubitare del rigore dei teoremi sulle parallele, a meno che questi dubbi non si vogliano estendere a tutta la matematica. (I) Aggiungiamo al luogo citato nel 5. (t. 1. lez. S). quest'altro luogo della Le^. 4: Quando ci proponiamo di valutare un numero sconosciuto di cui il modo di formazione  dato, esso , per il solo enunciato stesso della quistlone aritmetica, gi defunto ed espresso sotto una certa forma; ed evalutandolo, non si fa che mettere la sua espressione sotto un'altra forma determinata, a cui si  abituati a rapportare la nozione esatta di ciascun numero particolare . l'acendolo rientrare nel sistema regolare della numerazione . Un discepolo di Condillac non parlerebbe altrimenti. li i in quanto, })er le proposizioni che concernono, non resistenza, ma la somiglianza, una volta che noi sappiamo che la cosa  cosi, noi non possiamo, come abbiamo pi volte osservato^ immaginare che essa potrebbe essere altrimenti. Come comprenderemo dunque le altre asserzioni dei metageometri, che, senza elevare dei dubbi suiresattezza delle proposizioni geometriche, abbassano queste ftf*oposizioni dal grado di verit necessarie a quello di contingenti  Dentro il cerchio della nostra esperienza, dice Baltzer, ha realmente luogo la geometria ordinaria, com' stata formata dai Greci (in cui gli angoli del triangolo e gli angoli interni delle parallele sono eguali a due retti), ma in s potrebbe anche valere un altro caso della geometria astratta, che  stata ideata da Gauss, Lobat chewsky e Bolyai per tutti i casi.  {parie 4*, Prefazione)  Tutti i tentativi per dimostrare questa proiX)sizione (che gli angoli del triangolo sono eguali a 180^) dovevano necessariamente riuscire vani, perch in s  pure ammissibile ripotesi contraria, cio che in un triangolo, e quindi anche nelle parallele, la somma degh angoli interni sia minore di 180"  {parte ^*, 2, 7, IV), Sarebbe dunque possibile, sembra, che la somma degli angoli di un triangolo l'osse minore di 18i>: questo  Tal tro* caso della geometria astratta, di cui la nostra, la euclidiana, non  che uno dei casi. Ma quando il Baltzer dice che nel cerchio della nostra esperienza vale quest'ultimo caso, parla solo dei triangoli reali, ed esclude i triangoli possibili? No certamente, perch egli dimostra che, se in un triangolo la somma degli angoli  uguale a due retti, lo sar pure in tutti gli altri triangoli, cio in tutti i triangoli possibili. Ma se in tutti i triangoli possibili la somma degli angoli  uguale a due retti, come sarebbe possibile che in un triangolo questa somma fosse minore di due retti? quali sono dunque i casi in cui varrebbe, non la prima proposizione, ma la seconda? Forse questi casi si troveranno nei sistemi geometrici diflerenti dal nostro, che alcuni matematici moderni hanno costruito con un metodo puramente analitico, senza fondarsi sopra alcun dato intuitivo. Beltrami ha, come si :sa, studiato con questo metodo una certa superfcie, eh egli chiama pseudosfera: questa superfcie non  possibile di rappresentarsela; essa non ha di pensabile che la sua definizione analitica, ma air infuori della stessa relazione analitica, non vi ha niente che vi corrisponda, sia nella realt, sia neir immaginazione. La geometria di questa superfcie  conforme all' altro caso della pangeometria di Lobatchewsky: se essa fosse chiamata piano, e le sue linee geodesiche (linee della pi corta distanza fra due punti) rette, essa sarebbe identica alla planimetria non euchdiana. (Per avere un'idea di questa superfcie, v. Helmholtz Assiomi della geometria, Tannery Ree. pJu'los. , Milhaud Rei\ p/dlos., Calinon la stessa rivista giugno 89, ecc.) Dalla possibilit di costruire analiticamentente dei sistemi geometrici difl'erenti dal nostro, se ne  concluso espresamente che le nostre nozioni geometriche sono contingenti ed empiriche (nello stesso senso in cui  empirica una verit di fatto). Gli assiomi, dice Helmholtz, su cui il nostro sistema geometrico  basato, non sono delle verit necessarie, dipendenti solamente dalle leggi irrcfra(l) Quaiuranclie si ammetta la possibilit di sistemi ireometrici differenti dal nostro, di spazi ciwin, come dicono i metagreometri,  chiaro che anche in questo caso grli assiomi e i teoremi della i?eometria eucUdiana sarel^bero sempre d' una verit universale. Se si ammette che il nostro spazio  piano, la retta, cio la linea pi breve fra due punti, di uno spazio cuvoo non sarebbe una retta nel nostro senso; e quindi i triangoli rettilinei dello spazio pseadosferico non sareblero ci che noi intendiamo per triangolo ret^tilineo. Sarebbe dunque sempre universalmente vero che gli angoli d'un triangolo rettilineo sono eguali a due retti. il 11 iriliiWnlli SUI Cimiti i: i/ogetto deij.a conoscicnlv a priori 417 gabili del nostro intendimento. Al contrario diversi sistemi di geometria possono svilupparsi analiticamente con una consistenza logica perfetta. I nostri assiomi sono in realt l'espressione scientifica d'un tatto d esperienza generalissimo, cio che nel nostro spazio i corpi possono muoversi liberamente senza alterazione della loro forma . Ne segue che il nostro spazio  uno spazio di curvatura costante. Ma il valore di (juesta curvatura non pu essere provato che per misure dirette. Lo stesso Tannery della Revuc p/illosop/ii(jue, quantunque non decisamente favorevole alle speculazioni dei metageometri, sembra opinare che queste speculazioni hanno provato la natura empirica e contingente delle nozioni geometriche. 11 concetto dello spazio, egli dice,  formato dair associazione di nozioni distinte, e ciuest'associazione non  necessaria. Ogni proposizione sullo S])azio  dunque contingente. La nozione della retta , come quella del nostro spazio, un complesso di nozioni logiche distinte, la cui origine o almeno la cui associazione  empirica (perch alla propriet comune con la geodcsica dello spazi( pseudosferico si deve unire la pro})riet diterenziale della retta reale, ed  solo res[>erienza che pu provare che (iueste due propriet at)par(engono alla stessa linea Ree. jt/u'l.). (\) l\ fatto (Iella possibilit dello spostamento delle grandezze seriz" alterazione  espresso dai inatnnatici trascendentalisti con la foniiula che il nostro spazio lia uk coeffULente d curcataia co!unto pu passare una sola parallela a una vetta data. Il primo assioma distingue lo spazio piano e lo spazio pseudosferico dallo sferico; il secondo distingue lo spazio piano dallo spazio pseudosferico. Quando i metageometri dicono clie il nostro spazio  i)iano, non intendono escludere assolutamente che esso possa essere pseudosferico o anche sferico. La proposizione che il nostro si)azio potrebbe forse essere pseudosferico non  che un' altra espressione della proposizione di Lobatchewsky, che per un punto possono passare pi parallele ad una retta data. In quanto alla proposizione detcriniriate, il loro modo di esistere. Come ayyr/or/ (|ualsiasi ordine tra i lenomeni della natura sarebbe su[)i)onibile, ma Tosservazione soki ])u decidere a quale di (queste supposizioni sia conforme il corso reale degli avvenimenti, cosi si ])retende che noi possiamo l'ormarci a />r/ori la nozione di ditl'ei'enti spazi o sistemi geometrici [)0ssibili, ma la sola osservazione decide a (juale di usizioiic ii forzata aiiora che quella di Lobatcliewsky. essendo la ue-zazionedeirassiouia che due reUe non ]H)ssono chiudiii chiaramente il le.uanie della i:eouieti*ia trascendentale con lopinione che. mentre {ili assiomi generali della matematica sono ivuramente loniei o razionali, e quindi necessari, al conti'ario quelli uramente razionale, mentre la geometria fa parte della matematica conci'eta, ed . come la meccanica, una scienza fisica e s[>erimentjde. i,)uesta dottrina si appogijria, come ab])iamo detto, sul fatto che il calcolo non voliie chiii facile, per la iireometria, irica delle sue generalit. Ma per gli assiomi generali delle matematiche si continua iu\ ammettere roinione comune che (piesti fiono d'una necessit }>uramente logicji e indipendenti djdl" es])erienza. lo spazio , che esse presentano immediatamente: senza ricercare se questa realizzazione si trovi solamente nel linguaggio, o sia piuttosto inerente alle concezioni stesse, dei metageometri, supporremo che questa parola lo spazio  sia un'espressione compendiosa per designare le forme date o rappresentate nello spazio, e ci che si dice delle propriet o della natura di un certo si)azio determinato, debba intendersi delle forme geometriche determinate che sono possibili in questo spazio, cio in questo sistema di forme geometriche. IVIa anche cosi intese, siffatte proposizioni misconoscono il vero significata degli assiomi e dei teoremi della geometria, perch tendono a riguardarli come giudizi esistenziali, che c'istruiscono sulle qualit e la natura delle forme determinate che si trovano nel mondo della nostra esperienza. Abbiamo gi osservato in pi di un caso che (juando le proi)Osizioni matematiche si riguardano come esistenziali, una conseguenza inevitabile  di riguardarle pure come verit contimi eni, essendo questo il carattere di ogni giudizio sull'esistenza. Questi tre punti di vista duncjue della matematica trascendentale, di considerare le verit geometriche come sperimentali, come contingenti,  comc esistenziali, non ne fanno in realt che uno; ed SSO legato, come gi notammo, all'abuso delle astrazioni che fanno i matematici trascendentalisti. Qui noi ci tro viamo in presenza (F un apparente paradosso, cio che delle opinioni risolutamente empiriste sulle nostre facolt conoscitive vengono appoggiate sovra speculazioni eminentemente trascendenti. Si suppone, come abbiamo detto, che degli spazi differenti o dei sistemi differenti di geometria siano egualmente possibili a priori, e di l si conclude che solo lesperienza pu decidere quali di queste possibilit sia divenuta un'attualit. Qual  lo spazio in cui viviamo?  T osservazione del mondo reale che deve rispondere a questa domanda, e la risposta viene formulata negli assiomi geometrici. Ecco come questi assiomi diventano al tempo stesso esistenziali, contingenti e sperimentali. II cardine della ciuistione  dunque se sia vero che* degli spazi o dei sistemi di torme geometriche dit'erenti dal nostro siano possibili, cio pensabili, perch qui non pu trattarsi di un altra specie di possibilit. Su questo terreno i metageometri si sono trovati necessariamente di fronte alle dottrine kantiane. Kant, spiegando Tapriorit delle proposizioni geometriche per Tapriorit dello spazio, aveva anch' egli perduto di vista il significato puramente comparativo di queste proposizioni,, accostandosi al punto di vista che vede in esse una sorta di verit esistenziali. Trovando egli il fondamento della sintesi, contenuta nelle proposizioni a yjr/or/, in una funzione dello spirito, il quale esso stesso deve congiungere ci chepoi si rappresenta come unito, la sintesi delle proposizioni geometriche  fondata per lui sulla sintesi anteriore che costituisce le rappresentazioni dello spazio. Quindi una proposizione geometrica non pu essere per Kant che la traduzione in una sintesi di concetti della sintesi contenuta nelle rappresentazioni spaziali ; e Y oggetto proprio di (jucste^ proposizioni non  una comparazione reciproca delle forme geometriche o dei loro elementi, ma la descrizione-di queste forme, la conoscenza della loro costituzione e delle leggi secondo cui le propriet, inerenti a queste forme considerate assolutamente, vanno accoppiate. Se la conoscenza geometrica  a /)rori ed  necessaria, se noi possiamo in geometria formare delle proposizioni d'una universalit assoluta, ci avviene, secondo Kant, perch le nostre rappresentazioni geometriche, cio spaziali, sono costituite secondo una forma determinata dalle condizioni interne della nostra facolt intuitiva, e non possono mai allontanarsi dal tipo prestabilito. Ecco dove Kant si trova in contraddizione con la geom.etria trascendentale: mentre egli fa dipendere il carattere necessario e a usi priori delle nozioni geometriche ordinarie dairimpossiljilit in cui siamo di rappresentarci delle forme geometriche ditlerenti, al contrario i metageometri dalla possibilit di rappresentarci queste forme differenti ne concludono il carattere empirico e contingente delle nozioni geometriche ordinarie. Quantunque la tesi di Kant non sia per se stessa pi vera deirantitesi dei metageometri, tuttavia nella quistione particolare se sia o no possibile la rappresentazione di forme differenti dal sistema geometrico ordinario,  certo die i principii fondamentali e lo spirito generale della filosofa empirista danno ragione air idealista trascendentale contro i metageometri empiristi. Su questa quistione, la tesi kantiana appartiene al lato vero ed empirista del criticismo:  Timpossibiht per il pensiero di oltrepassare i dati fenomenali od intuitivi, la necessit di restare circoscritto e condizionato dai "limiti e dalle condizioni stesse dell'intuizione sensibile. Noi che al)biamo si lun>amente dimostrato che non esistono idee astratte, e che non si pensa che unicamente per rappresentazioni concrete, non jossiamo esitare a chiamare parole vuote di senso delle pretese nozioni a cui non corrisponde alcuna intuizione . {[) Beltrami liti rapi>resentato i punti, linee e superllcie dello spazio pseiuloslcrico. ]>roiettan(loli sulPintemo d'una 8U[)erflcie sferica del?iostj'o spazio, i punti della (piale corrispondono ai inintl jnlnitainente lontani dello spazio pseudosferico, in modo che le linee iieodetiche di cjuest" ultimo sono rappresentate, nelTinterno della sfera, da rette. Secondo llelmlioltz, noi perveniamo di questa maniera a rapprcsentarcc lo spazio ]>seudosferico. Eiili suppone che un osservatore del nostro mondo sia trasportato nel mondo i>seudosferico. Dopo la sua entrata nella pseudosfera, quest'osservatore continuerebbe a riguardare i rairiri luminosi o le sue linee di visione come linee rette, cos l)enc che nello spazio ]>iano, e come ^sse lo sono in realt nella rapi>resentazione sferica dello spazio pseiidosferico. I/inunagine visuale degli oggetti nella pseudosfera r^li farebbe dunque la stessa impressione che se egli si trovasse al Un carattere speciale della matematica, e pi propriamente del calcolo,  ciie alle cose stesse vengono sostituiti dei contro Mella sfera mp^rcj^erihUiva di HoUraini. Gli sonil)rerel)be oic ^'li o-^iretti pi lontani lo attorniassero a una distanza finita, p. e. (li cento piedi. Ma se si i^ortasse sino ad essi, li \edre)l)e estendersi dinnanzi a s, e i^ii in profonero. Se e-iii avesse visto due linee rette, clie ixli i>aressero pai'allele sino a juesta distanza di cento piedi, love il mondo finisce per lui, avvicinandosi, riconoscerebbe clie, per juesta estensione dejili o^^'retli che si avvicinano, esse si allontanano tanto pi quanto pi euli si avanza: dietro di lui al contrario la loro distanza seml)rerebl)e diminuire, in modo che esse parrel)l>ero di i>i in ii divergenti e lontane luna dallaltra. Due linee rette clie. rima posizione, iili fossero juirse tai-diaisi in un solo e slesso punto dietro di lui a una distanza di cento p.iedi, fare])l>ero ancora lo stesso, ed e^rli avrebbe un l>eir avvicinarsi, non attinprerebbe mai il punto d'intersezione . Con (juesta supiosizione, secondo Helmholtz. noi ci rupin esiniti(itii) lo spazio pseudosfeiico. Non ne^^a ei^di clic la rappresentazione suiponiia un elemento sensoriale:  i-er l'espressione di rap]>reseidarsi. eiili dice, o di essere in irrado di l,i:urarsi ciclie avviene, io intendo la facolt d'immaiiinare la serie intera delle impressioni sensoriali die si ]>roverebbero in questo caso . La definizione di llelmlioltz  ^riusta, ma alla condizione die noi suppongliiamo die le nostre impressioni sensoriali siano la riproduzione esatta di ci die noi diciamo Poiiiietto esteriore. Se (|uesta corrispondrMiza fra la natura deiro.Hixetto e le percezioni dei nostri sensi non esiste, noi possiamo svolirere (comejiii diarte dei filosot attuali e lo stesso llelmlioltz ammettono come la causa e l'oir^^ctto esterno delle nostre sensazioni,  ler noi irrappresental)ile ed inescogitabile, quantunque noi svoliriamo continuamente la serie delle impressioni sensoriali die esso ci fornisce. Al fondo, per concei>ire un oguetto esteriore, noi non facciamo nitro die obbiettivare le nostre percezioni: se cpieste percezioni sono varie e tali clic non potrebbero al temito stesso attribuirsi alio stesso oggetto, noi ne scegliamo (lualcunaela realizziamo, alfesclusione delle altre. Cosi un oggetto visiliile presentandoci diverse apparenze secon.lo la distanza da cui lo guardiamo,  l'apparenza che essa simboli e il nostro pensiero ordinariamente non va al di l di questii simboli medesimi. Le parti pi elevate della ci presenta quando siamo in prossimit, che noi obbiettiviamo. L'osservatore dumpie del mondo pseudosferico non potrebbe comportarsi altrimenti, in presenza bielle apparenze cangianti e contraddittorie che gli presenterebbero gii oggetti della pseudosfera, s'egli volesse farsi un'idea della natura reale di questi oggetti. Egli penser che (pieste apparenze cangianti e contraddittorie non potrebbero essere tutte degli stati delf oggetto reale in un solo e stesso momento della sua esistenza, e si domander a juale di (lueste percezioni, o se non a nessuna di esse, a quale delle immagini che egli i)0tr mentalmente costruire, attribuir la realt obl)iettiva. S'egli non ]>erverr a rispondere a luesta domanda d'una maniera soddisfacente, che gli desse un'interpretazione coerente delle apparenze del mondo strano in cui egli si  smarrito, concluder o che le forme reali degli oggetti sono per lui inconoscibili, o che non vi hanno forme reali, ma che le forme, in (piel mondo, sono puramente relative al punto di vista dellosservatore Se ])oi (piest'osservatore volesse considerare le forme a lui esibite, non pi come fisico o come filosofo, ma semplicemente come geometra, la piistione della realt di (jueste forme non avrebbe pi importanza per lu: la geometria considerando una forma per se stessa e nella maniera determinata in cui esiste o pu esistere in un momento indivisibile della durata, l'oggetto del suo studio come geometra sarebbe l'apparenza presentata da un oggetto a un momento determinato, considerata singolarmente. Siccome queste forme apparenti non si allontano mai, considerata ciascuna per se stesso, dal tipo eacUd/ano, cos la sua geometria non potrelibe essere che eacUdiana. Se dunque i fenomeni osservati nel mondo Xseudosferico sarel)bero flmicamente dilTerenti dai nostri (in (juanto si seguirebbero in un ordine dilferente), non esisterebbe, al contrario, per l'osservatore, differenza alcuna al jamto di vista ])uramente fjeonieti'fjo. Svolgendo perci la serie delle impressioni sensoriali che il mondo pseudosferico fornirebbe al nostro osservatore, noi non ci rappresentiamo lo spazio pseudosferico, per la semplice ragione che nemmeno egli, lo stesso osservatore, se lo rappresenterel>be. (l) La perfezione del linguaggio dell'aritmetica e dell'algebra consiste nella sua ajtpropriazione completa ad un uso puramente meccanico.. . Ogni operazione sui simboli corrisponde a un sillogismo, l'appresenta un passo d'un ragionamento, relativo, non ai nostra conoscenza non potrebbero fare a meno di un sistema api)ropriato di simboli: quando si  un po' approfondita la natura del pensiero, si vede che il linguaggio e in generale i segni non sono solamente i mezzi per comunicare le idee, ma sono anche indispensabili alle operazioni pi elevate deirintelligenza. La matematica ne  il migliore esempio. 11 carattere eminentemente simljolico del ragionamento matematico non dipende semplicemente dal sistema di segni estremamente semplici e precisi che questa scienza ha a sua disposizione, ma  t'ondato sulla natura stessa delle nozioni che tanno l'oggetto di questa scienza. Gi anzitutto le nozioni quantitative non sono fissate che per mezzo di simijoli, non i)Otendo noi immaginare le cose, al i)unto di vista della quantit o della grandezza, d'una maniei'a cosi adequata e precisa, per Fuso del ragionamento, come al punto di vista della (pialit. Inoltre, un rapporto di eguaglianza non essendo altra cosa he la percezione di questa eguaglianza, tutte le volte che noi non possiamo ettettuare, sia nella realt, sia per Tiuimaginazione, una comparazione attuale fra le grandezze, o immediatamente ira di loro o con l'unit di misura comune, il rapporto affermato non  rappresentato d' una maniera ade(iuata, ma d'una maniera pi o meno simbolica (confr. cap. 8^' S 2% Lo stesso deve dirsi per le eguaglianze dei numeri. Non c' bisogno di aggiungere clie le quantit incognite che entrano nel calcolo sono necessariamente delle nozini simboliche. Ma questo processo non deve fare . corrispondono dei rapi)orti fra queste cose queste cose essendo gli oggetti di i)ercezioni che noi abbiamo avuto o avremo o potreuniio avere in date condizioni. Esso sarebbe completamente vano, se ai simboli non si potessero finalmente sostituii^e delle percezioni, attuali o possibili:  per la possibilit di questo scambio che i simboli hannc un valore. Noi abbiamo, in un capitolo precedente, paragonato le nozioni astratte e generali a degli effetti commerciali, il cui valore  puramente convenzionale, il valore reale non appartenendo che alla moneta e alle merci con cui essi possono scambiarsi. A ciie bisogner dunque paragonare una nozione astratta, cio una combinazione di simboli, a cui non corrisponde intuizione alcuna? ad un effetto cambiario, che nessuno vorr accettare per pagamento. Un l)anchiere potrebbe averne piene le casse, non sarebbe perci pi ricco d'un centesimo. Tutte le speculazioni metaempiriche, che esse siano chiamate metamatematiche o metafsiche o con qualsiasi altra parola che si potreljbe foggiare con lo stesso prefsso, si trovano nello stesso caso. Le s'^ienze di fatto non sono, come la matematica, soggette a (juesta illusione di dare un valore reale a ci che non ne ha che uno convenzionale:  che questa sostituzione completa dei simboli alle cose non avviene che nella matematica. Si  detto che la mitologia  una malattia del linguaggio: quantunfjue non sia forse conveniente ad un non matematico di esirimersi su (lueste materie in una forma cosi decisa, noi diremo che la metamatematica, (juesta mitologia dei matematici,  una malattia del linguaggio matematico. Noi non do))l)iamo per altro rinunziare a vedere anclie nelle speculazioni metageometriclie . come in tutte le speculazioni metaempiricbe in generale, un prodotto, assai indiretto in verit, delle illusioni naturali del nostro spirito. Abbiamo accennato die il fondamento su cui riposano le speculazioni sulla pangeometria, sullo spazio pseudosf'erico. ecc.,  la dottrina comunemente ricevuta die 42f; .^ 15.^ Il carattere di necessit e di apriorit che appartiene alle matematiche pure,  legato col latto che queste scienze escludono, sia dalle loro premesse, sia dai loro risultati, qualsiasi proposizione esistenziale, che non pu essere che contigente e sperimentale, e non v' includono alti'e verit che dei rapporti comparativi. Le verit diquest'ordine sono logicamente indipendenti dalle esistenziali, ma esse i)Ossono ibrmare, anzi (ormano necessariamente, dei punti di partenza per la inferenza di queste: di l il i^osto delle conoscenze comparative nella economia del sapere umano. Cosi le matematiche sono logicamente indipendenti dalle scienze che hanno per oggetto Tordine dei tcnomeni reali; mentre, al contrario, le seconde suppongono la conoscenza delle prime. Gli autori di classazioni delle scienze assegnano il loro posto alle matematiche, Ibndandosi sulla generalit o sulla semplicit pi ^'li assiomi della inateniatica sono fondati, non sulla generalizzazione dell' esperienza, ma soprn una necessit pui'amente logica; donde i tentativi di dimostrare il principio della teoria delle parallele, e il riliuto, dopo l'insuccesso di questi tentativi, di riconoscere in esso il carattere assiomatico. Ora, la dottrina che glassiomi matematici si fondano sopra una necessit logica non  che un caso di quella pi generale che tale  il fondamento di tutte le verit dichiarate necessarie, e questa alla sua volta non , come sapiamo, che una trasformazione di quello che abbiamo chiamato il sofisma a priof'i della psicologia intuizionista. Il legame della metageometria con questa dottrina Hlosofica sembra, nel fatto, incontestabile, llelmholtz crede, come abbiamo visto, che i princii)ii comuni delle matematiche derivano dalle leggi irrefrag(d)ili del nostro intendimento . e che essi si ricavano dalla nozione stessa del numero e rincipio che collima con la dottrina analitica dei giudizi a y>/YO/x spinta alle sue conseguenze ultime): egli ammette che la connessione delle cose, o la maniera di cui la natura tira dehe conseguenze, corrisponde all'incatehainenlo logico dei concetti nel i>ensiero . grande del loro oggetto, ed anche Aristotile attribuiva a questa circostanza la superiorit logica che le distingue (v. Metafisica). Ma vi ha un' altra ragione pi decisiva percii esse deljbano occupare il primo posto in una distribuzione delle scienze, che voglia seguire l'ordine di dipendenza fra le conoscenze:  (juesta relazione generale, che noi abbiamo indicata, fra le conoscenze comparative e le esistenziali. Noi abbiamo visto che la matematica ha })er oggetto dei* rapporti di somiglianza, ma dei rapporti (iejnitl di somiglianza: questi sono o delle classazioni o delle egualianze. D' una maniera generale possiamo dire che ogni verit importante, consistente in rapporti comparativi, si riduce a stabihre delle classazioni o delle eguaglianze:  che soltanto queste due specie di relazioni Jianiio un'impoi'tanza per la previsione dei fenomeni reali; poich, da una parte, la conoscenza dcirordine, cio delle uniformit, della natura suppone Tesatta nozione delle classi, e dall'altra parte, in quest'ordine, tutti i rapporti, dai pi evidenti ai pi riposti, implicano delle relazioni quantitative. i:^ 10.^' Non vi ha altra scienza, oltre le matematiche pure, che abbia per oggetto dei rapporti necessari e conoscibili a priori Potrebbe sembrare forse che tale sia la logica formale: ma questa concerne i rapporti, non tra le cose, ma tra le proposizioni, in quanto vi ha una dipendenza fra la verit di ciu'te asserzioni e r[uella di certe altre, giusta le regole della coerenza o, come dicono i logici inglesi, della consistenza, che sono i principii d'identit e di contraddizione. La logica formale dunque, non essendo governata che da questi [)rincipii, si aggira neYidera per idem, e rinferenza, in cjuanto  l'oggetto di (luesta parte della logica, non  che un'inferenza appal'cnte, pei* cui la conoscenza non fa alcun vero progresso. Le necessit con cui ha da fare la logica formale, si riducono quindi a (jnella di evitare la contraddizione; non sono delle connessioni necessarie tra fatti distinti, o tra verit distinte: cosi esse restano fuori dell' argomento di questo capitolo, in cui non si tratta che delle necessit subiettive che rappresentano delle necessit obbiettive (bench i fatti, che queste legano, siano in |)arte anch'essi subbiettivi), e che, come tali, costituiscono dei giudizi e delle conoscenze reali. Le verit necessarie e a priori, che si trovano fuori della matematica, sono generalmente, non d'inferenza, ma intuitive; e si riducono quasi tutte (quelle che non si limitano ad enunciare che A somiglia a B o ne differisce) all' alTermazione di cassazioni o esclusioni da classi. Noi potremmo chiamare questa sorta di verit delle proposizioni analitiche, intendendo con ci di conformarci aira])plicazione pi abituale di questo termine, purch non si dimentichi che una proposizione analitica non vorr gi dire per noi l'espressione di un giudizio in cui l'attributo  contenuto nel soggetto, come pretcn.jono i concettualisti, ma una proposizione d'una conoscenza intuitiva, che non implica altro se non delle classazioni o esclusioni da classi. Questa sorta (U proposizioni non sono, a gradi diversi, che una complicazione della semplice affermazione in cui non si pone altro che la somiglianza o la difl'erenza fra due cose. Il caso pi semplice  il giudizio di percez^ione; p.e.: Questa cosa che io vedo  un pomo  Bisogna avvertire die questa proposizione, come tutte quelle dello stesso genere, pu avere due sensi dilrenti. Dall' impressione che fa sulla mia vista la superficie del pomo, io posso inferirne che, con questa propriet particolare che  r oggetto della mia sensazione attuale, coesistono tutte le altre propriet del pomo, che io ho trovate costantemente associate con la prima. Questo  un giudizio esistenziale, che  perci('> contingente a a posteriori. La })roposizione indicata non  dunque necessaria ed a priori, se non in quanto essa esprime che la cosa percepita, date I tanto le sue propriet che io percepisco attualmente, quanto quelle che sono oggetto d'inferenza, deve classarsi tra ipomi. Noi abbiamo un caso alquanto pi complesso, se il soggetto, non particolare, ma generale; p.e.: L'uomo  un animale. Tali proposizioni potrebbero considerarsi come le enunciazioni di dipendenze fra due classazioni. Noi dobbiamo qui ripetere l'osservazione antecedente: L'uomo  mammifero  pu esprimere sia che l'uomo ha quelle particolarit dell'organizzazione che si trovano in un mammifero, sia che esso, avendo gi conosciuto che egli ha queste particolarit, deve classarsi tra i mammiferi. Vi ha un caso speciale, di cui dobbiamo fare menzione, perch potrebbe tirarsene un' obbiezione contro la teoria nominalista.  quando l'attributo non pu denotare altri oggetti all' infuori di quelli stessi che sono denotati dal soggetto. Sia p. e. questa proposizione:  Gli oggetti colorati hanno un'estensione visibile. Non vi hanno altri oggetti che abbiano un' estensione visibile tranne gli oggetti colorati, il colore e 1' estensione visibile essendo d' altronde, non gli oggetti di due percezioni distinte, ma di una sola e indivisibile percezione, in modo che noi non potremmo separare queste due qualit se non per un'as^razione. Tuttavia la proposizione non enuncia altro che delle classazioni di oggetti concreti con altri oggetti concreti: essa significa che ogni oggetto, il quale pu classarsi sia fra i bianchi sia fra gli azzurri sia fra i rossi ecc., pu anche classarsi sia fra i lunghi sia fra i corti, sia fra i larghi sia fra gli stretti, sia fra gli alti sia fra i bassi, ecc. Un altro caso di affermazioni disgiuntive di classazione si ha nelle proposizioni di divisione, cio nelle quali si divide un genere nelle sue specie. Alcuni concettualisti vi hanno visto una sorta di giudizi analitici, in cui il soggetto viene decomposto, non secondo la comprensione, ma secondo V estensione. Ma in realt esse non enunciano se non che tutti i particolari, i quali si classano sotto il genere, si classano altres sotto Tuna o Taltra delle specie. (Queste proposizioni sono necessarie ed a priori, quando non implicano alcun'atlermazione sull'esistenza . r Una sezione conica  un' ellissi, un'iperbole o una parabola : qui si tratta di oggetti semplicemente possiljili, quindi la proposizione  necessaria. Ma:  I vertebrati sono mammiteri, uccelli, rettili o pesci  ; la proposizione  contingente e s[)erimentale, perch implica Tatlbrmazione che queste classi, e soltanto queste, dei vertejrati esistono. Una divisione di oggetti reali, la (pale esaurisca tutti i possibili, come ({uesta:  Gli animali sono vertejrat i o invertebrati ,  necessaria, soltanto se non implica Tafterniazione che tutti i membri della divisione esistano eflettivamente. La dieresi di Platone trattava i reali come i I^ossibili: questo filosofo retendeva di possedere un metodo, per cui si i)Oteva, i)er la semplice divisiono progressiva dei concetti, partendo da un concetto primitivo, il pi universale di tutti, la cui realt era data a priori, pervenire alla scoverta di tutte le specie reali ( Idee ) comj)rese sotto (juesto concetto, e quindi alla conoscenza a priori di tutto il reale. Noi possiamo considerare come un altra variet delle proposizioni analitiche (di classazione) quelle che atl'ermano la dipendenza fra due termini correlativi:  Il superiore sui)|:>one Tinleriore , one la valle  Designare un oggetto per un nome implicante una correlazione,  assimilare quest'oggetto ai termini omologhi di una data classe di coppie di correlativi, il che suppone che roggetto  considerato in correlazione con un altro, il quale alla sua volta pu essere assimilato agli altri termini a s omologhi delle coppie di correlativi della classe data, ed essere designato, quindi, per il nome opposto. Cosi Tatfermazione contenuta in una proposizione come quelle che abbiamo citate,  che se un oggetto riceve il nome d'un correlativo, un altro oggetto, con cui viene paragonato e che noi ci ra|)presentiamo simultaneamente con esso, deve ricevere il nome deiralti'o correlativo. La proposizione dunque non esprime che una dipendenza necessaria Tra due classazioni. Il principio hegeliano che gli O])])Osti si implicano reciprocamente, e che data l'esistenza dell'uno  data per ci stesso quella dell'altro, pu riguardarsi come una generalizzazione del latto contenuto nelle cori'elazioni di cui abbiamo Ciarlato, con la pretesa di estendere, per questo mezzo, alle conoscenze sull'esistenza la stessa connessione necessaria ed a jtriori che si trova in questa classe di giudizi sulla somiglianza. I gruppi indicati di proposizioni analiiic/tc sono uno sviluppo dell'atlei'mazione di somiglianza; un altro grupjMj, che si potrebbero chiamare proposizioni analitic/te ncf/ative, es[)rimono invece delle affermazioni di differenza. Noi considerereuio soltanto (juelle il cui soggetto  un termine generale. Tali sono }>. e.: L'uomo non  un bruto, Il cerchio non  quadrato . (Queste proposizioni non enunciano, come abbiamo gi detto, che delle esclusioni da classi, cio che gU oggetti che ai)partengono all'una delle classi (uomo, cerchio, ecc.) devonr) essere esclusi dall'altra classe 0>i'uto, (juadrato, ecc.). Il senso della i)roposizione  al l'ondo lo stesso, se invece di dire: Il cerchio non  quadrato, noi diciamo:  l'na cosa non i)u essere cerchio e (piadrato , cio la llgura circolare e la figura quadrata sono due attributi non compatibili nello stesso soggetto. Non bisogna vedere in una simile proposizione im giudizio esistenziale negativo, cio la negazione del-l'esistenza di un cerchio quadrato: ci di cui si negherebbe l'esistenza in questo caso, sarebl)e un impossibile logico, vale a dire una cosa di cui non possiamo formarci nozione alcuna (Impossihie, dice W oli*, est ciijm nullani notionera formare posswnus). Ma noi non possiamo port l  -tare alcun giudizio su ci di cui non possiamo avere alcuna idea: quindi non possiamo, a parlar rigorosamente; negarne l'esistenza, ix)ich perci bisognerebbe pensarlo e averne l'idea. Ci in realt che una simile proposizione enuncia non  duncjue che delle esclusioni da classi: cio che tutti gli oggetti possibili, vale a dire che noi possiamo rappresentarci, a cui convenga il nome di quadrato,, o in altri termini, appartenenti alla classe dei quadrati,, non possono far parte della classe dei cerchi; e viceversa tutti gli oggetti possibili, cio rappresentabili, appartenenti alla classe dei cerchi, non possono far parte della classe dei quadrati. Quando noi non possiamo rappresentarci alcun oggetto, il quale appartenga al tempo stessa a due classi date, i nomi delle due classi si chiamano attributi incompatibili; tali sono: uoao e bruto, cerddo e quadrato, tutto bianco e tutto nero, ecc. Se invece noi possiamo rappresentarci che uno stesso oggetto appartenga alluna e all'altra di due classi distinte, comeKjuadraio e grigio, o ^flosofo e j^oeta, i termini che indicano queste classi sono degli attributi ditlerenti, ma non incompatibili. Due attributi digerenti possono non mai trovarsi uniti nella realt, p. e. moneta e combustibile; ma da ci non se^ue che i due atti'ibuti siano incompatibili, nel senso logico di questa parola, una moneta combustibile non essendo un impossibile logico, cio una cosa irrappresentabile. Cosi la proposizioi.: . Similmente, quand'anche non vi fossero nell'esperienza altri cerchi che quelli che ditTeriscono d'una maniera ai)prezzabile dall'ideale geometrico, i nostri sensi ci apprenderebbero sempre che, nella misura in cui un cercliio e una retta si avvicinano alla definizione, 1' estensione del loro contatto si avvicina ad un sol punto (Logica, e Filos, di Hamilton trad. frane)!' Ma perch in questi casi, domanderemo noi al Mill, le associazioni contrarie, relative ai cerchi e alle rette approssimative, non impediscono almeno la formazione dell'associazione inseparabile, sulla quale  secondo lui fondata la necessit delle pi*0[)Osizibiettiviamo le nostre sensazioni, e consideriamo l'estensione, la figura, ecc. come attributi di oggetti reali esistenti fuori di noi. Ascoltiamo ora lo stesso Mill sul principio di causalit:  Ogni persona, egli dice, abituata all'astrazione e all'analisi arriverebbe, io ne sono convinto, se essa dirigesse a questo fine lo sforzo delle sue facolt, dacch questa idea fosse divenuta familiare alla sua immaginazione, ad anunettere senza ditiicolt come possibile nell'uno, per esempio^ dei numerosi firmamenti, di cui Y astronomia siderale compone l'universo, una successione degli avvenimenti tutta fortuita e non obbediente ad alcuna legge determinata; e di fatto, continua il Mill, non vi ha n nell'esperienza n nella natura del nostro spirito una ragione qualunque di credere che non sia C(5^i in qualche parte  (Logica). Noi facciamo le nostre riserve sullo scetticismo di quest'ultima proposizione, contraria evidentemente alla pratica uniforme di tutti gVi uomini di scienza: ci che noi vogliamo mostrare non  che il principio di causalit non sia una verit assolutamente universale, ma che esso non  una verit, in senso stretto, necessaria ; e la citazione di Mill, a cui si potrebbe aggiungere tutto ci che gli scettici hanno detto contro (juesto principio, vie come prova che la negazione di esso pu essere perfettamente concepita. 3^.  innegabile che una proposizione basata sulle esperienze pi familiari si distingua dalle altre per una sorta di necessit: ciascuno sentir la differenza che vi ha, sotto questo rapporto, fra queste due proposizioni: I corpi in movimento comunicano per l'urto il movimento agli altri corpi ; e: I corpi si attraggono in ragione inversa del quadrato della loro distanza. Vi ha nella specie di proposizioni di cui la prima  un esempio, un legame cosi stretto fra le idee, che esse hanno in ci la pi grande somiglianza con quelle che sono rigorosamente necessarienoi vedremo anche nel Saggio seguente che questa somiglianza fra le due specie di proposizioni ha una importanza particolare per la spiegazione dei concetti della metafisica. Nondimeno la necessit, tutta relativa, delle proposizioni che non sono che delle generalizzazioni dell'esperienza pi familiare, non raggiunge mai il grado delle proposizioni strettamente necessarie: il legame fi*a le idee non diviene mai cosi forte da renderle assolutamente inseparabili, e noi possiamo sempre concepire la fMDssibilit del contrario. Noi ripeteremo un esempio gi citato, il quale  assai proprio a mostrarci la differenza tra una verit assolutamente necessaria, come quelle della matematica, e una verit familiare, che non ha se non questa necessit relativa che pu essere spiegata per la associazione delle idee. Cercando di mostrare che il contrario di una proposizione matematica pu essere concepibile, si  supposto il caso di  un mondo in cui, tutte le volte che due coppie di oggetti sono poste in prossimit l'una dell'altra, o esaminate insieme, un quinto oggetto  immediatamente creato, e portato sotto l'esame dello spirito al momento in cui egli unisce due e due . Noi abbiamo osservato che anche in un mondo sifttto due e due sarebbero sempre eguali a quattro, bench, in un certo senso, laggregato totale l'ormato dalla riunione di due oggetti a due oggetti sarebbe, non quattro, ina cinque; e che la supposizione mostra che, se il contrario della proposizione aritmetica che atlerma un'eguaglianza,  inconcepibile, il contrario della proposizione fisica, strettamente legata con la prima, e che afferma una seipienza, pu concepirsi quantunque in (luesto caso non possa invocarsi alcuna ditl'erenza nella frequenza delle esperienze, Tesperienza dell'una di queste due verit essendo stata per noi sempre congiunta con quella dell'altra . Ora se vi ha una verit fondata suirunitbrme esperienza d'ogni momento,  certamente (luesta persistenza numerica degli oggetti, questo fatto die l'aggregato totale, risultante dalla riunione di pi aggregati minori,  uguale alla loro somma. Ma se una verit familiare come questa diilerisce ci non per tanto da una verit necessaria, allora bisogna convenire che tra le verit necessarie e le contingenti vi ha una differenza di specie, e non una semplice differenza di grado, dovuta alla frequenza pi o meno grande delle esperienze . '{) Un esenii'o r inconccpililit della negativa dovuta all'associazioTie, il (iiialr -^i trova in quasi tutti gli associazionisti,  Tinipossibilit di concepire separatamente il colore e l'estensione. Hamilton obbiettava giustamente che questa incapacit del nostro pensiero  una i^^ova che queste due proprieti degli oggetti ci sono date primitivamente e indissolubilmente unite (per quanto  lecito dire di due astrazioni clie esse son( indissolubilmente unite) in una percezione unica del senso della vista. Se il colore  assolutamente inconcepil)ile separatamente dall'estensione, cil)asta a dimostrare la nullit radicale della teoria cos detta empirista sull'origine delle nozioni di spazio: perch la teoria supi>onendo un momento in cui ij colore esiste nello spirito senza l'estensione, suppone una cosa che  per noi assolutamente inconcepibile, cio un non senso, poich una cosa inconcepibile e un non senso sono dei termini perfettamente sinonimi. Quest' argomento acquista una forza particolare contro lo Spencer, per cui il criterio della verit consiste nella inconcepibilit della negativa. In altro esempio d'inconcepibilit della negativa dovuta aU'assui iJMiri l: l'oggetto della conoscenza a piuori 4i7 4" 11 tentativo di spiegare per 1' associazione delle idee una verit necessaria ( nei . casi in cui si tratta di una necessit assoluta, come nelle verit intaitice della matematica^  al fondo contradcUttorio in se stesso. Uno dei motivi della dottrina degli psicologi intuizionisti, secondo la quale delle proposizioni, non aventi elfettivamente che ima necessit semplicemente relativa o approssisociazione , secondo Mill (/'//os. di Hamilton, e. VI), limpossibih't di rappresentarci il tempo e lo s]azio come liniti. Ova questa proposizione:  il tempo e lo spazio sono inHiiiti , pu avere icemente l'assenza di limiti dello sj^azio e del tempo considerati in se stessi. Nel ])imiio senso In iu'oiosizione, come vedremo nel lungi azio in ({uesto senso non sono niente di reale: essi non haimo che un'esistenza puramente ideale, non sono er le cose e per gli avvenimenti. L'atfermazione deirinflnit del tempo e dello spazio, in o  intinito: ci vuol dire semplicemente che. data una siuM'e di fenomeni successivi, di (lualuncjue lunghezza essa sl vi ha sempre posto, prima e dopo ([uesta seiMe, per nitri jtvvenimenti possibili: in altri termini, che noi possiamo, in iden, ]>rolungare la serie indefinitamente, (iio quanto vogliamo. Il temiM  infinito, lo spazio  inhnito , sono dun(iue una specie di i)ostulati, come (piello della geometria che  una retta pu essere prolungata indefinitamente, e gli altri che si trovano innanzi al I libro d'Eu('lide. Onesti ]iostulati sono, in un senso, delle iroi>osizioni necessarie, in quanto la possibilit ideale che essi enunciano , in un senso, necessaria. Attermare la necessit di una di queste possibilit ideali,  semplicemente alVermare l'assenza di qualsiasi incongruenza o impossibilit intrinseca nella nozione, altermazione che  necessn riamente m ) #1 mativa ma che questi psicologi confondono con le profKDsizioni assolutamente necessarie sono indipendenti dalTesperienza,  certamente la difficolt che noi proviamo a pensare separatamente le idee che sono gli elementi di queste proposizioni^ ( .  evidente in effetto che per affermare che esse provengono dall' esperienza, noi dobbiamo pensare vero, come sarebbe necessarioinente vera ralferinazione contraria^ se si trattasse invece di una no/ione composta di elementi incom]>atibili. La necessiti! dell" infinit del tempo e dello spazio, nel secondo siirnifcato di questa espressione, si spiega dunque altrimenti che i>er le leprgi dellassociazione. Se invece essa s'intende nel primo significato, cio che il reale non ha limiti n nel tempo n nella spazio, in (luesto caso si  -ertamente fondati a dire che questa tendenza pressoch irresistibile ad oltrepassore ciuolun(]ue limite immaginabile (tendenza, per altro, che non esiste >ropriamente che per i limiti nel tempo, non i>er(]uelli nello spazio) e una conseguenza dell'associazione delle idee; ma juesta tendenza jirodotta dall'associazione pu cosi poco dar luogo a delle proposizioni necessarie. che essa d luogo, al contrario, a delle j^roposizioni necessaria' mente false. LoS])eneer. iei suoi Piinripii di Psicoloffia, d pure degli esemp di pro>osizioni necessarie dovute alTesperienza. Nella teorica del ragionamenti), dopo aver diviso questo in quantitatico e (juaitatiro ^ suddivide il secondo in perfetto ed imperfetto. Un ri\S'oni\ mento perfetto  quello la cui conclusione  una verit necessaria, cio di cui la negazione sarebbe impossibile. Quantunque quest'ultima distinzione sia ivi fondata sul carattere dei rapporti comi>arati, che nei ragionamento perfetto sono, secondo l'autore, eguali, mentre nell'imperfetto non sono clie simili, tuttavia la dottrina generale di Spencer sulT inconcepibilit della negativa  che questa quando non deriva da una necessit primordiale del pensiero  fondata sulla frequente ed uniforme ripetizione dell'esperienze, sia nell'individuo sia nella specie. Cosi, siccome egli considera come dovute all'esperienza le verit enunciate nei suoi ragionamenti jualitativi perfetti, sembra che per lui la necessit di queste verit sia, in ultima anahsi, fondata sulle leggi dell'associazione. Noi al)biamo visto che i ragionamenti qualitativi perfetti, che (jueste idee Tuna separatamente dairaltra: dobbiamo inlatti concepire il tempo in cui il legame ira (lueste idee non si era ancora ibrmato, e immaginare che, in con dizioni empiriche ditlerenti, questo legame non si sareb-. be formato, ma si sarebljero formati invece altri legami incompatibili con esso; ci che  pensare le due idee senza il loro legame, e disgiungerle Tuna dalFaltra. Ora se Si>encer chiama a r((pporfi concinni/, y. e. so A coesiste con B e H con C. A e C coesistono, se A prei.'ede H e H precede C, A precede C, ecc. non costituiscono delle inferenze reali, e che perci tutta la necessita della conseguenza si riduce. i>er essi, alla necessit di evitare una contraddizione. In quanto a (luclli a rapporti (Hxganti, alcuni esempi addotti dall'autore costituiscono delle inferenze reali, ma queste inferenze non sono delle verit strettamente necessarie, cio il cui contrario  assolutamente inconccitiblle uno di questi esempi consiste nel legame fra la causa e l'effetto, e mi jiltro in (piclio fra la sensazione di resistenza e la l)resenza di (pialche cosa di esteso (cio, secondo noi, di visibile). Al contrario i due alti'i esempi che egli adduce (v. ;'/v6otenza a separare queste idee non essendo pi relativa o a[)prossimativa, ma assoluta, noi siamo del tutto incapaci di conce]>ire che il legame (lue punti oaduepai'ti osto, si trova ora in un altro, e una conclusione necessario che essa ha attraversato uno spazio intermediario:  inconcer>ibile che essa sia giunta nella losizione ]>resente senza essere pass;\ta per le ]>osizioni intermediarie fra la sua situazione ori.irinale e la sua situazione attuale. Vi ha qui secondo Spencer raft'ermazione di una successione, che si fonda suUesi^erienza: invece secondo noi si tratta anche in (jucsto caso di una proposizione (aiaitica, nel senso ^ilmeno della proposizione in cui essa  strettamente necessaria. Si  gi osservato che noi riconosciamo per (mo smesso oggetto delle ]resentazioni distinte e successive dei nostri sensi, alla condizione che o non vi sia stato cangiamento negli attril)uti imi>Iicanti delle relazioni si>aziali, o che vi sia stato, sotto questo rapporto, un cangiamento, ma risultante dall' accumulazione di una serie di cangiamenti ciascuno per se stesso indiscernibile. Ne segue che ^Tsedia. da noi veduta in due posizioni dilferenti. non sarebbe da noi chiamata la stessa sedia, se noi non supponessimo che essa ha attravei-sato le posizioni intermediarie. Se fossimo costretti ad escludere la supposizione t\i queste ]osizioni intermediarie, noi non diremmo pi che loggetto visto nel secondo ]tosto e lo Messo che (jucllo visto nel iwimo; ma che l'oggetto del primo posto  stato distrutto, e un altro in tutto simile  stato creato nel secondo. Ora il fatto di un cominciamento assoluto e di un annichilamento assoluto di un corpo  certamente una delle cose pi incredibili; ma nondimeno (M sembra che ogni persona abituata', come dice Mill, all'astrazione e all'analisi, non lo trover inconcepibile; questa persona vedr chiaramente la differenza fra una proposizione cnunciante un simile fatto e delle i^roposizioni assolutamente inroncei)ibili,comerhedue e due fanno cinque o che due rette chiudono uno spazio. Cosi se, nella proposizione non si  formato se non nel corso deir esperienza, che anteriormente a (juesta esso non esisteva, e che in condizioni empiriche differenti esso non esisterebbe, ma esisterebbero invece dei legami differenti incompatibili con esso; perch, ripetiamolo, concepire ci, rappresentarselo/ sarebbe rompere il legame attuale Ira le idee, e pensarle separatamente Tuna dall'altra, ci che  in contraddizione con ripotesi. Ne segue che il tentativo di spiegare le verit necessarie per la forza dellassociazione timpirica arriva logicamente al risultato di negare resistenza di verit necessarie. Ed  di questa maniera clie la intendono, al tondo, gli associazionisti.  Non vi ha, dice Mill, proposizione di cui si possa dire che ogn'intelhgenza umana deve eternamente e irrevocabilmente crederla. Piti proposizioni a cui questo privilegio era accordato con la piti grande confidenza, hanno gi trovato degl'increduli. Le cose che si  supposto non poter mai essere negate sono innumerevoli; ma due generazioni successive non si accorderebbero a formarne la lista. (Logica). Cosi Bain, d'accordo col Mill, non accorda l'esistenza di altre verit necessarie che quelle fondate sui principii d'identit e di contraddizione: per lui verit necessaria e propoche la sedia ha atti'aversato le ])Osizioni iiUvrmediai'ie, non si vedr l)i il semplice enunciato di una condizione necessaria dell'identit della sedia, ma invece Taffermazione deiresistanza di questi fenomeni intermediari che hanno formato il legame fra le due presentazioni successive dei nostri sensi, allora certamente la proposizione, in questo signillcato, non sar pi cauditica, ma non sar nemmeno strettamente necessaria. Ci si perdoner d'avere insistito cosi lungamente sucpiesto soggetto, che ha per noi la sua importanza; la quistione se Tassociazione empirica possa formare fra le idee dei legami assolutamente indissolubili, e determinare per conseguenza delle proposizioni, nel senso stretto, necessarie, essendo per noi connessa con le quistioni pi importanti della teoria della conoscenza. sizione idtntica (o puramente verbale) sono termini perfettamente equivalenti. (Logica, t. 1", Primi princ. della logica.) Noi dobbiamo aggiungere all'osservazione antecedente rimpotenza in cui sono gli associazionisti, di spiegare per il loro principio la necessit delle proposizioni matematiche. Intatti, se la frequenza delPesperienze pu sembrare di fornire una spiegazione plausibile delle conoscenze immediate delta matematica, lo stesso non potrebbe (J irsi per le conoscenze defivate. Si pu certamente invocare Tesperienza d'ogni momento per la proposizione clie due e due fanno quattro o ciie due rette non chiudono uno spazio; ma le proposizioni che la tangente non tocca il cerchio che in un punto, che la somma degli angoli d'un triangolo  uguale a due retti, e in una ])arola, un teorema qualuncjue della geometria o dellalgebra non enunciano delle verit d'un'esperienza cosi familiare come molte proposizioni sulle cose di fatto, le quali nondimeno sono> contingenti, mentre le prime sono necessarie. Cosi noi ritroviamo negli empiristi inglesi, sotto una forma pi generale, le opinioni dei metageometri sulla contingenza e sul valore limitato delle verit matematiche. L assioma:  due cose eguali ad una terza sono eguali tra loro , non , dice il Bain, una verit identica: cosi essa non  una verit necessaria (Logica). Il Mill cita, approvandolo, un autore anonimo, per mostrare che dei principii contrarii alle verit pi familiari della matematica avrebbero potuto divenire perfettamente concepibili, anche con le facolt che abbiamo, se queste fossero coesistite con una costituzione differente della natura esteriore. La citazione comincia per la supposizione, da noi pi volte menzionata, di un mondo in cui una quinta cosa  immediatamente creata tutte le volte che si uniscono due e due: Fautore ne conclude che non  inconcepibile che due e due facciano cinque ; ma noi abbiamo visto die egli confonde con la verit matematica e comparativa una verit fsica ed esistenziale che  con essa strettamente legata.  Si potreijbc pure sui)porre, continua l'autore, un mondo in cui due linee rette chiuderebbero uno spazio. Immaginate un uomo che non ha mai avuto Tesperienza di due linee rette i)er T intermediario di un senso qualunque, i)Onetelo tutto ad un tratto sopra una -ferrovia che s'estende in lontananza su di una linea perfettamente retta a una distanza indelinita nei due sensi. Egli vedrebbe le rotaie, le ]3rime linee rette ch'egli avesse mai viste, toccarsi in apparenza, o almeno tendere a toccarsi, a ciascun limite deirorizzonte, e ne concluderebbe, a difetto d'ogni altra esperienza, ch'esse chiudono uno spazio, (piando sono pi*olungate abbastanza lontano. L'esperienza sola potrebbe disingannarlo. In un mondo in cui ogni oggetto fosse rotondo, alla sola eccezione di una ferrovia retta inaccessibile, tutti crederebbero che due linee rette chiudono uno spazio. In (piesto mond(j, per conseguenza, rimpossibilit di conceire che due linee rette possono chiudere uno spazio, non esisterebbe (\\ Filos. (li Hamilton). In realt in questo mondo, in cui non esistessero altre linee rette che le rotaie di una ferrovia inaccessibile, non sarebbe vero i)er nessuno che due linee rette possono chiudere uno sj^azio, quantuncpie potrebbe essere vero clie nessuno avesse l' idea di linee rette. Il Alili come chiunque altro chiama un'illusione della prosprettiva quella di una ])ersona die, gettando gli occhi sopra una via lunga, vede convergenti i due lati che in realt sono paralleli : ora Y illusione non consiste in ci che le forme geometriche percepite sembrano avere propriet diiferenti di quelle della stessa specie, ma in ci die gli oggetti sembrano avere delle forme geometriche d'un'altra specie di quelle die essi hanno in realt. (Queste linee che l'occhio, i)er un'illusione, vede convergenti, egli non le percejsce come parallele n come pertettamente rette: quindi, se noi non potessimo rettificare quesf illusione, noi non ne inferiremmo gi che due parallele convergono o che due rette jxDssono chiudere uno spazio, ma che le linee, che noi guardiamo, non sono parallele ne rette. La stessa osservazione vale per Taltra citazione che la il Mill della Geometria dei visibili di Reid, in cui questo filosofo sostiene che, se noi avessimo il senso della vista ma non il senso del tatto, ci semljrerebbe che ogni linea retta prolungata deve ritornare infine su se stessa, e die due linee rette prolungate devono incontrarsi in due i)unti. L'i[Ktesi di Reid riposa sulla teoria che noi non i)ercepiamo immediatamente per la vista la terza dimensione dello spazio. Supponiamo che ([uesta teoria sia vera^ e che Reid fosse i)erci fondato ad asserire che ad un uomo, limitato al solo senso della vista, le rette sembrereb)ero ritornare su se stesse. Non ne seguirebbe che quest'uomo attribuirebbe alle rette geometriche propriet dilferenti da ({uelle che noi ad esse attribuiamo, ma che quelle linee che noi vediamo rette, egli non le vedrebbe tali, ma di tutt'altra forma. 5" Conformemente alla dottrina che non vi ha altra necessit nelle j)roiX)sizioni che quella fondata sul I)rincipio di contraddizione, o in generale, sui principii della conseguenza, il Mill sostiene che i teoremi della matematica sono delle verit necessarie, solo in (juanto derivano necessariamente dalle loro premesse. 1 risultati delle matematiche, egli dice, e in generale delle scienze deduttive, ^ sono, senza dubbio, necessarie in questo senso ch'essi derivano necessariamente da certi [)rincipii, chiamati assiomi e definizioni ; cio a dire eh' essi sono certamente veri, se questi assiomi e definizioni lo sono; perch la })arola necessit, anche presa in questo senso, non significa niente di pi che certezza. Noi sappiamo cli-i secondo il ]Mill (questo carattere di necessit e di certezza |)articolare attribuito alle proposizioni della geometria.  un'illusione, perch alcune delle premesse su cui (|ueste proposizioni si fondano, cio le ipotesi implicate nelle definizioni, si allontanano sempre, pi o meno, dalla verit ( V. e. G'^ 10 ). Non occorre di ritornare su (] uesta opinione del Mill, di cui abbiamo sufiicientemente discusso il fondamento su cui essa  appoggiata, cio la dottrina che una definizione geometrica implica la supposizione deir esistenza di oggetti reali corrispondenti alla definizione. Noi abbiamo visto che non  vero che questa pro[)Osizione esistenziale sia una premessa della geometria. Ma quand'anche l'argomento del Mill fosse probante contro l'esattezza e il rigore delle pi'oposizioni geometriche, sarebbe sempre un/r/noratio clcticld come obbiezione contro il carattere (fi necessit che si attribuisce a queste proposizioni ; poich la necessit matematica non consiste in ci che le proposizioni di questa scienza siano pi rigorosamente vere che quelle delle altre scienze e pi esattiimente conformi ai fatti, ma nella incapacit del nostro spirito di sup[)orre come j)Ossibile il contrario di ci die enuncia una pro[)0si/jone matematica gi riconosciuta come vera, mentre, [)er le proposizioni meglio stabilite delle scienze fisiche, questa possibiht del contrario pu essere sempre supposta. \\ questo il[)untoclie il Mill perde di vista nelle sue considerazioni su (juesto soggetto:(iuaido si tratta degli assiomi, egli pu spiegare la coscienza della necessit per la legge dell'associazione inseparabile ; ma questa spiegazione essendo inapplicabile alle proposizioni dimostrate, egli non lascia perci altra necessit a queste ultime che quella della dinixstrazione stessa, cio il sentim3nto della connessione necessaria fra le [)reiiiesse e la conseguenza, che accompagna ciascun passo del ragionamento. (Quando si di!e che le conclusioni della geometria s^no delle verit necessarie, la necessit consisti), egli lice, unica niente in ci che esse derivano regolannerite dalle supposizioni da cui sono dedotte Il solo senso nel quale le conclusioni di una ricerca scientifica qualun(]ue possano essere dette necessarie  che esse seii'uono Icittimamente da qualche supposizione, la (juale, nelle condizioni della ricerca, non  da mettere in quistione.  per conseguenza in (jucsto rapporto che le verit derivate di ogni scienza deduttiva si trovano con le induzioni o supposizioni su cui la scienza  stabilita, e che, vere o false, certe o dubbiose in se stesse, sono sein[)re ritenute certe, relativamente allo scopo particolare della ricerca >'. Cosi non vi lia, secondo il iNIill, alcuna ditlerenza, (juanto alla necessit, fra le matematiche pure e quelle branche delle scienze naturali che, per le matematiciie, sono divenute deduttive. Siano }). e. queste due proposizioni: il teorema della geometria che stabilisce che, nel cerchio, il diametro ha con la circostanza il rapporto ;r, e il teorema della fsica che stallisce che il pendolo ideale eseguisce intoi'no alla verticale una serie indefinita di oscillazioni della stessa am[>iezza e della stessa durata. Le due i)roix3sizioni sono [)er AJill egualmente necessarie, perch seguono con la stessa necessit dalle loro premesse: la i)roi)Osizione fisica dai principii della meccanica su cui la teoi-ia del pendolo  fondata, e dalla supposizione d'un pendolo nelle condizioni ideali supposte dalla teoria; e la i>roposizione geometi'ica dagli assiomi della geometria e dalla supposizione di un cerchio coiTispondente alla definizione. Se la seconda jn'oposizione sembra pi necessaria della prima,  iie, derivata da ci, die mentre, per la proposizione fisica, si tiene conto della circostanza che non vi hanno nella realt dei pendoli esattamente conformi al pendolo ideale, al contrario, per la |)roposizione geometrica, si mette da parte la circostanza che non vi Jianno nemmeno, nella realt, dei cerchi esattamente conformi al cerchio della defnizione. Noi sappiamo invece che la diierenza fraledue proposizioni  reale, e che si ha ragione di chiamare necessar/a la geometrica e eontiiKjcnte la fisica, in quanto noi possiamo immaginare facilmente che la costituzione della natura avrebbe potuto essere diterente dall' attuale, e elle un potere soprannaturale potrebbe cangiare o sospendere le leggi a cui il pendolo obljedisce e tutte le altre leggi del mondo fisico, mentre, al contrario, noi possiamo ignorare quale sia il i'a})porto fra il diametro e la circonferenza, ma non possiamo allatto supporre che il diametro potrebbe avere con la circonferenza un rapporto diverso da quello che noi conosciamo che esso ha. .^Quando il Alili obbietta, contro l'esistenza di verit strettamente necessarie, che molte proposizioni, a cui  stato accordato il privilegio di non poter essere affatto negate, hanno poi trovato deglincreduli, egli pensa a certe induzioni spontanee dell'esperienza [)i familiare, ricevute come verit evidenti per se stesse, come queste: che niente non pu(') essere fatto da niente, che gli antipodi non possono esistere, che una cosa non pu agire dove essa non , ecc. IMa la necessit di queste e simili proposizioni non  che quella sorta di necessit relativa che i)u sola derivare dalla forza dell'associazione: queste sono delle proposizioni esistenziali, e noi al)biamo visto che la necessit, nel senso stretto, non pu appartenere che alle proposizioni comparative, (juali le cosi dette analitiche e quelle della matematica pura. Lo stesso Mill, (v. Filos, d Hamilton e. (')") distingue tra ci che  nel senso stretto inconcepibile e ci(') che  semplicemente incredibile, e conviene che la negazione delle i)roposizioni citate non era propriamente inconcepibile, ma era o sembrava incredibile. Cosi i partigiani della scuola intuitiva gli hanno opposto che egli non avrebbe potuto citare un sol caso, in cui si sia provata la verit o anche la possibilit di un inconcepibile nel senso proprio. INla io non so, dice il Mill, ({uale risposta potrebbe darsi alla quistioiie: si  inai provato che una cosa che era o sembrava inconcepil^ile l'osse vera o t)Ossibile? la (piale i^otesse impedire di replicare che ci che si chiamava inconcepibile non era niente di pi che incredibile; in ettetti, poich T inconcepibilit presenta gradi numerosi, che vanno da una ondendo cosi,  senza dubbio coerente alla sua dottrina, che s[)iega le verit necessarie per un'associazione inseparabile: secondo questa dottrina intatti non vi potrebbe essere una linea i)recisa di se[)arazione ira i due ordini (U [)roi)Osizioni. Ma siccome gli avversari hanno ben ragione di sostenere che tra i due ordini di proposizioni vi ha, non una ditlerenza di grado, ma una ditlerenza s[)ecifica ("(juantunque alcun hlosolb della scuola intuitiva non abijia mai tracciato esattamente la linea di separazione), cosi i casi citati, e che si potrebbero citare, di proposizioni in un tempo ricevute come innegabih eure che luce ed oscurit, rumore e silenzio, movimento e riposo, eiznaprlianza ed inei^uai^^lianza, prima e poi, successiont^ e sinuiUaneit. ogni feno'meno positivo e il suo negativo sono dei fenomeni .listinti, rontrastati di tutto punto, e di cui l'uno  sempre assente^ (juando l'altro  presente. Io considero il principio in luistione come una generalizzazione di tutti pone l'accoppiamento resi .sono andati sino a pretomlere che non vi l.anno ilti-c leggi -nentali, e che tutti i fatti sono spiegabi p l' 1 ti sole legg.. (VI. Mill Dissertai J e .//LI.sST III, lOo e seg.; (Questa dottrina esclusiva, incontrandosi fese lopi delle cose .,on esistessero? Si prelcndc che  resierieii^-, -ore ..esenti al tenn^o 'stesso i\;LZoT;r ^^l^roln e e .dente che quando la ne,a.ionc di c.ualche cosa veTe forni U^ d ^tr di '"u;: r:,u!"r -^ gene ' Wone s,,' f^"t' " l"'Ssouo nascere per islisiiiiil Lh w f '' " ""Possil.ile (tranne forse per alcuMo juelli ^licIIaeclv-elcl.iamaore-anismiseni'n,...^n;> i ;liaPl.'ondereda,lesperien.a-criTe:n o' 'ii ":rr.3-r ^Mia. avrebbe l,iso,M.ato che noi fossimo stati in ."lo di .rei H nozione d. una coso che fosse 1 tempo stesso luce et, eh e movnnento e in riposo, e in una parola, .li un J^,'tto lev " ! thiM,Y^ ^ leMsten/n della contrnddziono /va/c Voi i os^-me ';n:ni':',r''v^ c-e mS la no,.a. o e d ir "i e.^di ",3"'''''^ >o.--.,,csprin,a pere. ^i^ii LMSLLii/a (Il (|ualelie rosa, perdio ri ^n-res8ioiie corretta del principio di contraddizione non  duniiie clic una cosa non ])u essere e non essere al tempo stesso, o che un nttributo positivo e il suo negativo non possono coesistere al tempo stesso nello stesso sogiz-etto, ma sem])]icemente che due Itroposizioni, di cui T una nega ci clic l'altra alerma, non possono essere tutte e due vere.  dalla obbiettivazione illusoria di questo principio e degli altri dello stesto ordine, implicata nelle f(H'mule comunemente impiegate per enunciarli (formule clie per idtro il Min non impiega), che  venuto naturalmente il tentativo di derivarli dairesi)erienza; ed anche qui questo tentativo non ha mancato di conduri-e al solito risultato di negarne la necessit e r universalit assoluta. Il Mill trova a ridire sull' otTerma/Jone di Hamilton che il princii)io di contraddizione e le altre legge del pensiero siano d'unapplicazione universale, e che noi siamo obbligati di crederli veri anche al di l deiresperienza, cio cidi fenomeni. Egli ammette che queste leggi sono universalmente vere per i fe'^oineni, ma non  sicuro della loro verit per i noumeni (se essi esistono): la inapplicabilit di questi principii ai noumeni viene, secondo lui. da ci che noi non abbiamo il dritto di estendere al roposizioni della matematica, e in generale, (jnelle concernenti relazioni fra le idee, siano fondate sul i)rincipio di contraddizione; il die  certamente un errore. ( )ltre a ci il fondamento della classazione  in lui espresso d'una maniera poco precisa: cosi egli si  esposto a non essere compreso. Ma non vi ha dubbio che i suoi giudizi sulle relazioni fra idee, i ([uali sarebbei-o sempre veri, (juaiKranche non esistesse alcun oggetto corrispondente alle idee, non siano i i>iu1  (lizi non esistenziali, essendo opposti ai giudizi concernenti cose di fatto, cio esistenziali. Quantunque perci egli abbia mancato d'indicare cliiarainente che questi rapporti ira le idee sono dei rapporti comparativi (non in verit fra le idee, ma fra le cose stesse, le quali non sono necessariamente reali, ma possono essere semplicemente possibili), tuttavia egli ha tracciato esattamente la linea di separazione fra le due classi dei giudizi, e ha ben visto che alcun giudizio esistenziale ( concernente cose di fatto) non pu essere necessario n a priore. Notiamo che lo scopo, a cui Hume fa servire la sua divisione dei giudizio,  lo stesso che il nostro, quello di determinare i hmiti della conoscenza a priori, mostrando che alcuna Huxley, nel suo libro su Ilunie, (traduz. iranc.), critica questa dottrina, ma mi sembra ch'egli H non l'abbia compresa esottauicnte. Naturalmente i suoi attacclii sono diretti sovratutto contro l'apriorit delle proposizioni matematiche. Che bisogna intendere, egli dice, per quest' asserzione che le proposizioni di questa specie si scoprono per la sola operazione del pensiero, e non dipendono in niente dalle cose che esistono nell'universo? Le nostre idee dei numeri e delle figure e delle loro relazioni sono, come tutte le altre, copiate sulle nosti'esensazioni, e ci che noi chiamiamo universo non  che la somma delle nostre sensazioni. Supponete che non si produca niente nelr universo che rassomigli alle impressioni della vista e del tatto: qual idea potremmo avere d'una linea retta, e a pi forte ragione d'un triangolo e delle relazioni dei lati d"un triangolo? Cosi pure senza l'esistenza nell'universo d'impressioni corrispondenti all'affermazione della somiglianza,  evidente che quest* afiermazione sarebbe impossibile, e (juindi anche l'assioma:  Due quantit eguali a una terza sono eguali fra loro, che non ne  che un casoparticolare. Senza dubbio nessuno contester a Huxley, e tanto meno un seguace di Hume, che le idee su cui volge la matematica derivano dall' esperienza ( proposizione tuttavia che non  vera, in sensa stretto, se non dentro certi limiti ; poich  evidente che, purch si fossero gi ottenute dall' esperienza le nozioni pi elementari sulla forma e sulf estensione, basterebbe la dethiizione p. e. del cercliio o dell'ellissi per darci, anche in difetto d'esperienze specifiche, la nozione di queste figure geometriche. Confr. Bain Logica). Quando Hume dice che le proposizioni della matematica non dipendono dalle cose che esistono nelf universo, egli non vuol dire gi, come suppone Huxley, clie noi potremmo formare queste proposizioni anche se non esistessero nell'esperienza le sensazioni, che sono gli originali delle idee su cui esse volgono, o, ci che vale lo stesso, anche se non esistessero nella natura gli oggetti corrispondenti a queste sensazioni; ci che egli vuol dire  semplicemente che la verit dell'affermazione contenuta in una proposizione matematica,  logicamente indipendente dalla verit o falsit dell' offermazione deh' esistenza di oggetti reali, a cui questa proposizione si riferisca. ( ci che viene spieiu conoscenza simile non  possilMle sulle cose di fatto cio suU' esistenza. Ci basta per giustificare I' empirismo al punto di vista logico, cio come metodo. In effetto il megato Halle pnrole die se^niono iinincliotaniento: \o vi fosse n cerchio ne triangolo nella natura, lo verit .liniostrate .la Euclide non con,servere.,l,oro mono er sempre la loro certezza e la loJo evi.lenza. ) Cu. e perch tali proposizioni non concernono resistenza n,a solamente, come noi abbiamo si'io-alo, delle relazioni .. ^onnuhanxa a,,| dilTonza. La r.uistionc o dun,|ue. non se le i lee che unisce una proposizione matematica lerivino .lallesperienza ma se r esr.orionza sia necessaria per -iustificare T afrermazionJ del rapporto che  Io-etto di una fale,.roposizione. Noi abbiamo .nostrato che non lo , perch, i^er conoscere i rai>porti .li som.^'lianza e di dilToronzo.allaos.servnzione delle cose stesse si pu sostituire ^it. ' '-aucic assoiutaiiit^nte accadere d un altra maniera. Il ^nudizio imnlicntn in .,n rorrumf tfr "''5^ adotSoTclas: queHi ,l e cseTrTT"" -Momento a classario tra etnlr^qu^rii ^.'.iL'tdS VlZ""'toclo a priori e il metodo a posteriori non si disputano le conoscenze sui rapporti comparativi tra gli esseri in essi, cio in quelli fra essi che sono suscettibili di uno studio scientifico, il regno del primo di questi due metodi  incontestato, ma le conoscenze sugli esseri stessi, le loro propriet, la loro azione mutua, e in una parola il loro esistere e il loro modo di esistere. r 'firMiioiiiiM yii limi IMipiM^m0> ^J^JAU^JJ^A Fondamento psicologico della necessita e apriorit dei giudizi sulla somiglianza. 1.^ La necessit di un giudizio non consiste in altro  porto che essi hanno in realt. :;n. 2". Ma quando il rapporto che noi |)ensiamo iion pu essere conosciuto d'una maniera intuitiva come negli esempi ri[)ortati; quando p. e. noi pensiamo un'eguaglianza, che non si conosce immediatament(3 o per una semplice intuizione come quella di due [)i due e di quattro, ma che si conosce soltanto per dimostrazione, come  il caso in tutte le eguaglianze enunciate nei teoremi geometrici; sar vero anche allora che pensare un rapporto, p. e. d'eguaglianza,  avere il sentimento o l'intuizione di un'eguaglianza fra termini pre^senti nel nostro pensiero? Potrebbe sembrare che no; perch, se non fosse possibile di pensare un'eguaglianza fra angoli o linee o superficie che alla condizione di avere il sentimento o l'intuizione dell'eguaglianza fra (jueste grandezze nel momento che ce le rappresentiamo, allora ({uest'eguaglianza non sarebbe una verit di dimostrazione, ma una verit d'intuizione. Vi ha (lui dunque una difficolt reale, che pere) non  insolubile. Per fissare la nostra attenzione sopra un caso concreto, prendiamo p. e. la proposizione che in un trian^rolo che ha due angoli uguali, i lati opposti a questi angoli sono uguah. Siccome quest eguaglianza, almeno quando si tratta d'un grande triangolo, p. e. d'un campo triangolare, non pu essere intuita per l'immediato confronto dei due lati, dire che questi sono eguali non  altro che dire che essi hanno lo stesso rapporto con una misura comune. Un rapporto d'eguaglianza non pu, in ultima analisi, indicare altra cosa che delle percezioni d'eguadianza che abbiamo effettivamente avuto o che potremmo li vere: ma nel nostro esempio come in tutti gli altri in cui il rapporto non  immediatamente percepito, esso invece d'indicare la percezione unica deireguaglianza immediata, indica tutte le percezioni d'eguaglianza che sono implicate nellbperazione della misura. Siccome l'eguaglianza enunciata non ha senso, in questi casi, che relativamente all'operazione della misura, cosi concepire quest'eguaglianza non pu essere che formarsi una concezione delle eguaglianze percettibili implicate nell'operazione della misura. Ora  evidente che, per pensare queste ultime eguaglianze, noi non possiamo rappresentarci, con una precisione rigorosa, i termini fra cui corrono tali rapporti; perch ci sarebbe rappresentarci, con una precisione rigorosa, tutta roi)erazione della misura, cio le grandezze "(la misurare, la grandezza che serve a misurarle, e l'applicazione successiva di quest'ultima sulle due prime Se fosse possibile di rappresentarci tutto ci con una precisione rigorosa, (luestamensurazione ideale equivarrebbe ad una mensurazione reale, e, per cpiesta sola operazione mentale, noi potremmo conoscere allora il rapporto enunciato nella proposizione d'una maniera cosi intuitiva come lo conoI sciamo per roperazi(jne reale dalla misura. Tuttavia noi non possiamo pensare questo rapporto che come consistente in certe eguaghanze percettibili ossia intuitive, e non possiamo pensare alcuna di queste eguaglianze se non per un sentimento di rapporto d'eguaglianza datocida due termini presenti nel nostro pensiero. Ci  necessario, perch la rappresentazione d'un rapporto d'eguaglianza non pu essere che la percezione o il sentimento di questo rapporto allo stato debole, e n possiamo concepire che questo sentimento si produca indipendentemente dalla presenza nella coscienza dei termini del rapporto, n come esso possa essere la percezione di un rapiX)rto fra termini dati, se non  prodotto dalla presenza nella coscienza di questi termini stessi. Noi dobbiamo dunque ammettere ciie anche in questi casi noi ci rappresentiamo i rapporti obbiettivi per dei rapporti corrispondenti intuiti fra le nostre rappresentazioni: le coppie dei termini ideali dei rapporti presenti nel nostro pensiero rappresentano le coppie dei termini reali dei rapporti che possono essere obbiettivamente percepiti, ma non li rappresentano adequatamente ; i primi termini e le loro eguaglianze, piuttosto che le rappresentazioni, nel senso psicologico della parola, dei secondi e delle loro eguaglianze, ne sono semplicemente i simboli. Lo Spencer mostra come una gran parte delle nostre concezioni scientifiche non sono che simboliclie (Pruni pHndpi,) ; e noi stessi' abbiamo gi osservato che le nostre nozioni quantitative sono generalmente pi o meno inadequate e simboliche, essendoci impossibile di rappresentarci le cose, al punto di vista della quantit, d'una maniera cosi precisa come ce le rappresentiamo al punto di vista della qualit. Il carattere simbolico, e perci in un certo modo arbitrario, delle nostre concezioni delle eguaglianze, e in generale, dei rapporti comparativi, che non si conoscono d'una maniera immediata o intuitiva, fa che le proposizioni enuncianti questi rapporti, non hanno per s, rigorosamente parlando, rinconcepibilit della negativa. Nondimeno anche queste proi30sizioni sono necessarie, nel senso die. una volta conosciuta la loro verit, noi non possiamo supporre che le cose potrebbero andare diversamente, come lo iX)ssiarao sempre per le verit esistenziali, anche le pi evidenti. E la ragione  che noi non IX)ssiamo rappresentarci un rapporto di somiglianza che come dipendente necessariamente dalla natura dei termini del rapporto stesso, tutti i rapporti tali esistenti nel nostro pensiero, o che rappresentino adequatamenteirapporti obbiettivi, o che ne siano semplicemente i simboli, essendo semi)re concepiti in una connessione necessaria coi loro termini. .^ 3. Latto dunque dello spirito, quando esso percepisce 0 pensa un rap)orto comparativo,  una vera azione riflessa del cervello, nel senso pi proprio della parola: i termini del rapporto, quando essi sono presentati d'una maniera conveniente ai nostri sensi o rappresentati nel nostro pensiero, ci destano irresistibilmente e fatalmente il senso del rapporto; la coscienza del rapporto non pu avere per condizione che la coscienza dei termini, ed essa  tale, se questi termini sono tali; il rapporto sentito non i)Otrebbe cangiare, a meno che i termini non cangino.  una necessit primitiva e irredutdella nostra costituzione mentale, un atto prlma-r riamente automatico della nostra intelligenza, e noi non dobbiamo sorprenderci se le necessit acquisite del pensiero, dovute allassociazione o alFabitudine, quelle che si sono chiamate delle azioni secondariamente automaticJte, non possono competere per la loro forza con (juesta necessit, che  ingenita al pensiero stesso. Ci che abbiamo detto siega pure perch le verit comparative possono essere conosciute a priori. Allontanate le ipotesi sussidiarie dei razionalisti per ispieirare la possibilit dei giudizi a priori ( dottrina analitica, teoria deirintuiziono razionale, ecc.), la quistione sull'esistenza di questi giudizi si riduce a sapere se esistono o no fra le nostre idee delle connessioni primitive e non derivate dair esperienza. Per le verit esistenziali non vi ha nel nostro spirito alcuna connessione simile: cosi i giudizi che hanno per oggetto queste verit sono tutti a posteriori. Noi non potremmo mai indovinare per la semplice contemplazione deir idea d'una cosa se questa cosa esiste o no nella realt: similmente  invano che noi ricorreremmo alla contemplazione delle idee di due fenomeni per apprendere se il primo suole o no precedere, seguire o accompagnare il secondo. Ci  perch non vi ha nella nostra organizzazione psichica alcun atto primariamente automatico che associi il sentimento della realt alla ra})presentazione di un fenomeno, o (juesta rajjpresentazione a quella di un altro fenomeno antecedente, susseguente o concomitante. La contemplazione delle sole idee ci basta al contrario per vedere se due oggetti sono simili o difterenti, per conoscere che il bleu non  il rosso, che tal gradazione d'un colore  pi carica che tal altra, che la retta  pi breve della spezzata e della curva, ciie due e due sono eguali a quattro e sono minori di cinque, ecc. Cosi i giudizi sulla somiglianza possono essere a priori, perch T osservazione delle cose pu essere sostituita da (juella delle loro idee. E la ragione  che la coscienza di un rapporto di somiglianza essendo invariabilmente legata alla coscienza dei termini del rajjporto, essa deve accompagnarla, tanto se questi termini appariscano nella coscienza a titolo di realt, cio di sensazioni forti, (pianto se vi appariscano a titolo d'idee, cio di sensazioni deboli. 11 legame  lo stesso nell'un caso e neiraltro, e cicV che  vero delle nostre idee si trova necessariamente vero delle cose stesse. i:> 4 Ma qui sorge naturalmente una (piistione: (juando noi confrontando le nostre rappresentazioni, scopriamo fra di loro un certo rapporto di somiglianza, cio otteniamo da questo confronto un certo sentimento di somiglianza, noi atlermiamo subito che le cose corrispondenti alle rappresentazioni hanno lo stesso rapporto, cio che lo stesso sentimento sar ottenuto dal confronto di ^jueste cose stesse. Noi dunque, passando cosi dal rapporto sperimentato fra le idee al rapporto non ancora sperimentato fra le cose, facciamo una vera anticipazione suiresperienza futura. Ora si domanda: per lare questa anticipazione, cio per sapere che i rapporti fra le idee corrispondono ai rapporti fra le cose, ci fondiamo noi sullesperienza del passato, la quale ci mostra costantemente questa corrispondenza, ovvero agiamo in virt di una necessit del pensiero, anteriore e indipendente dair esperienza stessa? Noi crediamo che  la seconda supposizione che  la vera, e che questo fatto costituisce un'eccezione alla teoria deir esperienza, l'unica eccezione per altro che vi sia, pcich  su questo fatto che riposa in definitiva il carattere a /)r/or/ di tutte le conoscenze razionali. Sia p. e. la proposizione: due pi due sono eguali a quattro, e supponiamo un'intelligenza che venga a conoscere per la prima volta questa verit, per il confronto delle solo idee. Se si conviene che questa  una verit necessaria nel senso pi stretto, e che il suo contrario  inconcepibile, deve ammettersi pure che quest'intelligenza, non potendo concepire che due coppie di cose reali fossero ineguali a quattro, non aveva la possibilit di dubitare clie il rapporto fra le cose reali dellesperienza potesse diflerire dal rapporto che essa veniva a scoprire fra le sue idee; e che essa era forzata quindi, anteriormente alle lezioni dell'esperienza, ad estendere alle cose stesse ci che le era stato appreso dalla contemplazione delle sole idee. Tuttavia si supr)orr forse che, quantunque questa credenza spontanea che i rapporti percepiti fra le nostre idee corrispondono ai rapporti percepibili fra le cose, non sia un risultato dell'esperienza, l'esperienza possa almeno giustificare in seguito quest'anticipazione che noi facciamo spontaneamente sull'esperienza stessa. Anche questa supposizione sarebbe, secondo nti, un errore; perch il sentimento del rapixDrtO' essendo indissolubilmente legato alle idee dei termini del rapporto, ogni verificazione sperimentale deiraftermazione si3ontanea di cui si tratta, sarebbe, se ben si riflette, impossibile. Infatti questa verificazione implica che noi. ci rappresentiamo fedelmente per la memoria i rapporti percepiti, tanto in realt quanto in idea, cio i termini di questi rapporti, si i reali che i rappresentati, in connesione con le percezioni dei rapporti stessi. Ora, rappresentarci una somiglianza o una differenza, o, ci che vale lo stesso, la percezione di una somiglianza o di una differenza, non essendo altro, come abbiamo visto, che percepire attualmente questa somiglianza o questa differenza fra le nostre rappresentazioni; siccome la rappresentazione dei termini di uno di tali rapporti produce necessariamente nel nostro pensiero la percezione di questo rapporto; ne segue che noi non potremmo altrimenti rappresentarci nella memoria questi termini che col rapporto determinato che percepiamo fra le loro rappresentazioni, e la credenza nella veracit della memoria non  qui che un caso particolare di questa credenza spontanea nella corrispondenza dei rapporti rappresentati, cio percepiti nel pensiero, coi rapporti reali, cio percepiti o percepibili fra le cose stesse. Questa corrispondenza fra il pensiero e la realt deve ammettersi dunque senza prova: essa  un'affermazione primitiva e indimostrabile, un postulato indispensabile della nostra intelligenza. . 5. A ci che  stato detto nel paragrafo precedente,, dobbiamo aggiungere un'altra osservazione: quando noi diciamo che due oggetti sono simili o differenti, noi non intendiamo di dire semplicemente che la presentazione a !la l'iippresentazione di questi oggetti ci produce attualmente il senso della somiglianza o della differenza ; ma che la somiglianza e la differenza appartiene realmente agli oggetti stessi. Siccome un rapporto di somiglianza e di differenza non  niente di obbiettivo, die possa esistere iuori della nostra coscienza, questa proposizione, che la somiglianza e la differenza appartengono realmente alle cose, non significa altro se non che le slesse cose producono in noi costantemente e necessariamete la percezione degli stessi rapporti. ( )raquest'ari'ermazione implicata in tutte le nostre affermazioni di rapporti di somiglianza e di ditl'erenza,  ugualmente spontanea ed ugualmente incapace di una verificazione sperimentale; o piuttosto essa non pu essere sottoposta a questa verificazione, se non si ammette la veracit della memoria dei rapporti che abbiamo percepito, e quindi il postulato della corrispondenza dei rapporti rappresentati, cio intuiti fra le nostre idee^ coi rapporti intuiti 0 intuibili nella realt, cio fra le cose stesse. Noi vediamo dunque che (|uesto postulato  implicato in tutte le affermazioni sulle somiglianze e sulle differenze, e che tutte le conoscenze che hanno per oggetto (juesti rapporti possono riguardarsi come dedotte dalF esperienza, ma purch si ammetta come un' altra premessa questo postulato. Come infatti Fesperienza pu dimostrare TuniIbrmit delle nostre percezioni di somiglianza, ma alla condizione che si prenda per accordato questo principio indimostrabile; cosi  sull'osservazione che si fondano le verit sulla somiglianza che noi apprendiamo per il solo pensiero sulFosservazione delle idee se non su quella delle cose, e ci che in esse oltrepassa la semplice osservazione, non  che l'applicazione alle cose di ci che abbiamo osservato nelle idee, fatta in conformit di questo principio incUmostrabile. Tutto ci che postulano i nostri giudizi sulla somiglianza,  dunque contenuto in questo j)Ostulato; ed esso non  una conoscenza a priori, ma la conoscenza a, priori, a cui si riduce tutto ci che vi ha di a priori nelle nostre conoscenze. .^ ()'' La nostra proposizione che le conoscenze sulle somiglianze possono ottenersi a priori, non deve intendersi nel senso che tutte queste conoscenze sono eflttivamente ottenute cosi. L' apriorit dei giudizi sulla somiglianza non consiste che nella possibilit di conoscere i rai)porti tra le cose per la comparazione delle idee di (jueste cose. ra quando la comparazione di due cose non jasta ad istruirci sul grado preciso della loro somiglianza ( come avviene nella pi parte dei casi in cui si tratta di rapi)Orti fra grandezze), la comparazione delle loro idee potr istruircene ancora meno. Di pi, per quanto vivamente noi ci rappresentiamo gli oggetti, le nostre rappresentazioni non raggiungono mai il grado di nettezza e di distinzione che sarebbe necessario })erch una comparazione ideale equivalesse, in tutti i casi, ad una comparazione reale. Cosi in molti casi le nostre conoscenze sulle somiglianze sono altrettanto emi)iriche quanto quelle sulle sequenze o sulle coesistenze. (Quelle stesse di queste conoscenze che sono a j)riori, cio che noi possiamo ricavare dal semplice esame delle idee, non sono tutte egualmente indii)endenti dairesperienza. Bisogna distinguere tra verit intuitive e verit (T inferenza. L'indi])endenza assoluta daires])ericnza non ai)partiene che alle prime: tali sono le proposizioni cosi dette analitiche, e tra i principii della matematica ; le proposizioni pi semplici sulle eguaglianze numeriche che la scienza dei numeri non pu a meno di supporre come immediatamente co-, e alcuni assiomi della geometria, (juali (juelli della retta e del piano, e quelli che il tutto  maggiore della parte, e che due grandezze che concidono sono eguali (sono quei principii che il Bain dichiara analitici). La conoscenza di una di queste verit in un caso particolare  sempre immediata, non  mai un'inferenza che noi tiriamo dai casi anteriormente sperimentati a un nuovo caso. Per essere certi che due grandezze date che coincidono sono eguah, noi non abbiamo bisogno di fondarci, n consapevolmente n inconsapevolmente, su questa premessa che in tutti i casi che abbiamo anteriormente conosciuti^ due grandezze coincidenti ci sono parse sempre eguali; ci basta perci di vedere o d'immaginare la coincidenza di queste due grandezze particolari, perche noi non i30ssiamo percepire n in alcun modo rappresentarci due grandezze come coincidenti, senz'avere la coscienza immediata,, cio r intuizione, della loro eguaglianza. Similmente, se noi sappiamo che due fiorini e due fiorini fanno quattro fiorini, non  una conclusione dall'esperienza passata, che ci ha appreso che due coppie d' oggetti danno costantemente un totale di quattro; noi abbiamo l'esperienza presente di questa verit, paragonando, tanto nella semplice immaginazione quanto nella realt, due coppie separate di fiorini con quattro riuniti. Al contrario, quando nella dimostrazione di un teorema noi invochiamo uno degli assiomi generali sulle eguaglianze, noi conosciamo l'eguaglianza particolare che ne concludiamo, non intuitivamente, ma per una deduzione fondata, come qualsiasi altra, sopra un'induzione antecedente, cio sopra una generalizzazione dell'esperienza passata. Questi assiomi dunque, sui quali sono fondate le inferenze nella scienza dei numeri e nella geometria metrica, sono, in quanto costituiscono la base di queste inferenze, dei principii induttivi e sperimentali, come sono induttive e sperimentali le verit particolari che se ne inferiscono. Cosi le verit a priori sulle somiglianze, quando non sono intuitive ma d'inferenza, sono a priori in un certo senso, in un altro sono a posteriori: sono a posteriori in quanto riposano sull'induzione, come le verit sperimentali propriamente dette; e non sono a priori che in quanto le osservazioni, su cui le induzioni sono fondate, non hanno bisogno di essere fatte sulle cose I '' I ti Sn Stesse esteriori, ma basta che siano fatte sulle idee di queste cose. Noi abbiamo visto che le verit di questa classe, cio le inferite, sono delle concezioni simboliche: un giudizio comparativo intatti, in cui le rappresentazioni sono per-rettamente adequate alle cose rappresentate, non pu non essere una conoscenza intuitiva (Ij. . 7^ Prima di finire questo capitolo, dobbiamo ritornare su alcune osservazioni gi fatte nel capitolo >, ma di cui ora il lettore  pi in grado di giudicare la verit. La dottrina razionalista contiene due gravi difficolt intrinseche, che i filosofi di questa scuola cercano vanamente di risolvere per le ipotesi sussidiarie ch'essi aggiungono alla loro tesi principale. L'una  che bisogna ammettere altrettante necessit del pensiero indipendenti quante sono le conoscenze supposte a priori, cio propriamente quante sono quelle fra di esse che non possono dedursi da altre conoscenze pi generali. L'altra  l'armonia prestabilita che essa suppone tra lo spirito e le cose, il carattere fortuito e l'inesplicabilit, nei giudizi a priori, della coincitra il pensiero e la realt. La nostra propria tesi, che non ammette altri giudizi tali che quelli sulle somiglianze,  esente da queste difficolt, e non ha bisogno di ricorrere ad ipotesi, come quelle dei razionalisti, senza base e inconcepibili. Essa non suppone altro d'innato nello spirito che la facolt di parcepire un rapporto di somiglianza, altra necessit del pensiero ciie il legame tra la presenza nella coscienza dei termini di questo rapporto e il sentimento del rapporto stesso. In questo caso la corrici) Il termine conoscenza intutica ha due sensi: in uno vuol dire conoscenza Immediata, e si oppone a conoscenza dedotta o d'inferenza;  in questo senso che lo abbiamo usato nel testo. Nell'altro significa che nel pensiero vi ha la rappresentazione adequata della cosa pensata, e in questo senso intiUUro si oppone a Minbolico. Le conoscenze matematiche che sono intiUtice in questo secondo senso, lo sono necessariamente anche nel primo. S9BB 1 spondenza fra il pensiero e le cose non ha niente di misterioso: il sentimento del rapporto essendo invariabilmente legato alla presenza dei termini del rapporto nella coscienza, il rapporto  ugualmente sentito tanto se questi termini sono presenti alla coscienza come presentazioni dei sensi, (pianto se lo sono come rappresentazioni delFimmaginazione, e i rapporti osservati tra queste rappresentazioni non possono non corrispondere a quelli osservabili tra le cose rappresentate. In ultima analisi, le proposizioni necessarie ed a priori sono tali, perch le verit che esse enunciano, non volgono sulle cose stesse, sulla realt obbiettiva, ma non sono che delle vedute del nostro spirito. Non vi ha tra i fenomeni che noi chiamiamo del mondo esterno, alcuna connessione tale, che Tapparizionc deir uno nella coscienza sia invariabilmente legata all'apparizione dell'altro: se cosi fosse, la connessione tra questi due fenomeni sarebbe subbiettiva, e non obbiettiva.  dunque perch il rapporto di somiglianza  subbiettivo e non obbiettivo, che esso pu costituire una necessit del pensiero; ed  per la stessa ragione che noi possiamo apprendere in noi stessi le verit 0 le leggi che corcernono quest'ordine di rapporti. L' inconcepliflit/i della negativa e il postulato universale. Noi abbiamo visto nel capitolo antecedente che vi hanno dei principii intuitivi o immediatamente conosciuti, che noi dobbiamo ammettere senza prova: il criterio della validit obbiettiva di questi principii  che la loro negazione sarebbe per noi inconcepibile. Ora qui si presenta naturalmente una quistione: non potremmo noi estendere ad altre proposizioni lo stesso criterio? non potremmo, in virt di questo stesso criterio, ammettere, senz' altra prova, la validit ojbiettiva d' una credenza, fondandoci sulla jjersistenza con cui questa credenza  presente nella nostra coscienza? non j30trebbe di pi questo criterio essere il criterio unico della verit, il postulato universale, in modo che la prova di una verit particolare non consista in altro, in definitiva, se non a mostrare che la negazione di questa verit sarebbe incompatibile con Taffermazione di qualche altra verit pi fondamentale, la cui persistenza nella coscienza  assoluta, e la cui negazione  per conseguenza impossibile? Spencer ammette tale dottrina: Tinconcepibilit del contrario  secondo lui il criterio unico della verit, e il postulato universale  che noi dobbiamo ammettere come vere le proposizioni il cui contrario  inconcepibile. Questo criterio garantisce secondo lui la verit delle credenze naturali die i discepoli di Berkeley si sforzano di negare: di pi  sullo stesso criterio che si basano le generalit pi alte della scienza; e siccome queste generalit sono le premesse ultime della conoscenza umana, oltre i fatti particolari e immediati delFesperienza, la cui verit  del pari garantita dallo stesso criterio, cosi  su di esso, in definitiva, che  fondata tutta la certezza delle nostre conoscenze. Lo Spencer comincia per istabilire, sul fondamento del suo postulato universale, il principio della persistenza della materia: noi non possiamo concepire, secondo lui, che la materia possa crearsi o distruggersi, ed  perci che ammettiamo che la quantit della materia  inalterabile^ che essa non pu accrescersi n diminuire. A ci potrebbe obbiettarsi prima di tutto che^, quan-^ tunque la creazione e Tannientamento della materia sianodei fatti, non solo difficili ad essere creduti, ma anche ad essere immaginati, tuttavia una proposizione enunciante questi fatti non  assolutamente inconcepibile, come  p. e. la proposizione che due e due fanno cinque o che due rette chiudono uno spazio. Secondo i principii degli stessi sostenitori della dottrina dcir associazione inseparabile, mancano in questo caso le condizioni per la formazione ili im legame indissolubile fra le idee, cio l'assenza di associazioni contraddittorie.  Nella nostra esperienza giornaliera vi ha, dice Mill, tutto ci che bisogna per immaginare Tannientamento della materia. Noi vediamo un annientamento apparente, quando Tacqua si evapora o il combustibile si consuma senza lasciare residuo visibile. IL fatto non potrebbe presentarsi a noi sotto una forma pi palpabile se Tannientamento fosse reale. Il volgare di tutti V. Stuart Min Filosofia lU Hamilton >-v_''S.'/i paesi ha un tipo esatto sul quale pu formare la sua concezione deirannichilamento della materia, e per conseguenza non ha difficolt a farsene un' idea perfetta . (Filos. di Hamilton trad. frane). Se non che, secondo Spencer, la necessit delle proposizioni che la materia non si crea n si annienta, non  fondata suir associazione empirica delle idee: esse appartengono invece a un' altra classe di proposizioni necessarie 0 aventi per s V inconcepibilit della negativa. Queste s^jno per lui fondate, non suUesperienza, ma sopra una necessit primordiale del pensiero; in altre parole, esse sono delle conoscenze a priori, nel senso pi stretto di questo termine. La ragione, secondo Spencer, per cui noi dobbiamo necessariamente ammettere la persistenza della quantit della materta , lo sappiamo, perch noi non possiamo concepire la creazione e lannientamento della materia: ma ])erch non possiamo concepire questa creazione e (jucsf annientamento  ci(')  secondo Spencer perch noi non possiamo concepire il niente.  Il pensiero, egli dice,  una posizione di relazioni. Non si possono porre relazioni, e per conseguenza pensare, quando Tuno dei termini relativi  assente dalla coscienza. \\ dunque impossibile di })ensare che qualche cosa divenga niente per la stessa ragione per cui  impossibile di pensare che niente divenga qualche cosa; e (|uesta ragione  che niente non pu divenire un oggetto di coscienza. L'annientamento della materia  inconcepibile per la stessa ragione per cui la creazione della materia  inconcepibile; e la sua indistruttibilit diviene cosi una conoscenza a priori dell'ordine pi elevato, non come risultato d'una lunga serie d'esperienze gradualmente organizzate in un modo di pensiero irrevocabile, ma come data nella forma di tutte le esperienze qualsiansi. {Primi principii). Lo Spencer non si dissimula l'obbiezione a cui questa dottrina naturalmente va incontro.  Sembra assurdo di dire che una proposizione non pu essere concepita, quando Tumanit tutta intera la professione di concepirla, e la grande maggioranza degli uomini crede ancora di concepirla  ( ibcL) Ma  la dottrina comunemente ammessa che la materia  stata creata dal niente, non  mai stata, egli risponde, concepita realmente,' ma solo simbolicamente; cosi pure Tannientamento della materia non  stato concepito che simbolicamente, e si  presa a torto una concezione simbolica per una concezione reale (bkl). 2*\  evidente che non  necessario di concepire il niente per concepire una perdita assoluta o un nuovo acquisto di materia: un cangiamento nella quantit della materia non Im bisogno di altre condizioni per essere pensato che un altro cangiamento qualunque. Rappresentarsi un cangiamento  semplicemente rappresentarsi degli stati successivi digerenti: cosi pensare un cangiamento nella quantit della materia non  che pensare due stati: successivi delle cose in cui la quantit della materia sia digerente. Tuttavia quando Spencer d la legge delFindistruttibilit della materia per una conoscenza a priori e per una verit necessaria, la sua tesi non ha la stessa aria paradossale, che quando egli atlerma che i medesimi caratteri di necessit e di apriorit convengono al principio deirindistruttibilit del movimento). La massima che lessere non pu venire dal niente n ridursi in niente ha avuto sempre del credito, fondata com'essa  sulla generalizzazione di fatti dei pi familiari, e in conformit di questa massima gli antichi llL^sof greci ammettevano generalmente Teternit e Timmutabilit della sostanza, che per loro non era al fondo che il principio materiale. Ma la legge della persistenza del movimento, lungi di poter invocare lappoggio delle nostre esperienze pi familiari, queste le sono anzi apparentemente contrarie. Sinch la scienza non c'insegna il contrario, noi dob-1/ biamo credere necessariamente che il movimento si crea, perch ogni essere animato sembra di avere il potere di crearne ad ogni momento, e che il movimento si annichila, perch noi vediamo che ogni corpo in moto si rallenta continuamente e finisce per ritornare in riposo. Lo Spencer non pu naturalmente dissimularsi questa obbiezione ; ma egli d la soUta risposta:  La distruttibiht del movimento non  stata mai concepita (quantunque i Greci non abbiano potuto mai disfarsi di questa nozione, ed essa si sia im[)0sta sino a Galileo); essa  sempre stata una pura forma verbale,una pseudo idea ( .jG; confr. 55). La ragione per cui non possiamo concepire la creazione e Tannichilazione del movimento  la stessa per cui non possiamo concejjire la creazione e F annichilazione della materia; cio che noi non possiamo concepire il niente. Ma nel caso del movimento Targomonto non  cosi specioso come in quello della materia:  cliiaro che della stessa maniera si potrebbe provare che tutto ci che  suscettibile della nozione di quantit non pu essere annientato ; che la S(jmma p. e. di vita o di benessere o di intelligenza o di moralit, ecc.  indistruttibile nel mondo; che alcuna porzione di ciascuna di ({ueste cose non pu sparire in un punto senza che riapparisca in un altro il suo equivalente quantitativo. Anzi por una china inevitabile si arrivereblDC alla tesi di Parmenide, clic non vi lia alcun cangiamento nella natura, e non esiste che Tessere unico ed immutabile, perch se si considera come una creazione e un'annichilazione un cangiamento nella (juantit del movimento, non vi ha ragione per non considerare ogni cangiamento qualsiasi come una creazione ed una annichilazione. Evidentemente T indistruttibilit del movimento non potrebbe riguardarsi come una conseguenza del principio che T essere non pu venire dal niente e non pu annichilarsi, se non considerando il movimento, non come mmm-.i iriMMa IIBiMlilMIIIIBI un'astrazione, ma come una realt, cio supponendo, come quei cartesiani di cui parla Leibnitz (X. S. salV Interni, ipn. 1. 2" e. 21 4 e e. 23 28), che quando il movimento passa da un corpo ad un altro,  rigorosamente lo stesso movimento (idem numero) che si trasferisce, come se esso fosse qualche cosa di sostanziale, e  rassomigliasse a del sale disciolto nell'acqua . Ora, non solo sare3be assurdo di pensare che il movimento guadagnato da un corpo sia individualmente la stessa cosa che il movimento perduto da un altro corpo, ma ancora essi differiscono in tutti i punti in cui un movimento pu differire da un altro, la velocit e la direzione cangiando continuamente nelloscambio dei movimenti. Che si cominci^ dice il Lange, per risolverci il i)roblema del i)arallelogrammo delle forze, se si vuol farci credere alla persistenza della cosa. O una forza che agisce con T intensit x, nella direzione ab,  pure incontestaJjilmente la stessa cosa, (juando la sua azione s' fusa con un'altra forza in una risultante dell'inlensit // e della direzione a d  Si certo, la forza primitiva  ancora contenuta nella risultante, ed essa continua a perseverarvi, quand anche nelFeterno turbine dell'azione e della reazione meccanica, l' intensit primitiva x e la direzione a h non riapparissero mai. Dalla risultante io posso, j)ei' cosi dire, estrarre la forza i)rimitiva, se io sopprimo la seconda forza componente per mezzo d'una forza uguale d'una (Urezionc opposta, (jui dunque io so ci che devo intendere o no per conservazione della forza. Io so, e bisogna che io sappia, che l'idea di conservazione non  che una concezione comoda. Tutto si conserva, e niente si conserva, secondo il punto di vista al quale io mi pongo nella contemplazione dei fenomeni. La verit sta unicamente negli e(iuivalenti della forza che io ottengo per il calcolo e l'osservazione (Storia del materialismo). L'affermazione stessa che la quantit del movimento (ci che comunemente si dice il momento)  costante, non  una espressione rigorosamente adequata dei fatti: essa non  vera, se non in quanto si considera come positivo il movimento verso un lato, e come negativo quello verso il lato opposto, e questo si sottrae cosi dal primo, nel calcolare la quantit del movimento dopo l'incontro di due corpi. Ma questa  una finzione, due movimenti in senso contrario essendo evidentemente amendue reali e positivi allo stesso titolo. Ben pi, la scienza moderna distingue le energie attuali e le energie potenziali: quando un mobile viene proiettato m alto, lottando cosi contro la forza del peso, viene un momento in cui la forza meccanica si esaurisce; la perdita di movimento da una parte non  compensata dalla produzione, da un' altra parte, di movimento o di calore o di un' altra manifestazione qualunque dell'energia. Ma il corpo acquista una nuova posizione vantaggiosa rispetto alla gravitazione: esso pu, cadendo, .restituire col suo movimento in basso l'energia perduta nella sua ascensione. In questo caso si dice che l'energia attuale del movimento viene compensata dall'energia potenziale della situazione; che la prima viene accumulata e tenuta in riserva mentre che il corpo persiste nella nuova situazione acquistata, per essere poi restituita nel ritorno verso la situazione primitiva. Ma il fatto  che nello scambio incessante fra le energie attuali e le energie potenziali vi ha cessazione o generazione di movimento; che al movimento si sostituisce il riposo, e al riposo il movimento; che non  che una semphce metafora di dire che l'energia del movimento perduto si trova accumulata, immagazzinata e tenuta in riserva nel corpo in riposo. La scienza suppone che  dal movimento di attrazione, dovuto alla situazione primitiva degli elementi i quali attualmente comjjongono la massa del nostro sistema solare, che  nato, mediante l'urto, il calore, e di l tutte o la maggior parte delle Ibrze che esistono attualmente nella terra o in generale in questo sistema: queste forze dunque sono^ state letteralmente tirate dal niente, perch il loro antecedente non fu del movimento meccanico o un'altra manifestazione qualunque delFenergia, ma semplicemente la posizione iniziale dei corpi o delle molecole. Ma anche limitandoci al caso pi semplice della comunicazione del movimento, cio quando un corpo ne urta un altro e il movimento perduto dal primo ha per equivalente totale il movimento, verso la stessa parte, acquistato dal secondo, la proposizione che il momento o la quantit del movimento resta la stessa, non deve darci riilusione di credere che vi sia un'identit o anclie semplicemente un eguaglianza nei fenomeni. 11 momento o la quantit del movimento non  die il prodotto della massa per la velocit: ma la massa non si misura che per la spesa di una forza esteriore necessaria per indurre nel corpo un' accelerazione data. La valutazione della quantit del movimento suppone cosi la valutazione della massa, e la valutazione della massa suppone alla sua volta la valutazione della quantit del movimento. L'affermazione che la quantit del novimento  costante implica l'aftermazione che la massa  costante; ma l'aftermazione che la massa  costante implica alla sua volta l'atfermazione che la quantit del movimento  costante. Sarebbe questo adunque un circolo vizioso, se si volesse vedere in queste due proposizioni altra cosa che una maniera di esprimere certi rapporti costanti tra le velocit nello scambio dei movimenti. La velocit perduta dal corpo A sta alla velocit acquistata dal corpo B nel rapporto di 2 ad 1: ci si verifica una volta; noi siamo fondati ad inferire che tutte le volte che il corpo A comunica del movimento al corpo B, questo rapporto sussiste. Di pi quando  il corpo B che comunica il movimento al corpo A, lo stesso rapporto sussister tra la velocit accjuistata da A e la velocit perduta da B. Ancora, se il rapporto delle velocit scambiate tra i corpi C ed A  quello di 3 a 2, il rapporto delle velocit scambiate tra A e B essendo di 2 ad 1, noi siamo fondati ad inferire che il rapporto delle velocit scambiate tra C e B sar di 3 ad L Nello scambio dei movimenti avviene come nello scambio delle merci: ima data quantit di velocit acquistata o perduta da un corpo ha per equivalente un'altra quantit data di velocit perduta o acquistata da un altro corpo, della stessa maniera che una quantit data di una merce ha per equivalente un'altra quantit data di un'altra merce. La massa, nella fsica, non  che relativa, come il valore nella economia politica: il rapporto delle masse di due corpi non  che il rapporto inverso delle velocit che i due corpi possono scambiarsi. Ci che nel movimento corrisponde a un dato immediato dell'esperienza,  dunque la velocit soltanto, ma non la massa; e le leggi (luantitative del movimento non sono che i rapporti quantitativi delle velocit. Ora come nello scambio delle merci una quantit dell'una non si sostituisce alla stessa quantit dell'altra, ma ad una quantit equivalente, cosi nello scambio delle velocit tra i corpi, una quantit di velocit di un coppo non si sostituisce alla stessa quantit di velocit dell'altro, ma ad una quantit equivalente. Ne segue che il principio della indistruttibilit del movimento, nei limiti in cui esso si verifica strettamente, non esprime un'eguaglianza (juantitativa, ma solo un equivalenza, tra i movimenti, cio tra le velocita, che si succedono : esso non afferma se non che vi hanno dei rapporti costanti, secondo cui le velocit dei corpi" possono reciprocamente sostituirsi. D'una maniera analoga, la legge della conversione e della trasformazione dell'energia non afferma che delle equivalenze, cio dei rapporti costanti, nello scarnino o nella sostituzione reciproca dei differenti stati dei corpi che noi chiamiamo energie: tanto di movimento meccanico si scambia costantemente con tanto di calore e con tanto di elettricit, altrettanto di calore scambiandosi pure costantemente con altrettanto di elettricit, ecc. Se dunque la legge della conservazione della forza non afferma che dei rapporti qnantitativi costanti nello scambio incessante dei fenomeni, come s'intender che questa legge non  che una conseguenza del principio assiomatico che Y essere non pu crearsi e non pu annientarsi? Ci sembra in verit che si avrebbe la stessa ragione di provare, in virt di questo preteso principio, che il valore delle merci deve conservarsi, che esse continueranno perpetuamente a scambiarsi con gli stessi raj)porti, perch, si potrebbe dire, se il valore di una merce aumentasse, allora (lualche cosa verrebbe dal niente, e se qu-^sto valore diminuisse, allora qualche cosa diventerebbe niente. Deve notarsi [)er in favore deirargomentazione  venire da niente. Il principio degli antichi filosofi greci, che l'essere non pu venire dal niente ne ridursi nel niente, e che non vi ha veramente n generazione n distruzione ( ad esso che pensa lo Stallo, dicendo che la dottrina della conservazione dell'energia rimonta all'aurora deirintelligenza umana), non implicava alcuna nozione meccanica determinata noi esamineremo il senso e lo portata di questo principio nel Saggio II, Appendice alla parte I. 1 Greci erano necessariamente nell' illusione, creata dalle apparenze giornaliere, che ci mostrano ad. ogn' istante una distruzione completa del movimento, senza lasciare alcun equivalente osservabile: cosi, nella piena maturit della loro filosofa, tutti sentivano la necessit di ammettere una sorgente permanente del movimento, che per gli spiritualisti (come Platone ed Aristotile)era il principio spirituale o animico, e pei materialisti (gh epicurei) era il peso degli atomi. La legge d'inerzia, nel senso della fiSpencer non considera la ibrza come un (luid infuso nella materia; ma non  meno evidente perci ch'egli la considera come una sostanza.  La l'orza come essa esiste fuori della nostra coscienza non  la forza come noi sica moderna. non fu mai sospettata dagli anfichi. Aristotile dimostra elio una forza Unita non vni muovere che i>er un tempo finito, basandosi sul princii>io, che in realt  conforme alle prime lezioni doUesperienza, che una forza maj?iiiore muove per un tempo maggiore, e una forza minore per un tempo minore. (P///*. vni. X ech'z. Didot). len pi. questo filosofo ammette che un corpo spinto non si muovo, in virt della spinta, che sinch  toccato dal corpo che lo spingo, o che cosi la continuazione del movimento suppone ad ogn"istante una .nuova impulsione. ( Phijs. IV, vili, 5, Vni, X. 5). Platone  della stessa opinione: la continuazione del movimouto d'un corj'O lanciato avviene, secondo lui, perch questo fende laria, la quale, ripiegandosi attorno di esso, lo spinge di dietro ( Timeo HO a). Aristotile adotta la stessa teoria: egli suppone i>uro che  la reazione continua dell' ambiente che sola mantiene il movimento. 1 commentatori d'Aristotile, pur dunitando della sua teoria, non gli contestano per la necessit d' un' impulsione senza cessa rinnovellata per la continuazione del movimento (V Martin Timeo). AgU antichi . nei loro tentativi per ispiegare 1' accelerazione nella caduta dei gravi, non venne mai in mente che essa potesse essere dovuta air azione continua della forza del peso e alla conservazione della velocit ac(iuistata. La nozione di rapporti quantitativi precisi nei fenomeni del movimento non poteva esistere ancora in ciucilo stato primitivo della scienza: gli oycurei pare che immnginassero che un cori)0 sottile pu trasmettere il suo movimento a un altro corpo pi grosso o pi denso, indipendentemente dalla massa, e questo a un altro pi grosso o pi denso ancora, la somma del lavoro meccanico moltiplicandosi gradualmente invece di restare la stessa ( v. Lange Stor. del material). U Hain ( Lofjicay ; fa l'onore ad Hamilton di avere duto per il primo l'espressione del principio della conservazione della forza: ma, in realt. la concezione di quest'autore era analoga a quella degli antichi filosofi ionici, e non implicava pi di questa alcuna nozione meccanica alla la conosciamo. Per conseguenza la forza di cui affermiamiamo la persistenza  la forza assoluta di cui abbiamo vagamente coscienza come correlativo necessario della forza che noi conosciamo.... Le manifestazioni che sopravvengono in noi e fuori di noi non persistono; ma ci che persiste  la causa sconosciuta di queste manifestazioni. In altri termini affermare la persistenza della l'orza non  che un'altra maniera di affermare una realt incondizionata senza cominciamento n fine Esaminando i dati che implica una teoria razionale dei fenomeni, noi troviamo ch'essi possono tutti ricondursi al dato senza di cui la coscienza  impossibile: l'esistenza permanente d' un'Inconoscibile come correlativo necessario del Conoscibile... Le verit assiomatiche della scienza fisica suppongono inevitabilmente l'Essere assoluto come loro base comune... Noi non possiamo edificare una teoria dei fenomeni interni senza supporre l'essere assoluto; e a meno di suppore l'essere assoluto, l'essere che persiste, noi non possiamo costruire una teoria dei fenomeni esterni. La forza  dunque per lo Spencer l'essere assoluto, e la sua persistenza  la permanenza dell' essere, di cui tutti i cangiamenti di forma nell'universo sono delle manifestazioni, e che resta costante sotto tutte le forme ( 101). La persistenza della materia e quella del movimento non sono che delle maniere diverse di affermare la persistenza della forza, cio deU'essere assoluto, perdio non sono parte 1.) L'idea di Hamilton di ricondurre il principio di causalit aU'impossibilit di concepi/^e un cominciamento assoluto dell'ossere ha dovuto avere dell' influenza suU' idea corrispondente di Spencer: la metafisica del secondo pu riattaccarsi, su questo punto come su tanti altri, a quella del primo. Ma con lintroduzione del principio odierno della conservazione dell' energia, mediante cui la legge di causalit  messa in rapporto col principio che niente non pu venire da niente, lo Spencer ha certamente apportato una moditicazione felice alla dottrina di Hamilton. V I J. JJi^b'B'-J^^-^gj^ m che dei corollari di (juesto principio. Esso  il principio primo, di cui le generalit pi elevate della scienza sono le conseguenze, e l'ideale di questa sar compiuto, quando essa diventer un aggregato organizzato di deduzioni dirette e indirette tirate dalla persistenza della forza ( 193). In quanto alla stessa persistenza della forza (che non  che un'altra espressione per dire: la permanenza della realt assoluta ed inconoscibile), questa  una verit ultima, che non pu avere prova' induttiva Deve esservi un principio che, essendo la base della scienza, non pu essere stabilito dalla scienza Se noi riconduciamo i principii derivati a quelli di pi in pi larghi donde si deducono, non possiamo mancare d arrivare infine a un principio pi largo di tutti gli altri, che non pu ricondursi ad alcun altro n dedursi da alcun altro.... Questo principio, che alcuna dimostrazione non pu dare,  la persistenza della forza  ( 59). La persi-^ stenza della forza ci  dunque conosciuta d'una maniera immediata: noi raffermiamo necessariamente, per rim{>ossibilit in cui siamo di pensare che qualche cosa divenga niente e che niente divenga qualche cosa, e la sua negazione  inconcepibile. f 61). (l) Il metodo seientilco propugnato da Spencer  dunque essen-^ zialmente deduttivo; l'induzione non pu avere per lui, tra i processi della scienza, che un posto secondario.  ci che'risulta indipendentemente dal suo ideale della scienza come una catena di deduzioni tirate dal principio della persistenza della forza dal suo^ criterio dell'inconcepibilit della negativa e dalle dottrine psicologiche che ne sono la conseguenza. Questo essendo il criterio universale della verit, ne segue che le premesse ultime delle nostre conoscenze devono essere dei principii intuitivi, cio a priori I logici moderni, come Mill e Bain, hanno mostrato che ci che noi chiamiamo un'induzione rigorosa, non  che una vera deduzione di cui una delle .premesse  la grande induzione del principio di causalit. Ma questo principio  secondo Spencer una verit  pnori, sia die debba riguai^ars come l'ctTetto di una necessit i s 5*\ Questa realt assoluta ed inconoscibile, di cui ?7 senso indefinito forma la base della nostra intelligenza ( 31) , rappresenta due parti nella metafsica di Spencer. Vi hanno, come si sa, due problemi capitali in meta/sica: quello del mondo reale o esteriore, e quello delle cause. Primo: vi hanno delle cose esteriori, al di fuori delle nostre sensazioni, e rjuali attributi noi dobbiamo loro assegnare? Secondo: quali sono le cause efficienti dei fenomeni ? Le scienze positive ci danno la conoscenza delle loro successioni uniformi, e chiamano cause gli anteceer noi altra comunicazione possibile Ira il pensiero e le cose che Tesperienza: se questa comunicazione si rompe, la coincidenza tra il pensiero e la realt diventa un mistero, 0 piuttosto un felice azzardo; e Ijasta ci perch sia vano ogni tentativo di fondare la certezza delle nostre conoscenze altrove che suiresperienza stessa. Tuttavia a questa obbiezione e ad altre della stessa natura che potrebbe^ farsi alle dottrine di Spencer, egli ha una ris[X)sta perentoria: tutte queste proposizioni suir assoluto, egli dice, devono ammettersi in virt del criterio deirinconcepibilit della negativa. Noi dobbiamo atlermarle per la semplice ragione che la loro negazione  impossibile. Le proposizioni contrarie, p. e. che non vi ha un mondo esteriore indipendente dalla nostra sensi^ Ijilit, che la materia o la forza non sono persistenti^ sono assolutamente inconcepibili. Se alcuno crede di concepirle, questa  un'illusione: esse non sono delle idee^ ma delle pseudo idee, cio delle pure forme verbali a cui non corsisponde in realt alcuna nozione . UiiJ^^ndo Spencer d resistenza del mondo esteriore o anche r indistruttil)ilit della mnteria per delle proposizioni il cui contrario  inconcepibile, quantunque questa opinione sia seconda noi erronea,  tuttavia un' erroneit che potrebbe i>assare inosservata, essendo un'abitudine dei filosofi razionalisti di scambiare per assolutamente necessarie delle proposizioni necessarie solo relativamente, vale a dire il cui contrario  non inconcepibile, ma solo ditticile ai essere concepito, ci die basta peixiii esso sia alTatto increer conseguenza, se alcuno pretendesse di concepirle, q facesse professione (Wcn^^^yle (confr. la 1. nota al s^ 0 di questo capitolo), egli non avrebbe nel suo spirito delle idee reali, ma illusorie, o. come dice Spencer, delle psendo idee. Ma quantumiue quelli che non conoscono o non ammettono il principio della persistenza della forza, si rai-presentino i fenomeni d'una maniera che non  conforme alla scienza e alla verit, le loro rappresentazioni erronee sono certamente altrettanto reali quanto le rai'presentazioni vere di chi  stato istruito dalla scienza moderna, guando 1' incontro di due cori che si muovono in senso contrario e Y'on velocit inversamente proporzionali alle loro masso, determina la cessazione del loro movimento. vi ha una contraddizione ap]Urente al principio della persistenza della forza, che si risolve ammettendo, come hanno scoverto i fisici moderni, che la forza meccanica perduta  stata sostituita da una quantit equivalente di calore. Cosi, (juando, anteriormente a (lucsta scoverta, si credeva che la forza meccanica, in cpiosto caso, fosse assolutamente perduta, cio senza che la sua perdita fosse compensata da un nuovo. actpiisto di calore o d'un' altra forma) qualunque dell'energia, si anunetteva una proposizione che era realmente in contraddizione col i^rincipio i fenoiiienale sono delle imi30ssibilit psicologiche. Gli elementi della coscienza sono, secondo lo stesso Spencer,. delle sensazioni e dei rapporti fra sensazioni, queste sensazioni i)otendo essere o allo stato forte (sensazioni propriamente dette) o allo stato debole (rappresentazioni o immagini). Dunque il nostro pensiero  necessariamente circoscritto tra i dati dei nostri sensi, e noi non possiamo concepire niente di soprasensibile. In verit, non segue da questa teoria che noi non possiamo pensare se non ci che possiamo sentire: i dati della sensazione noi possiamo combinarli in un ordine diverso da quello in cui li abbiamo sperimentato, e avere cosi dei pensieri che non sono una copia delle presentazioni dei nostri sensi ; ci della persistenza della forza-(]uaiitiin(iiie i dotti pensassero che il fatto fosse conciliabile con (jiiello della conservazione della forza meccanica -( confr. Hain Lonlca 1. Ili e. IV n. 10 e 17). Era questa una proposizione vuota ili senso, una pura forma verbale, a cui non corrispondeva alcuna rappresentazione reale?  assolutamente inimmaLrinal)ile die, dopo l'urto dei due corpi, non vi sia alcun aumento di temperatura n nei corpi stessi n nel loro ambiente, n r apparizione di altri nuovi fenomeni o di elettricit o di magnetismo o di un'altra manifestazione lualuncpie dell'energia? Non i)ossamo noi immaginare che, ilopo 1' urto e la cessazione del movimento, i due corpi e il loro ambienle si trovino ancora nelle identiche condizioni termiche, elettriclie, ecc., in cuf si trovavano primn?  ci che sostiene, in sostonza. lo Spencer quando atferma che il (-ontrario della persistenza della forza  inconcepibile. O dir egli che fueste cose, (juantunque possano immariinat\, non possono pertanto conreprsl f Vi sono dei filosofi che ammettono che noi possiamo concepire ci clie non possiamo immaginare; ma nessuno ha mai preteso. per quel eh' i( sappia, che ci che possiamo immaginare non lo possiamo concepire, e sarebbe strano che il primo a pretenderlo fosse un filosofo, come Spencer, per cui gli elementi dell'intelligenza non sono che sensazioni e rapj^orti tra sensazioni. Le ritlessioni precedenti riguardano il principio della pei^istenza della forza nel suo significato empirico, cio come formulante delle relazioni tra fenomeni; in (pianto al suo sii>nncato metaempinco o trascendente, varr c cUq segue nel testo che ci  impossibile  avere dei pensieri che non si risolvano finalmente in elementi sensoriali. Ci di cui non possiamo formarci un mmar/ ine (cio una sensazione risvegliata o un complesso di sensazioni risvegliate), o copiata fedelmente sui dati dei nostri sensi, o ottenuta per una riunione pi o meno libera di questi dati, non pu essere un oggetto del nostro pensiero. Ora Tlnconoscibile n  un dato dei nostri sensi, n noi yjossiaino l'ormarcene alcuna immagine, combinando, per quanto liberamente,. 1 dati dei nostri sensi: i suoi attributi, p. e. la sua permanenza per cui non dobbiamo intendere una durata nel tempo, perch il tempo non  che un lenoincno subbiettivo , Tordine ontologico che corrisponde a ci che noi conosciamo come tempo, quello che corrisi>onde a ci che noi conosciamo come spazio, e il nexus ontologico che corrisponde a ci che noi conosciamo come differenza, escono ugualmente dalla sfera dei nostri sensi e della nostra immaginazione. Ne segue che ci  assolutamente impossibile di pensare, o di concepire, alcuna di queste cose, e cosi tutte le pretese nozioni suirinconoscil)ile, che V autore accorda al nostro spirito, sono, non (Ij L' imi)ero che 1' uomo ha sul piccolo mondo del proprio intendimento  lo stesso, dice Locke (Saggio su/V intendimento am. li)). II, e. II, i^ 2), di quello che esercita nel gran mondo degli esseri visibili. Come tutta la potenza che abbiamo sul mondo esteriore si riduce a comporre e a dividere i materiali clic sono a nostra disposizione, senza poter produrre la minima particella di nuova materia, cosi noi non possiamo formai'c nel nostro intendimento alcuna idea semplice, ma solo delle idee complesse, ripetendo. comparando e unendo insieme, con unn variet presso(di inlniln, le idee semplici che ci vengono dai sensi e dalla riflessione {per riflessone Locke intende, come si sa, la coscienza che il nostro spirito ha dei suoi propri atti, ci in cui nessun sensista potreblie rilutare di vedere una sorgente reale delle nostre idee; il torto di Locke e semplicemente di non aver couipreso che tutti gli atti di ('ui lo spiiMto pu avere coscienza, si riducono, in sostanza, a sensazioni o sentimenti;. ri04 delle idee, ma delle pseudo idee, cio delle pure forme verjali, a cui non corrisponde alcuna nozione reale. Lo Spencer  quindi costretto ad abbandonare i prinipii della dottrina deir esperienza anche nella quistione sullurigine delle idee: le sue dottrine ontologiche lo conducono fatalmente ad ammettere una classe d'idee che non ci provengono dai sensi, (jupste idee non possono essere che dei dati originali deirintelligenza; essi devono trovarsi in noi sin dall'alba della coscienza. Cosi noi troviamo in Spencer, sidl idea deir Inconoscibile, delle proposizioni che hanno V analogia [)iii colpente con quelle sulle idee innate di una parte dei metafisici che sostengono questa dottrina (quelli che la deducono dal concetto che la sostanza dell'anima^ consiste nel pensiero), p. e. di Rosmini sull'idea dell'essere. (V. N. S. suirorigine delle idee, 'S, G2:WJ2j, ecc. Confr. il mio Saggio seguente, l'A/)pendlce alla parte 1^ e. 2^ verso la fine, e il Supplemento sulla dottrina di Rosmini sulla sostanza delVanimo). L'idea, o piuttosto il sentimento, dell'essere assoluto, cio dell'Inconoscibile, non solo  un dato ultimo della coscienza (Primi principii) e un elemento mentale ultimo, ma  un elemento permanente del pensiero, e non pu mai essere assente dalla coscienza ( 2G, 27, 10, G, ecc);  come il l'ondo della coscienza stessa ( 45) e il suhstratum comune di tutto ci che  in essa, e l'autore lo chiama la materia bruta > o  la sostanza i)ura del pensiero, a cui diamo pensando differanti forme ^>,  la sostanza indifferenziata della coscienza, che riceve delle condizioni nuove in ciascun pensiero.  che, come sappiamo,  l'effetto d'un'illusione naturale del nostro spirito). Ma ci che vi ha di particolare alla dottrina di Spencer,  che ci che essa presenta come dati originali della coscienza, sono delle nozioni che questa, il pi delle volte, ignora completamene. L'affermazione di una realt assoluta inconoscibile, lungi di essere una credenza naturale del genere umano (come dovrebbe essere pertanto, se fosse veramente un dato originale della coscionza),  l'ultima risposta che la metafisica d ai pi ardui problemi dell'inteUigenza umana, dopo averne cercato vanamente una soluzione positiva. L'uomo non esordisce gi per affermare 1' esi Una contraddizione analoga vi lia fra i Primi principii e i Principii di sociologia: secondo i Primi principii,  il senso della realt assoluta e inconoscibile clic Ibraia la base delle credenze reliiiiose; ma di ci neppure una parola nei Principii di sociologia, dove l'autore studia le origini della religione. Dopo aver parlato di questa dottrina di Spencer sull'idea delrinconoscibile, noi ci troviamo pi in grado di rispondere a un rimstenza d'una realt indeiinita al di l delle apparenze che gli mostrano i sensi; le realt per lui, sinch non ha ricevuto le lezioni dei metafsici, o d'una filosofia critica che i loro sistemi hanno preparato, non sono che le presentazioni dei sensi stessi. Similmente egli non comincia per Tatlermazione di cause superiori alla sua concezione e senz alcuna analogia con quelle deiresperienza; ma in possesso di generalizzazioni incoscienti tirate dai fatti pi familiari, cerca istintivamente di ricondurvi gli altri fatti, rappresentane provero che potrebbe venirci mosso sulla nostra interpretazione della sua dottrina sulle proposizioni a priori, (quella dei Primi prtnctpu sulla persistenza della forza, V esistenza d' una realt assoluta, ecc.). Quest'apriorit noi la comprendiamo nel senso stretto e tradizionale, cio come se queste proposizioni fossero assolutamente indii>endenti dalfesperienza, sia personale sia avitica. Ma ci si potreble obbiettare, e, come vedremo, non senza qualche ragione, che lo Spencer non d le sue proposizioni a priori come tali che per rindividuo, mentre per la specie sarebbero a posteriori, esultando dalla eredit organica delle esperienze ancestrali. Questa seconda interpretazione, in effetto, ha il vanta^^gio di mettere di accordo la dottrma dei Primi prinripii con quella dei Prinripii di psicologia e. generalmente delle altre opere dell'autore: ma la quistione  appunto se (piest'accordo sia possibile, o non vi sia inveire tra le due dottrine di Spencer un'aperta contraddizione, che l'autore non ha fatto niente y>q^v risolvere. Gi prima di tutto, per la proposizione che cMmi)orta di pi,, cio la persistenza della forza-che  quella sulla cui apriorit insiste speci(dmente lo Spencer-,che (piest'apriorit debba intendersi nel senso antico e rigoroso, e non come il prodotto delle esperienze ereditarie,  ci che seml)ra risultare dalle dichiarazioni esilicite dellautore. Nel capitolo sull' indistruttibilit della materia , proposizione che, come sappiamo,  un corollario del principio della persistenza della forza, e impresta, per conseguenza, la sua apriorit a quella di questo principio, dice:  L'indistruttibiiit della materia , rigorosamente parlando, una verit a priori. E un po' prima (nello stesso paragrafo):  L'annientamento della materia e inconcepil)iIe per la stessa ragione per cui la creazione della materia  inconcepibile ; e la sua indistruttibilit diviene c>. E parlando della  continuit del movimento :  r3ire che il movimento  creato o annientato, dire che niente diviene cpialche cosa o qualche cosa diviene niente,  stabilire nella coscienza una relazione fra due termini di cui l'uno  assente dalla coscienza,, ci che  impossibile. La natura ste^naturale al nostro spirito,  dunque calcata suiresperienza e sui fenomeni ; tutte le altre sono un prodotto della coltura, e il pi tardo  quella d'una causa o d'una cosa assolutamente inconoscibile e irrappresentabile. Qui noi tocchiamo il punto pi debole del criterio dell'inconcepibilit della negativa. Quale di queste due proposizioni ha per se rinconcepibiht della negativa? quella che dice: ci che mi presentano i sensi sono degli oggetti reali, permanenti, indi[)endenti dai sensi stessi ; o quella che dice: al di l delle apparenze che i sensi mi presentano. vi ha una Se il vero principio primo di Spencer, da cui s deduce la i^ei*sisten/a della forza coi suoi corollari, cio che niente non iU() diventare qualche cosa ne qualcje cosa niente, fosse un risultoto deiraccumulazionc or.iianica delle esjterienze, le necessitn del pensiero su cui esso  fondato, sarel)hero, non delle necessit primordiali, ma ac(]uisite e derivate dalFesperienza (avitica). Queste sono: clie pensare  sta])ilirc delle relazioni ; e che niente ( vale a dire r uno dei termini della relazione che noi dovremmo stabilire per pensare che qualche cosa diventi niente e niente qualclie coso) non  rappresentabile. Ora  evidente che n l'uno n l'altro di questi due fatti potrebbe sj^etrarsi come un prodotto deiraccumulazionc delle esperienze che i nosti'i antenati hanno avuto della persistenza della forza, della materia, e in una parola, delFessere reale. Supponiamo che la natura fosse costituita in modo che essi non avessero avuto le esperierienze di (piesta persistenza, ma avessero avuto invece delle esperienze allatto contrnrie. Forse il pensare avrel)be cessato di essere un i^orre delle relazioni? vi ha l;"i evidentemente un fatto che  dell' essenza stessa del pensiero, cio della facolt rappresentativa, e noi non possiamo immaginare alcun cangiamento della natura esteriore e delle sue leggi, che potesse avere per eHetto di cangiarlo. 0 forse il niente, in quest'ipotesi, sarebbe divenuto rappresentabile? Lo Spencer non dice nei luoghi citati perch il niente  irrappresentabile: egli l'afferma come una verit evidente i>er se stessa: noi dobbiamo duncpie supporre, per la sua atVermazione, le ragioni pi ovvie. Queste sono, evidentemente, cl.e una rappresentazione  qualche cosa di reale, di positivo, e non pu quindi rappresentare che un oggetto anch'esso reale e positivo. La rap])resentazione essendo un' immagine della cosa rappresentata, il niente non potrebbe essere rapi>resentato che dal niente ; ma allora non vi sarebbe rappre^ realt indefinita e inconoscibile? Non la prima, perch Spencer la rigetta ; non la seconda, perch il senso comune la ignoi^a. Sar dunque un'affermazione, che queste due affermazioni differenti hanno in conmne? Ma non vi ha alcuna affermazione comune alle due: io voglio dire, non vi ha alcun oggetto, la cui esistenza sia affermata si dal realismo naturale che dal realismo trasformato, e la cui realt perci possa essere giustificata dal criterio delrinconcepibilit della negativa, o della persistenza della credenza L'oggetto che il realismo naturale alferma,  sentazione, n, per conseguenza, cosa rappresentata. L" irrappresentabilit del niente  dunque un fatto che  una conseguenza necessaria della natura stessa della facolt rappresentativa, non meno che quello che pensare  stabilire delle relazioni. Del resto lo Spencer stesso d esplicitamente questi due fatti per una conseguenza della natura stessa del pensiero, della sforala del pensiero) {Udd, della natura stessa dell'intelligenza w i luoghi citati, i tratti in corsivo): cosi essendo, siccome delle esperienze avitiche differenti avrebbero potuto determinare delle coesioni differenti fra dei pensieri particolari, ma non mutare il liensiero stesso nella sua essenza, l'impossibilit di concepire che niente diventi qualche cosa e qualche cosa niente, non potrebbe originarsi dalle esperienze avitiche della persistenza della forza, della materia, ecc., e noi dobbiamo intendere per questa imix)S8lilit una necessit psichica primitiva e assolutamente indipendente dall'esperienza Un' altra ragione che lo Spencer assegna alla inconcepibilitii della negativa della sua proposizione fondamentale, cio la persistenza della forza,  il legame necessario dell'idea della persistenza con quella che non pu mai essere assente dalla coscienza, vale a dire l'idea dell'Assoluto o dell'Inconoscibile -noi sappiamo in effetto che la Forza non  altm cosa che la realt assoluti! e inconoscibile L' autore considera evidentemente la persistenza della forza come implicata neirintuizione continua, ch'egli accorda allo spirito, dell'essere assoluto; in altri termini, in questa intuizione, quest'essere ci  dato, secondo lui, con l'attributo della persistenza. Cosi l'idea che  la sostanza della coscienza e non pu mai esserne assente, cio quella dell' Assoluto,  chiamata un sentimento di ci clie esiste d'una maniera persisteate e indipendente dalle condizioni. Nel s CO il dato senza di cui -^ ^Nj'^ un oggetto colorato, esteso [cf. H. P. Grice: Can a sweater be red and green all over no stripes allowed?], esistente nel tempo e nello spazio, ecc.: ma l'oggetto che afferma il realismo trasformato,  un oggetto senza colore, senza estensione, l'iiori del tempo e dello spazio, ecc. Lo Spencer non pu avere che una risposta a questa difficolt: Taffermazione di una realt indetinita  un elemento deiraffermazione di una realta definita, estesa, colorata, ecc ; il realismo trasformato non sostituisce un altro oggetto air oggetto affermato dal reahsmo naturale, ma conserva un elemento della credenza e del suo oggetto, il senso (runa realt, la coscienza r iiiii)ossibile  dato per cui dol)l)iaino intendere l'idea, sempre j>resente alla coscienza, deirAssoluto, della quale lia parlato nel?? 20  resistenza pcnnanente .\\\\\nQOwosersistenza di questa qualche cosa la persistenza della Forza). Siccome la nozione dell'Assoluto o deirhiconoscibile non pui' i>rovenire dalla senzazione n essere un'induzione dairesi>erienza,ciche  il motivo per cui l'autore ne fa un' idea innata e sempre presente alla coscienza; l'attrilnito della persistenza essendo compreso in questa nozione stessa, lunione di quesf attributo col suo so;?getto non pu essere un risultato dell'esperienza, sia individuale, sia avitica, e la proposizione che alferma la persistenza dell'Assoluto, cio della Forza,  necessariamente un giudizio a priora nel senso stretto e tradizionale. Talvolta questa proposizione  dedotta, invece che dalla irrappresentabilit del niente, dalla persistenza assoluta dell'idea dell'Inconoscibile nella coscienza. Noi abbiamo visto che il potere sconosciuto, di cui non si pu concepire il cominciamento n il fine,  presente nella coscienza come una materia bruta che riceve uua forma nuova in ciascun pensiero. La nostra incapacit di rapprensentarci i suoi limiti  semplicemente il riscontro della nostra incapacit di mettere fme al .soggetto che pensa sinch continua a pensare. Ma nel oli sopprimendo gli altri elementi, vale a dire Fattribuzione a questa realt delle forme definite sensibili, di cui la credenza, per un'illusione, la riveste.  Noi abbiamo coscienza del relativo come d'un'esistenza sottomessa a delle condizioni e a dei limiti:  impossibile di concepire queste condizioni e questi limiti separati da qualche cosa a cui essi danno la forma; la soppressione di queste condizioni e di questi limiti  la soppressione delle condizioni e dei limiti solamente. Per conseguenza deve esservi un residuo, una concezione di qualche cosa che rieinine il loro contratto che segue (nello stesso??), questo concetto si fonde con l'altro, che la ragione della incapacit di concepire i limiti, cio il cominciamento e il fine, della forza  l' impossibilita di rappresentarsi il niente. Nei due capitoli precedenti noi abbiamo considerato (luesta verit fondamentale (la persistenza della forza) sotto un altro aspetto. Noi al)biamo visto che l'indistruttibilit della materia e la continuit del movimento sono in realt due corollari dell' impossibilit di stabilire nel pensiero una relazione tra qualche cosa e niente. Ci(') che noi chiamiamo lo stabilimento d'una relazione nel pensiero,  il passaggio della sostanza della coscienza da una forma ad un'altra. Pensare (jualche cosa divellente niente imi)licherebbe che questa sostanza della coscienza, avendo esistito sotto una forma data, non prenda pi forma o cessi di essere concepita. Cos r incapacit di concepire la distruzione della materia e del movimento,  l'incapacit di sopprimere la coscienza stessa. Ci che noi abbiamo trovato vero d^lla materia e del movimnto nei due capitoli precedenti,  ajortiori vero della forza, vale a dire dell' elemento di cui si formano le concezioni della materia e del movimento . (Qui la persistenza della forza si deduce, al solito, dalla irrappresentabilit del niente: ma di questa irrappresentabilit del niente si d una spiegazione diversa da quella che ne abbiamo dato noi. Sopra, noi l'abbiamo Si)iegato per la necessit che ogni rai)presentazione sia qualche cosa di positivo: qui l'autore la spiega per l'impossibilit di rigettare dalla coscienza la sostanza della coscienza stessa. Ma le due spiegazioni non si contraddicono: la seconda non esclude che la ragione per cui non possiamo rapprentarci il niente sia che ogni rappresentazione  necessariamente qualche cesa di positivo; solamente aggiunge che questa qualche cosa di positivo deve essere una determinazione dell" idea di esistenza assoluta che  torno, ed  questa qualche cosa crindefinito clie costituisce la nostra concezione dellassoluto L'impulsione del pensiero ci porta inevitabilmente, di l dallesistenza condizionata, all'esistenza incondizionata. Da ci la nosti^ ferma credenza a questa realt, credenza che la critica metafsica non pu scuotere un sol momento. Si pu venire a dirci che questo ixzzo di materia che noi riguardiamo come esistente fuori di noi, non pu essere realmente conosciuto, che noi possiamo solamente conoscere le impressioni che esso produce su di noi ; ma noi siamo la sostanza della coscienza). Secondo il {^ (il (lunqiie, la ragione ultima della necessit in -ui siamo di afTermare la i)ersistenza della forza,  la permanenza deir essere assoluto nella coscienza. Sulla quale deduzione dobbiamo osservare che, siccome non vi ha alcun rapporto concepibile fra questa permanenza e le esi>erienze del fatto che si pretende dedurne, essa non pu essere spiejcrata per l'accumulazione organica dell'esperienze, i)i che l'idea stessa dell'assoluto o rimpossibilit di rai)presentarsi il niente; e quindi la proposizine che se ne d come una conseguenza, cio la persistenza della forza, non pu essere che una proposizione a jn'ori nel senso antico e rigoroso del termine. Ma l'argomento pi decisivo dell'apriorit, in questo senso, del princiiio fondamentale di Spencer, e questo tratto del susseguente: Il postulato al quale siamo arrivati da persistenza della forza)  anteriore alla dimostrazione, anteriore alla conoscenza definita; esso  cosi antico che la natura stessa del nostro spirito. La sua autorit si eleva al di sopra di ogni altra autorit; perch non solo esso  dato nella costituzione della nostra propria coscienza/ ma  impossibile d'immaginare una coscienza costituita in maniera da non darlo. Poich il pensiero non implica che lo stabilimento delle relazioni, si pu facilmente concepire ch'esso si eserciti quando le relazioni non sono state ancora sistematizzate nelle nozioni astratte che chiamiamo spazio e tem[)0; si pu concepire una specie di coscienza che non contenga i principii detti aprtorC che implica l'organizzazione di queste forme di relazioni. Ma non si pu concepire che il pensiero prosiegua la sua opera senza certi elementi tra i quali le sue relazioni possano essere stabilite;non si pu dunciue concepire una coscienza che non implichi l'esistenza continua come dato fondamentale. La coscienza  i)0ssibile senza tale o tal altra/o/7na particolare, ma  impossibile senza contenuto.forzati, per la relativit del pensiero, di pensare che queste impressioni sono in relazione con una causa positiva^, e allora apparisce una nozione rudimentaria d'un'esistenza reale che le produce. Se si prova che ogni nozione d'un'esistenza reale implica una contraddizione radicale, che la materia, di qualunque maniera la concepiauKj, non pu Il solo principio che oltrepassa T esperienza, perch le serve di base,  dun(iue la persistenza della forza. 11 luogo citato esclude della maniera pi assoluta che il ]trincipio della persistenza della forza sia un risultato delFaccumulazione organica delle esi>erienze. Allora, in eiTetto, i)rima che quest'accumulazione fosse gi un fatto compiuto, avrebbero esistito delle coscienze di cui il principio in quistione non sarebbe stato un dato, e cpiindi sarebbe possil)ile d' hnniagnurc una cosricnz-a co'^tituta in maniera da non darlo. Notiamo che in questo luogo, specialmente se si mette in rapporto col antecedente, del luale  una conclusione (basta di confrontarlo coi tratti citati), si trova anche la conferma della giustezza dei nostri argomenti precedenti. I fatti dello spirito la cui lo Spencer deduce il suo principio fondamentale, cio che il pensiero  una posizione di relazioni, che il niente non  rappresentabile, e che r idea dell' essere assoluto  continuamente ])resenle alla coscienza (ci che qui  chiamato il contenuto della coscienza  evidentemente ci che altrove ne  detto la sostan^a. vale a dire l'idea dell'assoluto), non possono, come abbiamo osservato, essere un eltetto delle esperienze avitiche, perch qui sono dati come dei fatti necessari implicati nella costituzione di qualunque coscienza, e non solamente della coscienza modificata dall' esperienza ancestrale. Ialine possiamo osservare che la proposizione con cui termina la nostra citazione, si pu a buon dritto intendere come un'affermazione esplicita che il principio della persistenza della forza  assolutamente indipendente dall'esperienza, anche avitica, tanto pi se si bada all'antitesi tra  il solo principio che oltrepassa 1' esperienza  e  i principii detti a priori  di cui prima ha parlato (detti a priori  significherebbe : impropriamente chiamati cos, perch se sono tali per l'individuo, non lo sono per la specie). Come si vede dalla citazione precedente, l'idea dell'assoluto non potrebbe riguardarsi, pi che il principio della persistenza della forza che se ne deduce, come un risultato delle esperienze ereditarie. Quest'os3ervazione serve a completare ci che abbiamo detto nel testo su quest'idea; ma essa ha anche un' importanza diretta essere la materia quale  effettivamente, la nostra concezione si trasforma e non  distrutta; resta il senso della realt, separata per quanto  possibile dalle l'orme speciali sotto di cui era prima rappresentata nel pensiero. Quantunque la filosofia condanni l'uno dopo Taltro ogni tentativo di concezione dell'assoluto ; quantunque, per obperla dottrina deirautore sulle vro[>osizioni a jn ort (iiidix)eiulenteniente da (juanto si riferisce al inMiicipio della persistenza deUa forza). L'idea, sempre presente alla coscienza, dell" assoluto non  ci clie irli scolastici chiamavano nnei se in /tUrc a /}prensioiic,\Q.\e a dire una rappresentazione senz' alcun' affermazione: ques' idea al contrario, secondo S])encer,  insepai'a)ile dalla credenza all'esistenza reale del suo o^i^etto. Ci r provato gi dai luoirlii citati in cui la persistenza della forza  data come una verit implicata neir elemento permanente della coscienza, o che se ne deduce, poich piesta iM^:)iiosizione enunciando una legiiG della natura reale, essa non alTerma semplicemente il legame del predicato col soggetto, l'esistenza del soggetto restando ii)Otetica. ma anche la realt del soggetto stesso. In alcuni di questi luoghi, che nell'idea sempre presente che la coscienza ha dell' assoluto sia compresa la sua esistenza,  anche alTermato duna maniera esplicita : noi abbiamo visto, in elTetto, che, secondo il ^ (50. il dato senza di cui la coscienza  impossibile  l 'esistenza permanente d'un Inconoscibile >, e che, secondo il i^ 02. non si pu concepire una coscienza cie non implichi 1' esistenza continua come dato fondamentale. Ma, indiii>endentemente dai luoghi che si riferiscono alla persistenza della forza, che all' idea ]>ermanente dell' Inconoscibile sia congiunta la credenza nella sua realt, risulta da ipielli in cui quest'idea  chiamata un .senso o un sentimento o una coscienza dell'essere assoluto ( 2(), 9i trad. frane.:  una coscienza positiva (luantunque vaga di ci che oltre])assa la coscienza : : il senso della realt: :  un sentimento sempre presente d'esistenza reale ;  un sentimento di ci che esiste d'una maniera persistente e indij-endente dalle condizioni; (jucsto senso indefinito d' un esistenza ultima che fa la base della nostra intelligenza; :  una coscienza vaga dell'essere assoluto; ecc.); ed  detto esplicitamente nei seguenti: L'impulsione del pensiero ci porta inevitabilmente, di l dall'esistenza condizionata, all'esistenza incondizionata; e questa rimane sempre in noi come il corpo d'un pensiero 41 cui non possiamo dare forma. Da ci la nostra ferma credenza bedirle, noi neghiamo Tuna dopo Taltra tutte le idee a misura che si producono ; siccome non possiamo bandire tutto il contenuto della coscienza, resta sempre al fondo un elemento che passa sotto nuove forme. La negazione continua d'o^^ni forma e d'ogni limite particolare non ha altro risultato che di sopprimere pi o meno completa.^Ua realt obbiettiva, credenza che la critica metafisica non pu scuotere un sol momento  ( 2(>)  La nostra concezione dell'incondizionato essendo letteralmente la coscienza incondizionata, o la sostanza pura del pensiero, a cui diamo pensando ditferenti forme, .ne segue die un sentimento sempre presente d'esistenza reale fa la ])ase della nostra intelligenza. Poich noi possiamo in atti intellettuali successivi disfarci di tutte le condizioni particolari e rimpiazzarle con altre, ma non possiamo disfarci di questa sostanza indifferenziata delia coscienza, che riceve delle condizioni nuove in ciascun pensiero, resta sempre in noi un sentimento di ci che esiste d' una maniera persistente e indipendente dalle condizioni. Nello stesso tempo che le leggi del pensiero c'interdicono di for.mare una concezione (definita) d'esistenza assoluta, esse c'impediscono egualmente di disfarci della concezione (indefinita) d'esistenza assoluta, poich questa concezione non , noi veniamo di vederlo, che il rovescio della coscienza di s. infine, poich la sola .misura (iella calidit delle nostre credenze,  la resistenza che esse oppongono a fili sforzi che si fanno per cangiarle, ne risulta che quella che persiste in tutti i tempi, fra tutte le circostanze, e die non pu cessare a meno che la coscienza stessa non cessi, possiede il pi alto calore.  Esaminando le operazioni del pensiero, noi abbiamo visto come ci  impossibile di disfarci della coscienza d'una realt nascosta dietro le apparenze, e come da (piesta impossibilit risulta la nostra indistruttibile credenza a questa realt (ibid.). Bench non si possa conoscere l'assoluto in alcuna maniera e ad alcun grado, se si i)rende la parola conoscere al senso stretto, noi vediamo pertanto che 1' esistenza positiva dell'assoluto  un dato neces.sario della coscienza; che sinch la coscienza dura, noi non possiamo un solo istante sbarazzarci di questo dato; e che allora la credenza che vi ha il suo fondamento ha una certezza superiore a tutte le altre. Citiamo ancora il 45, in cui l'autore identifica il  fondo primordiale che la coscienza implica col postulato d'  una Forza inconoscil)ile ; o il 40, in cui, dopo avere stabilito clie il reale per noi  ci che persiste nella coscienza, dice che noi abbiamo coscienza d'una mente tutte le forme e tutti i limiti, e di arrivare ad una concezione indefinita deirinforme e 'leirillimitato In oconcetto vi ha un elemento che persiste.  impossibile che quest elemento sia assente dalla coscienza, ed  impossibile che vi sia presente affatto solo. L^una o Taltra alternativa implica la non coscienza, l'una per manrealt assoluta superiore alle relazioni, prodotta dalla persistenza assoluta in noi di qualche cosa che sopravvive a tutti i cano un omaggio, a ]>arole, al suo principio psicologico con cui egli pretende conciliare la dottrina apriorista e la empirista, ha costruito in realt, trascinato dalle sue premesse ontologiche e metodologiche, una teoria sulle verit ultime interamente aprioristica, e che non l'u assolutamente mettersi d'accordo con quel principio. 1 motivi di (luest'incoerenza sono ovvii. L'idea dell'Inconoscibile non ])otendo derivarsi dai sensi, egli  obbligato a vedervi un possesso ingenito dello spirito, che, per la stessa ragione per cui non pu essei*e acquisito ]>er l'individuo, non pu esserlo nemmeno per la specie. Da un altro canto, siccome non si pu immaginare una reale irrappresentai )ilit derivante dall'esperienza, per appoggiare la sua pi'oposlzione fondamentale sul criterio dell' inconcepibilit della negativa culi deve cercare quest'irrappresentabilit nella natura stessa del jicnsiero; ma allora gli diventa impossibile di trovare a ja \n stesso ontoi^e  Hicoiioscioino tutto ci che vi lia li ben durevole nei tentativi continui clic si fanno per formare una concezione di ci cie  inconcepibile  possibile, ed ancie irobabile, die, sotto le loro forme pi astratte, delle idee di (jnest' ordine continue) anno sempi*e ad occultare il fonro])osizioni. L'autore comincia per dare la cosa come possibile, poi la d comt proha ale, ]>oi come probahilissinia, ma infine^ vince la logica, e Unisce iter atlermarla categoricamente). noi non ne abbiamo alcun bisogno, perch quest' analisi si trova nella Psicologia dello stesso autore. In generale, per combattere le sue dottrine ontologiche, non si ha ad opporre a Spencer che lo stesso Spencer: come all' eroe sedotto dagl'incanti della maga, di cui narra il poeta, si deve a questo filosofo, sedotto dagl'incanti di questa maga che  la metafisica, mostrare se stesso in uno specchio, quello delle sue opere. Dove mai lo Spencer, nei suoi Principii di psicologia, costruisce le nozioni degli oggetti percepiti con altri elementi che i dati della sensazione? quando mai la sua analisi arriva a qualche altro elemento diverso da questi dati stessi?  Levate, diceva Herder (sulla cosa in s di Kant), ad una ad una tutte le pellicole che formano la sostanza bulbosa della cipolla, e ci che rester sar questa pretesa cosa in s >^. Lo stesso deve dirsi di questa nozione di una realt assoluta e indefinita che si pretende restare delle nostre idee delle cose, dopo che si sono spogliate delle qualit sensibili. Che cosa potr restare della nostra concezione di un oggetto esteso, colorato, duro, odoroso, ecc., dopo che si sono soppresse tutte le rappresentazioni venuteci dai sensi? Tutti gli attributi dell'oggetto non hanno altro per contenuto che delle sensazioni: ci non  stato mai posto in dubbio per il colore, la durezza, l'odore, ecc.; in quanto all'estensione, essa risulta, secondo Spencer, dall'associazione delle sensazioni del movimento muscolare con le sensazioni specifiche degli organi della vista e del tatto; per altri invece l'estensione visibile , come il colore, un dato originale della sensazione visuale, congiunto e, per dir cosi, fuso indissolubilmente col colore stesso. Di questi attributi, alcuni indicano dei fenomeni sensibiU che per noi non esistono, anche al punto di vista delle credenze naturali, se non nel momento stesso della sensazione, e attribuendo agli oggetti tali attributi, noi vogliamo dire semplicemente che essi ci occasionano certe sensazioni. Altri attributi invece designano dei fenomeni sensibili che, per la credenza naturale, non esistono semplicemente nel momento della sensazione, ma sono permanenti, e appartengono all'oggetto stesso, o i)iuttosto lo costituiscono. Tali sono Y estensione, il colore, ecc. Ma attribuendo la permanenza e Tobbiettivit a questi fenomeni sensibili, che non sono, come gh altri, che delle sensazioni nostre, noi facciamo ci forse appicciccandole alla pretesa nozione di un oggetto reale, permanente, indefinito, nuda per se stessa di ogni forma sensibile  V operazione del nostro spirito nella concezione degli oggetti esteriori, come abbiamo spiegato nel capitolo 2^ pu indicarsi brevemente cosi: 1 noi consideriamo questi fenomeni sensibili, i quali in verit non esistono che per la nostra sensibilit, come indipendenti da qualsiasi relazione a noi stessi, cio dalle loro condizioni subiettive 2 ai fenomeni sensi bih, che sono stati realmente per noi delle sensazioni attuali, noi aggiungiamo, come concomitanti, come antecedenti, come conseguenti, le sensazioni possibili, cio che noi potremmo o avremmo potuto avere, se fossimo posti o fossimo stati posti nelle condizioni convenienti ; ma queste sensazio^ ni possibili noi le consideriamo, non come fenomeni puramente possibiU, ma come fenomeni reali, e s' intende che questi ultimi fenomeni sensibili, che in se stessi non sono che delle possibilit, ma a cui noi attribuiamo la realt, vengono riguardati, del pari che i primi a cui li aggiungiamo, come indipendenti da qualsiasi condizione subbiettiva. Gli oggetti, quali noi ce li rappresentiamo, non sono cosi che degli aggregati di fenomeni sensibili, cio di sensazioni attuali e di sensazioni possibili realizzate. CJie cosa rester dunque della nozione di un oggetto, dopo aver soppresso tutte le rappresentazioni di senzazioni? ci che rester del bulbo della cipolla dopo aver levate tutte le pellicole. () i)retender forse lo Spencer che, oltre le sensa.sazioni che costituiscono la nostra idea deirestensione, oltre r ordine fra le sensazioni che noi chiamiamo successione, oltre le particolarit distintive di queste sensazioni che ci danno Fimpressione della diUerenza, ci formiamo noi la rappresentazione radimentavia d'un ordine ontologico corrispondente a ci che noi conosciamo come spazio, d'un ordine ontologico corrispondente a ci che conosciamo come tempo, d'un nexas ontologico corrispondente a ci che conosciamo come differenza, e d' un quid indefinito come substratum di tutte queste relazioni ontologiche, e che queste rappresentazioni rudimentarie formano parte integrante della nostra rappresentazione di ci che noi chiamiamo un oggetto esteriore? O ammetter invece che le nostre rappresentazioni degli oggetti sono costituite unicamente di rappresentazioni di sensazioni, ma che il senso della realt indefinita  un elemento delle sensazioni stesse? che ogni sensazione di colore, di resistenza, ecc. contiene la concezione della realt indefinita, assoluta, permanente, che la scienza chiama materia e forza, e che la religione chiama Dio? Tra lo psicologo Spencer che c'insegna Questa sarebbe i)ertanto la sola maniera (Vin tendere la dottrina sulla concezione deirinconoscibile, che la inetterel)be d'accordo col sensismo dei Pricpii di psicologia, e la salverebl)e dal rimprovei'o d essere una forma della teoria delle idee innatese per questa dottrina si prestasse ad una tale interjiretazione. Essendo un elemento di ciascuna sensazione, (juesta concezione sarebbe anche necessariamente un elemento di ciascuna idea (perch un'idea  una sensazione risvei^liata), e cos non si troverebbe mai assente dalla coscienza. Ma la dottrina non si presta ad essere interpretata cos, per pi ragioni di cui due mi sembrano le pi importanti: 1. L'atto mentale per cui apprendiamo l'assoluto, non  una sensazione o una parte di una stmsazioae propriamente detta (cio allo stato forte), perch l'autore parla sempre di (piest'atto mentale come di un pensiero o una rappresentazione (v. 26). Egli lo chiama i>upe,  vero, un .>ononde a una distinzione reale nelle cose, o  soltanto relativa all'uso delle parole? Io credo che la seconda proposizione sia la vera, poich un termine negativo non  al fondo che una designazione generica, conveniente a ciascuno degli attributi positivi che sono incompatibili con l'attributo designato dal termine positivo corrispondente; o in altre parole, il significato di un termine negativo  di denotare le cose che hanno alcuno di questi attributi incompatibili: non bianco  il nome di tutti gli oggetti neri, grigi, cerulei,, o aventi un altro colore ({ualunque differente dal bianco; non quadrato  il nome di tutti gli oggetti triangolari, pentagonali, o aventi un'altra ligura qualunque ditTerente dal quadrato. Cosi una proposizione che nega un attributo di un soggetto,  al fondo una proposizione che qtrerma che il soggetto ha alcuno degli attributi incompatil)ili con questo, ma senza determinare (jaalc; e la ])roposizione, sia che essa abbia la forma affermativa, sia che a])bia la forma negativa,  sempre un' ajrernicu ione, solo nel primo caso l'oggetto deiraffermazione  pi determinato, nel secondo pi indeterminato. (Aristotile, nel trattato De interpretatione, chiama i termini negativi, p. e. non homo, infiniti; e i platonici riconducevano l'opposizione deiresT^cre e del/io/i esset-e e di tutti i contrari. volgere che sul primo caso: quando delle idee sono indissolubilmente legate Ira di loro, la inconcepibilit della negativa, cio la nostra incapacit di separare queste idee,  un criterio della verit? Alla quistione se un legame indissolubile fra le nostre idee sia una prova della verit, si potrebbe aggiungere la quistione corrispondente, se Timpossibilit di congiungere certe idee sia una prova di falsit o dlmpossi])ilit reale. Ma questa seconda quistione rientra a quella dai finito (determinato) e dell'm/^/itYo (indeterminato), come anche a quella dell'ano e del molti notiamo che i contrari delle due aoOTOiy 17.1 erano contaddittori, essendovi tra loro un'opposizione senza medio). A questo punto di vista, la distinzione ammessa nel testo fra una contraddizione e un'asserzione che congiunge in uno stessa soggetto degli attributi opposti o incompatil)ili, svanisce in uua semplice distinzione verbale. Non vi hanno dunque propriamente che due casi d'inconcepibilit: in un caso la proposizione  inconcepibile perch le rappresentazioni, che i'suoi termini esprimono, sono per se stesse opposte o incompatibili, e non vi ha perci alcuna rappresentazione che corrisponda a questi termini, applicati congiuntamente; esso comprende i due casi, distinti nel tosto, della contraddizione e della semplice opposizione o incompati])ilit, e si pu in ([uesto caso dire indifferentemente che l'inconcepibilit  dovuta ad una contraddizione, o che  dovuta alla opposizione o incompatibilit delle nozioni. Nel primo caso d' inconcepibilit, invece, questa contraddizione o incompatibilit non  direttamente fra le nozioni, che si tenta di congiungere, prese per se stesse, ma fra una d queste nozioni e un'altra nozione, che  necessariamente congiunta con quelle a cui si tenta di congiungere la [rima. Che un corpo sia quadrato e rotondo,  un'inconcepibilit dovuta alla contraddizione o alla incompatibilit degli attributi stessi: quadrato e rotondo si escludono direttamente e considerati per se stessi. Ma nella proposizione che abbiamo riportato come esempio dell'altro caso d'inconcepibilit:  Due pi due e quattro sono ineguali , la contraddizione o opposizione non  direttamente fra ineguale e due pi due e quattro, ma fra ineguale ed eguale, e l'idea dell' eguaglianza non pu congiungersi a ({uelle di due pi due e di quattro, perch invece con queste s trova necessariamente congiunta l'idea dell'eguaglianza .nella prima, perch rimpossibilit di formare un le-ame fra certe idee non potrebbe derivare se non dalla circostanza che questo sarebbe incompatibile con qualche altro legame necessario o indissolubile esistente fra le nostre idee. Le obbiezioni di Mill e di Bain contro il criterio  l' influenza delle nostre emozioni vive e delle nostre affezioni.... Queste due influenze saranno pi tardi messe in tutta la loro luce come le cause principali dell' errore e dei sofismi. Bisogna pure tener conto di questa circostanza che, in ragione dei limiti della nostra esperienza, la forza del legame non rappresenta la ripetizione reale dei fatti, a meno che noi non siamo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le volte che si producono. Ci che  il pi familiare per la natura pu non essere ci che  il pi familiare per noi. Noi non consideriamo sempre l'universo dall'alto d*un punto di vista centrale e dominante. Il miglior esempio che possiamo darne  l'importanza eccessiva che noi siamo disposti ad attribuire a un tipo particolare di causalit, la volont umana, perch ci  pi familiare degU altri. Ne risulta che noi crappresentiamo la volont come il tipo naturale ed essenziale dell'attivit, quantunque, in fatto, non sia che una forma rara ed anche eccezionale dell'azione e della causalit In riassunto, allorch si considerano le differenti influenze che concorrono a tonnare le nostre convinzioni, la circostanza unica che Spencer mette avanti  talmente dominata dalle altre, che la vivacit della credenza e, per conseguenza, 1'. in-^ concepibilit del contrario, non possono pi essere considerate come un criterio di certezza . (Lofj.) (l). j:^ 11. 11 lettore si  accorto facilmente che il nerbo i\ Huxley, i cui principii filosofici soik, i)cr il fondo, identici a quelli d Mille di Hain, si conlbi'nia inire a questi autori, rigettando il criterio deli'inconcepibilitn. U fatto, egli dice, che il contrario di una credenza  inconcepil)ile,  forse una presunzione in favore) della verit di (luesta credenza, ma non ne  certamente una prova (V. D. nume, sua cita. ecc. trad. fronc. iGiJ-170. hi 540 deHargomentazione di Mill e di Bain consiste in questo: vi hanno e vi sono state delle credenze o incapacit di credere pressoch irresistibili di cui la scienza ha riconosciuta la falsit; queste credenze o incapacit di credere non sono dovute che a delle forti associazioni fra le nostre idee; dunque noi non siamo fondati ad ammettere che un'associazione, anche inseparabile, fra le nostre idee, determinante una credenza irresistibile, possa essere per se stessa un criterio della verit e della falsit; o per riassumere l'argomento con una frase dello stesso Mill: a meno che non esistano degVidola tribus (che sono fondati su ci che il Mill chiama dei sofismi a priori, e sono tutti dovuti alle strette associazioni fra le nostre idee ), la credenza non pu essere una prova concludente della sua propria verit {Log,).  facile di prevedere la risposta che un discepolo della scuola intuitiva pu fare a quest'argomento: queste incapacit di credere di cui la scienza ha riconosciuto la falsit, non sono state delle inconcepibilit assolute; la cosa che si negava sembrava incredibile, ma non era assolutamente inconcepibile. Ma a ci Mill e Bain replicherebbero: Non vi ha una differenza specifica, ma una semplice differenza di grado, fra ci che  soltanto incredibile, e ci che  assolutamente inconcepibile o inimmaginabile. L'inimmaginabilit presenta dei gradi numerosi, che vanno da una debole difficolt a una impossibilit almeno temporanea, e non vi ha hnea precisa di separazione tra ci che  assolutamente inimmaginabile e ci che  totalmente incre dibile, nemmeno tra ci che  inimmaginabile per una persona data e ci che  semplicemente incredibile per essa. Se un' associazione empirica fra due idee non avente la forza che la renderebbe affatto irresistibile, non permette d'immaginare facilmente la separazione dei due fatti corrispondenti, si  fondati a credere che un' associazione empirica pi forte, prodotta da una ripetizione ancora pi incessante, convertirebbe questa difficolt in una impossibiht condizionale, impossibilit che non potrebbe cedere che innanzi ad una esperienza contraria, che le condizioni della nostra esistenza terrestre possono non permettere. E se un'associazione mentale di due fatti, tropp poco forte perch la rappresentazione della loro separazione sia impossibile, pu ancora creare, e, se non vi ha associazioni contrarie, crea sempre pi o meno difficolt a credere che i due fatti esistano separati ; se, secondo i tempi e i luoghi, questa difficolt acquista spesso la forza d'un'impossibiht ; un'associazione che  abbastanza forte per rendere la separazione inimmaginabile pu sicuramente creare un'impossibilit di credenza, non per un tempo e un luogo, ma che durer sinch durer l'esperienza che ha dato nascita all'associazione (V. Mill Filos, di Hamilton, trad. frane). Ora data questa gradazione continua e questa variabilit nella forza dei legami formati dall'associazione; dato per conseguenza che ogni linea di separazione tra i casi di una forte tendenza a credere e quelli di una necessit assoluta di credere, tra i casi di una difficolt di concepire e quelli di un'impossibilit di concepire, non potrebbe essere se non arbitraria ; sarebbe un'incoerenza di non volere che si accordasse ai primi, fondandosi sulla forza con cui la credenza ci s'impone, un valore obbiettivo (visto che esistono degYidola tribus), e di volere che, sullo stesso fondamento, si accordasse ai secondi.  evidente cosi che tutta la forza dell'argomentazione di Mill e di Bain s'incardina nella dottrina dell'associazione inseparabile, nella dottrina, cio, che la forza di un'associazione empirica pu arrivare al punto che questa divenga assolutamente indissolubile, e che tale  l'origine delle necessit del pensiero.  su ci che  fondata il primo argomento contenuto nella prima citazione di Mill: ora, se ben si riflette, questo  il solo argomenta  j forte, il secondo non  clie una vaga generalit, che uno scettico potrebbe impiegare, con la stessa ragi(V ne, contro il valore di ogni conoscenza umana. Se vi fossero, dice Mill, nello spirito delle impossibilit di concepire inseparabili dallo spirito stesso, noi non potremmo concludere che ci che siano incapaci di concepire non pu esistere, perch ci supporrebbe che noi sai)essimo a j)riori che siamo stati creati capaci di concepire tutto ci die pu esistere; che il mondo del pensiero e quello della realt sono stati fabbricati in maniera da corrispondersi mutuamente. Ma  precisamente su questa supposizione a priori, che il mondo del pensiero e quello della realt si corrispondono mutuamente, che si fonda la conoscenza umana: il pensiero non pu uscire da se stesso, e confrontarsi immediatamente con le cose; credere alla realt della nostra conoscenza implica un atto di fede nelle nostre facolt conoscitive. Cosi la nostra credenza nella veracit della memoria, il Mill ne conviene,  un fatto ultimo: noi l'ammettiamo senza prova, perch tutte le prove che se ne potrebbero dare suppongono gi la credenza stessa. Ora questa fede nella memoria, e nelle nostre facolt conoscitive in generale, non implica, altrettanto che la fede nella validit di qualsiasi necessit primitiva del pensiero, la supposizione a priori che il mondo del pensiero e il mondo della realt sono stati fabbricati in modo da corrispondersi mutuamente? Del resto, ammettendo (l) Ci che pu esservi di umuissil^ile nei (Uil)bi di Mill sulla validit di una necessit innata del pensiero,  che la sua corrispondenza con una necessit obbiettiva sarebbe inesplicabile, e siccome noi dubitiamo naturalmente della possibilit d'un fotto quando ve, ed egli stesso, senza osare di  affermare assolutamente  che tutte queste leggi  possono essere rigorosamente rap]X)rtat 3 a un' assoluta necessit della natura delle cose , riconosce questo carattere alla legge che io ho citato. Quantunque, dice egli, la prima legge del movimento sia stata, storicamente parlando, scoverta dall'esperienza, noi siamo ora posti ad un punto di vista che ci mostra che essa avrebbe potuto essere costatata indipendentemente dall'esperienza >>. (Storia delle scienze induttive), Qual esempio pi colpente di questo dell'influenza dell'associazione ? I filosofi, pel* generazioni, trovano una difficolt straordinaria a congiungere insieme certe idee; alla fine vi riescono; e, dopo una sufficiente ripetizione dell'operazione, immaginano dapprima che vi ha un legame natu.rale tra queste idee; poi provano una difficolt che aumentando di pi in pi, finisce per divenire una impossibiht di disgiungerle. {Log.). Il Mill qui non comprende la vera ragione di questa  trasformazione della credenza : non  per l'abitudine di congiungere le idee unite dalla prima legge del movimento, per essersi, dopo una sufficiente ripetizione dell'operazione, familiarizzati con essa sino al punto da diventare imposisibile una disgiunzione di queste idee, che i matematici riguardano questa proposizione come upa verit necessaria. Il fatto r spiegato meglio altrove dallo stesso Mill. In ogni tempo, egli dice (parlando del sofisma a /^r/o/-/ dellaragion sufficiente), i .geometri si sono esposti al rimprovero di voler provare i fatti del mondo esteriore per mezzo ili ragionamenti sofistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi.... Essi credono pi scientifico di stabilire questi principii cosi che per la prova dell' espe;rienza. (Log.). Il sofisma della ragion sufJciente, come tutti gli altri tentativi di dimostrare ie verit di fatto (le quali riposano, non sulla dinostrazione, ma sull'induzione), non  che un caso del metodo a priori, applicato, non, come fanno i filosofi radicalmente aprio.risti, a tutto il sistema delle conoscenze umane, ma a qualche branca particolare, e specialmente ai principii della meccanica noi vedremo nel Saggio seguente che la ricostruzione a priori della realt  una delle manifestazioni generali del modo di pensare metafisico, e come questa manifestazione si riattacca alla tendenza fondamentale imetafsica o sofistica a priori del nostro spirito Del rimanente noi dobbiamo aggiungere che se la difficolt di concepire, dovuta alle prime apparenze, non  sufficiente per fare respingere le leggi scientifiche del movimento,. essa  sufficiente almeno per far trovare incomprensibili i Tatti enunziati in queste leggi: quando si dice che la comunicazione del movimento per l'impulsione (questo fatto per noi il pi familiare della natura esteriore)  un mistero, che r azione a contatto  cosi inesplicabile come Fazione a distanza, questo non  che un effetto della contraddizione delle leggi del movimento, scoverte dalla scienza, con le suggestioni spontanee prodotte dalle prime appai^enze. Il Bain pensa come il Mill che le inconcepibilit sono qualche cosa di variabile e di relativo ai tempi, ai luoghi, alle l>ersone.   in gmn parte, egli dice, la nostra educazione clie decide ci clia noi possiamo concepire e ci che non possiamo concepire. La prova ne  che delle verit, che passavano per inconcepibili a certe epoche e in certi paesi, divengono concepibilissime con un'educazione differente, ed anche si sono a tal punto fissate negli spiriti, che  il contrario di queste verit ciie  ora inconcepibile. I Greci ammettevano che la materia  eterna, ch'essa esiste per se stessa: molti moderni pretendono che l'esistenza per s della materia  assolutamente inconcepibile. Vi ha dei filosofi che pensano che l'azione dello spirito  la sola origine concepibile del potere motore, della forza motrice: altri riguardando al contrario l'azione dello spirito sulla materia come assolutamente inconcepibile, hanno inimaginato delle ipotesi speciali per risolvere la difficolt p. e. Malebranclic con la sua teoria dell'intervento di Dio, e Leibnitz con la sua armonia prestabilita. Newton 11 disaccordo dei llosol suirazione della volont, consideraci ora come il l'arto pi cliiaro, ed ora come il pi inesplicabile, ha suggerito al Mill oneste riliessioni:  1/ inconcepibile e il concepihilc e una circostanza tutta accidentale, e clie dipende interamente dalla esperienza e dalle abitudini di pensiero degli uomini; degrindividui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, esnon poteva concepire la gravitazione senza l'esistenza d'una sostanza intermediaria: teoria oggi abbandonata ^ (Log,). Noi osserveremo, in primo luogo, su questo ragionamento del Bain, che tanti secoli d'insegnamento della dottrina cristiana non hanno potuto fare che la creazione della materia dal niente finisse di sembrare un mistero incomprensibile, il che prova che l'insegnamento e l'educazione possono cangiare le nostre credenze, ma non le inconcepibilit o le semplici difficolt di concepire del nostro spirito. Se alcuni filosofi hanno appoggiato il dogma incapaci di concepire una data cosa qunlancjue, e divenire in seguito capaci di concepire molte cose, per (luanto inconcepibili avessero potuto sembrare dapprima; e gli stessi fatti clie per una persona determinano nel suo spirito ci die  concepi])ile o no, determinano pure quali sono nella natura le sequenze che gli parranno si naturali e plausibili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza della loro luce propria, indipendentemente da ogni esperienza e da ogni spiegazione. Per qual regola decidere fra una teoria di questo genere e un'altra? 1 teorici non ci rinviano ad alcuna evidenza esteriore; ciascuno di loro fa appello ai suoi sentimenti subbiettivi Essi elevano all'altezza d'una legge primitiva deFintelligenza umana e della natura una successione particolare di fenomeni che sembra loro pi concepibile e pi naturale delle altre solo perch  loro pi familiare  {Log.). Secondo noi una concezione metafisica non  ({ualche cosa di cosi arbitrario ed accidentale come (jui il Mill sembra credere: basta a provarlo la persistenza di certe alce madri, di certi tipi generali, nella storia della metafisica (animismo -nel senso che il Tylor d a questa parola, ilozoismo,' spiegazione di tutti i fenomeni fisici per l'impulsione, concezione del reale come sostanzialmente immutabile, realizzazione dei concetti unita al metodo deduttivo, ecc). 11 metodo che noi impiegheremo nel Saggio seguente, per renderci conto delle concezioni dei metafsici, sar di ridurle a dei tipi d pi in pi generali, mostrando, per ciascuno di questi tipi, il concetto fondamentale che gli serve di base, e deducendo questi concetti fondamentali da certe credenze o tendenze a credere istintive, comuni a tutti gli uomini, e che costituiscono la metafisica iiatarale del nostro spirito religioso su degli argomenti razionali, questi argomenti sono tirati quasi unicamente dalla necessit di evitare un altra inconcepibilit (la quale d'altronde  una inconcepibilit assoluta e non una semplice diticolt di concepire), quella deirinflnito attuale. In secondo luogo, perquel che riguarda Fazione della volont, la concepibilit o inconcepibilit di questo fatto non  (lualche cosa di puramente accidentale ed individuale, come pensa il Bain: esso presenta etl'ettivamente alFintelligenza umana, per dir cosi, due l'acce opposte; dall'una, sembra il latto pi evidente e pi naturale, dalFaltra, il pi oscuro ed inesplicabile. Noi spiegiieremo altrove (Saggio 2^ parte 1% e. 4^) questo fenomeno psicologico, per cui i (atti pi familiari del nostro spirito ci sembrano da una parte i pi evidenti di tutti e tali, non solo da non aver bisogno d altra prova, come diceMill(Lo^. 1. 3 e. 5^ 0, 1. e), che l'evidenza della loro luce propria, ma ancora da poter comunicare questa luce a tutti gli altri,  servendo di spiegazione ultima delle cose in generale  (Mill ibid.); ma dall'altra parte ci paiono invece i pi misteriosi di tutti e i pi ribelli ad ogni spiegazione. Per ora accenneremo solamente che questo doppio aspetto in cui gli stessi fatti ci appariscono, non  che una conseguenza del modo differente in cui ce li rappresentiamo: Tidea che la scienza ci d di questi fatti  tutt altra da quella che abbiamo attinto immediatamente dalle osservazioni pi familiari. Quando ci sembrano i pi misteriosi di tutti,  perch ce li rappresentiauo secondo l'idea che ne d la scienza; quando ci sembrano i pi evidenti,  perch li concepiamo nel modo suggeritoci spontaneamente dalla nostra esperienza giornaliera ; ma siccome (per servirci di un'altra frase di Ml'bdem) le suggestioni della vita di tutti i giorni sono pi forti che quelle della riflessione scientifica , il secondo modo di concepirli non  mai soppiantato interamente dal primo, e la loro evidenza prescientifca persiste sempre, per conseguenza, a lato dell'aspetto misterioso in cui la scienza ce li presenta. A ci aggiungeremo, per quanto concerne l'azione volontaria, che ci che prova che l'evidenza e il mistero, attribuiti a questo fatto, non sono qualche cosa di accidentale e di relativo all'individuo,  che, mentre nessuna scuola filosofica ha insistito quanto la spiritualista sull'incomprensibilit dell'azione mutua fra lo spirito -e il corpo, l'evidenza, superiore a quella di qualsiasi altro fatto dell'esperienza, dell'azione dello spirito sul corpo  ^l tempo stesso il concetto fondamentale su cui questa scuola  basata, senza di che essa non eleverebbe questo modo particolare di causazione a tipo universale della causazione e a spiegazione radicale di tutti i fenomeni. Lo stesso autore dell'armonia prestabilita dichiara espressamente che l'idea pi ciara della potenza attiva ci  data dalle operazioni del nostro spirito, e che se questa -si trova anche nei corpi, essa non appartiene gi alla materia, ma alle entelechie (cio alla monadi), che spno analoghe allo spirito (N, S. sulVint, urm). In quanto a Malebran che, egli deduce,  vero, la dottrina che Dio  la causa universale, dalla sua onnipotenza, e non dall'evidenza superiore dell'azione volontaria: ma le .prove, con cui un metafisico dimostra il suo sistema, non sono necessariamente i motivi reali di questo sistema; ed  difficile a credere che la filosofia di Malebranclie sia fondata su un semplice concetto della teologia positiva, e .non su quello che  la base della filosofia teologica in generale, cio l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attivit umana, o semplicemente animale. Il disac" cordo dei filosofi sull'evidenza e il mistero dell'azione volontaria non  dunque che apparente ; e questo fatto, ben interpretato, lungi di provare la variabilit delle necessit (relative) del nostro pensiero, ne prova, al contrario, la persistenza. Ora che conclusione si pu(') tirare da questa persistenza (Ielle necessit, tanto assolute quanto relative, del i3ensiero, per la quistione presente sulla validit del criterio deirinconcepibilit della negativa? Da una parte essa mostra pi apertamente la contraddizione die vi ha a respingere la validit del criterio ; poich le necessit del pensiero essendo generali e permanenti, Mill e Bain ne partecipano come tutti gli altri uomini, e, trattandosi di necessit assolute che impongono una credenza irresistibile, essi non possono quindi, senza incoerenza, respingerne teoricamente il valore obbiettivo, quando praticamente sono costretti ad animetterlo. Ma dallaltra parte, se vi hanno delle necessit assolute del pensiero derivate dall'associazione delle idee; se vi ha pericolo che queste necessit assolute siano delle illusioni come quelle necessit relative di cui la scienza ha scoverto l'erroneit; il male sar pi grave ancora di quello che possa temere Mill o Bain, perch, una necessit del pensiero non potendo modificarsi, Tillusione sar senza rimedio. Cosi, lungi dairesserci liberati dalla contraddizione e dalla perplessit, noi vi ci troviamo pi che mai inviluppati: le contraddizioni e le perplessit sono nel fatto inevitabili, sin-che si mantiene la dottrina deVassociazione inseparabile. Queste perplessit, queste contraddizioni ine Noi abbiamo vista in una note antecedente l'incertezza di Mill sulla quistione se un'associazione inseparabile o un'inconcepibilit del contrario (che per Mill  la stessa cosa) produca o no una credenza irresistibile: un'altra incertezza simile noi la troviamo, quando egli determina la nozione stessa dell'associazione inseparabile, (ra Mill chiama inseparabile un' associazione che sar tale sinch delle esperienze contrarie non la diseiolgano (v. p. e. il 1. e. della Filos. di Hamilton);  questa, secondo noi, la vera nozione dell'associazione inseparabile. Ma ora invece ammette che, non solo delle esperienze contrarie, ma anche le operazioni del pensiero possono disciogliere un'associazione inseparabile; cosi nel e. XI della Filos. eli Hamilton, sul principio, distingue l'associazione inseparabile dall'associazione indissolubile. Non si vuol dire per stricabili, in cui la dottrina deirassociazione inseparabile getta fatalmente i filosofi empiristi che la sostengono, non sono che un altro aspetto della contraddizione radicale di questa dottrina coi principi! fondamentali della filosofia dellesperienza. Il canone fondamentale di questa filosofa  che non bisogna niente ammettere senza j)rova (la prova non essendo altra cosa che una detluzione fondata sopra un induzione antecedente ): ma se vi ha in noi una necessit del pensiero che e' impone irresistibilmente la ci^edenza, o che questa necessit sia congenita allo spirito, o che sia il prodotto d'un'associazione empirica, ogni prova sarebbe vana; sarebbe inutile, come dice Mill, di appellarne, perch sarebbe impossibile di modificarla. Ma non ne seguirebbe, come aggiunge lo stesso autore conformemente ai principi! deirempirismo, che la credenza fosse vera. E nel fatto i risultati della dotqueste parole (associazione inseparal)ile) che l'associazione deve inevitabilmente durare sino alla line della vita, che alcuna esperienza susseguente, alcuna operazione del pensiero non possa diSi-ioglierla; ma solamente che. sinch questa esperienza o ensiero non avr luogo, lassociazionc rester irresistibile ; che ci sar impossibile di pensare 1' uno dei suoi elementi separato dall'altro. Ma come chiamare irresistibile un'associazione che un'operazione del pensiero pu disciogliere? Non sembra (juesta una sconfessione della dottrina dell' associazione insei)arabile1 Se  luesta la nozione dell'associiazione insei^arabile, noi siamo presti ad al)bandonare tutte le obi)iezioni che al>)iamo fatte contro (piesta dottrina; ma Mill deve abbandonare pure la pretesa di spiegare per un'associazione inseparabile la necessit dei principii intuitivi della matematica, perch  evidente che noi non ]ossiamo immaginare alcuna operazione del pensiero che i>os8a valere a disciogliere il legame fra le idee di cui consta il giudizio espresso in (juesta proposizione: due e due fanno cpiattro. Sono questi i legami iva le nostre idee che soli meritano il nome d' inseparabili: se si ammette che un'associazione empirica pu diventare inseparaile sino a (juesto punto, allora rinasce la nozione dell'associazione inseparabile contro la quale ab])iamo fatte lejostre ol^ Iniezioni, e con essa l'applicabilit di queste obbiezioni "stesse. trina empirista sono la negazione di molte di queste credenze irriflesse che tendono ad imporsi con la forza pi grande al nostro spirito, credenze che non sono che l'opera dell'associazione spontanea d^Ue idee: cosa che necessariamente deve rendere sospetta ogni associazione relativamente o assolutamente irresistibile, in cui non pu vedersi, invece che una convinzione fondata su Tesarne e delle prove, che un prodotto fatale dell' attivit istintiva dell' intelledas sili permissiis. Ne segue che il canone fondamentale della filosofia dell'esperienza non pu ssere applicabile d'una maniera universale, se non alla condizione che non vi siano fra le nostre idee delle associazioni assolutamente inseparabili. Ora noi abbiamo visto in un capitolo antecedente che questa condizione fortunatamente si verifica; che nel fatto l'associazione non pu stabilire fra le nostre idee alcuno di questi legami assolutamente indissolubili, tali da determinare la irresistibilit della credenza. Cosi si dissipa qu6*,st'ombra di dubbio che le illusioni naturaU del nostro spirito (illusioni per altro che noi possiamo correggere) Un critico di Mill, appartenente alla scuola intuizionista, protesta contro la dottrina dell'associazione inseparabile, che determina necessariamente la credenza, ed esorta la giovent a scuotere l'influenza di questa dottrina, e ad apprendere che  il nostro -dovere di fondare le nostre credenze sovra un giudizio antecedente, e di basarle sull'esame delle realt e delle attualit. 11 Mill si lagna di non essere compreso, e risponde che egli  un missionario delle stesse idee (Filos. d Hamilton trad. frane). Ma Terrore del critico  perdonabile:  un'incoerenza] quando si  un missionario di queste idee, di ammettere al tempo stesso la loro inapplicabilit, un' associazione irresistibile producendo necessariamente una credenza che non  fondata esclusivamente su delle prove, come vuole il Mill. Ci , mutati^ mutandis, come se un moralista, convinto die l'uomo non  capace se non di azioni egoistiche, predicasse nondimeno la morale dell'evangelcf: Amate il pi'ossmo c-ome voi stessi. ^ proiettano sul criterio della inconcepibilit della negativa, e noi evitiamo le contraddizioni, in cui lo spirito non pu non cadere, quando pensa di scuotere questa fede necessaria che noi dobbiamo avere nelle nostre facolt conoscitive. Non vi ha altra necessit del pensiero, altra inconcepibilit della negativa, che nei giudizi immediati sulle somiglianze e sulle ditTerenze: il reale, l'esistente, non pu essere attinto che dalla prova, e questa non pu essere che una deduzione rigorosa fondata sovra un'induzione anteriore. Ma con tutto ci una necessit del pensiero (anche dentro questi limiti) non  sempre una contraddizione ai principii della dottrina dell'esperienza? Questa contraddizione in realt  pi con la lettera che con lo spirito di questa dottrina. Ci  perch il postulato, a cui si riduce ogni anticipazione suU' esperienza contenuta in tutte le nostre conoscenze veramente a priori e necessarie,  uno di quei postulati che noi dobbiamo ammettere senza prova, per la ragione che ogni prova implica gi l'ammissione di questi postulati. Vi hanno tre facolt fondamentaU nell' intelligenza : sono la memoria, la comparazione, e la facolt di concludere o di tirare delle inferenze. Ogni ragionamento, ogni prova o esame dei fatti, suppone 1' esercizio in comune di queste tre facolt associate, facolt che noi non distinguiamo che per una specie di astrazione, perch ogni operazione dell'intelligenza suppone il concorso di tutte e tre. Prendiamo un sillogismo, un sillogismo considerato, non come lo considera la logica formale, cio come un'inferenza puramente verbale, ma come un'inferenza reale, nella quale perci i veri antecedenti logici sono i fatti delF esperienza passata, di cui la maggiore  l'espressione generale. La maggiore enuncia dunque questi fatti deiresperienza passata (e, per essere esatti, insieme a questi fatti, esprime pure la riconoscenza che essi / * -^sono tali, che noi ci crediamo autorizzati a tirare delle su altri latti non ancora sperimentati): ora questi tatti deiresperienza passata noi non li ammettiamo che sulla lede della memoria. JMa oltre la memoria, la maggiore suppone anche la facoltc della comparazione: infatti  per avere scoverta Tunitormit, cio la somiglianza, tra questi tatti dellesperienza passata, che noi possiamo riassumerli in una formula generale. La minore del sillogismo non esprime pure che una comparazione: essa aferma die il caso presente ha una somiglianza definita, per gli attributi che noi ne conosciamo, coi casi delFesperienza passata che sono stati registrati nella maggiore. La conclusione, infine, afferma che il caso presente deve somigliare ai casi passati anche per T attributo che noi ancora non abbiamo direttamente conosciuto, e che quest attributo gli appartiene. (Confr. e. 2^ 14^' n.*^ 4).  evidente che quest'ultima affermazione  altra cosa che una comparazione o un atto di memoria:  per quest affermazione che si manifesta la terza facolt, quella di concludere, o di tirare delle inferenze. Ora ciascuna di queste tre facolt ha il suo postulato, o piuttosto, l'ammissione della veracit di ciascuna di queste tre facolt non  che un postulato; noi non possiamo provarla, ma dobbiamo ammetterla senza prova. Noi ammettiamo che i fatti che la memoria attualmente ci suggerisce lianno in realt esistito nel passato; noi ammettiamo che le somiglianze che il nostro pensiero percepisce sono le somiglianze reali delle cose; infine noi ammettiamo che abbiamo il dritto di tirare delle inferenze dal noto air ignoto, dal passato air avvenire. Tutto ci noi lo ammettiamo senza prova; essi sono dei postulati, e tutti insieme costituiscono il ix)stulato universale, che noi dobbiamo aver fede nelle nostre facolt conoscitive, che il pensiero e la realt si corrispondono, che la verit esiste, che rintelligenza pu conoscere e le cose possono essere 2il pensiero e la realt, non solo e un'anticipazione delFesperienza, ma non potrebbe essere nemmeno verificata ; perch questa verificazione implicherebbe la fede nella veracit della memoria dei rapporti gi percepiti, e siccome in generale p >nsare un tal rapporto non  che percepire il rapporto stesso fra le nostre rappresentazioni (l'idea 0 impressione del rapporto non potendo essere prodotta che da termini presenti attualmente nella coscienza), quindi la fede nella memoria implica, in questo, caso, il postulato che i rapporti sentiti fra le nostre ra})presentazioni corrispondono ai rapporti sentiti fra le cose stesse. Infine, quando noi diciamo che i rapporti attualmente percepiti (sia fra le idee sia fra le ca.se) corrispondono ai rapporti reali esistenti fra le cose stesse, (siccome un rapporto di somiglianza o di differenza non  niente al di fuori della nostra percezione) noi vogliamo dire che la i)ercezione del rapporto non  arbitraria e accidentale, ma  costantemente legata alla presenza dei termini del rapporto nella coscienza, che gli stessi termini ci [)rotlucono costantemente gli stessi sentimenti di rapporto. Questa costanza delle percezioni dei rapporti, implicata in ogni affermazione di somiglianza e di differenza, e anch'essa una supposizione anteriore alfesperienza e elio Tesperienza non pu, rigorosamente, verificare; perche questa verificazione implicherebbe la fede nella veracit della memrria dei rapporti percepiti, la qual fede non  che un caso del postulato che i rapporti perce[)iti fra le rappresentazioni corrispondono ai rapporti percepiti o [)ercepibili fra le cose stesse. Ora questi risultati noi dobbiamo a[)plicarli a tutte le affermazioni di somiglianza e di ditlerenza, le quali, oltre che sono l'oggetto esclusivo delle matematiche pure e di ogni altra verit cosi detta razionale, costituiscono anche un momento necessario di qualsiasi operazione della nostra intelligenza. Ogni ragionamento implicando la costataz ione di cert^ uniformit, fra oggetti di cui una parte almeno sono assenti dalla coscienza, le comparazioni dalle quali risulta la costatazione di queste uniformit, implicano il postulato che i rapporti (di somiglianza e di differenza) percepiti nel pensiero, o fra le nostre rappresentazioni, corrispondono ai rapporti percepiti o percepibili fra le cose stesse. Di pi il ragionamento suppone la costanza di questi rapporti, cio che gli stessi termini ci producono costantemente le stesse impressioni di rapporto. Supponiamo infatti (per quanto una tale supposizione pu essere intelligibile) che le nostre percezioni di questi rapporti non si pi^ducessero pi d'una maniera regolare, che il simile ci sembrasse differente e viceversa; allora ci(j che attualmente chiamiamo ordine della natura ci sembrere bbe invece un disordine, perch la percezione dell'ordine o dell'uniformit non consiste che in percezioni di somiglianze. Allora tutte le nostre classazioni, tutte le nostre previsioni dei fenomeni futuri, sarebbero false o impossiljili; l'ordine della natura non sare)l)o cangiato, semplicemente noi non jx)trcmmo pi com[)renderlo. Tutti i nostri ragionamenti suppongono dunque la regolarit delle nostre percezioni dei rapporti di somiglianza; ma questa supposizione non potrebbe, come abbiamo detto, essere sperimentalmente verificata, a meno che non si ammetta il postulato: che i rapporti percepiti fra le nostre idee corrispondono ai rapporti percepiti o i)crcepibili fra le cose stesse. Questo postulato  dunque implicato in ogni ragionamento, in ogni prova: al fondo esso , unitamente, per le nostre percezioni di somiglianza, ci che i due altri postulati, quello della memoria e quello dell' inferenza, separatamente, sono per tutte le altre nostre percezioni. Dentro i limiti delle percezioni di somiglianza, esso sostituisce il postulato della memoria, percli noi non ci rammentiamo una somiglianza gi percepita per la retcntivit e la reviviscii)ilit della percezione gi provata, come avviene per I 5 le altre percezioni, ma semplicemente perch la rappi^sentazione delle cose simili gi percepite produce attualnella nostra coscienza il sentimento della soQiiglianza. Dentro gli stessi limiti, esso sostituisce il postulato dell'inferenza, perch per conoscere cjual percezione di rapporto ci produrr la presentazione di dati oggetti, noi non abbiamo bisogno di fare un'inferenza, ma ci fidiamo alla inspezione attuale delle rappresentazioni di questi oggetti. Cosi la natura, con mezzi apparentemente pi semplici (una pura azione riflessa) ha ottenuto, per questa classe di percezioni, ci che per le altre non ha potuto ottenere che con mezzi apparentemente pi complicati, quelli che costituiscono il meccanismo, ignoto nei suoi ultimi elementi, della memoria e della inferenza. Se ora ci domandiamo che ragione abbiamo noi di ammettere la validit obbiettiva di questi tre postulati, o, in una parola, del postulato universale della corrispondenza fra il pensiero e le cose, la risposta sar semplice ; ragione  che noi non possiamo fare a meno di ammetterli, se pure non vogliamo rinunziare all'uso del pen-, e ridurci allo stato di vegetali (come dice Aristotile contro quei sofisti che negavano il princiio di contraddizione). Noi possiamo certamente, d'una maniera speculativa, e in ultima analisi, solo verbalmente, elevare dei dubbi sul valore delle nostre facolt conoscitive ; E appena bisogno di oggiungerc che ci che noi diciamo nel testo sui rapporti di somiglianza si riferisce a quelli che sono conosciuti d'una maniera intuitiva o immediata: quando il rapporto viene invece conosciuto per inferenza, allora, come abbiamo detto nel capitolo precedente, noi non ci facciamo una rappresentazione adequata dei termini rapportati, ma le nostre rappresentazioni sono simboliche. In (]uesto caso la congiunzione delle nostre idee  governata dalle leggi generali dell'associazione, e il meccanismo dell'inferenza  lo stesso che in ogni altro caso qualsiasi d'inferenza, in cui si tratti, non di somiglianze, ma di altri fenomeni qualunque. ma, ogni esercizio del pensiero implicando la riconoscenza di questo valore^, noi non lo possiamo senza avvilupparci in inestricabili contraddizioni. Queste facolt sono^  vero, per noi la sorgente di persistenti illusioni: ma noi possiamo correggerle, ben pi, noi possiamo studiare il meccanismo della loro produzione. Dicendo che noi dobbiamo ammettere necessariamente la corrispondenza fra il pensiero e le cose, per queste cose non intendiamo altro che i fenomeni: cio da una parte i nostri fenomeni interni o subbiettivi, da un'altra parte quelli della natura esteriore, che si risolvono in sensazioni reali e possibilit di sensazioni. Per quelli che pensano come Mill e Bain, come per il realismo volgare, le cose non sono che le presentazioni dei nostri sensi: noi non possiamo affermare altra realt, al di l della sensazione o del fenomeno, perch da una parte la credenza spontanea, che fa delle nostre sensazioni delle cose poste fuori di noi e indipendenti dal soggetto senziente,  stata irrevocabilmente distrutta dalla riflessione scientifica; e d'altra parte le concezioni filosofiche che si tenta di sostituire a questa credenza spontanea, n c'impongono immediatamente, com'essa, l'assentimento, n possono essere giustificate per mezzo di "prove (v. Saggio seguente parte 2^), ben pi, esse sono, come abbiamo detto, intrinsecamente inintelligibili e contraddittorie. Il postulato della corrispondenza Tra il pensiero e la realt, cio l'aftermazione supposta in ogni atto del pensiero, che l'intelligenza pu conoscere e le cose possono essere conosciute, implica che i fenomeni sono assolutamente intelligibili, e che vi ha, o piuttosto pu avervi, una coincidenza assoluta fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto (aequatlo rei et intellectas). Cosi, non solo lo scetticismo propriamente detto, ma anche il criticismo, la dottrina dell'Inconoscibile e, in generale, tutte le forme dell'agnosticismo contemporaneo, sono in contraddizione r con questo postulato. Il criticismo perch a parte i limiti che il noumeno oppone alla nostra conoscenza il postulato suppone al temjxD stesso l'opposizione e la coincidenza tra la conoscenza e la cosa conosciuta. Per Kant la cosa conosciuta non  che il i)rodotto del nostro pensiero; Fordine con cui le cose ci appariscono non  in esse, ma in noi. I neo-kantiani che abbandonano la cosa in s, arrivano necessariamente alla conseguenza die l'oggetto non esiste assolutamente e per s, ma relativamente al soggetto conoscente. Cosi il criticismo  la negazione della dualit della conoscenza e dell'oggetto conosciuto, dell'indipendenza del secondo dalla prima. In Potrebbe sembrare che la dottrina di Mill e d Rain sul mondo esteriore implica anch'essa la negazione della diudit della conos^^enza e della cosa conosciuta e della indipendenza di questa da (pit'lla: ma mettendosi al punto di vista del sistema, si vedr clie non  cosi. Le cose, cio le presentazioni dei nostri sensi, non sono (ertamente, in luesto sistema, indipendenti dol soggetto senziente, ma esse sono indipendenti dal soggetto conoscente; una presentazione dei nostri sensi, una sensazione, non  una conoscenza, ma  l'oggetto conosciuto; la conoscenza incomincia l dove incomincin la rappresentazione, il giudizio, ci che  suscettibile di verit o di falsit. La proposizione che non pu esservi verit o falsit (e quindi nemmeno conoscenza; nella sensozione, si trova del resto generalmente ammessa, a cominciare dAristotile. Tuttavia secondo la dottrina comune che considera la sensazione come la rappresentazione di un oggetto esteriore distinto da essa, potrebbe avere ancora un senso il dire che la sensazione  una conoscenza: ma nella dottrina di Mill e di Hoin non potrel)be avere alcun senso, perch in essa non solo, come nel realismo popolare, la sensazione s'identifica con la cosa, ma non vi ha altra rosa che la sensazione stessa. Ora ])er questa dottrina le cose, cio le presentazioni dei nostri sensi, i fenomeni, sono indipendenti dal soggetto conoscente, ed hanno un'esistenza assoluta, in quanto l'ordine con cui essi avvengono  qualche cosa di reale e di (\ssoluto; non  una foi-ma del nostro ]>ensiero come per Kant, ma esiste indil>endent('mcnte da ogni rapporto con un soggetto conoscente. (Gonfr. e. V, la nota al 0). m7 quanto alla dottrina dell'inconoscibile in se stessa, indiI)endentemente dalla sua alleanza con le dottrine kantiane, parr forse esorbitante l'asserzione che essa contraddice pure al postulato necessario dell'intelligenza; perch, si dir, affermare che la nostra conoscenza  limitata, non  invalidare il valore reale di questa conoscenza. Ed  vero: cosi quelli che pensano come Mill e Bain, non negano che, al di l dei fenomeni, possa esservi qualche cosa che sfugge assolutamente alla nostra conoscenza. Ma quelli che ammettono che la realt che noi conosciamo, il fenomeno, non  che la semplice apparenza d'una realt sconosciuta, invalidano necessariamente il valore reale diquesta conoscenza. Perch intatti essi trovano necessaria la supposizione di questa realt sconosciuta che serva di fondamento ai fenomeni? Perch, secondo loro, la realt fenomenale  inintelligibile, e ci mostra per questa sua inintelligibilit che essa non  una vera realt, ma una semplice apparenza; perch le idee ultime della scienza sono contraddittorie, e noi ci troviamo di fronte a delle alternative d'inconcepibilit in ciascuna delle concezioni fondamentali che cerchiamo di formarci; perch, in una parola,, la nostra non  una conoscenza, ma un simulacro (U conoscenza (V. Spencer Primi princ. e. 2*^ e:>, e DuHoys Reymond / limiti della filosofa naturale nella Rev. scienti/:). Si replicher tuttavia che queste asserzioni dei fautori della dottrina dell'Inconoscibile non sono essenziali alla dottrina stessa ; che si pu ammettere che lo spirito umano pu formarsi una concezione perfettamente chiara e coerente della realt fenomenale, tanto nelle sue parti quanto nella sua totalit, e che anche in questo caso nondimeno il bisogno di oltrepassare questa realt sareljbe legittimo, perch una conoscenza assoluta delle cose implica la conoscenza dell'essenza, e il fenomeno non  l'essenza ('non  l'essenza, perch la percezione sensibile non ci d la realt assoluta, ^ cio ogg(3ttiva, e perch i legami tra i fenomeni non sono (Ielle vere causazioni, cio efficienti, ma delle semplici uniformit di sequenza). Certamente, in quest'ipotesi, limitare la conoscenza non sarebbe invalidarla; se non che, non si avrebbe, allora, alcuna ragione di limito re la conoscenza, perch non si avrebbe alcuna ragione di affermare un'essenza al di l del fenomeno. L'intelliresso sotto un'altra forma Una cosa che  oggetto di prova e non di conoscenza immediata, non pu essere stabilita che per una deduzione (sillogismo) fondata sovra un'induzione antecedente. Questa induzione antecedente  una proposizione generale, che abbraccia in una stessa formula tanto le cose dell'esperienza passata clie costituiscono il punto d partenza dell'induzione, (luaiito le cose che ne costituiscono il punto d'arrivo, tra le altre quella che  l'oggetto della deduzione susseguente. Cosi la cosa dedotta deve essere dello stesso genere che le cose che servono di punto di [mrtenza aU' induzione antecedente: ma queste non sono che fenomeni ; dunque anche (|uella non pu essere che un fenomeno. essa non potrebbe nemmeno essere conosciuta d'una maniera intuitiva 0 dedotta a priori, perch, come abbiamo mostrato, la realt, l'esistenza, non pu essere l'oggetto di una conoscenza a priori. Noi vediamo dunque che mostrare l'impossibilit di ogni conoscenza a priori sul reale non , come avrebbe potuto credersi, mortificare le aspirazioni pi alte dell'intelligenza, , al contrario, giustificarle. Perch, da un canto, quest'impossibilit implica che non vi ha alcuna ragione che ci forzi di oltrepassare il conoscibile ; e dall' altro canto, che esista o no un' altra realt, nei limiti della nostra, cio della fenomenale, noi dobbiamo ammettere che la nostra conoscenza, quella che le facolt umane possono attingere,  completa ed assoluta Nei fenomeni, che sono le sole cose di cui possiamo affermare l'esistenza, non vi  altro a conoscere che l'ordine regolare con cui essi si presentano, le loro sequenze costantie questa  la sola causalit che abbiamo il dritto di ammettere; ora noi possiamo conoscere queste sequenze e quest'ordine; dunque la conoscenza umana , virtualmente, illimitata. Un empirismo incompleto, inconseguente, rinchiude in limiti stretti l'intelhgenza; ma il vero empirismo, l'empirismo rigoroso, assoluto, rovescia questi limiti, perch non riconosce niente al di l dell'esperienza. Dicendo che un' esistenza trascendente non pu essere dedotta a priori, noi contempliamo anche, e principalmente, Tipotesi che questa esistenza s'inferisca dalla empirica, ma per un'inferenza d natura non induttiva, cio in virt d' una connessione evidente per se stessa o dimostrabile, che vi sia tra la prima e la seconda. Una tale connessione sarebbe una conoscenza a priori;: e, siccome questa conoscenza avrebbe per oggetto r esistenza, e non dei rapporti comparativi, cosi la sua impossibilit  una conseguenza necessaria dei risultati a cui siamo pervenuti sui limiti  l'oggetto della conoscenza a priori. . IZ>f anima dalle realt noi obbiettiamo non si pu concepire una 0 pi note  mentale pan. 9-' 33 21 1 25e26Cocke pi stesso y.nche esteso, Ci conviene CAR. II. fenmenoo di primitivo d'irreduttibile sostanze: dell'esperienza ile la continuit pervezioni successive senza siserva agnoticismo. '^\) 1. Jl ii73 che risulla  non involti; ancora tutte altre (v. in seguito i^ 20-20) l'unita si.^tematica 11 sillogismo:  fondato iucorrenza le leggi dell'intendimento pen. il 11 9 dall'intuizione empirica non pu, spiegarsi iStor. del materiale ipotesi metafisica si propone in circostanza date che essi vi corrispondano sicch esse GAP. viicircostanza  t'ondato ditfeuza GAP. IX. 31 Bench 32-33 estensione figura, 32 in favore) CORRIG De anima, Z, 5; delle realt noi obbiettiviamo si pu percepire una 0 pi altre note mortale Locke) pi spesso anche esteso. Ci avviene di primitivo e d'irriduttibile sostanze dell'esperienza U) Che la continuit percezioni successive senza riserva agnosticismo che risulta e non involte ancora tutte le altre (V. in seguito 26-23) l'uuit sistematica 11 sillogismo  fondato incoerenza i concetti puri e le funzioni dell'intuizione empirica pu spiegarsi Stor. del material. in circostanze date che esse vi corrispondano sinch esse circonferenza fondata differenza " Bench estensione, figura, in favore Sono stati omessi molti altri errori, che il lettore aor notato e corretto facilmente da se stesso. Errata L'ipotesi dei concetti 3 Glassazione dei giudizi 93 Giudizi a priori e giudzi a posteriori, Dottrina analitica dei giudizi a priori Dottrina di Kant sui giudizii sintetici a priori Esame delle proposizioni matematiche e di altre classi meno importanti di proposizioni a priori 347 Dottrina d>' *. I '%' " F n,w,357 ,1  J*rti?iW pt 1 ^^ ffe TiSivl-4-. ^'.r f ^ m m* \.'-l ut the riti xit %\ixv ^0vh 4 1 n Vi ^'^ tttctt itttcnttituoit'sltr -il f :l i Pi \ SOLLA KOeiA OELLA CONOSCENZA FILOSOFIA IIELLI MmmA T-^l^ ir-l^l jf^ ^~^n^^ll'^|IIIMI' PALERMO Remo Sandron Il,nI I LA CAUSA EFFICIENTE Tomo Peimo O CD O (\vrsE K3i]Min(^iii: i: c^vrsi::Mi:TAi::MPP.n('iii v^ ('i mi lunno clic {jn'iidc un !})i() pei un tcloscopio: c^Ii credi' di scmh'ui'It ;ii di fuori e coiisjuTa a coiidi lui d(\i!,ii ,i;,\L'(*tli inlcrcssantissiuii teii)[)laili tutta la sua attcn/ioiu'. Su})i)(>niaiuai'ticolare a be  . (^^iieste parole deirrnitore della S7or/f/ ponupaiisce qnest'al di l dei ienonieni. che  roi,\L"etto ni del mondo nh1ietti\'o, si dati dell' espeiienza. Tuttavia. siccome \v im])i-essioni obbiettive da cui deiivano (pU'sti concetti sono comuni u ecessaiiamente ad oiini uonn). e non si ])n noi a\'erl( se si i^narda il nn)inlo dal ]ninto di vista iri cni 1* nomo  collocato. noi jjossiamo attribnire la loi'o origine nnicanHMite al fattore siilihicffiro. e considerarli come dei ])i'odotti inevitabili, fatali. Iella nostra organizzazione intellettnale. Non solo i concetti fondamentali della metalisica sono j)ro. TiittaNia noi non tardiamo ad accorgerci che \i ha in tutte le e])oche. nella stona Iella metalisica. nn ceito numero di concezioni determinate, o almeno di tembnize o di tipi, di cni i diversi sistemi non sono che delle nnxliticazioni particolari V ( lell e combinazioni: sembra i he lo spirito nmano nella ricerca tilosoiica non abbia che il potere di sceuiiere. di |>i-io shiiicio: ma la pt'sta cli'ci]! sciiiio, e ])vv consc.mu'iixa, il caniniiiio eli" c.uli ])('rc()n'(', iioii sono stati ti-acciati (la lui.  1/ iiivciizioiic nu'tatisica r cos circo scritta tataliiu'iitc dentro liniiti certi dalla natura stessa e dalle disposi/ioni intiiie della nostra intelli.i;('n/a:  nella struttura dello spirito umano (du' sono se;;nate le tracce ])rescritte anticipatamente allo slancio del meta fisico, e (Toetlie ha detto una ]n-otonda verit, (piando Ila para.uonato il metalisico a un animale, cui uno svilito maliiino costringe ad ^a^uirarsi in un cerchio fatale. Il meto(h) che noi cercheremo di seiiuire nella nostra icerca consistei' essenzialmente in una i^'enerali//azione ])ro.u"essiva. Noi i'idurr'nio tutti i concetti nu'talisici che ci ])resenta la stoiia a un certo numero di toinie o tipi costanti e .^emM-ali, e ([ueste ad altre pili ^eneiali ancora: ])oi mostrerinno couc (pieste t'ornu' o ti])i generali di metahsica sono dei^li sviluppi o delle api)lieazioni ditterenti di (vrti coni'etti fondamentali comuni ad o,uni metatisica o almeno alla ])iii parte dei sistenn metatsici ; intine dedurremo (piesti concetti fondamentali da una t(Mi(h'nza naturale e pressoch(' irresistibile della nostra intelliii'eiiza, dimostrata dai fatti ])iii ovvii e spiei^ahile facilmente per le IviXXi conosciute dello spirito. (,>iiesti concetti fondamentali comuni ai diversi sistemi nu'tatsici e la tendenza sp(uitanea della nostra iiitelliucnza (hi cui essi derivano, i)oss()no considerarsi come la Hciafixicfi indurale dello s[)ii"ito umano, di cui la metatisica dei tilosoti (' uno svilup])o in uno o in un altro senso determinato. L '1 i ricerca che noi ci pro[>oniamo na ])er noi un h doi)i>io intei'esse. L'uno al juinto di vista della psicolo])o dello spirito umano. Oi'a cpiest' importanza aumenta, se si ammette, come noi crediamo, ch'essa (' un fenonu'uo permanente del nostro sj)irito, il ])i'0(lotto inevitabile di una tendenza naturale, cheta ])arte della costituzione stessa della nostra intelli,^enza. Ma la nostra ricerca ha anche e sovratutto un'interesse teoiico, al juinto di vista Iella teoria della conoscenza. Se si mostrer che i concetti metatsici sono il ])rodott^ di una tendenza ])uramente suhhiettiva, (' evidente che (pn^sti concetti non ])otraniio ])iii pretendere ad alcun valore obbiettivo. Come se si mostrer che una percezione dei sensi (' ]>rod()tta da cause subbiettive, da un'alterazione deL^ii or.i;ani do\ uta a stiuoli imramente interni, si prover al tem^x stesso il carattere subbiettivo di (piesta ])ercezi(me, e saia \i\no di supporre d(\uli o,usiti\ismo, se non si sa che cosa (' metalisica, e vice versa: sono due contiari senza medio, di cui l'atfeiniazione o la negazione dell'uno ('^ la nei^azione o 1* aifermazione dell' altio. Ora (' una rei^ola della lo.^ica che (piando si detinisce un conc(4to, si detinisca simultaneamente il concetto contrario , ci(') che i tilo>soti antichi formulavano col ])rincij>io che iI(( c k sricfCd dei ((tnfrari princi[>io perfettamente esatto se si tratta di contrari senza medio. Conu sarebbe j)ossibile di a\cr(^ V. hn'u Lof/ica. [ H r i avere una coscienza ciijra del sisteua e d.el metodo che e.Lli [)rofessa, ma  ditticile che vi si atten.i;a strettamente e coerentemente. l la conseguenza uv\ pensiero, conu' nella condotta. )er 1 non \)\U) seuui'e ciie dall' ;i])plicazione costante di ])rincipii n'enerali, e non da un concorso iortuito  svilujipo spontaneo, senza previsione e, per oniamo: [K'rch oltrepassiamo V esjK'rienza? quale  r orii;iie della metailsica e delle sue diverse torme? La dottrina della limitazione necessai'ia tlella ostra facolt di conoscere  divenuta da .^ran temp n un lU( iie niente di pi semplice che la soluzione del ])roblcma che noi ci pr(qoniamo: non sembra intatti naturale che lo spirito umano, prima che l'esperienza dei proprii insuccessi ili facesse actprisrare la coscienza dei limiti iiu'vitabili di'lla sua conoscenza, si sia accanito alla ricerca di qiie/ ste essenze e di ({ueste ca.use .misteriose delle cose. da cui dipendono i lenomeni e ixVi riletti che V esperienza ^li rivela? Se non che la supposizione irit(K e cos, lunu' che (piesta su[)[>osiziom' p(ss i dare una soluzione al nostro problema,  al contrario c detto, naturale e pressoch irresistibile. La nu^tatisica., \\ quanto ha per ou",i;"etto la comscenza della natura. voi!i,'e jn'incipaiimnite su due quilu. stioni. latino :i l )i'in !il l )i';> ibrmnlai'si col vesv) :'!:i!-ei {']\v o la spieLi,azione dei lenomeni che lo ciiTonilano: la scienza .uli apprende i rapporti costanti iVji paesti (muneni. ma ci non i^li d ancorji questo j)erch o questa s[>ii\iiazione circoli domandava. L (pu'sto perch queste cause che la scienza non ]>u da]-e. '' as]>lra iinzitutto a conoscere !a metafisica :  ci che il j>osi( ivismo, m-lla sua l'orma pili ordinaria, dichiara anzitutto inconoscibile. Ma. specialmente nella t!enli oi;\uetti materiali non sono elie reIjitive ai m>stri sensi. che e(sa sono questi o,uu(*tti materiali in se stessi, cio indipendentemente dalle nostre sensazioni I a [)iu i)ai te d ei concetti metatisici. il cui ou^ctto non  la conoscenza deH. pt'i' ruesta livisione non rocesso della loro [)roluzione. In.i'atti la tendenza metalisica niticat(> in cui (piesta parola si pi-ende nelle scienze positixc,  stata lucidamente (\sposta nella Loi;ira di St. Mill. (I. ili. e. \ ): in ([uesto senso, la causazione si (h^Hnisce: ii i'((i/jK>rf() inrdriahlc d scqucizn. 1 fenomeni si succedom secomlo le.u.ui inviolahili: certi fatti sui-cedono e succtMhnanno senijire a certi altri fatti, l/antecedente imariabile  chiamato la c(()(sn: il consci uente invariahile  chiamato V elcilo: e la niversalit re s(\u'uito dall' avvenimento del fenomeno. La causa  la somma delie condizioni. i)ositive v nei;ative, 1 )rese insieme, i 1 totale delle contingenze di o.uiii natura., essendo realizzate conseuiu*nte {V eifelto) st\uue invarialimente. (,)uantun(pie, nel lin-ua^i;\uio pi ccnnune, si scelpi \)vv il solito (pialcuna di (pieste condizioni. di (piesti antecedenti dvW api>arizione del fenomeno. e hi ;i decori co 1 nome di causa,  innidimeno alla totalit di (juest(^ condizioni, il cui concorso (' il vero antecedente invariabilmente se^uuito dal fenomeno, che conviene con })ro[ni(^t il nome di causa del fenomeno. (^)uando (hdiniamo la causa (runa cosa: d* antecedente al siunito del quale ({Uesta cosa accade invaria>ilinente (pieste espressioni non iMpiivali^ono a:  l'anteeedente al st^uuito del (piale (pu-sta cosa (' accaduta invariabilmente neiresperienza ])assata . Perclu a (piesta 10 n m ultima tonila della dctiuizioiu' l)ir/iiu' ]>H volte mossa roi (che al toml() (,areM)e applicabile V ol>itro la dottrina di Iliitie la vera tlottniia ( Iella eausa) elie a piesto conto la notte sarpoito di eauazione tia d\w tenomeni Uisouiia elle la loio scijuenza sia a ziona nelle, nello stesso tem})o eUe nivana l>il. nieoiK liIc. La eansa d/un fenomeno pu} ( lunciue essere * r cui onesto si trova a.iia portata Iella luce del sole ()nni alila condizione ( superllua. e senza cpieste co n dizioni il 'jiorno non avrebbe luo.^o. Non ' dunnue la notte causa dei uiorno. ma  la riunioiH' di pieste com lizioni: percue e la riunione di ilz'nnH((' del la nott , r antecedente invanalule e ///co bill giorno. St. Min a'4-uiun.!L!:e ( Ile Pantecedeiite che non  invana cu le che c/>//f//'://>////////c///c, e io che non sar se,i;uito dal consemiente se non a enniore seunito da un altro tatto. ;e r esjx'rienza generale ci a])preiu ile ci 1 esso j)o trebl )e non esserne sem])r seguito, o se Tesi jcrieiiza ite ssa e tale ch'essa lascia un posto alla jM>ssibilit che i casi 1 conosciuti non ra]>presentano torse esatramente tutti i casi ])ossibiM, r antecedente n/// (jn ururhtbili' mm  ]>ri\so ])er la causa; e perch? ])erc]i noi n.am(^ tra la causa e 1" eifetto non  dnn(|ue . nelle scienze ]ositive. clic un rajijHuto nnitbiue o iinal'iabih' di successione: A  la causa di 1), \uol dire che H \ iene unitbrmemente o invarial)ilmente dorso di A. A  ]>rima. I>  (h>])o, ecco tutto. Dopo di A (\sisre costantement'.' \\. (iuantiinque mm sia vero uiiualmente che prima di i> esista costantemente A. ]ierch uno stesso fenomeno non  dovuto sempre alle stesse cause. Ma ])oich runa o .'altra di un ci'rto numero definito di cause de\'e esistere percli un certo feninueno \\ esista, noi possiamo esprimej-e la lei'.ue di causalit di . roiiiju'to pi elevato della scienza consiste a scoprire (pieste nnifoi'init inva'ial)ili o lei;i;i natnradi nella successione dei fenomeni. Fra le h\u".ui naturali della scipienza (hi fenomeni sono le ])in generali, (pielle a cui s})esso viene limitata l'applicazione i\v\ nome di v( lazi (n r:i V rauo recinroraiiiente con una tor/a che e m raiiioue i 11versa del ipiadato d( Ila loro distanza. Il noviuuMito dei piani ti ain stesso. continnerel>l)i> a muoversi in linea retta con una prestezza uniforme. Alla ])roduzione di ((Uesto tenomeno concoireid; delle cause distinte, esso si s'pie^a dererminamio le:;ne un proiettile, a.^isse sola, il ]>ianeta sca])>( rel>i>e ner la tani;"ente: ( lalla composizioiu' u: queste ( \nv forze diifcrenti (j)'r non piii'are di altri eleaienti clic nel fatto i-endono la s[)ieu:iZone pili complicata) risulta il movimento del pianeta, conformemente alla le.!4-.i;(* j^cneraU^ della composizione delle forze. Ma oerclii' ^ i ia un'attrazione reciproca tra i cor^ji, t'orza elle  in ragione inversa del is(iri((: a priori. t)iuttosto che un 13 movimento di (piesta st)ec4\ (pialsiasi altro avvenimento avrehhe sembrato u;i.ualmente ]>otenu' seguire: il non can-,i;iamento nello stnto dei cori)i, a priori, sembrerebbe anzi pi ]>lausibile else il loro movinumto di attiazione. La j)arola xple^j^tzoiv ha dumpu', nelle scienze ])(>sitive. un siputicato tutto ])articoiare: nel senso pi ordinano (iella ilelli ])aroia. xjnci/arc una cosa vuol dire tar compren(ier( 1 di fa ih la ragione dell'esistenza di (piesta cosa, rendere conto del perch(' la cosa sia necessariamente cos e non altrimenti, e cosi .'^picf/firc un fenomeno [>er le sue causer noi un carattere misterioso: (' sotto (piesto as[)etto che si [)resentauo tutti i fatti ultimi che sono la spiei;azione de.i;li altri fatti. Una sensazione si lU'oduce nel nostro s])irito al s(\i;uito (leira{)plicazione di uno stimolo esteriore a^li ori^jini esterni dei nostri sensi: spiegare il fatto sarebbe per la scienza sco[)rire tutti ;rintermediari fra i due fenomeni estremi, Papplicazione dello stimolo esteiiore e la sensazione; e mostrare come in (piesta serie di fenomeni ciascun cons(\ji,'uente v le.lAato al suo autece(h'nte da (pialche uniformit,ieuerale di se(pienza o le;;L!.e di causaziime. Fra (pu'ste uniformit pi .ucnerali di se(iuenza, in cui deve risolversi il fatto, ve ne ha una (die  c(Uisiderata couu' il mistero i)er eccellenza: (' (piella che le.ua Tultimo antecedente tisico col fatto |)sichico, cio con la sensazione. Come un caui>iamento materiale (verisimilimnite un movimento molecolare) incerte cellule della sostanza nervosa produce una sensazione o un pensiero ? La i)roduzi(nu' d(n f(numieni ])sichici da certi feuoIl m U % lU'in hsici, i' \ ]4 ict'vcrsa qiu'la di (-(MtitV' iioiiu-iii tisici ( lai IVuomciii psicliici, sniibra un fatto cosi incoini>rciis]i>iic, ]w tra i (lue ordini di triioiiicni vi ia tante, ma non un rappoito di cauclic si (* aninusso ( na concomitanza cos u sazio scicn ne. Non si  rHettuto cln una cjuisazione ] )e la za non  che una scpunro in (juesti fatti ultind a tinalmente (piesta spiepizioiK ne scientilica dei fejline a certi fatti inesplicabili e micui arriva he consistono le unitormit pili universali della setpienza tra i tenomeni 1 leuami u'cnei'a li tra le cause e uii etfetti. Cos la spie.uascientilica non s( )( Idisfa il bisouno clic lia il nostro s])iriro di una spieuazione: i le.^ami osservabili tra le causi e uli effetti non soddisfano il desiderio espresso (bd poeta: Fiu'lix mi potiiit 'cruin coiiiiosccrc cjnissjis li Lun.ui di sembrarci y/cccs'Nv/r/, questi !eiami ci semDraiio arbitrari: lun.ui di sembrarci evidenti, ci sembrano misteriosi; lunii,i di send>rarci naturali, ci sembrano, per nsai-e le es])ressioni di Bacone, strani ed inverisinnli e c(nne altrettanti articoli di 'vdv. Ne se.i>ue che, al di l ostatati' dalla scieiizr. speriim'Utale, lo spie cause ( dell rito si foina la nozione di un altro genere di cause: sono (jiieste delle cause tali, tra cui e i Uno ettetti. se esse fossero com )sciute. lo spirito vedrebbe nn U\uame necessarie una ra-i(iu>ute 15 iL^li eft'etti e non ne sar(d)bero sem})licemente dei^li antecedenti invariabili, in modo che il lepime tia la causa e il suo etfetto fosse una cosa naturale ed evidente ]>er se stessa, e inni un fatto misterioso ed incomprcMisibile, che noi amuH'ttiamo (piasi mal.^rado la nostra ra.uione e come un articolo di i'viU^ rivelato dalla es})ei-ienza. vN 4.  dopo Ilume che la distinzione fra i due ordini di caus{' cominci ad ammetteisi esplicitamente da piasi tutti i liosoti. [/analisi dell'idea di causazi;^etto (li attribnisce dei caratteri che bastami a distiniiuei-e il concett l; Ili (h'ile supposte causazioni m cui esso si trova (la ((Ueiio delle causazioni che noi conosciamo. Mentre infatti in ([ueste ultime caiisazila esjxnienza, nelle ])rine invece noi conosceremmo a priori, s, in coniiinnzionc, ma non niai in concssionc >. La definizione di Ilnme della, causa non cone costantemente l'esistenza, ed esse formano, ]er conseguenza, una specie distinta dalle e se le com)sc(^ssi') un !(\i;ame naturale e iwcessario. 1/ o^^ctto delle scienze della natuia, dicono (piesti flosoi, n )n  di scoprir/ i Icfffmn nccessdr o le cause ('licicnfi dei fenomeni, ma le Imo cause /isiclic: cos le scienze tisiclie non possono mai mettere in luce la causa 'caic (efficiente) di un sol fenomeno della natuia, ma solo le le.u'.u'i che redolano (piesti fenomeni, per ([ueste [)arole di cause e di effetti nelle operazioni della natura noi non intendia.mo veramente che dei s(\i;ni e le cose annunziate da (piesti sei;ni. A. Comte, formulando nettamente il j)ensiero di (piasi tutti,i;ii uomini di scienza, (' su ((uesta distinzione che si fon(hi, })er separale le ricerche che sono scii'iitificlie ed accessibili alla nostra intelligenza, e (jiielle ('he mm 1i;i di successione: la ]>arola cU(^ scoi)rire tra i fatti alcuna connessione necessaria. Quantumpie le cose abbiano un legame costante e re'olai"e nel corso odinario della iiatura, tuttavia siccome (piesto leiLame non ])U() essere riconosciuto nelle idee stesse, clie non sembrano avere alcuna dipendenza necessaria, noi non ])ossiaino attribuire la hn-o coniu'ssi(Hie ad altro che alla deternnnazioiie arbitraria d'un ai^cnte tutto sa.i>.uio che le ha fatte essere ed a.uire cos per delle vie che (* assolutamente impossibile al nostro (h'bole intendimento di couipicndere. \' ha in alcune delle nostre i(U'e delle relazioni e d(u le.uaini che sono cos visibilmente racchiusi nella natura (Udle iiU'e stesse, che noi non potremmo conce T. IV. Icz. 51. ^* I! }J pire ciri'ssi' ne i)(ssaiiotere arbitrario clie Vhi\ fatta cos a sua volont o ravrel)l>e potuto tare altrimenti. Ma la coesione e la continuila delie purti della materia, la maniera di cui le sensazioni ossiam attribuirle che alla vobmt arbitraria e al buon piaeiare iscono in virt (runa WiX'^v che bu'o  prescritta, ma che pertanto ci  sconosciuta: nel (piai caso ancorch le cause a-iscano i'e,u(laiiuente e .;1 ettetti ne seguano costautenu'iite, tuttavia come noi non potremmo sco])rire per le nostre idee le loro connessioni e le loro dipemU'Uze, noi mui possiamo averne che una conoscenza sperimentale (la (luale mm , secomh) Locke, una ccniosceii7AXsvieifiJrii). Da tutto ci r tacile di vedere in (inali tenebre siamo immersi, e (luanto la conoscenza che possiamo avere di cibbiamo risolverci ad ionorarle. (l) !SifUU'^ Sftirinl. >nn.. e. IH. ^N -'-^ o 21>. Quaii(h> Locke parla di eause e d' ettetti tra cui non si pim scoprire alcuna connessione, eorto uniforme fra le cause fmvlc e i loro effetti coniiinuto con ro])inione che le cause ('(ficicnti sono inacc(\ssibili alla nostra conosctMiza. Hei'kelev distin,i;ue i;i, coiic ]m) fece Hed, le eause fisiche e le cause )iU'f(( fisiche. Noi non vediamo nei fenomeni sensibili alcun pote'(^ o attivit: essi non sono la causa .u'ii uni de^^ii altri ; essi non hanno tra loro che dei rappoi'ti d se^L'iii a cose sii^niticate, non di cause ad effetti. (l*riuei}>ii). Hisoona distiiii^uere la fsica e la metafisica : (piesta rimonta sino alla causa i-eah^,_/';/. v et l'incipiHu: \)vr  le hanno ric(m(h)tte ai principii pi sem])liei, alle le.U'.^i. Le cause sono in (pu\sto caso le soru'enti della conoscenza, non (h'IT esistenza: la causa d'un fenomeno (^ la rehizione costante di (piesfo fenomeno ad un altro. La fisica non attin,ue che ^ii effetti apparenti, le cause seconde ; ma le cause reali, le cause veramente attive, fanno V oge Motu), La tsica o la nuM-canica scopre il come delle cose: il perch deve essere domandato alla nu'talisica. fSiris). In Malebranche la distinzioiu' tra la vera causa 20 21 e la causa oeca.^ionale corrispoiide tn ideiiteniente della lianiera pi esatta alla nostra distinzione tra la eausa ettieiente e Tanteeedente invariabile. Causa vera, diee Malebranehe,  una eausa tra la (piale e il suo effetto lo spirito percepisce un le,i;anie //^rcs'svnv'o . Perci Dio solo  una vera causa, perch vi lia un le.uanie necessario tra la sua volont e 1* esecuzione di ([uesta volont: ma i fenomeni non sono cause,i>'li uni de,i;li altri, perch lo s])irito non percepisce liai fra loro un h'ifume necessario. L'avvenimento che noi chiauiiamo causa, non  che Toccasioie per cui Dio si determina a ])roduri'e lo avvenimento che noi chiamiamo ue, seccnnlo lui, che i due ordini di fenomeni non possono essere cause gii uni degli Nie. della cer., 1. VJ. parte IT, e. III. MoKidol:^2. (8) S(t(/f/i sffll(( hoif di Dio ecc., parte I. i4. Il; altri, perch una vera causa deve contenere una ragion sufficiente dell'effetto. Di pi come T^nbnitz nega un'azione reale deiranima sul corpo e del corpo sull'anima, perch non vede alcuna connessione intelligibile tra le cause mentali e gli effetti tisici o tra le cause tsiche e gli effetti mentali, cos ancora egli nega un'azione reah^ dei corpi gli uni sugli altri, perch neppure tra le cause e gli effetti egualiiH-nte tisici vede una connessi(Mie intelligibile, cio tale che lo spirito possa scoprire nella causa (pialche cosa che ])ossa s])iegare l'efiltto. che possa servire a rendere ragione a ])riori perch (pu^sto efltto ne segua piuttosto che (pialche altro. Ma per ispiegare (luest'apparenza dell'azione reciproca fra gli esseri, T.eibnitz non trova soddisfac(mte il sistema delle cause occasionali, il princi])io della rauion suftciente esigemh), secondo lui. che le affezioni delle cose possano derivarsi dalla natura delle cose stesse , e per conseguenza che i fenomeni siano spiegabili i)er la natura e le tVnze che Dio ha dato alle creature. Leibnitz .{u)n((dr. cica ((sscrt. thcot'. Stdhl. II. Il sistema delle cause occasicuiali, se esso fosse vero, sarebbe, dice Leibnitz, un miracolo perpetuo. Alcuni credono che il nnracolo non sia che un'ecccv.ione alle regole o leggi generali che Dio ha stablite aibitrarianiente. Ma non tutto ci(^ che avvi(Mu^ ])ei' leggi generali si fa senza miracolo:  se la legge non  fondata in ragi()ni. e non serve a spiegare l'avvenimento per la natuia delle cose, essa non j)U(> essere eseguita che ])er miracolo .  Se Dio avesse risoluto di far esistere continuamente (puilche avvenimento che fosse poco conforme con (piesta natura, non ne avrebbe fatto una legge (h'ila natura, ma avrebbe risoluto di fare un miracolo per])etuo, e di mettervi sempre la mano egli stesso, per produrre ci(^ che sarchi e al di so]H'a delle forze (Telia natura. Ya\  ci() clic accadve)>\>e nel sistema delle cause occasionali, se l'anima e il corpo s'accordassero sempre, senza che la loro natura, e ci(> che vi si piu) concepire, li portasse a(T accordarsi: cio se l'automa del corno non lo ])ortasse a fare ci(') che l'anima. >> ri;L;*'tta dmHjUt' ripott^si di ^Malclnaiic'lic. peiclir questa (list ru,u;mMi u 1 sia si attivit iu\uii esseri ereati: ma ei;'li  (Vacvuole, e se il seguito iiatui'al' delle ])ereezii"e non ])oti-el)l)e essere eseguita che ])er miracoli continui, non essendo contorme alla natura del movimento dei cori)i, che porta che un corpo, mosso in linea curva, continua il suo movimento nella retta tan^icnte, se niente non l'impedisce. Una tale le.u.ue di movimento circolare non sarebbe dunque naturale, su]q>osto che la natura del c(n-po tosj;e tale . f///c (>///>/V.c. ili'V itili, ie Uh. (vUa ((nKt^cilhc ki'U('st(M'h('L('ibnitz(li(-('sulh\(lifterenzatia una le,!e della natura e un miracolo perpetuo, ho voluto ri])ortarlo perch mi sembra assai pi()[)i'io a far comiu-endere la differenza tra una causazione efficiente e una sem)liceseio dei metatisici della causalit efHciente e la (h>ttrina deiLili emi)iristi ])er cui una causa.zione non  altni cosa che una sequenza unifornu'. 1/ opinione, cond)a1tita da Leibnitz, secondo r(ssione della dottrina empirista sulla causalit: basta di estrarla dal suo in\iluppo teologico, per (ttenere la dottrina stessa di Min. Invec(% (jUjindo I.eibnitz esige che, perch un fatto non sia miracoloso, debba essei-vi tia le condizioni del fatto e il fatto stesso, non sem>iicemente un rap])orto costante, ma anche una conn(\ssione intelligibile, razionale, egli non fa altra cosa che enuiu;iare il principio della causalit etHciente. 23 cordo con lui nel neii.are ogni reale azione recii)roca tra gli esseri; cos non gii resta altra ipoti^sichedi lasciare alle cose un'attivit s(Mn])licemente interna, immaiuMite. Ogni sostanza semplice ha dumpu' in se stessa la causa e la ragione dei ])ropri cangianuMiti: essa  un che d'animato, o, ])ifi pro])riamente, un'anima; ma Dio ha costituito le sostanze in maniera tah* che, ciascuna s\ ilnj)pandosi indipendentemente dalle altre, e tirando unicanuMite dal pi'(>pi*io fondo tutto ci che le accade, vi ha nondimeno tra le modificazioni delle diverse sostanze una corrispondenza o un'armonia, che ])roduce Fappai'enza. ma soltnil') l'apparenza, di inrazione reci])roca tra le cose. \'i hanno dinujiie anche ])ei' Leibnitz due spcM-ie di causazini: le causazioni Jisic/tc (ci che noi chiamiamo azione di una cosa su di u'altra). in cui non vi ha tra la causa ^(It(' o effch'i. poste al di l dei tnonu'ni, in Di* e nelle monadi, (ili stat^i successivi della monade lerivano intelligibilnuMite dagli stati antecedeiti. hanno in (pu'sti la ragion sutHciente che li s{iega, che basta a determinare j)erch essi devono i incomprensibile, vi ha nondisueno tra (piestn Causa sujU'eia e i siuu effetti una connessione tabnente intelligibile, che  da Essa che (piello clic avesse un'intelligenza sufHciente, df'duirebbe a prioi'i tutti i t'ciMMueni. Ma non lusoiiU'i credere che In distinzione tra i semplici antecedenti a cui i fenom;^ni seguono costantemente e le cause efticienti dei fenomeni a])p'iitenga solt:int(> ai tilosoli che abbiamo ricordato e ad alcuni altri. assano al di tuori ; lur:iiiultaneamente. e a divenire abili cos a )resaojiv il futuro secondo il passato. I fenomeni sono delU' ombre, delle apparenze senza realt, appunto pervhi noi li vediamo se-uirsi e accompa-narsi eostantemente, ma nmi c vedianu) il percbc; ma nel imnnlo,MU' cose reali (cio delle bU'c). di mi i tViKUneii -(Mio K ombK, niente non esiste senza un perche; la ra-ione vrde coc .incute (( pi ()(r(h>no le une (hdle altre se-,.ond(> dei h'-ami necessari, e la  nuMlo,li (MUioseere non vi ia aleuna ra-u)ne i> Iei;anu' necessario . iv'. !.. r>p> i-i\. {2} V. il cnp. VII di '/c//c, non sono clie gli antecedenti di secpienze invariabili; fra (lueste cause e i loro effetti non vi ha un texus, un legame necessario e per se stesso evhU'nte, non vi ha niente nella natura della causa che possa spiegare la natura deireftetto. >bi (pu'ste cause supposte, ehe "restano al d l deiresperieiiza, le cause nwiajisivhe o rifcienti, sono (pialche cosa di pi che (U-gli antecedenti di secpienze invariabili: tra (lueste cause supposte e i loro effetti non vi ha una semplice congiunzione, ma mia connessione, un legame necessario e per se stesso evidente, e una volta conosciute (pieste cause, noi mm conosceremmo sempliceim'iite che un tale effetto ne segue, ma ciunprenderemmo y>crc//c un tale effetto, ])iuttosto che un altro, derc seguirne. La differenza tra i metafisici e i positivisti i che i tarimi pretendono di conoscere delh' cause di (luesto genere, cio(' lueidjisirhc o efiricnti: ma i secondi le dichiarano inconoscibili, e ammettono che solo le cause dell'altro genere, le .//x/c//c, cio -li antecedenti invarialuli. sono accessinli alla nostra Conoscenza. Tuttavia anche i positivisti suppongono, al di l del genere di cause (die ci rivela 1' esi)erienza, un genere differente di cause: noi non le cimoseiamo, ma '^r le ronosce^xiwo. uoi percepiremmo il Ici/awv narssaro tra cpieste cause e i hu'o (>tf(>tti: le secpienze costanti tra i fenomeni, attualmente misteriose, verrebbero spiegate: mentre noi mm conoseiaim> attualim-nte se non come \ femmieiii si seguono, noi conosceremmo alhna perch essi si segmmo cos: mentre noi non vediamo attualmente gli avvenimenti che in nnifiiHKone . noi b vedremmo allora in cnniexsione. Quamh) A. Comte dice rhe noi non eonosciamo PcxNcy/c^/ (h'ile cose, (-li intendedire lo stesso che iser:(t (IHle cose, ic ai>]miito qiK^sta pjn'ticobnit. che  iicn nntnia delle cause tisiclie, la (|iiale sj>in/l(('irhhe il loro modo d'azioiK' e i loi'o eftetti: ci farebbe couipreiid(M'e ])ercli le cose acuiscono e patiscoio iutuaineiite Ih 1 modo che noi costatiamo per res]>erieiiza. Ma .u-m*tto di osservazione. (1ie cosa jMover dun(iue resistenza di ({ueste cause (fencniirici o ('lcci:^ die cos;i piover che vi ha altro, nella natuia de.iili esseii ol>'oiettivi, i'he delle sem])]ici se(pienze invariabili? che vi ha mi )ku(> csscnzidlc d produzUnic che  lare non  ancora c: hve ess're sp'citiporto tia piesto A e piesto 1> deve essere lo stesso *he tutti i rai>])orti .i-i costatati \)rv la es])erienza tia il tipo di fenomeni A e il ti|)o di f.'uomeni H. lai femuneno del tipo A  la causa (fisica) di un fenomeno del ti])o 1>: noi abbiamo sperimentati pu'sti due ti])i di fenomeni in pu^sto iai)poi'to di -ausa e V'^feto: ne concludiamo che, un certo A essendo dato, un certo U er ammettere resistenza di I>? Noi ]))ssiaino ])ure, inve-e F inferire resistenza di un fenomem) (h'terminato nella sua sijecie o nel su) .uenere, inferire resistenza di pialche fn)nieno che lesta indeterminato nella sua natura. (')s, (hit> il fenomeno A. n)i possiamo inferirne eia esso deve avere una -ausa, senza letcu-minare piale sia piasta causa. Ma anche in ouest> 'aso il tenomeno iiiferit), la causa li A. viene identitcat) ai f(Mi(Uiieni deires])M'ienza ]assata. in \ iiT di cui noi fa noi aiuniettere V esistenza di (pialclie tenomeno cie sia la causa di A? M.M (omc noi abbiamo costatato ])er resj)erienza che ogni h'iioiii!'!)! lin una causa Jisicd^ cio \\\ antecedente 4I (Ili esso e i conseguente invariabile, abbiamo egualmente costatato che ogni tenomein ha una cansa uhfisi('((, cio un:i i(Hi(> e un legame ttecesi^drio 1^ No. perch noi non abbiiiMo mai ( onosciuto una causa nictu/isica, uiui causa efcicHtc o (i(Hi')'((tri('C: un\ vi ha tn!i(ler clu* se l'esperienza non pu costatare r esistenza di ([Uesto .r che  ])osto al di l delr esjHuienza, essa ci fa conosceic per i linufl della nostra conoscenza: dalla liniiozionc del conoscibile n(i couli'.dinnio necessariamente che vi ha (jualche c(>sa che /" inif((, i -enerali elle si rieerl.a -insfainente il titolo ossibile di dedurli da luineipii iiiii j-vuerali: ma ei prova la liuiitazion.. della eonoseeliza sperimentale '? Pereli(> (piesta limitazione tosse peiei pn.vata. bisomierebbe,)rovare prima elle (piesti .-he per noi sono dei priueipii ultimi, son.. inveee, nella natura delle cose, (pialelie cosi di ilerivato ; che vi ha .pialclie cosa,li anterior.'  perch noi .'i siamo gi formato un isarioj e non una semplice sequenza invariabile? Noi ammettiamo che il nostro s})irito si forma naturalmente (pu'sta nozione della causa: ma possijimo noi amnu'ttere che questa nozione ha un vahre obbiettivo? Se noi ammettiamo ci, noi lo ammetttM'cim) senza prova, percli non vi ha altia [)rova che una de(hizione fonihita sovra un'imluzione antecedente; ora (|uesta })rova in ({uesto caso  im[)ossibile. Noi aiunietteremo (hunpie la verit di scono che Tnouio ha una temhuiza naturale ad assimilare il m egli ha dotato tutti gli a essenziale di pro(bizi(me, assimilan(h)li, per (pianto (' possibile, agli atti prodotti dalla volont umana, secondo la nostra ten(h'nza prinunuliale a riguardare tutti gli esseri quali si siano come viventi (runa vita analoga alla nostra, e d'altnmde il pi spesso snix'riore, a causa (h'ila hu'o pi grande energia abituale.... Questa disposizione fcmdamentale  talmente esclusiva, che ruomo non ha potuto veramente rinunziarvi, che cessan(h> di tener (betro a (pu^ste ricerche inaccessibili, per restringersi alla determinazione delle leijiii d(M fenomeni, astrazion fatta dalle loro eunae,,. Tuttavia (pu'sta teiuh'iiza inevitabili della nostra intelligenza verso una filosofia radicahnente teoh)gica  persiste anc(ua, ( si manifesta  tutte le volte che noi vogliamo [lenetrare, a un titolo (inaliiiKiue, sino alla natura iutiiiia dei tt'uouu^iii, secondo la disposizione oeuerale eie earatterizza neeessarianente tutte le nostre speculazioni luiinitive. Allorcli anclie o.:> lo spirito uuano tenta di oltrepassare i limiti inevitalnli della conoscenza, e.ili ricade involontariamente di nuovo, tosse a ri.iuardo dei fenomeni meno complicati, nel cerchio primitivo delle sue al)errazi(mi spmitanee, perch e.ii'li riprende uno scopo ed un punto di ])artenza necessariaU'ute analo;;hi Questa tendenza natuiale del nostio pensiero, che costituisce po spesso irito. Perch dun(iue la nostra temlenza ad amiiettere delle cause eth-ienti, al di l de.uii antecedenti costanti delP osservazione, non sarebbe anch'essa un semplice fatto subbiettivo f ]K rch in jucsto caso il fatto stesso della credenza sarebbe una ])rova sufticiente della validit obbiettiva di qm'sta credenza? vN (). Se Tosservazione ni. T. III. le/>. 10. . T. IV. l( z. 51. 33 nel nostro spirito) non  ch'rivata dalTesperienza. ma  una credenza istintiva, una necessit priiuordiale ed innata del nostro pensiero. Per ora noi non i)ossiamo dare la soluzione di (jnesta ditlicolt: direuo soltanto che una ricerca psicoloi;ica sul T idea di causa elciente deve necessarianuMte supporre che pu'sta idea  couu' tutte le altre di. ori,t;in(^ empirica. Aitriiare cITessa  una necessit x>i'ii^ii'diale del pensiero  semi)licemente affermare ch'essa  un fatto ines[>licabile, ci che renderebbe la nostra ricercji i)i'iva di oi'i'-etto. Noi su])poniamo duncpie che essa pu spiegarsi, ed  (|uesta la quistiime che noi ci projxniiamo: (piai  1' or!L;ine della noziou' di causa eftciente f rese da circostanze straniere alla natura delle cause ;  un inconveniente senza rimedio: non vi ha mezzo di giungere a una detinizione pi esatta, e noi non potrennno determinare [uesta circostanza che legale cause a^di ettetti. Non solo noi non aldiamo idea di questa connessione ; noi non sappiamo nemmeno ci che desideriamo di conoscere, quando ci sforziamo di concei)irla . 8 :54:-jr) l\'siH'ru'i/n (' incapaci' (li -iiistitcaiv si sviluppa iiondinu'iio aairi'spcriciza, scroiulo W i--i couosciutt' del nostro spinto? Questa quistioue uou i' che un easo della iislioue venerale che torma To-uetto di (pu'sto Sa-'oio: perciic' oltrepassiamo T esperienza? perch vi ba una metaiisica? Noi abbiamo visto intatti che se lo spi-^ rito umano cerca le vere cause (h'i fenomeni al di la U'i fenomeni stessi,  perch non si eontenta delle se4iuenze invariabili, ma dtunanda (pialche eosa di pi, ^i-io d che abbiamo (h'tto nel P' paraorafo sulla ricerca dell'ori-ine dei concetti lietatisiei in nvuerale. Kssa non ha solamente per noi un interesse storico e psicoh>.uico (per ispiepire i concetti metafisici die ci presenta la stu'ia, e !a mrta finir nuiundv da cui essi derivano), ma aiche e sovratutto un interesse dimimatico. Il carattere illusorio (h'IKidea di eausa eftidente diverr pi evidente, se uoi se;>prireio il meceanismo di (pu'st"illusi(me. In altri termini, sar allora pi ciunph'tamente dimostrato du (pu'sta tendenza. naturale aUo spirito umano, (rimma-inare ddle cause tali e dei teo-ami tra lueste cause e -li effetti che siano (piah-he (mL di pi che le stMiuenze invariabili eostatate dalla esperienza, non ha alcun valore obbiettivo; che (piesta apparenza di mistero v\w il nostro siriti trova naturalnmnte nelle -eneralizzazioni della seienza. mm  '\v^ un semplice fatto psieolooiro. di una sionitlrazioue puramente subbiettiva ; e che  ille-iiittimo di eonchuUune die la emioseenza speriun'utale  uecessariaimude lindtata, e che T ordine fencmienale, eonoseiuto dall'esperienza, riposa su (pialdie (sistenza ultrafenomenale, die Pesperienza mm pu conoscere. I/idea di causa eniciente non .  vero. Tunica ra-ione per cui si amnu'tte la linutazioiu' della conoscenza sperinu'ntale e un'esistenza iiltrafeuiunenale che la limita ; ma i lisultati a cui saremo pervenuti in (piesta i)rima [)arte, saranno comi)letiiti (hi (pielli a cui ])ei*verrem( ndhi secomhi. Nel sistema di A. Comte V origine della meta tisica resta in realt senza s])i esazione. Per metatisica noi non intendiamo ci(') che intende lo stesso (Vnite, che, come si sa, la distinii'ue (hilla tilosotia teologica, e la fa consistere essenzialmente nella realizzazione (h^lle astrazioni. Noi chiamiamo metafisico o^ni modo di pensare differente radicalmente dal positivo, cio' dalla tilosotia (leires])erienza: la metatisica ('' duncpie ])ei" noi il i..Miere, di cui la tilosotia teologica e la tihsotia metatisica di Comte sono delle specie. Cos, dicendo die Comte non s])iea Torioine della metatisica, noi non vogliamo dire solamente che ei;li non s])i(*i;a ])erdi il metatisico realizza le asti'azioni, e che neoli^'e altre forme di tilosotia differenti dalla teologica e non meno caratteristicamente metatisiche che la realizzazione delle astrazi(>ni sono dei })unti che noi esaminei*emo pi o]>portunamente altrove ; ma sovratutto che non spiega (juesto fatto dello spirito umano, che (' la manifestazione \n\\ colpente (h'ila sua tendenza ad oltrei)assare i femuneni, e che e^li consideia, al tondo, come la base s (U'ila tilosotia teohnica die della metatisica. La tilosotia nietafisica non (' t)er Comte che una moditcazione (h'ila tilosotia teologica: per conseguenza anclT essa (' s])ieata, in ultima analisi, ]>cr (piesto slancio ])riniordiale dello vS])irito umam, che costituisce la tilosotia teologica, per cui esso personifica le forze della natura, assiiiiilan(h)le alla volont umana, e cretle cos di comprendere le cause (/encrftfrici o cfivicnti dei fenomeni, il hu'e tanlo exsciziffJe (li pr(P(h(:i(>n('. Cos Tautoi'e riduce talvolta i tn* stati a due, riunemh) in un concetto unici) la tilosotia. 1) VN I teologica e la metafisica, e distiiile ciitiaiibe per mi carattere comune, clie contrappone a (piello della tlosota positiva. Il vero spirito -enerale di oiepizimte non spiega  percli Tnomo, animato dair aiibizione di conoscere il m(f esscn:i((c di produziotte dei fenoiieni, le cause (jenendricl o ejfirivnfi, crede di pervenire a (piesta conoscenza, prendendo i)er irrincipio della spuo-azione dei fenomeni del mondo esterii, sottorinduenza di un'educazione conveniente, iV attaccarci vivamente alla ricerca delle semplici le.u.i'i dei fenomeni, astrazion fatta dalle loro m/rsr: ma le (pnstioni pi radicalmente inaccessibili ai nostri mezzi, la na T. Ili. lez. 40. Littr Della filos. posit. in Fnanm. di,ilos. yjo.v/7., p. 3.5. Coluto V. IV. loz. 51. tuia intima deoli esseri, Porioine e il fine di tutti i fenomeni, sono precisamente ione, perche  V esperienza sola che ha potuto fornirci hi misura delle nostre forze ; e se l'uomo non avesse dapprima cominciato per averne una opinione esa sviata, esse non avrebbero mai potuto ac(juistare tutto lo sviluppodi cui sono capaci . Cos secondo Comte Tori-ine della fll(sofla teolo.uiea (N indivettamente, anche (U'ihi filosofia metafisica  in (piesta ambizione che ha rm)mo, nmi sottinnesso alla disciplina delle positive, di voler conoscere le cause intime e generatrici, le cause efjhientj, dei fenomeni: eoli cre(h' di ])ervenire a (luesta conoscenza, assimila luh) le forze della natura alla vohmt umana: e nmi pu(> rinunziaTH' a (piesf assimilazione, se non rinunziando alla riceri^a delle cause (eftU'knH), si a (piella delle le--i dei feiionieni, cioc^ delle uniformit di successione. Ma^la causazione che si mostra neoli atti volontari (U'IPuomo non (' essa stessa che una semplice unitcuinita -di se(iuenza; nmi si vede in (piesti atti P azione della causa intima o emciente: come dumpie pim nascere r illusione che. trasportando (jucsta seipieiiza di fen(>meiii, che noi chiamiamo azione vohmtaria, in tutto d (hmiinio della natura, noi comprendiamo cos, non pi le semplici leiii^i o rapporti costanti di successione dei feiionu^ni, ma ia loro natura intima e le loro van^e. il loro modo essenziale di produzione? Perch (piesto rapporto costante di se(nienza che noi vediamo nelP azione volontaria, ci sembra, non un semplice rapporto costante V. I, Ir/. 1. Vedi pure i liio-ii citjiti nel ])ara;i'af( p^'f*" .cedente, verso In line. i 3S 39 spic^a A. Coni te. K evich'ute che se, trasteien(h> la nostra attivit volontaiia nelle forze viamo di conoscere le cause eftcienti o il modo essenziale di proibizione lei fenomein, se noi ])renbamo natuialmente la volont pei' una causa etticicMite, quest'eri'ore deve essei'e fondato sulla natura stessa delle (bu* nozioni. che noi ('OfoinUaio runa con l'altia. L'azione volontaria leve somigliare, pi che tutte le altre unifoiinit di sequenze che ossci'viamo nei fenomcnj. al ti])o er cui il mo(h) essenziale di ])roduzione o Tazione (Udla causa etticiente si distininue dal sem])lice ia])])oito invariabile (b successione, deve trovarsi, almeno aj)pai-entemente, nelTazione volontaria, t>erch(' l'uomo ])ossa ca(h'i"e naturalmente nell'errore di cnMlere che la volont e una causa etticiente, e che nell'azione volontaria vi ha, non un semj)lice rapt)orto unifoi'ne' di successione, ma un mo(h> essenziale (b pro(bizione dei fenomeni. i| His()"iia (IniKinc clic l;i volouh'i iilihin i\ii':iilMtM iiatiUiile col tipo che noi ci formiamo della causa efiiciente: e lo stesso (h've dirsi, non solo della volont, ma di tutto ci^) che i metaiisici hanno immaginato per dare una sod(bsfazione al loro biso;no di conoscere le cause efjieienii. Fra tutte pieste forme sotto cui la metafisica si (' rappresentata la causa efiiciente, com])resa la nozione che A. Comte e i ])ositivisti si formano di (piesta causa senza la (piale nozione non potrebbero distin.u'uere le eanse dai semplici juitecedenti di siMpumze invariabili -. deve esseivi una nota comune: (' di (piesta che noi cerchiauio di renderci conto. L'ouuetto di (juesta i)rima pai'te (' dumiue di spie.i;arci (pu'sta t(Mid(Miza naturale del nostro spirito, che ci spin-v ad imma>inare, ai di l delle cause empiiiche (condizioni dei fenonunii), delle (-ause e/'/ieirnfi v \u\ modo essenzi(fle di produzione delle cose, che  (pialche cosa di diverso (hilU^ semplici uniformit di seciuenza che si j)ossono oss(M-vare tra  fenomeni. Noi ci spie-hereio (juesta tendenza, ricontbic(Midola a (|ualche fatto ordinario della nostra esperienza psicolo.^ica. e pei (piesto fatto inter])reteremo le differenti forme sotto cui la nozione di causa efiiciente (' apparsa nella storia del pensiero umano, in altri termini, le dilferenti concezioni metatsiclie a cui lo sprito umano ( i)ervenuto nella ricerca (h'ile cause efiicienti. Noi prenderemo ]>er punto (H partenza le nozioni pi abituali e ])i sjxmtanee che lo spirito umano si ('^ formato su (jiieste cause, e .guardando al hn-o punto di contatto, al carattere comune in cui esse si somi.;;liano, ridurremo il fatto che si 1 ratta i\\ s])ieo universale , e ^^ trasportare involontariamente il sentimento intimo della propria namra air universale spiegazione radicale di tutti i fenomeni ,  certamente quella che ha creato le prime nozioni metafsiche dello spirito umano, applicato alla ricerca delle cause. Questa tendenza  quella che colpisce pi immediatamente il pensatore, quando la sua attenzione si rivolge verso quest'ordine di fatti: cos prima di Comte essa era stata gi segnalata da Hume , da Reid e da tanti altri pensatori s ostili che favorevoli alle concezioni teologiche. Molti osservatori hanno richiamato l'attenzione su questo fatto, che i selvaggi suppongono un' anima o uno spirito da Storia iHftHraU' dvUa iclif/ionr . V. S((!/{/i Sdlc facoll alfvc. Sa.u.uio 1 e. II e Sa-.ni(> per tutto ove vedono un iiiovinu^.nto o (junlelie altro tcnoineno che non possono spiegare. Cosi g"li autori che  pi recentemente lianno fatto un oggetto del loro studio delle origini della civilt, hanno considerato V animisnio delle religioni primitive conie una filosofia naturale, grossolana ed infantile, fondata su questa disposizione dello spirito dell'uomo primitivo. L'animismo, dic^' Tylor, sviluppandosi in una dottrina d'esseri spirituali, animanti e controllanti l'universo in tutte le sue parti, non  insomma che una teoria delle cause personali, che si trasforma in una filosofia generale dell'uomo e della natura. L'uomo primitivo ha modell.ito gli esseri spirituali sull'idea che s' fatta della sua anima propria, e in secondo luogo egli si  proposto di spiegane i fenomeni naturali, partendo da questo princii)io SI ingenuo ed infantile che la natura  realmente animata in tutte le sue parti. Se, come dice ilpoeta, colui  veramente felice, (^ui ijotiiit rcrmii coiik^scc-I'c caiissas. (Il (M" ntiwhuno. tcniiiih'. in iM)rtiiuauMMitc (lui Tylor. s'intende \x\ crcMlen/ii che nmniette elie l'aninui  lina sostanza distinta  stretta per poter comi>ren(U're le rimitivo. e anche per la ]ni parte dei tlosoti antichi . l'anima dell'iunno e tutti -li altri esseri che si concei>iscono sul ti]M. di essa, non ( una sostanza s^nrituale (nel senso mod*enti a cui si asse1(). vvv. rraduz. rr:nipano se non sulla ])ase di (jualche concezione pi spontanea e naturale. Tna foresta, una momag'na, una fonte, un sasso, ecc. non verranno immediatamente personihcati: essi saranno prima considerati come un'al)itazione di (jualche spirito, ovvero avranno qualche altra relazione col culto deg'li s})iriti, e il culto che primitivamente non viene indirizzato se non allo spirito, finisce ])er riportarsi sullo stesso og'getto TTiateriale. La ])i(4ra che serve di altare per il sacrifizio, finisce per attirare l'adorazione, che in principio non  rivolta che allo s|)irito o alla divinit a cui si sacritica; le offerte date al mare per propiziarsi il dio del mare finiscono per considerarsi come dovute a questo stesso elemento: il fuoco che viene impiegato nel sacrifizio o le preghiere (hdla litiirii'ia diventano degli 02'2'^*tt' di culto e degli esseri divini, cos bene che la immagine del dio finisce ])er confond(rsi, nelT adorazione del credente, col dio stesso di cui  1' immagine. T  malintesi occasionati dal linguaggio avranno pure, come vuole Spencer. apportato il loro contributo alla massa generale delle concezioni feticiste. K dunque verisimile che in molti casi la divinizazzione degli oggetti naturali presupponga il culto di esseri spirituali distinti dalla materia di cui si pu ammettere con Spencer che la prima id(^a  stata quella delT anima delTuomo . Ci per non impedisce che in altri casi sia potuto av'venire il processo contrario, cio che il culto di divinit spirituali, separate da ogni oggetto della natura, si sia svolto da un culto precedente di oggetti naturali, animati e divinizzati. Il negro della Costa d'oro d agli spiriti feticci il nome generico di wong: egli dice: un wong abita questa riviera, quest'albero, quest' amuleto ; ma il pi spesso si contenta di dire: ([uesta riviera, quest' albero, quest' amuleto  un wong. Gli spiriti che risiedono in questi oggetti sono distinti dagli oggetti stessi e allo stesso tempo si confondono con essi. Qualche cosa di analogo si osserva nel politeismo classico. Ordinariamente si dice che esso era una religione naturalista, un culto delle forze della natura, ma questa nozione non  rigorosamente esatta. Poseidon  cosi bene distinto dal mare  Anche dei tilosoti clic, come Pljit(Hic. clistiiiiiiKUio nctt:iiiientc Dio. ci(M' raiiiiiia 7() ( U77 a. si  in seguito fissato in ciuest'oo:getto, ma che l'essere spirituale  stato, air origine, lo stesso og-ge tto naturale personificato, o, a dir meglio, T anima, la personalit di quest'oggetto, che, distintasi dal corpo (per un'estensione del dualismo che la dottrina avmista comincia per ammettere nell'uomo),  divenuta di pi in pi in dipendente dal suo inviluppo materiale, e si  concepita d'una maniera sempre pi antropomorfistica . Ci che pu sembrare una prova della tesi di Spencer, che il punto di partenza delle idee sul sovrannaturale fu la nozione dello spirito d'un uomo morto,  il carattere completamente antropomorfo degli esseri sovrannaturali. L'uomo dice Tylor, attribuisce si ordinariamente ai suoi dei la forma umana, le passioni umane, la natura umana, che noi possiamo a bella prima dichiarare che l'uomo  un antro pomorfita, un antropopatita, e, per completare la serie, un antropofsita. K uno dei pi forti argomenti della teoria secondo cui la concezione deiranima umana  la sorgente e la origine delle opinioni relative agli spiriti e alle divinit in generale. Anche le possenti divinit, su cui riposano le funzioni pi vaste dell'universo, sono modellate sull'anima umana; noi vediamo che i loro sentimenti e le loro simpatie, il loro carattere e le loro abitudini, la loro volont e i loro atti, la sostanza di cui sono composti e la forma che rivestono in mezzo a tutte le loro adattazioni, a tutte le loro esagerazioni, a tutte le loro modificazioni, si modellano, in una grande misura, su dei caratteri imprestati allo spirito umano, . Tuttavia il Tylor non ne conclude, come Spencer, che V. (loblct rAviclln /yi(f('(f ])rio essere una dualit, una sostanza anima distinta e separata dalla sostanza corpo: questi due principii della filosofia spiritualista o, pi o-eneralinente, animista seinhrano e-ualmente primitivi; perch subordinare il primo al secondo? D'altronde, che si ammetta o no l'ipotesi esclusiva di Spencer, ci non fa niente alla quistione fondamentale: V idea di Comte, nei suoi tratti pi oei, orali, resta sempre vera: lo stato primitivo della coitur . nelTun caso e nell'altro, caratterizzato da (jucsta tciidtmza naturale che ha l'uomo, e clic allora pu manifestarsi con tutta la sua energia, a spie^-arc i fenomeni della natura assimilando le loro cause "alia sua prc.prJM attivit. Ne lo Spencer lo neo-a.Oft'ni atto volontario, e-li dice,  per l'uomo primitivo la ])rovn che esiste in lui una sor.uente di forza... Quandi I/osscrvM/ioMr sriiil.ra vouivvuMiVV ^pu'sf opinioiu^ coiKliaiite. clK' vtMh.,.ll;i tisic.latna .'iM'lla iK'crolatria due sor^rtMiti lU-llr n-li-i.Mii i uiialiiH'ti' primitiv' v iiiaiiM-iHlriiti 1' una dall'altra. Srinhra dir in Clona il cult n dr^rli antenati sia venuto a innestarsi sovra un naturisn.o anteriine. Fra i INdinesi, si  potuto stat.iliic elle il le pi oeeidentali della Mieronesia.  In Siberia, seeondo Castreii. esistevano delle jiopolazioni ehe veneravano ;l:1 oiuu .ittwii.w ^tv-.. ..V,....,, insieme delle idee associate. Gli sforzi che suppone per induzione, li rio'uarda come ])rodotti da esseri simili a lui. Col tempo, la concezione dei doppi dei morti, creduti autori di tutti i canoriamenti, ad eccezione dei pi familiari, si modifica. Essi divengono meno grossolani, ma alcuni ingrandiscono per divenire personaggi pi importanti, che tengono in loro potere degli ordini di fenomeni che, relativamente regolari nel loro corso, sua'geriscono la credenza ad esseri che sono al tempo stesso troppo pi possenti deiruomo e pi costanti nei loro modi d azione. In sorta che l'idea di una forza messa in azione da questi esseri si stacca a poco a poco dall'idea dello spirito di un uomo morto. 2. La teoria animista, nella sua dop])ia funzione di spiegare i fenomeni della vita e di fornire al tempo stesso una spiegazione antropomorfistica della natura in generale; questa teoria, che costituisce, come dice Tylor, la filosofa grossolana e infantile dei ])opoli primitivi',  pure il fondo della maggior parte delle concezioni metafisiche dello spirito umano in uno stato avanzato di culturn. Vi hanno, dice Aristoti'ie , tre scienze speculative: la fisica, la matematica e la teolog-ia. La scienza del sovrasensibile, la metaempinca, in"" questa divisione delle scienze, si limita dunque alla Princfni Hi socininfin, v. l\. V^^^' Mei, H. 52 teologia: il concetto di metafisica (i^el nostro senso) e quello di teologia sono cos per Aristotile equivalenti. Una tale definizione della metafisica non pu convenire certamente che alla metafisica quale la comprende Aristotile, ma  approssimativamente della stessa maniera che i pi l'hanno compresa p la comprendono tuttora. L'oggetto della metafisica sono, secondo Kant, le due idee di Dio e dell'anima: cos, deducendo queste due idee, egli intende dedurre i principi! fondamentali della metafisica o, com'egli dice, della dialettica naturale della ragione umana. Questa nozione della metafisica  senza dubbio troppo stretta, e non potrebbe convenire, e nemmeno rigorosamente, che alla metafisica scolastica dei suoi tempi. Non  meno vero per che la metafisica di tutti i tempi si riduce sommariamente alle due idee assegnate da Kant, le altre idee trascendenti, oltre le prime che l'uomo ha concepite (cio Dio e l'anima) non essendo, nella storia del pen Oltre le idee d Dio e deiraiiirna. vi hanno pure per Kant le /(/ura. Ma esse, lice Kant, non oltrepassano il fenomeno, o il mondo sensibile. I^e idee non diventam tritHceialenti, se non in pianto noi ]M>niam l'incondizionato eompletaniente al di fuori del mondo sensibile, e i nostri eoner'tti hanno un o*i;'li esseri presenti, passati e avvenire . Noi vediamo che (pii Platone propone, quantunque esprimendolo in una forma meno precisa che il suo successore Aristotile, l'argomento che conclude alla necessit di una prima causa motrice per l'impossibilit di una serie infinita di cause. Anassagora avea pure certamente in vista di evitare questa difficolt, quando ammetteva che all'orlo ine esistevano tutte le sostanze mescolate insieme ed in riposo, e rintelligenza mise il Lrijiii A'. SlU (l SiM> a. 55 tutto in moviuento, e inizi il processo della separazione di queste sostanze. Cosi tra i suoi predecessori Aristotile non attribuisce propriamente di avere ricercato la causa motrice che ad Anassagora, ed anche ad Empedocle, evidentemente perch le forze motrici di questo, cio l'odio e l'amore, essendo dei principii spirituali, o pi propriamente animici (secondo l'animismo |)rimitivo, cio semimateriali), e dei principii inconvertibili negli elementi materiali ed egualmente primordiali che essi, erano propri a servire da cause prime, bench Empedocle stesso non ne avesse fatto quest'uso, non essendosi proposto il problema di (untare il reo-resso all'infinito nelle cause. In verit Aristotile pensa che il princi[)io motore potrebbe anche attribuirsi ad altri filosoti, oltre ad Anassagora e ad Empedocle : ma  notcivole che tutti i suoi predecessori che, secondo Aristotile, hanno ricercato, o a cui pu attribuirsi di avere ricercato, il principio del movimento. non hanno trovato (juesto j)rincipio cIk nello spirito o in altri V. Met. ni. 12-14. IV. 2-. \ il.:i. A qiK'lli artrinia del uiovimento, lelemenlo animico convertendosi, sfu'oudo loro, legli altri elemetti. e questi \'. i liioirlii citati iiolh' Ino into ])roro H f'ioro di Paniiriiido. li cui ii; ^V^''. , ! H! 11. liio;:o citato. ^ aniiiiato. couw l'altro dei suoi (lue elementi, (mI e rt>iisidrrato come l'elemento. ier dir vnM, ii spirituale (Zellcr Filoni, dei Grn'i). Noi non sappiamo e vi errtuo altre  (S). E poi, confutando Topinione di quelli che fanno dell'anima un'armonia: Inoltre non  ]roprio dell'armonia l liuovere: ma all'anima tutti, per cos dire, attribuiscono massimamente questo . Cos noi possiamo afT(M-niare, secondo Aristotile, che quasi tutti i filosofi il) (-Questa |n|M)sizit)iHi iKHi (levo riferirsi solanieiitc ai llosoti di mi ]arla iiimi('lice deduzione l'Aristotile, ci die Ri comprende perf^ttam;ori)-; ad Eraclito, .-he vedeva nel fuoco, come Diogene d\\i>olIonia neiraria. al tempo stesso l'elemeiUo primitivo e il principio animatore deiruniverso-il fuoco infatti, dice Aristotile su (questa dottrina,  costituito di parti le pi sottili ed  assai pi incorporeo che gli altri ele C. V. 17. C. II. If. (8) C. II. l'i. ~ 60 menti ; si muove inoltre, e muove in primo luogo le altre cose^ ; ^d Alcraeone, di cui Aristotile assimila l'opinine a quelle dei filosofi precedenti, perch e^ii vedeva una prova dell'immortalit dell'anima nell' essere essa sempre in movimento, come gl'immortali (cio le divinit, i corpi celesti). Naturalmente Alcmeone deduceva il movimento continuo dellanima da ci che essa  la forza motrice del corpo animato, conformemente al concetto che Aristotile attribuisce a tutti quelli che aveano fatto dell'anima un principio motore, cio che  impossibile che una cosa ne muova un'altra, se non  essa stessa in movimento ; concetto che era una conseguenza assai ovvia del dopjf/'o materialismo^ che  la forma [)riiiiitiva deiraniinismo. 11 principio, a cui tendono le dottrine di tutti (juesti filosofi, che l'anima  la causa del movimento nella materia, sviluppato d'una maniera [)iii rigorosa (pi rigorosa ancora che nella dottrina di Platone), costituisce il fondamento principale del sistema metafisico d'Aristotih. I! Dio fV Aristotile  essenzialmente il primo {!) (\ Il 11 I.,i (lottrina li cui pjirhi Aristotile h evidenti'iin'Ute 4iu*lla di Eraclito, quaiituihpic questi non sia noiuinato, e dica seruplicernonte:  ad alcuni (l'auiiua.) sembra essei*e fuoco. Infatli i[U ^ quistionc dti tilosnti che identiticano V anima col ])riiei]ii( o i |)rinci])ii di tutte le cose, ca Eraclito ' il s(d ' Eraclito dice die 1' iinima  in un riuss4 continuo: cu che si nmove infatti deve conoscersi da ci che .si muove (seciMido la massima su indicata dei tisici e l'o[iniono di Eraclito che tutto  m movimento). ri) C. II. 17. (:H) V. e. II. s. 61 motore: questa concezione fondamentale della sua metafisica non  che l'idea dei primi filosofi greci, e, possiamo dire generalmente, degli stadi primitivi della cultura, che l'anima ha, essa sola, la capacit di produrre del movimento spontaneo, fatta servire alla soluzione della difficolt acni d luogo T applicazione del principio di causalit alla totalit dei fenomeni, per l'impossibilit di concepire la serie ascendente delle cause d^un effetto dato come illimitata. Il movimento per i filosofi greci essendo press'a poco l'equivalente di cangiamento, l'impossibilit di un incatenamento causale in cui ciascuna causa sia l'efiPetto d'una causa antecedente, si traduce per Aristotile nell'impossibilit che, nella serie dei movimenti cosmici, ciascun movimento sia prodotto da un movimento anteriore. Una serie infinita di cause essendo impossibile, Aristotile ne conclude che  necessario, ri:nontan(i.> continuamente da un movimento a un altro nioviinento anteriore, di fermarsi a qualche movimento primitivo, che non  esso stesso causato da un movimento anteriore. Egli trova questo movimento primitivo in quello dei corpi celesti: nella serre fenomenale,  questo movimento, secondo lui, che costituisce il primo anello dell'incatenamento causale, a cui  legato, come ultimo anello, qualsiasi effetto osservabile nella natura. Rimontando, secondo lui, la serie ascendente delie condizioni di qualsiasi cangiamento che si produce negli esseri mutabili e terrestri, si arriva in fine, come condizione prima, ai cangiamenti periodici delTambiente, i quali sono determinati dai movimenti V. Phjs. 1. Vili. e. V, Mei. 1. II. e. II, DeeoeloX. 111. e. 11. 3, ecc. V. Phys, 1. Vili. VII-IX: il juimo dei movimenti e il movimento di traslazione, e dei movimenti di traslazioue il primo  il circolare (cio quello dei corpi celesti). 2 circolari dei corpi celesti. Sono (questi cang-iainenti periodici le condizioni ultime della generazione e della corruzione deg-ji esseri e di oo-ni altro movimento che si produce sulla terra. (tI stessi esseri animati, dice Aristotile. io!i producono del movimento spontaneo che in apparenza: (juesto movimento che sembra spontaneo,  preceduto da qualche altro, il iameiti delTambiente, e quindi ai movimenti dei corpi celesti, come antecedenti ultimi . Quest'o>('rvnzioTie d'Aristotile  certamente notevole in quello stato primitivo della fisiolotj;-ia: ma tanto  vero che le su^'iiestioni della vita di tutti i .adorni sono pi foni che quelle della ritles.^ione scientitca, che  precisamente questo movimetto spontaneo dell'essere animato, di cui ha riconosciuto il carattere illusorio, il fatto ch(^ eodi sceti'lie come principio di una spiedi-azione radicale di tutti i canudamenti feiomenali, e a questo principio sospende, ])er usare la sua stessa es|)ressione, il cielo e tutta la natura . i movimenti circolari dei corpi celesti si producono perch questi sono dej>di esseri animati (;: cosi le Intellig-enze che animano ((uesti corpi, sono le cause prime di tutti i movimenti didla natura (H). Queste Intelliii'enze, che sono le cause jndue di tutti i Ih gf'. et rorr. 1. Il e. X e XI. />>' foctt 1. II. e. }tef. 1. Xll. t. t'cc. {2\ \ . iH'ta pt'iiultinm. (H) V. /Vm/.s-. i. Vili 11. .'>. VI. 7. , XII. 2, 8, 1. e. V. Met. 1. /. III. 13, De eoelo 1. II. XII. 4, De anlm motu VI. ecc. V. e. VII. per una maggiore intelligenza dei tenonieni. I Neoplatonici e gli Stoici danno espressamente, come Platone ed Aristotile, l'anima cosmica per la forza motrice della materia ; i primi adottando le dottrine platoniche ulTanima, i secondi ritornando alle idee dei pi antichi filosofi , e identificando, commessi, lo spirito con Velemento materiale pi attivo, ma con un concetto pi rigoroso della causa motrice, che essi ancora non hanno, d che, fra i predecessori di Aristoule e di PI atonia noi non troviamo che in Anassagora. Il concetto della divinit come anima del mondo si trova anche in germe (come quello dell'anima come causa motrice) in questi pi antichi filosofi che ammettevano delle dottrine teologiche, ed  gi maturo in quelli tra di essi in cui la filosofia teologica prende una forma pi sistematica, come Diogene d'Apollonia, Eraclito ed Anassagora ; infine, noi possiamo aggiungere Socrate, il quale concepisce evidentemente il rapporto fra Dio e il mondo Por iili Stoici V; Stul). Ecl. l. 178 e cfr. ();ereau Saggio sul sst. filoH. degli Stoici specialiiionte e. 3. pan. . Pei Ncoplatonici v. Simon Storia della scuola dWlesaandria specialmente t. 1. 1. 2. e. 3. V. sopra pajj^. Aristotile (De An.) ilice eh Anassagora ora identilca il nous con l'anima e ora li distingue, in quanto ora seni)ra aceordjire al nous le funzioni dell'anima in generale, ed ora solamente piella dell'intelligenza. Del resto il nous (V Anassagora ^ s cliiarameiite immanente nel mondo, che esso si fraziona nei diversi esseri animati, dei piali costituisce l'anima (V. Fr. Muli, e Arist. Z>c a/i. 1. I. II. 5): questa dottrina prova anche, come osserva bene Aristotile (l. e), che Anassagora riguarda il no?/A* come eipiivalente all'anima In Met. Aristotile paragona Anassagora, rapporto agli altri Jsici, ad un uomo sobrio tra gente ubbriaca, per aver detto che vi ha nella natura, come itegli animali^ un intelletto causa del cosmos e di tutto l'ordine. m per analogia a quello tra l'anirna umana e il corpo umano. L'idea clic Dio v l'anima del mondo  cosi . generale presso ci' I^' l'ani come presso i Greci:  la dottrina della scuci. i e e (Iantina {2), della nijya, della vanesika , della snkhya teista , e in una parola di tutte quelle che ammettono la spieorazione teolog'ica,. sia nella forma panteistica, sia nella dualistica. Naturalmente r anima unirorsale o suprema {Paramtm)  la t'orza motrice deli' universo.  la causa mate V. Seiiof. MfMiiornl. l. 1. e 4. il) V. Colcbnuikr S(nj(ji nida llos. iir(fV IhL. W'aA. tVnic, \y,i^^. Iri-is7. 11M-2(MI. ecc. (li) V. Colei. (>//. i'it. p. .V2-58 (nota di Pauthicr) e 5H. Coli'bi-. (>t>. rit pali, "t'^ (nota di Pauthier). V. Colchr. Op. cif, p. 28,84. (>! f: !n stati del monde prini} della ereazione, ehe h stillo oi-, descritto cos:  .Altra v(lta tutte questo inondo era tenebroso . scojioscinto. n(n siiniticat(. non svelato, vuoto e indiscornilnle. come >rincipale aut. nota li Pauthier. r IH !.,-V cui si serve Platone (nel luo^o citato sul principio del paragrafo) per dimostrare l'esistenza d' una divinit, d'un'aniiiia cosmica. Nella tilosota teologica moderna la funzione di Dio come principio motore passa in seconda linea, ed ha un'importanza di gran lunga inferiore a quella di principio delle cause tinali. Oltre che ai progressi della meccanica, ci si deve evidentemente a questo fatto, che Dio  concepito come troppo separato dal mondo, perch possa muovere la materia come l'anima muove il proprio corpo. La concezione di Keplero pertanto s naturale quando si cerca sovratutto nel sistema teologico uua soddisfazione al bisogno istintivo di conoscere le ca?^.se---che l'universo  un tutto armonioso di cui Dio  r anima*,  ben lontana dallo spirito generale della tilosofia teologica moderna: questa concezione seiibrerebbe ai |)i una degradazione dell' Assoluto, ed  infatti incompatibile coi concetti moderni, risultanti da questo processo di dimnlropomorfizzazioP progressiva della divinit, (li cui parleremo nel 5'. Di pi il dogma della creazione ha per effetto chBarte o., e. Considerazioni sai prineipii di vita e sulle nature plastiche (l)utens. tomo 2.. parte 1., 41): la massima che un ('{}v\m non pu nnioversi che p(ir l'urto allontana i motori particolari, nui ci porta al primo motore, perch la materia essendo indifferente in se stessa a ogni movinn^nto, o al riposo, e possedendo ]ertanto sempre il movimento con tutta la sua forza e direzione. esso uou ])u esservi stato messo che dall' Autore ste^^so della materia. 70 no) a parte la pretesa necessit, di cui qui non  quistione, di spiegare l' armonia presUbilita e la finalit delle leo'o del movimento-. Pi recentemente -anzi e an concetto che si trova g-i in germe in alcuni dei filosofi citati (notevolmente in Berkeley) -questa dottrina si  fondata sulla teoria rolizionale della causazione, secondo la quale la volont  la sola causa vera, cio efficiente, di cui abbiamo esperienza, le altre cause conosciute non essendo che semplici antecedenti di sequenze invariabili, e quindi noi dobbiamo concepire tutte le cause efficienti sul tipo della nostra volont. E in effetto il solo tondatnento che la dottrina possa avere nella scienza moderna. Infatti se il movimento volontario  una causazioio nello stesso senso delle causazioni tsiche, cio una semplice sequenza invariabile, non vi ha motivo di accordare alla volont il ])rivilegio di essere una causa produttrice di movimento, mentre gli altri agenti non sarebbero capaci che di trasmetterlo, essendo da una parte un' applicazione inevitabile del principio della conservazione dell'energia che la volont non pu creare della forza, ma solo dare una nuova forma alla forza gi preesistente, e da un'altra parte degli agenti puramente tisici avendo in comune con la volont il l)otere di trasformare la forza latente in forza visibile, cio m movimento meccanico. Ma se  cos, non vi ha ragione se causa vuol dire antecedente di una sequ'enza invariabile di vedere in un essere spirituale il solo principio che possa spiegare l'origine del movimento; poich, ammessa anche la necessit di una causa prima del movimento, resterebbe a provare che questa causa  necessariamente un principio spirituale, e l'esperienza non potrebbe fornirci alcun argomento per assegnare questa funzione a un principio spirituale piut^ tosto che ad uno non spirituale. Per fare ci non Cfr. Mill Saggio sul teismo. Arjioii.cut delhi causa prima ^ 71 potrebbe darsi che una ragione, cio che lo spirito  la sola causa efficiente, e per conseguenza, tra le causeempiriche del movimento, esso solo  una vera causa, e le altre non sono che semplici antecedenti, che, per essere seguiti dall'effetto, hanno bisogno dell'intervento d'una vera causa, cio d'uno spirito. Qui noi vediamoun aspetto di un fatto del pi grande valore per comprendere la natura intima e portare un giudizio sulla validit obbiettiva della filosofia teologica, e che mostreremo sotto altri aspetti nel ^ 7'^, cio che la base logica indispensabile di questa filosofia, e in generale di ogni metafisica, in quanto essa  una spiegazione della natura,  il concetto di causa efficiente, distinta dal semplice antecedente di una sequenza invariabile. L'importanza dell'idea che il principio motore lo spirito, come fondamento della filosofia teologica, anche nella storia moderna, naturalmente aumenterebbe, sei concetti di cui parliamo al principio del sS Pi, cio quelli dell'anima del mondo e degli astri ed altri analoghi, si classassero in questa filosofia, come sembra pi conforme alle loro affinit reali. K evidente infatti che gli agenti di cui si tratta in questi concetti sono pi pro]>ri a servire da cause del movimento che il Dio (h^X teismo moderno, del c|uale sono destinati a supplire all'insufficienza, come principio esplicativo dei fenomeni. ^ 3. Oltre a fornire la causa d(4 movimento, la funzione della divinit, come principio esplicativo, si riduce in sostanza a una spiegazione teleologica dei fenomeni. Questa seconda funzione nella filosofia moderna ha, come abbiamo notato, un'importanza di gran lunga superiore alla prima, e alcuni tra i pi eminenti dei pensatori moderni, e che il pi profondamente hanno esaminato le basi della filosofia teologica, hanno visto nelle cause finali il fondamento unico della teologia ~ 72 naturale. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, questo concetto non , storicamente, esatto: ci che  vero  che il punto di vista teologico e quello teleologico sono cosi naturalmente legati fra di loro, che noi non possiamo concepirli scompagnati l'uno dall'altro, anche nello stadio primitivo e prescientifico della cultura. Da una parte, infatti, la sola forma chiara e intelligibile della dottrina delle cause finali  quella che vede in esse dei fini di un essere intelligente, che concepisce coscientemente un disegno, e lo realizza volontariamente nella materia l'oscuro concetto di una teleologia mcosciente o immanente di Aristotile, di Hegel, di Scho[)enauer, ecc. non  che un succedaneo, e tira tutta la sua vis esplicativa dalla sua analogia con quello pi naturale e pi spontaneo di una finalit co.^ciente e trascendente .-ora tra le diverse specie della filosofia antropomorfistica la pi naturale di tutte e la pi propria a realizzare questo concetto di una finalit intelligente e cosciente,  evidentemente la teologica. Da un' altra parte, se si ammette da per tutto nella natura razione continua di uno spirito, o di spiriti, analoghi al nostro, e dotati di un intelligenza superiori* alla nostra, si pu non ammettere al tempo stesso che questi spiriti intel V. jiiesto parnur.. in scibili to. e il pai-aj^r. csemn'iite. Xon * ditticik' di coinprciKh'rc, aiiclie non ronsi^lcrando la tilosotia tiMilojiica clic come una scni|>licc spicjja/.ionc dei fenomeni. iMTch lcli' uonn primitivo la tendenza s))ontanoa del nostro spirito ad assimilale 1' azione delle cause dei feiHuneiii naturali alle nostre ])ropiisto che all'ilozoisnu (nel senso stretto del termine. ]>ercli(> alcuni sistemi a cui esso si est5ndc. non sont in realt che dolio forme della tilosota teolo^iica). Basta la ritl(;ssione che Tilcjzoismo contraddico della maniera piii assoluta alla distinzione si ovvia dolI'animat o doirinanimato, ci che ;;li d un ca-attoro ) artificioso.  dal fi^jlio di Fonarota  ^ (('hjtppolli Interpretaz. pantcist. d P/(itone, pa;^. H'^). 11 l>rof. Chiapponi non ii^iiora che vVnassagora ha dotto che  il Nous ordin tutte le cose che dovevan(> ossero, e ({uolle cll(^ furono 0 che sono e che sar;iiino  (Fr. (>. e 12 Muli.), e che Aristotile affoi'iua ch'egli ha crorcato la causa del bene e del bello, e che perci ha ammesso noli' universo un' intoliiirenza causa del cosuios (idi tutto Fonlino  {Met.). Jl ])rof. Chiapponi 8a j)iir(5 (die Eraclito parla della prudenza (die ioverna il mondo (Diog. Laert. IX, 1. e Pluf. De Is. et Osir, e. 77); d(d Xq'vqc oomune a tutti ^li esseri (Sesto ade. MiUli. VII 138 il XYOC *^ oomune a tutti or(di(> tutte v cose non sono che un' obl>icttivaziono della ragiom^): della bellissima armonia che Dio j>ro(luco jov la niesc(danza dei 4M)ntrari (Pluf. De an. jrrocreat. e. 27 e Arist. Eth. JVie. Vili. I): ^,ho dice che, (xuantunepie gli uomini considerino alcuno cose c(>74 due maniere di spiegare le cose per le cause finali. In un caso  partendo dalla considerazione delle cose che si va air applicazione del concetto delle cause finali, perch sono le cose stesse che suggeriscono, pi o meno va^amente, con pi o meno forza, Tidea di un essere, ag-ente con un piano e per uno scopo anche ad uno spirito non superstizioso ne prevenuto ciecamente in favore rli eerte dottriiip filosofiche . Nell'altro caso l'esistenza delle cose e il loro modo di essere non si legano all'idea d'un'azione intelligente, con un piano e per uno scopo, che d' nn?i maniera puramente arbitraria ; se si applica la spiegazione teleologica, non  che una conseguenza del preconcetto che la natura  fatta o dominata da una causa n da cause intelligenti. Ma questa difPeiiie dei mali, ojiiii cosa per Dio ^ )o11ji o liiiista iSehol. l^enet. a,! fnd. TV. 4 efr. Ipocrato j^^p^, ^f^j^xYjC  c-oiii.' un?jrMlO^:irj'^lC Jl ](M8ant(' che t^' il iriii('iino attivo i\v\h\ natura\ Proclo iti Ttm. ]). : e che Diogene (V A]M)lonia dice, in uno dei t'iannnenti clic ce ne restano, che m la sostanza primitiva non fosse intellijiente, essa ncm potrebbe distribuirsi in modo clic tutto fosse fatto con misura, come la estate e riuverm. il giorno e la notte, le piogge, i venti rd il buon tempo, e tutte le altre cose che. chi vorr riflettervi, trover esser costituite della maniera pi bella (Fr. 4 Muli.). Senza insistere su Anassagora per lui sarebbe invece \n\\ opportuna un'altra nota su quelli che gli attribuiscono la stessa scoverta che il ('hiai>peMi attribuisce a Socrate md ci limiteremo a domandare: senei frammento di Diogene non vi ha una forma dell' ar^. Il tipo della finalit d'iiso o d'appropriazione  la finalit interim degli esseri organizzati interna, perch lo scopo  riposto nell'essere stesso, e non nella sua utilit per mi altro: essa consiste in questo fatto generale della natura organica interpretato per un'assimilazione delle opere della natura a quelle dell'industria umana che ogni organo  utile air organismo, e una moltitudine di organi e di funzioni concorrono a una st(^-ssa azione definitiva, e tutti insieme a un risultato unico, cio la conservazione delTorganismo stesso individuale e della sua specie. Gli esempi di questa sorta di finalit (la struttura dell' occhio, deir orecchio, degli organi del movimento, ecc.) sono i pi probanti, o che hanno pi aria di esserlo, frn tutti (juelli enumerati nei trattati di teolot/ia fisica o in altre opere analoghe che cercano di stabilire sui fatti una o un'altra forma della filosofia teologica ; e possono ridursi, almeno i pi importanti, a due categorie : rapj)ropriazione di ciascun organo alla sua funzioni' V la co-operazione funzionale degli organi; e gl'istinti degli animali (bench in questo secondo caso, r analogia con le opere dell' industria umana essendo J.iiurt Le eause finali, pai;. 247 MH 77 pi lontana, altre forme della spiegazione antropomorfstica sembrino pi naturali che la spiegazione teologica ordinaria).  su quest'ordine di fatti che si fonda il prototipo degli argomenti delle cause finali, cio quello di Socrate. Ed  pure di questa sorta di finalit che V. art. II. Seiiof. Memorab. 1. I. e. IV. Socrate, per dimostrare l'esi' tenza (leo;li Dei, doinaiida al suo inte>riocutore {Aristodemo): Ti sembrano pi ainmira)ili quelli che hanno fatto fvgnvG senRu Kcnso e senza movimento, o queUi che cose animate, dotate d'intellitrenza e di movimento j Quelli che cose animate, ripose; sempre che siano fatte, non da una specie d'accidente, ma per conoscenza! Ma delle cose, ri pijili Socrate, di cui non pu  .i^iusto eharti della natura, come la struttura del sistema solare, parvero pure fornire delle testimonianze pi o meno i)rol)anti iu a[)poggio di piesta credenza  (H). L'altra forma della finalit di appropriazione, cio l finalit esterna (vale a dire quella in cui una cosa si considera come iiie/zo per un' altra, come fatta per 1a sua utilit), non ^n nei fatti stessi un appoggio cos forte come Vifenia. L"ai>proj>riazione del mondo esterclit' qiu"itc seinhnino opiTc di tnh* {irtoticc. che:illisMU'li\)erMto di t'jirc csi.iterc leuli punto jiereli non stippne delle -onosc'enze scientifiche, H8o "^ r espressione piti fedele di uno dei motivi del teismo, qualt; ert'etti vilmente ha potufo eoTitrihnire alla sua f(riiiazione. Critica del ffifdizio) V. la HteM'.x n])er^, pamifii e notev/W. Dio Laert. 1H8, ecc. ;s-"W*'r'^'."Sviife^ sono fatte per Dio stesso, il primo  suggerito dall'osservazione degli stessi fatti (non essendo che 1' esagerazione d'un fatto reale, dopo avergli impresso la forma comune della spiegazione teleologica, cio aver trasformato il risultato in uno scopo) ; mentre il secondo implica delle idee troppo trascendenti per potersene formare una rappresentazione chiara ed ovvia oltre che sembra in contraddizione con la dottrina della bont infinita di Dio e con quella della sua infinita perfezione ( in questo caso che  particolarmente applicabile l'obbiezione di Spinoza che, se Dio agisce per un fine, egli desidera necessariamente qualche cosa di cui  privo, e per conseguenza non  perfetto) .Cos l'antropomorfisino, come spiegazione teleologica dei fenomeni, ha per conseguenza naturale 1' nntropocemt risma. Quest' antropocentrismo  espresso nella forma pi ingenua e pi naturale nel discorso che Cicerone mette in bocca allo stoico. A vantaggio di chi  stato fatto l'universo? Degli alberi e delle erbe, che sono privi di senso? Ci  evidentemente assurdo. 0 forse delle bestie? Ma non  pi verisimile che gli Dei abbiano lavorato tanto per degli esseri muti e inintelligenti E chi vorr credere che la terra produca i suoi frut^ti per le bestie, le quali del resto non sanno n seminare, n arare, n raccogliere questi frutti, n conservarli?.... Le bestie stesse anzi, furono create ad uso dell' uomo. E invero a che altro servono le pecore se non a vestire l'uomo con la loro lana? E la fedele guardia dei cani, l'arte che hanno di accarezzare il padrone, l'odio degli stranieri, il sottile odorato, la destrezza nella caccia, che altro significa se non che furono fatti ad uso degli uomini? E a che altro  buono il porco se non ad essere mangiato? l'anima, dice Crisippo, gli  stata data invece di sale? Si per non putrefarsi. E i pesci, e gli uccelli, da cui ne veng^ono dei piaceri s variati, che sembra che la Provvidenza sia stata epicurea? Se il teleologista spiega cos resistenza degli esseri organizzati, cio di quelli che Kant chiama i tini della natura, a pi forte ragione applicher questa spiegazione alla natura inorganica, la cui finalit non potrebbe essere che esteriore. N52 frivole e puerili. Secondo Benianliiio Saint-Pierre,  i cani sono cFordinario di due tinte opposte, Tuna chiara e l'altra scura, affinch in qualunciue luog-o siano nella casa, essi possano essere visti sui mobili, col colore dei quali si confonderebbero Le pulci si i>-ettano, da per tutto dove sono, sui colori bianchi. Quest'istinto  stato joro dato affinch possiamo pigliarle pi facilmente. Questa forma della dottrina delle cause finali nella lilosotia moderna  caduta in disuetudine (quantunque Tvnnt labbia risuscitata, imprimendole il carattere pietista delia sua Hlosotia pratica, cio dichiarando che lo scopo ultimo del Creatore non  la felicit dell'uomo, ma la uuaalit). Tuttavia non si pu non riconoscervi, anche nelle sue applica/ioni [)i esa^'erate, uno sviluppo naturale v log-ico dei [>riucipii di (questa dottrina. h^nitropocenfrismo non  evidentemente che una forma particolare iMVarftt'opomorfisnio. Attribuendo alle forze costituitive della natura di agire con intellig-enza e per un., scopo, uoi as>imiliamo il modo d' azione di (lueste forze al nostro modo dazione umano; e ci facciamo perch  questo che noi .'omprendiamo il pi facilmente, essendoci necessariainente il i^i faniliare. Perla stessa raa-ione nn\ dnbbiaiio attribuire ad esse, come scopo ultimo, uno scopo nostro, umano, perch  questo che noi siamo abituati a considerare come interessante ed avente un valore per se stesso, e che noi comprendiamo il pi facilmente, i)erch  un'idea con cui siamo familiarizzati; cosi all'essere pi elevato noi attribuiamo il fine pi elevato che l'uomo possa proporsi, cio la felicit o, pi ueueralmente. il bene, delle creature umane. L'esempio pi colpente della finalit di piano sono i movimenti dei corpi celesti. Per -li antichi era una prova deir esistenza della divinit superiore anche a quella dedotta dagli esseri organizzati fatto che sembra i coitraddizione con le proposizioni citate di Mill e di Kant. Ci  evidentemente perch i fenomeni pi grandiosi della natura sono i pi propri ad eccitare i sentimenti associati al concetto del divino. Inoltre era un' idea suggerita naturalmente dalla credenza popolare della divinit degli astri. Noi abbiamo visto che, secondo Platone, due cose ci fanno credere all' e.sistenza degli dei: l'uria  che l'anima  la causa prima del movimento, e l'altra, Vordint che si osserva nel movimento degli astri e proposizione accessoria in quante altre cose sono soggette alla potest dell'intelletto, che dispose il tutto. Poco dojjo l\), ritornando sullo stesso concetto, dice: che non si potr mai avere vera piet verso gli dei, se non si  convinti delle due cose di cui ha jjarlato, l'anima essere il principio delle cose generate e ci che regge tutti i corpi, e  la dimostrata negli astri intelligenza degli esseri. Nel Filebo fa domandare da Socrate se si deve dire che quest'universo  retto da una forza irrazionale e che asisce a caso, o che  governato da una mente e una sapienza ordinatrice; e rispondere da Protarco che confessare che tutto  governato da una mente  degno deirasi>efcto del mondo, del sole, della luna, degli astri, e delle loro rivoluzioni. Poi Socrate dice [) che vi ha nell'universo molto Illimitato, sufficiente Limite, e una causa non io'nobile ad essi ])resente, che ordina e dispone gii anni, i tempi deiranno e del giorno, e i mesi, e che si chiama a buon dritto mente e sapienza. Il simile che in Platone vediamo negli Stoici. Secondo Cleanto, la nozione della divinit nello spirito umano j>roviene da quattro cause: il presentimento delle cose future; il terrore che c'incutono i fulmini, le tempeste, i terremoti, Leygi im7 d. 2X d-e. (I^) FU. 30 e. 84 e altri avvenimenti straordinari e terribili; le comodit della vita che si raccolgono in gran copia (argomento delle cause finali nel senso antropocentrico); e l'ordine e la reo'olarit dei movimenti degli astri, che per se stessi dimostrano non essere opera del caso, ma e^sservi una mente che li governa (n. E nel discorso che gli U pronunziare Cicerone, lo stoico dice: Il senso e l'intelligenza degli astri sono dimostrati dal loro ordine e la loro costanza. Niente intatti pu muoversi con ordine e con numero senza intendimento. Ragioni le quali chi ben ponderi, sar ignorante ed empio, se negher esservi gli Dei  2). Questo concetto campeggia Tn tutto il discorso dello stoico ; riapparisce, diversamente lumego-iato, nei e. 21, 35, 3S, 56, 61, ecc.; e gi, comiiR-iaiido a parlare dell'esistenza degli dei, egli aveva detto che ci non ha bisogno di lungo ragionamento, perch che vi ha di rosi evidente, alzando gli occhi e contemplando le cose celesti, che esservi qualche divinit di una mente eccellente che regge queste cose-^ Co) Delle idee che ricordano (juesta prova della divinit si trovano anche nelle antiche religioni pi evolute -ci che dimostra la continuit tra i concetti della tlosotia teologica popolare e prescientifica e di quella dei metafisici-, e in una forma anche pi vicina al concetto moderno, cio in cui l'ordine dei movimenti dei corpi celesti  attribuito, non a delle divinit che sono loro proprie e li animano, ma alla divinit suprema Presso i Caldei, Belo fissa le stelle, stabilisce a dn.iora del sole e dei pianeti, afiinch essi conoscano i loro limiti e non possano allontanarsene. Presso gli Egiziani  Osiride che  mantiene l'ordine nell'universo V. CICERONE (vedasi), De Nat. Deor. e che ha tracciato al cielo e alla terra  la via donde essi non si allontanano. Dimmi, o Ahura ! domanda il Zend-Avesta, chi, se non tu, fa crescere e decrescere la luna? chi ha aperto le loro vie al sole calle stelle? chi ha fatto la luce benefica e le tenebre? i mattini, i mesi e le notti?  E un inno del Rig Veda dice:  che osservano i corpi celesti nelle loro rivoluzioni, soogiun^e:  La natura A dove agisce liberamente, in ciascuna transizione dallo stato indeterminato allo stato fsso, crea anche allora spontaneamente delle forme regolari. Questa reg-olarit apparisce nelle cristallizzazioni d'un ordine elevato Come spieg-are tutto ci, se non si ammette che esiste una produttivit incosciente, ma originariamente della stessa natura che l'attivit cosciente, e di cui non possiamo vedere che il semplice rifiesso nella natura? >. Pi recentemente si ^ anche parlato dell' architettura degli atomi, (juesti sono stati paragonati a degli oggetti manitatti, e si  vista nella supposta regolarit delle loro forme una prova della creazione della materia. Un altro se^nio di finalit di piano che si  visto negli esseri organizzati , oltre alla sinuietria delle loro forme, 1" unit di diseg-no in esseri differenti, cio la loro distribuzione in gruppi, in ciascuno dei quali si n^alizza variamente uno stesso tipo definito. Questa sembra ad Agassiz una prova dell'esistenza di Dio superiore anche a (luella della finalit d:icHO dei loro organi. Che degli esseri aventi degli attributi si diversi, e viventi in circostanze s differenti si conformino costantemente a dei tipi generali identici; p. e. che tutti gli animali, in tutte le posizioni geografiche, nella successione di tutte le epoche geologiche, siano costruiti sui quattro grandi piani di struttura stabiliti da Cuvier;  un risultato, egli dice, che  impossibile di attribuire alle sole forze fisiche, a meno '\e esse non abbiano immaginato questi V. (irtleno Di' plaritis HippomuttM et Platonis 1. 9. r. 8. in tne. Inirodtiz. al Saggio d'un sistema della natura. (Scritti filosulti tradotti da Hiiard). 87 piani, e non l abbiano poi impressi nel inondo materiale come una forma dentro cui la natura fonderel)be ormai costantemente tutti gli esseri. Ogni regolarit nei fenomeni, in cui non si vede una conseguenza necessaria delle leggi meccaniche, dimostra, |>er il teleologista, un disegno e uno scopo. Come infatti i movimenti disordinati degli elementi della materia, in cui non vi ha altra regolarit, inerente alla loro natura stessa, che quella delle leggi del movimento, possono dar luogo a delle successioni regolari che non potrebbero dedursi da (pieste leggi? p. e. a delle serie circolari e costanti di avvenimenti, quali le rivoluzioni planetarie, o i fenomeni evolutivi della materia organizzata, in cui si vede l'essere nella sua maturit riprodurre il germe da cui e* incominciato il suo sviluppo, e la stessa serie regolare di stati ripetersi di generazione in generazione? (Jueste regolarit nella successione dei fenomeni non (essendo una conseguenza, necessaria delle leggi dell urto e del movimento, le sole che siano essenziali alla materia, o deve ammettersi che siano semplici effetti dell'azzardo, o che una mente ordinatrice dirige i movimenti della materia, preordinandoli a questo scopo. Cos il teleolo^iista divide tutte le azioni della natura in due campi: l'uno  il dominio del meccanismo, e l'altro delle cause finali. Questo mondo, dice Platone,  nato dal concorso della mente e della necessit. Vi hanno due specie di cause, 1* una necessaria e l'altra divina: le cause prime sono quelle che producono con intelligenza il buono e il bello (cio quelle della specie divina); quelle che sono mosse necessariamente da altre cose e muovono necessariamente altre cose, sono delle cause seconde, dei mezzi di cui Ajrassiz Della speeie e della idassifieaz, in zoologia. Dio si serve per realizzare, per (luanto  possibile. TIdea deirottirno. Kant oppone continuamente il meccanismo eia finalit come le due sole forme possibili in cui noi possiamo rappresentarci il modo di produzione delle cose. Vi hanno delle cose la cui produzione  possibile secondo lei>'^i puramente meccaniche; ma altre produzioni della natura non sono j)ossibili, almeno per noi, secondo leii'fi'i puramente meccaniche. Per queste yal(% almeno subhiettivamente, oltre al meccanismo della nriturM. determinato dalle sole leg'gi del movimento, un'altra spcn-ie di causalit, cio (|Uella delle cause tinnii, relativamente alle quali le leg'gi delle forze motrici non sarebbero che delle cause intermediarie . La tinalit d'una cosa (cio la sua produzione per delle cause finali) e la contingenza di questa cosa sono due concetti che si implicano reciprocamente: da una parte il concetto di una cosa di cui ci rappresentiamo V esistenza o la forma come possibile sotto la condizione di un fine,  inscparal)ile dal concetto della contingenza delia ) ; e da un' altra parte il concetto della finalit della natura nelle sue produzioni  un concetto necessario al giudizio umao. che si applica a tutto ci che vi ha di coiitingcuite nelle leggi particolari della natura, cio che non pu dednrsi dalle sue leggi gene rali (che sono quelle della materia e del movimento) . Secondo Lachelier, la nostra credenza nel corso uniforme della natiirn implica due princiini: luello delle cause (fHcienti e , 'f parsi nello stesso ordine, perch l' insieme delle direzioni e delle velocit dei loro movimenti sia tale da riprodurre a punto designalo le stesse combinazioni. se noi abbiamo confidenza nella stabilit dell' ordine del mondo,  perch sappiano gi che esso  l'interesse supremo della natura, e che le cause di cui sembra il risultato necessario non sono che i mezzi saggiamente concertati per istabilirlo. E Janet dice. L'esistenza stessa delle leggi nella natura yi^gU parla qui evidentemente delle leggi altre che quelle del movimento)  un fatto di finalit. Noi possiamo infatti concepire che i fenomeni potrebbero prodursi in modo da non permettere alcuna previsione certa per l'avvenire, e non vi ha alcuna ragione perch essi non si producano cos, se si suppongono all'origine degli elementi puramente materiali, in cui non preesisterebbe alcun principio iV ordine e d' armonia. Il solo fatto dell' esistenza d'un ordine qualun(jue attesca l'esistenza dun'altra causa che la causa meccanica, poich questa  indifferente a produrre alcuna combinazione regolare. Se nondimeno tali combinazioni esistono, e sono esistite da tempi infiniti,  dunque che la materia  stata diretta o si  diretta da se stessa, nei suoi movimenti, in vista di produrre (luesti sistemi, queste combinazioni e. questi piani da cui risulta l' ordine del mondo: ci che equivale a dire che la materia ha obbedito a un'altra causa che la causa meccanica. Quest'opposizione tra il meccanismo e le cause finali  suggerita naturalmente dall'azione umana, che  il tipo della finalit e il fatto d'esperienza da cui ne  venuta l'idea: danna parte il mondo esteriore con le sue leggi indii)endenti dalla volont uma\ia, da un'altra i)arte l'uomo, che non [1) Del fondamento dslV induzione. .Taiiot Le cause finali). 1 pu a^'ire su di esso che iniziando nuove serie di movimenti, che una volta incominciati, si continuano e si trasuieitono secondo le loro le^'g'i fatali. Quest'opposizione corrisponde pure a qu(]la del necessario e del contingente: il necessario  in contraddizione col volontario, e le tendenze istintive del nostro spirito, da cui si orifrinano i concetti metafisici, ci conducono a identeficare il necessario col meccanico, e il non necessario, 0 il contingente, col volontario. Infatti, come vedremo pi chiaramente^ nel se!no. ua il lil)ero arbitrio. Xo v\ ha dubbio che jiiando il teleolo^ista oppone il meccanismo alla tnalit. l'idea che la parola m(H*canismo su^'^erisce immediatameurc al suo spirito non sia il meccanismo di Democrito e di Cartesio, quello del movimento trasmesso per l'urto: dei ). E il matematico Cotes nella prefazione alla II edizione dei Principii di Newton, ponendo la gravit come una propriet primitiva della materia, aggiunge una fili|q)ica contro i materialisti, che fanno tutto nascere per necessit, mentre il sistema di Newton fa tutto provenire dalla volont del Creatore, e osserva che le leggi della natura offrono numerosi indizi del disegno pi saggio, ma nessuna traccia di necessit (8). A. Comte ha notato giustamente che la filosofia teologica, anche neirinfanzia Prine. delle eouose. XVI. Lettere tra Clarke e Leibnitz. Seconda Replica di Clarke, I. (8) V. jH^ei Stor. del material, t. 1. parte 8. e. 8. 92 dello spirito umano, pur costituendo una spiegazione universale dei fenomeni, non si applicava ai fenomeni pi fafamiliari, i quali sono stati sempre riguardati come sogo-etti a leirs'i naturali, invece di essere attribuiti aliavolont arbitraria degli agenti soprannaturali. Quando il filosofo teologico moderno divide i fenomeni in necessari Q> contingenti, e spiega tutto per le cause finali, tranne i feno meni necessari, egli fa precisamente come il suo antenato selvaggio o barbaro, perch le successioni di fenomeni che ci sembrano necessarie, sono appunto (pielle che ci sono ^' pin familiari {2). Quando il Pelle-Uossa non comprende, osserva un autore che ha studiato i costumi di queste popolazioni, dice che  uno spirito. Il uon  cosi che fa pure il metafisico incivilito V notiamo che il comprensibile, come il necessario, non  per noi che ci che ci  // pia familiare. La differenza tra il selvaggio e il metafisico incivilito  che il primo spiega immediatamente per l'azione degli spiriti i fenomeni particolari: il secondo ammette ordinariamente che i fenomenti ubbidiscono a delle leggi costanti, ma quando non comprende (pieste leggi, o, ci che  lo stesso, quando esse non gli sembrano necessarie (perch non si tratta delle successioni di fenomeni che ci sono le pili familiari), egli fa conie il selvaggio, le spiega per l'azione di uno spirito, che produce nella natura dei fenomeni eh' egli giudica al di sopra delle forze della natura stessa. 1/ intenzione dello spirito  per lo pi ostile, secondo il selvaggio; secondo il metafisico incivilito, benevola: di pi la spiegazione teleologica del secondo non  ordinariamente cosi chimerica come Corso di fhts. /tosit. ed. i. voi 4. ]>. 491. V. e. 4. N (ioblct d'Alviella L'idea di Dio ecc. p. OS, \'. cap. 4. 93 quella del primo. Tale  la costituzione della natura e pi ancora quella dello spirito umano, che, purch cerchi in questa direzione, egli non potr mancare di trovare nelle leggi stesse dei fenomeni i segni d'un piano intelligente: egli li vedr sia in quf^sto fatto sorprendente, che le leggi della natura contengono spesso dei rapporti metrici i pi semplici e i pi regolari (p. e. l'eguaglianza, la proporzionalit, la ragione inversa al quadrato, ecc.), e sembrano tali da rendere i fenomeniil pi fadlmente intelligibili ; sia in altre circostanze proprie ad alcune di queste leggi che gli suggeriranno pure, vivamente o debolmente, l'idea di uno scopo odi una coordinazione interessante per se stessa e voluta ; sia infine nel fatto stesso che sono delle leggi, perch la leo'ire implica un ordine e una reoolarit, e questi sono contingenti, cio non sono una conseguenza necessaria dell'essenza stessa dei fenomeni non si pu infatti concepire che i fenomeni avrebbero potuto foruare un chaos, pi chaotico di quello che alcun mitologo abbia nai immaginato, cio senz'alcun ordine, senz'alcuna legge senz'alcuna uniformit nelle loro sequenze e nelle loro coesistenze? dunque. ne concluder il teler^logista, quest'ordine e questa regolarit non possono spiegarsi che per una Mente ordinatrice e regolatrice. Malgrado l'opposizione s naturale tra il meccanismo e la finalit, la tendenza a spiegare teleologicamente tutto ci che non  necessario, sviluppata con conseguenza, non pu non oltrepassare il limite fra questi due dominii in cui i teleologisti dividono ordinariamente le azioni della natura. E ovvia infatti la riflessione che le stesse leggi del movimento, anche di quello derivante dall' impulsione, non sono nemmeno esse necessarie, bench l'impulsione stessa sia necessaria-per essere tali esse dovrebbero essere una suggestione dell'esperienza pi familiare, e non, come sono state in 94 95 realt, liolle scoperte scientifich: ne segue che la spiegazione teleologica deve applicarsi anche a (queste leggi. D'altronde  solo il necessario nel senso stretto, vale a dire ci il cui contrario  aftatto inconcepibile, che  assolutamente in contraddizione col volontario: ora ({Uesta necessit nel senso stretto non pu trovarsi inai nelle verit esistenziali, e tutte le leggi della natura sono delle verit esistenziali. Per conseguenza, non VI I; legge della natura a cui la spiegazione teleologica non sia a[)plical)ile. Cosi molti filosofi moderni hanno spiegato |)er le cause finali inche le leggi della nieccniica. Secondo Malebranche Dio scelse jueste l(?ggi perch sono le pi semplici cio, conni abbiamo accennato, contcmgono i rapporti metrici pi semplici, e soo le [)i proprie a produrre, con mezzi i |)i uiitormi, nn iinimnisa variet di fenomeni Avendo risol ut di produrre per le vie ])i semplici (juesta variet intinita di crf^ature ciu noi ammiriamo. Dio ha voluto che i ror[)i si muovessero in linea retta, perch questa lijoa  la pi sem}>Iice ^>. E prevedendo il loro urto, ha stabilito la leg'ge generale della comunicazione dei mo\ imenti: e (jueste due leggi naturali, che sono le pi sem[)Iici di tutte, bastano, i primi movimenti essendo saggiamente distribuiti, per produrre il mondo (juale n*i lo vediamo (o). Dio segue sempre, nelT esecuzione dei suoi disegni, le vie pi semplici, perch sono le pi sagge e quelle che l'onorano di pi. La contingenza f^ ) . il Saji^rio 1. (8) Malebruiitlu' Jiieerva dclhi ver* Se/narim. XV. (Risp. alla 4. prova). 1. U. paitt 2. v. 4.. Concersaz, svila meta/. , ecc. iHalehranelic Jhdit. erht. ^, Kle, della cer. Schinrhn, (R8p. alla 4. i>rc)va). Sehiarim, VI, :^, parte 2. e. >. Concers. untila meta/. IX. X e XI, ecc,^ delle leggi del movimento e la loro dipendenza dal principio delle cause finali era una delle tesi favorite di Leibnitz e della sua scuola. Il pensiero di Leibnitz su ci pu riassumersi con queste parole dell'autore stesso:  La saggezza su])rema di Dio gli ha fatto scegliere sovratutto le leggi del movimento le meglio aggiustate e le pi convenienti alle ragioni astratte o metafisiche... Ed  sorprendente che per la sola considerazione delle cause efficienti o della materia non si potrebbe rendere ragione di (jueste leggi del movimento, scoverte al nostro tempo, e di cui una parte  stata scoverta da me stesso. Perch io ho trovato che vi bisogna ricorrere alle cause finali, e che queste leggi non dipendono dal i)rincipio della necessit, come le verit logiche, aritmetiche e geometriche, ma dal pruciph (iella convenienza, cio della scelta della saggezza. Ed  una delle i)i efficaci e delle pi sensibili prove dell' esistenza d Dio per (luelli che possono aj)i)ro fondi re queste cose. Leibnitz pretendeva anche che dal solo concetto della materia si dedurrebbero delle leggi del movimento differenti dalle reali , e che esse produrrebbero gli effetti pi assurdi e pi irregolari, e sarebbero assolutamente contrarie alla formazione di un sistema .  Fra le rettole generali che non sono assolutamente necessarie, Dio scelse quelle che sono pi naturali, di cui  i)i facile di rendere ragione, e che servono pure il pi fall) Prne. della nai. e della ijraz. n. 11. V. anche TeiMlieeu Prefazione, Sayyi sulla bont di Dio ere. parte S. n. S4r-:^r>(), Esame del W Malebraiielie, eee. V. Lettera sulla quistioiie se l'essenza del eorin eoiisistc iieiresteiiHionc (Duteiis). Leibnitz a Fontenelle {Lettere e opaseoli di Leibnitz ed. da Foucher de Careil, 154. p. 227) e Pise, di mrtafis. {iVuove le^ tere e opnsc. ed. da V. de C.). cilmeiite a rendere ragione di altre cose. E ci che  senza dubbio il pi bello e che vale il meglio . I.e vie di Dio, egli aggiunge, ripetendo il concetto di Malebranche, che  uno degli argomenti preferiti dai teleologisti, sono le pi semplici; perch il saggio fa in modo, il pi che si pu, che i mezzi siano pure jini in qualche maniera, cio desiderabili, non solo per ci che essi, ma ancora per ci che essi mno (l). Ma Tapplicazione pi notevole del principio delle cause finali in fisica  il concetto di una economia di forze e di tempo che la natura prenderebbe per regola nella produzione dei fenomeni. Tolomeo avea dato come spiegazione del fatto che i raggi della luce ci giungono in linea retta, che essi passano da un punto ad un altro per la via pi breve, e per conseguenza nel minor tempo possibile; con (luesto principio erano state spiegate pure dagli antichi le leggi della riflessione della luce ; Fermat lo generalizz, estendendolo a quelle della refrazione. Leibnitz spiegava queste leggi, e tutte le legai dell'ottica in generale, per un principio analogo, cio che la luce segue sempre la via pi facile {la via pia facile era definita quella in cui il prodotto della via percorsa per la resistenza dell'ambiente  un minimum) : questa spiegazione fa vedere, secondo lui, Futilit delle cause finali, perch mostra che dalla considerazione di esse possono ricavarsi certe verit arcane e di gran momento, che sarebbe difficile di ricavare dalle cause efficienti, la natura dei raggi della luce non essendoci cosi conosciuta da poter rendere ragione per le cause efficienti delle leggi che essi osservano nella riflessione e refra Saggi nulla bont di Dio ecc. $. 208. De unico opl., catoptr,, dioptr. prine. Duteus . Il zione. Questa legge di economia fu elevata da Maupertuis a legge fondamentale della meccanica, formulandola nel suo principio della minore azione, in cui egli vedeva Tunica prova delTesistenza di Dio, fondata sull'ordine della natura. la che sia possibile, che noi scopriamo (jueste leggi generali, secondo cui il movimento si distribuisce, si produce o si estingue. Non solo questo principio corrisponde all'idea ch(i noi abbiamo dell'Essere supremo, in -ueiiza, delle legnai dei movimento, anzi  la e^-^'e ])Li universale della natura che eonoseiamo distintamente  ; e^ lo considera anch'eoli come una vc^rit fondata sulle cause finali (I)La sj)ie^azione teleologica delle le-ione sono, dice Leibnitz. di due sorta: le une sono as8olutanu^,nte necessarie; tali sono (juelle la cui necessit  lo (o). Meditdz. erist., 7. u. IS. Meditaz. erist,, 5. V. Siuiiiio sairintead. ani. speeiabiiente >. e. IV. ^. t. 'i dei fenomeni naturali gli sembrano rivestite -ed  perci che esse sono riguardate come contingenti e come arbitrarie sollecita lo spirito umano a cercare una spiegazione qualsiasi, che possa attenuare in (|ualche modo (juesto nistero: e dove pu trovare un tipo per una tale s[)iegazione, se non in se stesso, dacch fuori di se, cio nella natura, tutto gli seml)ra incomprensibile e misterioso'-^ Il fatto stesso che vi hanno delle leiiiii nella natura, cio che i fenomeni si svolgono con un corso uniforme. sembra aiirdresso cinti!ii:('nte ed arbitrario, perch rincom|)rensibilir delle singole uniformit particolari rende pure incompi-ensibile la legge generale d' uniformit che esse costituiscono: cos la lea'a'e implicando, come abbiann notato, un ordine e una regolarit, t|U(\sto fatto stesso entra naturalmente nel dominio della spiegazione teleologica. Berkeley dice: I fenomeni, nella loro regolarit, sono un lingtiaggio per cui l'autore della natura si i-ivela a noi. Questa stessa regolarit dei Menomimi impedisce alla j)iii parte degli uomini di riconoscere la causa libera di (jut^sti fenomeni. Essi sono pronti a pi-oclamare rintervento (T un essere superiore, dacch Tordine della natuta pai-e sospeso, e non pensano che . (H) V. . VII. i:^.:^. e v> Ki. " 'UHI portanti della dottrina delle cause finali baster per mostrarti che essa ha eostiluito una spieg-azione, nel senso stretto, amvei'Hcde della natura. Questa spie^'azione, unita a rjuella di cui abbiamo parlato nel parao-ratb precedente, forma l'insieme di ci che possiamo chiamare la sph'iiazione teologica doi fenomeni. E in questa che dobbiamo riconoscere la vera base di o^-ni forma della iilosofa teoloo-ica, poich  certo che lo spirito umano non ha mai concepito delle cause, poste fuori del campo delTosservazionJ, che i)er servire da spieo-azione desi su (jualche uniformit che l'esperienza stessa ha costatat;^ tra i fatti. Chiamiamo invece a^trori (pielle che non si fondano su qualche principio stabilito induttivamente, ma su [)retesi le,i>-ami lodici fra le ide(% che non sarebbero il risnltato di una o-cMieralizzazione di leo-ami costatati tra i fatti, ma sarel)bero intrinseci alle idee stesse; sia che (pieste prove prendano j)er punto di partenza qualche dato dell'osservazione, sia che deducano r esistenza di Dio da semplici concetti, iidipendentemente da qualsiasi dato empirico.  una conseg-uenza dei principii della teoria della conoscenza esposti nel Sa^'o'io 1 che tutte le prove di questo o-^nere sono necessariamente sofistiche: noi abbiamo visto infatti, da una parte, che non vi ha alcuna deduzione possibile, che sia altra cosa che un'applicazione a casi particolari di una proposizione gcMierale stabilita da un' induzione precedente; e da un'altra parte, che un iiiudizio a priori, cio una verit che deve ammettersi come evidente^ per se stessa, non pu avere per oggetto l'esistenza delle cose n i loro le'ami reali di sequenza o di coe't sistenza, ma solo dei rapporti che lo spirito stabilisce comparandole fra di loro, cio le loro somig'lian/e e le loro differenze. Cosi non vi ha alcun leaane infrinseco fra le idee (cio non risultante da una o'cneralizzazione dell'osservazione) su cui |)ossiamo fondarci \n^r passare dall'esistenza d.'una cosa a quella di un'altra, o per istabiliiv d'una maniera qualsiasi l'esistenza di qualche cosa: questa, come oo'iii altra verit sul reale, se non  un dato immediato dell'osservazione, non [ui stabilirsi che induttivanumte, e oi>-ni pretesa prova non induttiva non pu (^.ssere che un poralo,iMS'no. L'iuduzrone non  solamente l'unico ])rocesso legittimo per concludere una proposizione vera, ma  aiudie l'unico proc(^sso naturale per cui il nostro spirito conclude una proposizione ijualsiasi, ch'essa sia certa o ipotetica o anche assolutamente erronea. Generalmenle le pretese dimostrazioni a priori dell'esistenza di ((ualche cosa o di (jualche leu'o-e del n^ale noli sono clie dei sofismi artifiriali, incapaci picr se stessi di detcMMiiinare una convintone, (piantunciue possano sembrare convincenti a chi  convinto u'i, per altri motivi, di ci che essi pretendono dimostrare. E vero per che nel determinare le nostre credenze ao-isce. accanto alla induzione loo-ica, un processo incosciente di assimilazione di tutti i tatti e di tutte le idee che possiamo formarci sn di essi ai fatti e alle hh'e che ci sono pi familiari -roo-o-etto di questo Sa-oio  appunto di mostrare come tutti i concetti metafisici risultano da quest' attivit incosciente ed extra-logica della nostra intelli.i>'enza -. Ora i risultati di questo pr..c(^sso incoscio di assimilazione, che soli si rivelano alla coscienza, e. s'impon-ono naturalmente come delle verit evidenti per se stesse, cio a priori: vi hanno, per consei4-uenza, dei sofismi, che non sono artiftntfi, ma naturali, e che potrebbero costituire o-U cl(nn(mti di una dimostrazione a priori sull'esistente, che sarebbe un mo 104 tivo reale di crcdoiiza, .spec-ialineiite sul terrouo che  il campo propri') di (|U('.sti solisiiii, cio (vuoilo della metafisica. Ma la metafisica istintiva dello spirito umano Cloe la hlosoHa teolou'ica, (; in i^'enerale, o-(5iuM-almente la i)roposizione  ri^-uardata come un risultato (h^lTesperienza, e r aromento esposto come un'induzione, basata sull'anaIoM*ande parte di quest' ordine, presenta (]ueste  precedente,  stato anche ammesso da al'/aii d(M pi eminejui e dei pi critici fra i mod(M-ni, che hanno sottoj)Osto a un esame severo le basi del teismo, e hanno respinto come di niun valore tutti i^li altri aru'onu^aiti per provare 1' esistenza della divinit. L'argonumto delle cause finali, secondo questi filosofi, non concluile, e costituisce la base unica della teologia naturale, llume nei suoi Dudoijhi snl(( re/if/ioite tnfundc fa dire a Filoiu' (che rappresenta le idee dell" autore, e rifiuta conu. assolutamente vane le altre prove dil' esistenza di Dio): La belt e i rap)orti Ielle cause finali ci colpiscono con una forza si irresistibile, che tutte le obbiezioni paiono (e io credo che lo sono effettivamente) delle pure cavillazioni e dei veri sofisiiii L'Essere divino si scopre e si manifesta nell' inesplicabile nu'ccanismo S(({j!/irt sul frisino, l fturlr. Arf/outrnlo dei su/ ni di piujio indurii. [2) VnvXv \. e raiinnirabilc struttura della natura. Un oo-^c^tto, un disi-no. unMntonziono colpisce da per tutto il pensatore pi'u'rossolano e pi disattento; ed alcun uomo non p trehbe darsi ad assurdi sistemi sino al punto da rigettare (luest'idea in oom tempo: La natura non fa niente iarano K evidente che le opere della natura hanno una torte analo-ia con le produzioni dell'arte; e secondo tutte le reiiole della saiia loo-ica, dacch noi ar-'omentiamo su (jueste materie, dobbiamo inferire che le loro cause ha^mo pure un'analo.u'ia proporzionale  Kant, che riduce a tre le prove della rao-ione teorica p;'r dimostrare resistenza di Dio, cio TontolouMca, la cosmoloo-ira e la Hsico-teolo-ica, dopo aver dimostrato l' assohita iipossibilit delle altre due, dice della flsico-teoloo-ica (cio (|U.dla delle cause Hnali): k la pi antica, la'pi chiara e la pi coiit'onne alla rao'ione um.uii. Vivifica lo studio della natura, della stessa maniera che tira la sua e-^istmiza di ([Uesto studio, e up riceve delle forze nuove. Le conoscenze naturali, che essa estende, elevano la fed' in un autore supremo siuo a una persuasione irresistibile. Sarebbe dunque' non solo privarci di una cousolazioue, ma anche tentare l'impossibile, il pretendere di toii'liere (|ualch(^ cosa all'autorit di (pie sta prova ci). Kant distinii'ue la teolo.o-ia trascendentale e la teologia naturale: la prima stal)ilisce un essere primitivo, ma scMiza determinarlo come essere intellig-ente, ed  fondata suii'li aro-omenti oiitoloo-ico e cosmoloo'ieo; solo la seconda stabilisce un'intelli-'enza suprema, e fra le prove della ragione teorica, non ha altra base che lart' TuttJivii sectnilo Filoii.' P ar.-oiiiouto non t-oiirliulc elle con pro\m\>ilitM. V. la stessa o]M'i-a sulla line. Crii, (it'llo n((/. /mni. I>i verso la tino. ^mmeas^m 109 lOS fatto.  in effetti un risultato inevitabile di questo processo incosciente di assimilazione di cui sopra abbiamo parlato, che noi dobbiano ricondurre oo-ii causa che fa incominciare un movimento alla volont, che  l'antecedente pi familiare dei movimenti che incominciano, e non semplicemente si trasmettono. In questo caso, come in (piello delle cause finali, la proposizione che risulta da (juest'assimilazione incosciente, ci sembra evidente intrinsecamente, e pu quindi ri^'uardarsi come una vcu-it a priori: ma essa pu esporsi pure sotto forma di argomento induttivo o anaiouico, T assimilazione di cui si tratta essendo, nnclie in sit di un'oriijine del inoximento, dando cos'i luo^'O all'arii-omento della causa j)rima. -ata dai filosofi o-reci e che conclude a un primo motore, pu riguardarsi come un raionamento naturale, e come l'espressione di un motivo reale della filosofia teologica. L'altra, supponendo la dottrina della creazione, non pu essere un motivo della teologia naturale, perch questa  la filosofia istintiva dello spirito umano, e una filosofia ha per iscopo la spiegazione dei fenomeni; ora una spiegazione suppone che il fatto per cui si spiega sia pi intelligibile che quello che si tratta di spiegare; per conseguenza un mistero. (|ual  la creazione, non potrebbe servire di base a una s])iegazione, e quindi nemmeno a una filosofia: d' altronde  un fatto incontestabile che la dottrina della creazione non fu all'origine che un dogma religioso, e solo in seguito si cerc di appoggiarla su argomenti razionali. Cosi, se rifiet Vedi, per xiitista seconda ragione. Kant Dialett. traxcfndenl. 1. 2. e. 2. sez. 2. Terza opposiz, delle id. tntseendcitt. Cfr. Ken(nivier Nnoca Momidologia, o. parte. H8 e 1). i tiamo inoltre che fra le prove dcill'esistenza di Dio quelle delle cause finali e della causa prima sono le s^le che s' incontrino a tutte le epoche e pr(\sso (juasi tutti i filosofi che hanno seguito il sistema teologico, le altre non essendo che particolari a certe epoche e a certuni di (|uesti filosofi; noi giungiamo a questo risultato non inatteso: che i ragionamenti naturali [)er provare l'esistenza della divinit non sono altra cosa, sotto un altro aspetto, che le due funzioni della divinit, come principio esplicativo dei fenomeni, di cui al)biamo i)arlato nei due paragrafi precedenti. Le prove di un'ipotesi, in effetto, non ])otrebbero essere altra cosa chi* i fatti di cui (|uest'ipotesi serve a dare una spiegazione, provare un'ipotesi per i fatti e potrebbe esservi altra provaV e s[)iegare i fatti i)er l'ipotesi non essendo che due lati d'una stessa operazione mentale, che si possono distinguere per astrazioiu^ nu^itre in realt sono indivisibili. Sembrer strano che mentre le prove realmente convincenti deir esistenza della divinit sono induttive o analc>giche, consistendo essenzialmente in un' assimilazione delle cause dei fenonu'ni della natura alla volont umana e alla sua catisazione ; a queste prove naturali i metafsici abbiano s s|)esso preferito dei sofismi artificiali [)retesi dimostrativi, ma privi in rc^alt della minima forza probante, come sono in generale i ragionamenti a priori, (juando si tratta della dimostrazione del reale. Questo fatto si spiega anzitutto |)er due cause generali: 1" (j)uesta forma di metafisica che noi chiameremo filosofia apriorista, e di cui parleremo nel capitolo VI. Essa eleva a tipo unico di certezza la certezza matematica o, come si dice anche, metafisica, cio intuitiva o dimostrativa, non lasciando alle verit induttive che una semplice probabilit. L' esistenza di Dio, che non pu essere una semplice verit probabile, deve essere dunque dimostrata -2^ La filosofa teologica, per questo 112 processo di,lisantro,.oii.orti'///>azione progressiva, di cm parleremo nel para-rato seguente, g'iiinge a. conciati di Dio essere p.-rfettissiino (cio intinito in ciascuno dei suoi attributi) e creatore della materia. Ora gli arg-on.enti naturati deir esistenza di Dio (cio .,uelli delle cause Hi.ali e .lei primo motore) non potrebbero provare ne l'uno n raltro di luesti due concetti. Cosi agli aro-omenti naturali saranno preferiti dei sofismi artiiical. che avranno l'aria di provare anche qu-,sti: fra essi i pi accetti saranno dei ra-ionainenti a priori, i-erche dei sofismi induttivi non potrebbero simulare una conclusione rigorosa come fanno necessaria nenti^ i deduttiviCon lu^ste cause generali concorrono delle cause i)articolari: sono delle suggestioni dei concetti .Iella filosofia teologica, che determinano la scelta di certi generi d" ar..-onmi,ti, che ottengono la preferenza sugli altri, non perch.-'. abbiano una maggiore forza probante, ma perch s' incontrano della maniera pi ovvia al punto di vista .lei sistema, di cui sono cosi le conseguenze, invece di essere le ragioni su cui esso  fondato. Ci potr essere chiarito da un esame dei due argomenti a priori pi importanti, cio rontologico ed il cosmologico. L'ont.>logicoun argomento che pretende (Zmos meno, i: Non vi ha aJcuna cosa di cui mni vi sia una ra;_:'ion sufficiente. ci( una ra^ioio che determini perch la co: dev perei a\ t're u H' e."^>o s >u u a sia cosi o non altrimenti. Cosi ruuiverso na ra.iion sufficiente, cio die deternini i;i cosi e. non altrimenti. Ma (juesta ra;Li'ion fticiente d necessario, ma contin;:'ente (infatti >i pu concepire che esso ])olrebbe es.serc dilfereite da quello che ); e. da un'altra parte tato presente del mond( abbia la sua raiiione nelb stato pi-ecedmte, e onesto in n altro ancora, e cos di seguito, rimontando sempre 11 dall'effetto fenomenale alla causa feiiomenah'. si potr andare allMnlnito. m)n si trover mai una rai:ione i he non abbia l)isou'no di lU'altra rautvMS, t. II. i. II. p.e:. i:2). Sn^ij/i snd hnHi d />!( :>S. (>s (Foik'Imt de ('jo'oii Uilmilz, Dcsiut l'ics f Spi sii-raz. sit Sjti iior.ii i(o:.ti. ]>. 21;")). ('(( 116 117 Come si vede, rar*;'oinento eosiiologico  diverso e indipendente (in (|iiello della causa prima. (Questo si foitda suirimj)ossibilit logica d'nna serie intiiita di eause; ma i'ar^oneiito eo.smolo^ieo non snppone, beneh Kant io affermi V. Dialett. traHccnfL I. *J. e. o. sez. .) che una serie infinita di cause  im[)Ossil)i]e, coicludendo da ci la necesisit di una causa prima. Leibnitz, esponendo Tar^omento, suppone quasi senpre che la serie delle cause fenomenali j)un essere infinita. Clai'ke, che fa uso pure di una forma del T argomento cosmolog-ico. respinge una serie infinita di cause cone assurda, ma ci non perch sia intiiita (poich uia successione infinita non , egli dico, coitradio. vu\t.:\, (nte): ma da (juesto principio non pu conchnlersi che il mondo stesso, cio l'insieme di tutti gli avvenimenti, devo avere una causa. Che ogni cosa, e non solamente ogni ((rrnimento. abbia una ragione che la determiii e possa spiegarla, non  vero che se si ammette il teismo e la i)ossibilit di dimostrare l'esistvnza di Dio assolutamente a priori (cio per rargomento ontologico).  solanu'nte allora che ogni cosa in geupralf avr una ragion sufHciente, cio che determina perch essa  cos piuttosto che altrimenti, o, come dice Clarice, per cui essa esiste piuttosto che non esiste; perch solamente allora. noii solo ogni avvenimento avr una causa (in un avvenimento anteriore). ma avr anche una causa la serie intera degli avvenimenti (compreso il loro subtratum permanente), e (juesta stessa causa avr, come dice Clarke, una caum intcriore (cio la /?cvpssif ((ssolnta, che nessun materialista ha mai pensato di attribuire al mondo stesso). Tuttavia la r/.s* probante dell" argomento cosmologico non sta sohimente in una est(Misione illegittima del principio di causalit e in un soti>ma di confusione tra il i>rinciiMO stesso e (|uesta .Mia estensione illegittima che Leibnitz ha formulata col svu princii)io di ragion sufficiente^ . l>ench non si abbia alcun diritto di pretendere che le inclinazioni del nostro si)irito diano k'ggv alle cose stesse. non vi ha dubldo che, se le cose si conformassero al sistema dei metafisici che ammettono il principio di ragion sufficiente e rargomento cosmologico che ne  1" applicazione, rak' a dire resistenza di una eausa prima e una ragione capace di spiegare (piest* esistenza stessa; ci non sarebbe pi soddisfacente ]er la nostra intelligenza che una successione infinita di avvenimenti senza una causa esteriore \n causa interiore la lasceremo ai metafisici). Nel primo caso tutto sarebbe spiegato, mentre nel secondo caso vi ha necessariamente (jualche cosa ns che rosta s(Mi/a s|)ii\ii'a/^i>"ne.. e io e l e Mi l chi a ma c cnllocaziovi prhhitivi'. 81 potrebbe, ])(*r conscuiKMiza. essere tentati di vendere, con Kant, neirarii'oniento esniolouieo, non un .>einj>liee sofsna, ma un raijoamenfu naturale : ma l (lrve il ravattere artilieiale dell'ai-.i^oniento il) V. Ctn'iftf fh'lin )((r>( l>'nih'il. Ir'n. >soint .-oiK-iirr i!r;irio 0 niridcn ihI>oi!>jI>!' (1('1!:i niuiniu". li cui iioi si piiT i.n\ ;nUi.-tt/\:i. (i;L; mi;i lfli;i r;iiii]H)sizinni  MtVcniin r i";ilii-; 1( uv'j^-.i. {halrll. IrasrrmhHf. I. '_'. e. li. scz. 2. (Jinnhf uftpoy/iziom). i}n\ iMi \'r;i del s'.lni rciiiin ;i J1M':ifisirn ii:f;i!-Ml4>tT;:*ibo osscir che uua c'T!o (le |u-n}>(si/.ioi>i (Iclir ;i!lr' i i'' ;Mit in(Jiiic I'omI nio i|ua U!i |Ui!Hij>;o ti cojicIihIc Trsscrc ;is:*o hitMUKMitc lcccssjo'io e loud.-ito >ul ju-incnuo ; in 1/ l'oi-niulnrlt: u-i jU'n no, 111  p'r se ste n'erinnn. cnle in coni i-nbli/ione con >e sto. Ile culi nllennn iur {Uulctl. /rffsmnlfjif. 1. J. llo s|nrito scolastio le rm-'^onicnto ont>!i:i;i IO 1 esselH' IS-.0 liitni nenie n' !icliis> Ini primo. HSW 119 si tnos tra della maniera, pi palpabile,  piamb) si tratta li provare che Tesscu-e assoluta in^nt e iuc essano e Dio. etoe un ess ere dotato d'intelli.u-e]./?! (^ di volont. Se biso"ue)-obbe pro\ nre clic Dio  un  ;scrc ns>oliitnment' neee-sano: mn -io e he pi-o\ a jucsto i' nppnnto rnr-nu':it  ont.ui. C^uest' osservnzi om'  li Knnt i' senza dubbio liiustn. p'rcho che un essere In Mli e ]uiu: K^.  dovreblu l'nr vedere e Voler dire nllr.i -o.-n isleizn   mn Ncritn n'ce>snrin un>er hv 1 ( nr'j.'tHiUMrn eosnio 1 o 'J. ICO he r esistenza  li l.)i o e poti* bile faro che 1' ara:onicnrA'i' l'osse eon\ !n'-'llte. l:il'. ci ehe nui K (>\iib'nte che se rari;^ m(d;"i-o mm ' che T ni-.^o nneiito onldo.uico sviato, e (U'si) '. una  seinpnc' iinu) vazione tbdh spirin >eola stici) . -io*' un puro s tmhnudc, ma H titleinle. pudo n)n i>no -ssere un \v v^^Wi' an(dr"^so. e ra'j.M>H('  1) Tra una sem]di-e inn\ le 1 ;l pili lortc >ro\ ns larenio iiHMizine li luni.ata la ("lnrk' iTrnlL .h-ll' r^isl. r .tnln svilupi drilli iillr(>. (li l>i' !>iciito "iiui-.' i.iipi\u'*'it;i nil(.'^iM): e->a si \ r>\ a '^i; 1. ed ' unn d,i  Sii rh':tiio ni le 1. J/-joni 1 ni! ;ln JU' o\n SI > mdinle he In l-v e a\'ere u, li ;ill libili i lidio spirilo, prem tsi un a-iiomcnto (die e pu> s'm altri, non e puutp'rienza con1'riii; nii'c die lallo spiriOi hrare jd jdaiisildh' li Innli ino adi assimilazi)n' inco!^dcn na turale bd n>stro s)nri (o. S' noi lomamlianu pr(dH lo siurit* ]>rovenir i' la ca:ir>:! > re s'm pre [MU ec. in-r -mseoiu-nza r's>eiv primiivo levuram(Mite artiteiali. Kaut pu affermare eu' esso  un rao'ionamento naturale,  percli emv iit'll; cmiism.  l)i>>^iert'lb' . /'/. e. U.i. La srLMUMla ra^iojie  una f'oi-nia s(>ttile e, jm-i ilir eos. impalpabile drl piiiu-ipi' Im 1" csscic non in. venire lai niente {'Ih' era ra>>it>nia Ir-ii antielii Fi-^ici -n'ci. e sLtni1eava vhv. u realta, nirnt' na^cr ne prrisre nel lM/>//''/^f/*Vvw///r/ />///tr / veii in iicnrral'). I/applirin, non >ai'eldc nn >ciMplicc imhi senso, ma mi'apcrta cont radilizionc: ma si rvvit di ailennair in inahdie modo il mistero della ci'eazion( nna /ttt/trri/taziour deli" essere e delie p'i-tezioni del reatore; i-osi l'essere, in empre pii eceelleiite iUdV ettossibile. Ma quest' accordo, (jtiest' armonia perfetta, della, moralit con la felicit noi non lassiamo concepirla come un risultato delle semplici leggi del mondo sensibib-. ma essa supi)one, (duoo per noi, una causa iitelligente e morale della natura, che preordini Funiverso a ([uesto scopo. Cos 1' esistenza di Dio  uu postulato della ragion pura pratica. Poich  un dovere ^'2'2 i2a por noi li lavorare alla realizza/ione del .sovrano bene,  una necessit, che (lei"i\a da (questo dovere, di supporre la possibilit di inest( sovrano hcMie, il (piale, non essendo possibile ehe alla coinli/icne delTesistenza di Dio, le^a insepai'abihnente al dovere la suj)posizione di porzione, tra la virt e la t'elieit  una proposizione che nvar(\ Kant d, al fondo. |ueroposizioiu' come una cr(o ( 1 1 vere, porterebbe imnauliatamente con s('' la credenza della possibilit manda assai naturale: (juale possa essere lo scopo di (piesta strana inversione loo-ica, che d come un rauioiK^ dell'esistenza di Dio ci che non (' stMto mai rii:uardat(^, e inni polrebl )( essere l'iii'iiardato altrimenti, h he come una conse^iu^e.za di l.' pensieri ~ d l valore d(d dovere da ([Ualcin^ cosa il cui varie ri vare i lore sembri pi evidente intrinsecamente e | nn im*oiites tabile, cio(' la felicit. Kant ])(msa, al fondo, dir ])oich(> il doverv' ci (' incontestabile, esso  dato come un che di un valore b^A ess ere accompau'nato dalia \. \\\ [>iirlr m (li [licslo S;i.u,Li H. 124 L*rMleuza del suo accordo con la fclifit, perch, se uou fosfse cos, il suo valore non ci sembrerei be incontestabile. Cos rai-ii'oinent^ di Kant ion  rhc nun variante del vecchio ar^onn'nto dei teoloiri. che la leuiife inorale suppone un le'oniento die im[)lica (sia che si dica o si sottintenda) che 1' obl)liii'azione morale dipernle dal premio e dalla [)Uii/ione dis|)osti da (pitvsto legislatore I). Tuttavia lo sco|)o di Kant non  tanto di dare un fondamento airobbli^azione morale, quanto di realizzare ["ideale il'un ordine morale nel mondo. A questo punto di vista, il suo argomento, quantunque privo di qualsiasi valore lou'ico, ne ha senza dubbici uno psicologico evidente, essendo 1' espressiom* di uno dei motivi i-eali che contribuis**ono a mant(mere la credenza air esistenza della divinit, nella parte mialiorc^ del *ienere uiiano, quantun(pn' lu'ssuno abbia mai j)ensato. prima di Kant, a vedervi una [)rova di ici, le nliioni inferiori, come osserva Tylor , essendo separate dalla morale, e solo i popoli progrediti concependo la divinit come autrice d' un ordine morale nell' universo. Kant, i)er accordare al suo ar.i;oment( morale una forza probante che nea all' ar^iomento fisico-teologico, non ha che una ra^^ione decisiva: che solo il primo, e non il secondo, pu })rovare la perfezione assoluta della divinit (l'onnipotenza, ronniscienza, la bont infinita, ecc.) (2;. M.'i ei  un'altra j)rova che esso non pu essere la vera base della teologia rwiturale: ])oich questi concetti non ai)pariscono che ad un certo ^'rado dello sviluppo delle idee sulla divinit, di cui non si pu rompere la continuit coi irradi inferiori. Infine noi dobbiamo osservare sull'aro omento di Kant che, quand'anche esso fosse nafaraU'. non contraddirebbe .'dia l)ro|)Osizione che noi abbiamo cercato di stabilire in questo para^Tafo, cio che le sole basi razionali della filosoHa teologica sono la [)rova delle cause finali e quella del primo motore: che cosa  esso infatti se nmi un caso della prima di queste due prove, applicata a un ipotetico ordine morale, invece che alTordine, sino ad un certo punto reale, del mondo tisico? Perch noi dobbiamo preferire l* idea di un Dio autore della proporzione fra la moralit e la felicit alla dottrina buddista del Karma, secondo cui questa proporzione  il risultato spontaneo deiriucatenamento fatale delle cause e deoli effetti, se non in virt di quest'argomento (abbia 'fvlor, Crilzzdz. /irimif.. aradossastica la dottrina budtica, perch eom{)rendia]no dir la j)rop'edi'em mo (*h(; la constatazione pni*a e sein|)lice (hn tatti. Ci a cui si dovono in i:ran |)arte le pi'o\i; sofisticlh ilell 'esistenza di Dio, cio 1* incaj)acit (hdle prove naturali .'1 dimostrarlo come Ti^sscre dssnhif n o /// fin il  dalla rai^ione. anzi spes-^o in antaii'onismo e in contraddizione con econdo (.'ousi mono in un tatto permanente, sempro presente uidla coscienza, e che consiste a percepire al tem[)0 stesso: W tiito (eh'e;;li chiama anche relativo, contingente, ecc.), Yinfinittf (che chiama anche assoluto, necessario. ecc.) \. ^I;i\-.M filli r. Lk srienzd ilrlln /r/ifjionr. 1 y e il rajporto tra i due (cio che il finito ha per causa e pe4substratum V iiifnifo). I nostri ontolooisti (secondo i (piali. non solo noi conosciamo Dio immediatamente, ma lo vediamo), invece die deir/////y///o j)reterivano parbii'e AAV ('ifii ro'JoH dista, dalla uni versali! i della ere denza non si conclude immediatamente cln^ essa  xcra. ma (die  naturale ed istintiva: ci prova, continua l'ar.2^omento, che ess;b  necessariamente vera, perch un'aftermazione immediata d(dla coscienza non pu mettersi in dubbio, ma deve ammettersi come lUia verit assi(matica. I. 'altra forma della (butrina  una conseuuen'/a de.uii ai\i:'onH'nti a priori. Alcuni di ati (li tutti, cio rontoloa'ico e il cosmi)loul concetto che l'essenza dell' anima consiste nel pensiero i2), cercando dcdle idee che [)ossano essere un patrimonio ori^-inario dello spirito, Je trova naturalmente nelle verit evidenti per se stesse o pretese tali. La dottrina (h^ll'intuizione razionale ha [)er oriori ili generale, ammettendo una percezione immediata del Vero stes.so obbiettivo o delle verit in Dio (P^) la dottrina di Cousin della partecipazione a una Jiagione un4 V. Apft. ai (Uff). G. v> fi. noti! ultiuiji. V. Appenri. alla partr t. e. 2. \S !. i^\ (^fr. Samio L e. '. ^ 7. versale non differisce che verbalmente da quella della visione in Dio .Nell'ipotesi di questa percezione d'un oggetto che  col soggetto percepente in un rapporto invariabile, il pi semplice  di ammettere che essa  permanente, tanto pi che la trasformazione delLargomento cosmologico in verit intuitiva arriva naturalmente alla formula che la percezione del contingente, o del suo sinonimo il finito, implica quella del necessario, 0 del suo sinonimo V infinito. 5. Il risultato dei paragrafi precedenti, cio che la base della filosofia teologica  in un processo induttivo, che consiste essenzialmente ad assimilare le cause dei fenomeni e il loro modo d'azione all'uomo e all'attivit umana, pu essere dissimulato da un processo in certa guisa contrario, a cui si confermano, nella loro evoluzione, i concetti teologici, che consiste in ci, che pio e il suo modo d'azione si vanno disassimilando progressivamente dall'uomo e l'azione umana, e pu essere chiamato ([Uindi, come  stato chiamato infatti, adisantropomorfizzazione della divinit. Questo processo d disantropomorfizzazione progressiva pu considerarsi sovratutto sotto due aspetti. L' uno ci mostra una differenziazione crescente tra il sovrannaturale e il naturale. Al principio gli esseri soprannaturali sono degli agenti fisici: quantunque si sottraggono ordinariamente ai nostri sensi, essi possono apparirci, quando loro piace, e mostrarsi per ci che essi sono, cio come persone visibili e tangibili. La persona, il sustrato fisico dello spirito, si va mano mano smaterializzando, e finisce per diventare una sostanza spirituale, cio un quid inaccessibile ai sensi e all'immaginazione. Una trasformazione analoga avviene nello spirito stesso, cio nelle qualit mentali degli agenti soprannaturali: queste diventano sempre di pi in pi sovraumane, e finiscono anche per perdere questa condizione di ogni coscienza empirica, 9 Hi) anzi pi 'uardano come j)erfezioni \i\ ven^-ono conferiti in un i'rado vsempre pi eccellente, sino al pi alto cbe sia |)0ssibile di concepire. Cos dano che non sarebbe il risultato della scelta e della deliberazione, e cIh' non sarebbe lUMiiineiio tonnato da Dio, perch eterno come Dio stesso, piuttosto che 1' opera della ragione, noi vedremmo quella d' un istinto o di un accidente fortunato ; e che il volere  un processo, ed  quindi evidentemente impossibile di concepire un atto di volere eterno, perch una serie di cangiamenti non pu concepirsi come eterna. Alle inconcepibilit di una coscienza che non consiste in atti successivi la teologia cristiana aggiunge l'altra pi patente di una durata che non si compone d' istanti successivi. In Dio, dicono i teologi, non vi ha ne passato n futuro, ina un eterno presente. Nella sua durata o, pi propriamente, nella sua eternit^ non si deve concepire alcuna successione: essa  indivisibile, infinita e sempre presente tutta intera {tota sinuU). E un presente immobile, indivisibile ed infinito, un istante che racchiude tutta l'eternit. Noi abbiamo qui evidentemente la contrad-dizione nella sua forma pi aperta, V attribuzione allo stesso soggetto di due attributi opposti, il massimo ed il minimo, la durata infinita e l'esistenza che si esaurisce in un istante indivisibile.. L'altro elemento della teologia t rascende/ntale, cio l'esaltc^zione di tutti gli attributi divini sino all'infinito,  talmente caratteristico nella forma pi evoluta della filosofia teologica, ch'esso viene considerato ordinariamente dai metafisici moderni come ci che vi ha di ])ro])rio e di essenziale nel concetto della divinit. Secondo i filosofi teologici Dio si definisce V essere perfettissimo^ o anche V infinito o V assoluto.  Dopo aver formato, dice Locke , per la considerazione di ci che Snyyio HuWhatnd. nm., 1. 2. '. 2S. :. proviamo in noi stessi, le idee d'esistenza, e di durata, di conoscenza, di potenza, di |)iacere, di felicit e di molte altre (|ualit ( potenze che  i)i vantaggioso di avere che di non avere, (piando vogliamo formare l'idea pi conveniente dell' essere supremo che ci  possibile d' immaginare, noi estendiamo ciascuna di (pieste idee per mezzo di quella clui abbiamo dell' infinito, e cono'iuuii'endo tutte (Uiest(^ idee insic^nui, ci formiamo la nostra idea complt^ssa di Dio. Tale  elfettivamente il processo per cui la teologia trasc-endentah' giunge a! suo concetto della divinit: la stoffa per cpiest' idea  j)resa in noi st(vssi (antroj)onorfismo): il lavoro della teolou'ia trascendentale consiste a soj)prinHM-e certe (pialit della natura umana, che  servita da tipo primitivo, conservando quelle che  pia rantaggioso di arerc chr di non arere, ed esttnnlendo ciascuna di (piestc per nu'zzo dell'idea dell'infinito, cio facendo della potenza la i)0tenza infinita (onnii)otenza), della conoscenza la coimscenza infinita (onniscienza), della saggezza la sagg(v.za iifinita, o, come si dice pi ordinariamente. assoluta, ecc. Tra i nisteri della teologia (piclli che passano ])er dottriU' filosofiche (essendo troppo intinamente leo'ati al concetto moderno della divinit per non essere accettati aiu-he dal deismo), sono dovuti in gran j)arte a (|uesto processo. Noi indicheremo: l" TI dogma della creazione^ dal niente. K un' applicazione dell' idea dell'infinito alla causalit. Se Dio non avesse creato anche la materia, le cose non sarebbero prodotte interamente da lui, e ((uindi la sua causalit non sarel)l)e assoluta, illimitata. 2" (Quello della ubiquit o onnipresenza di Dio. Dio  presente in ogni cosa, perch opera tutto in tutto, e vi  presente tutto intero, perch  semplice. Egli essendo infinito, mentre il mondo  limitato,  presente anche nello spazio fuori del mondo. La presenza simultanea in nolte cose (conseguenza del .-^'atsf _-watij*.i!ib^ affis.--% j*i .-S*. JK principio preteso assiomatico che iiicnite pu agire dove non )  gi un mistero per se stessa: 1' onnipresenza moltiplica questo mistero, e vi ag'giuiig'e quello dell' infinito attuale. 3'^ La semplicit di Dio (il pi straordinario dei misteri della teologia razionale). Dio  semplice, perch  spirito la semplicit che. si attribuisce allo spirito serve a spiegare la sua incorruttibilit e immortalit . Ma Dio non  solamente semplice come l'anima: la sua semplicit  assoluta o infinita. Dalla sua essenza, dicono i teologi, d(we escludersi ogni composizione; la sua semplicit non ammette composizione: di materia e forma, di sostanza e accidenti, di genere e differenza, di essenza ed essere. Dio fa tutto con un fiat unico, vuole tutto con un atto di volont unico, conosce tutto con un atto intellettuale unico, ecc. In lui non vi ha moltii)licit d'idee distinte: egli pensa tutte le cose con un'idea unica, che  l'idea di se stesso ; con questa senza, conoscer anche tutti i modi ii eui (juesta essenza  partecipabile, e (|uindi tutte le cose, che ne sono, in vario modo, delle partecipazioni. Quest'idea con cui Dio intende s e le altre cose, non si distingue dalla sua stessa essenza: in Dio gli attributi non si distinguono dalla sostanza n fra di loro; in lui il conoscere, il volere, l'operare, ecc. sono la stessa cosa, e ciascuno di questi atti  la stessa cosa che il suo essere. Come si vede sovratutto da Ibi semplicit, questo processo di esaltazione di tutti gli attributi di Dio sino all' infinito ha pure per risultato (|uesto tratto caratteristico dei concetti metafisici, che  1' assoluta irrappresentabilit. Tuttavia esso non raggiunge questo risultato che in alcune delle sue aj)plicazioni: 1' onniscienza, l'onnipotenza, la creazione stessa non oltrepassano la nostra facolt di concepire, uenza ultiinri il i)rincipio posto da Aristotile ; una serie infinita di cause ed d' effetti non iuplicando in sostanza altra difficolt loo-ica che quella implicata in una serie reale infinita, e (piindi anche in una durata infinita del mondo nel passato. Ma non  meno evidente che questa conseguenza ci mette in presenzn di una difficolt analoga a (juella che Aristotile risolve col suo concetto dell'inniiutabilit divina: se la durntn infinita del mondo  impossibile perch implica una successione reale infinita, non sar anche impossibile, per la stessa ragione, la durata infinita di Dio? Cos, come il concetto di Dio come causa prima, cio come primo motore, non imo evitare la difficolt di una serie infinita di cause e d'efPetti, che nella supposizione die in Dio stesso non vi sono cause ed effetti, per conseguenza, avvenimenti, e che egli  esente dal cangiamento ; della stessa maniera il concetto di Dio come creatore non pu evitare la difficolt di una durata infinita del mondo nel passato, che nella supposizione che iu Dio stesso non vi ha durata, che la sua esistenza non y  una serie di momenti, e ch'egli  esente assoluta mente dal tempo e dalla successione. Le quistioni a cui rispondono questi concetti della teologia trascendentale, non sono, secondo noi, fittizie; sono delle difficolt reali, a cui lo spirito umano non pu evitare di cercare una soluzione, e che ai)partengono all' argomento della 2^^ parte di (piesto Saggio. Cos, (piaituncjue le soluzioni delia teologia trascendentale abl)iano il difetto evidente di evitare delle inconcepibilit con altre inconce})il)ilit, talvolta pi ])al])abili, essa , per questa parte, una vera filosofia, in (pianto risponde a dei j)roblemi reali, dati nella natura stessa della nostra intelligenza, e le sue contraddizioni, per (pianto egualmente manifeste, non sono gratuite come i misteri della teologia dommatica. Aggiungiamo ehe essa  anche, senq)re per ([uesta parte, una vera metafisica, perch la pseudo-idea dell'infinito attuale (quindi aiu'ora i problemi a cui d luogo quest'idea e le soluzioni di (|uesti problemi)  il risultato inevitabile d'un'llusione naturale, (piella che ci si)inge ad obl)iettivare le nostre sensazioni, e il carattere essenziale dei concetti metafisici, nel senso proprio della parola,  di essere uno sviluppo dell-: illusioni naturali del nostro spirito. Il concetto che Dio  V infinito o l" assoluto, non essendo evidentenente che quello che alla divinit si deve attribuire ogni ])err'ezioiu5 ed escluderne ognimperfezione, spinto alle sue ultime conseguenze logiche (ed anche illogiche), l' idea filosofica, cio moderna e pi evoluta, della divinit  costituita in sostanza da questi tre elementi: I'^ l'idea data dalla teologia naturale, (piale ipotesi destinata alla spiegazione dei fenomeni, e precisamente del movimento e della finalit; 2" quella che Dio  la causa prima; Fra trli nttrilmti dclhi diviiiitri clic si riattaccMiio alTeleiiieiito della teolooia naturale (quautiiii(Wf*ia!WiBasEBEaasE:raaBfeaara5^Eff uo e o^ il concetto che abbiamo detto, che a Dio si deve attribuire ogni perfezione ed escluderne oo-n'imperfezione. Non  difficile di dimostrare che questo concetto, spinto sino all'idea trascendentale dell' assoluto o V infinito, pu fondarsi meno ancora che quello di Dio causa prima e gli altributi divini che vi si riattaccano, sui principii essenziali della filosofia teologica, se questa si considera come una spiegazione del mondo, basata su un processo induttivo, e consistente ad assiniilare le cause dei fenomeni naturali alla nostra attivit. Questa dimostrazione  stata fatta da Hume e da Kant, e dopo di loro da Stuart-Mill, che ha sviluppato logMcamente un sistema di teismo fondato unicamente sulle prove induttive. A dir vero questi filosofi considerano come base unica della teologia naturale l'argomento delle cause finali ; ma la considerazione di Dio come causa del movimento non modificherebbe certamente il risultato della loro critica. (,)uesto  che dalle taiiioiitr ii naturai' airuoino che il !iiiM)t(*i>ino), possiamo fare rii-iitrarc aiicie l'unit. Se il iiioiiotoisiuo. dico Mill, pu essere preso pel rapprestMitaute del teismo l'una maniera astratta, mm ^ tanto ]>ereli esso t* il cenere di teisnjt elie prolessa^.jo le razze ]iii incivilite della sj.ecie umana, niseono il ;over!io dell' universe a degli esseri sovrannaturali, sono incompatibili cos bene con la permanenza di ([uesto governo a traverso una serie e(ntinua d'aiiteeedenti naturali secondo leggi fisse, che con la relazione di dipendenza mutua clic unisce ciascuna di queste serie a tutte le altre, vale a dire inconq)atibili coi due risultati pii generali della scienza. {Samiio sui teismo, 1. parte, // teismo, C'r.Knit Crii, della ntf/. /nwa. Dialett. trascead. Uh. 2. cap. S. sez. VI). Tuttavia allo stabilimento del monte8mo ha dovuto anche contribuire il processo jier cui spieghiamo in seguito il concetto dell'assoluto: ma e un punto su cui crediamo iuutih; d'insistere. 141 prove su cui  fondata la teologia naturale non risulta n il concetto della creazione (causalit infinita di Dio) n quello, in generale, deirinfinit degli attributi divini. La prova fisico-teologica potrebbe dimostrare tutto al pi un architetto del mondo, di cui la potenza sarebbe limitata dalla natura della materia che egli lavora, ma non un creatore del mondo, all' idea del quale tutto  sottomesso.  evidente che 1' argomento del primo motore non aggiungerebbe niente su di ci alla forza dell' argomento fisico-teologico. In quanto all' infinit degli attributi divini in generale,  impossibile di concluderla partendo dal mondo, perch per ispiegare un effetto si deve assegnare una causa proporzionata, in altri termini non si deve attribuire a questa causa niente di pi di quanto richiede V effetto: ora il mondo non ci mostra che degli effetti limitati, imperfetti ; non si ha dunque alcuna ragione di concluderne una causa infinita, assolutamente perfetta. Dall'ordine, dalla finalit e dalla grandezza che troviamo nel mondo possiamo concluderne una causa saggia, buona, possente, ecc., ma non infinitamente saggia, infinitamente buona, in-finitamente possente, ecc. Per affermare che il mondo suppone un Dio dotato di questi ultimi attributi, cio un essere infinito, perfettissimo, come suo autore, bisognerebbe che noi conoscessimo che questo mondo  il pi grande*, di tutti gli effetti possibili, in altri termini che esso  il pi perfetto di tutti i mondi possibili. Ci importerebbe che noi avessimo comparato questo mondo con tutti i mondi possibili, e per conseguenza che conoscessimo tutti questi mondi possibili, cio che Kant Dialett. traseendent. l. 2. e. 3. sez. 6. Cfr. Mill Samrio sul teismo, 2. parte Gli attributi, e 1. parte Argom. della causa prima. u: o avessimo J' oniiiscieiiza. La verit di queste ol)])iezioiii di Hiiiiie e di Kant contro la creazione e 1' inli nit degli attributi divini  stata riconosciuta anche dai filosofi spiritualisti : essi ne hanno concluso che le prove induttive sono insutihcienti per dimostrare la divinit, e che la dimostrazioiu' deve essere completata per altri argomenti (iiuesti sarel)l)ero gli argomenti a priori ; noi abbiamo visto (;i) che la teologia naturale non pu fondarsi su (piesto genere di prove). La dottrina delP infinit degli attril)uti di Dio non solo non risulta dnll'osservazione del mondo, ma  anche incompatibile coi suoi dati pi evidenti. P^ssn lia dato luooo al problema insoliil)ile di conciliare l'esistenza del male con la bont e la })Otenza infinite del Creatore. Ha Dio la volont d'impcnlire il male, senza averne il })otere? egli dunque non  onnipotente. Ha il [)otere senza averne la volont? dun(jue manca di bont. Gli sforzi che si sono fatti per risolvere questo problema, non implicano solamente, diceMill, un'assoluta contraddizione al imnto di vista intellettuale, essi ci offrono con eccesso lo spettacolo rivoltante d'una difesa gesuitica di mostruosit morali . Tutti gli argomenti degli a])ologisti delle perfezioni infinite di Dio si riducono in sostanza o a sacrificare 1' onnipotenza per salvare la bont infinita, 0 a sacrificare la bont infinita per salvare l'onnipotenza. Ora si suppongono delle possibilit e delle im Huinc Sayyio 11. o, Dittloy/ii $nUa relig. ndturale \ \n\vU^,e Kant Crit. della ray. pura Dialctt. trascend. 1. 2. e. S. sex. (>. e 7. e Orit. della ray. pratira ijarte, L, 1. 2. e. 2. VII. \. .laiict Le cause ptuti, p;i^. 144-14;"), Paragr. 4. Saggio sul teismo, 2. parte. Gli attributi. Vedi aiiclu' Arili il sarove della filosofia teologica,  144 145 escluso anzi dalla principale di queste prove, cio quella delle cause finali. Lo stesso Paley, in ammirazione d'innanzi alla struttura sapiente dell' occhio, non pu impedirsi di farsi questa domanda naturale: Perch l'inventore di questa meravioliosa macchina (che  onnipotente) non ha dato agli animali la facolt di vedere senza impieg'are. questa complicazione di mezzi V E un punto su cui ha insistito particolarmente il xMill. Non (\ egli dice, andare tro[)po lungi dire che ogni indicazione di piano nel cosmos  una prova contro Tonnipotenza dell'essere che ha concepito il piano. In effetto, che s'intende per piano? L'invenzione: Tadattazione di mezzi ad un fine. Ma la necessit d' essere abile, d'impiegare dei mezzi,  una conseguenza della limitazione della potenza. Perch ricorrere a dei mezzi quando per ottenere lo scopo non si ha che a parlare?.... Quale saggezza si trover nella scelta dei mezzi, quando i mezzi non hanno altra efficacia che quella che tengono dalla volont di quello che li impiega, e quando la sua volont avrebbe potuto dotare altri mezzi della stessa efficacia?.... Dunque le prove della teologia naturale implicano nettamente che l'autore del cosmos, quando ha fatto la sua opera, subiva una limitazione, ch'egli era obbligato di piegarsi a delle condizioni indipendenti dalla sua volont, e di giungere ai suoi fini per delle disposizioni che queste condizioni comportavano >. In verit potrebbe dirsi contro il ragionamento di Mill che lo scopo del Creatore non era l'utilit, il risultato, dell' opera, ma 1' opera stessa ; che il bene dell' universo, l'oggetto ricercato nella creazione, non sono i fini a cui le cose sono adattate, ma 1' adattamento stesso, cio delle cose in cui vi ha della finalit, che manifestano Paloy Teolor/ia naturale) Saggio snl teismo, 2. i>arte. un piano, una coordinazione ingegnosa di mezzi ad un fine. Dio, secondo questo punto di vistM. avrebbe fatto l'arte per l'arte; san bbe la spiegazione estetica della creazione; Dio, come dice Eraclito, giocherebbe creando il mondo. Ma  (evidente che 1' umanit, presa in massa, non accetterebbe una tale spiegazione: essa non i)otrebbe vedervi che un' ironia verso la creazione e verso il creatore. Se 1' accettasse, alla difficolt evitata ne subentrerebbe un'altra, perch un Dio, per cui la creazione ' non fosse che un giuoco, l'uomo non lo troverebbe ne saggio n adorabile, e non lo chiamerebbe che per un'altra contraddizione V essere perfettissimo. Fra tutti gli attributi infiniti della divinit, oltre all'eternit (che, almeno in (juanto eternit ab ante,  una conseguenza logica del concetto di causa prima), non ve ne ha forse che un altro che possa riattaccarsi alle ragioni della filosofia teologica, cio la saggezza assoluta (in cui possiamo comprendere anche ronniscienza). Essa non  richiesta da una s[)iegazione teleologica del mondo, ma  una condizione perch questa spiegazione sia conjpleta ed esauriente, poich  chiaro che non ])otrebbe essere tale che nella suj)iosizione che i nuv/zi impiegati siano assolatamente i pi idonei ad ottenere gli scopi. L'attributo di cui possiamo renderci conto il meno di tutti, al punto di vista della teologia naturale,  l'onnipotenza: per vedere che quest'attributo non pu avere alcun rapporto con una spiegazione qualsiasi dei fenomeni (e quindi alcuna base filosofica), basta di riflettere che ad una causa supposta, perch la supposizione abbia un valore esplicativo qualunque, bisogna attribuire dei modi d' azione definiti, quelli che noi comprendiamo, e che per conseguenza possono farci comprendere il perch dei fenomeni che si tratta di spiegare. Ora evidentemente noi non possiano comprendere un modo d' azione di cui non ab10 bituno esperienza o che non imniaginiamo sui tipo di ci di cui abbiamo esperienza: cosi ad nna causa personale noi non possiamo attribuire (per ispiegare i fenomeni) che razione motrice, mentre la teologia trascendentale le aitribuisce indistintamente tutti i modi d'azione concepibili ed anche inconcepibili. Se nelle prove su cui  fondata la teologia naturale non troviamo alcuna base per l'infinit degli attributi divini,  invano che ricorreromiiio, per supplire a questo difetto, alle altre prove della divinitc che, senza essere dei motivi reali della filosofa teologica, sono tuttavia qnalche cosa di pi che semplici sofismi artificiali. L'aro-omento della causa prima, quand'anche se ne concludesse la creazione dal niente, non potrebbe servire di base alTonnipotenza perch una potenza che produce degli effetti che nessuna causa naturale potrebbe produrre, non  necessariamente una potenza illimitata ; meno ancora UT onniscienza, alla bont infinita, ecc., che non hanno il minimo rapporto con la capacit di prodarre anchv3 la materia. L'argomento cosmologico pu riguardarsi come un argomento iialiirale, sinch conclude all'esistenza di un essere necessario, quantunque per dimostrare che quest'essere necessario  un essere personale, uon possa servirsi che di sofismi artificiali. Si potrebbe per conseguenza credere di trovare un fondamento naturale all'idea di essere infinito o assoluto, se quest'idea avesse qualche legame con quella di essere necessario. Ma non possiamo ammettere la possibilit di alcun legame simile, poich in tal caso l' essere infinito sarebbe dimostrabile a priori (poich un essere necessario  quello la cui esistenza potrebbe dimostrarsi a priori) , mentre noi sappiamo che non vi ha alcuna V. ^ L la nota a 118. Cfr. 113. dimostrazione a priori dell'esistente. Kant afferma,  vero, che il passaggio dall' idea di essere necessario a quella di essere infinito  naturale al nostro spirito, (juantunque non vi sia fra le due idee alcun legame reale: ma in questo caso la proposizione Vessere necessario h un essere infinito dovrebbe sembrarci evidente per se stessa (perch ipiesto  il carattere dei sofismi naturali), mentre gli autori stessi che hanno impiegato r argomento cosmologico non hanno preteso che e^^sa sia tale, ma hanno cercato di dimostrarla. Tutte le altre prove della divinit, oltre le indicate, non essendo che dei sofismi interamente artificiali, noi giungiamo duniungere anche Kant, secondo cui l'idea deire??.s realissimut (cio dell' essere che racchiude oo*ni realt, ooui perfezione). (juantiuKiue ci sia impossibile di dimostrarne il valore obbiettivo,  data nella costitu/.ione stessa del nostro spirito, come un prodotto spontaneo delle legM^i della ra^'ione, derivante necessariamente dalla sua t'orma e indipendente da oo*ni esperienza. Ma il tatto prova che l'idea dell'essere infinito cio, in termini meno astratti, di Dio come dotato di perfezioni intinite luno- di essere un'idea innata, o una di (luelle a cui lo spirito umano  portato naturalmente e, per dir cos, di primo acchito. non  che il termine di arrivo di un lun^o pro^Tesso, i cui ^radi sono seg-nati nella storia relio'iosa dell'umanit, e che  consistito in un'esaltazione continua del concetto del divino, che andando da una sublimit a un'altra pi sublime, e accumulando suj)erlativi su superlativi, non ha trovato inhne un punto di fermata, che perch sarebbe assolutamente impossibile all'immaoinazione umana di oltrepassarlo. Anche (juando il su[)erlativo influito apparisce nell'evoluzione delle idee reli die gradatnm-n-e d:d livello del qro^Holmio (per usare la parola ricevuta) antropomoriismo dei popoli primitivi, come basta a provarlo la contraddizione tra ((uesti attributi e qtu^lh che eo-li ci mostra in azione nei miti che lo riguardano. Nel dualismo persiano abbiamo Ormuzd, // H(jnore onrmcimU, quantun(iue egli non sia il primo principio, e la limitazione della sua potenza per una potenza anta-onista sia il tratto caratteristico di questo sistema teolo-ieo; e un antico inno vedico attribuisce 1' onnivegii-enza e V onnipresenza a Varuna, che non  che unTdelle divinit che hanno acquistato un posto i)iu elevato tra o-H esseri sovrumani degli antichi Arii dell'India (li. Presso i Greci l'eternit o almeno l'immortalit-che  verisimilmente il primo degli attributi V Ahix-Miiller Ln scntzn dello reliulone, IV. Cfr. Gol>let d'Alviella IM'ien d Pio wr. *li esseri organizzati. e nel resto della natura nei suoi rapporti con essi, T uomo pu dunque concluderne un creatore, che ab)ia per iscopo l'esistenza e la durata i)er un certo tempo di (juesti esseri, ma non che questo creatore sia buono; perci dovrebbe attril)uirgli j)er iscopo, non la loro semplice esistenza, ma la loro felicit o la loro virt o qualsiasi altro oggetto, se ve ne ha, in cui gli uomini hanno fatto consistere il bene. E vero certamente che  una conse o-uenza naturale dell'amore istintivo della vita che l'uomo consideri la propria esistenza e quella dei suoi Suf/i/i snlti re/if/ionc. La iiatn-a. simili come un bene per se stessa. Ma non  ugualmente certo ch'egli consideri come tale anche l'esistenza d(M bruti ^ci che sarebbe necessario perch l' idea di un creatiu-e buono potesse essere suggerita dalla finalit degli esseri organizzati). (,)uest'esistenza, piuttosto, deve sembrare alla pi parte degli uomini, non solo senza valore, ma odiosa e miserabile, niente essendo pi naturale che 1' illusione di giudicare un modo di esistenza felice o infelice secondo che esso sarebbe per noi stessi un oggetto di desiderio o di avversione. Un'osservazioiui che non poteva sfuggire ai )rimi filosofi teoloo'ic-i la cui attenzione si fiss sui segni di i)iano negli esseri organizzati,  che una parte di questo piano  destinata alla lotta e alla distruzione reciproca. La sapienza della natura nel!" organizzazione d'un animale che lo rende pro])rio al regin\e carnivoro, non  meno ammirabile che in ipiella dell' occhio o dell' orecchio o di (lualsiasi altro degli esempi favoriti dei teleologisti. .Se o-rintestini d'un animale, dice Cuvier, sono organizzati hi maniera da non digerire che della carne e della carne recente, bisogna pure che le sue urnscelle siano costruite per divorare una preda ; le su(> zampe per prtmderla e Incerarla: i suoi denti per tagliarla e dividerla; il sistema intero dei suoi organi del movimento per cacciarla e raggiungerla: i suoi organi dei sensi per vederla da lontano ; bisogna anche che la natura abbia posto nel suo cervello l'istinto necessario per saper nascondersi e tcMulere delle pieghe alle sue vittinie Sotto iiueste condizioni generali ne esistono di particolari relative alla grandezza, alla specie, al soggiorno della preda, per cui l'animale  disposto ; e da ciascuna di (pieste condizioni particolari risultano delle modificazioni di dettaglio nelle forme che derivano dalle condizioni generali (l). Cuvier continua mostrando gli ^l)h^xalU' ricolnz. tirila super/. (h'I f/Ioho. ( Pi-iiicipio ilcllji ileteniiiuazioiM delle ossa fossili dv quadriiiuMli). adattaniemi infiniti in tutte le parti dell'organismo, che sono richiesti da queste condizioni del regime carnivoro. Non sarebbe una delle applicazioni meno forti dell' arg-omento fisico-teolog'ico: ma (lual  lo scopo di tutto ci se non di fare dell'animale un predone^ feroce e sang-uinario? L'idea del padre che  nei cieli  non , evidentemente, sugg-erita dallo spettacolo della natura organizzata: non sarebbe chiamato uu padr.), senza aggiungere dei termini della pi profonda riprovazione,un uomo che armasse i suoi figli gli uni contro gli altri, ordinando loro di farsi una guerra senza piet, e mettendolo come condizione alla loro esistenza. Se dall'organizzazione degli esseri animati si volesse concludere, non solo un piano intelligente, ma anche un'intenzione benevola. sembra che dovrebbe giungersi al concetto che tuttavia non si trova in alcun sistema teologico, ne popolare n filosofico di un creatore e una provvidenza differenti per ciascuna specie differen-te : il dio del gatto non potrebbe esserci quello del topo, il dio del lupo quello dell'agnello, ecc. L' antropocentrismo, cio il considerare che fa Tu .ino s stesso come il fine della creazione, lungi di potere spiegare 1' idea della bont del creatore, ha bisogno invece di esserne spiegato, perch  un punto di vista che. evidentemente, non potrebbe nascere dalla semplice osservazione dei fenomeni. Il Miil (i), quantunque non ammetta che l'unico o principale scopo del creatore abbia potuto essere la felicit dell'uomo e degli altri esseri viventi, pensa non per tanto che un indizio delle sue intenzioni benevole pare essere fornito dal fatto che il i)iacere  sembra il risultato del giuoco normale del meccanismo, mentre la pena nasce naturalmente dall'intervento di qualche oggetto esteriore nel giuoco del meccanismo, e Sdf/uio ani teismo, (ili jittrilmti. 155 sembra essere, in ciascun caso particolare, l'effetto d'un accidente. Ci mostrerebbe che l'autore del meccanismo ha voluto il piacere delle sue creature, mentre la pena non entrerebbe nel suo piano, ma sarebbe un risultato fortuito prodotto senza mezzi im|)iegati appositamente e senza intenzione. Ma contro questa conclusione vi ha un'obbiezione assai ovvia (che del resto non  sfuggita allo stesso Mill), cio che il piacere e la sofferenza stessi sono dei mezzi in vista dello scopo unico che ci sia possibile di attribuire alla natura, la conservazione dell'individuo e della specie. E evidente infatti che se il piacere non fosse legato alle azioni che tendono a conservare l'organismo, ma a quelle che tendono a distruggerlo, siccome  una legge naturale degli esseri senzienti di cercare il jjiacere e di fuggire la sofferenza, essi cercherebl)ero sistematicamente, n.on gli stati che tendono a conservarli, nia quelli che teiulono a distruggerli, e, per conseguenza, la loro specie non potrebbe sussistere, (^uest' obbiezione,  vero, suppone che questa legge per cui gli esseri senzienti cercano il i)iacere e fuggono la sofferenza, sia un fatto necessario e indipendente dalla volont del creatore, mentre invece potrebbe ammettersi che  anch' essa un caso di finalit, un adattamento per cui i Mill inaici! pure altri fatti c-lio sun; V'uWt. che il creatore ha voluto il piacere dvUv creature, cioi': che press(chc tutte le cose danne del ]uacer',' l'una specie o d'un'altra; che il semplice eser;r;ilili  pensare ad esso eome ]iaeevole.  una sola e stessa eosa. E desiiaeere ehe vi si le.ua. ' un'impossibilit tsi considera come tale, malgrado il suo empirismo e la su!i avversione alle verit necessarie. stato sociale e a una vittoria della coltura sugl'impulsi primitivi della natura umana. Il regno della giustizia liei mondo esigerebbe che la sorte che tocca a ciascuno fosse la conseguenza morale delle sue azioni:  ci che si verifica completamente nel sistema di Platone, in cui il carattere buono o cattivo di ciascun essere, il posto che gli  assegnato nel mondo, e tutti gli eventi che gli apporta la fortuna^ sono, in ciascuna delle vite che attraversa. la conseguenza delle sue vite anteriori ; e in parte nella religione cristiana, in cui le ingiustizie di (juesio mondo saranno compensate nell'altro, ma senza che il creatore possa es ;ere giustificato da una responsabilit che rende vana ogni altra giustificazione, cio la distribuzione ineguale della virt e del vizio in (piesta vita. Il fatto stesso che i filosofi teologici, per realizzare il regno della giustizia, trovano necessario di fare intervenire un'altra o altre vite, prova che essi non lo ve(h)no realizzato in (juesta, e che la loro idea della giustizia divina non  venuta dall'esperienza. Le ])asi induttive della filosofia teologica non danno diin(|ue alcun fondamento n alla bont n agli altri attributi morali della divinit. Vi ha appena bisogno di aggiungere che (juc^sto fondamento non potrebbe trovarsi nemmeno sia nel concetto della causa prima sia in (juello dell'essere necessario concluso dall' argomento cosmologico. Noi possiamo quindi concludere che, considerando la flosotia teologica come semplice sistema teorico, cio destinato a una maggiore intelligibilit dei fenomeni, non solo noi non possiamo spiegarci il concetto che Dio  l'infinito, cio che possiede tutte le perfezioni, o, come dice Locke, tutte le qualit che  pi rantaggioso di avere che di non av^rc, ad un grado infinito, ma nemmeno quello che egli possiede queste qualit ad un grado qualunque, salvo la potenza e l'intelligenza.  necessario dunque di considerare (jualche 158 altro lato della tiosofia teologica, senza di che questi concetti resterebbero incouprensibili. Nessuno potrebbe pretendere che la tlosoiia teologica, almeno nelle sue forme popolari che, del resto, hanno influito, pi o meno largamente, anche su quelle dei pensatori pi indipendenti -non sia che un puro prodotto delle facolt razionali dell'uomo, cio una dottrina rivolta unicamente a soddisfare V intelligenza, e che si comprende pienamente come una manifestazione delle tendenze metafsiche del nostro spirito.  evidente ch(* un'interpretazione dei fenomeni, fondata su queste tendenze, deve essere il sustrato delle religioni anche pi infantili perch i sentimenti e le pratiche relativi agli esseri soprannaturali suppongono gi la credenza ad esseri soprannaturali, ed  impossibile di non riconoscere in questa credenza, (jiiahimiue ipotesi si faccia sulle sue origini, uno dei casi defila tendenza generale dell'uomo, manifesta in tutta la storia del pensiero, ad assimilare a s stesso le forze della natura, e a trovare in (juest'assimilazione una spiegazione radicale dei f nomeni. Ma non  meno evidente che questi sentimenti e queste pratiche, una volta nati, dovevano necessariamente reagire sulle idee da cui si originavano, dando alle misteriose forze della natura, gi personificate, dei caratteri meno appropriati alla loro funzione di cause esplicative dei fenomeni, che a quelle di arbitri del destino umano e di esseri con cui l'uomo era posto in relazioni analoghe a quelle coi suoi simili, e che cercava di propiziarsi con mezzi egualmente analoghi. Non  difficile di comprendere come, in conseguenza di questo lato emozionale e pratico dei suoi rapporti con le potenze sovrannaturali, l' uomo finisca per attribuire ad esse, fra le qualit umane, quelle, e quelle sole, che  pi vantaggioso di avere che di non avere, cio eh' egli  org^oglioso di possedere e che loda nei suoi simili.  ir39 ovvio d'innnaginare le due cause che hanno contribuito sovratutto, se non unicamente, a questo risultato. L'una  l'idea, di cui nessuna  pi naturale al punto di vista antropomorfistico, che la lode, cos efficace per rendersi amici gli uomini, non lo sar meno per propiziarsi gli Dei. L' altra, V inclinazione*, innata a credere vero ci che si desidera. Sicconu^ le qualit che noi lodiaino sono, in generale, quelle che ci sono utili, sono esse che l'uomo desidera nei suoi dei, e che finisce quindi per loro attribuire. Queste stesse cause spiegherebbero pure il concetto dell'essere infinito o |)erfettissimo, cio 1' ingrandimento sino all'infinito di queste (jualit lodevoli che sono state attribuite alla divinit? E ci che parecchi hanno inclinato a pensare, o che potrebbe dednrsi da ci che altri hanno pensato. S. Girolamo chiama fatili adulatores quelli che attribuiscono a Dio l'onniscienza ; e, per non citare che i pi autorevoli,  cos, cio per l'adulazione della divinit, che Mill spiega l'attributo dell'onnipotenza , e Hume non sarebbe alieno dall 'ammettere questa stessa spiegazione per tutti gii attributi infiniti in generale. Da un' altra parte Kant sostiene, e, sembra, non senza ragione, che un autore lei mondo, (lotato d' a/na sovrana perfezione, non potrebbe essere dimostrato da nessuno degli argonu^nti teorici, ma solo dal suo argomento morale che prova Dio ])er la necessit di una causa che metta in armonia la felicit con la virt .Questa causa, egli dice, deve essere onnisciente, a fine di penetrare nelle mie pi secrete intenzioni in tutti i casi possibili e in tutti i tempi; onnipotente a fine di far toccare alla ma condotta le conseguenze che merita ; e Comment. hi Habac. cay. I. Suf/glo sul teismo, Conclusione. (8) Dialoyhi shUk relig, naturale, \nivtv XI.cos pure onnipresente, etema, ecc.. Siceoiiu; la i)rova morale di Kant non , come abbiamo notato, ehe la tendenza a credere vero ci che desideriamo messa sotto forma d'argomento, cosi, seg'uendo il suo j.ensiero, si -iuni;eRd)bo naturalmente alia conclusione clie V orio'ine'del concetto deirintinit degli attributi di Dio deve cercarsi precisamente in questa tendenza. Ma e evidente che, anche unendo queste due spieg'azioni 1' una air altra, non si avrel)be ancora una spieoazione sod disfacente, perch si escluderebbero senza ragione altri fattori che possono reclamare giustamente la loro parte nel risultato. Non vi ha, si pu dire, alcun elemento, in questo rapporto ideale cl)e lega l'uomo coi suoi dei, che non lo s[)inga ad esaltare semi)re di pi learabile della potenza a cui si sente sottomesso; il terrore inspirate da questa potenza, misteriosa in se stessa altrettanto che nei suoi liniti; lamore, la venerazione, Tanunirazione; tutti i sentinuMiti che entrano in (luesto complesso che chiamiamo il sentimento religioso; coopereranno con la speranza di propiziarseli rendendo loro gli onori pi sul limi e il timore di offenderli formandosene un concetto non abbastanza elevato, e col desiderio che i suoi sovrani e protettori siano tali da poter dargli tutto ci a cui egli aspira, da una caccia abbondante alla giustizia assoluta nell'universo. Il risultato tinaie sar necessariamente, come abbiamo osservato, che tutti gli attributi della divinit saranno elevati sino al grado massimo che sia possibile di concepire, cio sino airinfinito o all'assoluto. Gli stessi attributi che per se stessi uon sarebbero una perfezione e un'eccellenza, lo divengono per ci solo che sono attributi della divinit: Crii, della rmj. /uut. 1. iarto. 1. L>. e. 2. VII. quindi devono essere innalzati come gli altri al grado supremo, cio devono essere concepiti anch' essi come infiniti ed assoluti. Cos la semplicit, essendo un attributo di Dio (oltre che  il distintivo dello spirito, che  pi nobile della materia), deve essere necessariamente una perfezione: i)er conseguenza anche la semplicit di Dio  infinita o assoluta (con tutti i non sensi che, come abbiamo visto, implica (juesto concetto). A questo punto il filosofo prender rutti questi attributi infiniti "'li ven:ono trasmessi dal teologo, e ne estrarr la sua formula pretenziosa che Dio  l'infinito o l'assoluto.  la sola parte che spetta al filosofo in questa (daborazione dell'idea dell'assoluto. Se per metafisiccf intendiamo le dottrine che derivano dalle illusioni naturali o sofismi a priori ddii wostra intelligenza (ci che solo ci permette di riunire in un' idea unica dei fatti aventi in comune dei caratteri definiti e risultanti da uno stesso processo dello spirito umano), il concetto dell'assoluto, nel senso in cui io prendiamo qui, non , bisogna confessarlo, un concetto metafisico. Ma se non lo  in se stesso, lo  certamente in una sua applicazione, con cui si cerca di attenuare il mistero, che, in conseguenza di questo concetto stesso, ha inviluppato il rapporto tra Dio e il mondo. Dio, dicono i filosofi teologici moderni,  l'omnitudo realitatis: egli possiede al pi alto grado tutta la realt e tutte le perfezioni di tutte le co^e, e 1' essere e le perfezioni delle creature non sono che delle i^ar^ecipazioni limitate dell'essere e delle perfezioni infinite del creatore. Cosi tutte le cose preesistono in un certo modo in Dio, perch ogni perfezione di qualsiasi creatura preesiste ed  contenuta in Dio, quantunque non nella sua realt difettiva, ma eminentemente. Eia dottrina espressa nei celebri versi di Dante: Nel suo profondo vidi (die s'iuterua. Legato con amore in un volume, Ci che per l'universo 8 squaderna. 11 1(^2 Storieameiite, ({uesta dottrina  il risultato di uno dei tentativi dello spirito eclettico, ripetuti nella storia della filosofia, d' innestare la dottrina j)latonica delle hktv. nel sistema teolo'ieo. 1/ ovtoj^ ov, il iravTcXcr ov di Platone, cio le Idee, in rui si riassumeva la realt di tutti li'li esseri fenomenali, e che erano ri"ente da cui il concetto di causa efficiente e le sue diverse applicazioni, e noi ])ossiamo per conseguenza riguardarlo a buon dritto come un vero concetto metafisico. La sua applicazione alla creazione dal niente  certamente una delle meno naturali e delle meno intellio-ibili che sia possibile di fariKi: ma ci importa che noi possiamo considerare questa dottrina come metafisica a un doppio punto di vista, vale a dire in quanto deriva dalle il/ Cfr. v^ t.. l;i nota a \nv^. IV.K lusioni naturali del nostro spirito, e in (guanto  una di quelle idee o pretese idee trascendenti che caratterizzano la metafisica, cio che noi dichiariamo nettamente inconcepibili, ma che il metafisico pretende che si possono pensare, (quantunque non si possano iin.mcuf filare. ^ (). La distinzione [)iii ovvia tra i diversi sistemi teolo^'ici (almeno tra quelli che ammettono, d'una maniera pi o meno ri^'orosa, il j)rincit)ro dell* unit di Dio)  (juella del (lualisno e del panteisito. Questi due ti[)i generali della filosofia teolog'ica (i)ervenuta al li'rado di dottriiia scientifica), alla loro volta, presentano ciascuno una distinzione. ion meno importante, cio ndo stesso, V ordine, le cause finali, non avrebbero, in (juest' ij)otesi, una spieg'azione altrettanto soddisfacente che l origine del movimento. In effetto la spiegazione teleologica non ha per tipo l'attivit che noi esercitiamo sul nostro proprio corpo, ma quella che esercitiamo sul mondo esteriore: l'artefice non pu essere la sua opera, il demiurgo del mondo deve essere distinto e separato dal mondo stesso. E ci che si verifica nella dottrina dei filosofi antichi dell' anima nel mondo: essa spiega i movimenti spontanei dell'universo, facendo di (juesto un tutto vivente e animato; e spiega pure il suo ordine o la sua finalit, facendo della sua anima un essere distinto ed esistente per se stesso, che ag'isce sul suo corpo come noi agiamo sui corpi esteriori. Questa dualit di un'anima e di un corpo dell'universo esiste anche nei sistemi panteisti : la differenza  che, mentre nei sistemi dualisti l'anima e il corpo sono coeterni, nei sistemi panteisti il corpo  proceduto dalT anima, questa essendo identificata con l'elemento materiale primitivo, da cui tutti gli altri (costituenti il corpo del mondo) si fanno nascere per una trasformazione successiva. Questo panteismo  fondato cos su due concetti, che la scienza e la filosofia moderna hanno abbandonati, ma i pi familiari all'antichit: la materialit dell'anima, che  la forma primitiva dell' animismo ; e la convertibilit reciproca degli elementi materiali, riguardati come delle forme diverse rivestite successivamente da una stessa sostanza. Per questa estensione all'universo dei concetti sull'uomo, che costituisce 1' essenza della filosofa teologica, l'anima divina del mondo  riguardata anch'essa come materiale; tra i diversi elementi materiali, essa  identificata con quello che sembra il pi attivo di tutti, e di questo si fa lo stato originale di tutta la materia, in modo che sia al tempo stesso il materiale con cui il mondo  stato costruito e il principio demiurgico che lo ha costruito. Le osservazioni precedenti si applicano della maniera pi esatta alla filosofia teologica dei Greci. Noi abbiamo il tipo del dualismo antico nei sistemi di Anassagora, di Platone e di Aristotile: nel vn 2^ abbiamo gi osservato che in questi sistemi, come in tutti gli altri, Dio  l'anima del mondo, cio un principio il cui ra])porto con l' universo  assimilato a quello dell' anima umana col corpo umano. Lo stoicismo e i sistemi affini ci danno il tipo del panteismo antico. Il mondo, dicono gli Stoici,  un essere vivente di cui Dio  l'anima . Dio  la Mente dell' universo , la Provvidenza che governa il mondo , il VO'JC o il X^og che penetra ogni cosa , ed  il principio motore e ordinatore del tutto (o). Il mondo somiglia all' uomo, e la Philod. De /fietaf. e. 11. Seuccji Nat. qu, prol., IH. Philod. De pletat,, v. 11, Dioj,'. VII. 138. Diogene VII. 138, Cleanth. Hymn. in Jov. v. 12-13 M., wa-. V. 2. pao. 0.5 e 3. pa-'. 84. Provvidenza airaniina umana. Neil' uomo, T anima  un soffio ealdo, diffuso in tutto l' or, (IsdciM) ////>/>. et PIat, Piar. III. 1, Phit. Piar. S. vw. i'A) Diog-, Vi IHS. AthoiiJijLJ. e. (') V. St)b. /. I. ;5JH, Neiiies. Xaf. hom. p. 1()4 (Ed. Math.). ecc. Cfr. ^S 2. pai. 65 e 5i). (7) V. Otjereau Sist. filos. (let/li Stoici ]. 68 v 72. (K) Diujii. Vii. 156, Plut. Piar. ph. 1. I. VII. 17. I 'i grande anno, da un altro riassorbinn^ito nel fuoco, e cosi di seguito all' infinito, in modo che V eternit si compone di un'alternanza, sempre riproducentesi, di due stati successivi, V uno ii cui non esiste che Dio solo, e l'altro in cui, oltre a Dio, esiste un mondo, cio un corpo di cui Dio  l'anima (l). La parte razionale dell'anima umana non , come 1(5 altre cose, una trasformazione della sostanza di Dio, ma una ])arte della sua pura essenza, una scintilla del fuoco divino. (^uantunciue per gli Stoici Dio non sia propriamente che l'anima del mondo, essi chiamano Dio anche il mondo stesso, cio il tutto costituito dall' anima e dal corjo. Questa deificazione degli oggetti stessi per una estensione del carattere divino attribuito originariamente allo spirito che li anima, non ha niente di sor})rendente, e si osserva anche nelle religioni popolari.  cosi p. e. che gl'Indiani dell'America del Nord adorano il cielo, quantunque il vero oggetto della loro adorazione non sia, almeno originariamente, il cielo stesso, ma V Oki, cio la divinit o il demone, che risiede nel cielo (8). Lo stesso dualismo che negli Stoici, e fondato suo'ii stessi concetti, troviamo negli antichi fisici che hanno costruito una nn^tafisica teologica in forma |)anteistica. Il [)rincipio da cui essi i)artono  che 1' anima cosmica  disila stessa natura che l'anima umana, ed  costituita, come questa, dall'elemento materiale pi sot-, da cui tutti gli altri provengono per una condensazione progressiva. Sembrano credere, dice Aristotile, che il fuoco o l'aria siano animati, perch il tutto deve essere della stessa natura che le i)arti 4). Ci vuol dire V. OiifH-ejiu j). TiS (* 6r)-7(). Eiisch. Pvep. ec. XV. 15. 5. (Mcaiith. /rymn. in Joc. v. 4. M., Sencra A>.. 66, 12. Epict. Diss.. I. 14, 6. ei^-. (8) V. Tyh)r di', prim.. cap. XVI. Cfr. t^S 1. p. 47. De un. 1. 1. V. 21 '-SK9K 168 che, secoiulo essi, l'anima non potrebbe trovarsi nelle parti, cio neiili esseri viventi, se non si trovasse pure nel tutto, da cui la ricevono, come ne ricevono jili altri elementi che li costituiscono. Cos Aristotile continua alludendo alla loro oj)inione che g*li esseri divengono animati ])vv comprendersi in loro (jualche cosa del r TTcfy'.syov, cio delPambiente, o dell'atmosfera. Secondo Dioo(Mu d'Apollonia, una |)rova che 1' intelligenza ap])artiene al primo j)rinci))i() di tutt(i le cose, cio all'aria,  che gli animali vivono per il respiro, da cui proviene ad essi 1" anima e Tintelligenza. L' aria, per lui,  ci fhe il fuoco per gli Stoici, la sostanza primordiale di cui le cose sono state fatte, jier la sua trasformazione parziale negli altri elementi della materia, e la })otenza demiurgica che le Im fatte. Nel nunido attuale, (juest'aria intelligente regge e governa tutte le cose, penetrando dapertutto, in modo che non vi ha alcuna cosa che non ne ])artecipi (8): la sua intelligenza spiega perch tutto nel mondo avvenga con misura, |). e. le, stagioni, e ogni cosa vi sia ordinata della maniera pi bella che sia possibile. L'anima di tutti gli animali  aria:  per essa che vivono e sentono, e da essa ricevono la loro intelligcMiza. T/ aria per Diogene d' A})ollonia -come i)er tutti i fisici che ammettono un solo ])rincipio il nome che essi danno a questo i)rinci[)io -ha due significati distinti: quando egli dice che tutto  aria, (|uesta parola designa la sostanza comune di tuttci le cose, che egli identifica, come gli altri fisici unizzanti, con T elemento primitivo, ri (MV. Platone Fiirho 2! n-'M) h. (21 Fr. r>. Mullach. (H) /V. (i. Mullacli. Fr. 4. . (.">) Fr. /. I. 58.  ',"li costruisce tutto il resto '2) nella sua fisica l'aria e il fuoco non sono due elementi distinti, come nella tisica posteriore, ma un solo e stesso elemento . Per quest'anima biso^-na intendere il principio animico, cio la sostanza che  la sorerente della vita e il sustrato della coscienza, tanto nell' uomo e negli esseri animati in generale, (|uanto nel mondo, considerato anch'esso come un'essere animato (8). La nostra anima  IMul. Pine. IV. li. NMiirs. Xat. hom. v. 2. p. '2S. Tcixlorrto t. IV. pnu. ^he attenuare che Eraclito lia parlato li niraninia oco in-ima (/>r (ui. 1. I. e. H. 10-11, in eni dice er Eraclito l'anima ^ fuoco): secondo ([uesti luoghi infatti Eraclit) lia identiticato i' anima col i>rimo i)rincii>io (iot^ con tutto il fuoco esistente nell'universo), imn ha detto Bemidicemente ch'essa ^ forniata della sostanza cli'egli rijuarda della stessa essenza che quella dell'universo , ne  una particella staccata dal tutto : la ragione ci viene dall' atmosfera, da cui la prendiamo per la respirazione (8). L'anima deg'li esseri viventi essendo fuoco, e il fuoco esteriore essendo l'anima cosmica, fuoco ed anima sono per P>ficlito dei termini equivalenti, e per descrivere la conversione reciproca degii elementi, dice: le anime si trasformano in acqua, e 1' acqua in terra; dalla terra viene l'acqua, e dairaccjua l'anima. L'equivalenza tra fuoco ed anima si vede pure nelTespressione la regione del brillante Giove  (per denotare il mezzod, la regione della luce), e nella proposizione che 'artenere evidentemente che ad Eraclito, (.'he ({uesti ha ammesso un' anima cosmica e V ha identiticato col fuoco LyOV (cio l'atmosfera) e dotato di j"a.;ione. Plut. Plae. IV. 3. Xemes. Xai . hom. e. 2. j). 2S. Teodor. t. 4. p. S22. Plut. De /s. 7). Sesto 3fath. VII. l. e. Vili. 2SJ). Teolor. 1. e.  le proi>osizioni di Eraclito sull'identit fra .^di Dei e .uli uomini (v. Mullach Fr. iVl e auiiotaz.) e sul cammino delle anime nella via verso l'alto e ) Fr. 50 M. 172 17H i si serve altrove per l'anima umana, dicendo che questa va volando per il corpo come il fulmine per le nubi) . Per questa diffusione'dell'anima nell'universo e la sua distinzione dall' universo stesso. Eraclito pu dire che tutto  pieno di anime e di dei . una pluralit d' ipostasi divine non essendo incompatil>ile, come vediamo in tutte le dottrine antiche, con l' unit dell'anima cosmica (H). Fr. 71 M. Bisojiiia (M>iit'n>itiii-c le in-(p(>si/ienetrando da per tutti, jx-reh  l'cdemento iin sottile e pii vedo 'e: cos esso  ei per e ni si jicncrano tutte le cose oenerate. e in una ]arola la causa (Platone Cratilo \V1 d-ti:> a). Secondo le comezimii semimaterialiste sull'anima di [uasi tutti i tilos(tl antichi, l'anima cosmica non potrebbe a-ire sulla materia (he ier contiguit e per impulsione, come un corpi su altri corpi. Il Zeler (Fios. dei Greci 1. voi.. 4. ed.. pa,n. 591) d inopportunamente questo luogo del Cratilo come una prova della dottrina di Eraclito che il fiUKo ' l'essenza universale e la sostnnza di tutte le eose: invece esso  evidentemente un'altra testimonianza in favore del dualismo di iiuesto tilosofo. il fuoco di eui (ini si trjitta essendo una sostanza particolare. rLiuarilata come il princi]>ii attivo e foiniatore ilell' uni verso. Diog. 1\. 7 e Arist. De part. aniiud. l. l. e. V. (Didot 227). (S) Alcuni esi)ositori dei tilosot di cui abbiamo parlato, cerato e [)ersonale. Et>li  vede ]}ic(*. faine v saziet  ecc. \. jmt ([lU'sta )r(>iM>sizi(iie Aipenl. e. 1. vN r>. 1. XX XIX. (^ui per Dio iioii si pu iiiteiideie clic il mondo st'sso. o piuttosto la sostanza n(lo. clic rivestendo ontinuanK'nte t'oruie contrarie, resta semine identica a se stesmh). In altro e((uivoco che pu dar Iuo'o a umi tale interpretazione e quello occasionato dall'ainluLiiiit dei termine fuoco e siuJMiimi (diMiotanti ora la materia comune li tutte le cose e ora questa forma particolare della mat'ria clic Israelite ideiititea con la divinit). 11 Z(dler cade [iialclie V(dta in quest'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis], p. e. interpn-tandi il Fr. 4S Mullacli (Clii imo nascondersi . dice Kra(dito. dal fuoco  attrilmisce T onni\ eo^cnza non pu ess4'i- ;1 scambi incessanti tra le parti di (pu'sto fuoco e jjli altri elementi didla materia. pere li Kijudito non potreldx' parlare dedla sua permanenza. come noi parliamo. malgrado dejsli .scami materiali analoulii. dcdla permanenza l)ero una tale identitieazi(ue: ma si tratta evidentemente di semplici traslati. ( lie nessuno oserebl)e di prendere strettamente alla lettera, l*. e. Kra(dito (diiama Zeus il TTOAeji.O^ (l;j ouerra). cio qu(^sta (q>poriizione mutua d(dle cose, (questo passai;iiio continuo da un contrario all'altro, che  secondo lui la legiic universale^ e fondamentale della natura (V. Append. e. 1. ^ .>.). 3Ia  chiaro che il ^OASjJwOC qui desijiiia, non la lo (he noi attermiamo  appunto ( lu^ il panteisim di Eraclito (^ di ([nasi tutti i pant(dsti anti(dii mni differisce dal t(dsmo, (die per(di Dio  identificato con la forma primordiale della materia. di cui tutte le altre sono (bdle trasf(rniazi(uii. Framm. 2. Mullach. 76 rere una concezione non lueno naturale, anzi pi forse, che la concozio.u. dualista, che oppone l'anima del mondo al mondo stesso come una sostanza .list.nta e separata. Non  strano tuttavia che la concezione dominante ia stata la secon.la, la dualit che essa introduce nelluniverso, presentandosi, della maniera pili ovvia, come una conseo-uenza della dualit analoga che la teoria animista ammette nell'uomo e neoli altri esseri viventi, e onesta teoria essendo i'accon.pa-namento quasi invariabile della filosofia teologica. E verisimile che lo s.esso Xenofane non si sarebbe allontanato dal punto di vista ordinario, se le basi del suo sistema fossero state unicamente quelle della filosofia teologica. Il dualismo in questo filosofo sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale della scuola eleatica, di cui fu l'iniziatore, cio I-unit e l'immutabilit della sostanza. Da per tutto dove rivoloe i suoi sguardi, Xenofane vede risolversi tutte cose in una sola e stessa essenza, sempre identica a se stessa (l). Una delle applicazioni pi ovvie di questo principio, che, sviluppato in tutto il suo rigore conduceva alla negazione della realt della molUphct e del cau-i amento, era la soppressione della differenza fra il cosciente e il non cosciente, la sostanza unica che circola in tutti gli esseri non potendo passare dall'uno all'altro di questi due stati senza il cangiamento pi radicale nella sua essenza. Il monismo di Xenotane non nasce dunque al punto di vista della spiegazione teoloo-ica: ci  tanto vero che nei suoi successori ritroviamo lo stesso monismo, ma senz'alcuna mescolanza d'idee teologiche . Gli stessi tipi di panteismo e di dualismo che troviamo nella filosofia greca, ritroviamo pure in sostanza Sesti! Eiripirieo Pyirh. 1. 224. Cfr. Appena, e. 1 ^ 6. nella filosofia indiana. Dio  in generale, pei filosofi indiani come pei filosofi greci. V anima del inondo ; e il priiicii)io materiale, anche secondo i primi,  eterno e primitivo come il principio spirituale, sia che questo s'identifichi con la forma primordiale della materia (sistemi panteisti), sia che si facciano dello spirito e della materia due esistenze distinte ed egualmente primordiali (sistemi dualisti). Nel mnkhya t(!ista (sistema di Patandjnli) si amiimttti uiranima sui)rema, Dio, coeterno al principio materiale (Prakriti), ed ordinatore del mondo {!). Il iii/ai/a e il cuii^eaika ammettono l'eternit deir anima e degli atomi: quella  il principio motore e ordinatore degli elementi materiali. Questi sistemi rappresentano il dualismo, e corrispondono, tra i sistemi greci, a quelli di Anassagora, di Platone (^ di Aristotile : il panteismo, corrisfiondente ai sistemi degli Stoici e dei finici loro j)redecessori,  rappresentato dal sistema vedantino, che  la tlo.sota ortodossa de"rindiani. ScH-ondo i Vedaiitini, Dio  al tempo stesso la causa efficiente e la causa materiale dell' universo : nella loro cosmo^ii'onia, come in quella dei filosofi teolog'ici greci per cui il principio divino, cio s{)irituale, non  originariamente distinto dal principio materiale, le cose vengono per una trasformazione di sostanza, non per una ereazione assoluta, dalla sostanza divina . Dio , rispetto all' universo, come un vasellaio V. 2. p. r)fi.()7. V. C()le>r. Filoa, deffV fnd. tviid. trMiic di Pauthirnliiti vasi sono fatti. P>rahnia ha prodotto il mondo })er una trast'onnazione di una parte del suo essere, simile a (|ueila elie subisce il latte per cano-iarsi in latte ea^-liato, e l'acqua per cangiarsi in ghiaccio . Alla dissoluzione del mondo ali elementi rientrano Tuno nell'altro neirordiiu' inverso a (juello in cui al principio sono usciti l'uno dalTaltro (per la volont di 15rahnia), tiiudi tutto sia riassorbito nella causa suprema e infinitamente sottile, che  l'rahma. l'anima universale {i). ^>uesto movimento alternativo, per cui lrahma emette da se il mondo e poi lo fa rientrare nella sua propi-ia sostanza. lon ha cominciamento ne fine: la ndo (la //o//r to il I (Nih'l)!-. I. 2SS. Koniuiiul Sftftii 'li fi/os. ituf. in I^rr. philos. l. .'). p. hi7 e. CoJt'H'ookr p. 17s. (o) KrjiiiHiul in ffcr. fthif. t. 5. p.  ('oI'l>rook(' p. ISO. V. Colrlnnuk 1. H7. 17s. VMK 2SS. (51 I\'iiiiaini in Nrr. phil. t. fi. p. 171. 179 l'espressione esatta della loro propria dottrina nella proposizione dei Vedantini, secondo cui le anime individuali, rapporto all' anima universale, sono conu^ delle scintille che escono da un braciere e vi rientrano . Senza dubbio il sistema vedantino , in un senso, un monismo riko p. 1S()-1S2. \\\\\-2m. (.2) V. r. 1. v\ S. 180 vedere altra cosa che dei prodotti naturali di uno stadio inferiore della coltura. I due primi invece devono considerarsi come le condizioni t^'enerali di ogni filosofa teologica che abbia di mira sovratutto la spiegazione dei fenomeni. La distinzione e opposizione tra Dio e il mondo, come abbiamo notato, oltre ad essere una conseguenza logica della teoria animista,  l'idea pi naturale al })unto di vista teleologico, che assimila il rapporto fra Dio e il mondo a piello fra un artefice e la sua opera. L' eternit e primitivit, della materia  il presupposto ili qualsiasi spiegazione che la filosotia teologica possa dare dei fenomeni, poich essa non potri^bbe consistere in altro che in un'assimilazione delTattivit produttrice dei fenomeni all'attivit umana, e (jiiesta suppone una materia preesistente, su cui possa esercitarsi movcMidola o altrimenti modifcamlola. Nel paragrafo precedente abbiamo i^i osservato che la creazione della materia non pu concludersi dalie prove reali del teismo, corrispondenti alle du(^ funzioni della divinit come principio esplicativo (Un fenonuMii, cio come causa motrice e ordinatrice. Da tutto ci seguirebbe poich i principii su cui si fonda il panteismo antico sono leo-ati, come abbiamo detto, a uno stadio inferiore della cultura che la forma naturale Iella filosofa tipologica, appro[)riata a tutti i gradi dello sviluppo dello spirito umano, sarebbe un dualismo conie quello che Sluart-Mill deduce dalle prove del teismo, cio un sistema che ammetterebbe due princi[)ii coeterni ed egualmente primitivi, Dio e la materia. Tuttavia la filosofia teoloirica moderna non si conforma (juasi mai a (|uesto tipo. Dualisti e panteisti, meno (jualche eccezione isolata, sono d'accordo sul principio che non vi ha altro essere primitivo che Dio (concepito come immateriale), e che la materia ne deriva. I dualisti, (juando rigettano il dogma della creazione, non negano perci la creazione e,r nihilo, ma solanu^ite la creazione nel tempo. I panteisti negano la creazione ex nitilo, ma, ad eccezione del solo Spinoza che, come i panteisti antichi, fa dello spirito e della materia du(^ attributi, egualmente primitivi, delTessere divino non nea-ano che la materia deriva da Dio, cercano solamente un altro liodo di derivazione. Senza dubbio il concetto della derivazione della materia da Dio  |)i proprio a unrt si)iegazione teologica assolutamente universale che luello della materia ceterna a Dio ed egualmente primitiva. Quest' ultimo non  compatibile con una tale spiegazione che a due condizioni: 1' una, che si ammetta che il cosmos. il mondo ordinato, ha avuto un cominciamento: e 1" altra che si tolga alla materia qualsiasi attivit, e si faccia di Dio l'agente universale, come nel sistema delle cause occasionali, in cui, <|uando un corpo ne urta un altro,  Dio che, all'occasione deir urto, produce il movimento del corpo urtato. Al contrario il concetto che la materia deriva da Dio rende possibile un' applicazione universale della spiegazione teologica, anche ammettendo, come facevano molti filosofi antichi b(', iiciiiineiio per un nionieiito, dare riliusione di avere una spieazione reale, cio che renda veramente pi comprensibile il fatto si)iei>-ato. Per ei l)isoi:iuM*(^bl)e ciie la produzione della mat(5ria non tosse, come  nel tatto, assolutamente iin*on])reiisibile. Noi non dobbiamo dun(|U(' esitare ad affermare clie il concetto della derivazione della materia da Dio non hapotuto esser nato al punto di vista della spieuazoin. dei fenomeni, e che i motivi della filosofia teolot>-ica, come filosofia, cio come interpretazione razionale d(n fatti, non potrebbero rendere conto della sua oriii'ine. Ci  evidente |)er la dottrina della creazione e.r ii/iilo. Essa all'origine non  stata stabilita a titolo di dottrina filosofica, ma di doirma. di -Liiar(^ la credenza su arii'omenti razionali, ma questi non sono tali da |)oter essere riguardati conn* dei motivi reali della credenza stessa. Il solo che dobbiamo pr(md(M'e in consid(M*azione  (lUello che conclude alla necessit di un'origine delTuniverso per Timpossibilit logica di una durata infiiita nel passato. Ma, come abbiamo visto, questa im]>ossibilit log'ica non  evitata che sostituendovene un altra pi evidente, cio l'idea inintelligMbile che la durata infinita di Dio non  una durata, ma un eterno presente, un istante indivisibile. Il motivo reale della dottrina della creazione e.j' niliUo lo abbiamo indicato nel ])arag'rafo precedente:  Tapplicazione alla efficienza causale della divinit del conc(tto dell'infinito o dell'assoluto (:^), concetto che, conn^. abbiamo spiegato, non V ^^ t. paj-. Ulil. M r Isa deriva dalFelemento filosofico della teologia naturale, ma dal suo elemento |)uramente religioso, cio emozionale e pratico. Il j)anteismo moderno nasce ordinariamente per oj)posizi(nie alla dottrina della creazione e,r' vihUo, Si  detto che la base del panteismo  il in'inci|)io che dal niente niente si fa. In verit questo j)rincii>io non i)u essere la base del panteismo in generale, poich |>er concluderne il panteismo piuttosto che il duulismo, occorre evidentemente tma seconda j)remessa:  il princiino, che i panteisti antichi igicn-axano e che Spinoza non ammette, ma che  annnesso dalla parte dei panteisti moderni, che la materia non  un essere primitivo, na deriva da Dio. Negando la dottrina della creazione e.r iHiiln (ci che in sostanza  il significato del principio che dal niente niente si fa), ma ammettendo con essa che la materia deriva da Dio. alla incomprensibilit della creazione c.r iihilo il panteismo moderno non i)u che soslitnire altre incomprensibilit. La foriiula geneiale in cui |mi riassumersi (juesto panteismo, fondato sulla negazione della creazione r.r nhilo e al tempo stesso suU'aflermazione che la materia deriva da Dio,  che Dio (concepito come immateriale)  la sostanza unica, e le cose non ne sono che dei modi di essere. Il rappoi-to tra Dio e le cose, pi-.conseguenza, sarebbe (juello fra la sostanza e i suoi modi di essere: cos Dio, ci-eando le cose, non creerebbe delle sostanze (conn nella dottrina della creazione (^.r fihilo), ma farebbe euKu-gere dalla sua sostanza dei modi di essere di (piesta sostanza stessa. \\\ osti che uli accidenti. cio i modi di essere. Il ^i'ilive im-onveniente di (juesta dottrina  di realizzare ci che mm  secondo essa che un'astrazione. Dio in questa forma di panteismo non l)u essere che osianza delle cose. essa ne fa necessariamente un indeterminato reale, un' astrazione realizzata. 1/ esenijMo |iii illustre di (juesto tipo di pnnteismo  il sistema di (Giordano lirum. Dio. seciuido il J)runo,  la sostanza unica o, com'egli lo chiamn. 1 [Jno. che  ci che resta di costante in tutti i cangiamenti dell'universo, e ci che \'i ha d'identico in tutti i:!i esscjri differenti. Tutto ci che noi \'ediamo di differente lU'U'Ii o*^\U'etti non . ei:li dice. ch.e un diverso volto di una nuMlesima sostanza, \'olto labile, mobile e corruttibile di un immobile, |)erseverante eil eterno essere. L' [''no  il punto di coincidenza di tutte le opp(Ksizioni: india sua essenza semplicissima s'identificano tutte le contrariet e tutte le difterenze delle cose. Esso  in un modo 185 implicito tutto ci che le cose sono in un modo esjdicito: tutto ci che nell'universo esiste^ disperso e distinto,  unitamente e indifferentemente nellTno ; Dio  tutto, ma tutto in lui  il medesimo, senza differenza e senza distinzione. Dio  indifferentcMnente materia, torma, anima, ecc., ma senza essere per se stesso u materia u forma u anima, ecc.: (\'1  la radice comune della sostanza sjurituale e della cor|)orale, dcdla formai e dcdla materia, (h-c.. e le contiene iiulistintamente. come lo spazio le fiiiiire che lo circoscrivom ('2), E evidente che (jUcsto Dio non  che l'astrazione suprema considerata come la su[)reina realt. LTno  il fondo immobile (^ da jx^r tutto identico, alla cui su])erlicie si disei>-nano tutti i canuiamenti e tutte le difterenze de^'li esseri: Bruno b conc(?pisce dumjue come un indeterminato, di cui tutti (juesti cnnuiamenti e tutte (jueste differenze sono delle determinazioni variabili e divergenti. Quest' indeterminato. separatamente dalle sue determinazioni. non potreb)e esserci per noi che un' astrazione mentale: ea"li ne fa un essere; reale ed una j)ersona. identilicaiidolo con 1' int(dliu-enza suprema {V intcUetto che e fftttn) (o). e dandoi>'!i tutti adi attributi che la filosofia teolo^dca nu)derna attri))uisce alla divinit. Mn non vi ha forse sistema panteista in cui (piesta realizzazione di una semplice astrazione sia cosi evidente come in (juello del tlosofo siciliano Vincenzo Miceli. Il Miceli riiJ'uarda come sostanza del mondo la prima persona della Trinit, eh" e. V. /fr la musa, ftruiri/tio rf innt 4 e 2S(). (H) V. Del jiiiiic, ('(Ufsa ri mio. '1. dialoiio. |a,u. -')>). 18(j seeaiiientc considerata. Il reale  una t'orza sempre attiva, un essere vivente (ens rtvun), la cui essenza consisre in una continua mutazione di stato . In essobiso,i-na distint>uere due elennniti, o piuttosto due iati, l'uno estrins(H*o, che  (jueilo ciie percepiscono i sensi, e l'altro intrinseco, die non  accessibile che all'intelligenza. 1/ intrinseco  Dio stesso, cio la sostanza, l'estrinseco il mondo, cio i modi di essere. La distinzione tra l'intrinseco e l'estrinseco, tra Dio e il mondo, eipiivale a (|uella tra il costante e il variabile. Di -na imma,i>"inare che neir F'.ssere vivo vi siano . e Di (Jioviimii Fraonn. di filos. tnievliana ih'IIm rivistsi i-itata, spcf'ialrncnt' f:'na distin^'uere l'intrinseco e l'estrinseco: nell'estrinseco t\ssa  sem])re diversa, nel!' intrinseco  sempre la stessa (1 ). Si potrebbero le.ii''ere delle pagine intere di Miceli o d(M suol discepoli senza pensare ch(*. l'intrinseco e V estrinseco, la sostanza e i modi di essere, siano jualche cosa di pi che d^^^ili elementi puramente concettuali ch(5 per astrazione si disting'uono nell'Essere vivo. Ma ad un tratto s'inconti'ano d(ille proj)osizioni come i\\w,sta: che la Forza infinita (cio la sostaiza)  il Padre della pc^rpetua novit (cio del mondo) e della Sapienza infinita o del Figlio (che  generato, ci si dice, dalla semplice Forza intinita, separatamente dalla perpetua novit). ()\i\ non i>n essm'vi dul)bio che i due elementi non siano distinti realnuuite, ma soltanto concettualmente. Che si tratti di una distinzione reale e non di una semplice astrazione mentale,  evidente d' altronde juando all'elemento intrinseco o sostanziale vengono attril)uite limmutabilit, la siMiiplicit, l'infinit, la perfezione assoluta, la necessit, ed in una parola tutti gli attributi che, secondo la filosofia teologica moderna, costituiscono il concetto di Dio. Ci non pu avere per iscopo che di identificare quest'elenuMito con la divinit, e di distiniiuere da essa V (demento accideitale ed estrinseco. Se si ammette ch(^ Dio  la sostanza si per produrre il mondo. n si  annicbilato ne ha ceduto al mondo una parte della sua sostanza; ch'egli non ha perduto, malgrado ((uesta modifcazione, la sua iumutabilit e la sua semplicit; e che ci (' i)erch la sostanza divina, (juantunque unica e semplicissima, esiste simultaneamente in i>ria sostanza. Le diverse creature non sono (he Dio stesso, variamente limitato. Cosi le propriet degli esseri finiti non sono che le proi)riet stesse della sostanza infinita, cio la Potenza, rintelligenza e 1" Amore (costituenti le tre persone della Trinit), illimitate in Dio, limitate nelle creature. Ogni forza, (pialunque sia,  una parteci]>azione della potenza di Dio, un'espansione del Padre, un dono ch'egli fa di se stesso. Ogn" intelligenza, ogni forma, a qualunque stato e a (jualunque grado di limitazione si conce])isca,  una partecipazione dell' intelligenza, della forma divina, un' espansione del Figlio, un dono eh' egli fa di se stesso. Ogni vita, sotto ((ualunque modo esista e si manifesti,  una partecii)azione della vita divina, un'e 189 spansione dello Spirito, un dono eh' egli fa di se stesso . Gli esseri partecipano pure alT unit divina, allo stesso grado in cui partecipano alla sostanza divina e alle sue propriet.  Non  una mediocre gioia per r intelligenza di scoj)rire cos, non solo il suggello del Creatore, ma lui stesso nella sua opera, di contemplare Dio, secondo tutto ci ch'egli , al seno dell'universo in cui si esj)an(le incessantemente, di ritrovarlo, in un certo senso, tutto int(M*o in ciascuim degli esstn-i realizzati dalla sua onnipotenza. Ma, i)artecipandosi alle creature, la sostanza divina non prova alcun cangiamento, non si divide e non perde la sua unit assoluta. La stessa sostanza, lo stesso essere^, sussiste simultaneamente a due stati diversi., l'uno illimitato e l'altro limitato: indi' uno di ([uesti stati  Dio, nell' altro le creature (S). Cos, (juantunque la creazione non importi alcuna produzione d'essere o di sostanza, la quale in s  impossibile, gli esseri creati sono essenzialmente separati da Dio, e la natura di Dio  essenzialmente differente da ([uella della creatura, bench la sostanza della creatura non sia radicalmente che la sostanza di Dio . Sarebbe incomprensibile come delle idee s oscure e s poco naturali abbiano potuto essere preferite a quella si ovvia dell'anima del mondo dei filosofi antichi, se noi sup[)onessimo che gli autori che le hanno messo innanzi non cercavano, senz'altra preoccupazione, che la spiegazione pi soddisfacente dei fenomeni. e non tenessimo conto dell'infiuenza della tradizione e dell'autorit anche sugli spiriti che se ne sono in parte eman Abbozzo (Vuna iilosofi(t, t. 1. pai^. .S8S. Ibid. 3-U). Ibid. KM), 112, 33S. occ. Ibid. 106 e 112. ' ! cipati. (McstMiitiuenza ha fatto si clie il principio contenuto nella dottrina della creazione e.r UHo, die Dio  il solo essere i)riinitivo e la materia deriva da Dio, continuasse ad ammettersi come un presupposto che non era da mettere in quistione, anche dopo che la forma tradizionale in cui era dato (piesto principio, cio la dottrina stessa della creazione e.v iiihilo, veniva rio-ettata. Supposti al tempo stesso questi due principii, che Dio  la causa e la soro-ente unica di tutte le cose, e che una produzione di sostanze  impossil)ile, se si ammettono di pi i co.icetti della tilosolia teologica moderna, incomi)atil)ili con la forma antica del panteismo, della immaterialit di Dio e della sua immutabilit e semplicit, si ha come conse-iienza che Dio (considerato come immateriale),  la sostanza unica, e che le cose non hanno alcuna sostanzialit: (|Ueste allora non possono riguardarsi che come dei modi di essere della sostanza divina. Hn' osservazione che non  forse da ne:-ligere  che molti dei panteisti moderni (quali .u'ii autor? die ci hanno servito di esempio) sono stati dei preti o dei frati, nutriti di dommatismo teolo-'ico, che ha dato la prima pieoa al loro si)irito. Avremmo cosi poca rai:'ione di soriu-enderci che il panteismo di (4i(rdano Bruno o di Miceli o di LanuMinais non sia che una trasformazione della dottrina della creazione c.r??/fHn, clic di trovare strano che il dopna della rom^ustanziazonf di Lutero non sia che una leg'--iuesta dottrina  er se stessa indipendente da (pialsiasi forma Iella filosofia teologica: ma, se si unisce alla filosofia teologica, essa conduce logicamente al panteismo. perch in un sistema pluralista, ammessa (jiiesta, dottrima, 1' azione \. [lU'Sto sli'ssu cMpil. yV 15. 192 reciproca tra le cose diventa incomprensibile. Questa incomprensibilit dell' azione reciproca tra sostanze distinte in un sistema panpsichista ha dato litogo a due soluzioni della dilHcolt: Tuna, fondata sul dog-ma della creazione,  V armonia prestabilita di Leibnitz soluzione evidentemente^, illusoria, perch non fa che sostituire a un mistero un altro mistero non nnmo inintellio-ibile ; l'altra, puramente razionalista,  il monismo, che assorbe tutti uli spiriti individuali in uno spirito unico, in modo che le a/ioni apparentemente trascendi^nti di (|U(;^ti spiriti individuali gli uni sugli altri non siano in realt che delle azioni immanenti dello spirito universale. In alcuni sistemi panpsichisti il monismo  indipendente dalla tilosolia tecdogica, conie in quello di Schopenauer: in altri  legato con questa lilosofa, e diviene, per conseguenza, panteismo. Un sistema panpsichista e al tempo sXq^^o panteista, in cui il monismf), per confessione dello stesso autore, ha per iscopo di s|)ieg'are l'azione reciproca degli esseri,  quello di Hartmann. Come, domanda Hartmann, la volont dell'individuo pu ag'i re sulle volont degli atomi cerebrali? come pu essere in istato di comunicare e d'entrare in conflitto direttamente con le volont d'altri individui psichici? La possibilit di questi rapporti, di questi conflitti non si comprende, egli dice, che vedendo nei diversi esseri individuali altrettante funzioni differenti di un solo e stesso essere, e sovratutto di un essere incosciente. La sostanza Comune, che loro serve di radice metafisica, permette il commercio delle volont individuali; sul fondo comune d'una sostanza incosciente le funzioni distinte trovano il legame necessario alla loro azione reciproca, e nel tempo stesso un terreno conveniente per isviluppare le loro coscienze V. questo stesso capit. 10, 170, distinte.  Un dualismo serio sopprime la causalit reciproca degl'individui, la quale  un fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le sostituisce la concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armonia prestabilita La causalit, intesa nel senso dell'influsso fisico, conduce necessariamente aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza unica e assoluta. Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra cosa che una semplice pluralit di funzioni nel seno dell' essere che ne  il principio. Ammettiamo che quest'essere non sia identico, e che la diversit delle funzioni riposi sulla diversit delle sostanze; non vi sarebbero pi allora tra gl'individui delle relazioni reali, e intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei pi grandi meriti del gran Leibnitz  stato di riconoscere francamente, espressamente, la verit di questa proposizione, malgrado le conseguenze mortali pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette la pluralit delle sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non potrebbero avere finestre per cui possa penetrare in esse almeno qiiest'intusso ideale di cui parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste sostanze indipendenti le ufl-e dalle altre, che non hanno niente di comune fra di loro, possano essere riunite da un legame metafisico qualunque. Ciascuna di esse dovrebbe piuttosto rappresentare per se stessa un mondo isolato. Per supporre un legame metafisico, capace d' assicurare il commercio di queste sostanze, bisognerebbe spiegare prima, ci non  facile, qual rapporto reale unisce la sostanza nuova, che formerebbe questo legame, alle altre so. Vedere in questa comunicazione una funzione Filos. delVineose. t. 2. e. HI. traci, frane, pa.ij. 47-48. md. t. 2. e. Vili. 238. 13 reciproca tra le cose diventa incomprensibile. Questa incoili prensibilit dell' azione reciproca tra sostanze distinte in un sistema panpsichista ha dato htogo a due soluzioni della difHcolt^: Tuna, fondata sul dog-ma della creazione,  V armona prestabilita di Leibnitz soluzione evidentemente illusoria, perch non fa che sostituire a un mistero un altro mistero non nnmo inintellio'ibile ; l'altra, puramente razionalista,  il monismo, che assorbe tutti gli spiriti individuali in uno spirito unico, in modo che le azioni api)arentemente trascendenti di (iU(;>ti spiriti individuali gli uni sugli altri non siano in realt che delle azioni immanenti dello spirito universale. In alcuni sistemi j)anpsichisti il mon'mno  indipendente dalla tilosotia teologica, come in quello di Schopenauer: in altri  leg'ato con questa lilosofa, e diviene, per conseguenza, panteismo. Un sistema panpskhista e al tempo sQ^ho panteista, in cui il monismi), per confessione dello stesso autore, ha per iscopo di spieg-are l'azione reciproca degli esseri,  quello di Hartmann. Come, domanda Hartmann, la volont dell'individuo pu ag'ire sulle volont degli atomi cerebrali V come pu essere in istato di comunicare e d'entrare in conflitto direttamente con le volont d'altri individui psichici? La possibilit di questi rapporti, di questi confiitri non si comprende, egli dice, che vedendo nei diversi esseri individuali altrettante funzioni differenti di un solo e stesso essere, e sovratutto di un essere incosciente. La sostanza eomune, che loro serve di radice metafisica, permette il commercio delle volont individuali; sul fondo comune d'una sostanza incosciente le funzioni distinte trovano il legame necessario alla loro azione reciproca, e nel tempo stesso un terreno conveniente per isviluppare le loro coscienze V. questo stesso eapit. W', 170. 193 distinte.  Un dualismo serio sopprime la causalit reciproca degl'individui, la quale  un fatto d'esperienza nel tempo stesso che una legge a priori, e le sostituisce la concezione inferiore deiroccasionalismo o dell'armonia prestabilita La causalit, intesa nel senso delfisico, conduce necessariamente aU'assorzione degl'individui come fenomeni nel seno della sostanza un'Ica e assoluta. Supponiamo che la separazione fenomenale degl'individui sia altra cosa che una sempluralit di funzioni nel seno dell' essere che ne  il principio. Ammettiamo che quest'essere non sia identico, e che la diversit delle funzioni riposi sulla diversit delle sostanze; non vi sarebbero pi allora tra gl'individui delle relazioni reali, e intanto l'esperienza dimostra il contrario. Uno dei pi grandi meriti del gran Leibnitz  stato di riconoscere francamente, espressamente, la verit di questa proposizione, malgrado le conseguenze mortali pel suo sistema individualista che ne derivano che ammette la pluralit delle sostanze, deve confessare che tali monadi non solo non potrebbero avere finestre per cui possa penetrare in esse almeno quest'influsso ideale di cui parla Leibnitz, ma ancora che niente fa comprendere come queste sostanze indipendenti le ufl 111-22): la derivazioni' stessa di tutte le Idee dallTno n(n e clic un'a])plicazione del principio clie le Idee jd paiticohui derivam sempre dalle pili i^euerali, l'Uno o il IJcue essendo esso stesso un'Idea, che non ditterisce dalle alti' che pereli ^ la ]>i generale. e tutte le altre ne sono dei casi o Ielle forme particolari. Ma mentre la dottrina clic tutte le Ideo derivano ii esplicita (y. cap. VII. vN 1-A), non ijossiann invece attribuiriili la dottrina he le Il'r^ ile li atteiulersi lai n'>platniici, in'apaci li entrare nel ver> spiritj lue che ne frainter partit> pr. i Mini-etti pi essenziali. P'r ess;re 'oen'nti alla l)r) inter])r(dazioiK', ldle llee. i n'oi>latvuto riu,uardarc anclu? l'iin o il Hene come un peusier>. Invece li ci"> essi l) veva essere pr>vata per loro lai fatt> stess il 15ene proluce le Ide'. Infatti >in pensiero non ' mai riguardati come la causa produttrice, nel senso stretto, li altri pensieri (evidenteiuente perch ii)i non osserviann unii fra i iK'usieri una seiuenza iuvariabile. tale che un) sia c>stantement' se^uit> la un altro). 199 trovarla tanto pi naturale, che era la sola che si prestasse alla loro opera di sincretismo, permettendo di fare rientrare la dottrina platonica nelle tradizioni perenni relia-iose e filosofiche, dell' umanit. Data V interpretazione teistica della dottrina delle Idee, la derivazione platonica di tutte W cose dalle Idee diventava naturalmente, nel sistema neoplatonico, una derivazione di tutte le cose dalla divinit. A dir vero Platone, nell'nltima forma della sua filosofia, fa della materia un principio distinto e cosi primitivo che le Idee stesse, e non riconduce a queste che le sole /-o/'m^Mlelle cose (l). Ma i neoplatonici non potevano non riconoscere che la dottrina intera di Platone suppone che si riconducano alle Idee non le sole forme delle cose, ma le cose stesse nella loro totalit l'orina o materia). Se nell'ultima forma della sua filosofia Platone a-uiunov alle Idee la Tnateria come un principio distinto e indi])endente da (isse questo concetto noi nasce al punto di vista del suo 'proprio sistema, ma ha per iscopo, conie vedremo, di fondere questo sistema con ciucilo dei Pita-orici (.)). D'altronde, anche dopo V introduzione di (piesto concetto le Idee sono ancora rio-uardate come la sor-ente unica d'o-ni realt, la materia facendosi consistere^ nello spazio, e identificandosi col non cv^sere . Un' altra considerazione che non biso-na tralasciare  che la riduzione della materia a un principio distinto e indipendente dalle Idee era tropppo connessa col si-mhcato reale della dottrina primitiva delle Idee, per poter V. Supid. C, II. B. V. Supi^lem. V. II. B. plem. C. II. B, cMrt.' W^-im. V. Suipl^n. C. II. H. 2(X) 201 essere iiantenuta nell' interpretazione teistica. Essa supponeva infatti una distinzione reale, e non soltanto logica, tra la forma e la materia: distinzione che era un caso del realii^mo platonico, in cui le astrazioni erano considerate come deo-li esseri esistenti per se stessi. Se i neoplatonici, per essere fedeli alla dottrina delle Idee, come essi la interpretavano, volevano derivare da Dio le foruK' delle cose in -enerale comprese (luelle che non hno nvnto cominciamento, o ordinario della parola, cio eticiente; le Idee sono cause in un altro senso, cio, non in quanto producono le cose, ma in quanto ne costituiscono 1' elemento veramente reale, a cui si deve il loro essere e la loro essenza. Ma quando le Idee diventano trascendenti, come nell'interpretazione neoplatonica, esse non possono essere che delle cause produttrici delle cose: allora, se tutte le cose sono prodotte dalle Idee, non si comprende pi come l'Anima possa essere anch'essa una causa produttrice. Plotino cerca di risolvere questa difrtcolt, intercalando fra le Idee e le cose l' Anima, come ])rodotta dalle prime (cio dal Nous) e producente le seconde : cos le Irlee sono ancora le cause delle cose, ma delle cause remote, la cui efficienza non ginnoe alle cose che per l'intermediario dell'Anima. Anche o-o-i o'I'interpreti trascendentalisti delle Idee ]>latoniche fanno dell'Anima del mondo nn entit intermediaria, ammettendo che  per mezzo di essa, e non direttamente, che le Idee agiscono sul mondo, e formano le cose a loro immagina.  il concetto di Plotino, al di fuori del (piale non ne resterebbe che un altro nell'interpretazione trascendentalista : togliere all'Anima ogni efficienza reale (nel senso metafsico), e ridurre la sua causazione a una semplice sequenza invariabile. vS 7. La base della filosofia teologica, come d' ogni altra ipotesi metafisica sulle cause,  V idea di causa V. cap. VII. ^ 7. pa-. U8-145 o Supplciu. I). 202 208 efficieiftc. Una causa efficiente si distin^^'ue, come abbiamo visto, dal semplice antecedente di una sequenza invariabile, per (juesti caratteri: 1" In una causache non  che una semplice sequenza inv^nriabile il legame tra la causi e 1' effetto ci sembra pi o meno misterioso, in modo che noi crediamo che il nostro bisoo-no di conoscere il jerch resti ancora insoddisfatto : in una causazione efficiente, al contrario, la causa deve darci una spieo-azione radicale, soddisfacente, dell'effetto, in modo che non resti uii hio^o alla domaida: perch V 2 In una semplice sequenza invariabile la ca[)acit della causa a produrre l'effetto noi non che come un dato dell'esperienza, mentre in una causazione che creiliamo (efficiente essa ci sembra evidente per se stessa, in uodo che noi siamo disposti a credere che potremmo conoscerla indipendentemente dalT es[)erienza, e per il semplice confronto dell' idea della causa e di (piella dell'effetto. :3'> Nelle causazioni efficienti tra la causa e l'effetto deve esservi un leg-ame necessario, nuMitre nelle semplici seciuenze invariabili (juesto leoame ci sembra conting-enre e quasi arbitrario. (,)uesti caratteri distintivi della causa efficiente credendo di riconoscerli nella nostra volont, come causa dei nostri propri movimenti e delle modiche, per mezzo di essi, produciamo nel mondo esteriore , ne segue che, vedendo nei fenomeni della natura degli effetti di volont pi o meno analoghe alla nostra, noi crediamo di scoprire le cause efficienti di (|uesti fenomeni. Ci spiega la possibilit della filosofia teologica, malgrado 1' insufficienza delle prove su cui essa  fondata, e le prove negative che V insieme dell'esperienza oppone alle ipotesi di questo genere. Che il motivo reale della filosofa teologica sia il bisogno di conoscere il perch, le cause efficienti dei fenomeni (e non le sole condizioni empiriche che determinano la loro apparizione),  evidente sovratutto nella filosofia moderna. E facile infatti di mostrare che, al punto di vista del ])ensiero moderno, le prove su cui essa si basa non ])otrebbero essere conckulenti che nella supposizione che 1' idea di causa efficiente ha un valore obbiettivo e che la spiei>'azione volizionale dei fV'nomeni  una spiegazione j)er le cause efficienti. E ci che farcino in questo j)aragrafo specialmente; ])er la ])rova delle cause finali (in cui i j)i acuti tra i ])ensamoderni hanno visto la vera base della filosofia teologica (r), rinviando a ci che abbiamo de,tto su (juella del primo liotore sulla fine del 2" paragrafo. Senza i)retendere di esaurire 1' argoineito, ci liuiiteremo alle considerazioni pi im|)ortanti, che mi sembrano le seguenti: l'^^ Vi hanno certamente pochi pensatori nello stato presente della coltura, che, non ammettano, quahuniue siano del resto le loro idee filosofiche, questo postulato necessario di ogni ricerca scientifica e che non  d'altronde che il riassunto di tutta l'esperienza umana: che il corso della natura  uniforme, che tutti i fenomeni devono essere riattaccati a degli antecedenti naturali, a cui sono legati secondo leggi di sequenza invariabile, costatate dall'osservazione. Cosi una spiegazione metafisica dei fenomeni, cio per delle cause trascendenti, non potrebbe oggi tener luogo della loro spiegazione fisica, cio per delle cause fenomenali, ma solo aggiungersi a questa, do})o che essa  com|)leta: io voglio dire che un filosofo pu credere necessario di fare appello infine, per una spiegazione radicale delle V. cap. 1. ^ 3-5. V. piestu ciiit. 22. V. ^:?. 1). 7S 0 t. \). 105-1117. tr-J cose, a deg'li agenti iperfisici, ma eg-li sa che il loro intervento non deve interrompere la continuit delTincatenamento delle cause naturali, e che ogni fenomeno non (leve essere spiegato immediatamente che per altri fenomeni. P. e. Vanimiiita, che spiega i fenomeni della vita per un'azione incosciente dell'anima, o 1' ilozoista, che spiegn tutti i movimenti della materia per gli stati psichici delle molecole, sa che una tale spiegazione non esime dalTobbligo di assegnare a ciascun fatto biologico o a ciascun movimento delle condizioni fsiche determinate, e troverebbe assurdo di contentarsene per rendere conto del singolo fenomeno, quantunque 1' insieme dei fenomeni, secondo lui, non possa comprendersi che per essa. Similmente Videalista, che spiega il mond;) delT esperienza ])er Fattivit del pensiero, non pretender che la sua sjiegazione possa sostituire. in tutto o in parte, il determinismo scientifico dei fenomeni : come Kant, egli non far appello all'attivit del pensiero che per rendere conto dei legami pi generali dei fenomeni; o se, come Hegel, ne dedurr tutti i fatti generali della natura ed anche i fenomeni storici pi importanti, egli sapr almeno che la sua costruzione logica non deve escludere il metodo ordinario, che deduce i fatti dai loro antecedenti. Cosi pure il realista dialettico , che spiega il mondo dei fenomeni realizzando le astrazioni e introducendo fra esse un incatenamento logico continuo, non penser che la sua spiegazione metafisica renda inutile o invalidi la spiegazione scientifica, che rende conto dei fenomeni per le loro condizioni fenomenali: come Spinoza, egli ammetter due ordini di cause: V incatenamento delle cause fsiche, per cui ogni fenomeno  legato a un altro fenomeno precedente secondo una legge di sequenza invali) V. cap. VII riabile; e quello delle cause metafsiche, al di fuori del tempo e della successione, e che non  altra cosa che l'incatenamento logico delle astrazioni realizzate. E il simile che far il filosofo teologico, che non vorr mettersi in contraddizione con le esigenze del pensiero moderno: eali non vedr mai in un fenonuMio che un effetto delle leggi inviolabili che governano il corso dei fenomeni, e non applicher la spiegazione teologica che a ({uesto corso considerato nel suo insienui e alle sue leggi generali per cui la scienza spiega i singoli fenomeni. Ma cos essendo,  evidente che qualsiasi ipotesi metafsica, avente per oggetto una s[)iegazione causale delle cose, non pu avere altra base che 1' idea di causa effciente. Perch infatti il nu'tafisico immaginer delle cause metaempiriche, s'egli conviene che ogni fenomeno particolare deve spiegarsi per delle causo naturali, cio empiriche? Semplicemente perch trova che queste non sono delle cause efficienti. L'esperienza non gli presenta che dei semplici antecedenti, che egli vede costantemente seguiti dall'effetto, ma senza comprendere perch ne siano seguiti ; la cui capacit a produrre quest' effetto egli non pu ammettere che come un dato dell'osservazione; e che non gli sembrano avere con esso che un legame contingente ed arbitrario. Egli invece aspira a conoscere delle cause che diano una soddisfazione coijipleta al suo bisogno di spiegazione, la cui capacit a produrre l'effetto gli senbri evidente intrinsecamente, e che abbiano con esso un legame necessario ; in una parola delle cause efficienti, e non dei semplici antecedenti di sequenze invariabili. Supponiamo dunque che egli non ammetta il principio che i fenomeni devono avere delle cause efficienti ; in altri termini che egli comprenda che V idea di causa efficiente non ha alcun valore obbiettivo, e che causa vuol dire semplicemente: Pantecedente in una sequenza invariabile. Allora non vi sar pi alcuna raioue che lo autorizzi ad oltrepassare r esperienza. Una causa infatti, quando ^ oggetto d'inferenza e non d'osservazione diretta, non Tanirnettiamo, evidentemente, che per ispiegare i suoi effetti. Ora la parola spiegazione ha due significati, corrispondenti ai due significati della parola causa; in un senso spiegare un fatto  assegnare le sue cause efficienti ; in un altro senso assegnare gli antecedenti a cui esso segue cont'onnernente alle leggi di sequenza invariabile tra i fatti. Se non vi hanno cause efficienti, r unica spiegazione dei fenomeni sar dunque la spiegazione nel secondo senso. Noi spiegheremo, per conseguenza, un fenomeno, assegnandogli degli antececon cui esso  legato da rapporti di sequenza invariabile; (luesti antecedenti li spiegheremo egualmente, assegnando loro degli antecedenti ulteriori, con cui essi sono legati da rapporti della stessa natura: e cos di seguito air intnito, perch un antecedente deve essere seinpre spiegato da antecedenti ulteriori. Ora nella nostra spiegazione, nel nostro regresso dai fenomeni ai loro antecedenti e da (juesti ad altri antecedenti ulteriori, noi non incontreremo mai un agente iperfisico: spiegare infatti per noi non  che rendere conto di un fenomeno pei suoi antecedenti conformemente alle leggi di sequ(;nza invariabile tra i fenomeni, e (luesti antecedenti sono sempre delle cause naturali perch, come abbiamo detto, lo stesso metafisico conviene che un intervento di agenti iperfisici non deve mai interrompere la continuit dell'incatenamento delle cause natui-ali . Noi non potremmo adunque ammettere un agente iperfisico che se (juestaspiegazione non fosse per noi soddisfacente. Ma per non esserlo, spiegare dovrebbe significare per noi, non semplicemente: assegnare gii antecedenti dei fenomeni conformemente alle leggi di sequenza invariabile costatate dall'osservazione; ma ^ 207 anche: assegnare un perch a queste leggi stesse, scoprire degl'intermediari esplicativi che facciano comprendere perch tali antecedenti siano seguiti invariabilmente da tali conseguenti. Ci  dire in altri termini che causa dovrebbe significare per noi una causa efficiente, e non semplicemente un antecedente in una sequenza invariabile. Tuttavia gli agenti iperfisici della spiegazione volizionale hanno un vantaggio su (pielli delle altre spiefondata sull'analogia, l'analogia stessa, indipendentemente dal principio di causalit efficiente,  una raper concludere l'esistenza di tali agenti. Ma cpiesta ragione, fondata sulla se^niplice analogia e indipendente dal principio di causalit efficiente, non ])Otrebbe costituire una prova sufficiente: essa non j)otrebl)e elevarsi all'altezza di una vera [)rova che supponendo che i fenomeni devono avere delle cause efficienti, e che la volont  l'unica causa efficiente possibile dei fenomeni che si tratta di spiegare. E ci che mostreremo per l'argomento delle cause finali, che  la prova fondata sull'analogia, su cui si basa principalmente la filosofia teologica. Noi supporremo prima che il teleologista ammetta che, qualunque sia la spiegazione ultima delle cose, ogni fenomeno non deve spiegarsi innnediatamente che per delle cause naturali, che Dio non agisce mai miraGolosamente, e che non vi ha alcuna eccezione alle leggi generali che governano il corso dei fenomeni, quantunciue questo dipenda, in tutto o in parte, da una volont superiore. Per vedere che, in questa supf)osizione, l'argomento delle cause finali non potrebbe costituire una vera prova senza il principio di causalit efficiente, basta di confrontare le opere della natura con quelle dell'uomo, dalla cui analogia con le prime il teleologista conclude che anche queste devono avere per causa un autore intelligente e agente per uno scopo. Alla vista di un orologio, di un edifzio, ecc., noi concludiamo che sono 1' opera di un autore intelligente, noi sappiamo, in virt del principio di causalit nel senso positivo, che ogni fenomeno deve avere delle condizioni che ne sono gli antecedenti secondo leggi di sequenza invariabile. La sola condizione, il solo antecedente, che res[>erienza ci mostra legato con tali effetti,  l'azione di ui essere intelligente, cio dell'uomo. Cos, se noi non ammettessimo che la causa dell'orologio, della casa, ecc.  mi uomo, siccome noi non possiamo, in virt c\(AV esperienza, assegnarne altre cause, la produzione dell'orologio, della casa, ecc. resterebbero inesplicate, noi non le avremmo sottoposte alln \eo'lm ipotesi, delle condizioni o antecedenti fisici, con cui sono legate da leggi invariabili di seiiuenza; a questi antecedenti noi dobbiamo assegnare altri antecedenti egualmente fisici, e cosi di seguito nThHiito, senza che noi potessimo, in questo regresso da antecedenti ad antecedenti ulteriori, incontrare mai una causa intelligente, che non potrebbe essere che un agente iperfisico. Se causa vuol dire semplicemente l'antecedente dato il quale un fenomeno invariabilmente si produce, noi abbiamo dunque soddisfatto il nostro bisogno di causalit senza assegnare altre cause se non fisiche: l'ipotesi di un autore intelligente non sarebbe necessaria come nel caso delle opere dell'uomo, perch nn'ipotesi non  tale che quando senza di essa vi sarebbe un hiatus nell'incatenamento delle cause e degli effetti, in altri termini quando senza di essa non potremmo ricondurre i fenomeni alia legge universale della causalit. Ammesso, ci che supponiamo per ora che il teleologista ci accordi, che i fenomeni hanno sempre delle condizioni naturali a cui sono legati da leggi di sequenza invariabile, noi immagineremo che queste condizioni naturali dei fenomeni in cui egli vede la manifestazione di un disegno intelligente p. e. di quelli deirorganizzazione) siano state gi assegnate completamente. Allora sono possibili due ipotesi. T/una che, dopo aver asse^^nato queste condizioni naturali, noi non vedremmo pi, nel meccanismo per cui si producono questi fenomeni, niente che potesse suggerirci l'idea di un disegno e di un'azione per uno s.^opo:  ci che accadrebbe, p. e., pei fenomeni dell" organizzazione, se noi ammettiamo la teoria di Darwin. L'altra che, dopo aver assegnato queste condizioni naturali, noi traveremmo che il modo di produzione di qut^sti fenomeni  ancora tale da poter essere considerato come una disposizione di mezzi per raggiunger? uno scopo Questo accadrebbe pei fenomeni dell'organizzazione, se noi trovassimo che l'appropriazione degli organismi alle condizioni della loro esistenza  un fatto primitivo del mondo vivente, cio che non pu essere riguardato come la conseguenza di altri fatti. Lo stesso potrebbe accadere ancora, se trovassimo che essa  un risultato di fatti pi primitivi, cio naturalmente: che 1' universo tsico  governato da certe date leggi; che esso  costituito da certi dati elementi; che questi elementi all'inizio cio a un certo momento della durata passata del mondo da cui prenderemmo le mosse per ispiegare il suo stato presente avevano una certa distribuzione nello spazio, ed erano animati da certe date forze. Infatti il complesso propriazione degli organismi, cio di queste date leggi del mondo fisico, di questi dati elementi che lo costituiscono, di questa loro distribuzione nello spazio e di queste forze da cui erano animati al momento iniziale, potrebbe essere tale da suggerire l'idea di una combinazione di mezzi per raggiungere il risultato. Fra le ipotesi possibili sulle condizioni naturali dei fenomeni biologici e deg-li altri su cui si fonda l'argomento -delle cause finali, sceglieremo la pi favorevole a quest'argomento, cio la seconda, e ragioneremo su di essa. In quest' ipotesi i dati ultimi da cui ..i dedurrebbero questi fenomeni sarebbero, o semplicemente le leggi della natura (come nel caso che l'appropriazione degli org-anismi fosse un fatto primitivo del mondo vivente), 0 le leggi della natura e inoltre l'esistenza delle sostanze "elementari date che costituiscono l'universo, con le loro propriet statiche (le loro propriet dinamiche essendo comprese tra le leggi della natura), e la loro distribuzione nello spazio e le forze da cui erano animate al momento iniziale. Ammettiamo che causa vuol dire semplicemente: l'antecedente in una sequenza invariabile. Dei dati che abbiamo indicato alcuni sono necessariamente senza causa: le sostanze elementari con le loro propriet statiche (perch noi supponiamo che il teleologista ci accordi che l'uniformit del corso della natura non soffre assolutamente alcuna eccezione). La distribuzione di (pKiste sostanze nello spazio nel momento che noi consideriamo come iniziale pu essere spiegata, ma supponendo una certa distribuzione di esse nello spazio a un altro momento iniziale pi lontano; questa non pu essere spiegata che ugualmente, e COSI di seguito air infinito; sicch anche la distribuzione iniziare delle sostanze elementari nello spazio  necessariamente, in ultima analisi, un fatto ultimo di uoii M pu assegnare una causa. Le leggi della natura sono delle sequenze costanti tra fenomeni: esse potrebbero avere una causa, perch possiamo supporre che queste sequenze non siano immediate, ma tra gli antecedenti e i conseguenti s'interpongano delle azioni sconosciute, che siano cosi le cause delle sequenze stesse. Le forze da cui g-li elementi erano animati al momento iniziale potrebbero pure attribuirsi a un agente o a degli agenti sconosciuti, purch il modo d' azione di quest'agente o di questi agenti si accordi col determinismo che lega questo stato dell'universo agli stati i)recedenti. Noi possiamo supporre dunque che certe leggidella natura (p. e. quelle della natura organizzata, nel caso che ra[)propriazione degli organismi sia un fatto primitivo del inondo vivente), o tutte le leggi della natura indistintamente e anche le forze da cui all' inizio gli elementi costitutivi dell'universo erano animati, siano degli effetti di una causa iperfisica intelligente, che se ne serve come di mezzi per realizzare i fenomeni dell'organizzazione e tutti gli altri in cui il teleologista vede la traccia di un disegno e di uno scopo. Ma questa supposizione, ammesso che la causa non  che l'antecedente di una sequenza invariabile, non [)0trebbe pretendere tutto al pi che a una semplice verosimiglianza. La base dei nostri ragionamenti per cui concludiamo l'esistenza di qualche causa,  il principio che ogni fenomeno deve avere una causa. Quando dall'esistenza di un fatto inferiamo l'esistenza d' un altro fatto come sua causa, noi non ci fondiamo solamente sulle esperienze particolari che ci hanno mostrato che il primo fatto costantemente ha avuto per causa il secondo, ma anche sull'insieme dell'esperienza, che ci prova, da una parte, che ad ogni fenomeno dobbiamo assegnare una causa, e, da un' altra parte, che non vi ha altra causa o combinazione di cause, tranne il secondo fatto, che sia capace di avere il primo per effetto. Essendo certi di queste due premesse, cio che bisogna supporre una causa per rendere conto del primo fatto, e che il secondo fatto  l'unica causa che possa renderne conto, noi ne tiriamo la conclusione necessaria che il secondo fatto esiste a titolo di causa del primo. Ma se la prima mmm mmk "'rr '.-8 di queste due premesse ci viene a mancare, vale a dire se noi non siamo obbligati a supporre una causa per rendere conto del primo fatto, l'inferenza por cui stabiliamo l'esistenza del secondo fatto none pi una conclusione necessaria: quest' inferenza non pu duique avere che un grado minore di evidenza, ci che vuol dire che non abbiamo la prova completa, rigorosa, dell' esistenza del secondo fatto. Ora  ci che avviene precisamente nel nostro caso. Come abbiamo detto, ammesso che i fenomeni non devono spiegarsi immediatamente che per delle cause naturali, noi non possiamo supporre un autore intelligente e agente; per uno scopo che come causa delle leggi della natura e delle forze da cui all'inizio gli elementi erano animati. Evidentemente qui la prima delle due premesse ci viene a mancare, perch niente ci forza a supporre una causa n per le une n per le altre. Il principio di causalitr esige che i fenomeni abbiano delle ^ause, ma non che le abbiano anche le leggi dei fenomeni. In quanto alle forze che animavano gli elementi allo stato dell'universo considerato come iniziale, esse sono gi state sottomesse alla legge universale della causalit, assegnando loro, come agli altri fenomeni, una causa naturale (vale a lo stato precedente dell'universo, che alla sua volta ha la sua causa naturale nello stato ad esso precedente, e cosi di seguito all'infinito, perch  ci che esige il corso uniforme dei fenomeni). Qualunque sia dunque l'analogia tra i fenomeni della natura e i prodotti o le azioni di un essere intelligente, e qualunque sia la forza dell' argomento fondato su quest' analogia ; supposto che i fenomeni devono sempre spiegarsi immediatamente per delle cause naturali, quest' argomento non potr mai raggiungere il valore d'una vera prova, perch la prova vera, completa, dell' esistenza d'una causa  che, se essa non si ammette,  impossibile di sottoporre i fenomeni alla legge universale della causalita, ci che noi abbiamo gi fatto, contentandoci delle sole cause naturali. Ci per non  vero che se causa vuol dire unicamente: l' antecedente di una sequenza invariabile. Ma supponiamo invece che per soddisfare all'esigenza del principio di causalit noi dobbiamo assegnare ai fenomeni, non solo degli ant(cedenti a cui essi seguono invariabilmente, ma ancora delle cause efficienti: allora 1' argomento delle cause finali acquista un altro valore, e noi comprendiamo come il teleologista possa trovarlo decisivo. Egli infattti potr dire: Assegnando ai fenomeni le loro cause naturali, noi non abbiamo fatto che sostituire dei misteri ad altri misteri ; i fenomeni dell' organizzazione e gli altri che ci mostrano le a])parenze d'un disegno, cosi bene che le leggi e gli antecedenti da cui li abbiamo dedotti, restano in sostanza inesplicati, e domandano ancora un perch, una causa reale. Questa causa deve essere di tal natura che possa spiegare realmente, radicalmente, l'eftetto; la sua capacit a produrre l'effetto deve essere evidente intrinsecamente; e deve avere con esso un legame necessario. Ora la natura, anche dopo che noi sappiamo che i suoi fenomeni si producono secondo delle regole uniformi, non cessa di esibirci (ielle apparenze di disegno il teleologista ignora o pretende di avere confutato le teorie che, come quella di Darwin, fanno svanire completamente queste apparenze. Ma l'unica causa che possa far comprendere realmente degli effetti in cui si vedono delle apparenze di disegno, la cui cai)acit a produrre questi effetti sia evidente intrinsecamente, e che abbia con essi un legame necessario,  una causa intelligente. Dunque la causa reale, immediata o mediata, di tutti i fenomeni della natura o di quelli di essi in cui si vedono pi spiccatamente le tracce d'un piano,  necessariamente una causa intelligente. Per negare questa conclusione, bisogna non ammettere o che i fenomeni hanno delle cause efficienti l'lllWlililil Mi" (e non semplicemente de^li antecedenti a cui seguone invariabilmente), o che una causa intellig-eiite  la sola causa etficiente possibile di effetti in cui si vedono delle tracce di piano. La priua di queste due cose non si pu;') mettere in dubbio, perch sarebbe dubitare del principio stesso di causalit (le vere cause essendo le cause efficienti) La seconda nemmeno, perch', la causa efficiente  una causa il cui legame con l'effetto si vede per il semplice^ ])aragone delle idee, e noi vediamo, paragonando col pensiero delle cause non intelligenti, (lualunque esse siano, e degli effetti in cui si manifestano i segni di un piano, che non vi ha tra questi e quelle alcun legame possibile. L'argomento delle cause finali  dun(|ue cos una dimostrazione rigorosa, e che Reid abbia avuto ragione, o no di considerarlo come una verit a priori, esso ha almeno questi due caratteri delle verit a priori, la necessit e l'evidenza in-, che  il pi alto grado di evidenza che si possa desiderare. Forse si penser che alPargomento delle cause finali non deve domandarsi niente di pi che questa semplice probabilit che esso ha senza il principio di causalit efficiente; che  cos che in sostanza  stato sempre considerato; e che la pretesa che esso concluda con certezza assoluta non  che un'esagerazione di alcuni metafisici. Ma il concetto di un agente iperfisico qual  quello a cui si conclude con l'argomento delle cause finali,  di tal natura che esso non potrebbe stabilirsi che su prove d'una certezza assoluta, e che non ha pi alcuna credibilit se queste prove sono semplicemente probabili. Ci  perch una semplice probabilit sarebbe sopraffatta dalle probabilit contrarie che l'insieme dell'esperienza oppone all'ipotesi di un ag-ente simile. Se noi ammettiamo che l'argomento delle cause non ha altro valore che quello che gli resta supposto che la causa non  che 1' antecedente di una sequenza invariabile e che tutti i fenomeni devono si)iegarsi immediatamente ])er delle cause naturali, la conclusione di quest' argomento non si fonda pi n sull'esigemza di sottomettere i fenomeni alla legge di causalit nel senso positivo n su quella di spiegarli per le cause efficienti; non le rimane dunque che la forza (juest'argomento analogico, cio che l'esperienza avendoci mostrato che una causa intelligente ha per effetti delle cose in cui troviamo un ai>'ii'iustamento di mezzi ad un fine, altre cose in cui noi vediamo qualche> cosa di simile a un tale ag'g'iustamento devono attribuirsi a una causa simile. Ma (|uest'argomento analogico ha di fronte a s una moltitudine di argon(Miti simili che costituisce un fascio formidabile di prove contrarie. Per un'induzione tirata dalTanaloaia tra certi fenomeni della natura e quelli che hanno per causa gli spiriti intelligenti dell'esperienza, il teleologista suppone uno spirito: che non  congiunto ad un corpo, e i cui stati non dipendono da cause somatiche; i cui ])ensieri non sono preceduti da percezioni dei sensi e modellati su (jueste; le cui conoscenze non derivano (lall'esjericnza; i legami tra le cui idee non sono fornati dalle leggi di associazione per cui spi(ghiamoi legami sinili negli spiriti conosciuti; che agisce inmediatameute sul mondo esteriore, e non, come gli s{)iriti conosciuti, per mezzo dei movinenti di un corj)o organico, eseguiti, alla loro volta, mediante un meccanismo a])propriato, seiza del (piale sarebbero imj)ossibili; che produce gli atti esterni appropriati alle sue volizioni, senza che questa appropriazione sia, come negli ageriti intelligenti conosciuti, risultato dell'esercizio e dell'abitudine; ecc. Ciascuna di queste supposizioni  contraddetta da un* induzione fondata su un'esperienza pi costante che quella su cui si fonda l'induzione del teleologista. Se la conclusione del teleologista si fondasse sul ])rincipio di causalit efficiente, nel modo in cui abbiamo detto, le 216 prove eoiitiarie costituite dalla improl abilitc, di ciascuna di queste supposizioni e delle altre simili che avremmo potuto aii^i'i ungere, dovrebbero cedere alla forza di una dimostrazione a[>odittica. In generale, questa improbabilit consiste in ci, che si suppone che dei fatti, analoghi a certi fatti dell'esperienza che noi sappiamo essere prodotti costantemente da certe cause, o non hanno causa o hanno delle cause diffcM'enti. Ora non vi ha alcun principio assiomatico che ci forzi ad ammettere che gli stessi fatti devono avere sempre le stesse cause, come l'assioma di causalit ci forza ad ammettere che gli stessi fatti de\ono avere sempre gli stessi effetti (l'esperienza mostrandoci che degli effetti identici possono essere dovuti a cause differenti). Al contrario la conclusione del teleologista si fondere))be sopra uu principio assiomatico (rci che noi possiamo considerare come causa tanto (juella della scienza positiva (juanto (juiflla del metafisico; ma ci che n fosse un antecedente di una sequenza invariabile n avesse i caratteri della causa efficiente, san^bbe troppo dittbrme dal nostro concetto naturale della causalit, per poter essere considerato come una causa. 2*^ Un carattere generale per cui gli agenti supposti dalla metafisica difieriscono dagli agcniti supposti dalla scienza,  che il modo d'azione che si attribuisce ad essi, non  stato, come, in tutti i casi, quello che si attribuisce a questi, costatato gi negli agenti dell' osservazione. La loro capacit di agire nel modo in cui si suppone che agiscano, non ha dunque alcuna prova basata sull'esperienza: essa non si ammette che per la sua evidenza intrinseca, ci che  lo stesso che dire che tali agenti sono considerati come cause efficienti. La verit di quest' osservazione si vede della Gap. IV. V. sptM'ialinonte ^ 11. maniera pi chiara negli agenti della filosofia volizionale, e sovratutto in quelli della filosofia teologica. Spiegando i fenomeni della natura per una volont, il metafisico deve preconoscere che la causa da lui assegnata ha la capacit di produrre gli effetti ch'egli vuole spiegare per essa: ma che questo genere di cfiusa, cio la volont, abbia realmente la capacit di produrre questo genere di effetti che le si attribuisce,  impossibile di costatarlo negli agenti volontari delFesperienza, quantunque debba ammettersi necessariamente come qualche cosa di preconosciuto. Il metafisico suppone: r Che la volont possa produrre radicalmente il movimento, cio esserne la causa totale, e farlo nascere dal niente ~  su questa supposizione che  fondato r ariiomento deir esistenza di Dio come principio motore . Questo potere, lungi di potersi costatare negli agenti volontari conosciuti, si sa che  impossibile che loro appartenga, perch sarebbe contrrio alla legge della conservazione dell' energia. 2^ Che la volont, come semplice fatto psichico, possa produrre degli effetti nel mondo fisico. Anche questo potere non  stato costatato negli agenti volontari conosciuti: in essi la volizione, come tutti gii altri fatti psichici, deve essere accompagnata da concomitanti fisici, e questi, se noa sono la causa totale, come vogliono alcuni psicologi, dei fenomeni fisici che seguono alla volizione, ne sono o possono esserne una concausa, senza il cui concorso questi fenomeni non si produi-rebbero. 3'^ Che la volont per se stessa sia una causa sufficiente della sua realizzazione, cio che per il solo fatto della volizione, e senza bisogno dell'azione d'un meccanismo appropriato e di altre condizioni, possano prodursi degli atti esterni conformi alla volizione stessa. Ma negli agenti volontari conosciuti, la volont, per quanto ne sappiamo, non produce mai immediatamente gii atti voluti. Ci che la volont produce immediatamente  un atto autoraatico (reccilazione di certi centri nervosi) che non ha alcuna conformit con l'azione voluta: se (piesta si produce,  perch quest'atto automatico trascina al suo seauito una serie di altri atti automatici, in un meccanismo che esiste e funziona indipendentemente dalla volont, e a cui essa non ha fatto che dare il primo impulso, senza volerlo e senza saperlo. Che 1' effetto volizione sia un'azione conforme ad essa, non dipende dunque dalla volizione stessa, ma dal meccanismo : se questo non esistesse o fosse distrutto o alterato, la conformit tra la volizione e l'azione non esi o cesserebbe di esistere. Intanto il filosofo volizionale amnette, come una cosa che va da s, che la volizione, negli agenti volontari che egli suppone, deve avere per effetto un'azione conforme alla volizione stessa : ci, negli agenti volontari conosciuti, lungi di sembrare necessario, pu considerarsi invece come una coincidenza felice, perch, se in essi non si trovasse il meccanismo appropriato che la natura ha aggiunto provvidenzialmente alla volont, questa potrebbe produrre degli effetti nel mondo fisico, ma questi effetti non sarebbero le azioni volute. Se il filosofo volizionale prendesse per principio di non attribuire ai suoi agenti volontari ipotetici che quelle capacit di. produrre determinati effetti che sono state costatate negli agenti volontari conosciuti, egli non potrebbe ammettere che le loro volizioni devono avere nel mondo fisico degli effetti conformi alle volizioni stesse, che se in questi aa-enti si verificassero le condizioni, che negli agenti conosciuti sono necessarie perch esista la conformit le volizioni e gli atti esterni che esse producono. Alle condizioni fisiche di cui abbiamo parlato (cio l'esistenza di apparecchi organici appropriati), dobbiamo aggiungere naturalmente anche le psichiche. Negli agenti volontari conosciuti, la possibilit di eseguire le azioni ordinate dalla volont  il risultato di un adattamento progressivo dell'individuo, che esig-e dei tentativi ripetuti e la fissazione dei successi ottenuti per mezzo dell' abitudine.  certo infatti che abbiamo imparato ad eseguire anche le azioni che ora ci sem brano le pi naturali (e che perci saremmo tentati dicredere che non abbiano bisog'no di essere state apprese), come abbiamo imparato a scrivere, a nuotare, a suonare uno strumento, ecc.  un'osservazione che non abbiamo creduto inutile di fare, poich, come notammo,  perch lo assimila prontamente a queste nostre azioni che ci sembrano le pi naturali, che il filosofo volizionaie trova non meno naturale il modo d'azione dei suoi agenti ipotetici. Cosi, tutte le condizioni indicate mancando negli agenti supposti dalla filosofia volizionale, questa, supponendo che la loro volontr ha per se stessa il potere di realizzarsi, cio di produrre de"ii effetti conformi alle sue volizioni, attribuisce a questi agenti un modo d'azione che non  stato costatato negli agenti conosciuti, non meno che quando suppone che la loro volont pu produrre radicalmente del movimento, o che, come semplice fatto })sichico, pu essere causa di effetti fisici. Ora il filosofo volizionale deve preconoscere, come abbiamo detto, che la volont  capace di produrre questi effetti ch'egli attribuisce alle sue volont ipotetiche, perch nessuno immaginerebbe una causa per ispiegare degli effetti dati, s'egli non sapesse gi che questo genere di causa  capace di produrre questo genere di effetti. Su che si fonda dunque questa preconoscenza del filosofo volizionale che la volont  capace di produrre radicalmente del movimento, eh' essa pu, come semplice fatto psichico, produrre degli effetti fisici, e che basta per s sola a determinare degli atti esterni conformi alle sue volizioni ; se queste capacit della volont di produrre tali effetti non sono state costatate I 1 1 negli agenti volontari conosciuti V Certamente questa preconoscenza si fonda sulle esperienze del modo di aziono di questi stessi agenti volontari conosciuti, perch queste esperienze, prima di essere esaminate al lume della scienza e della riflessione psicologica, suggeriscono la conclusione che la volont, anche negli agenti conosciuti, ha queste capacit di produrre gli effetti indicati, che il filosofo volizionale le attribuisce nei suoi agenti ipotetici. Ma dacch si riconosce che i fatti d(bitamente interpretati non autorizzano ((uesta conclusione, la supposizione che la volont  realmente una causa propria a produrre tali effetti, quantuncjue continui ad ammettersi come qualche cosa di prcn-onosciuto, viene a mancare di ogni ])as(^ induttiva; e allora su qnal ragione si fonda il filosofo volizionale per ammetterla? Egli l'ammette; come una verit che non ha bisogno di prova, })er la sua evidente intrinseca. E infatti le nostre esperienze familiari del modo di azione de'li aulenti volontari non solo ci suggeriscono queste conclusioni: che la volont pu dare un cominciamento assoluto al movitnento, clie pu. couie semplice fatto psichico, determinare dei cangiamenti fisici, e che  proj)ria, per se stessa, a produrre delle azioni esterne conformi alle volute; ma ce le suggeriscono d'una maniera automatica, in modo che ciascuna di esse ci sembra una verit evidente per se stessa. Cos, che la volont abbia realmente la capacit di produrre gli effetti indicati,  una proposizione cIc^ non si ha alcun dritto di ammettere, sr si respinge, come criterio della verit, questa ap[)arente evidenza intrinseca delle proposizioni che non sono che delle suggestioni della nostra esperienza pi familiare, grossolanamentte interpretata. Se invece si ammette, come fa la filosofia voprodurre questi effetti, non lo si pu che fondandosi sull'evidenza intrinseca della proposizione. Ma una causa la cui capacit a produrre l'effetto  evidente intrinsecamente,  una causa efficiente, perch noi sappiamo che  questo uno dei caratteri che distinguono la causa efficiente dal semplice antecedente di una sequenza invariabile. Per conseguenza dire che la capacit della volont di produrre questi effetti sembra evidente intrinsecamente e che si ammette perch sembra evidente intrinsecamente,  lo stesso che dire che la volont si considera come la causa efficiente di questi effetti, e che si annnette che essa  capace di produrli perch se ne considera come causa efficiente Ora  certo che se non si ammettesse che la volont  capace di produrre questi effetti, non si supporrebbero delle volont ipotetiche che li proilucono realmente nell'universo. Ne che la filosofia teologica e le altre forme della filosofia volizionale mancherebbero di base, se la volont non si considerasse come causa efficiente . 3 Vi hanno, dice Hume, in questa piccola parte dell'universo che noi conosciamo, quattro principii d'ordine cio di finalit, di appropriazione di mezzi ad un fine): riutelligcnza, 1' istinto, la generazione e la vegetazione. L'esperienza ri mostra che tutti (juesti principii sono cause di effetti simili (cio di oggetti o di fenomeni in cui vediamo dell'ordine o della finalit) seco noscessimo l'universo in tutta la sua estensione e in tutta la sua variet, scopriremmo forse altre cause di tali effetti -. Sarebbe duniiue un'induzione altrettanto fondata di riguardare uno o un altro di essi come causa generale dell' ordine o della finalit nelT universo, e il teleologista non potrebbe giustificare la sua parzialit quando ne preferisce uno agli altri, spiegando il cosmos per l'intelligenza piuttosto che per l'istinto o per la generazione o per la v^egetazioi.e. C'fr. cap. IV. \S. ! Huiiie Dialoghi sulht religione naturale, parte VII. 229 Di questi quattro principii d' ordine di cui parla Hume, ne metteremo due da parte, cio la generazione e la vegetazione: essendo le cause osservabili dei pi importanti tra i fenomeni che vuole spiegare il teleologista, esse non potrebbero fornirgli una spiegazione, perch egli cerca per questi tViiomeni altre cause, da a''iuno*ere alle osservabili. Noi ci limiteremo dunque a domandare al teleologista perch ci che egli chiama la finalit deve spiegarsi per l'intelligenza piuttosto che per r istinto. L' argomento teleologico  un ragionamento fondato sull'analogia: le opere della natura, si dice, somigliano a quelle dell' intelligenza ; dunque la causa dei fenomeni naturali  un'intelligenza. Ma con un ragionamento simile potrebbe dirsi: le opere della natura somigliano a quelle dell'istinto-, dunque la causa dei fenomeni naturali  un istinto (risiedente nella natura stessa o in qualche forza animale esteriore alla natura). Sembra anche ch( il secondo ragionamento sarebbe pi concludente del primo: esso si fondendbe infatti sovra un'analogia pi grande, le azioni della natura essendo uniformi, fatali e non imparate come quelle dell'istinto. Ma dice il tebiologista: noi non possiamo spiegare la finalit per 1' istinto, perch sarebbe spiegare 1' oscuro per il j)i oscuro. I fenomeni della natura in cui vediamo della finalit, esiggono una spiegazione perch per se stessi sono incomprensibili: cos essi non potrebbero spiegarsi che per qualche cosa che possa comprendersi da se stessa. Ora tale . solamente l'azione dell'intelligenza. L'azione istintiva, lungi di potere spiegare la finalit,  essa stessa uno dei casi di finalit che si tratta di spiegare. Questo caso non ha bisogno di essere spiegato meno degli altri, perch non  meno degli altri incomprensibile: esso  anzi il i)i imcon)prensibile di tutti, perch  il pi sorprendente (gli atti dell'istinto essendo i fenomeni che somigliano di pi agli atti dell'intelligenza, e ci che ci sorprende nella finalit della natura essendo che delle cause non intelli"enti producano de^li effetti che noi non possiamo comprendere che come prodotti da cause intellio-enti). Ma in che consiste quest'incomprensibilit dell'istinto, per cui il teleologista rifiuta di vedere in esso una spiegazione della finalit? Forse in ci che noi non conosciamo bene il processo per cui si compie r azione istintiva? Evidentemente no, perch noi non al>l)iamo alcuna ragione^ per ammettere che i fenomeni tlevono essere prodotti dalle cause il cui modo d'azione ci  pi conosciuto anzich da (|uelle il cui modo d*azione ci  meno conosciuto, (quando d' altronde conosci;! mo eg'ualmente l'esistenza di (|ueste cause e il loro iegaiiK costante con gli e+Tctti che si tratta di spiegare. Il telc()loi>-ista trova dunciue P azione istintiva incomprensihile perch non vi ha in essa n previsione dello scopo n scelta cosciente dei mezzi che lo realizzano, ed egli non comj)rende un'azione^ indirizzata ad un fine che (juaiido vi ha coscienza di (juesto fine e dei nnv.zi impiegati per raggiungerlo, in una parola (|uando (juest'azione  prodotta dall'i ntellig-^niza. Cosi il ragionamento del teleolog'ista si riduce in sostanza a (juesto: .Jaiict Lr rausc fiindi pajr. 12."):  Pr(M:isaiiu>nt(* perch liK'sti atti istintivi della natura umana soiu) analoghi ai tenonu'ui della natura in ienoralc li artire i>er ispiegare ili altri: perch sare.be allora spiejuare ohsca'ifrn per ohsenrnn , Viil. r>l():  Vi Ila in effetto nella natura tre modi di azione, il meccanismo, 1' istinto e il pensiero. Di questi tre modi due solamente ci sono conosciuti d'una maniera distinta: il nieccanismo e rintellij::enza. L' istinto  ci che vi ha di pi oscuro, di \n\i inesplicato l'istinto  essenzialmente una qualit occulta : scej^lierlo per far anismo, noi estenr1istica, perch se (juesto principio vitale o ([uesti princi[)ii vitali, che, oltre airanima, si ammettono risiedere nelForoanismo e viviticarlo, vendono dotati di coscienza, nou  evidentemente che i)er assimilare le operazicuii di (jucsti priici])ii alle nostre prol)rie azioni coscienti, volontarie. Fra (juesf altra tVn-nni dell'aninsmo e la prima, cio Tauiuiisiuo nel senso stretto, vi ha (pu'sta dilterenza lilevante, che in (juclla V agente che serve da priucij>io di spiegazione  ipotetico, mentre in (juesta ip(>tetica  solauu'ute l'azione che irli si attribuisce. Nonvim(Mit(), e comunicando al corpo il moviuiento proprio. Platone, dando una forma rigorosa a (piesto concetto, attri)uisce all'anima un movimento spcnitaneo ci che costituisce la essenza stessa di otenza di muovei'c se stessa, e ])roduce tutti i movimenti vitali dando loro Piiiipulso col proprio movimento . Ma ranimismo assunu* pi proj)rianu'nte il carattere  sul sist. tilosof. (lenii Stoici, e. IV. V. liCiiioinc, // rittflisiHO v Panimismo di Stdhly pai;. 195 e seguenti. I #1 tutti i fenor.imi della vita, (^ l pioduce con intelligenza e vohmt, (piantumiue non ne abbia coscienza. I movimenti del corpo devono avi^-e una causa spirituale, pei'che la causa del movimento non pu essere che immateriale e infatti la materia e incapace di movimento spontaneo; di pi, i movimenti vitali manifestamh) una meravigliosa appropriazi(me di mezzi a tini determinati, (luesta causa deve essere, n(ui solo spirituale, ma anche intelligente. ^)ra Tanima e il solo agente conosciuto in cui si ritrovino (jucsti caratteri: dun(pu' la causa di tutti i movimenti vitali e Tanima, (luella stessa che  il soggetto (h'ila nostra ragione e la causa dei nostri movimenti volontari. (\>si  Taniina che, come fa muovere i muscoli volontari, ta pun^ respirare i polmoni, battere il cuore, circolare il sangue, seceriuM'e il fegato, digerire lo stomaco; separa (hl sangue gli umori corrotti e li rigetta al di fuori; fa succedere il sonno alla veglia, il riposo al movimento. E essa clic si costruisce il proprio corpo, e dopo uscito dal seno materno, lo c(mserva, lo sviluppa, lo n^staura continuamente con tutti gii atti che compcmgono la nutrizione, lo cura e lo guarisce nelle malattie.  essa, in una parola, clu' governa e compie tutte le funzioni delPorgauismo, producendo con la vohmt tutti i movimenti delle sue parti, ([uelli che si c(msiderano come automatici n(m meno cie ciuelli che si chiamano volontari. Quando abbiamo detto che Tanima produce i fem>meni della vita c(ui intelligenza e vohmt, si deve dare a (pu^stt^ parole tutta Testensione di cui sono suscettibili: roggetto (Wlla vcdont deiranima sono gli scopi ultimi a cui le funzioni della vita sembrano indirizzate, ch> di realizzare la forma elle costituisce il piano speciale delPorganismo, e dopo la Ibrmazione di (|uest' organismo, di conservarlo e pres(4-varlo dalla corruzione e dalla nunte; i nu^zzi che la natura sembra adoperare in vista di (luesti scopi, s(mo Toner deirintelli-enza e (WlPartilzio sapiente deiranima. 90 91 Per conseo Renza Stalli attribuisce airaiiiina una conoscenza naturale rione attribuendo un' anima all' uovo stesso, e conformandosi all'avviso del poeta: Spiritu,^ intus alit, totanpie infnsa per art Ufi Me uh af/itat mole ni. Borelli in un luogo della sua celebre opera De moiu animalinm assunu^ a provare che  ])ossibile che il moto del cuore sia prodotto da una facolt animale conoscitiva. Egli induce che 1' anima conoscitiva  il principio dei movimenti del cuore dall' accelerazione e rallentamento della circolaziiuie per gii aifetti dell'animo: l'una e l' altra variazione della pulsazione  prodotta, egli dice, dall'apprensione e dalla persuasione che sono facolt dell'anima conoscitiva; dunciue il movimento A cuore  prodotto da una facolt senziente ed appetente, e non da un' ignota necessit. 1'ra i tisiologi eminenti che indipendentemente da Stahl hanno anm-sso delle idee analoghe alle sue, dobbiamo anche ricordare HoffLeibnitz i>arla di alcuni settatori di Van lle:m>nt e di alcuni peripatetici, fra cui (liulio Scaligero, che ammettt'vani che l'animu si fahbrica il i>roprio cor])o (V. Leibnitz Coiddenizioni sul prhieipil di vita v shIIc nuture plastiche, ed. Dutens t. 11 parte 1 43). Sono dei ])n'cursoni pi diretti dell'animismo di Stahl. il 92 93 iiiaun, che ainiietteva mi fluido vitalt^ diffuso in tutto l'or^auisiuo, e attribuiva a tutte le i)articole di ([uesto fluido un'idea determinata deirori;anisnO intero, seeondo la ro])riet e un'azione che api)arteii alla ]>otenza e all'inteHijicnza j)iii elev.ata (v. Hevue scientit([ue, anne 7. ikijl. ()4). K un antroi)onu)rtsmo sottile, come; si vede della maniera i>ii evidente nella dottrina di C'udworth, che assimila il modo di azione della sua ntura phtstiea aj^li atti conformi a uno scopo che noi eseiiiiiamo automaticamente in forza dell' a])itudine, e alle azioni istintive. Tali dottrine devono distinjiuersi senza dubbio dallo animisnu) (anche nel senso lato), ma non pu dirsi che siano con esso s;etta l'opinione che questa avvenni senza provvidenza, e dichiara clie nelle parti materiali non ha ti'ovato alcuna i'a,ropria dottrina da (piella di Stahl, ])erch essa non si)iega le funzioni della vita per l'anima l'azionale e i suoi attributi, cio la conoscenza e la volont, ma per l'anima sensitiva e gli attributi di S-1870. 1890-1898, 1987-1944, 1984-1981). 2()57-20(>l. 2087. 218() e nota, 2138, 2147, 2150-2158, ^178-2175, 2184, 2208-2210, ecc. Ph'u'oI. 1098-1100, 1801-1810. 1818-1850. 18(>;)-. . . 1. 1985-1944. 1957. 1984-19Si;. 2054. 2057-20ai. 2)88, 2098-2094, 218() nota. 2188. 2158. 2188-2184, 2208. occ. La Io,ij;o del sentimento fondamentale (cio dell'anima sensitiva)  di attegjiiarsi nel modo pii jj^radevcde o meno penoso che j;li  possibile (V. Pshol. 472, 474. 1090. 1985-1980. 2081. ecc.) Atteggiarsi nel modo ]iii !;radevenoso e ])ei' il sentimento fondamenta le prodnrre nel cor]>o ili stati che ili riescono i ])ii gradevoli o i meno penosi, perche il vin-\m fa parte d(d sentimento fondamentale, vi  contennto. il sentito, cio il corpo, non esistendo che nel sentimento, e il senziente e il sentito, l'anima e il corpo, essendo i dne ])oli opiM)sti, ma indivisil^ili. di nn'esistenza nnica. che  appnnto il sentimento (V. il mio stndio snlla Dottrina di Rosmini sfircsscHZd dvlln materia). Paii-o. 407. 417. 1888, 1893. 1985-1944, 2130 nota, 2158. ecc. -li il 95 coscienza (U^lle azioni vitali dell'anima t^i spieli i fenonuMii vitali a una azione istintiva dell'anima, di cui non ab)iamo coscienza : in virt dell'istinto l'anima fabbrica il suo corpo come l'ape fa l'arnia e l'uccello il suo nido. Ma l'istinto di Gioberti somiin si sottra j;i()no alla coscienza intellettiva. V. Pr(t(do.i.a v. II. pai--. 82. Ivi pa.n-. 20. 4) V. i luoj!.lii citati e cfr. il i)ai-a,i'r. 17 di o a AVuiidt, clie si ])rofessj! aj)e:taiii(Mite animista, (luaiitumjuc non consideri Panima come una sostanza, come tacevano ^i!,]i animisti antichi. T^'oi;a]iizzazione fsica, dice V/nndt,  una creazione dello sj)irito, aliieno in (jua.nto essa si conforma a (iei lini. Solo la supposizione che Io s\'ilnppo psicliico lui ereato il cor])o rende comprensibile il fatto della finalit di tutti i fenomoni della vita. Ecco (]u:d  il fondamento (b' (jucsta lnalit: nna parte dei fenomeni (h-lla vita, le azioni volontarie coscienti, emanano immediatainente da motivi diretti verso uno scopo; l'altra part{', pi consiieSH'oh(/i(( fsiolof/icd c'.\]. XXL 2, cai. XXIV. 2. Contpcndio di psico/o(jia vS li. 10, ^S 1J>. 5 a, ecc.) V. llcvuo scioiit. ser. L t. VIL H07. V. Jjft materia hrnta e la materia cicente, \nig. 10(5, , 127, lU). 17L 17(). (8) Ivi p. 79. 132. 98 n za e (li libero arbitrio si  adattato a una funzione particolare, lavorando anelie per ^H altri, e chiedendo che, in cambio, anche gli altri lavorino per lui . 11 naturalista americano Cope spiega l'evoluzione organica pei' una forza di crescenza determinata a propairarsi in tale o tal altro senso dal desiderio o Timmaginazione deiranimale. L'intelligenza, egli dice,  l'origine del meglio, mentre la selezione naturale (di Darwin)  il tribunale a cui sono sottoiiessi tutti i risultati ottenuti per la forza di crescenza . Sectondo il ])rof. Vignoli tutte le funzioni della vita sono accompagnate e determinate da un'attivitn psichica: la stessa facolt psichica che opera n(\gli atti coscienti dell'uomo e degli animali, opera pure, in una forma inontiineo e conscio dei suoi oigani ;p)pr(>})iiaio ;dle condizioni successive della sua esistezi; e queste modiiicazioni riappariscono per (eredit nei (iiscentU'iiti, e si listano nella specie. Di l questo meraviglioso adattamente degli oiganismi ai loro bisogni e rihisione a cui esso d luogo di cause timili pi'ecoucepite (^ pi'cstahilite ciie ])re^iedettero alla creazione degli organismi stessi. !1 carattere teleologico (' inlU'gabile in tutti i fenomeni degli esseri organizzati; ma esso si s])iega \n^v la volont e l'intelligenza di questi esseri stessi, V non per una volont e un'intelligenza sopramon(hnie. V. Lriiffi' fomlameutulv (ic/l'infellif/cnza nel ir(/no animah', specialmente i cnpit. Ili VI llartin;niii T' ti(pp> lontaiu da una spieo-azione naturalistica dei Ibnonicni per poterlo (M,n.in-endcre tra i llosotl di cui i' 4Ustionc nel Kisto. Noi abbiamo parlato (y,^ )) del SUO sistema come di una torma della tlosofa te(doll'Ineoseiente coiiipremlo iamo parlato , di cui parlereno. nasce naturalmente sul terreno della spiegazione animista. L'incosciente di Hartmann non  che l'istinto, interpretato come il risultato di un atto razionale, di cui l'aronte non ha coscienza: h l'azione dell'istinto o di alcun diedi analogo che egli vede in tutti i fatti di cui  ciuistionc nella feuomenohf/in delVineosekiHc. Quest'atto razionale da cui, secondo lui. risulta l'istinto, pare necessariamente all'autore un atto incosciente, perch tale lo dimostra l'esperienza (supposto che esso si dia realmente) nei pretesi fatti istintivi dello spirito umano, e perch sarebbe tro)po strano d'interiu'etare le azioni istintive degli animali o delle piante attribuendo loro una ragione esplicita e cosciente, superiore, come supporrebbero i suoi eftetti, alla ragione stessa dell'uomo. Quest'atto gli sembra inoltre, non solo incosciente per l'individuo, ma assolutamente incosciente, perch, se non f(sse cosi, dovrebbe appartenere ad un'altra coscienza, e quindi non sarebe un atte dell'individuo stesso, ci che importereblu un'azione divetta di uno spirito su di un altro (vale a dire iin'intluenza unmedidta, non per l'intermediario di manifestazioni esteriori e sensibili), che l'autore trova inconcepibile e che sarebe effettivamente un vero mistero- il motivo per cui Leibnitz ha negato l'azicme reale di una monade su di un'altra . (V. Filos. dell'lncosc. voi. IL e Vili traduz. frane, 223-224). Questa ragione incosciente deve essere di i^ii intuitiva e non discorsiva, perch essa agisce d'una maniera istantanea, non esita, ed  indipendente dall'esperienza. Essa deve avere inoltre la saggezza assiduta, perch l'istinto (a quanto dicono i toleologisti)  di vedere anche in esse delle forme dell' animismo e della spiegazione antropomortistica. Tale  ciuella di Hering, die per ispiegare il tatto die sembra il pi caratteristico e forse il pi fondamentale della materia vivente, cio l'eredit, aunnette nella materia organica una memoria incosciente, sulla (piale  basata la forza riproduttiva di cui  dotato l'essere vivente. Haeckel aderisce all'ipotesi di Hering: tutte le molecole organiche, o pi propriamente tutte le plasiidde, possiedono secondo lui della memoria ; (piest'attivit manca alle altre molecole, ed  (luesta propriet che distingue l'organismo vivente dai corpi inorganici privi di vita.  Noi siamo convinti, egli dice, che, infallibile, e sceglie sempre i mezzi i pi appropriati allo scopo. C%,n ci abbiamo gi fatto un bm.ii tratto di via i)er avvicinarci agli attriluiti della divinit: il resto  una conseguenza necessaria dell'elevazione dell'Licosciente a principio di una spiegazione universale del mondo. L' incosciente deve avere l'onniscien7.a, perch la sua intelligenza deve abbracciare tutte le connessioni dei fenomeni che costituiscono l'ordine e lo svilui>po dell'universo; la sua unit (monoteismo e panteismo) risulta dalla connessi(me di tutti i fenomeni e dalla suindicata impossibilit che uno spirito agisca su di un altro. (V. Fil. dell'incosc. trad. frane, 200-201 e e. VIIL i)ag. 238). Ma quest'ingrandimento iperbolico dell'intelligenza incosciente non pu dissimularci la sua umile origine: essa non  che l'istinto animale, interpretato come ragione.  una ragione istintiva come il X^O^ di Stalli -che l'autore ha dimenticato di contare fra i precursori del suo concetto dell'incosciente. Quest'incoscieiite-la cui applicazione immediata , non doblamo dimenticarlo, una spiegazione animista dei fenomeni biologici non  al fondo che \o stesso XYOC di Stahl, elevato a i)rincipio di spiegazione generale di tutti i feimmeni, e deitcato per l'esaltazione all'intinito dei suoi attributi, onde servire alla spiegazione teleologica radicale e universale della vita e del mondo. 102 senza l'ipotesi di ima mcnioiia iiicoscicMitc della materia vivente, le pi iiii^xn-taiiti fmizioui della vita sono insomma inespliea>ili. La capacita osa sulla funzione della mcMuoria incosciente, la cui attivit Ila un valore intinitautente ])iii,irande che (piella della me ioria cosciente  Preyer vuol estesa questa memoria incosciente a tutta la inateiia, perch nei cor])i viventi la materia non ])u possediMe altre forze che nli atti automatici dei centri nervosi interiori, ammettono una coscienza o delle coscienze distinte dalla upsfra^ cio dalla cerebrale, di cui sarebbero sede i centri del midollo spinale ed anche i gangli del sistema del gran simpatico. Un'altra estensione del dominio della coscienza, che deve evidentemente comprendersi nella stessa classe che i concetti precedenti,  la dottrina deiranimazione delle piante. Essa  d'altnmde, quantunciue Stahl si sia riiutato di ammetterla, una conseguenza iiievitabile del sistema animista. Cos per l'anima delle ^jiante non si spiegano solanuMite i teTioTueni della vita vegetale che somigliano ai movimenti degli animali ordinaria inclite considerati come coscienti, (p. e. i fenomeni di locomozione spontanea delle spore delle alghe e di altre piante interiori o (piello della sensitiva elle ripiega le sue foglie,  spaventata, come dice Hartmann, dal passo del viaggiatore), ma anche quelli i cui analoghi negli animali stessi s riguardano d'ordinario come puiaiiKMite tisiologici. Secondo un autore il grano di frumento sogna del suo tiore futuro (cio si rappresenta precedentemente la forma ch^ col suo sviluppo tende a realizzare) ; secomh) un altro  2)er piacere agi' insetti o per sottrarre il prezioso germe alla raj^acit degli uccelli che il tore o i frutti si ornano dei colori Lotze Psicologia fisiologica trad. frane, 124. 105 X^i seducenti ; un terzo afferma che la foglia che muovendosi sul proprio i)icciuolo si orienta in modo da fruire il meglio possibile della diretta azione dei raggi luminosi, compFe un atto intelligente ; un altro che le piante rampicanti cercano degli appoggi, sene accorgono (piando li hanno trovati, e scelgono ipielli che loro convengono di pili, con la sicurezza infallibile deiristinto, che  umi ragione intuitiva ed incosciente. E in una parola, in tutti i fenomeni della vita vegetale che si vede un carattere teleologico, e per conseguenza un'attivit psichica che ne  il principio. Gli autori moderni che ammettono (pieste dottrine, possono contare fra i loro precursori Plinio, Platone, Democrito, Empedocle, Anassagora, e insino all'autore del Manava-Dharma-Sastra. Il risultato ultimo a cui giunge (piesta estensione, al di l dei limiti consueti, del dominio della coscienza,  di attribuire un'attivit psichica agli elementi stessi degli oro-anisnu, s animali che vegetali. Huet attribuisce ad ogni V. Delboeuf La materia bruta e la materia riccntc, pao-. 178. V. Faii Priucipii di psicologia, v. E e. IV. (8) HartiiKiiin Filosofia (Iciritcoscirntc, tviul. frane, voi. lE pjiLi.. 1)9-100 . Natnrahncntc tra lo, credenze dei pupoli ininiitivi o imu-o proorediti troviamo anelie (inolia deiraniniaziono e, por dir eos, di^Vnmarnzzazionc dello i>iante.  Nnnioroso sono le lejjj-endo clic attribniseono a eorti nomini la laeolt di eonii)rondoro il Imcruaooic, dello piante, e reeiproeamente. Il trattato d'agneoltnra d'Ibn-al-Awam eonsiolia d'intinn^riro oli al]eri elio non vogliono prodnrro dei IVntti. Si devo batterli le-germonte, dicendo loro che si ta-lieranno so continnano a non frnttaro. Cos pnre, presso gli Slavi "li Boemia, si gridava la sera agli albori del giardino: Germogliato, albori, germogliato, se no vi Hcorticlier . (Goblet d'Alviella L'idea di Dio secondo Vantropologia e la storia, 56). molecola ore chiamarsi la ronif(f mefafi^ica md senso stretto nelle dottrine^ di Hartmann e di Gioberti, clie ve(h)no nell'istinto un'intelligenza intuitiva edincosdente. Una dottrina meno apertamente nu-tafisica, ma piii conforme ancora alh^ tendenze spontanee del nostro spirito su cui i concetti metatisici sono fondati, (^ (piella che vede nell'istinto (piesta intelligenza stessa di cui ai>biamo coscienza e che osserviamo in noi stessi e negli altri uomini. Questa dottrina e stata sostenuta dal Rorario, da Montaigne, (hi Giorgio Leroy, ecc.: noi la riassumeremo nella fonila che le ha dato Erasmo Darwin. L'istinto, (piesta pretesa facolt cieca, innata e necessaria, non i che una (pialit occulta come (pie Ile degli scolastici: le azhmi degli animali, adattate evidentemente a dei lini determinati, sono troppo somiglianti alle azioni vohmtarie e intelligcmti dell' uomo, per poter essere P elf etto di un principio ditferente. Se per istinto s'intende il principio di certe azioni (h\gli uomini e degli animali, che non sono state diivtte (hii loro appetiti, nmi ajiprese per esperienza, non de(h)rte da osservazione o (hi tradizi(me, l'istinto non esisti': le azioni degli animali, che si attribuiscono a (piesta pretesa forza (h'I' istinto, scmo tatte invece c(m uno scopo che essi si prop(mg(mo coscientemente, (piello di provvedere ai loro bisogni, o a (iiielli delle pi'ole, o agrinteressi della cmiiunit, e i mezzi che essi mettono in opera per (piesti scopi, e che uguagliano spesso (pialmnpie sforzo (all'ingegno e del sapere nmano, sono, come negli atti dell'mmio, il frutto dell'osservazione e del raziocinio. Ci che vi ha (rinnato nell'animaie  la sua costituzione per cui certe cose gii riescono piacevoli e certe altre dolorose, e rimpulso (die lo spinge verso le une, cio il desiderio, e clic lo allontana (hille altre, ciot^ l'avversione : r esperienza gii scopre (piali azioni sono proprie a procurargli delle sensazioni gradevoli o ad evitargli delle sensazioni moleste, r mediante ripetuti sforzi e 108 tentativi, iinpiim ad eseguire (lueste azioui. Alcune di queste azioni sono state apprese dal feto prinui della nascita: di (luelle che non sono il risultato della sua propria esperienza e del suo proprio raziocinio, alcune sono iuseli altri animali della sua specie. Molte nozioni e arti, comuni ora a tutta una specie, furono un tempo delle acipiisizioni nuove e delle seoverte individuali, apprese dai contemporanei e poi tiasmesse per tradizicme dair una all' altra generazione, anche mediante una sorta di lin^ua"*''' P *" in Clen.en:'.a Kover, ehe vede nell' istinto una  loj^iea de-li animali, meno attiva elie  rl,r xi vwimu l'istinto e la sua. superiorit a certi n-uan.i sull'inti'llisfnza  . Xou sembrer forse arriseliiata la supposizione elle tale ha dovuto essere, nel suo eoiieetto fondamentale, la interpi-tazione dej.li atti istintivi debili animali nei tempi prescieiititiei: infatti il se!va.u-io e l'uomo primitivo iji-nora, iKua-i... S. il c-aue lu.a rii...a.lo. ! j..n H.-n^/./.a. s.hm.u.I.. il (!a,ncia.alc; se la sci:,i.ua resta ni.ita. i-'V pi-rizia. see..n.l.. i ue-a-i. imre'a sa .'he se,.arlas... si fai-.a.l.e lavorare. Il l'ellel{.ssa li non esita nella scelta degli organi, ed eseguisce destramente tutti i movimenti necessari alla soddisfazione dei suoi bisogni; e discernendo con una sorta d'intuizimie iai)ida se un oggetto  proprio o no a conservare la sua costituzione, se si armonizza con essa o la contraria, ricerca senza ingannarsi ci che r tavorevole, e, fugge ci(^ che Vi nocevole.  cos che si sx3egano tutte le azioni degli animali e dei bambini.  agli Stoici che allude Virgilio quando, in ammirazione (hivanti ai lavori delle api, ricorda i flosoti che hanno (h'tto esse (i]>ih(s parfem dritae men/;,v opinione ch'egli considera cvidentenumte come la sola che sia capace di spiegare le loro azimii. Questa interpretazione (h'gli atti istintivi degli animali ha pure crede pure che gli animali lianuo fra loro le stesse relazioni che 'li uomini. Gli abitanti di 15orn(M) sostengono clie le tigri hanno un sultano e una corte. Secondo il viaggiatore Crevaux, i PelliKosse s' immaginano che le bestie lianno i loro stregoni  ((ioblet d'Alviella, L'idea d Dio ecc., 55). Physica 11. Vili, 6. V. a. i)er ([uesta spiegazione dello istinto nei pi antichi pensatori greci, i versi di Epicarmo in Diogene Laerzio, 111, 16. V. Ogerean, Il sistema filosofico de(jli Storici, 84 e 174-17H. G(^orgichc. l. IV. Ili inspirato Plutarco nel dialogo che ha x)er titolo: rratio' naVui raiione idi. Fa anche la sua parte all'intelligenza, nella spiegazione dell'istinto, il c(mci4t() -moderno secondo cui gli atti istintivi degli animaii sono delle azioni al princii)io intelligenti, che tiniscono, in forza dell'abitudine, per trasformarsi in automatiche, e si trasmettono cos i)er eredit organica. Potrebbe domandarsi se il fatto elio la dottrina che spiega sos tiiiii gl'istinti, trova, malgrado delle ditticolt che s(nnbrano insormontabili , un'accoglienza s larga i)i'esso i tlos(ti contempoianei, non sia dovuto anch'esso, in parte, a (juesta tendcniza del nostro spirito ad assimilare, i)iii che (' possibile, tutte le azicmi della natura alle nostre proprie azi(mi volontarie e intelligenti. -.^xt 3L' ilozoismo. 12. Se l'ilozoismo s'intc^ide nel senso lato in cui  preso ordinariamente, cio(' come una dottrina che unisce alla materia un principio psichico, non vi ha una divisione netta fra esso e la filosofia teologica. Quando troviamo la dottrina dell'anima del mondo nei filosofi greci, p. e. in Erastito, in Platone, negli Stoici o nei Neoplatonici, o anche in alcuni padri della Chiesa, come Teoflo e Taziano, che pensavano che il Santo Spirito  dif V. Darwin. Origine delle s/jeeie, Def/Pi.^dinfi, e ci'r. il mio Saggio L 1;arto IV, e. III. V. Lauge Storia del materialismo^ voi. II, parte I, e. II. 136 coscienza a un grado qualunque non avrebbe potuto iiscire.--In ogni essere s'incontra una facolt analoga a quella che costituisce lo spirito dell' uomo, e di cui lo spirito umano  la pi alta manifestazione. Schopenauer chiamava questa facolt col nome di volont-, noi la designiamo con quello di sentimento. La coscienza ne  l'attributo essenziale. Come non vi ha che iina specie di movimento, cos non vi ha che una specie di sentimento; le differenze sono semplicemente delle differenze di grado. Ogni cosa nel mondo, sino all'atomo,  per^s un soggetto, per gli altri un oggetto. Scio penetro al fondo del pi rudimentario degli esseri, se io riesco a sentire come esso sente, esso non mi apparisce che come me, come volere, coscienza, libert. Se io lo considero al contrario dal di fuori, se io contemplo me stesso dal punto di vista d'un osservatore straniero, tvitto neir essere  movimento, necessit, puro effetto' di rapporti con lo spazio e con un passato incommensurabile di forza  .  Ciascun essere  una monade di cui l'essenza intima  di natura esclusivamente spirituale (appercezione e volont), di cui il corpo  una materia in movimento, un composto meccanico, che deve la sua forma, la sua grandezza, all'azione del principio spirituale, al quale  associato . Noire ammette una finalit nella natura: egli vede in ogni essere una causa finale, una forma che ciascun essere ricerca laboriosamente a traverso delle trasformazioni senza fine, la realizzazione d'una idea di cui esso solo racchiude il secreto, bench questo secreto sfugga d'oralla sua conoscenza distinta. Il mondo gh apparisce pure come un essere, come un vasto me. Cosi in Noir r ilozoismo, quale lo abbiamo visto nella pi parte degli esempii precedenti, si avvicina di pi ai concetti animisti e teologici . 1) Pensiero monistico. ) V. Nolen II monismo in AUmwjna, nello Meme philosophique, In madama Eoyer l' ilozoismo  legato alla concezione particolare ch'essa si forma della natura degli atomi. L'atomo non , come si ammette ordinariamente, una sostanza solida, dura, inerte e puramente passiva; esso  perfettamente fluido, elastico e dotato di una forza espansiva, che, se non incontrasse ostacolo, farebbe occupare a un sol atomo tutto lo spazio. L'universo  assolutamente pieno, non vi ha vuoto fra un atomo e un altro: in virt della loro forza di espansione, che li fa lottare per appropriarsi ciascuno la pi gran parte di spazio che gli  possibile, gli atomi si limitano mutuamente per dei contatti assoluti, esercitano una pressione gli uni sugli altri, e si muovono reciprocamente, respingendosi gli uni con gli altri. Tale  la sorgente di tutta l'energia motrice spiegata nell'universo . Gli elementi ultimi della materia sono dunque attivi, automotori: oltre alla tendenza ina diffondersi, a diluirsi nello spazio, alla forza indefinitamente espansiva, di cui li dota, l'autrice attribuisce ad essi la propriet di muoversi da se stessi, automaticamente, nel senso della minore resistenza , e spiega anche le decomposizioni e ricomposizioni chimiche per l'azione automatica degli elementi tendente a realizzare le combinazioni in cui essi trovano pi. Ora l'attivit, il movimento spontaneo degli elementi della materia suppone in essi una vita, un'anima, una coscienza. Degli elementi solidi, inerti e puramente passivi, come quelli dell'atomismo ordinario, esigono l'intervento d'una forza esteriore, d'un La costituzione del mondo, v. sovratutto Introduzione cap. 14 e 15, e parte I cap. 4, 7, 8. V. Introdnz. cap. , IH, parte I e. 5, 6, 7, 8, ecc. V. pa, 128, 130, 132, 305, 608, 10, 17, ecc. V. Parte III, e. 40. voc, che loro distribuisca il movimento e la vita . L'atomo automotore e vivente basta a se stesso, e pu da se solo spiegare il mondo per le sue attivit dinamiche ; ma bisogna anche attribuirgli delle attivit psichiche. Se gli atomi non fossero delle individualit coscienti, essi non avrebbero alcun motivo di muoversi e di agire: si pu sostenere che ogni forza ha uno scopo pi o meno vagamente cosciente. Lo scopo delle forze atomiche  di occupare il pi grande spazio possibile, di estendervisi all'esclusione di tutte le altre forze. Ciascun atomo  un me vivente, cosciente della sua esistenza, e cosciente delle azioni e reazioni spontanee ch'egli esercita, avente la sensazione passiva, pi o meno intensa, dei limiti vfiriabili che risultano per lui dalle pressioni di tutti i suoi vicini, e dei moch'egli compie difendendo contro di loro la sua parte di spazio. L'atomo, non solo sente, ma anche vuole, secondo dei motivi percepiti, che determinano i suoi movimenti (quando dunque l'autrice parla delle azioni automatiche degli atomi, ci non vuol dire che esse sono incoscienti o involontarie, ma che non sono precedute da deliberazione e da scelta, e si producono fatalmente): la volont e la forza sono i due attributi dell'entit sostanziale. L'autrice attribuisce anche agli atomi: le sensazioni dei loro contatti e delle variazioni di pressione dei loro piani (gli atomi hanno la forma di poliedri) e quelle degli ostacoli che limitano la loro espansione , la percezione del mondo esteriore Introdtzhnc, ]>a, parte I, cap. 5. 6, 7. V. Prefazione. V. il cap. V (li questo Saggio. s rMateWdttMiubiatgB -TP-? 141 diali Clie un elemento abbia affinit per un altro, eie vuol dire che lo desidera ; se si separa da quello con cui  unito per entrare in un'altra combinazione, e perch questa  per lui pi attraente. Il demiurgo dell'universo  l' inteli ig-euza; non un'intelligenza sopramondana, ma quella degli elementi della materia e le altre pi complesse che risultano dalle fusioni d. queste intelligenze elementari. L'universo non e sottomesso a leggi fatali, perch noi non possiamo negare che vi ha in noi il lil)ero arbitrio, e questo dobbiamo estenderlo agli elementi di noi stessi e di tutto l' uni verso. Questi elementi al principio erano Ithcr,, cio vivevano indipendenti, ed erravano a capriccio o piuttosto all'azzardo. Ma nei loro incontri la loro sensibilit fu impressionata, e applicarono la loro intelligenza e la loro libert a fuggire gli urti disaggradevoli e a ricercare gl'incontri aggradevoli: ebbero dei desideri e dei timori^ delle simpatie e delle antipatie, degli amori e deo-li odi: acqaistarono delle ahitmlmi, e queste Hono ci de chiaMiamo le loro leggi. Inoltre all'individualismo primitivo succedeva lo stato di societ-, gh elementi si associarono in gruppi rti pi in pi stabili, facendo ciascuno il sacrifizio d'una parte della propria libert, ma compensato da una pi grande resistenza e una pi grande indipendenza dell' insienie; queste riunioni eram, il prodotto della libert e dell'iute hgenza e si formavano in vista del bene della comunit. Cosi uacquero le molecole organiche, e poi per la loro as^l) V. La mutrria hnita e la materia ricente, v -11. lli 1' 170-171. Ir, i>ii}; 21 ag. Iti*) 172. ^51 142 sociazione i corpi organizzati. Queste ultime associazioni ebbero per base il principio della divisione del lavoro: ciascun membro della comunit concentr le sue attitudini su una funzione determinata, che esercit a vantaggio di tutti, domandando che in cambio gli altri compissero per lui le funzioni ch'egli abbandonava . Come si vede, l' ilozoismo di Delboeuf  un antropomorfismo nel senso stretto, che attribuisce agli elementi della materia le stesse qualit psichiche che osserviamo 0 crediamo di osservare in noi stessi e negli altri uomini. Noi faremo infine menzione di Roisel, in cui si pu osservare una curiosa fusione del materialismo atomistico moderno coi concetti tradizionali della filosofia teologica. Egli chiamagli atomi (in opposizione alle cose composte e derivate) essere assoluto, l'infinito, la causa prima, l'essere necessario: l'onnipotenza e l'onniscienza sono egualmente dei predicati dell'atomo. L'onnipotenza  iii potenza virtuale infinita degli atomi:  che tutte le attivit le quali si manifesfano nei composti particolari costituiti dagli atomi, esistono in potenza nell'atomo stesso. L'onniscienza,  la conoscenza infinita che ha l'atomo:  che gli atomi sono al tempo stesso i materiali, gli operai e gli architetti dell' universo. L' atomo non rifiette, non ragiona, la sua conoscenza  immediata o istintiva: s'egli ragionasse, sarebbe soggetto all'errore. La conoscenza nell'atomo non  prodotta dalla presenza d'un oggetto esteriore: essa esiste in lui senza cause anteriori o esteriori a se stessa, come l'estensione e la potenza, con cui essa  in una correlazione perfetta, di tal sorta che la potenza non agisce senza la conoscenza, n la conoscenza senza la potenza, e l'una e l'altra non agiscono che in conformit delle leggi eterne, che fanno egaalmente parte degli attributi della causa. La conoscenza illimitata dell'atomo d la ragione generale di tutti gl'istinti particolari L'istinto esiste nell'animale, nel vegetale, nel minerale stesso. La gravitazione, l'affinit chimica, la coesione, ecc. sono delle attivit istintive degli elementi materiali. L'apparizione, la conservazione, lo sviluppo e la riproduzione dei vegetali non si compiono che per degli atti istintivi: sono gli elementi costitutivi della pianta che possiedono questi istinti, e fanno tutto ci che bisogna. Negli animali e nelle piante si trova cosi una scienza innata delle condizioni della loro esistenza. L'istinto presiedendo all'origine di tutti i movimenti, quelli anche che, per conseguenza della mobilit dei corpi, paiono non avere per causa che una forza cieca, hanno tuttavia nell'azione che li produce una causa essenzialmente razionale. Niente non si muove all'azzardo neiruniverso, e l'istinto che rappresenta la conoscenza e l'attivit delle cause prime negli esseri contingenti,  il principio di tutte le loro evoluzioni (l. U, 1. 178-17A. Cfr. imragr. H. Roisel La sostanza, v. specialiiiiuentc 11 parte e, li, e e. VII. u^xt. ITT. Il panpsichismo. 15. DilFilozoisiiio che artVrnia V unione indissolul)ile (Iella materia e dello sprito, noi ])assianio ad nn aliio tipo di metafisica, aitine ma essenzialmente distinto, che nel suo concetto ^-enerale non ha un nome stallito, e che noi chiameremo punimchhmo. Questo sisteua atterma che la materia non esiste, ma che tutto  spirito: che ci che ci a])])arisce come mondo materiale non e in se stesso che un mondo di esseri psichici; che non vi hanno in realt particole di materia e movimenti, ma in luo^o di essi spiriti e fenomeni psichici. Biso:na distinguere duiupu^ il jxinpxichismo, da una parte, dalVihtzoismo, e dall'altra, di\\V it^^dUtiiio e dal fcnonenir^mo. 11 pan])sichista non ammette seiplicemente, come l'ilozoista, che lo s]urito  dn i)er tutto; uia che non vi ha clic lo spirito, e tutto il reale si risolve in esso. Da un'altra i)arte e>li non ammette che tutto il reale si risolve nello sjurito, perch cred(^ come il femmienista e r idealista subbiettivo, che i;li oggetti materiali non esistono che in (pianto li percepiamo, o, c(une P idealista obbiettivo, che sono delle rappresentazioni di uno spirito universale; ma percht', lascian(h) a (luesti oggetti un'esistenza indiiM-iidente dal soggetto conoscente, egli atteruia che non s(Mio materiali che in api)arenza, mentre ii realt non sono che spirito. 11 panpsichismo ha un posto assai largo nella metatsica moderna, sovra rutto nel peiiodo pi recente, per la cresciuta coscienza delle ditticolt del realismo ordinai'io: esso v ammesso Leibnitz, Schopenaner, Maine de 13iran, Rosmini, Gioberti (nella seconda foruia (Mia sua filosofia), Lotze, Wundt, Hartmann (che pino cimserva alla m iteria una certa obbiettivit), Clifford, Wallace, Taim-, Uenouvier, ecc. Molti (h sistemi a cui si suole applicale il nome un po' vago di din^nni^fl non s(uio iu verit clic ixiap^ic///s'//: noi vedremo (piai (^ il punto di contatto vile il dinamismo propriauuMite detto ha voi i)anpsichisiuo. Il panpsiclnsmo e anzitutto una soluzi(nie del ])roblema del nunub) esteri(ne. Alla (piistione: che cosa (^ la materia? dopo che (^ stata riconosciuta la subbiettidi tutte le sue (pialit. non si pm) ris])oudere alti'o, si vuol dire (pialche cosa di pensabile, se non che essa  spirito. Ci ' perch noi non possiamo concepir.' alti'a cosa che la materia e lo spirito: la mat(Ma. cio la cosa estesa, colorata, resistente, ecc.; e lo spiiito, cio un complesso di sensazioni, di sentimenti, di volizioni e inuna parola di fenomeni psichici. Ne segue che, do]M) che si  riccmosciuto che l'estensione, il colore, la resistenza e tutti gli altri attributi che costituiscono il nostro c(mcetto della materia, non esistono che relativamente al soggetto senziente, lum resta altra cosa che lo spinto, che si possa cimsiderare cernie cosa in s, cio a cni si possa attribuire uiresistenza assoluta, indipiMidente dal soggetto senziente. In altre parole, se niente del nostro d(^-lla materia cio di queste apparizi(nii che noi chiamiamo c(upi appartiem alla materia in se, la materia in se stessa, se noi l'ammettiamo e voformarc(nu^ un (Muicetto, non pi essere che cm che noi possiamo unicamente carte (luesto Saggio, in cui parleremo (h'ile dottrine sul nnuido esteriore. Tuttavia noi (h)bbiamo dirne (pialche cosa anche in (piesta parte, perch esso d pure una risposta alla (luistione delle cause (^tficienti, essendo evidentemente 10 14H UT aiK-lresso mia t'orma (k-iraiitroponioitisiiio, cio un'assiliilazione (li tutte le forzi* della natura air attivit arisce come estensione impenetiabile, colorata, ecc., ma anche la tbrza, cio l'attivit uotrice. la causa etticiente (h'I movinu'Uto. Jn un senso lato, si ha ragione di chiamare la (h)ttrina delle monadi un dinamismo, percln^' ancTessa sostantitica la foiza, (juantumiue non vi v(Mbi, come i riiK-. ed. 1). t. II. ]. II. 1:U .nifi i:"2 su, vvv. n non c(msiste ueirestensito: al principio passivo il principio attivo. Cosi la sostanza ccuiHuea  costituita (hi due elementi: la materia pruna o nuda, che l'autore riconduce alla poivnzu pa^fiinf, e la tbrza o pofenzd uttivn primitiva, ch'e, /v i/>-'f ^^v^'' ed. Dut. t. II, p. I. 20, Elespons. ad Stahl. ohserr. wd XXI. 7. Comment. de an. hrator. I V. ecc. (S) De prwa phil. emead. Dut. II. I. 20, Cohuh. de an. hrnfor 1V, Lett, se lU'Ss. del eorpo eonsiste neWesteus. Dut. II. L 2852S(;. rA'tt. a Fomher. Dut. IL L 2S7, Lett. sai earfesian. Dut. IL L 2HS, De i/)!i(( ^f^fl *>*'''^' ^''' ^^ ^**^' ^^' ^'^*^'' Teodie. Prefaz. ed. Jnc(iues 10-20. Es. dei prine. di .}falehr Dut. II. 1. 20S. /i.V>/.s^ r/r/ rf/////f'/-. t oiu-uo 1710. II. ('omm. de aa. hrator. l V. Mt. al y>. lioncet 1007. Dut. IL L 202, Lett sai eartes. Dut. IL 1. 20S. Lett. al,>. Prs liosses U tei.br. 1700. Dut. II. l. 200. 20 sett. 1712. Dut. IL l. S02 -i. 10 ao. 171.0. Dut. II. L:n4. M ipsa aat. sire dt^ ri ius. 11. 12, Ammadr. eirea Theor. Med. Stahl. IH. ecc. -7" r^ U8 149 (leiitali e variabili (Iciruiia, eoiiie le ttrano Hesistenza di sostanze incor])oiee, spirituali (-J-). Ci  perch oltre (die le leggi del movimento manifestano una finalit e non possono attiibuirsi che alla scelta della Saggezza suprema il fatto stesso del movimento non si spiega immediatamente, cio non rimontando alla causa generale della natura, che per le aninu', per le mcuiadi. T^a forza, il [)rinci])io attivo della sostanza cor])orea,  ranima o la monade (H):  essa la l'spois. nd Stilili, ohsi'rc. \u\ XXI, 8 t. tJiist. ad Hofmann 27 sctt. h\S)\). Kjiist. nd lU'rliHjhnii cil. Eni ni. \). iul . ^V. S. HidViit. tnn. 1. 1. e. 1. cil. .Ijh-ciucs t. l. p. 25, Hepl. a Bdjjle sul sist. delVunn. ft^stah. Dut. II. 1. S4, A's. del prine. di Malchr. Dut. 11. I. 208-201). hJinst. ud JIoffnHuui 27 sett. imm. Aittutdc. t'ircjt Theor. Mcd. Stuhl. 111. Dut. II. II. 182. J^cspoHS. ad Sfa hi ohsercc ini XXI. S, ) Teod. Prefaz. . De ipsa nat. sire de ri ins. 1 i 12, Uespons ad Sfhal. ohserr. ad XXI. '^. ori-. 'I sorgente del movimento e delF azione in generale . Per provare l'esistenza dell'anima, come sostanza distinta dalla materia, air argomento che i fatti psichici non potrebbero essere modificazioni della sostanza materiale, Leibnitz preferisce quest'altro: che la materia  puramente passiva, e per conseguenza il movimento e il pensiero, che sono delle azioni, de^'ono venire da (lualche altra cosa. Il movimento prova che (jueste anime o monadi sono contenute in ogni parte della materia, perch esso non pu essere dovuto che a un principio attivo, e (luesto deve essere un soggetto percepente. 1 principii del moto essemh diffusi (hi per tutto nella materia, per conseguenza anche le anime sono diffuse (hi per tutto nella materia . Spesso Leibnitz presenta il suo sistema come se esso fosse un ilozoismo piuttosto che un panpsichismo. Noi abbiamo visto infatti che la sostanza corporea  composta deUa materia e della forza, e che la forza  l'anima o la monade, Leilmitz ci rappresenta duuipie le mcmadi come se esse costituissero n. l)f i/jsa )H(t. sii' e de ri ins. 12. Li'tt. a Jfoiifitort A nnv. 1715, III. Epist . (id Vuijner. 4 i^iu*;. 1710. 11, Connn. de an. rutor. V. K/)ist. ad Vfifjner. 4 gin.i;. 1710, II. (H| Connn. de nn. hrutor. VI, Vili. (7) Siat. uoco ilelln tud. e della eo)nnnienz. delle sosf. Dut. II, I, 51. (81 AV. dei prine. di Mulehr. Dut. II. I. 208 20J). Letf. a Moitmort 4 nov. 1715. III. hJpist. ad Vaf/iter. 4 ;uj;. 1710. I II, (^omin. de an. hrufor. I IX, Jjett. al p. Des Bosaes. 14 t'cbbr. 170(>. Dut. II. I. 200. 1 sctt. 1700. ad 25 v ad 20. De ipsa iiat, sire de ri itts. 11-12. J'spons. ad Stahl. obserc. ad XXI. ^ \, Teod. Prefaz. ed. Jacq. II. 10-20. eie. (0) Risp. a Bai/le sai sist. deWann. prentab. Dut. II. I. 88 atetici^ interpret^ite in un senso che le riabiliti, essemh), secondo lui, le forze i)rimitive delle sostanze cori)oree ;2). Quaiitunciue non tutte le volte in cui le mona^:^. A^* '/''' prine. di Maletrr. Dut. II. I. 20S. h)jist. ad Tf/r/ //. Dut. II. I. 20(. De ipsa nat. sire de ri ins. 11-12, Anintadc. eirea Theor. Med. Stahl. Dut. II. IL i:H2. Besp. ad Stahl. obserr. ad XXI. ^. Dut. II. II. 154. X. S. salV int. iun . 1. II. e. XXI, ^ I, Teod. Brefaz. ed. Jacq. ]. 10-20, ecc. Sist. nuoro della nat. e della eoin. delle sost. Dut. II. I. 50, Ks. dei prinv. di Maletn'. Dut. II. I. 20S. Leti, a Montmort \ u^>vciub. 1715. III. Leti, al p. Bonret 1007. Dut. ILI. 2(>2. Leti, snl eartesian. 1H05. Dut. ILI. 20S. ecc. ('^) P. e. nella Monadol. I. 04-05. Epist. al p. Des Bosses 10 a-. 1715. Dut. IL I.:^1L Lt'tia Montnort 4 iiov. 1715. III. 152 153 tutto il nioiido (lei corpi, percli la materia, secondo Leibnitz,  oranizzata in tutte le sue parti, e anche quella che crediamo inorv. 171."). III. A/>/.s/. ad Vmjner. 1 .iiiu.u. 1710, II, Connn. de tnt. brutor. I \. Dr ipsit ttal. sice de vi ins. 11, Jsp. ad Stohl. oharrv. ad XXI. 7. {'M MoHndol. U. 1?S. IH. Diit. 11. I. 22, ibid, 50. Diit. 2, A7k^ nuoto di'lln Hfif. e dvllit conim. dvlle sost. Dut. II. I. 50 e 5:S, Ji'rpL n lidfli' sui sisf. dvlPiiriH. prcst. Dut. 11. I. SS. h))ist. ad VaUur. \ -.ilio. 1710. II. De ipsa nat. sire de vi ins. 11-12, Hesp. ad Stiild. ohsere. ad XXI. 7. Teod. Prefnz. Jacci. 1!) 20 (cfr. De ijsa H(l, si ve de ci ins. ^), ecc. materiale di cui ciascuna monade  la forma o Pentelechia fosse un corpo organico aggiunto a (piesta monade, importerebbe il concetto assurdo, che  impossibile di attribuire a Leibnitz ((luantmnpie ([uesto sembrerebbe il senso di certi luoghi) , che ad ogni monade, cio ad ogni elemento ultimo della materia,  sottoposto un corpo organico, \'al(^ a dire altra mat(Ma, risolubile in altre monadi o altri elementi ultimi, a ciascuno dei (piali  sottoposto un altro corpo organico, risolubile come sopra^ e cos di seguito. 8*^ L'anima o mornuU dominante del corpo organico non ])otr(d)be essere considerata (hi Leibnitz come la forza inerente alla materia. Fra l'anima e il corpo nel sistema di Lei])nitz non vi ha azione recipi-oca, ma armonia prestabilita: l'anima agisce dalla sua parte, e il corpo (hdla sua.  (piest'attivit inerente al cori)o e indipendente thill'anima che l'entelechia deve si)iegare: le entelechie, (piali principii attivi dei corpi, non possono essere dunque le anime, coim^ opposte ai corpi oiganici (per esempio il principio attivo del corpo umam non ])u vi ha al fomh) del suo pensiero ((piantumpie egli professi la dottrina che non vi hanno elementi ultimi della massa, percht^ il continuo non pm) constare di punii) h)jist. ad Vaf/ner. 1 oiu;^. 1710. IV. Dut. II. 1. 227. fJpist. al p. Des-Bosses H marzo 170!). Dut. II. I. 2H'^, Leti, a Dangieourt 11 sett. 171H. I. iAi rA ti V v]w iu\ ;;ni monade, eoi risjxnide un elemento nelF essenza visiile, e vhv il movimento di (piesto  prodotto dalTattivit di ({nello. Cos e>*li attiibnisec^ ad o^ni j)unto della matanieo risulta dal eoneorso di tutte le entiltehie eorrispondenti ai diversi punti di (juesto eorpo. Senza dul)l)io la proposiziinie che i corpi sono eomi)psti della mat(nia ])rima e delle monadi come torz(e o enttdeeliie, presa sti'ettamente alla lettera,  in contraddizione con la d(ttrina stessa delle luonadi, percli(' sembra considerare la materia prima come uiTaltra realt, mentre secondo (pu^sta dottrina tutto il ridale si risolve nelle monadi. K (nidente che dei due elementi che Leibnitz distinguile nella sostanza coiporea, e essere, nel senso ri^(n*oso, una tbrza, cio una causa epceuie (nel nostro senso) del movimento della materia. I movimenti dei corpi, cie si pretendono sj)ie. Dt's-lJosst's 17 iiiaizo 170H D. 11, 1. 2(il>. 155 semplicemente armonia prest^ibilita. E anche (piesto  evidente: ma Cii') non togliti che assimilanih) al movimento umano o animale il movimento .^ponUineo della materia inanimata ik vedremo in seguito come e perche' Leibnitz ammetta (piesta spanta neiti)vv la supI)osizione di uno stbrzo cosciente, di uiFattivit psichica, come antecedente anche di (piesto movimento, eli trovi in (luest/assimilazione (pialche cosa come una spiei-azio   ne del fenomeno (nel senso ordinario e non scientihco della parola spiegazione) , e ve(bi, per conseguenza, in (piest'antecedente supi)osto (pialche cosa c(mie una causa eniciente, perche^ la causa eniciente (' un antecedente che spief/a un fenomeno, e non semi)licemente a cui (piesto seue invariabilmente. Altre volte la dualit fra la entelechia o forza (^ la materia prima prende in Leibnitz un' altia forma. K il reale in se ste8*o, la stessa monade, che viene ri;uar(hita come composta di una materia prima e di una entelechia, (piesta essendo ancora il sinonimo di forza o potenza attiva, e (piella di potenza puramente i)assiva. Per comprendere (luesta (h)ttrina di Leibnitz,  necessario tener conto di eerte sfumature, di certe (\sitazioni nel concetto della monade, che sono la forma in cui si manifesta, in (piesto sistema, una contrad(bzione secondo noi inerente alla essenza stessa del i)anpsichisnu). Il panpsichismo (^ una risposta alla (piisti(me: in che consistono  (' perch(^ il nostro spirito ha una rii)u.i'iianza (piasi V. capit. I. vS 8. 156 invincibile ad ammettere che i corpi non sono, secondo la profonda analisi di Stnart-Mill, che delle sensazioni attuali (> povssibili; ma in virt della tendenza naturale (che spiega secondo noi tutti i concetti meta tsici) ad assimilare tutte le nostre idee a cpielle che ci sono le pi abituali, noi cerchiamo di sostituire al concetto distrutto (h'iia coi^a qualche altro concetto soni^i;'liante, che conservi agli oggetti un' esistenza per se, indipendente dalle nostre sensazioni. Le monadi di Leil)nitz, la Volont di Schotenauer e tutti gli altri concetti analoghi dei inetatisici anzi in generale tutti i ccmcetti trascendenti della cosa in s non sono lumpie che dei succe(la nei del concetto primitivo della cosa, del corpo ; tale  il loro scopo e la loro funzicme: cos la cre che deve fare se  conseguente, perch il presupposto del suo sistema  clu^ non vi ha altro (rintelligibile e di certo che il fatto psichico ; insieme alle essenze sinrituali si disegua anche allora innau/i alla sua immaginazioiu' (]ualche cosa conuMin corpo che fa da snhstratnm ; al suo pensiei'() cosciente e (MUifessato se ne unisce un altro a met incosciente e juui (MUifessato, che lo mette in contraddizione secreta con se vSt(\sso, ma senza di cui la sua ii>otesi gli sembrerel)be meno soddisfacente. Ma non tutti i panpsichisti amnu^tono il concetto rigoroso defilo si)irito, che non vede in esso che la serie (U-i fatti dell' esjxMienza interna, e non gli d che gli attributi che conveng(mo a (piesti tatti: un esempio  M. de Hiraii, che attribuisce risolutamente alle monadi la posizioiu' nello s])azio. L evi(Uuitenu'nte un vestigio del (pialche cosa coin un corpo che t da substratum. Fra i due casi estremi, del paupsichista conseguente in cui il (lualche cosa come un corpo resta un pensiero sul)cosciente e non contessato che non imprime iiente di s nelle (h)ttrine eh' egli apertanuuite professa, e di (pu'llo in cui esso giunge a una (h>ttrina costante e precisa c>?e afferma dello spirito (h\gli attributi che non convengono che alla materia, vi hanno dei gradi intermediari che sarc^bbe dittcile di definire :  in uno di (pu'sti che si trova Leibnitz, come si vedr confrontan(h) talune delle sue proposizioni con talune altie. In alcuni luoghi noi troviamo in Leibnitz una de^"f^a'JilWJlL'iiiWiailMI'iiWlUi'^li 15S tenninazioiu' n^^'orosji dell; iiioiuult* comi' pura essenza spirituale.  Niente altro eonoseo, e^li diee, nelle monadi 8e non percezioni ed appetiti . Non solo la moditieazione della monade consiste unicamente nella percezione ed appetito, ma le monadi stesse non sono altio che i)ercezioni ed appetiti. Le monadi non smio in un luoj;-o: non lianno sito tra di loro; non vi ha tra di esse alcuna o distanza spaziale, e dire che sono con.ulobate in un punto o . fh's /iossrs 21) uia.;;. e Ki,i;iu;. 1712. VA'r. Bisfj. alla:-*. He fili ca /.s7. al p. Des liosses:M) api'. 17(ll>. Dut. li. I. 2S5. Ucspons. ad Stahl. obncrc. ad XXI. ! (raiiiuu) \\/.s'/. al p. DcH JtofiscH 15 tVll.. 1712. Dut. II. I. 2t5. Hi jriumu 1712. Dut. 21)9. 24 \j^vnn. 171S. Dut. Sl>4. h'pisf. al ft. Drs liosses 15 t"('l>r., 21> uia.u.. U> uiuji.. 20 sett.  10 ott. 1712 (DtU. II. I. 2H4-2i>5. 2M7, 2i>S 201). SOS) e altrove. Kpisf. al />. /Mv fiosscs 1sr , i veri nioi della unluni , (U^';ii (domi di s/.s7. al /;. I>es linsses^'l.^ lua-. 17U). Dut. II. I. SIO. ecc. Mona dal. '^. (y) MoHtdol. S. ((>) JSisl. della tuff, e della eoumtt. delle sosl. Dut. IL L 5S. (7) flnd. Kf)ist. al />. Des /iosses 11 marzo 170(> (Dut. IL I. 2)S). IH ott. 1700, 11) niaizo 1700. SO apr. 1700 (Dut. 2S5;. Leti, a Dany'H'oarf 11 sott. 171(5. 1. ecc. (0) Moaadol. 2. Leti, a Arnfddd 2;i lujirzo lUMO (Dut. ILI. 4(). JiYisl. al p. Des liosses SI lu.ul. f.DiU. IL L 2S7). 2J> uiao. 1712, 20 uia-. 171() (Dut. Sii*). e divisibile, esso  un composto , come dice Fautore, nna collezione o un ammasso di pjirti airinfinito e il composto suppone deoli elementi ultiiin' che lo comjmnoano e lutamente semplici, cio senza parti: ): ci  evidentemente perch, il corpo essendo divisibile alPinfinito, se esso  composto di (^lei.enti ultimi indivisibili, supposto che la fJfHst. al n. Ih's liosfu's 11 marzo 17(H) (I)iit. 2i\l (^ 31 lii-l. 170J> (I),it. 2S7) e 20 sett. 1712 (Dut. 308). Prlm^, della nat. e della (jraz. 1. S^t, nuoto della e della eoman. delle sosf. Dut. IL L 50, 58 e 55, JCpisf. al p. Bosses W marzo 170J) v 81 liiol. i7out. IL I. 50 e 58. MonadoL {) (Dut. IL L 28), Prhie. della nat. e gruz. 8. L)jist. al p. Des Bosses U febbr. 170H (Dut. IL I. IH utt. 17(M; (Dut. 27(), 81 lu-l. 1709 (Dut. 287), 20 sett (DiU. 808), ecc. 2H8), nat. Desinili'sost. della 2(>(>). 1712 materia sia assolutaiiu'iite continua, (luesti devono essere in numero intinito. Ma ((uesto m.^ionamcnti) supponiche il continuo non sia un semplice fencnucno subbiettivo. ma risulti dalla Ju\ta-posizione delle monadi. A dir vero Leibnitz non accetta fra le sue dottrine coufeax((ie il concetto che il continuo risulta dalla juxta-])osizione delie monadi (piesto concetto a cui tende da o.^ni parte la dottrina che il corpo  un a.i:.-.ui'ei;ato sta in (dio lie che la ijnma.i;ini come alcun cIm' di simile, chiamandola, un punto ntcfffjisictt o di ssf(in:((. Nelle lettere al j)adre Desl>osses, iu cui vediamo successivamente tutti,uli aspetti sotto cui Leibnitz concepisce le iionali, (pn^ste, in relaziara fonate ripetutamente a dei punti (8), anzi, nella strana i[K)tesi sti. e Ejist. (d l. Des Bosses 81 Iii.-l. 170l Diit. II. L 2S7, Leti, a Danijieourt 11 sctt. 171. 1. /SV.s7. nuoto della nat. e della eotnnnie. delle sosl. Dut. IL L 58. (8) V. h))ist. al p. Des Dosses 21 lii-. 1707 (Dut. IL I. 2S0). 1() marzo 1701), 80 apr. 1700 (Dut. 2S5), 15 fobbr. 1712 (Dut. 2i)t ;tante e risolutaiuenti' coifessata coiie (juella che il corpo  un auureuato di monadi. Ma  evidente che quantuni\\\v j)rotessi esplicitamente la dottrina contraria,  cos  dei riassunti del suo sistema, che fa il centro d' una sostanza composta,  ciycaihftn da una massa c(m])osta di un' infinit ttrina pi"evalent(^ di Cai-tesio secon(h) cui la matei'ia condiste neirestensioiu'. Quest'ar.iionuuito mette in luce una ditticolt i-eale della (h)ttiina (T una materia continua e periettainente uniforme, e noi (h>hl>iamo vedervi uno (h'i veli motivi (h'ila monadoh^uia, perclu* una concezione trascendente della cosa ni se delia materia, ({ual e la (h)ttrina di Leihnitz. i)resu])iM)ne la ne,iazi(nie (U'I rcalisiifif n((fnn(l(\ e (piesta una critica delle due ipotesi opposte che jx^ssono farsi sulla materia dopo che si (' sop]>ressa V obbiettivit (h'Ue (pialit sec(ui(hirie, cio (|uella di una materia continua e jieifettamente uniforme, e r altra di corpuscoli sepai'ati da uno sjiazio vuoto. La dittcolt di cui si tratta (' T impossibilit di concepii'e il (li V. /'>>/.s7. al,). Di's lios: IIIM-.  Idi; \ iiat. e I Icll; rjiz movimento in una massa c(uitinua e i)erfettamente omoiamento in 1 'Ile cose che ci e he (' nel composto non ])u venire che darinoredienti sem])lici, e se le monadi fossero senza (pialit, non ])otrebbero distin.uuersi runa dalTaltra, perche non differisc(mo nemmeiK per la (juaiitit, e ])er coliseli U( iiza, il pieno essendo supposto. ciascun luo.i;o non riceverebbe semi)re lu 1 movimento che T e(piivaleiite di CIO ( he aveva ])]'ima, e uno stato di cose san bl] )e indiscernibile dair altro i:3). Leibnitz imma-ina evideiit(Mneiite che nelle diverse ])arti deirestensi(me esistono delle monadi differenti (differenti per i loro stati intrrni), che (piente monadi scambiano la loro ])osiziom', e che nel im>vinieiito della materia le stesse posizioni sono occui)ate Sulla iuconccpibilit del moviiiiciito in nnn liatcria con\\\v suUr impossibilit logiche tinua ed iiinforiiH', e in .liciicr delle (lue ipotesi oi.postc (U'I realismo naturale. Iella eoutiuuit Iella K't aifitra sire ia^'ifn V.^. (S) Moiunio. \K B ](U succt'ssivanu'iitt' da monadi (littVivnti. La i)osizioui^ delle iiiiiaosizione implicitamente ammessa nei ra.i;ionamenti precech'Uti, cio che le monadi hanno relazioni locali ed esistono m^llo spazio. Forse non vi lia anclie 05. 165 di pieste lettere  alle cose continuate o ripetute come il numero alle cose nunuM'ate: vale a dire, 1sf((n:(( sepicc, ijKinfiUinv non ahhid tir sv csfrusionCj lui iondimeno poi^izi(>ni\ che  i f(>nii(>n(% l'estensione essendo la simultanea continua ripetizione della posizione, come diciamo che la lineji  pro(h)tta dallo scoirere del punto . Ap])resso l'autore ne.iL^'her enei\i;i cani ente che le iionadi abbiano ])osizione : l'idea, venuta i)er un istante a inaila, sar res])inta nuovamente n(*;i,ii strati subcos(*ienti del suo pensiero. La dottrina che la monach'  costituita di entelechia e di materia prima che si trova anch'essa nell'epistohirio al ])adre Des-Hosses si le|>a evidentemente alla ]H'oposizione ultimamente citata. La materia ])rima, dice rautore,  la i)otenza passiva ])rimitiva^> il principio della r/'s Joases -1 lui;li(> 1707 D. II. I. 2Sn. V. n. 2 ]K ir)S. (S) ('tv. Leti, al p. Dcs-Iiosscs 15 fcbUr. 1712: latteria piiiuina ^ la ('(nidizionc doircsti^isioue 0 della resistenza. Ep. al 1. Des-Hosses 11 marzo 1701) I). II. 1. 2r)S. prile allo stesso tempo ad altre monadi. 1/ enteleeliia della uionade  il suo contenuto interno o puranuuite l)sieliieo, eiuisiderato eoiue t'orza, come causa del luovimento. Secondo (piesta conceziiuie della monade, che avvicina il suo sistema alT ilozoismo, Leibnitz pu trov^ire ueir attivit psicliica delle monadi una ('((i(s(( cffivvii\ nel senso stretto, del liovinu'nto, percli (juesto non  pili un sciu})lice fenomeno subbiettivo, ma si risolve nei caniiiamenti io dell' estensione e della resistropriet della monade, considerata come sempliee serie di junrezioni e di apietiti. ehe  il fondamento del fenomeno materia. Sn ci l'iintore non ei d elio r indicazione otenza ])assiva delle monadi. (Oft. omn. Dnt. II. I. ]>. o()2. Cfr. p. 22S. Epist. ad Vaiiiiernm 4 -inuno 171(1 IV in tne). Sieeereeziparist'on> come un mondo di OiiH'ctti estesi e dotati delle altre prlica a lavle sul sist. leli'arm. i>restab.. D. II. i. 1. 88, oefr. Billin^cr Dilueidation. pliilosoi>li. v\ 245 eilato in I). IL ]>. 1. ): e sieeonn\ d'altra parte, rieomlnce l'uno all' altro i trer cni non hanno lei r'ale. clu; una percezione confusa. Noi ]Mssiamo inoltre sii]porre ehe, velend) n'lla limitazione Ielle monadi (pi, 'i-li r.iiuar st'ss tenijK il rohir h-lla limitazion' di cjiscuna m>nale (p un'altra forma) come il fomlann-nto di'lla l)ealit, ci>' leira])parire li 'ssa.  iinttsto lei suo fenomem, in uno 0 in un altr> i>unto lello si>azi>. 11 ])unto dello spazi eorrisi)mh'nte a una mona li vista seeonl) cui essa si rai>i>r'senta 1* uni vers>. (Sist . nm>vo U'ila nat. e Iella e>m. Ielle s>st. I). ILI. 5:'>. \U^\A. a Bayle sul sist. hdl'arm. ])r5st. D. IL 1. x:\). O-iii mnml' infatti ha la rappresuitazi)ne lnal>l. 58-51). Princ. U'ila nat. ' h'ila -raz.:^ ' 12. L H57, 'pr'sentazion' sia leformata in nn sens) o in un altr>, eh' p. '. essa ha una ]M'r''zini' pii confusa h'ile 1()S vlv il m:n*ti iii \iciiH'. il imiito di vista li una uiouinlc a un uuiiu'Uto  nuuuento. -he le rai>presentano una o un'altra pr>spcttiva b'IT univers>. Seconb> juesto cnc'tto. |uanosizimc. la realt clic -orrisiMUHb' a incsta immilline  che essa aniiia le siu' ]n'r''zi(uii in mob> cln' runivci'so e rai>]>reseutato a un imnto li vista litier'ntc. Allora lire ch' essa T' una forza. ci' ' la -ausa b'I pro]rio movim'nt> > bd punto bdla materia cH' le -orrisjMMKle, si^nit'h'i* -lu' [u'sto can:Liiameut) (bdle su' p'rc'ZMii ' sp>ntanM>. h'  lovut> JiUa sua pr>i>ria attivit. Cos la spi'fj.azi>n* antr)ponintistica bd m>viment> prende un' altra t'orma, la sda -lu' >ia l>;iica in un ]Knii>sichismo riju*oso. ' lu'. uiK' \ 'li'm, e iK'rtV'ttanK'utt' c)ut')rme alle ' dottrine li Lciluiitz. 1H9 luzione del problema del mondo esteriore, ma anclie una teotia sulle cause, una spie che avviene in un punto della materia essendo la manit'estaziime fenomenale di ci clic avviene nella monade di cui (jiiesto punto (* il punto di vista. Leibnitz ammette duiKpie che le posizi(mi susseonenti ijercorse da ciascun punto della materia sono determinate dalle posizi(mi che (luesto i)unto ha i)rece(b'ntemente ])ercorse e (bilia le.ii-.i-'e interna che re,i;ola la serie (U'ile sue i^osizioni successive, cio' il suo movimento (Il C'osi il mo Niente u>n acale in un corpusc)lK lic' Leibnitz.  n'mnu'n por l'urto dei corpi circ>stanti, ch' mm sc-na la {> he ^ o-i interno, e che ne p>ssa turbare Tonline Nni vi ha ri,  n'll' a).parenze. E ci) ' si v'ro che // wonnivHto d //na/siasi /jnulo rhr si possa prendere nel mondo. si fa in ana linea d' una natura determinata, e/te questo punto ha preso una volta per tutte, e ehe niente non (jli far mai laseiare. VA v pudb) che io crMb ptr dire di pili precis) e di pi 'hiar per leoli spiriti oeometrii. piaiituiKiue lueste sorte U linee ltrepassin intinitamente luelb' che uno spirit> fnit) pu> c)m]renlere .  neirentelechia, a-giunoi' l'autore, di -ni piesto punt)  il punt li vista, eh.' si tr)va prpriamente la s]Mnitaneit:  rentilMdiia 'sprinu' la cuiva prestabilita stessa, li s)rta -lu' in iuest sens nient' vi ha di vidento a su ri, se dovessimo ammetterla come un fatto, non [)oti-ebbc essere \vv noi che un liistei'o inesplicabile. Ora una seijuenza che ci send)ra incomprensibile, noi non possiamo considerarla come, causazione vera, cio etticiente (se si tratta sichismo, a meno che m)n vootremmo vedere in (juesta prova un motivo reale della teoria delle monadi, u considerare (pu'.sta t(M)ria c(nne una si>iegazione antroponKU-tistk'a d(d movimento. Ma siccome e evi(h'nte che rautore hi considera come tale , noi (h)bbiamo ammettere ch'(^gii ha avuto uiraltra raghme. indipemhMite dalla teoria (hdle monadi e dalle sue conseguenze, per riguardare il movimento come spontaneo, e non vedere nell'urto una causa sutticieute, perfettamente esplicativa, (h'I fenomeno. Xi fenomeni che lo spirito umano trova i pi propri a servire da si)iegazione universale delle cose, si ventica spesso (pu-sto ap])arente para(h>sso (che noi spiegher(^mo nel cap. IV), er rurto-che, com abbiamo notato,  uno di tali feinnuen rio che vi vediamo sovratutto di misteri(so  la conservazione inih'tnita del movimento impresso, questo lato della legge (Finerzia (die ta che il movimento una volta Hc(nninciato, lu^r assenza di cause esteriori ritardanti, deve continuare per un tempo inlinito e con la stessa velocit. L' incinnpnmsibilit di (piesto fatto (la (piale, secondo noi, non  che un fenonuMio psicologic(, che V. ia-. 14J)-151. h % 1*^non ])n)va alcui mistero rel nel fatiti stesso) si 8i)ieoa facilmente per la sua conti addizione con le sni'a continuamente . (^lesta  1* ojMnionc^ di Leilenitz, salvo che per lui la ris insiffi n della sua virt di a.t;ire. Ci che prova resistenza di quella r/.s' insifd nei corpi,  sovratutto la piopriet che essi hanno di conservare il movimento ricevuto. lu . /V.s/>V).v.sr.s' li) a.ii. 1715 Dut. IL L 'Mi. Ih' fH-inia, plil. ntwiuL D. IL I. 20. (H) A/>. (Hi lofmmni 27 sett, lHi)H D IL L 2t;(l. da^li Ulti (Iri (Mri)i . 1) Questa forza, ai^i::iiiuo;e Fautore,  analoga airaninia deroso, una forza, eio una eausa cjficicHfc del movimento, perch un movimento che si pi"etende un effetto delTattivit u essere causa che delle sue proprie moditicazi(mi. per conse^ueuza, nel concetto riu'orosamente spiritnalista della monad(% che dei suoi pro])ri stati interni, percezioni o appetiti. Cos noi abbiamo accennato in una notti precedente che la proposizione che la miMiadt'  caus;i del nnyvimento. del trasporto da un punto a un altro dello spazio del punto disila materia che le corrispcmde, non pu avere che un sii;nifi cato, ])erfettamente coerente in un pan)sichismo i'i;;-oroso, cio che essa can.u'ia, per virt propria, le sue percezioni in modo da rappresentarsi V universo a un altro ])unto di vista. Il concetto antropomortsti'o della causa, nel sistema di Leibnitz, ci si mne u-eneiale dei fenonu'ui tisici, ma a quella de^ii stati interni dv\U' monadi, dei fenoneni psichici che le costituiscono. PotrebK' seubiai-e clu^ in un sistema che neua la realt della materia, e non ammette altro di reale che il fatto psichico, non vi sia pi luo^o a parlare di spier i/fstt Hfff. sirr de ri hs. II. fhiiL 11-1*2. 175 reali senio dei fatti ])sichici dottrina che non ])u essere che una risposta alla (piistione del nunido esterioi-e essi si sono *^\\ assimilati ])er ci stesso ai fatti umani: allora, (lualundue sia il fatto che si ])renda come tipo (h'ila causazicme, facendolo servire da spie.uazione univei'sale di tutti i fatti, esso sar necessariamente' un fatto umano: sicch parrebbe che non vi sia motivo d \ edere nella scelta di un fatto i>iuttosto che di un altio mia conseiiuenza unto di vista: una rappresentazione del moiulo, che can;i;ia secondo i canii'iamenti del mondo stesso e (pu'lli del punto resentazioni dello stesso universo,  questa la iara supporre la s])ieiazione ])r(M*edente deirarmonia i)restabilita combinando le lei^iii tlei cani>'iamenti delFuniverso con (pu*lle dei can^uiamenti del punto di vista delle monadi. Ma i cangiamenti delle rap))resentazioni V. Comm. de an. hrutor. XII. \'. Mintali. ri()-;")7. ()S . 77. l*rhH'. de/la tnil. e della (jraz. *>, 12, li. /'s/toiis. ini Sfa/ti. ohscrruf. u\ Wi. 2, Lettera a Duiif/eourt 11 sett. 17115. lupi, a liat/fr sul sisf. delV arm. prestafl. I). II. 1. S{\. J/is'jjo>:/a alla I\ rrplea di Clarke 1)1, ecc.). (S) J*isf>. alla I V replica di Clarhe ili. Lett. a Dafjineoart. 11 sett. 17PJ. 1. ecc. V. lepl. a Tiajjle sul sisf. dell'arm . prestah. e^ Safjf/i sulla bont di />io ecc. ^ iOA. licemente s])ontanei, ma aiu-lie, in nn senso, volontari: la momnle  uno speccliio delPuniverso, ma uno specchio viveide, cio dotato di attivit. Il prim-ipio interno dei cangiamenti della monaercezione ad un' altra,  V aj)petito: dalle j)ercezioni del momento precedente la monaejisiero), jKM-ch una volta cIh' le j)ei*iei;azione si ciistin^u** da (pu'lle ])roj)rie dei sistemi idealisti, percli la paite ])i"incipale  ass(\i>-nata alla volont. L'ultima ])arola Iella ])jij;'. 88 (lii citato u p. UJII in iiotji. Ci pvv non )Mtrcblc jq]>licarsi strcttjinientc clic alh' monadi inferiori. \'. ci clic diremo in seiuito). Priie. ile Ila ani. e il ella ijraz. S. Moiitd. 11-15 . Priie. tiella naf. e dilla f/raz. 2-'A, Risj. alla I y repl. ili (Harhe \V>, Ciunnenf. ifean. hrulia'. XII. Kpist. al p. Des-Iiosses 2'A n^x 17l;>. Animadr. einta 'Ilieor. MI. Stitll. JII. J*espots. ad Slahl. ahsercat. ad XXI. 1-2. Liti, a Datifieourt 11 sett. 171(>, ecc. (8) V. Prine. della aat. r ili'lla f/raz.:?. .1 2 17S filosofia (li Lcilmitz, come di olizionale de^li stati interni delle monadi f per cui la line ni avverimento del prime vi ha un avveninuMitno in uno dei due moiuli, siano coiue la tiaduzione, in un linunaiiiiio ,uenza, (piando la monade passa da uno stato ad un altro, ci('> che definisce i due stati e la loi'o differenza, V che la monade nel ])rimo stato si rai>pr(^^enta l'universo a un punto di vista, nel secondo stato se lo rappresenta a un altro punto di vista. Ma il ])unto d\ vista di una monade, a un momento (hito, coirispeuide al punto dello spazio occupato, in(piestomom(*nto, dal punt( materiale che (^ il fenomeno di (piesta nu)nad(i. hun(pie la posizione del punto materiale, a un tal momento, V. Moiijid. 11. l'(, 2J>, L*riuc. Iella iiat.  Iella ;;raz. \ e 5. V. IM'inc. Iella nat. e libila ercezioni. La cosa in s del fenomeno movimento  hi siosizione nello s[)azio (({nella della sua luaierin prima). L'altra elie coriisponde al paiipsiciismo rigoroso che  l'altia faccia della teoria, cio che la monade  causa del movimento in pianto  la causa roont((ri(( lei caiijiiiaim'nto lei su)i stati interni, che  Vin se del movimt'uto. K pi'st> il solo si -hiaro e lo, s' essa f)sse scompagnata lai su) inviluj)po rapj)r'sentativ) ' sensihile, ci) eh' la causa dei nujvimenti lei ()rj)i che noi redianto^ lei fenontcni,  l) sforzo, Toscura v)lont, Ielle imniadi, che sono i i>rinci[)ii animatoli li piesti e)rpi. ^ 17. I sistilo esteriore, ma aiudie una teoria sulle cause, una spie^^azione antropom)rtsti*a h fenomeni fisici. La ])r)va pi evilente li piest) fatto  la lottrina li Maine h' I^iran, che, nlo piesto fil)sofo noi ahhiaiiio neiratt) v)lontari>, ei) nel fatto di esperi^nza cln* l'atto li vol)nt, 'onu* eausa,  seiiiit lai m>vim*nt) ld orp), m)!!^' eff'tt, la per''Zoiie immediata ld legame ausale: nuMitre ^ii altri fatti non -i mostraiu) die le -onuiunzioni > le seluenze uniformi 1m f'n)m'ni, ' in pu'sto fatt> sol) s la volont  per n>i il sol) tip) die ahhiamo jier 'om'epire la eausa ettici'nte, e n)i l)hl)iamo ])ercilont. ]Kn"ente ])orta il nome di volont. A>/// I(( rcdr itclla fovzn c//c fu crescere e rajetare Ut pi(i(t, e crisiaizzare i miner(te: che (iriije Vnijo c(il((uf(fi(> rerso il nord: neUi c(tmmo:ioie che prova iftKOtdo (lite ueini etero/, nuinifesfiintesi Hotfo fornuf di attrazione o di rexpnlsione, di conhinaziitne o di decowposi:i i femuneiii, m arriviamo alla cosa in s(l). Spinoza dice che, se fosse dotata di coscienza, la pietra, (piando uirimpulsione la fa volare attraverso lo spazio, 'l'ederebbe volare . misimtikai^*^^-'^if:.vt ^ ^. i-;;."-^'.i;'KSJa ]S4  ri,iu;n(l. Ilud. voi. II. p. r>b) e 501. 185 rono verso ;li abissi la caparbiet c(ni cui la calamita persiste a ritornare verso il polo nord ; lo slancio del ferro quando vola verso (piesta calamita; l'intensit con cui i poli tendcmo a riunirsi neUa corrente elettrica, e che una resistenza non fa che accrescere, come per hi vivacit (h'i desideri umani; noi vedremo ancora il cristallo formarsi no, si uniscono o si se])arano; intine noi sentiremo direttamente ])er noi stessi (juanto un fai'dello, di cui il nostro corpo impedisce la tendenza verso la liassa terrestre, fa pressione e si a]>pogi^ia con insistenza sulh* nostre spalle, s(*guendo cos la sua unica aspirazione: (pian(h) noi avremo attentamente meditato tutto ci, non ci coster [)iii un i;i'ande sforzo (rimma:ran(U' distanza (hdla nostra propria natura, (luesta cosa che, in noi, ricerca il suo scopo rischiarandosi della conoscenza, ma che (]ui, nelle pi [)allide delle sue manifestazioni, non ha che delle tendenze cieche, sorde, unilaterati e invariabili; per conseguenza, come il chiarore delTaurora mattinale porta il nome di luce solare ugualmente che gli splendidi raggi del mezzod cos (juesta cosa, essendo (hi \wv tutto identica, (k^ve j)ortare (jui, come l, il nome di volont, perch(' (pu\sto mmie designa l'essenza intima di ogni cosa in (piesto mondo, la sostanza unica d'ogni fenomeno. La tendenza piincipale della volont, negli esseri dotati di conoscenza. Ihd., voi. I, p. VM). ISH , in ();;in iii(li\ i^liio, la propria coiiscrvazioiu', v \v toriie sotto cui questa ttMideiiza apparisce, si riassumono a rercare ed a inseguire, o a-etto fra .;1 og^'etti; a questo punto di vista le azimii, i movimenti di (pu'sto corpo non ^ii sono altrimenti conosciuti che i can;L-etti si i)resentano al seguito di cause, di eccitazioni o di motivi. Ma non potrebbe comprendere rintluenza dv motivi (esteriori) pi  che conosciamo immediatamente che deve spiegarci ci che non conosciamo che mediatanu'nte, e non al contrario. Comprendiamo noi meglio forse il movimento della palla provocata da un urto, che il nostro proprio movinu^nto 18i) provocato chi un motivo? Altri possono crederlo: io affermo che  il c(Hitrario . Kvi(lentement(, (piando raut(ne dice che noi troviamo neiresperienza delle nostre j)rojn'ie azioni volontarie lesole causazioni che comj)rendiamo e di cui ccuiosciamo l'essenza e il meccanismo intimo, mentre le (causazioni delTesperienza esterna sono per se stesse incomprensibili, e lo l'estei'ebbeio s(^ non fossero s])iegate i)er mezzo delle i)rime, egli nffeiina, sotto un'altra forma. In (h)ttrina stessa di M. de Hiran, una causazione che si comj)rend(^ e che ])U(') s})iegare le altre clic non si comprend(nu), o di cui conosciamo l'essenza e il njcccanisiio intimo, significan(h> uv \)\h w meno che una causazione efticiente, come ci che noi diciamo una semplice se(]uenza invariabile significa ])recisamente una causazione che ])er se stessa non si comj)rende, e che lia Insogno (noi ci'cdiamo) d'un intxMinedijirio es])licativo. La stessa riduzione delle forze del mondo fisico all'attivit esteriore dello s})irito, che abbiamo trovata in Leibnitz. in M. de Biian e in Scho])enauei', la ritioviamo })ure nei pan})sichisti posteriori. Uno di (|uesti ('* Rosiiini. Egli fa consistere la cosa in s(' del coipo in un essere spirituale, che chiama il prinripio ((prjHtrco ; ma:i diflerenza degli altri ])an])sicliisti, vuol conciliare  .vc>/sv7//'o, cio(' in un altro essei'c spirituale, come l'oggetto o, come dice l'autore, il teiinine, di una sua ])ercezi(nH* ])ei*manente (HeithHnilo fomlaueninle). Ogni coij)o non (' (hnnpie che il jx'icepito del su( ])rinci])io sensitivo ; esso non esiste che mdla ])ei'cezione e per la ])ercezioiH' di (juesto piincijno sensitivo, e non (' che il contenuto di (pn*sta peicezione } . Voi. 1. p. 202. Voi. II. 1. N 190 ma essn ( inTiiuiucntc, e priri aiicic il corpo r perTiiaiieiite. Il principio sensitivo di un corpo non e soltanto il so;;vtto pci'cipicntc in cni il coipc incsistc come suo percepito, ma  anclie il principio animatore di ttrina tutti o, e lo C(mse>ue fatalmente, perch non  lil>ero. ().ini fcuza  istintiva; l'entelechia psicdiica opera i)er istinto, (piando  solo sensibile, e (h)r]ne la coscienza. La vita e Pistinto essen(k> azioni ordinate e teleol(ja.ii. >-7. Protoloijla ed. Napoli t. Il lH-2(), 17:^. U7. 2lj^^. r>2. l:^ li)4 meno senza si^staiizM, o noi dohhijniio jniiniettcc che vi si nasroiidc tuttavia una vita spirituale. L'idealismo non lia mai j)otuto tare trionfare la ])ii)nai[>otesi: il mondo esteriore ha per se stesso trop[>a l'ealt pei* essere mai riuuardato eonie una puia creazione della nostra im ma. il inazione: noi siamo dumpu' ohhliuati di eeicare la l'a^^ione della sua esistenza peinianente in un principio s])irituale clie lo vivilica e che solo pu essei'c riguardato conu' un esseie indipemlente. K evidente che (piando Tautore dice che un essei-e inerre (h>tato di forze, e che non ha per caratteri che rimpiMietrabilit e T estensione,  incomprensihile, che la iH)stra intelli.uenza n conce])irsi c(une la reale (ci(> che, come vedremo inaila 2-' parte di ([uesto Sanzio,  jx'ifetta mente vero) ; e che, come dice Fautore nel secoinh) tratto citato, non si pu('> comprendere il suo modo (Tazione. ma solamente ([ue]|(> (h'ilo spirito. I/[>j>osizione tra la materia, [)rincipio inerte, morto, e lo spirito. principio attivo e vivificatore, ci dice abbastanza che (pu'sto modo (Taziime dello spirito, che solo comprendiamo (e che per con sequenza cU've spieiare tutti ^li altii modi d'azione ch'Ila natura),  sovratutto il nod( (h'ila sua azione esteiiore, come principio (h'ila nostra propiia foiza e di tutte le forze cosmiche. Questo fatto, chv il i)anpsicliismo non (' solo una dottrina sulla cosa in s della materia, ma anche una s])ie^Uazione antioponM)rtistica dei fenomeni tisici, si ])U(^ osservare facilmente in tutti ;ii altii autori che ammet IhiiL e. Ili vS l. '.laMWii 195 tono ([uesto sistcMua, altn^tanto che nei filosofi precech'uti: in Wundt che, come M. de Hiran, vech* nell'azione volontaria il tii)o d'ogni causalit e rorier cui il lato interno, l'in s, (h'I movimento (h'i coij)i  (pialche cosa (b' analog(> alla sensazione muscolare che accompa,ina i nostii propri niovinuMiti: (H'c. In tutte le foiine del sistema noi vediamo tutti i moviuH'nti della natura assimilati pi o meno al movimento volontario. Evich'iitemente (piesto scopo r()]>ri(' azioni volontaiic. ed e trasmessa da esse a de.nli onLietti esteriori in movimento (Wnndt hJlrin. d /tsirolof/ia fisioOf/i(u e. 20 v^ 1 sul ]>rinei]MoL V. la stessa o]>era e. 24 v> ^. (S) V. la stessa oix'ra cap. XX J. 2. V. Xnoia J[oiHHolo(/ia XIII. 'tuttavia Henonnier non vede nel ra])|M)rto tra la volizione erjinte un'azione esterna (Ibid. nota 2. Anelie Ivcnouvier trova roT jn'r due vie ditferenti, una volta pei* i sensi esterni, e uiTaltra pei* la coscienza; la coscienza ci d la i-ealt. i sensi cstei'ui il fciunttenOj cio l'apparenza, di   la lealt  ri[M)tesi di Scho[)enauer ; o il pndlcUt sichico che si d come ra.uione esplicativa nuMio che ci sembra intelligibile pei se stesso. Ora rappresentarsi i corpi in movimeito come viventi, animati,  assimilare pi o meno il loro movinu'uto al moviun'Uto volontario; e tra i movinu-nti che non possiauo spieiare per l'urto,  (puvsto il solo che -enere antropomorfismo non si riconduce alla formula di A. Comte: la tendenza dello spirito umano, che quest'autore pone all'origine della filosofia teologica, o anche, in generale, della filosofia netatsica, non potrebbe, rigorosamente, rendere ragione di questa forma di filosofia a cui noi alludiamo; tuttavia essa ha il rapporto pi intimo con la tendenza di cui parla A. Comte, perch, in (juesta filosofia,  ancora suir attivit umana che viene modellata la spieo-azione universale dei fenomeni. Questa filosofia  Vi(lealismo: beninteso che noi dobbiamo dare a questa parola idealismo un certo senso definito, perch non  in tutte le dottrine a cui suol darsi questo nome, che si pu riconoscere una manifestazione di (|uesta tendenza a spiegare i fenomeni, assimilando alla nostra attivit umana il loro modo essenziale di produzione. Noi intenderemo dunque per idealismo una dottrina in cui la natura viene spiegata per V attivit immanente del pensiero, cio per 1' attivit dello spirito, non sul proprio corpo o sul mondo esteriore, ma sulle proprie 199 rappresentazioni. Cosi ([uantun(|ue ordinariamente siano chiamati idealisti, ]). e., tanto Fichte, quanto J. Stuart. Mill o A. Bain, invece, iul senso ])i ristretto che noi diamo qui alla parola idealismo, questa denominazione conviene al primo, m\\ non pu coivenire ai due altri. Poich quantunque tanto il primo (pianto i due altri neo'hino la realt del mondo esteriore, e risolvano la natura nel sistema delle no>tre percezioni, pure vi ha fra di essi una gran differenza, ed  che il ])rimo si)ieg-a questo sistema di percezioni, ((uesta natura, considerandola come la creazione e l'opera di noi stessi, come il prodotto dell'attivit s))ontanea del me, del nostro ])en siero, e perci noi lo ehiamiamo un idealistit: mentre i due altri considerano (piesto sistema di j)ercezioni come dato, non come prodotto da noi, dalla nostra attivit pensante, e perci noi non li chiamiamo idcaltsti. Il tipo della metafisica idealista, in (piesto senso, bisoo-na cercarlo nel movimento filosofico tedesco, che va da Kant sino ad Hegel: i rappresentanti di questo movimento filosofico, sia che Tacciano del mondo esteriore un fenomeno subbiettivo (idealismo subbiettivo: Kant e Fichte), sia che ammettano la realt iXvX nnmdo esteriore, ma risolvendo le cose in pensieri (idealismo obbiettivo: Schelling ed Heg-el), tutti ammettono egualmente che il mondo, fenomenale secondo gli uni, reale secondo gli altri,  una j)roduzione delT attivit del pensiero. Se si (love stare jdl'etiiuolonia, aiiclie l'idealisiiio saicMte un ]>anpsiclnsni() (nieno tutta.viji quella forma leiridcalisino die ainiiiette l'esistenza di qiialehe eosji iinli]eiMlreseiitazione, eoiiie p. e. il eritieisiiio in pianto aninu'tr' l'esistenza reale della eosa in se). E ei natnralnuMit' * vero non sla idea200 15. Kant , come abbiamo detto, un idealista subbiettivo: le cose che noi chiamiamo esteriori non esistono lisnio. iiin jnulii' nel scuso ]>ii lurido che viene (bit( ordiiiarijiiiiente a questa parola: |>. e., Berkeley. Stuart-Mill. Haiii sarebler() aneli' essi j>aii]si iKini>sieliisnio (piella forma di UH'tatsiea. il eui carattere essenziale ^ di vedere nella materia un tiMuuucno, la cui cosa in se (^ spirito. 11 ]anpsicliismo nasce dalla quistione: onlc a luesto fenomeno (h'ila nostra percezione che noi cliisiniiamo materia i Tuttavia, oltre che alla ricerca della cosa in se, questi) sistema  pure le.uato a roprio corpo. Perci noi abdamo considerato il panpsichismo. in pianto esso  lejiato alla quistione delle cause ettcienti, come una manifestazione della mastra teiHh'Uza ad elevane l'attivit volontaria che si esrio corpo t sul mondo esteriore, a tipo della produzione u nejiare con Fichte il monlo esteriore. ]ui> ammettere con Kant lette cose in s s-onosciut . \mh -m Heporre che essi siano delle impressioni in noi o delle V Aliai l. IL e. Ili, iMMidam. della distinz. di tutti gli ogj^etti in tVMiom. e noum. Cfr. Sc>lio alPantb. dei cH,cetti ritiessi, verso la line. 202 apparenze delle cose in 8 .sconosciute: la forma comprende l'ordine o i rapporti reciproci in cui ci vengono presentati questi dati dei sensi, questi materiali della conoscenza. Questa formd delTog-getto della nostra conoscenza non  dovnita all' azione in noi delle cose esteriori sconosciute, dei noumeni, ma si trova preparata nel nostro spirito stesso, e g'ii  ing-enita, niente potendo essere oggetto della nostra conoscenza, senza ric(;vere qu(;sta forma. La forma  cosi un elemcMito puramente soggettivo;  il modo det(M*minato dalla natura delle nostre facolt conoscitive, in cui le cose devono essere da noi rappresentate. La forma  l'elemento comune o permanente della nostra conoscenza ; la materia  r elemento variabile: ci che vi ha di a priori nella nostra conoscenza ap})artiene alla forma, ci che vi ha di a posteriori alla mat(iria. Nella nostra conoscenza, e (juindi anche negli oggetti di questa conoscenza, vi ha un duplice elemento formale: vi hanno le forimi dell' intuizione sensibile e le forme del pensiero. Le forme dell'intuizione sensibile, che Kant chiama anche intuizioni pure, sono lo spazio e il tempo. Se gli oggetti sensibili sono (stesi, se ogni oggetto o fenomeno esteriore  in un certo luogo, ci  perch lo spazio  una forma della nostra sensibilit, e noi non possiamo perci percepire altrimenti i fenomeni che nello spazio. Se tutti gli avvenimenti, comparati fra di loro, sono o simultanei o successivi, se ogni fenomeno occu{)a una posizione nel tempo, in una parola se vi ha nelle cose che noi conosciamo un prima e un poi, una successione e una durata, ci e pure perch il tempo  una forma della nostra intuizione sensibile, e noi non possiamo conoscere niente, n noi stessi n le altre cose, senza rivestirlo di questa forma. La successione, il prima e il poi, V ordini* dei fenomeni, non  dunque nelle cose stesse, non  che subbiettivo: indi 2m {)endentemente dallo spirito che conosce, non vi ha alcuna successione, alcuna simultaneit, alcun ordine nei fenomeni stessi. Questa dottrina sul tempo  della pi grande importanza nel sistema kantiano, perch senza questa subbiettivit del tempo le forme del pensiero, di cui ora passeremo a parlare, non potrebbero ajplicarsi ai fenomeni, ai dati della sensibilit. L' applicazione delle forme del pensiero ai fenomeni consiste essenzialmente nel determinare a priori i loro rapporti nel tempo (e col tempo) (l. Che il tempo  una forma dell' intuizione sensibile  duiKiue la ragione perch i fenomeni appariscono nel tempo: ma la ragione per cui essi ci appariscono nel tempo in certi rapporti reciproci determinati, deve cercarsi, non nelle forme della sensibilit, ma nelle forme del pensiero o dell' intendimento. Per esempio, perch vi ha questa uniformit generale nella successione dei fenomeni, che noi chiamiamo legge della causalit? Questa qustione ha una suprema importanza pcir Kant, perch le ricerche scettiche di Hume sulla causalit furono lo stimolo pi energico delle ricerche dell'autore del criticismo, furono esse, com'egli dice, che lo risveu'iiarono dal suo sonno dogmatico. A questa ((uistone Kant risponde: se vi ha una higge di causalit, cio una uniformit di sequenza nei fenonumi, ci non  gi perch vi ha nelle cose stesse un nexus o una forza secreta da cui derivano le congiunzioni costanti che noi osserviamo nei fenomeni: ci che potrebbero essere le cose in se stesse ci  assolutamente sconosciuto, e la loro esistenza stessa non  che problematica. Questa ragione della uniformit di sequenza dei fenomeni V. SclieiiiJit. (lei concetti iiitoll. imri e Dcduz. dt'i colie. intcU. iuri v> 24 e 2.") II ediz. n t I ^ K 204 Kant non la trova nelle cose stesse, ma in noi, nel nostro pensiero: la causalit si trova, e non si pu non trovarsi, negli oggetti conosciuti, perch  una forma dell' intendimento del soggetto conoscente. Ugualmente se negli og'getti conosciuti vi hanno delle sostanze e degli accidenti, cio delle cose che perdurano nel cangiamento incessante delle loro modificazioni, ci  perch la sostanza e l'accidente sono delle forme del nostro intendimento, secondo le quali soltanto noi possiamo avere delle conoscenze. Della stessa maniera, se vi ha negli oggelti dell'esperienza una reiprocit di azione, se le cose conosciute agiscono e reagiscono mutuamente fra di loro, ci  perch la reciprocit di azione  una forma del nostro intendimento. La necessit e la contingenza, l'unit e la pluralit, ecc., sono pure delle forme del nostro intendimento: esse si trovano negli oggetti conosciuti, perch noi siamo forzati dalla natura della nostra facolt conoscitiva di rappresentarci gli oggetti sotto queste forme. Le forme dell' intendimento risiedono originariamente nel pensiero stesso: nel loro })rincipio esse sono dunque dei concetti intellettuali puri, cio indipendenti dall' esperienza e anteriori all' esperienza. Questi concetti intellettuali puri, cio la causa e 1' effetto, la sostanza e l'accidente, la reciprocit d'azione, l'unit, la pluralit, ecc., Kant li chiama categorie. Se questi concetti puri dell' intendimento si trovano realizzati nel mondo della nostra esperienza, ci  perch noi non possiamo altrimenti conoscere le cose, avere un' esperienza, che secondo queste forme del nostro pensiero. Ora si comprende facilmente che, lo spazio e il tempo essendo le forme della nostra sensibilit, gli og-getti sensibili o i fenomeni debbano necessariamente apparirci nello spazio e nel tempo: ma come noi ritroviamo nei fenomeni stessi, cio negli oggetti dell'esperienza, le forme del nostro pensiero? I fenomeni sono per se stessi dei dati dei nostri sensi: come senzienti, noi siamo semplicemente passivi. Ma come dati dei sensi, i fenomeni sono isolati gli uni dagli altri, senza rapporti reciproci: i rapporti reciproci o la congiunzione dei fenomeni, non  un dato dei sensi, cio della nostra receptivit, ma un [)rodotto della nostra attivit, e la nostra attivit, quali soggetti conoscenti, consiste nel pensiero o nell'intendimento. L'ordine dei fenomeni, il modo della loro congiunzione,  cos il risultato delle forme del nostro ])ensiero. (,)uesta congiunzione dei fenonuMii, per cui essi hanno dei rapporti reciproci, Kant la chiama col nome di sintesi, per indicare che questi rapporti recii)roci, quest'ordine dei fenomeni, sono un prodotto della nostra attivit. E il pensiero stesso che costruisce il mondo dcH'esixn'ienza coi materiali che gli vengono offerti dalla sensazione : i sensi non danno che i materiali isolati e, per dir cos'i, dispersi, ma la forma, l'ordine d(ii fenomeni,  il prodotto e l'opera del nostro pensiero. L'attivit intellettuale, come facolt che effettua la sintesi, cio che produce le congiunzioni o l'ordine dei fenomeni,  una attivit che sfugge alla nostra coscienza, e Kant la chiama immaginazione produttiva: egli la chiama i)roduttiva per distinguerla dalla facolt i)er cui avviene la riproduzione dei fenomeni; l'immaginazione [jroduttiva ci presenta originariamente i fenomeni, in un ordine determinato; l'imnaginazione riproduttiva ci rappresenta questi fenomeni, dopo che essi ci sono stati gi presentati. Cos 1' immaginazione riproduttiva non ha importanza per ispiegare la sintesi o i legami dei fenomeni nell'esperienza; ma essi sono spiegati dalla immaginazione produttiva. L'immaginazione produttiva effettua A PRIORI la sintesi dei fenomeni, e in questa funzione essa si conforma a delle regole A PRIORI, che sono i concetti ]mri dell'intendimento o LE CATEGORIE GRICE STRAWSON. ^TVnwgsftff aiii ia'iijy-T II 20(; 207 L'iimnag'iiiazione produttiva costruisce il inondo dell'esperieiiza, eoi materiali dati dai sensi e nelle forme dell'intuizione sensibile: ma i rapporti e i legami che essa introduce tra i fenomeni, dipendono dai concetti puri dell'intendimento. La sensibilit, dice Kant, d delle forme, e l'intendimento, delle regole. Cosi  lo intendimento, sono i suoi concetti puri, che danno delle leo-o'i ai fenomeni: i concetti intellettuali puri, le categorie, si ritrovano nell'esperienza, perch sono esse che determinano il modo in cui si presentano i fenomeni nell'esperienza. Le regole, se sono obbiettive, si chiamano leggi. Quantun(|ue noi aj^prendiamo molte leggi pell'esperienza, queste leggi non sono tuttavia che delle determinazioni particolari di leggi ancora superiori, fra cui le pi elevate a cui tutte le altre sono sottomosse procedono A PRIORI dall'intendimento stesso, e non sono imprestate dall'esperienza, ma al contrario danno ai fenomeni la loro legittimit, e devono, per questa ragione stessa, rendere l'esjX'rienza possibile. Lo intendimento non  dunque semplicemente una facolt di farsi delle regole. comparando dei fenomeni; esso  la legislazione pella natura. L'ordine, la regolarit dei fenomeni, ci che noi chiamiamo natura,  dunque la nostra opera propria: noi non ve la troveremmo, se non vi fosse prima stata messa da noi, dalla natura del nostro spirito. Le leggi pi universali dei fenomeni p. e., la legge della causalit sono per conseguenza, secondo il criticismo, conosciute A PRIORI. Vi hanno cos delle conoscenze reali A PRIORI giudizi sintetici A PRIORI, cio indipendenti dall'esperienza, e anteriori all'esperienza. L'origine dei giudizi sintetici A PRIORI si trova nelle fornie AiiMlit. ('randioso creato dalla nostra intelli^-enza: i concetti intellettuali puri, le categorie, sono come le regole estetiche che il poeta si propone di osservare, o piuttosto come il disegno dell'opera che, nella mente del poeta, precede l'opera reale, e lo guida costantemente nella composizione del suo poema. Ecco la quistione di Kant ; Come le sensazioni, che sono le lettere o le sillabe di cui il cosmos, questo poema del nostro spirito,  composto, potrebbero formarlo, per il loro concorso spontaneo, senza l'azione dell'intelligenza? Questa quistione  sotto un'altra forma la nota quistione della filosofia teologica: Come dei caratteri tipografici, gettati a caso, avrebbero potuto formare l'Eneide? (li L'idea di considerare l'idealismo kantiano come una specie di antropomorfismo sollever forse un'obbiezione : se la natura viene concepita come un complesso di tenomeni, cio di semplici percezioni attuali o possi ' bili, queste non esistendo fuori del nostro spirito, la natura stessa sar allora un fatto subbiettivo, e per conseguenza un fatto umano. Spiegare la natura per il pensiero sar cosi spiegare un fatto umano per un altro fatto umano; mentre l'essenza dell'antropomorfismo consiste nell'assimilare ai fatti umani quelli che non hanno V. Kousseau Enilio, 1. IV. 211 con essi una somiglianza reale. Quest'obbiezione non potr essere completamente risoluta che in seguito: noi mostreremo che la metafisica ha la tendenza a ricondurre ai fatti pi familiari della nostra esperienza quelli che sono meno familiari. Ogni concezione antropomorfistica delle cose si conforma a questa tendenza, perch, tra tutti i fatti della nostra esperienza, la nostra propria attivit  necessariamente quello che ci  pi familiare. La nostra attivit interna, il pensiero,  per noi altrettanto familiare che la nostra attivit sulle cose esteriori: ci fa comprendere perch l'idealista spiega le leggi o l'ordine con cui si presentano le nostre percezioni sensibili per la nostra attivit pensante. Che i fenomeni si presentino secondo delle leggi e un ordine determinato pu essere anch'esso un fatto familiare della nostra esperienza ; ma noi abbiamo l'abitudine di considerare queste leggi e quest'ordine al punto di vista del realismo, come leggi ed ordine di un mondo di realt obbiettive. Se dal%punto di vista del realismo si passa al punto di vista opposto, che considera le cose come dipendenti dai nostri sensi e non esistenti al di fuori dello spirito, allora queste leggi e quest'ordine dei fenomeni, per quanto possano essere abituali nella nostra esperienza, vengono rappresentati tuttavia sotto un aspetto che non ci  per niente familiare. Cosi se noi spieghiamo queste leggi e quest'ordine dei fenomeni (considerati come un semplice sistema di percezioni) per la nostra attivit pensante, noi ci conformiamo alla tendenza della metafisica, che  di spiegare per i fatti che sono a noi familiari quelli che non lo sono. E questa spiegazione  essenzialmente calcata sul tipo dell'antropomorfismo, perch il fatto familiare che ci serve a spiegare gli altri fatti,  una forma della nostra attivit umana. Kant ci mostra questa tendenza a ricondurre tutti 212 218 i fatti a quelli che ci sono i pi familiari, non solo in quanto egli spie-a le le-gi dei fenomeni per l'attivit del pensiero, ma ancora in quanto e-li cerca di s])iegarle per le forme di quesfattivit del pensiero che ci sono pi familiari. Se le categorie non sono, com'egli pretende, le forme ingenite e necessarie del nostro pensiero es^e sono certamente i concetti e le funzioni pi familiari della nostra intelligenza: le forme genenili del giudizio, a cui egli riconduce le categorie, se non sono"^ in realt le forme essenziali dell'attivit interna giudicatrice, sono almeno le forme generali della espressione verbale del giudizio, e per conseguenza dei fatti mentali estremamente familiari, pi familian forse che le forme stesse del giudizio, perch l'osservazione delle parole ci  pi abituale che quella dei pensieri (l. Noi dobbiamo intnedomandjirci sel'ipotesi metafisica di ivdut non si lega alla ricerca delle cause efficienti. Noi qui tocchiamo ad una contraddizione del criticismo, da cui  impossibile di liberare questo sistema. L'azione, la causalit, non e per Kant che una categoria, una forma del nostro pensiero, a cui noi possiamo attribuire un valore obbiettivo, ma nei limiti dell'esperienza o del mondo fenomenale, per la ragione che ([uesta forma e una delle condizioni anticipate della possibilit di una esperienza (lualsiasi. Al di fuori del fenomeno e dell'esperienza, le categorie non possono pi avere alcun valore obbiettivo. Ma  un fatto incontestabile che Kant attribuisce un'azione o un'efficienza all'intendimento e alle categorie nella formazione del mondo dei fenomeni o dell'esperienza. Ora quest'attivit o efficienza dell'intendimento e delle categorie  un fenoine (^fr. il Sajij;. 1. np. L pjn;;r. tS. V. Amil. 1. 1. r. 11. P^tra-r. 14. 15. 2i, 2i\ (11 oA.). ec di questa forma familiare di azione umana, che abbiamo chiamato l'attivit logica. Alla spiegazione idealista del mondo, nei sistemi dell'/dealismo obbiettivo (Schelling ed Hegel),  legata la realizzazione delle astra/.ioni, cio dei concetti o dei termini generali. Il metorlo o la forma con cui si sviluppa la conoscenza filosofica della natura, che  la stessa cosa che il metodo o la forma con cui si sviluppa quest'attivit originaria del pensiero di cui la natura  il prodotto, essendo un metodo puramente deduttivo, e la deduzioiu volgendo per sua natura su nozioni astratte, su principii generali, ne segue che queste idee creatrici, queste nozioni, che sono le fila di cui, per dir cosi, la natura  tessuta, non sono che delle idee astratte, delle nozioni generali. Ora essendovi identit tra Tessere e il pensiero, tra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, le nozioni astratte e generali si identificano perci con degli esseri astratti e generali, con delle entit alla scolastica, e cos ridealismo obbiettivo  al tempo stesso un realismo, nel senso ehe (|uest'uUim?i parola ha nella filosofia del medio evo. La natura sensibile, adunquvi, per l'idealismo obbiettivo,  la manifestazione fenomenale di un sistema di nozioni astratte e generali, di cui ciascuna s'identifica col suo oggetto del pari astratto e generale, cio con una forma, un tipo, una qualit, un fatto generale, e le quali sono tutte legate l'una all'altra da un filo logico continuo, in modo che queste nozioni si concepiscano in un ordine tale, che le antecedenti siano sempre le premesse logiche di quelle che immediatamente le seguono, e le conseguenti siano sempre le conseguenze logiche di quelle che immediatamente le precedono. Nel pensiero del filosofo, che ripensa queste idee creatrici, vi ha tra queste idee un rapporto di anteriorit e di posteriorit che  al tempo stesso logico e cronologico: ma nel pensiero del pensatore eterno, nell'atto eterno del pensiero di cui la natura  la creazione, o come dice Schelling, la espressione obbiettiva, il rapporto di anteriorit e posteriorit fra le idee non pu essere cronologico, ma logico soltanto. Questa forma dell' idealismo possiamo noi considerarla come un:i risposta alla grande quistione della metafisica, quella delle cause efticienti V Pare a prima vista che si debba rispondere di no. La filosofia, dice Schelling, oltrepassa, come le matematiche, il punto di vista dell'incatenamento causale: un fenomeno non vieut spiegato trovandone la causa in un altr.i fenomeno, ma trovando il principio donde derivano tutti i fenomeni. E in verit una causa essendo un avvenimento che precede un altro avvenimento, sarebbe un errore il dire, nel senso stretto, che la filosofia di cui parla Schelling, si propone In ricerca delle cause. Le idee non sono le cause efficienti dei fenomeni, ma piuttosto la loro essenza; le idee sono la realt assoluta, di cui il mondo sensibile  in un certo molo l'apparenza. Le idre non sono nemmeno cause, nel senso stretto, di altre idee, essen-lovi fra loro una successione logica, ma non cronologica. Questa filosofia contempla le cose sub specie aetendtatis: agl'individui, ai fenomeni transitorii, sostituisce le specie, le^ forme generali, le leggi eterne dell'esistenza, astrazioni che essa realizza al tempo stesso che trasforma le cose in pensieri. P^ssa proietta il mondo sensibile in una regione libera da tutte le forme della sensibilit, in una regione extra spaziale ed extra temporale, in modo che le cose perdono, per questa proiezione, questa sorta di dimensione che si chiama il tempo. Come il mondo delle Idee  un'immagine, al di fuori del tempo, del mondo dei fenomeni, cos l'incatenamento delle Idee  un'immagine, al di fuori del tempo, dell'incatenamento dei fenomeni. Il nexus delle idee  un nexus causale; ma la successione cronologica  soppressa e non resta che la successione logica. Le considerazioni che precedono,  bene di notarlo, non rendono conto che d' una maniera incompleta, e per cos dire, a met, dei grandi sistemi idealisti tedeschi succeduti al kantismo. Vi ha in questa filosofa un principio fondamentale ch' per se stesso indipendente dalla spiegazione idealista del mondo:  la identificazione della ratio essendi con la ratio cognoscendij cio della derivazione ontologica delle cose con la derivazione logica delle conoscenze nella dimostrazione. Questo principio pu legarsi facilmente con l'idealistno, come effettivamente  avvenuto nella filosofia tedesca ; ma esso costituisce anche, insieme alla realizzazione dei termini generali che e con esso strettamente connessa, la base su cui si fondano i sistemi di Platone, di Spinoza e di altri filosofi che non sono affatto idealisti, nel senso che noi diamo alla parola idealismo Tcio una spiegazione del mondo per l'attivit immanente del pensiero). In un altro capitolo studieremo nella sua generalit questa forma di metafisica caratterizzata dalla realizzazione dei termini generali e dalla identificazione del principium essendi col principium cognO' scendi^ cio la studieremo per se stessa, indipendentemente dalla sua alleanza con Videalismo. Noi vedremo che il punto di vista di questa forma di metafsica non ha per se stesso niente di comune con 1' antropomorfismo, quantunque anch'esso sia legato, ma d'un'altra maniera, alla ricerca delle cause efficienti. Allora la metafisica di Schelling e di Hegel ci apparir sotto un altro aspetto. Il principio di questi sistemi  l'identit del pensiero e dell'essere : noi qui li abbiamo veduti dal lato del pensiero, allora li vedremo dal lato dell'essere. Noi abbiamo passato in rivista le forme generali, sotto cui l'antropomorfismo si  manifestato nella spiegazione della natura. Questa tendenza ad assimilare il modo di produzione di tutti i fenomeni alla nostra propria attivit, sembra cos caratteristica dello stato metafisico del pensiero umano, che noi potremmo concludere, applicando alla metafsica stessa ci che un metafisico, Schopenauer, dice di se: Dai tempi pi antichi si  considerato l'uomo come un microcosmo. Io ho rovesciato la proposizione, e mostrato che  il mondo che  un macrantropo . Quest'attivit dell'uomo, a cui viene assimilato il modo di produzione di tutti i fenomeni,  la sua attivit psichica: nella pii parte dei sistemi antropomorfisti la forma esterna di quest'attivit, cio l'azione volontaria; nell'idealismo la sua forma interna, cio il pensiero. Noi vedremo in seguito perch crediamo di spiegare i fenomeni assimilando il modo della loro produzione a un modo dell'attivit dell'uomo, e perch questo  una forma della sua attivit psichica. .'i xt. e, // concetto di causalit dell'antropomorfismo ^ 21. Vi che prova d iiianiera a non lasciar luoi(' efficienti e di comprendere, come dice Comte, il modi) essen:i(ile di produzione di (piesti fenomeni,  una teoria psicoloer la riflessione .he tacciamo sulle operazumi del n.>stro spirito. Sic.-ome of-ni potenza ha rapp..rto all'azi.)!!.-, e n.)n vi hanm., io credo, '1^' ''^=i '^'^7AM .li .-ui abbiamo l'idea, n,mre e miion-re, ve.lia.uo .h....l.' du.-i.n.) lueste azi.mi. In quanto al pensuMO, i,..,rt)i n..n ce ne danno alcuu'idea, .' non ne (cio .l.'11'..sservazion.' i^it,eri.)r.") .'he noi l'al>biamo. Noi non abbiamo nemmeno per mezzo del .'orpo, al.un'i.lea.lel .'inninciament. .h'I m.>viment.> Noi n.m abbiamo l'i .Ica .lei .ominciament.> del n>ovimento .'h. per mezzo della riH.'ssi.me .-h.' fa.-.'iamo su,lueU.> che avviene in noi stessi .pian.lo v.'.liamo per,'sperienza .h.' volen.lo sempli.ementc mu.)V.'re .h-lle parti del nostr.> .orpo .he eran.> prima iu rijMyso . noi possiamo mu..verle. Sicch mi sembra .1..' 1.' op.-razi.nn dei .'orpi che noi osserviamo per mezzo .l.'i sensi non,i .lann. .-he un'idea molto in.pertetta, em.>lto ..scura .h'ila p.,tenza attiva; poich' i ..orpi non p..t.ebber.. tbrnir.i dcun'i.lea in se stessi della potenza di .-omin.'iar.' una azi..ne, sia pensier.., sia moviniento.  In questo lm>-o l'autore sembra las.iare ai corpi .pialche sorta ixia con lo spirito, eio nelle entelechie (die sono le potenze attive delle monadi): percli la materia non denota propriamente che la potenza passiva.  Altrove dice:  Nell'ordine della conoscenza come nell'ordine della realt le (*08P spiritnali sono anteriori alle materiali, perch noi percepiamo pi interiormente Panima, che ci  intima, che il corpo, come lianno osservato Platone e Descartes. La forza, voi dite, noi n (he sarebhe cos, se noi non avessimo un'anima, e non la conoscessimo. E altrove:  in noi stessi che troviamo le semenze d ci che apprendiamo, cio le idee e le verit eterne che ne nascono ; e non  sorprendente se, avendo la coscienza di noi stessi, e trovando in noi l'essere, l'unit, la sostanza, Wizione, noi ld>iamo l'idea di tutte queste cose  . In Berkeley la dottrina ha ^h la sua torma moderna : eensiero, io so ikmi solamente che ([uesto effetto ha bisogni) di uua causa, ma eziandio che io sono , \u 5 (DelVnppercezloie immediata). (S) (Distinz, tra i fatti psieol. e fsiol). T. S, p. 334 (Aota sa certi passi di Malebranche e di Boss net). MiU Filos. di Hamilton traci, frane. pa'ae universale: ma la teoria volizionale dall'osservazione di un sol caso, che potrebbe essere semplicemente eccezionale, pretende inferire l'universalit della legge. F. e. Hamilton citato du Mill Filos. ili HaHlton, trail. fraiu*. p. 352 in u(>ta. ('oiisiu. pur faccmlo adesioni' alla dottrina di Biran suirorij^inc dcdla nozione di forzji o causa cttcicntc, trova nondimeno che essa non pu spiegare runiversalit e necessit del principi.  Senza dubbio. e.Lili di.  (I*rcfaz. al r. 4 ilelle o]>er' di Biran. ). Ora la teoria voliziouale, non potendo giustificare l'universalit del principio delle cause efficienti, non pu nemmeno giustificare l'obbiettivit di questa nozione. Ci  una conseguenza dell'osservazione precedente. Noi abbiamo osservato che se vi ha una differenza obbiettiva tra la causa efficiente e il semplice antecedente di una sequenza invariabile, e che, ammettendo il valore reale della nozione di causa efficiente, bisogna, dapertutto dove noi non vediamo che sequenze uniformi di fenomeni, supporre, oltre questi fenomeni stessi, delle cause efficienti come intermediari esplicativi. Ora ci suppone l'applicazione universale del principio delle cause efficienti. Se noi ci limitiamo a non ammettere altre cause efficienti che quelle di cui costatiamo l'esistenza })er l'osservazione, senza supporne anche l dove non possiamo costatarle per l'osservazione stessa, allora la causa efficiente non differisce che psicologicamente dal semplice antecedente di una sequenza invariabile. Accordiamo alla teoria volizionale che la volont  la causa efficiente dei nostri movimenti, perch tra essa e il suo effetto vi ha un legame naturale e necessario, mentre nelle ordinarie uniformit di se(|uenza non vi ha tra l'antecedente e il conseguente alcun l'agame simile. Se il rapporto di causazione efficiente che esperimentiamo nel movimento volontario, differivsce dai rapporti di causazione che osserviamo nelle ordinarie uniformit di se(|uenza, al punto di vista obbiettivo e non al semplice punto di vista psicologico (cio solo per la differente iujpressione che l'uno e gli altri producono sulla nostra intelligenza), ci  in quanto noi consideriamo la volont come una spiegazione sufficiente dei nostri movimenti, senza supporre niente di altro, mentre, per {spiegare le uniformit ordinarie di sequenza, noi ammettiamo il bisogno dell'intervento di un'altra cosa, vale a dire di un intermediario esplicativo. Ma se noi non ci crediamo autorizzati a supporre questi in246 termediari esplicativi l dove no\ non costatiamo che delle semplici uniformit di sequenze, se noi non ammettiamo altre cause efficienti che le nostre volizioni che producono i nostri uovimenti, allora, chiamando la nostra volont una causa efficiente e le altre cause semplici antecedenti di sequenze invariabili, noi non denotiamo, per questa differenza di denominazione, una differenza obbiettiva tra le cose, ma solo una differenza psicologica tra le nostre idee. Per conseguenza, la teoria volizionale, non potendo giustificare la estensione della nozione di causa efficiente, dall'atto volontario, in cui noi ne abbiamo l'esperienza, agli altri fatti della natura, non riesce a dare un valore obbiettivo a questa nozione, non pu stabilire, in altri termini, sopra una base solida che la differenza tra una causa efficiente, quale  la volont, e un semplice antecedente di sequenza invariabile, quali sono le altre cause delTesperienza,  obbiettiva o ontologica, e non semplicemente subbiettiva 0 psicologica. Cosi ci che vi ha di certo nella teoria volizionale e teorie affini sul principio di causalit non  che un fatto psicologico: cio che vi ha una classe di sequenze uniformi che producono sulla nostra intelligenza un'impressione particolare; che in ([ueste sequenze noi possiamo chiamare gli antecedenti cause efficienti (perch vi troviamo i caratteri che, al punto di vista subbiettivOj distinguono una causazione efficiente dalle ordinarie uniformit di sequenza): e che nella nostra propria attivit noi troviamo gli esempi di tali sequenze e di tali cause. Possiamo noi contentarci di costatare questo fatto psicologico, considerandolo come un fatto isolato, come un fatto ultimo e inesplicabile della nostra intelligenza? Evidentemente no: noi dobbiamo procedere pi oltre; costatato il fatto, noi dobbiamo cercarne la ragione. A. Comte, che, come la teoria volizionale della cau247 sazione, trova nella volont umana il tipo su cui noi ci formiamo naturalmente la concezione di tutte le forze 0 cause efficienti della natura, non risolve la nostra quistione: perch noi consideriamo la volont come una causa efficiente e non come un semplice antecedente invariabile? Ecco che cosa troviamo su ci nel Corso di filosofia positiva:  Quantunque si sia giustamente segnalato, dopo lo slancio speciale del genio filosofico, la difficolt fondamentale di conoscere se stesso, non bisogna tuttavia attaccare un senso troppo assoluto a quest'osservazione generale, che non pu essere che relativa ad uno stato gi molto avanzato della ragione umana. Lo spirito umano ha dovuto in effetto pervenire a un grado notevole di raffinamento nelle sue meditazioni abituali prima di potere sorprendersi dei suoi propri! atti, riflettendo su se stesso un'attivit speculativa che il mondo esteriore doveva dapprima s esclusivamente provocare. Se da una parte l'uomo si riguarda necessariamente all'origine come il centro di tutto, egli  allora da un'altra parte non meno inevitabilmente disposto ad erigersi pure a tipo universale. Egli non potrebbe concepire altra spiegazione primitiva a qualsiasi fenomeno che di assimilarlo, per quanto sia possibile, ai suoi propri atti, i soli di cui egli possa mai credere di comprendere il modo essenziale di produzione, per la sensazione naturale che li accompagna direttamente. Niente di pi giusto di questa osservazione di Comte, che  necessario che l'uomo sia pervenuto ad un grado avanzato di coltura, perch esso possa sorprendersi dei suoi propri atti, e farne quindi l'oggetto della sua attivit speculativa. Questa incapacit primitiva dell'uomo di sorprendersi dei suoi propri atti e questa disposizione primitiva ad erigersi a tipo universale non sono che due aspetti d'uno stesso fenomeno: se l'uomo primitivo credesse di vedere un mistero nella sua propria attivit, egli non la eleverebbe a spiega 248 zioiie iiniversak* delle cose. Ma qui sta appunto la quistione. Perch l'uomo vede naturalmente nei propri atti dei fenomeni perfettamente naturali, che non hanno bisogno di essere spiegati, e che possono servire di spieg-azioiic inii versale degii altri fenomeni? Ci avviene, dice Comte, per la sensazione naturale che li accompagna cUrHtainevtc: in altri termini, (se ben comprendiamo) perch dei propri atti, che si conoscono per la coscienza, si ha o si crede di avere una conoscenza pi diretta e imniediata che delle cose esteriori, che si conoscono per vri nru.uii dei sensi. Sforzandomi di comprendere il pensiero dell'autore, io non trovo che questo senso alle sue parole: T uomo sapendo di conoscere i suoi pro]n-i atti il pi direttamente possibile, crede perci di conoscerli intinamente nella loro natura (nei loro modo essenziale di produzione), pi intimamente almeno che i ftMomeni esteriori, di cui sa di aver una conoscenza pi indiretta. Vi sarebbe molto da dire (ammesso che sia questo il pensiero dell'autore) intorno al legame che Comic stabilisce tra questi due fatti: il sapere di conoscere una cosa direttamente, e l'illudersi di conoscere Vessenza di questa cosa. Ma accordando anche all' autore che il primo fatto sia una ragione sutlrtciente del secondo, resta semfre che il suo ragionamento manca di base, perch non  aunnissibile che l'uomo primitivo, l'uomo naturale, creda di conoscere i suoi propri atti d'una ili K nello stesso senso elie seminano pure doversi eonil.ren.lere queste i>:irole di colore oseuro di MiU:  Primitivaniente la tiiidenza o T istinto d(\uli uomini  di assimilare tutte le azi. la vera ragione del fatto, ma [Ui parla da discejiolo di A. C'omte. 249 maniera pi diretta e immediata che le cose esteriori. Il filosofo pu credere cosi, non l'uomo della natura. Il filosofo, per cui l'oggetto diretto della percezione sensibile non  la cosa in se, ma una rappresentazione pi o meno fedele, pi o meno ingannevole, di questa cosa, pu ammettere che la coscienza sia una conoscenza pi diretta che la percezione sensibile: ma l'uomo della natura identifica le sue sensazioni con gli oggetti; egli crede che i suoi sensi colgano direttamente e immediatamente le cose stesse; gli oggetti familiari che lo circondano, che s' imprimono fortemente sui suoi sensi, e che egli pu guardare e toccare a suo agio, non possono essere da lui considerati come oggetti di una conoscenza nuMio diretta e meno intima che i suoi propri atti, visti alla luce debole e incerta della coscienza. Noi non faremo altre considerazioni a questo proposito : solo osserveremo che la soluzione, che A. Comte d alla nostra quistione, suppone che vi sia nelle cose un'essenza occulta, un modo essenziale di produzione inaccessibile airesperienza, in altri termini, suppone la realt delle cause efficienti. Noi abbiamo gi visto che questo filosofo non pu se non gratuitamente ammettere la realt di questa nozione, perch non avendo noi avuto mai, secondo la sua stessa dottrina, esperienza di una causa efficiente, ma solo di antecedente costanti dei fenomeni,  impossibile dare una prova dell'esistenza delle cause efficienti. Sicch la nozione di cause efficienti sconosciute essendo altrettanto subbiettiva ero s])inti 1' uno verso 1' altro, perclic si servirebbero reciprocamente di riparo, in modo che le loro superfcie situate di rimpetto non sarebbero \nh colpite nella dirczi>ne della linea che le congiungerebbe, e perci gli ettetti degli urti ricevuti in enso contrario non essendo neutralizzati, questi s]ingerebbero i due atonii l'uno verso l'altro. II Secchi suipone che ogni molecola jionderabile  un centro 4li moto permanente, che mette in agitazione la massa illimitata di etere da cui  circ(ndata. e la conforma in maniera che la densit minima al centro valena: se non vi ha attorm. dei corpi u.l niluogo etereo sempre di pi in pi denso secondo la distanza, e perci causa dell'attrazione, ciascun corpo sforzandiii(>/.a, Opcrn. m. Car. H la sola di cui ahuanH delle ith'e chiare e (Ustnte. o in altri termini, la sola che ci sia intellioihile. (-osi nelle l^eijiii f/enent/i della comuncdzione dei ntoriuetili, (2 parte, n. IH) dicc^:  Se non si vuol raiionare dei corpi ro propriet che sulle idee chiare che noi ne possiamo avere, non si attribuir mai alla mati'ria altra forza o altra azione che [uella che essa trae dal suo movimento. E \w\ e. S. ]>arte 2 derienza che dimostri chiaramente il movimento d'attrazione. Cos mu bisogna fermarsi ad altra comunicazione del movimento che a quella che si fa ]er impulsione, poich questa nuniiera  certa e iucontestabile. e vi ha dvAV oscurit nelle altre che si potrebbero immaj;inaie. Ma quando si potesse anclie dimostrare 262 Come i meccanisti del nostro tempo vogliono bandite dalla fisica le forze, a cui i non meccanisti attribuiscono le cause dei movimenti (di (luelli almeno che non sono prodotti da un'impulsione osservabile), cosi i cartesiani e gli altri avversari della scolastica facevano la o'uerra alle qualit occulte. Le qualit occulte d' allora, come le forze d'oggi, erano le cause sconosciute dei fenomeni, e gli scolastici le ammettevano in virt dello stesso principio per cui i fisici moderni ammettono le forze e i filosofi l'Inconoscibile, cio in virt del principio che i fenomeni devono avere delle cause efficienti : siccome l'esperienza non ci d delle cause di questa natura, se ne conclude, non che esse non esistono,,na che noi non possiamo conoscerle. Se i cartesiani e o-li alili avversari della scolastica credevano che la ^pieoazione meccanica dei fenomeni eliminava le qualit occulte,  che essi pensavano che l'impulsione e una causa efficiente, e che era inutile di supporre delle cause efficienti sconosciute, quando si aveva gi una causa efficiente conosciuta. Non si aveva da scieghere che tra l'impulsione e le qualit occulte, fra la causa efficiente conoscibile e le cause efficienti inconoscibili: l'alternativa sembrava inevitabile, e 1 cartesiani respmo-evano, come abbiamo detto, l'attrazione newtoniana perch essi vi vedevano un ritorno alle qualit occulte o-i bandite della filosofia peripatetica. che vi Im nelle cose puia.uente covi.orali altri v.in.-.i.n lei,vi.neuto ehe l'incontro dei eorv.i. ou M potrebbe rajr.onevol-,ente ricettare qeto ; si .leve anche fer.narvisi preferibilmente ad ogni altro, poieh esso,> il pi chiaro e il pin evidente...... Se l'impnlsiono non ^ per Mal-'hranche che una cansa oecaswnale (eio^ un semplice anteeede.ite invariabile). ^ tuttavia tra tutte le cause occasionali a cui li etfetti della natura potrebbero attribuirsi, quella ehe pi somiglia ad uua causa et^cwnte. 263 Quest'alternativa s'impose allo stesso Newton: era evidente secondo lui che la legge della gravit non dava la cfiusa del fenomeno, ma solo gli effetti di (juesta causa; semplicemente egli non decdeva se questa causa fosse l'impulsione di una materia sottile o qualche forza immateriale di una natura sconosciuta.  Io ho spiegato sin qui, egli dice nei Principu, i fenomeni celesti e quelli del mare per la forza della gravitazione, ma non ho assegnato in alcuna parte la causa di questa gravitazione. Questa forza viene da qualche causa che penetra sino ai centri dei sole e dei pianeti, senza diminuzione della sua attivit, essa agisce non secondo la quantit delle superficie delle particole su cui agisce, come fanno le cause meccaniche, ma secondo la quantit della materia solida, e la sua azione si estende da tutte le parti sino alle distanze pi grandi, descrescendo sempre in ragione duplicata delle distanze... Io non ho ancora potuto inferire dai fenomeni la ragione di queste propriet della gravit, e non immagino ipotesi  . E w^W Ottica: Io non ricerco qui a quale causa efficiente siano dovute queste attrazioni. Quella che io chiamo attrazione pu essere prodotta per impulso o per qualche altro mezzo a noi sconosciuto. Per questa parola attrazione qui non intendo indicare se non una qualche forza per cui i corpi tendono l'uno verso l'altro, qualunque sia d'altronde la causa a cui questa forza debba attribuirsi . E nella III lettera a Bentley:  Non si pu comprendere come una materia bruta e inanimata possa, senza l'intervento di qualche altra cosa non materiale, agire so|)ra un' altra materia e modificarla, senza essere in contatto con essa. Questo intanto  quello che bisognerebbe supporre, se si am Prln. matem. della fi los. natur. Seolio ^rener. vorso hi liue. Ottiea Qiiest. 28. 264 mettesse che la gravit  inerente ed essenziale alla materia come voleva Epicuro. Era questo uno dei motivi che io aveva per pregarvi di non attribuirmi l'opinione della g-ravita innata. Pretendere che la gravit sia innata, inerente ed essenziale alla materia, di guisa che un corpo agisca sopra un altro a distanza, a traverso il vuoto, senza 1' interposizione di qualche cosa, per il cui mezzo l'azione e la forza possano essere trasmesse dall'uno all'altro, ni pare un'assurdit s grande, che essa non pu, io credo, cadere nello spirito di alcun uomo che abbia qualche competenza in filosofa. La gravit deve venire da un agente che operi costantemente secondo certe leggi ; ma se questo agente sia materiale o immateriale, io lasciai nella mia opera ai lettori il considerarlo. v> f). Quando nella scuola di Newton si cominci ad ammettere che la gravit  una propriet primitiva ed essenziale delia materia, si poneva non pertanto una differenza tra (juesta propriet e quella di dare e di ricevere rinquilsione: quest'ultima propriet sembrava appartenere necessariamente alla materia, mentre la prima era evidentemente dovuta all'arbitrio del Creatore. Il matematico Cotes, nella prefazione della II edizione dei Principii di Newton, ammetteva la gravit come una forza fondamentale di ogni materia: ma egli opiKieva il sistema newtoniano, che fa derivare le leggi della natura dalla volont e libert di Dio, al sistema dei materialisti che fanno tutto nascere per necessit e niente per la volont del Creatore. Non  la necessit che egli vede nelle leggi delia natura, ma bens le prove del disegno pi saggio. 1/ idea di una causa efficiente distinta dai fenomeni osservati non  dunque abbandonata dai newtoniani che ammettono il peso come pro])riet essenziale della materia; semplicemente a una spiegazione meccanica si sostituisce una spiega 265 zione antropomorfstica. Anche Newton non comprenderebbe l'azione a distanza, se invece di  una materia bruta e inanimata si trattasse di una materia vivente ed animata? Quando Locke scrisse il Saggio sull'intendimento umano, egli ammetteva la teoria meccanica in tutta }a sua estenzione: cos nel 1. 2, e. 8, par. 11 alla quistione: qual  la ma-nera onde i corpi producono in noi le idee? rispondeva:  evidente che  per impulsione, perch (juesta  la sola maniera in cui noi possiamo concepire che i corpi possano agirei. In seguito egli abbracci la dottrina di Newton, ma non abbandon il principio che l'impulsione  la sola maniera d'agire dei corpi che sia concepibile. Nella risposta alla II letteradel vescovo di Worcester (col (juale agitava la quistione : se la materia pu pensare), egli dice: * Io confesso che io ho detto {nel Saggio nalV intendi m. umano) che il corpo opera per impulsione, e non altrimenti. Cos era il mio sentimento quando lo scrissi, e ancora presentemente io non potrei concepire un'altra maniera di agire. Ma poi io sono stato convinto dal libro incomjmrabile del giudizioso sig. Newton che vi ha troppa presunzione a voler limitare la potenza di Dio per le nostre concezioni limitate. La gravitazione della materia verso la materia per delle vie che mi sono inconcepibili  non solo una dimostrazione che Dio pu, quando gli piace, mettere nei corpi delle [)otenze e maniere d^'agire che sono al disopra di ci che pu essere derivato dalla nostra idea del corpo, o spiegato per ci che noi conosciamo della materia; ma  ancora una ])rova incontestabile ch'egli lo ha fatto eiHettivamente . Quantunque l'opinione di Locke sia che noi non possiamo in generale scoprire alcuna connessione tra i fenomeni, n comprendere come le cause producano i loro effetti, tuttavia egli pensa che vi ha molta differenza a (juesto 266 riguardo tra la produzione del movimento per T impulsione e altre azioni dei corpi, quali la loro mutua attrazione o la maniera in cui essi producono in noi delle sensazioni. Noi non possiamo affatto comprendere come i corpi siano capaci di esercitare queste ultime azioni; ma  iioi possiamo comprendere molto bene che la grossezza, la figura e il movimento d'un corpo producano del cangiamento nella grossezza, nella figura e nel movimento d'un altro corpo. Che le parti di un corpo siano divise in conseguenza dell'intrusione di un altro corpo, e che un corpo sia trasferito dal riposo al movimento per l'impulsione d'un altro corpo, queste cose ed altre simili ci paiono avere qualche legame Tuna con l'altra  . A Leibnitz la pretesa virt attrattiva dei newtoniani sembra  un rinnovellamento delle chimere gi bandite   Noi disapproviamo, egli dice, il metodo di quelli che suppongono, come facevano gi gli scolastici, delle qualit irragionevoli, cio a dire delle qualit primitive che non hanno alcuna ragione naturale, spiegabile per la natura del soggetto a cui questa qualit deve convenire. Noi accordiamo e sosteniamo con essi (coi newtoniani), che i grandi globi del nostro sistema sono attrattivi fra di loro; ma siccome sosteniamo che ci non pu accadere che d'una maniera spiegabile, cio a dire per un'impulsione dei corpi pi sottili, non possiamo ammettere che l'attrazione  una propriet primitiva essenziale alla materia, come questi signori lo pretendono. Non vi ha secondo Leibnitz altra causa intelligibile di un fenomeno fisico che l'impulsione: ^ Io non voglio, dice nelle sue Osservazioni contro Stahl, sovvertire le eccellenti dottrine dei moderni filosofi, per cui si  o'iu L. 4, e. XI. par. 13. Opera Dut., t. 2, p. I, p. . Leti, a Boin-ijuit J ag. stamente stabilito che niente si fa nei corpi che non consti di ragioni meccaniche, cio intelligibili )^. E nella risposta alle osservazioni di Stahl: Tutto nella natura deve farsi meccanicamente, e la ragione di ci  che tutto deve farsi nei corpi in modo che sia possibile di spiegarlo distintamente per la loro natura, cio per la grandezza, la figura e le leggi del movimento. Al cominciamento delle osservazioni contro Stahl egli stabilisce che la teoria meccanica  una conseguenza del principio di ragion sufficiente.  Uno dei principii del ragionamento ( cosi che questo scritto comincia)  che non vi ha niente senza ragione, cio che non vi ha alcuna verit della quale chi intende perfettamente la cosa non possa dare la ragione  una conseguenza di questo principio che ogni affezione delle cose, e tutto ci che avviene in esse, pu derivarsi dalla natura e dallo stato delle cose stesse ; e, in ispecie, che tutto ci che avviene nella materia nasce dallo stato precedente della materia per le leggi dei cangiamenti. Ed  ci che vogliono o devono volere quelli che dicono che tutto nei corpi pu spiegarsi meccanicamente. Supponiamo che alcuno ponga nella materia una certa virt di attrazione primitiva o misteriosa (ppr^TOv), egli peccher contro questo gran principio del ragionamento. Confesser infatti non potersi spiegare, neppure da un onnisciente, come avvenga che la materia attragga altra materia, e questa a preferenza di quella. E in realt egli ricorrer tacitamente al miracolo; 1' attrazione infitti in questo caso non si potrebbe spiegare altrimenti se non supponendo che Dio stesso, al disopra della natura della cosa, per una provvidenza particolare fa che la materia che deve essere attratta tenda verso un'altra materia. Ma se la spiegazione deve ricavarsi d'una maniera intelligibile dalla natura stessa della cosa, essa si deriver da ci che si concepisce in questa distintaT I 268 mente, cos uella materia dalla figura e dal moto in essa esistente; e allora si vedr che l'attrazione apparente non  altro in realt che una occulta impulsione  . Un'attrazione non derivante dall'impulsione non pu essere secondo Leibnitz che o un miracolo o una qualit occulta. Alcuni credono che il miracolo non  che una eccezione delle le^'ori g-enerali che Dio ha stabilite arbitrariamente ; ma non tutto ci che avviene per leggi generali si fa senza miracolo.  Il carattere dei miracoli  elle non si potrebbero spiegare per la natura delle cose create. E perch se Dio facesse una legge che portasse che i corpi si attirassero gli uni gli altri, non ne potrebbe ottenere l'esecuzione che per dei miracoli perpetui. Cosi non basta per evitare i miracoli che Dio faccia una certa legge, s'egli non d alle creature una natura capace d'eseguire i suoi ordini:  come se alcuno dicesse che Dio hn ordinato alla luna di descrivere liberamente nell'aria o nell'etere un cerchio intorno ai globo della terra, senza che vi sia n angelo n intelligenza che la governi, ne orbe solido che la porti, n turbine o orbe liquido che la trascini, ne peso, magnetismo o altra causa spiegabile meccanica nenie che l'impedisca d'allontanarsi dalla terra e d'andarsene per la tangente del cerchio. Negare che quello fosse un miracolo sarebbe ricorrere alle qualit occulte, assolutamente inesplicabili e screditate oggi con molta ragione.  Lo stesso sarebbe se qualcuno dicesse che Dio ha dato ai corpi delle gravit naturali e primitive, per cui ciascuno tende al centro del suo globo, senza essere 11) V. omnia cl. Dutens, t. 2, p. 1, pa-. 101 (Hisp, alle ohbiez. di'lVaut. del Uh. della eoriose. di se stesso), pa-. 77 (Leti. alVaut. drlla storia delle opere del sapienti ecc.;, iaj^. 167 (Risposta alla 4 Heplu-Ai di Clarice, nel vS 48). '>: ci che costituisce la superiorit della teoria meccanica su questa dottrina  che quella ci d le cause efficienti dei fenomeni, mentre questa non ci darebbe che i semplici antecedenti di cui i fenomeni sarebbero un seguito costante. Tuttavia, quantunque Leibnitz dica espressamente che una causa meccanica  una causa efficiente, e la sola causa efficiente che vi sia nel modo fisico , si potrebbe ragionevolmente dubitare s'egli d veramente a questa parola il senso in cui noi la prendiamo. E infatti secondo la sua dottrina dell'armonia prestabilita, tra una causa esterna finita e un cangiamento che ne segue in un'altra cosa distinta, non vi ha che una semplice coincidenza, e non un vero rapporto di causalit, ciascun essere sviluppando spontaneamente dal proprio fondo tutte le sue modificazioni. Sembra dunque che vi sia qui una contraddizione in Leibnitz: ma essa si spiega, se noi ricordiamo che l'armonia prestabilita, nel sistema di questo filosofo, , come abbiamo detto, una conseoueiiza del suo panpsichismo, e che il pani)sichismo  un'ipotesi destinata a risolvere, non il problema della causa efficiente, ma quello della cosa in s. Quando Leibnitz cerca nella natura esteriore le cause efficienti, egli trova nella causa meccanica una causa efficiente: ma quando egli cerca la cosa in s corrispondente al fenomeno materia e trova che questa non  che spirito, allora gli sembra impossibile che un essere agisca sopra un altro essere, e arriva alla dottrina dell'armonia prestabilita. Il seguito di questo scritto rischiarer d'una nianiera pi completa questa difficolt del sistema leibnitziano. 271 Nella polemica che ebbe luogo tra Leibnitz e Clarke, uno dei soggetti di controversia fu naturalmente l'attrazione. La prima cosa che noi incontriamo di notevole per questo riguardo nelle Repliche di Clarke,  lo stesso pensiero di Cotes, che il materialismo  direttamente combattuto dai prlnc2)ii matematici della filosofia ( il titolo dell'opera fondamentale di Newton). Allorch io ho detto, ( cosi che Clarke spiega una sua affermazione antecedente) che i principii matematici della filosofia sono contrari a quelli dei materialisti, io ho voluto dire che mentre i materialisti suppongono che la struttura dell'universo pu essere stata prodotta dai soli principii meccanici della materia e del movimento, della necessit e della fatalit, i principii matematici della filosofia fanno vedere al contrario che lo stato delle cose (la costituzione del sole e dei pianeti) non ha potuto essere prodotto che da una causa intelligente e libera . All'obbiezione di Leibnitz, che l'attrazione sarebbe un miracolo perpetuo, ecco cosa risponde Clarke:  Se un corpo ne attirasse un altro, senza l'intervento d'alcun mezzo, sarebbe, non un miracolo, ma una contraddizione, perch sarebbe supporre che una cosa agisce dove non .  Gli  affatto irragionevole di chiamare l'attrazione un miracolo, e di dire che  un termine che non deve entrare nella filosofia, quantunque noi (i newtoniani) abbiali) K5ipistji alla IV replica di Clarke, ii, 92. 124. AuimjKivorsiotu's circa assertioiies aliquas Stahlii Dutcis t. II p. IJ p. l:S2e p. l:U, Uespoiisiouei^ jkI Staliliaiias observatioiics ad XXI (n. 1), Mimadol. ii. 79, ecc. Replici t^ (U Clarke, 1. Quando si attribuisce la necessit alle cause meccaniche, e le altre leg^i della natura, riuali la gravit, si fanno invece riposare sulla semplice libert del (Creatore, ci eipiivale ad att'ermarc che le cause meemniche s(no delle cause efticienti, e che le altre non sonc^ che de.a;li antecedenti di seiiuenze invariabili. Infatti il carattere della causa efficiente t"^ questo lejiame necessario che si ammette tra essa e l'ettetto. liepl. 4 di Clarke. ino si spesso dichiarato, d'una maniera distinta e formale, elle, servendoci di questo termine, non pretendiamo esprimere la causa che fa che l corpi tendono V ano verso Valtro^ ma solamente l'ettetto di questa causa, o il fenonono stesso e le le^g'i o le pro])orzioni secondo cui i corpi tendono l'uno verso l'altro, (piali si scoprono per l'esperienza, qualunque ne possa essere la causa .  Se noi diciamo che il sole attira la terra, a traverso d'uno spazio vuoto, cio che la terra e il sole tendono l'uno verso l'altro (qualunque ne possa essere la causa) con una forza che  in rao-ioi clrottn delle loro masse o delle loro o-raudezze e densit |)rese insieme, e in rag'ione inversa del quadrato della loro distanza; e che lo spazio che  tra questi due corpi  vuoto, cio che non vi ha niente che resista sensibilmente al movimento dei corpi che lo traversano; tutto ci non  che un fenomeno o un fatto attuale scoverto per l'esjx'rienza. E vero senzn dubbio che (piesto fenomeno ion  prodotto senza mezzo, cio senza una causa capace; di produrre tal effetto. I filosofi possono duncjue ricercare (piesta causa, e cercare di scoprirla, se ci loro  [)ossibile, sia che sia laeccanica o non meccanica. (Qui l'autore sembra ammettere la possibilit d nna causa naturale e conoscibile non meccanica). Ma se essi non possono scoprire questa causa, ne segue che V effetto stesso o il ftuiomeno scoverto per l'esperienza che  tutto ci che si vuol dire per le parole attrazione e gravitazione ne segue, io dico, che questo fenomeno sia meno certo e meno incontestabile? Una qualit evidente deve essere chiamata occulta, perch la causa immediata ne  forse occulta^ o noi  st^ta ancora scoiarla f Quando un corpo si muove in un cerchio, senza allontanarsi per la tangente, vi ha c(*rtamente qualche cos che ne lo Ht'ijl. .> (// Carke, llO-lU). ~ t impedisce: ma se in qualche caso non  possbile di spiegare meccanicamente la causa di quest'eftetto, o se essa non e ancora stata scoverta, ne segue che il fenomeno sia falso? Questa sarebbe una maniera di ragionare assai singolare. (Qui invece l'autore pare che suppong-a che la causa dell'attrazione o  meccanica, e in (questo caso potr in seg^uito essere scoverta, o non  meccanica, e in quest'altro, caso rester sempre una causa occulta). 4. Se in Inghilterra, andandosi al di l del pensiero di Newton, la gv^yiiii innata, inerente ed essenziale alla materia divenne ben presto una dottrina, incontestata, questa dottrina invece sollev delle proteste continue tra i matematici e fisici del continente. Hu\ ghens trova assurdo il principio dell'attrazione newtoniana, e dice: Le cause di tutti gli effetti naturali devono concepirsi meccanicamente (per rationes mechanicas), se non vogliamo abbandonare ogni speranza di comi)rendere qualche cosa nei fenomeni fisici . Bernouilli chiama la supposizione di una facolt attrattiva  rivoltante per gli spiriti abituati a non ricevere in fisica che dei priucipii incontestabili ed evidenti, e adotta la teoria cartesiana dei vortici, modificandola. Eulero nella Lettera 68 ad una principessa d' Alemagna scrive: Poich  certo che considerando due corpi qualunque l'uno  attirato verso l'altro, si domanda la causa di questa tendenza mutua:  su ci che i sentimenti sono molto divisi. I filosofi inglesi sostengono che  una propriet essenziale di tutti i corpi d'attirarsi mutuamente, che  come una tendenza naturale che tutti i corpi hanno gli uni j)er gli altri, in virt di cui i corpi si sforzano di avvicinarsi mutua Ucpl. o di Clarkr, . Travtatus de In mine. 18 mente, oome se fossero dotati di qualche seiitimf^fff^ o desiderio. Altri filosoft ri^j^-uardano questo sentimeuto come assurdo e contrario ai principii di una filosofi^ ragionevole. Gli uni dicono che  la terra che attira i corpi per una forza che le appartiene in virt della sxia natura; gli altri dicono che  l'etere o altra materia sottile e invisibile che spinsTe i corpi in iasso, di sorta che l'eifetto  nondimeno lo stesso nell'uiio e Taliru caso. L'ultimo sentimento piace di pi a quelli che amai'^ 'lei principii chiari nella filosofia, poich non vedono come due corpi lontani limo dall'altro possono agire l'uno sull'altro, a meno che non vi sia qualche cosa tra loro >. Supponiamo che avanti la creazione del mondo Dio non avesse creato che due corpi lontani ruuo dall'altro, che non esistesse fuori di loro assolutamente niente, e che questi corpi fossero in riposo ; sarebbe possibile che l'uno si avvicinasse all'altro, o che avessero una tendenza ad avvicinarsi? come Vuno sentirebbe V altro da lontano f come potrebbe avere un desiderio d' avvicinarsene? Sono delle idee che rivoltano: ma dacch si suppone che lo spazio fra i corpi  riempito d'una materia sottile, si comprende subito che se questa materia pu agire sui corpi spingtmdoli, l'effetto sarebbe lo stesso come se essi si attirassero mutuame*nte * . Cos Eulero non concepisce che due possibilit sulle cause dell'attrazione: o il meccanismo o l'antropomorfisno: se non si vuole l'uno, si deve accettare l'altro. E che queste sono quasi esclusivamente le due forme immediate sotto cui lo spiritto umano concepisce le cause efficienti. Io pre^-o il lettore di confrontare questo luogo d'Eulero con gii ultimi che ho citati di Leibnitz e con rjuelli di Secchi e Saigey che citer appresso, oltre quelli degl' ilozoisti, gi citati nel 2^ capitolo, articolo 3^' . Oltre queste due supposizioni sulle cause dell'attrazione, quella della impulsione d'un miluogo, ch'egli adotta , e quella della materia dotata di sentimento e di desiderio (alla quale si potrebbe fors'anche aggiungere quella di Dio che spinge immediatamente i corpi gli uni verso gli altri) , Eulero non concepisce che una terza supposizione: cio che la causa dell'attrazione sia una forza inconoscibile ed inintelligibile, una qualit occidta.  Sembra pi ragionevole, segue egli a (l^ K puro sotto r uiiH o l'altra di queste duo tonno cho i ssa servirsi per attirare a st"^ i cor])i o c;iusarvi il peso ; ancora meno sco[rono qualche cosa tra il sole o la terra, di cui si possa credere che il sole si serva per attirare la terra. 8e si vedesse un carro seguire i cavalli senza che vi fossero attaccati, e non vi si vedesse n corda no altra cosa propria a mantenere qualche comuuicazicuie tra il carro e i cavalli, non si direbbe che il carro fosse tirato dai cavalli: si sarebbe piuttosto portato a credere che il carro fosso spinto da qualche, forza, quantunciue non se ne vedesse niente, a monoch non fosse il giuoco di qualche strega. Tuttavia i signori Inglesi non abbandonano il loro sentimento . V. nella stossa lettera il tratto che precode l'ultimo itato 276 scrivere, d'attribuire rattrazione dei corpi a un'azione che l'etere vi esercita, (juantunijue la maniera ci sia sconosciuta, che di ricorrere a una (jualit inintelligibile. Gli antichi filosofi si sono contentati di spiegare i fenomeni del mondo per questa sorta di qualit ch'essi hanno chiamate occulte, dicendo [). e. che l'oppio fa dormire per una qualit occulta che lo rende proprio a conciliare il sonno: era dire niente del tutto, o piuttosto era voler nascondere la propria ignoranza; si dovrebbe dunque pure riguardare come una (jualit occulta l'attrazione, in (|uanto la si d per una propriet essenziale dei corpi . D'Alembert trova esorbitante l'affermazioie di Cotes che la gravit  cos essenziale alla materia come l'impenetrabilit e l'estensione: se l'attrazione  una legge primitiva, essa non pu, egli dice, avere per causa che la volont di un essere sovrano J). Le leggi del movimento sono di verit necessaria ; ma le leggi del peso sono contingenti, e dipendono dalla volont del Creatore; supposto per che la gravit non possa spiegarsi per V impulsione. Quest'azione a distanza tra due corpi e la ragione secondo cui avviene sono egualmente incom})rensibili (8). Vi haino due sorte di . La niassina che ogni azione deve essere a contatto, non che il principio i)er cui si pretende dimostrarla che .stessa do, ma hanno qualche ripugnanza a dire che un corpo  la causa del movimento di un altro corpo collocato a qualche distanza da esso, a meno che non vi sia fra questi due corpi un legame stabilito con l'aiuto di qualche mezzo... Questa distinzione fra il movuento prodotto dall'urto e gli altri fenomeni della natura si fonda in gran parte sulla confusione delle cause efficienti e fisiche. DugaldStewart non ammette che l'urto sia una causa efficiente, perch secondo la dottrina della scuola scozzese la natura non ci presenta mai una vera connessione causale; 279 ma perch eg^li suppone che il rapporto di contiguit deve trovarsi nell' azione delle cause efficienti o metafisiche ? Siccome la nozione che egli si fa di cause metafisiche e oltrepassanti l'esperienza non pu avere in definitiva la sua base che nell'esperienza, noi abbiamo il dritto di ammettere,che ci  perch egli si forma la concezione delle cause metafisiche dei fenomeni fisici sul tipo dell'azione meccanica piuttosto che su quello di qualsiasi altra azione fisica. Hamilton, 1' altro eminente rappresentante della scuola del senso comune, dice: Una azione a distanza pu bene esserci imposta come fatto, ma la sua possibilit non resta perci meno inconcepibile. Galluppi pensa che la comunicazione del movimento per l'impulsione  una verit necessaria e a priori, di cui egli pretende di dare la dimostrazione. Ma che cosa dobbiamo pensare, si domanda, dell'attrazione? In questa i corpi non operano gli uni sugli altri per impulso. Intendendo per attrazione il moto naturale di un corpo verso di un altro, l'attrazione  un fatto primitivo di cui ignoriamo la causa E continua citando, e naturalmente approvandolo, un tratto di d'Alembert, in cui questi vuol mostrare che non potrebbe scoprirsi a priori alcuna ragione per cui un corpo tosto che non  sostenuto sia obbligato a discendere. Rosmini dice:  Niente mi prova la necessit di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m'induce a negarla la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto . Nei filosofi ultimamente citati il principio che  la base della teoria meccanica, cio che Timpulsione  una causa efficiente del movimento e la sola tra le Saggio filos., t. VI, par. IM). VI, 93. Psicologia . azioni fisiche che sia intelligibile, non si trova, per dir cosi, che d'una maniera incosciente; ma esso  espresso della maniera pi esplicita in queste parole che Cuvier scrive nella sua Storia del progresso delle scienze naturali : Una volta usciti dai fenomeni dell'urto, noi non abbiamo pi idea netta dei rapporti di causa e di effetto. Tutto si riduce a raccogliere dei tatti particolari e a ricercare delle pro[)Osizioni generali che ne abbraccino il pi gran numero possibile. E in ci che consistono tutte le teorie tisiche, e a (jualunque generalit sia stata portata ciascuna di esse, si  trop[)o lungi ancora dal ricondurle alle leggi dell'urto, che sole potrebbero cangiarle in vere spiegazioni . ^ 5. I meccanisti del nostro tempo non dichiarano meno nettamente dei meccanisti antichi che il vero motivo della loro dottrina e di assegnare le cause produttrici dei movimenti che le leggi generali a cui la scienza riconduce i fenomeni fisici lasciano nel mistero, e di spiegare cosi queste leggi generali che senza di ci resterebbero incomprensibili. Ascoltiamo il p. Secchi: I fisici ora cercano di conoscere la causa della gravit, quantuu(iue la nessuna necessit di conoscerla e la grande difficolt d assegnarne un origine ragionevole l. distolsero sino a poco tem[)o fa da queste speculazioni .  lY'r noi  assurdo (salvo sempre come si  detto il caso d'intervento degli enti spirituali) che il moto nella materia bruta abbia altra origine che dal moto. Noi rigettiamo quei principii detti forze ^ che non sono n spirito n materia, dei quali non  stata mai })rovata l'esistenza: essi ci sembrano mere astrazioni realizzate. Noi cerehertmio di ridurre tutti i fenomeni a mero scambio e comunicazione di moto e assumeremo questo scambio come un fatto primitivo la cui spiegazione sta nella Unit (fr/r forze fs,, 8 odiz., 1. IV, e. 4. 281 natura della materia . Ai critici che gli obbiettano che la comunicazione del moto anche a contatto  un fatto pure misterioso, egli risponde: Noi lo riceviamo come un fatto, e a questo come pi i facile a comprendersi cerchiamo ridur l'altro che dicesi da essi fatto a distanza . La spiegazione meccanica dei fenomeni fisici pu solo permettere secondo il p. Secchi di fare a meno di (juesti agenti oscuri e metafsici che si chiamano forze. Parlando della coesione, dice:  Quel legame pertanto o  formato da forze astratte operanti a vera distanza ovvero dall'azione d un mezzo. Le prime sono per noi inconcepibili perch la piccolezza delle distanze non toglie l'essere loro assurde e perci resta la seconda  (o). (L'alternativa  inevitabile: o il meccanismo o le /brze).  Uno studio pi profondo delle propriet della materia ha mostrato che le forze che costituiscono i corpi e danno loro una forma determinata e dcons comunemente attrazioni molecolari non dipendono da legami materiali posti fra le parti costituenti ne da principii astratti la cui azione a distanza  assurda, ma che devono considerarsi semplicemente come effetto dei movimenti di cui sono dotate le masse elementari e dell'influenza del mezzo in cui sono distribuite .  La sua esistenza (dell'etere) ci ha suggerito congetture sulla struttura interna dei corpi per fare a meio delle forze astratte aunnesse finora per ispiegare i fenomeni della coesione dei corpi: queste, lo prevediamo, incontreranno grande opposizione da ])arte di quelli che seguaci delle vecchie scuole pretendono che nei corjn vi sia alcuna cosa di pi che materia e moto, e credono grcive errore raif (MC. 1 odiz.. e. 1. par. 2. l^tiif . I. i. e. l. (8) rtiil Vii'., 15 (mIz.. 1. L e. o. Kliz. '^. V. 2. ]). S71, Conclusione. '"^^ 282 283 negare le forze, che essi poi non sanno dirci in che consistano. Come per ispiegare certi fatti, invece della causa occulta detta lorrore del vuoto che era una /'or.a ai suoi tempi, noi ammettiamo la pressione atmosferica, cosi presentemente mediante l'etere crediamo potersi spiegare loti di (luei fenomeni che vengono attribuiti a cause egualmente occulte  . La teoria atomica e indipendente dalla teoria delle forze che determinano runione di questi atomi, perch restar pu ad arbitrio di ciascuno l'immaginare o che essi siano determinati al moto da cause occulte e potenze intrinseche, ovvero che tutte le loro unioni si compiano per l'azione estrin^eca di un mezzo in movimento. Il fornirli dt forze astratte  certamente la cosa pi comoda, ma in pi luoghi abbiamo veduto la complicazione che porta un tale sistema, e l'infinito numero di forze che bisogna ammettere. Per dir poco,  quasi mestieri applicare aquesti atomi una certa intelligenza per arrivare a sapere se debbano agire o no; e qualche cosa che li avvisi che sta presente il soggetto su cui esercitare 1 azione! Questa forza poi che cosa ? Come non si esaurisce mai? Come  che stando essa sempre in attivit e disposta ad agire su tutti i corpi, quando gliesene presentano due insieme, sull'uno agisce e sull'altro no .^ Ha essa intelligenza da scegliere? Potremmo di leggieri moltii>licare queste domande sicuri d non averne risposta, e perci inutilmente, quindi sar miglior partito cercare di svolgere il concetto delle forze supponendole derivate dal moto di cui  animata la materia . \i luoghi citati dell'opera di Secchi se ne potrebbero ao-giungere molti altri ; ma ci contenteremo di un solo, in cui l'autore ritorna sulla supposizione dell'animazione della materia, considerandola come la sola causa immaginabile (se pur non vogliasi ricorrere all'azione diretta di Dio o a quella di altri enti spirituali separati) capace di spiegare le azioni fisiche che non possono o non vogliono ricondursi alla comunicazione del movimento per l'impulsione. Abbiamo gi detto altre volte che una forza attrattiva in istretto senso, cio come principio attivo risedente nelle molecole e operante a traverso un vuoto assoluto, a noi riesce inconcepibile, perci tale azione dovrebbe esercitarsi dai corpi a distanza, il che  assurdo e l'esser le distanze grandi o piccole non muta la difficolt. Se poi guardiamo la cosa in concreto, dovremmo ammettere nelle medesime molecole e nel medesimo tempo forze attrattive e ripulsive, e operanti con certa scelta, le quali da positive verso un corpo diventino negative verso un altro, e spesso verso lo stesso corpo a diverse distanze, o a mutate temperature, o per la presenza di un altro corpo; dei quali effetti  piena la tisica e la chimica. Cosi dovrebbero moltiplicarsi questi principii nei singoli atomi in modo prodigioso, e dotarsi di una certa facolt di sapere quando occorra attrarre o respingere e a tale o tal altra distanza e in certa direzione ! Queste sono cose inconcepibili e assurde: e d'altra parte l'esperienza mostra che a mano a mano che si conosce la vera causa dei fenomeni tali supposte tendenze svaniscono ogni d pi  . Noi insistiamo su quesra opposizione tra la teoria meccanica e la dottrina delle forze^ opposizione che, nella fisica moderna, corrisponde, come abbiamo notato, alla lotta dei filosofi ineccanisti, all'epoca del rinascimento della filosofia, contro le qualit occulte degli ultimi scolastici, e a quella degli avversari di Newton contro (li 1 te elevato sulTitlea d'inerzia cndla sin dalla sua base. Che saiir dunque se dalla rinciiio che ^ in C/Sse. esse hanm duiuiu( un'iniziativa propria, esse hanno delle vevoli, dei matrimoni telici e Ielle unioni discordi, delle sojde inimicizie^ e delle lotte  ! Ecco ijl'idilli e i dranimi ehe ci presenta la cliinjica, se noi allog^jiamo nelle molecole^ un ]>rinci])io re}>ulsivo e un principio attrattivo, come si alloi. 141). Cosa (' la forzii  nel volume Balfour-Stenrart (^onnerrnzionr delVe enfia, di risolvere mai d'una maniera completa il problema l'uni verso . E come da una parte si abbraccia la teoria meccanica per eliminare le cause occulte dei fenomeni fisici cio le forze, cos dall'altra parte si abbracciano le forze, perch una spiegazione meccanica dei fenomeni si ritiene impossibile. Hirn, avversario della teoria meccanica e difensore delle forze considerate come entit reali distinte dai fenomeni, divide gli scienziati moderni ili due campi opposti. Noi possiamo, egli dice, ricondurre ;i due proposizioni antagoniste l'enunziato della quistione (sulla natura delle forze fsiche in tutta la sua nettezza. 1.'^ Il movimento della materia non pu nascere ehe da un movimento anteriore d'un'altra parte di materia, e che per contatto immediato di materia a materia. 2." Il movimento della materia non nasce mai direttamente e per contatto immediato. Esso si deve sempre all'azione d'un elemento specificamente distinto dalla materia, che quest' elemento ne sia d'altronde separabile o no. Queste due affermazioni s opposte dividono e divideranno ancora gli scienziati in due campi ; la prima ha oggi per s 1' immensa maggioranza. Si  creduto fare una semplificazione e un progresso considerevoli sostituendo alla forza, essere mistico e incomprensibile, si dice, il movimento della materia... {2> Questa pretesa della teoria meccanica di sostituirsi alle forze, di eliminarle perch rese inutili da essa,  per noi la prova pi concludente del fatto che l'impulsione  ritenuta, secondo questa teoria (ed anche, in un certo senso, secondo gli avversari di questa teoria), una causa efit I/uitlt delle forze fsiche in Hec. seleni., scr. 1. t. 6. (*J) I.n no:, ili forza mila sciet^a moiL, Kev. scii'iit., str.:s. t. 10, p. i:^i. 287 ciente del movimento, una causa che  capace di spiegare i suoi effetti, di farne comprendere la ragion sufficiente, e non che  semplicemente un antecedente a cui questi effetti seguono d' una maniera invariabile. Infatti, se noi supponiamo che i fenomeni fisici sono dovuti alle forze, cio a cause sconosciute inaccessibili all'esperienza, ci avviene perch noi crediamo che, oltre le cause fisiche di questi fenomeni, cio oltre gli antecedenti delle sequenze invariabili che ci presenta l'esperienza, vi hanno delle cause efficienti di questi fenomeni, alle quali l'esperienza non pu attingere; e se noi crediamo che queste cause efficienti dei fenomeni sono altra .cosa che le loro condizioni empiriche a cui essi seguono invariabilmente,  perch noi non troviamo alcuna connessione, alcun legame necessario e intelligibile fra queste condizioni e i fenomeni che loro seguono, in una parola perch le leggi generali a cui la scienza riconduce i fenomeni fisici, ci sembrano incomprensibili. Per conseguenza una spiegazione di questi fenomeni che pretende di rendere inutile la supposizione delle forze e di sostituirle,  una spiegazione che pretende di far conoscere le cause efficienti, di scoprire la connessione o il legame necessario tra i fenomeni, di dare la ragion sufficiente delle leggi dell' esperienza, che senza di essa (cio di questa spiegazione) resterebbero incomprensibili. Per altro i meccanisti contemporanei dichiarano, non meno esplicitamente dei loro predecessori, che questo  il presupposto della loro dottrina, cio che l'impulsione  un fatto dhe si comprende da se stesso, mentre ogni altra azione fisica  inconiprensibile ed anche assurda a meno che non si riconduca all'impulsione. Per mostrare ci, ai tratti riportati del p. Secchi ne aggiungeremo qualche altro di altri autori. Challis dice:  Quando un corpo  messo in movimento senza l contatto apparente ne pressione d'un altro corpo, si pu tosto concludere che il corpo che pressa, (luantun(jue invisibile, esiste, a meno d'essere disposti ad ammettere che vi hanno delle operazioni fisiche che sono e saranno incomprensibili per noi . Moigno: Ci che  certo  che i corpi non si attirano... Se l'attrazione esistesse, sarebbe un miracolo perpetuo (cio un fatto superiore alla nostra ragione, incomprensibile) . Baltour-Stewart:  T/ ipotesi di azione a distanza pu essere fatta i)er rendere conto di qualche cosa ; ma  impossibile (come Newton l'indicava, or  lung'O tempo, nella sua celebre lettera a Bentley) per qualcuno che lia in materia filosofica una facolt di pensare competente  di ammettere un istante la possibilit di una tal azione  (3.. Naville: la comunicazione del movimento per via d'iupulsione o di contatto  la sola che ci sia intelligibile perch essa si deduce dall'idea stessa della materia di cui l'essenza  d'occupare l'estensione  Taine (trattando la quistione se ogni fatto o leo-co ha la sua ragione esplicativa): Probabilmente tuul i cang-iamenti fisici si riducono a dei movimenti che hanno per condizioni altri movimenti. Se questa riduzione fosse vera, tutti i problemi concernenti un corpo effettivo (|ualunque sarebbero problemi di meccanica, e tutto negli oggetti reali avrebbe la sua ragion d'essere (vale a dire potrebbe spiegarsi). N razione a distanza ha cessato di sembrare assurda anche a quelli che non pretendono del resto ricondurre tutti i fenomeni fisici all'impulsione: baster di citare Phil. unu/., 4 sei-., voi. . ]. 47. Disserti/, suiressenzii della materia. {'^) Ij'unicerso inrisibile, ^ ediz.. p. 100. Orig. lellafis. inod. in Her. srienUf.^ 2 ser., t. 8, p. 1081. (.5) Taine, 1/ 7ttflliyenza, Il parte, iib. 4, e.:^, par.:^, H. Spencer, che dice  positivamente inconcepibile la concezione che la materia agisce sulla materia a traverso lo spazio assolutamente vuoto , e Du Bois-Reymond, che nel suo celebre discorso al congresso scientifico di Lipsia ha affermato che la concezione di forze agenti a distanza a traverso il vuoto  in so inintelligibile e anche contraddittoria . 6. Fra le affermazioni contenute nei tratti degli autori che abbiano citati, ve ne ha una che  importante di esaminare, perch potrebbe spargere qualche dubbio sul fatto che abbiamo voluto costatare, cio che il motivo per cui si ritiene indispensabile di ricondurre all'impulsione tutti i fenomeni fisici, a meno di credere che questi sono e saranno per sempre inintelligibili,  che l'impulsione  la sola fra le condizioni generali del movimento, che sia considerata come una causa efficiente. L'affermazione di cui parliamo  che nell'azione a distanza vi ha un'impossibilit intrinseca, che essa  inconcepibile, assurda e contraddittoria. Come abbiamo detto, quest'impossibilit intrinseca dell'azione a distanza si  preteso dimostrarla, ponendo come premessa il principio che una cosa non pu agire dove non . Ma questa dimostrazione, come tutte le pretese dimostrazioni di una cosa di fatto, di cui la sola esperienza pu stabilire la verit o la falsit, non pu essere che o un sofisma fondato sull'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] o una petizione di principio. In fatto quando si dice che una cosa non pu agire dove non , di che sorta d'azioni s'intende parlare? La parola azione ha due sensi differenti: vi hanno delle azioni immanenti, p. e. io mi muovo, e delle azioni transeunti, p. e. io muovo un corpo differente da me. Se si tratta di azioni immanenti,  certo che Primi principii, paragr. 18. V. H e 532-533. re che se per azione a distanza non s'intende una semplice sequenza invariabile, ma s' intende invece che il corpo agente a distanza sia la causa efficiente del cangiamento determinato nelT altro corpo distante, allora 1' azione a distanza potrebbe benissimo essere considerata come una nozione contraddittoria, cio composta di elementi in-, compatibili: infatti ci sarebbe impossibile di rappresentarci un caso concreto di un rapporto di causazione tra fenomeni fisici, in cui della causa potesse dirsi al tempo stesso che essa  distante dall'effetto e che  una causa efficiente 0 produttrice di quest' effetto. Ma in questo senso dire che l'azione a distanza  una nozione contraddittoria sarebbe semplicemente enunziare il fatto che noi abbiamo voluto costatare, cio che lo spirito umano non pu considerare come causa efficiente un corpo agente a distanza, ma solo un corpo agente a contatto  d'una maniera meccanica. Passiamo ora al vocabolo assurdo. Assurdo  in primo luogo ci che  contraddittorio: nui in secondo luogo assurdo  anche ci che, senza essere contraddittorio in se stesso,  in contradddizione con qualche verit assiomatica. Cosi i geometri dicono di aver dimostrato una proposizione per 1' assurdo, quando essi hanno mostrato che, facendo una supposizione contraria alla proposizione, si cade in contraddizione con qualche assioma: in verit nelle dimostrazioni per l'assurdo basta per mostrare r assurdit di una supposizione di far vedere che essa  in contraddizione con un teorema gi dimostrato, ma siccome non si potrebbe negare una proposizione dimostrata senza contraddire agli assiomi che sono le premesse ultime di ogni dimostrazione, cosi 1' assurdit consiste in ogni caso ad essere in contraddizione con qualche assioma. Per sostenere dunque che l'azione a distanza  assurda, bisogner ammettere (per non tornare sul caso, di cui abbiamo gi parlato, in cui l'as>^Ke~*fe--?'*" 294 surdit consista in una contraddizione intrinseca) che l'azione a distanza  in contraddizione con una verit assiomatica. E in fatto quelli che dichiarano assurda l'azione a distanza ammettono come verit assiomatica, cio evidente per se stessa, che ogni azione deve essere a contatto. Ma questa pretesa verit assiomatica non  che r espressione della tendenza naturale del nostro spirito a ricondurre ed assimilare tutti i fenomeni fisici all'azione meccanica; e cos quest'assurdit che si trova neir azione a distanza non  al fondo che un' altra manifestazione del fatto che noi cerchiamo di mettere in evidenza, cio che T impulsione  la sola tra le azioni fsiche che sia naturalmente considerata come causa efficiente, e quindi pure come il solo intermediario esplicativo possibile che possa rendere ragione di tutte le altre. Se la nozione di causa efficiente ha un valore obbiettivo, cio, come abbiamo altra volta spiegato, se questa tendenza psicologica a spiegare le sequenze regolari tra fenomeni di cui non consideriamo 1' antecedente come una causa efficiente, per quelle di cui consideriamo r antecedeute come causa efficiente, ha un valore logico e noi dobbiamo seguirla, allora bisog^na ammettere che il principio del meccanismo  una verit assiomatica, che una vera azione a distanza  realmente assurda. Se al contrario la nozione di causa efficiente non ha un valore obbiettivo, se tra una causa efficiente e un semplice antecedente di una sequenza invariabile non vi ha una differenza reale ma solo psicologica, allora la pretesa evidenza a priori del principio del meccanismo  un sofisma a priori^ e la pretesa assurdit dell'azione a distanza una conseguenza di questo sofisma. Il nostro oggetto non  per ora di risolvere questa quistione, ma solo di trovare un dato necessario per questa soluzione, vale a dire qual  il carattere generale, che distingue le sequenze uniformi in cui consideriamo l'an 295 tecedente come causa efficiente, da quelle in cui non lo consideriamo come causa efficiente.  solamente dopo aver compreso questo carattere generale che potr vedersi se la tendenza del nostro spirito ad assimilare e ricondurre le sequenze del secondo genere a quelle del primo ha un valore logico, o s(i  soltanto un fenomeno psicologico, da cui  necessario di tenersi in guardia per evitare di scambiare le leggi subbiettive del nostro pensiero con le leggi obbiettive della natura reale. Passando infine alla parola ianio chiamato inconcepibilit relativa. Hanilton dice che noi non j)ossiamo concepire la possibilit di una cosa, [uando non possiamo concepire la cosa come il conseguenti, di una causa. Tutte le verit ultime della scienza, tutti i l'atti ultimi, sono per Hamilton inconce})ibili in questo senso, che perci sembra a IMill una perversione completa del significato della parcda: noi non lassiamo concepire la loro possibilit, ({uantunpie siamo obbligati ad ammetterli come fatti, ]>erch non possiamo concepirli come una conseguenza di ([ualche causa. Ma questo che a Mill sembra un terzo senso deirinconcei)ibilit ci pare identico al econdo senso, a ci che ablviamo chiamato inconcepibilit relativa. Cos quando Hamilton dice ehe  la possibilit dell'azione a distanza  ijiconcepibile, quantunque essa ]K)ssa esserci imyiosta come un fatto , egli vuol dire certamente che noi non possiamo concepire l'azione a distanza come la conseguenza di qualche causa, cio che non vi ha alcuna causa ejfcicnte immaginabile a cui V azione a distanza possa venire attriuita come un effetto. Ma dicendo cos Hamilton non si allontana dal secondo senso della parola inconcepibile. L'inconcepibilit relativa dell'azione a distanza e l'assenza di una ^'^J Si potrebbe non pertanto cercare di giustificare la pretensione deli' inconcepibilit anche relativa ad erigersi a criterio del vero e del falso per la ragione che una necessit del pensiero corrispondente a un' inconcepibilit rappresenta, in ultima analisi, il risultato dell'esperienza:  con questa ragione che Spencer ha preteso giustificare il criterio dell' inconcepibilit della negativa, che per lui  l'unico criterio della verit. Ma bisogna, dice ottimamente Bain, tener conto pure d questa circostanza, che, in ragione dei limiti della nostra esperienza, la forza del legame non rappresenta la ripetizione reale dei fatti, a meno che noi non fossimo posti in modo da incontrare questi fatti tutte le volte che si producono. Ci che  il pi familiare per la natura pu non essere ci che  il pi fajiiliare per noi. Noi non consideriamo sempre l'universo dall'alto di un punto di vista centrale e dominante . Per vedere che ci che  il pi familiare per la natura pu non essere ci che  il pi familiare per noi, basta confrontare il gran numero di fenomeni d' attrazione che conosce la scienza, col piccolo numer che ne pu conoscere il fanciullo e l'uomo senza cultura. Questi si riducono quasi unicamente all' attrazione esercitata dall'ambra e dalla calamitata, fenomeni che si osservano con la pi vvsl curiosit, perch riguardati d' una natura singolare e causa oticieute che possa farcela coiiipreiulere, uon sono che due aspetti d'uno stesso fatto. Tutti i fatti inesplicabili, cio di cui non possiamo ininia binare la causa efficiente, sono relativamente inconcepi)ili ; (ifiindi tutti i fatti uitimi sono relativamente inconcepibili. Questo fentuneno psicologico, che ha l'aria di un paradosso,  stato ben conosciuto da Bacone, il quale dice clie le interpretazioni della natura, all'opposto delle anticipazioni delV esperienza,  sembrano strane, incredibili, malsonanti e come altrettanti articoli di fede. * Lof/ica t. 1. Appendice, D. assolutamente eccezionale. I fenomeni dell' attrazione universale, della coesione, dell'affinit chimica, per non parlare degli altri fenomoni di attrazione dovuti all' elettricit e al magnetismo, non contano per nulla nelr esperienza dell'uomo che si limita a raccogliere passivamente le impressioni degli oggetti circostanti. La frequenza di questi fenomeni nella natura, supposto che essi non possano ricondursi, come vogliono i msccanisti, all'azione a contatto, non sarebbe inferiore a quella dei fenomeni d'impulsione e di trazione: tuttavia l'inlluenza di questi ultimi nel determinare le associazioni delle nostre idee resterebbe sempre estremamente pi grande che quella dei primi, perch essi sono i soli che ci colpiscono ad ogni momento nella nostra esperienza giornaliera. Quanto le nostre necessit di pensare e le nostre inconcepibilit (le relative) potrebbero essere differenti, se noi fossimo gli spettatori continui delle traslazioni dei grandi corpi dell'universo e delle piccole molecole, come lo siamo di quelle degli oggetti familiari che ci stanno d'attorno ! Allora l'inconcepibilit dell'azione a distanza potrebbe, non solo disparire, ma anche essere sostituita da un' inconcepibilit contraria, cio avente per oggetto 1' azione a contatto. Se infati noi ammettiamo le idee della fisica moderna sulla costituzione molecolare della materia, non vi ha alcuna contiguit reale fra le parti di un corpo che ci sembra continuo: la contiguit percepita dai nostri sensi non  dunque che apparente ; ma allora ogni contatto tra i corpi potrebbe essere illusorio, e ogni apparente azione a contatto potrebbe essere in realt, come del resto molti fisici credono, una azione a distanza. La teoria meccanica  stata sottoposta a una critica fatta coi criteri della filosofia dell' esperienza nell'opera di Stallo La materia e la fisica moderna: non sar inopportuno di citare quest' autore, dopo averne citati tanti che in 802 culcano i principii di questa teoria come verit evidenti e necessarie.  La stessa percezione, egli dice, primitiva, sommaria ed incompleta dei dati dei sensi (che secondo lui ha dato luogo air ipotesi della solidit assoluta della materia nei suoi elementi costitutivi) ha fatto nascere quest'altra ipotesi che ogni azione fisica  dovuta a un urto. La sola azione mutua tra icorpi che sia direttamente apprezzabile dalla vista e il tatto,  il cangiamento per collisione nel loro stato di riposo o di movimimento. L'urto  dunque la pi antica e la pi familiare di tutte le azioni osservabili di un corpo su di un altro. Quando 1' urto si produce tra due solidi moventisi con prestezze differenti, o (ci che  lo stesso tra un solido in movimento e un altro solido in riposo, l'osservatore ordinario non vede niente di pi che lo spostamento d'un corpo per l'altro e il trasporto diretto di movimento. Questo spostamento e questo trasporto sono supposti immediati, e i corpi sono supposti assolutamente rigidi. Ma quost' osservazione del fatto  tanto grossolana quanto l'interpretazione ne  inesatta. Uno studio pi attento dei fenomeni mostra che non vi ha alcuno spostamento immediato; che non vi ha trasporto diretto di movimento; che i corpi non sono assolutamente rigidi; che l'urto dei solidi, semplice in apparenza, forma tutta una serie molto complessa di circostanze, comprendente non solo 1' azione e la reazione diretta, ma pure la compressione e l'espansione alternativa, la tensione e il rilassamento dei legami di coesione e di cristallizzazione, la trasformazione dei movimenti rettilinei in movimenti vibratori, dei movimenti di traslazione in movimenti molecolari, lo spiegamento e 1' assorbimento dell'energia: in breve, dei cangiamenti, momentanei, se non durevoli, di tutte o quasi tutte le propriet dei corpi fra i quali l'urto si produce. In presenza di tutto ci, che domanda la teoria atomo-meccanica, 308 parlando di non ammettere tra i corpi altra azione mutua che l'urto? Essa domanda che le prime impressioni rudimentarie e non ragionate del selvaggio senza cultura siano per sempre la base di ogni scienza possibile . Ma la quistione del valore dell' inconcepibilit (relativa) come criterio del vero e del falso non , nel caso dell'azione a distanza come in una gran parte degli altri casi, che un aspetto della quistione fondamentale se la nozione di causa efficiente abbia o no un valore obbiettivo. Ci  perch 1' inconcepibilit (relativa) e la corrispondente necessit (pure relativa) di pensare non sono, nel caso dell'azione a distanza come in una gran parte degli altri, che uno degli aspetti di questo fenomeno del nostro spirito, di cui il concetto di causa efficiente  l'espressione astratta. Perch intatti l'azione a distanza  inconcepibile? Noi abbiamo visto che ci  perch non vi ha alcun legame tra l'idea della presenza di un corpo o di un suo cangiamento e (|uella di un cangiamento nello stato di un altro corpo distante separato dal primo per un intervallo vuoto; mentre vi ha invece un legame molto forte fra 1' idea del movimento di un corpo e quella di un altro corpo che, mettendosi in contatto con esso, lo spinga o lo tiri il (juale legame se non  tale da determinare un'inseparabilit assoluta tra le due idee e quindi una necessit assoluta di pensare, basta per a determinare una difficolt a separare le due idee e quindi una necessit relativa di pensare. Ora dire che non vi ha alcun legame tra l'idea delPantecedente e quella del suo convegnente equivale a dire che il primo non  considerato 4;ausa efficiente del secondo; come dire che fra l'idea dell'antecedente e quella del conseguente vi ha un forte legame che determina una necessit di pensare equivale a dire che quest' an Stililo. 7j(i tnaterid e la ^fsictt moderna, cai. 11. tecedente  considerato causa efficiente. Infatti il carattere distintivo della causa efficiente (che la differenzia dal semplice antecedente di una sequenza invariabile)  appunto il leccarne necessario fra la causa e l'effetto, e questo non pu essere che un legame mentale, perch nel reale stesso, indipendentemente dal nostro pensiero,, non vi ha necessit ne possibilit, ma solamente realt. CAPO IV. origine e sviluppo dell'idea di causa efficiente 1.1 principi su cui  fondata la filosofia meccanica costituiscono la prova pi concludente contro la teoria volizionale della causalit. Poich l' impulsione  naturalmente anch' essa considerata come una causa efficiente, cade og'ni pretesa di considerare la volont come il fatto unico che ci d la percezione della causa efficiente e perci come il tipo unico di questo modo di causazione. Se non vi fosse che un fenomeno unicoy come pretende la teoria volizionale, a cui gli uomini attribuissero il carattere di causa efficiente, all'opposto di tutte le altre cause, che verrebbero semplicemente riguardate come gli antecedenti di sequenze invariabili, non sembrerebbe forse tanto incalzante la quistione: quale sia questo carattere essenziale che si trova in questa sequenza unica, il cui antecedente  una causa efficiente, e non si trova nelle altre sequenze, i cui antecedenti non sono cause efficienti. Ma giacch noi conosciamo pi sequenze di diversa specie in cui si manifesta questo rapporto di efficienza causale, noi vediamo subito che deve trovarsi egualmente in tutte queste sequenze una circostanza comune, per cui esse si distinguono dalle altre sequenze in cui non si manifesta alcun rap20 #::porto di efficienza causale. Si sar forse contenti di dire che  Una legge della natura, una se(iuenza invariabile tra fenomeni, di cui Tantecedente  considerato causa efficiente, ci sembra intelligibile ed evidente per se stessa: le altre leggi, cio le altre se(pienze iuvaria))ili, ci sembrano incomprensibili ed ines[)licabili, sinch almeno non siano state ricondotte alle prime. Ora la comprensibilit e l'incomprensibilit non sono anch'esse se non fenomeni mentali: togliete il soggetto intelligente, e non vi sar pi differenza tra il comprensibile e l'incomprensibile. III. Noi abbiamo una tendenza a credere che le sequenze, il cui antecedente  considerato come causa efficiente, sono delle conoscenze puramente razionali, cio a priori: che questa apriorit sia reale o illusoria, si tratta sempre d'un carattere subbiettivo, appartenente alle nostre concezioni, e non alle cose concepite. Cos tutti i caratteri, che l'analisi della nozione di causa efficiente pu fornirci per distinguere le sequenze invariabili di cui 1' antecedente  consideratocausa efficiente, dalle altre sequenze invariabili, non consistono che in un'impressione determinata che le prime fanno sul nostro spirito a differenza delle seconde: ora non dobbiamo noi ammettere che questa differenza di effetti mentali abbia un perch nelle sequenze stesse, cio che vi sia una circostanza determinata, che trovandosi nelle prime, e non trovandosi nelle altre, fa che solo le une a differenza delle altre, siano proprie a produrre nel nostro spirito tali effetti determinati? Cerchiamo questa circostanzza comune nei due gn-andi tipi di efficienza causale che ci presenta la storia del pensiero, vale a dire l'azione volontaria e la comunicazione del movimento per l'impulsione. Se astrazion facendo dai caratteri puramente mentali, cio la intelligibilit, la necessit e l'apriorit, vera 0 supposta, del rapporto tra la causa e l'effetto, noi cerchiamo in che la volont e l'impulsione, come cause del movimento, differiscono dalle altre cause, che sono considerate, non come cause efficienti, ma come semplici condizioni o antecedenti a cui il movimento segue invariabilmente, noi non troviamo che una circostanza comune per cui le prime si distinguono dalle altre: la produzione del movimento per la volont o per l'impulsione sono delle sequenze regolari di fenomeni, in cui non pu scoprirsi niente di pi che nelle altre sequenze regolari di fenomeni; semplicemente esse ci sono assai pi 308 familiari che tutte le altre, questa  tutta la differenza. Questi modi di produzione del movimento possono nella natura non avere pi importanza degli altri, essi possono essere anche dei fenomeni rari ed eccezionali; ma per la nostra esperienza di tutti i girni essi costituiscono la regola, noi siamo infinitamente pi abituati ad essi che a tutti gli altri.  per questa grande familiarit che l'azione volontaria e l'azione meccanica ci sembrano intelligibili in se stesse, e tali da non aver bisogno di spiegazione e da poter servire anzi di spiegazione a tutti gli altri fenomeni della natura. Una sequenza di fenomeni, che ci  molto familiare, ci sembra spiegarsi da se stessa; noi non ne domandiamo il perch, poich essa sembra portare in se stessa la sua ragion sufficiente: in quanto alle altre sequenze, noi sentiamo il bisogno di spiegarle, e come? assimilandole e riconducendole a quelle che ci sono molto familiari; se quest' assimilazione ci  impossibile, esse ci sembrano inesplicabili e misteriose. Non vi ha forse un fenomeno psicologico pi importante per la teoria della conoscenza e per la intelligenza della storia del pensiero. Non bisogna credere che T atto volontario e l' impulsione siano i soli fenomeni intelligibili e che portano in se stessi la propria spiegazione: tutti i fenomeni familiari sono tali, solamente non ve n' alcun altro che sia proprio come i due primi a servire da intermediario esplicativo universale per gli altri fenomeni. Noi abbiamo visto che delle forme dell'attivit interiore dello spirito,  Assiduitate iiiotidiaua et oonsuetiiaine ociiloruni assuesciiiit animi: iieque adniirantur, ncque requirunt rationes earuni rerum quas semper vident. perinde (luasi novitas non magm quam magnitudo rerum debat ad exquirenda8 cau.sas excitare . Cicero De Natura deorum. II, come l'attivit costruttrice dell'immaginazione e l'attivit razionale che lega le conclusioni alle premesse, sembrano anch'esse dei fenomeni intelligibili, in cui i conseguenti hanno con gli antecedenti una connessione evidente e naturale, e che l'intelligibilit che troviamo in questi fenomeni  la base di una spiegazione del mondo (l'idealismo). Or  chiaro che tali azioni interne dello spirito non sono meno familiari che la sua azione esterna sul mondo dei corpi, e che noi possiamo perci attribuire anche in questi casi l'intelligibilit del fenomeno alla sua familiarit. In quanto alle azioni puramente fisiche, ricordiamo che Locke trova la divisione di un corpo per la intrusione di un altro un fatto cosi intelligibile come l'impulsione: anche qui la familiarit del fenomeno spiega perfettamente la sua intelligibilit. La trazione, che tra le azioni fisiche  pure una di quelle che ci sono pi familiari, non ci sembra anch'essa meno intelligibile dell'impulsione, n meno capace di servire da intermediario esplicativo. Se potessimo supporre, come dice Eulero , che il sole, per attirare la terra, si serve di una corda o di alcun altro dei mezzi di cui noi ci serviamo per tirare, ovvero, come dice Galileo, che ci che obbliga la luna a seguire la terra  che questi due globi sono legati insieme con una catena o infilzati ad un'asta (ammettendo, come i primi astronomi, che i movimenti dei corpi celesti siano circolari);  certo che queste supposizioni, se esse fossero possibili, spiegherebbero i fenomeni dell'attrazione d'una maniera non meno Intelli V. e. Ili ^:^. V. e. Ili ^ 4. Didloghi sui mussini sisteu, giornata terza, nota 1 n;;ta importante in cui Galileo GALILEI BONAIUTO (vedasi), precorrendo Xewton, ideutitica al peso dei corpi terrestri l'attrazione che la terra esercita vei;so la lumi . 310 gihile che l'ipotesi deirimpulsione di corpuscoli invisibili. La coesione non sarebbe spieg-ata meno intelligbilmente, se potessimo supporre, come dice il p. Secchi , dei legami materiali fra le molecole, o se l'atomistica moderna potesse ammettere, come l'antica, che i corpi solidi sono costituiti di atomi terminanti ad uncini, che s'intralciano gli uni negli altri; noi comprenderemmo allora perfettamente perch, spostando alcuna delle parti costitutive di un solido, tutte le altre devono seguirla. Lo stesso sarebbe se potessimo annnettere che questo solido  realmente continuo, e non costituito di molecole separate, come vuole la fsica moderna; anche allora cesserebbe di essere un mistero perch tutte le altre parti costitutive del corpo siano obbligate a seguire quelle, che qualche forza esteriore, ad esse applicata, ha per effetto immediato di muovere. La coesione non  un mistero che nell'ipotesi delle molecole separate; essa  perfettamente intelligibile in quella della continuit assoluta: perch? perch una simile azione esercitata tra masse separate non  per noi un fatto familiare, mentre  un fatto familiarissimo, esercitata tra le parti di una massa continua.  perci che il meccanista sente il bisogno di spiegare la coesione tra le particole che costituiscono un corpo sensibile, ma non sente alcun bisogno di spiegare la coesione tra le parti che costituiscono un atomo: egli considera quest'ultima come un fatto perfettamente intelligibile e che si spiega da se stesso, perch tali ci sembrano i fenomeni che ci sono molto familiari, e la coesione tra le parti di un continuo  uno di questi fenomeni. Notiamo che il mistero che la teoria della costituzione molecolare dei corpi introduce nella coesione, si estende necessariamente anche alle due altre azioni tisiche che per l'intelligibilit abbiamo parago V. e. Ili v^ 5. 811 nate all'impulsione, cio la trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro, per il rapporto che questi fenomeni hanno con la coesione Oltre la coesione tra le parti dell'atomo, vi ha un altro fenomeno indipendente dairimi)ulsione che l'antica hlosota meccanista ammette come primitivo, cio come intelligibile per s stesso, e non aveste bisogno di spiegazione: , lo abbiamo gi detto, il peso , fenomeno che forniva ad Epicuro la spiegazione dell'origine prima del movimento. Che un corpo debba cadere all'ingi, (piando non vi ha niente che lo trattenga,  un fenomeno dei pi familiari, e perci sem])rava ai meccanist greci una cosa perfettamente naturale e che si com[)rende da (Pulite (lice:  ., i farti pi s^i;i natnnili iiiveee d'essere attrilmiti alhi volont arbitraria le-li a-vuti soprainaturali. L'illustre A. Smith lia p. e. molto telireineiite (sscrvato, liei suoi sao-.-i llosoliei. elu^ non si trovava, il. aleuu tempo lu' iu aleuu paese, iiu dio per il i^^so. K eos in -^uere, anche a ri-'uardo dei so.i^'-etti pili complicati, verso tutti i l'encuueui assa^ eleiueutari e assai familiari ierche la i>ertetta invariabilit delle loro relazioni ettettive abbia dovuto sempre cmte conclude da questo fatto  che il -erme dcnuMitare della tlosoiia positiva  certamente cos primitivo al ton(h) che ([uello della tib)s. Questa tendenza spontanea dell'intelligenza, continua Mill, a spiegarsi tutti i casi di causazione assimilandoli agli atti d'agenti volontari simili all'uomo, costituisce la filosofia istintiva dello spirito umano nella sua prima fase, prima che si sia familiarizzato con le successioni invariahili tra i fenomeni esteriori ; e anche dopo,  le suggestioni della vita di tutti i giorni essendo pi forti che quelle della riflessione scientifica, la filosofia instintiva originale tismssi^^a^mem 315 conserva il suo terreno sotto i rampolli ottenuti dalla coltura, e li impedisce costantemente di radicarsi profondamente nel suolo.  di questo substratum che si alimenta la teoria che io combatto (cio la teoria secondo la quale  la produzione d'un avvenimento per causa di una volizione porta con s la sua spiegazione, nuMitre l'azione della materia sulla materia esige qualche cosa di pi per essere spiegata, e non  concepibile che supponendo l'intervento di una volont tra la causa apparente e il suo effetto apparente). La sua forza non risiede negli argomenti, ma nella sua alleanza con una tendenza tenace dell'infanzia dello spirito umano (l). Lo non so se articolarmente all' infanzia dello spirito umano, e manchi, o vada indeholendosi, nella sua maturit. I progressi della coltura possono avere i)er risul .X' .VI'" Bacone aveva anch'egli insistito su questa apparente intelligibilit dai fatti familiari e la tendenza a spietato di neutralizzare questa tendenza nei suoi effetti, ma la tendenza stessa, malgrado tutto, persiste e persister sempre in tutta la sua forza, essendo un fatto naturale e inevitabile dello spirito umano. Un filosofo pu ben segnalare questo fatto come un'illusione naturale; egli non pu sottrarre il suo spirito a quest'impulso istintivo, quantunque possa riconoscere che sarebbe un errore il seguirlo, come, per usare il paragone di Kant, l'astronomo stesso non ])u imi)edire che la luna gli sembri pi grande al suo levarsi, bench egli non sia punto ingannato da quest'apparenza Vi ha un'altra affermazione di Mill che noi non possiamo aujmettere iu tutta la sua generalit:  che l'atto volontario viene preso spontaneamente come tipo unico della causazi(Mie in generale. Se Comte pensava cos (quantunque anch'egli, come abbiamo visto, fosse costretto ad ammettere delle eccezioni alla sua regola)  perch egli ignorava l'origine della spiegazione rolieionale dei fenomeni, vale a dire questa tendenza naturale del nostro spirito a spiegare i fenomeni che non ci sono familiari, assimilandoli a quelli che lo sono. Ma Mill che conosceva assai bene questo fatto psicologico, non avreb)e dovuto ripetere Comte; tanto pi che egli afferma, contro la teoria volizionale della causalit, che delle successioni j)uramente fisiche e materiali, se esse sono divenute familiari al nostro spirito, vengono anch'esse considerate come perfettamente naturali, e lungi d'aver bisogno di spiegazione, servono alla spiegazione delle altre, e anche alla spiegazione ultima delle cose in generale. I Greci potevano, egli dice, nell'assimilazione di fatti tsici ad altri fatti tsici trovare la specie di soddisfazione mentale che produce ci che noi chiamiamo una spiegazione, soddisfazione che, secondo i fautori della teoria v(dizionale, noi non potremmo procurarci ora che rapportando i fenomeni a una volont. L'umido, l'aria o i numeri (Talete, Anassimene, i Pitagorici) avevano sulla loro intelligenza assolutamente la stessa virt di loro rendere intelligibile quello che, senza di ci, era per loro inconcepibile, e davano la stessa soddisfazione ai bisogni della loro facolt pensante. Quantunque questi esempi hlntM6twiij.>->.>..,. ..^.^,^, ^,^ i gare tutti gli altri fatti assimilandoli ad essi ; e non  questo il minore dei suoi titoli per esser nominato il non ci sembrino bene scelti (perch l'umido o l'aria erano considerati come il sustrato permanente delle cose e non come la ragion sufficiente, o la causa efficiente, degli avvenimenti, e in quanto ai numeri pitagorici, non si vede in che essi potessero essere utili alla intelligenza dei fenomeni) ci non toglie nondimeno che la proposizione, che essi servono ad appoggiare, non sia perfettamente vera. Il Mill va anche sino a considerare come un fatto accidentale e individuale, e non come un fatto necessario e generale dello s[)irito umano, (questa capacit che si trova neir azione volontaria a spiegare i fenomeni che possono esserle assimilati e a fjirceli parere pi intelligibili. Dopo aver parlato di Leibnitz, il quale  lungi di ammettere che la volont sia la sola specie di causa avente l'evidenza interna della sua efficacia, e ch'essa sia il legame reale tra gli antecedenti e i conseguenti tsici, voleva qualche antecedente tsico, naturalmente e per se efficiente, per servire di legame tra la volizione stessa e i suoi eftetti , e dei cartesiani, a cui sembrava inconcepibile l'azione dello spirito sulla materia, e che lu-etendevano che fosse inqjossibile che un fatto materiale e un fatto mentale potessero essere causa l'uno dell'altro, conclude: L'inconcepibile o il concepibile  una circostanza tutta accidentale, e che dipende interamente dalle esperienze e dalle abitudini di pensare degli uomini: degl'individui possono, per conseguenza di certe associazioni d'idee, essere incapaci di concepire una data cosa qualunque, e divenire in seguito capaci di concepire molte cose, per quanto inconcepibili avessero potuto sembrare dai>prima; e gli stessi fatti che per una persona determinano nel suo s]>irito ci che  concepibile o no, determinano jmre quali sono nella natura le sequenze che gli parranno s naturali e idausibili che non hanno bisogno d'altra prova che l'evidenza erci da poter fornire gl'intermediari esplicativi alle altre sequenze). Non vi ha regola di decidere fra una teoria di questo genere e un'altra ; ciascun teorico facendo appello ai suoi sentimenti subbiettivi ; ciascuno elevando 318 padre della filosofa empirista. Quando (gli uomini) incontrano dei fatti rari, essi vogliono, egli dice, asseti leg^o (leiriutelli^oiiza umana e della natura la successione particolare di fenomeni che ili sembra pi concepibile e pi naturale delle altre, solo percll^ u a;ire dove non . e della pretesa assurdit dell'azione a distanza, che imped allo stesso Newton di ammettere la pravit come una ju'opriet essenziale della materia, dice: 11 fatto dell'azione a contatto  pareva naturale e affatto semplice a Newton, perch era familiare alla sua immatrinazione, mentre l'altro per la ragione contraria "li semlu-ava tropjM assurdo per essere ammesso. Noi siamo familiarizzati con l'uno e l'altro fatto: noi li trovijimo eguabnente inesplicabili, ma egualmente facili ;i credore . {Lofjica, l. V. e. '. paragr. 8. Cfr. il mio S(if/f/io i." 548-."i41M. Sonc altre affermazitmi che non possiamo jimmettere senza fare delle riserve. La concepibilit o la inconceinbilit di determinate proposizioni, r apparente intelligibilit o inintelligibilit di determinate successioni di fenomeni, non sono relative a certe epoche o a certi individui, ma accom]>agnano costantemente lo spirito umano in tutti i tempi e in tutte le condizioni. Dato il inmto di vista da cui, in ntatto, ma 319 lutamente spiegarli ; ed essi credono riuscirvi rapportandoli e assimilandoli ai fatti pi comuni ; quanto a questi fatti s comuni, essi non sono affatto curiosi di conoscerne le cause, ma le ammettono puramente e semplicemente, riguardandoli come altrettanti punti accordati e convenuti Noi crediamo anche che niente non ha pi nociuto alla filosofia che questa disposizione naturale che fa che le cose frequenti e familiari non hanno il potere di svegliare e di fissare l'attenzione degli uomini, e eh' essi le riguardano con)e di passaggio, poco curiosi di conoscerne le cause, di sorta che vi ha molto meno spesso bisogno di eccitarli ad istruirsi di ci che essi ignorano che a fissare la loro attenzione sulle cose conosciute  (Ij. E altrove, dopo avere stabilito che il queste nuove sequenze non cesseranno mai di sembrargli strane e incomprensibili in se stesse e tali da esser nec(Nssario, per cer cui la scienza spiega la caduta dei corpi pesanti, sar sempre meno familiare che la caduta del corpo ju-imitiva: essa parr sempre; > {Dei principii e delle origini). Tra i tilosoti contemporanei il fatto psicologico di cui parliamo  stato esposto ottimatiiente anche da Clifford ( V. Lo scopo e ffli strimcnti -del lavoro scientifico in Rev. seicnt. 2. ser. t. 8. ]). 518-51})). Oomandandosi che cosa sia spiegare un fatto, l'autore comincia per presentare come esempio di spiega/Jone quella della legge dell'accrescimento della pressione dei gaz proporzionalmente alla diminuzione del volume mediante l'ipotesi che un gaz si compone d'un numeri enorme di [)iccole molecole sempre in movimento e ui-tantisi fra di loro, (si mostra in questa spiegazi(me che il numero degli urti d'una folla di molecole di (lucsto genere contro le pareti del vaso in cui sono contenute, varierchbc esattamente coiu'. si vede variare la pressio21.^-.' .^,_k.' JJ"B'X:..iJX^5^ ~ 322 Dopo il gh dett la nozione di causa efficiente ci sembra perfettamente spiegata, e non  quindi senza ne). I fatti per cui quella le^ii^" viene spiegata sono dei fenomeni ben familiari e della nostra esperienza giornaliera.  un fatto )en noto e familiare quello d^in corpo che urta in una supertcie e poi riml)alza: noi sappiamo per la nostra esperienza giornaliera che quando la distanza  met minore, non bisogna al eorjK) che un tempo met minore per ritornare. Al contrario la proj>orzione rigorosa tra la ])ressione e la densit  per noi un fatto relativamente strjino e poco familia-e. La spiegazione lu-esenta il fatto sconosciuto e poco familiare come composto di ci che  conosciuto e familiare: e tale h, mi sembra, il vero Benso (Iella parola spiegazione . Non  sempre necessario che un f(^nonieno sia spiegabile.  Perch un fenomeno sia suscettibile di s]>iegazione, esso deve decomporsi in elementi pi semplici che ci siano gi familiari. Ora in primo luogo il fenomeno pu esso stesso essere semplice, e per conseguenza indecomponi)ile; e in secondo luogo esso pu decomporsi in elementi che siano per noi cos poco familiari e cos poco maneggiabili che il fenomeno primitivo. una spiegazione del movimento della luna il dire che  un corpo che cade, ma che va s i)resto ed e s lontano che cade dall'altro lato della terra, facendone il giro invece di arrivarvi, e clic ([uesto movimento continua senza cessa. Ma non  una spiegazione il dire che un corpo cade in virti della gravitazione. Ci vuol dire che il movimento del corpo pu decomi)orsi nei movimenti di ciascuna delle sue molecole verso ciascuna delle molecole della terra, con un' accelerazione in ragione inversa del quadrato delle distanze tra loro. Ma quest'attrazione tra due molecole sar sempre, mi sembra, meno familiare della caduta del corpo primitivo, onde all'ordine e alla genesi delle idee, non ne , come mostreremo nel cap. 7, che una conseguenza indiretta. Quando Stallo considera come due conseguenze d'una stessa supposizione il principici di Spinoza die 1' ordine e la connessione delie idee corrisiM)ndono all'ordine e alla connessione delle cose (principio che  realmente il fondamento di tutta una tendenza filosofica e non del solo sistema spinozista), e la tendenza a spiegare i fatti poco familiari e nuovamente acquisiti alla n(stra conoscenza, assimilandoli ai pi familiari e \m\ anticamente conosciuti, egli scam])ia una vaga anah)gin con una identit reale. Nel princijjio di Spinoza si tratta d'un ordine logico, d'un'an al seguito del quale accade invariabilmente e che si volirarmente la sua causa: e di l si conclude teriorit e d'una posteriorit logica tra le idee (l'ordine clie vi ha tra le premesse e le conclusioni), e si sui)pone che questo stesso ordine, questa stessa anteriorit e ple; (piesta circostanza che le parole designano originariamente delle cose o almeno deposizioni ingannevoli  (quelle che l'autore chiama errori strutturali dell' intellig(mza). Anche noi ammettiamo che tutte le nozioni metafisiche non sono che uno sviluppo di certi errori strutturali dell'intelligenza: ma questi secondo noi sono dei fenomeni connaturati allo spirito umano, dei fatti permanenti, necessari, istintivi, degli errori che tutti aiu 326 alla necessit di rimontare pi alto, sino alle essenze e alla costituzione intima delle cose, per trovare la mettianio o siamo inclinati ad anunettere come delle verit evidenti per se stesse.  un fatto istintivo t^uest'obbiettivazione spontanea delle nostre sensazioni, cpiesta eostruzione di un mondo materiale indipendente da^j^li esseri senzienti, formato di oggetti aventi grandezza, forma, colore e tutti gli tiltri attributi che non appartengono se non alle sensazioni stesso, mondo di cui nondimeno tutti gli uomini ammettono o hanno la pi forte tendenza ad ammettere la realt come una verit evidente per se stessa.  un fatto istintivo ([uesta tendenza ad assimilare le sequenze tra i fenomeni che non ci sono familiari a q^i^^^ 1^ sono; ed  ammesso o si ha una forte tendenza ad ammettere come una verit evidente per se stessa che una delle prime sequenze si spiega e si comprende quando  assimilata a qualcuna delle seconde e che invece  inesplicibile e incomprensibile tutte le volte che quest' assimilazione non  possibile.  da questi ed altri simili errori ammessi come verit evidenti per se stesse, da questi ed altri simili fatti istintivi (che noi d'altronde cercheremo (li dedurre dalle leggi generali dello spirito) che deriva tutta la metafisica ;  solo cos che noi possiamo vedere in essa una fase necessaria della evoluzione naturale del pensiero umano. Noi sentiamo quanto sarebbe artificiale una teoria che vedesse in questo prodotto naturale dello sviluppo del pensiero, al cui punto di partenza si trovano le illusioni naturali di cui abbiamo parlato, una semplice conseguenza di certe opinioni fallaci sulla funzione dei termini generali. Daltronde sarebbe impossibile di ricondurre, se non d'una maniera troppo forzata, tutti i sistemi e tutte le nozioni della metafisica alla supposizione  che vi ha una corrispondenza fissa tra i concetti e la loro filiazione da una parte, e le cose e la loro dipendenza mutua dall'altra.  Su questa supposizione propriamente non  fondato che il sistema di Hegel e gli altri sistemi congeneri, cio quelli che realizzano le nozioni astratte e generali, e introducono fra di esse un incatenamento logico continuo, in modo che la genesi o lo sviluppo della conoscenza s' identifica con la genesi o lo sviluppo delle cose stesse. Ma siccome Stallo  stato 327 causa vera, la causa che non  solamente seguita dall'effetto, ma che lo produce.  E altrove ^o unico di ntanea e popolare.  come (luando analizzando il concetto di ittateria, ch'egli riduce, come si sa, a sensazioni e imssibiiit di sensazioni, egli pretende che nell'idea volgare e naturale dei corpi non vi sia altro che questo. Mill  certamente il pi grande rappresentante dell'empirismo dopo Hunie: questi mette in confiitto i risultati della rifiessione filosofica con le credenze naturali, e giunge cios allo scetticismo ; il primo nega la differenza fra gli uni e le altre. Per salvarsi dallo scetticismo, non )8ogna negare questa difterenza, ma spiegare l'origine delle ultime, ci che mostrer al tempo stesso che esse non lianno alcun valore obbiettivo. IftaMflMiMtegaeKiifa-M! 329 3. Qualunque la filosofia oggi predominante releghi esclusivamente le cause efficienti nella regione dell'inconoscibile, e faccia cosi dell'efficienza causale ossia del rapporto tra la causa efficiente e il suo effetto qualche cosa che differisce ^o^o .(^e/zere da qualsiasi rapporto causale conosciuto cio da qualsiasi sequenza tra fenomeni (ed  perci che l'efficienza causale pu sembrare un legame misterioso e indefinibile)'^ ci non pertanto un po' di riflessione render evidente che, bench lo spirito umano, a un certo grado dello sviluppo della nozione di efficienza causale, pervenga naturalmente a non ammettere se non delle cause efficienti assolutamente metaempiriche, vale a dire tali che l'esperienza non potrebbe esibirne alcun esempio ne alcun tipo, pure la nozione stessa di queste cause metaempiriche non pu avere la sua base e la sua radice che nelle idee delle causazioni empiriche e fenomenali che noi conosciamo. Noi abbiamo gi osservato che la dottrina positivista sulle cause efficienti, secondo la quale queste sarebbero reali, ma inaccessibili alla nostra conoscenza,  logicamente priva di base e contraria ai principi fondamentali della filosofia dell'esperienza: se l'esperienza non ci presenta ehe delle semplici sequenze invariabili, se non vi ha alcun caso in cui noi possiamo osservare la efficienza causale o, come dice Comte, il modo essenziale di produzione dei fenomeni, che cosa prover che, oltre agli antecedenti delle sequenze invariabili che noi osserviamo, vi hanno ancora delle cause efficienti V che vi ha un' efficienza causale, un modo essenziale di produzione, distinto da una semplice sequenza invariabile di fenomeni, che  il solo rapporto causale di cui noi abbiamo potuto costatare l'esistenza V E donde avrebbe potuto venirci la nozione di efficienza causale o di modo essenziale di produzione distinto dal semplree rapporto di sequenza invariabile, e quella di causa efficiente distinta dal semplice antecedente di una tale sequenza, se non vi ha nella nostra esperienza alcun rapporto di sequenza che ci abbia dato l'impressiono di un'efficienza causale, alcun antecedente che ci abbia dato l'impressione di una causa efficiente? Questa dottrina adunque lascia la nozione di causa efficiente ing'iustificata e ingiustificabile al punto di vista ontologico, inesplicata e inesplicabile al punto di vista psicologico, ed essa non sembra ammissibile, che sinch si rig-uarda questa nozione come una cosa si naturale che non occorre discuterne il valore o ricercarne l'origine ; il difficile  di comprendere la necessit di una tale discussione e di una tale ricerca, ma, compresala una volta, diviene evidente che l'idea di causa efficiente (qualunque sia il suo valore obbiettivo) non pu avere la sua sorgente che nell'esperienza, a meno di supporre che in questo caso particolare lo spirito proceda eccezionalmente per un cammino diverso da quello che egli seg-ue neir acquisizione di tutte le sue altre idee. Ne segue che qualsiasi causa efficiente netaempirica lo spirito umano concepisca, conoscibile o inconoscibile, per quanto si suppong-a differente dalle cause efficienti empiriche, deve in ultima analisi modellarsi sul tipo di queste, perch la nozione di causa efficiente non ne  orig-inariamente che una g-eneralizzazione, e j)erci i caratteri che definiscono la nozione g-enerale di causa efficiente (caratteri che devono ritrovarsi in tutte le forme e applicazioni particolari di essa, anche le pi lontane dalla sua origine) non possono essere altra cosa che i caratteri comuni alle nozioni di queste cause efficienti empiriche particolari da cui essa  stata dedotta. Ora una causa efficiente empirica non essendo che l'antecedente di una sequenza molto familiare, per conseguenza sono le particolarit proprie alle idee delle sequenze molto familiari che costituiscono i caratteri essenziali per cui l'idea di causa efficiente si definisce, 331 o per cui una eausa efficiente si distingue da un semplice antecedente di una sequenza invariabile. La prima particolarit , come abbiamo detto, che le sequenze familiari sembrano perfettamente naturali e comprensibili per se stesse, in altri termini che i loro antecedenti sembrano spiegare (nel senso popolare della parola spiegazione) i loro conseguenti, o esserne la ragion sufficiente, mentre al contrario le sequenze non familiari sembrano strane e incomprensibili, e pare che vi sia bisogno per comprenderle dell'intervento di un intermediario esplicativo, per cui esse possano venire ricondotte e assimilate ad alcuna delle sequenze pi familiari. Cos il primo carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo effetto, che distingue una causa efficiente da un semplice antecedente di una sequenza invariabile,  che la causa efficiente non si limita a esser seguita costantemente dall'effetto, ma spiega quest'effetto o ne  la ragion sufficiente, ed  anche capace di servire da intermediario esplicativo di quelle sequenze invariabili il cui antecedente non  una causa efficiente, cio non spiega il suo conseguente o non ne  la ragion sufficiente, ma ha con questo un semplice rapporto di congiunzione senza connessioneUn altro carattere del nexus tra la causa efficiente e il suo effetto  la necessit: non solo noi sappiamo che la causa  seguita dall' effetto, ma sentiamo che essa deve esserne seguita. La necessit, come abbiamo notato, non  propriamente che una modalit dei nostri giudizii, e non  che per una sorta di metafora che si trasporta alle cose stesse: noi diciamo un fatto necessario, come diciamo una cosa bella o un'azione buona ; questi attributi sono relativi al soggetto percepente e giudicante, e non avrebbero significato senza questa relazione. Attribuendoli alle cose stesse, noi vogliamo dire semplicemente che l'impressione del soggetto percepente e giudicante non  arbitraria e ac 332 cidentale, ina che essa  costante, e che noi ci attendiamo naturalmente da tali cose che esse devono produrre tali impressioni. Cosi il legame necessario tra la causa e l'effetto si riduce al sentimento di necessit che accompagna il nostro pensiero, quando noi giudichiamo che tal causa sar seguita da tale effetto. Questa necessit, che noi sentiamo nel nostro pensiero e che trasportiamo nelle cose stesse che ne sono l'oggetto, consiste, come abbiamo detto, in uno stretto legame fra le nostre idee, che pu giungere sino al punto da rendere queste idee affatto inseparabili, quando diciamo che la necessit  assoluta: nel nostro caso in verit la necessit non  assoluta, cio tale che il contrario sia assolutamente impensabile, ma  il pi alto grado di necessit che possa trovarsi in un legame tra idee formato dall' esperienza per le leggi dell' associazione.  evidente che questo grado di necessit deve accompagnare quelli che sono stati formati dalle sequenze pi familiari. Noi abbiamo visto che le sequenze familiari producono delle associazioni si forti tra le nostre idee, ehe il nostro pensiero non pu se non con difficolt dare al fenomeno conseg'uente un antecedente diverso dall'abituale:  cosi che noi pensiamo, o siamo naturalmente inclinati a pensare, che  necessario (e i filosofi hanno spesso dichiarato che  una verit necessaria) che il movimento della materia inanimata deve essere causato da un movimento anteriore di un' altra materia a contatto, che la causa che fa cominciare un movimento nella materia non pu essere che lo spirito, che 1' appropriazione di mezzi ad un fine non pu essere che l'opera di un' intelligenza, ecc. Se la ripetizione frequente delle esperienze pu avere la conseguenza di rendere inconcepibile il conseguente senza l' antecedente familiare e di far sembrare necessario che esso si produca al seguito di questo solo antecedente, a pi forte ragione potr avere quella di 333 rendere inconcepibile l'antecedente senza il conseguente familiare, e far sembrare necessario che questo si produca al seguito di quello, poich gli stessi effetti possono essere determinati da cause differenti, ma le stesse cause determinano sempre gli stessi effetti. Alla necessit del rapporto tra la causa efficiente e il suo effetto  legato un altro carattere, cio che questo rapporto sembra una conoscenza razionale, indinpendente dall'esperienza, in una parola una conoscenza a priori. Si sa in eft'etto che la pi parte dei filosofi vedono nella necessit di una proposizione la prova che questa proposizione non  un risultato dell'esperienza, ma una conoscenza a priori ci che, come mostreremo altrove, non  un semplice pregiudizio filosofico, ma una credenza naturale.Questo carattere dell'apriorit, dell'evidenza razionale, sembra talmente proprio al nexus tra lac.iusa efficiente e il suo effetto, che Hume e i filosofi scoz^josi hanno negato la possibilit di conoscere le causefficieenti, perche indipendentcmiente dall' esperienza, cio a priori, non si potrebbe prevedere che una data causa sar seguita da un dato effetto. Ora il proprio delle sequenze familiari  che esse sembrano conoscibili a priori, per la loro evidenza intrinseca e indipendentemente dall'esperienza. Lo stesso Hume dice: Quando si tratta di avvenimenti coi quali ci siamo familiarizzati sin dalla nostra nascita.... noi siamo inclinati a crederci capaci di scoprire questi effetti per il semplice uso della ragione, senza invocare il soccorso dell' esperienza. Noi ci facciamo anche illusione sino a credere che, (quando non facessimo che comparire a questo mondo all'ora che , noi potremmo pertanto giudicare, al primo colpo, che una palla essendo spinta contro un' altra, la metterebbe in movimento, e pronunciare su ci con certezza, senz' aver bisogno d'attendere l'avvenimento. '1) E in effetto, nel Saggio 4. nBRWMMPMPIM") 834 cap. 3. abbiamo citati parecchi autori, i quali pensano la comunicazione del movimento da un corpo ad un altro per mezzo dell'impulsione  una verit a prioche si pu conoscere, come dice Hume,  per il semplice uso della ragione, senza invocare il soccorso dell'esperienza. I sostenitori della teoria volizionale della causazione ammettono pure che noi abbiamo immediatamente la coscienza del potere della nostra volont a mettere in movimento le nostre membra , e i loro avversari, come Hume e Mill , mostrano contro di essi che questo potere si conosce come tutti gli altri fatti per l'esperienza, e non anteriormente ad essa, come suppone la dottrina che la volont  una causa efficiente.il Mill conviene tuttavia che  una credenza naturale all'uomo  che esso si conosce indipendentemente dall'osservazione e che noi ne abbiamo direttamente coscienza come vuole la teoria volizionale. E ciascuno, io credo, potr osservare in se stesso che  veramente cosi, cio che ci sembra che la prima volta che abbiamo voluto, avremmo potuto prevedere, anteriormente all' esperienza, che le nostre membra avrebbero eseguito l'azione voluta, come ci sembra che la prima volta che abbiamo visto un corpo urtarne un altro, avremmo potuto prevedere, anteriormente all'esperienza, che il corpo urtato si sarebbe messo in movimento. Lo stesso che dell'impulsione e del movimento volontario pu dirsi di tutte le sequenze molto familiari: tutte quelle che hanno un'importanza qualsiasi al punto di vista filosofico, hanno trovato dei filosofi che, conformandosi alla tendenza spontanea del nostro spirito, hanno negato 1' origine empirica delle proposi V. cap. 2. $ 21. Hume Saggio, Mill Log, 1. 8. e. 5. J 9 e Filos di Hainilton e. 16. Mill Filos. di Hamilton e. 16. trad. frauc. 351. 335 zioni corrispondenti. Cosi secondo la scuola scozzese e altri filosofi  una verit a priori, e non una generalizzazione dell'esperienza, il principio su cui  fondato l'argomento teleologico (cio che, come abbiamo detto sopra, l'appropriazione di mezzi ad un fine non pu essere che l'opera d'un'intelligenza, o, come dice Reid, che i segni evidenti dell'intelligenza e del disegno nell'effetto provano un disegno e un'intelligenza nella causa). Ci che implica che  una verit a priori, e non una generalizzazione dell'esperienza, che l'essere intelligente ha il potere di coordinare, nel suo pensiero, dei mezzi ad un fine, e di effettuare nella rc^alt questa coordinazione. Keid Saggi sulle facolt intellett. Sjijrjrio H. v. 6, Gnlluppi Saggio filos. t. 5. par. 61, ecc. In UH scuso,  vero che una se considerato come una causa efficiente non pu essere una scovcrta scientifica: le conoscenze di iiuest' ordine sono anteriori alla scienza, e fanno parte del patrinuinio comune di o.i^ni intellij;enza umana; la loro evidenza ^ una luce che illnwina ogni uomo che cieue in questo modo. 11 poeta dice: felice chi pu conoscere le cause delle cose ! ma non: chi pu conoscere le leggi secondo cui le cause sono legate agli effetti. La capacit;\ di una data causa a produrre un dato effetto si presuppone conu' meni ne seguiranno. 11 vero carattere distintivo del metodo sperimentale  che per esso le leggi di causazione non sono un assioma, come per il metodo aprioristico e metafisico, ma il problema che la scienza si propone di risolvere, per la sola osservazione e senza alcuna anticipazione sull'esperienza. 337 g-ano tutti i fenomeni assimilandoli agli atti della nostra volont, n quegli altri che vedono in questi atti sttvssi runico tipo che abbiamo per formarci l'idea di causa efficiente. N l'attivit interiore dello spirito sembra meno misteriosa dell'azione dello spirito sul corpo a quelli stessi che vedono in questa attivit l'esempio pi perspicuo di una efficienza causale, o di una connessione tra fenomeni che  (lualche cosa di pi che una semplice congiunzione: cos il Galluppi non cessa di ripetere che il come della nostra attivit interna  un mistero, che noi ignoriamo come si ])roducano (luesti atti dello spirito, ai \\va\\ non pertanto egli ricorre costantemente per mostrare contro di Ilume che noi abbiamo la conoscenza diretta di cause efficienti e di una connessione tra fenomeni che non  una simuplice conu-innzione. Tutine (|uegli stessi tlosoti, che eonsiderano V impulsione come una causa efficiente, e come la sola causa efficiente concepibile del movimento (almeno tra le azioni puramente fisiche). dichiarano che il conu della comunicazione del movimento nella collisione tra due corpi  anch'esso un mistero, e che l'impulsione  cos incomprensibile che (lualsiasi altro fenomeno. Locke, p. e., dice: Uig'uardo alla co.niinicazione del movimento, per cui un corpo perde altrettanto movimento che un altro ne ri^.yve noi non concepiamo altra cosa per ci che un movimento che passa da un corpo ad un altro corpo, il che , io credo, cos oscuro e cos inconcepibile che la maniera in cui il nostro spirito mette in movimento o ferma il nostro corpo per il pensiero >>..... E d Alembert domanda: Abbiamo forse un'idea i)i netta V. t. 1, par. 105. t. 2, par. 77. t. 5. par. 1 t. t7. .ar. 2S. 00 3:]H -^ della virt per la -uirebbe alla volizione; e noi ])ossiamo concepire o che la volont sia soltanto la causa remota del movimento del corpo, agendo su questa terza cosa la (juale, do])o aver subita quest'azione, agisca essa stessa sul cori)o e sia la causa prossima del movimento nel qual caso sarebbe l'azione di questa terza cosa, e non la volizione, la causa efficiente del movimento ; ovvero che la volont concorra essa (l) k'Irn, (li f/os. XVII. 339 stessa direttamente alla produzione del movimento, ma ' vi sia pure simultaneamente bisogno, perche esso sia prodotto, del concorso di questa terza cosa nel (|ual caso la volont non sarebbe nemmeno la causa efficiente del movimento, perch la causa deve contenere tutto ciche  sufficiente per produrre l' effetto. L'affermare che un fenonunio  la causa efficiente di un altro fenomeno e al tempo stesso che noi non comprendiamo come il secondo fenomeno si |)roduca al seguito del primo,  cosi contraddittorio come l'affermare che la sequenza tra due fenomeni si comprende da se stessa senza bisogno d'un intermediario esplicativo, e al tempo stesso che l'uno di questi due fenomeni non  la causa efficiente dell' altro. Conu^ esempio di (juesta seconda specie di contraddizione ricordiamo la dottrina di Leibnitz sulla comunicazione del movimento per rim[)ulsione: mentre egli trova la sequenza tra l'impulsione e il movimento perfettamente naturale e intelligibile in se stessa, egli nega allo stesso tem])o qualsiasi azione reale di un corpo su di un altro, e annnette che il corpo che ha ricevuto l'impulso si muove per l'energia j)ropria a lui innata (^ non perch la forza gli sia stata comunicata dal corpo impellente, .|uest'apparente comunicazione del movimento non essendo che l'effetto di un'armonia i)restabilita. Leibnitz non  meno incoerente, quando, dopo aver negato allo spirito l'efficacia di produrre i movimenti d(d corpo, eleva non pertanto nel suo sistema l'azione volontaria a si)iegazione universale delle cose, la dottrina delle monadi fondandosi sull'idea che non vi ha altro principio attivo, altra forza motrice, che l'anima, ed essendo (piindi una forma della spiegazione volizionale, altrettanto che la dottrina dell'armonia prestabilita, che fa dell'azione della divinit l'intermediario esplicativo di tutti i fenomeni. E evidente che sotto questo riguardo nel sistema delle cause Bmsji 340 occasionali vi ha la stessa contradrlizioiie che in ({uello deirarnionia prestabilita. E questa contraddizione esiste al fondo nelle dottrine di tutti i filosofi che, mentre dichiarano che l'azione della volont , come o^^iii altra forma delTazione reci[)roca tra lo spirito e il corpo, il {)i incomprensibile dei fenomeni, se n( servono al temj)o stesso come di spieo-azione di tutte le altro azioni della natura. Tutte queste contraddizioni dei sistemi tilosofici non sono che le manifestazioni di una sorta di antinomia della intellig'enza umana, per cui le s(Mjuenz(^ che ci sono le pi familiari, ci si mostrano al tempo stesso sotto due aspetti contrari, come le i)iii intelli\ii'ibili di tutte e come le pi misteriose. E uno dei pi strani e nondiiiKnio d( |)i costanti fenomeni dello spirito umano, che la scienza, mentre fa comprendere (juei fatti che nei periodo prescienti fico sembrano i pi sorpremb^iti e incompr(Misibili, rende al contrario sorprcMidenti e incomprensibili (quelli che nel periodo prescientifico sia nella storia della specie che deirindividuo sembrano i j)i naturali ed intelligibili. Noi conosciamo si bene, dice d" Aleml)ert, le cause dell'arcobaleno, e i^'noriamo ])erch una pietra cade! Gli ecclissi, i terretnoti, la folerch familiari, diventano incomprensibili per o-ji 8i)irivi che hanno ricevuto grinsegnament della scienza. In verit (juesti fatti non ])erdono interamente, nel i)eriodo scientifico, la loro intelligil)ilit i)rimitiva, le su''iamento materiale che ha luou'o nei centri nervosi e nei ni'rvi motori mentre essi sono in funzione: ma si suj)j);me che esso consista in un movinuMito nolecolare. Se dunijue la volont produce diretramentc (|ualche movimento, esso non  certamente il movinn'nto voluto Ielle membra, ma un altro movimento che uou ha con (picsto alcuna somiiilianza, ci oc un movimento molecolare in (jualche parte della corteccia cerebrale: ora  evidente, che la volont non potrebbe sp/(\(/ar(' l'eft'etto |)iii mediato e pi lon tano. cio il movimento delle membra che essa concepisce e vuole, se non in ijuanto essa potesse spiegare lo effetto prossimo e immediato, cio il movimento molecolare cht' essa non concepisce n vuole. In questa catena di tcMiomeni successivi, che va dalla \olizione al movimento voluto, non vi ha un legame tra i due anelli estremi, se non in (pianto gli anelli intermediari sono legati fra di loro e> con l'uno e l'altro di questi estremi. Non si pu passare da un estremo all' altro senza fare tutti i passi intermediari: se vi ha un sol passo che noi non possiamo fare, non vi iia |)assaggio i)ossibile dal punto di ])artenza al j)unto di arrivo ; se il filo della spiegazione  interrotto in un s;.l punto, non vi ha pi legame tra il primo antecedente e il conseguente ultimo, l'uno di (juesti due fatti non pu sj)iegare l'altro. ( )ra vi ha certamente un passo die noi non possi* no fare, vi ha almeno un punto in cui il filo della sj)iegazione  interrotto. Ammettiamo i)ure che, dato il primo effetto tisico della volizione, cio questo cangiamento che essa immediatanu^nte produce n(^i centri motori del cervello, tutti gli altri fi*nomeni seguenti, sino al movimento finale delle membra, si comj)rendano perfettamente. Ammettere ci  supi)orre primo che tutti i fenomeni puranu^ite fisici dell' azione nervosa e> muscolare si producano meccanicancitc (ogni nziom^ tsica irriduttibile all'azione movcnca essendo, come abbiamo visto, icotjtrPs/bile); e secondo che le leggi secondo cui avviene l'azione meccanica, cio le leggi d(d movimen to, non abl)iano niente d' incom[rensibile. Di jUeste due supj)Osizioni la prima non potre])l)e provarsi, e la seconda mosti-eremo j)i gi ciie non  vera. Ma noi ammettei-emo un istante queste supposizioni, p(M mostrare la difficolt sj)eciale che c'impedisee di comprendere l'azione volontaria. (yJiiesta difficolt consiste sovratutto ned passaggio dalla volizione al suo effetto fisico innnediato: ci die sembra il pi ine )mprensibih'. neir azione volontaiia  come si produca, al seu'uito dcdla volizione, (piesto cangiamento fisico che  1' origine di tutti gli altri ; come, avendo noi concepito e voluto un certo moviunmto, l'effigi to sia, non (piesto movimento, ma un altro differente, che noi non abbiamo voluto n concepito. IhiiiH' ;i,Li('l;i nuiuediatinucutc non sono i in'nil)ri stessi che devono essci'c mossi, ma lei muscoli, lei ncix'i. dcjili spiriti animali, foi'sc artc^ del coi'[)o clic ci eravamo immediatamroposti tenza che presiedei alla totalit di er una ((scienza intima. ' misteriosa e inintellijibilc all'ultimo ])unto? I/anima vu(dc un certo jivvenimento: tosto se ne produce un altro atHatto diiVercMite, e sconosciuto a noi stessi clie vojuliann.  {Siujiji(t \ 1 1 parte 1). :m Ecco dunque come il niovinieuto volontario, che ci sembra il pi evidente e naturale dei fenomeni, sinch noi lo oniardiamo, per dir cosi, in blocco, ci diviene strano e incomprtrJisibile se noi cerchiamo di analizzarlo.  su (intesta rto tra lo spinto e il c^n-pt  in se stosso incomprensibile) si fondava principalmente ]r;'r dimostrare che la volont non Tuia ra.iion sufficiente del luovimento. Ascoltiamo Malebranche:  Mi pare certi che la v>but de.iili sjdriti non ' capace di muovere il lu i)iccdo c(rp( eh" vi sia al mondo: poich  evidente che non vi ha le.ixame necessari. tra la volont che noi adiano. per esemii(. di muover.' il nostro ])raccio e il iuvimento del nostro braccio P^^i'^'^"' ^'*>"^' l^'' tremmo noi muovere il nostro l>raecio ^ IVr muoverlo biso-iia avere dejili spiriti animali, inviaii p^^r eerti nervi verso eerti musetdi per .i-imlarli e racciKviari: i> 'r.-li  eosi che il brai-eio cha vi  attaccato si muove, o. secondo il sentinuuiti di alcuni altri . non si sa ancora come vih si fa. E noi vediamo che de.i^li uomini che non sanno solamente s' essi hanm de.iili spiriti. dei nervi e dei musccdi. muovono le loro braccia, e le mu(vono anche con pi destre/.z;i e facilit di quelli che sanno il me-iio r;niat>mia. K ia sidamente ci che bisogiia fare p.'.r muovere uuo deUe sue dita per mezzo degli spiriti animali. {Nir. della cerila, 1. (>. ]), il, e.:^) .Similmente Bayle diee: Noi siaur tutti c;>uviuti che U!ii chiave mm p >fcr;'bb:^ sn'vifci p':' ni-ut  al aprire un forziere, s* noi ignorassimo ct>m >isojrna impiegarla, e nondimeno noi ci tguriamo che la nostra auim i  la eausa emeiente del movimento delle iu>stre braccia, quatumpie essa non sai>pia ne dove sono i nervi che devno servire a questo movimento. n> dove bisogna i)reudere gli spiriti animali che devono scorrere in (luesti nervi {Risposta alle quistioni rVan provbieiale, eap. 140). Arnauld, che solitamente ammette con Malebranche V impossi347 La sequenza tra la volizione e il movimento ci sembra naturale ed evidente, sinch ci limitiamo a rapportare immediatamente i due fatti l'utio all'altro, senza tener conto dei fatti intermediarii: ma ci sembra strano e incomprensibile, quando U nostro |)ensiero sostituisce alla semplice sequenza primitiva una serie complessa di azioni, intercalando dei nuovi termini, sconosciuti nel ])eriodo prescientitco, o in una parola (piando il fenomeno, che prima appariva semplice, viene decomposto nei fenomeni elementari da cui esso risulta. Il semplice fenomeno }>rimitivamente conosciuto, cio la sequenza immediata tra la volont e il movimento, sembra naturale e perfe.ttametite comprensibile, perch ci  familiare: il fenomeno decomposto dalla scienza sembra strano e incomprc^nsil)ile, perch i fenomeni parziali in cui esso si risolvo non ci sono familiari. La spie,i>'azione scientiHca del fenomeno non  niente del tutto una s/)fecj(uio)e, nel senso popolare o metafisico della parola; mentre qu(sta riduce ci che non  familiare a ci che lo , la scienza al contrario riduce ci che  familiare a ci che n(n lo  (l). >ilit d'un'azione reale dello spirito sul corpo e del corpo sullo sidrito. mette talora in dubbio la dottrina ihe />/o hhi ha dato alVaniiia nostra la virta reale di detvrniaare il corso drf/li spiriti verso i maseoli delle parti del nostro eorpo che noi lof/liamo tnuocere.  (Qualora ci si jjoti^sse dimostrare, non pi>trebb(^ farsi se non per la ragione che l'anima m)stra non sa punto ci che bisogna fare per muovere il nostro Ina -ci ]>er mezzo d;ina fare pei mettr' in movimento le sue membra,  i^ssa vu(l muoverle, cioi' se noi volessinn e conce])issimo le azi(Mii intermediarie che s*interiongono tra la volizione e il nn)vimento tinah\ Tazioiu' Vilontaria non si trovereJde cos sorprendente e iiu'omprensibilc tv. nota antecedente): perch i perch allora ([ueste azioni intermcfliarie sarebbero assimilate alla s(unplice se1.;miio supi>st.. clic la volont T' rcalnHM.tc nnu arnera c\w a-i l'online d'avan/are  la causa lei ni.>vinnMito che ta passare un Ti-eno da una sta/ione ad un'altra -ma scnqu-e una causa. Ma il fenH.eno potrel..e invntaria. inten'ssante si lo spirito ^^i='i''''^' *^'^*' ipresi: pu darsi che il fenomeno psichic. volizione sia ess.> la causa dei fenomeni Usici c\w rostantemente lo sc.ouim. o faccia almeno parte di [uestn causu; n.a pu larsi invece clu' la causa sufliciente dell'ai)parizione di ero le inc.mprensi>ilit cmiiini a tutte le azioni tsiclH'. la siiccesHuie hd fMiMueni fisici sseiuh. cosi iiisplicahih' in iuest> caso come in tutti -li altri; e vi sarebbe inoltre la incomprensibilit particolare al caso, deirapimrizu.mdi certi iVimmeiii psichici al se-uito li c'rti fem.meni Hsici. Cos la inc.mprensi)ilit particolare lell'azii.ne v(d>ntaria si risdverebbe nella incomprensibilit di cui assiamo a parlare nel testo, cio in ciuella dell'azione del corpo siilb. spiriti (inveoo che elh) s]irito sul corpassare per il i-a^'imiamento da un fenomeno all'altro. I due fenomeni si producono insiem(^ ma non sap])iamo perch: noi io-noriamo assolutamente juale sia il leo'anie tra il fatto fisico e il fatto di coscienza di cui il primo  il concomitantt^ costante, non possiamo scoprire tra di essi alcuna connessione necessaria. . 'I\vnlall ci pr'senta [ui un ulivo esemiu> bdla nostra teinleiiza a credere che la (MUinessione tra la causa ch' c. l'V' poter con>scersi a iri)ri, inlipenerienza. Di \nn e-li l a [uesta cii>sceiiza a pri>ri il 'aratt*r' ])i determiiiat li una lMluzione l!Lj,ica: n)i veani esteriori dei nostri sensi sino ai movimenti appropriati con cui l'or^-anismo risponde a iiiesta stimolazione, (che sono i due termini tra cui si svol"azione tsica di (luesti fenomeni, la pi comi)leta di cui un fenomeno tsico sia suscettibile, mostrando che la loro ])roduzione  conforme a quella dei movimenti delle masse osservabili con cui noi siamo familiarizzati. 'Sin non vi ha ncccanismn che possa renderci pi concepibile la comparsa di (piesto epifenomeno che accompag'na il movimento moliH-olare del cervello e dei nervi, cio il sentimento (^ il pensiero (l. Tutte le spiegazioni dei metatsici delTazione mutua tra lo spirito e il corpo si riducono alle ipotesi delle cause occasionali e deirarmonia prestabilita: (pusste spiegazioni volgono in una sorta di circolo vizioso, poich come intermediario esplicativo per far com[)rendere il fenomeno si servono di un caso del fenomeno stesso, che dichiarano in se incomprensibile .  Fiii.i;isim. vi'r:i. visitmKlolsi -A d deiitn), clic dei im'ZZ clic, si spiuuono oli mii c(Hi -li nitri, e non nini .li clic sic-niv min i>crcczinne. (Monndoloiin. I h-noineiii .h'il'nzionc imitiin trn lo spirito "e il corpo non si prescntnvnuo ni filosofi -reci con j-li stessi cnratteri di niisfero e (rinconcepihilitn. con f ;reci facciano difetti 1siclic. el  la ]nrte che [uesti orjiani ju'endono nei fenomeni, interponendosi tra r azione del mondo esteriore e lo spirito, e trn (luesto e la reazione sul mondo esteriore, che rende sovrntutto incompi-ensibili i rapiorti frn lo spirito e la materia. J^'incoini>rensilnlitn comincia n sentirsi, e delle spieazioni c-omincinno nd immnu;innrsi. (piando si  lii incominciato a formnrsi er esempio di ]Mmevn.no che i muscoli sono come dez;li nnimali che i>ercepisciore a cui stanno nttnccnti, ieoare come mezzi i rifletta, per esempio, suirinfluenza della volont sul cor.^o delle nostre idee. Quest' influenza ci sembra dapprima, in ragione della sua familiarit, un fatto perfettamente naturale e che non ha bisogno di spiegazione, egualmente che V efficacia della volont per determinare i nostri movimenti: ma avviene per la prima come i>er la seconda ; cio basta di riflettere alla sua limitazione, perch il meccanismo e le leggi secondo cui (pu^st'influenza si esercita diventino un problema, e noi cessiamo di trovarla cosi naturale e comprensibilecome essa ci sembrava. Perch abbiamo noi meno autorit sui nostri sentimenti e sulle nostre pas. sioni, che non ne abbiamo sulle nostre idee, sebbene questa stessa sia reacchiusa in limiti strettissimi? Qual  la ragione primitiva di ((uestc differenti limitazioni? Perch quest'impero che abbiamo su noi non  lo stesso in ogni tempo? perch  pi grande in un uomo sano che in un uomo malato, a digiune che dopo un gran pasto? T/effetto non di])ende qui, domanda Hume, da un meccanismo secreto, da una struttura nascosta, sia nello s|)irito, sia nel corpo?. Saji.iiio 7. \mi'\v Possiamo noi forse sperare che la scoperta del meccahismo e delle leggi fondamentali che governano la successione dei fenomeni interni, eliminer V incomprensibilit della loro produzione? Al contrario, anche qui avviene lo stesso che per i fenomeni della nostra attivit esteriore: ogni progresso delle conoscenze in questo senso, lungi di diminuire T incomprensibilit, non tende che ad accrescerla. Il pi gran passo che si sia fatto verso la sottomissione dei fenomeni psichici a delle leggi cos precise come quelle che governano la successione dei fenomeni esteriori,  certamente l'applicazione universale ai fatti dello spirito delle leggi dell'associazione. Ora queste leggi sono lungi di semb-arci cosi naturali e perfettamente comprensibili come i fenomeni familiari di cui esse danno la spiegazione, come ricordarsi, ragionare, volere. Questi ci sembrano dei fatti che si comprendono da ^ e che non hanno bisogno di essere spiegati; lo psicologo che li analizza, riducendoli alle leggi dell'associazione, ci sembra che spieghi il chiaro per l' oscuro. Stabilire una connessione evidente fra certe proposizioni e certe altre noi troviamo che  un fatto pi naturale che la forza che unisce un'idea ad un'altra in ragione della loro somiglianza o della loro opposizione o della contiguit in cui si sono trovate nella nostra esperienza passata. Noi troviamo anche perfettamente naturale che, avendo sete, vogliamo fare i movimenti che occorrono per prendere una bevanda e portarla alle nostre labbra: quando il filosofo associazionista ci spiega che ci avviene perch le leggi dell'associazione hanno stabilito delle coesioni definite tra certi sentimenti e certe azioni o le idee di queste azioni, noi troviamo che i i)rincipii su cui si fonda questa spiegazione sono meno comprensibili del fatto che si tratta di spiegare. Per provare che le leggi dell'associazione ci sembrano in certo modo arbitrarie, e certamente non cos naturali che i fenonini familiari alla cui spieo-azione veno-ono applicate, basterebbe l'ultimo capitolo del 2. libro del Saggio suW mtendlmeuto di Locke:  in certe bizzarrie e stravaganze dello spirito, che paragona alla folla, in certe unioni fortuite di  idee che per se stesse non hanno assolutamciute alcuna connessione naturale, o, come ancora le chiama, in certe combinazioni d'idee mal fondate e contrarie alla natura, che eoli vede il prodotto delle leg-oi dell'associazione. Ciascuno del resto avr potuto osservare che qujindo nel discorso ordinario si parla dell'associazione delle idee,  quasi sempre a proposito di (|ueste unioni bizzarre e irreg-olari. Lo psicologo, riconducendo alle leggi dell'associazione le connessioni i)i naturali tra i nostri pensieri, riconduce ci che  pi familiare a ci che  meno familiare, e per conseguenza ci che ci sembra perfettamente naturale e comprensibile a ci che ci sembra strano o almeno nu'no com]n-ensibile. Forse si dubiter del* valore della teoria associazionista come spiegazione universale dei fatti dello spirito, e io inclino a credere che questo dubbio non sarebbe senza fondamento: ma ci non ha importanza per la nostra tesi generale. Ammettiamo che la psicologia finir per riconoscere l'esistenza di altri principii della 3onnessione tra i fenomeni interni, cos primitivi che (pielli ammessi dalla teoria associazionista: (|ualunque siano i principii elementari a cui l'analisi ridurr le operazioni del nostro spirito, noi saremo sempre meno familiarizzati con gli elementi che coi loro risultati pi ordinari, e le leggi precise dei fatti psichici, qualunque esse siano, appunto perch saranno delle scoverte della scienza e non dei dati della nostra esperienza familiare, parranno necessariamente meno comprensibili in se stesse che le generalizzazioni empiriche che noi facciamo spontaneamente sui pi familiari di questi fatti. Che dire quando i fenomeni psichici si considerano, non pi in se stessi, ma nelle loro condizioni materiali V Allora le associazioni tra le idee devono spiegarsi per le associazioni tra le azioni nervose che sono i correlativi costanti delle idee, e per le leggi della correlazione tra (jueste e quelle: ohscunun per obscurits f In realt le operazioni della psiche consistono in una serie di fatti fisici, intercalati da fatti di coscienza: sia che si aiinnetta  S. Passiamo ai fenomei puramente fisici. Noi ab])iamo visto perch alcuni tra i pi familiari di questi fenomeni diventino incomprensibili. Abbiamo osservato che la caduta dei gravi cessa di essere comprensibile dopo la concezione degli antipodi, e pi ancora dopo la teoria dell'attrazione universale: abbiamo osservato pure che la coesione tra le parti costitutive di un solido diviene un mistero dopo la dottrina dei fisici della costituzione molecolare dei corpi, e che questo mistero si estende necessariamente ad altre azioni fisiche che presuppongono la coesione, quali la trazione e la divisione di un corpo per l'intrusione di un altro. In questi casi  evidente che il fatto, che immediata358 mente sembra comprensibilissimo, perch familiare, acquista un aspetto misterioso, dopo che si  sottomesso a uno studio scientifico, perch viene ricondotto ad altri fatti che non sono familiari. Ci resta a parlare di quello tra i fenomeni tisici che  ritenuto il i)i intelligibile, e al quale perci si  cercato di ricondurre tutti gli altri, vale a dire del movimento prodotto dairimpulsione, per mostrare che questo non fa eccezione alla regola, e che anch'esso perde, esaminato alla luce della scienza, la sua intelligibilit primitiva. I fenomeni familiari del movimento meccanico sembrano perfettamente comprensibili in se stessi, sinch non si pensa alle precise leggi quantitative a cui essi sono sottoposti:  la conoscenza li queste leggi che li rende misteriosi, e fa sentire il bisogno d una spiegazione. La legge suprema che domina questi fenomeni, cio Tinvariabilit (piantitativa della forza, il principio che la forza non si distrugge n si crea, non  una suggestione delle nostre esperienze familiari, ma il portato di una lunga riflessione scientifica. Ne segue che essa ci sembra misteriosa, e che tutti i fenonu^ni in cui essa trova la sua applicazione, ci appariscono come effetti di cause sconosciute. Perch nella collisione di due corpi l'uno acquista la stessa quantit di forza che l'altro perde? e perch esso ritiene la forza ricevuta, in modo che, se non fosse sottoposto all'azione di altri corpi, continuer(ibbe indefinitamente a muoversi con la stessa energia? Evidentemente l'uno e l'altro di questi fatti non possono essere di quelli che sembrano portare in se stessi la propria spiegazione: perci bisognerebbe che dei rapporti quantitativi cosi precisi come quelli che essi contengono, potessero essere delle generalizzazioni spontanee immediatamente suggerite dalle nostre osservazioni pi familiari. Il secondo di questi ffitti 359 anzi, lungi di essere una suggestione delle nostre osservazioni pi familiari,  loro apparentemente contrario, perch noi vediamo ogni corpo in movimento perdere gradualmente la sua velocit, e fermarsi infine da se stesso. Cos se i fenomeni del movimento meccanico sono familiari, le loro leggi non lo sono. Ci basta perch questi fenomeni, che senibrano i pi intelligibili di tutti, abbiano nondimeno anch'essi la loro parte di incomprensibilit. Le considerazioni precedenti ci fanno comprendere perch la nozione della /b;'.2^^ nel senso trascendente della parola, di quest'agente misterioso, il cui dominio sembrerebbe non dover oltrepassare le azioni fisiche che non ci sono familiari (quali sono quelle a distanza), si sia nondimeno introdotta anche nei fenomeni familiari dell'azione meccanica. Esse ci fanno comprendere pure perch dei filosofi, die hanno il pi energicamente sostenuto la necessit di ricondurre tutti i fenomeni fisici all'azione meccanica, come la sola intelligibile, quali Cartesio, Malebranche, Leibnitz, hanno sentito tuttavia il bisogno di sovrapporre, per dir cosi, alla loro spiegazione meccanica un cappelletto metafisico, ci che essi non avrebbero fatto, sei principii della teoria meccanica fossero loro sembrati perfettamente comprensibili i)er se stessi. Queste parole di Leibnitz: Tutto si fa meccanicamente nella natura, ma i ])rincipii del meccanismo derivano da una sorgente superiore par.>le che potrebbero servire di emblema a tutto un pi^riodo della storia della metafisica moderna sono l'espressione di questo doppio aspetto, Tuno intelligibile e l'altro misterioso, che i fenomeni del movimento meccanico presentano alternativamente al nostro pensiero. La contraddizione che noi abbiamo segnalata in Leibnitz, il quale, mentre riconosce nell'impulsione tutti i caratteri deWa causa efficiente, nega al tempo stesso 1' azione reale tra il corpo urtante e il m) corj)0 urtato, non dipende semplicemente da una disparit tra i risultati ottenuti nelle speculazioni sulla cosa in se della materia i teoria delle monadi) e quelli ottenuti a un altro punto di vista, cio nella considerazione pura e semplice dell'incatenamento causale dei fenomeni. La contraddizione sori*'eva gi sul terreno stesso della ricerca delle cause. Mentre da un lato la produzione del movimento per V im})ulsione sembrava a Leibnitz perfettamente intelligibile in se stessa (ci che  un' altra ^espressione per dire che l'impulsione  la atffsa efficmite del movimento), da un altro lato la considerazione delle leiiii'i del movimento i>li faceva sentire il bisog'no di spiegarle, e di ricorrere perci a delle cause metaempiriche del fenomeno. Cos la teoria delle monadi e quella connessa dell' armonia prestabilita, quantunque nate al punto di vista della ricerca della com in .sr, venivano a proposito per risolvere un problema nato al punto di vista della ricerca delle cause efficeifi. fornendo delle cause pi iiitellig-ibili, e quindi, per dir cos, pi effiriefi . che l'impulsione stessa, la cui intellig'ibilit e, quindi, la cui cfficieiza^ si era trovata equivoca. Concludiamo. Noi al)biamo stabilito il principio che i fenomeni familiari ci sembrano comprendersi |)erfettamente da se stessi, mentre tutti gli altri ci sembrano incomprensibili, a meno che non possiamo spiegarli, riconducendoli ai primi. Ora questo priiu-ipio poteva sembrare in contraddizione col fatto che i fenomeni stessi pi familiari, al fondo, ci sembrano anch' essi incomprensibili. Noi abbiamo spieg'ata quest' apparente contraddizione, mostrando che (fuesti fenomeni, intellig'ibili sinch noi li consideriamo al punto di vista volgare, secondo le prime nozioni attinte nella nostra vita ili tutti i giorni, diventano misteriosi alla riflessione scientifica che ce li fa vedere sotto un aspetto nuovo -ed insolito. La riflessione scientifica produce l'effetto di m\ togliere a questi fenomeni la loro intellig'ibilit, per di cos, natia, sia mostrando che il loro modo reale di produzione e le veri leg'g'i da cui dipendono e-i sono ancora sconosciuti, sia, circostanza j)i importnnte, facendoci conoscere (juesto modo di {produzione e (jueste leg'g*i, che, sicconu'. non ci sono familiari, ci a[)pariscono perci incomprensibili d). La scienza riconduce cos il familiare A iu'sti (bic motivi si rapjMH'tsnio lircttaiiH'iitc alla cousiilcrazioiic h'ITiiicatciiaiiKMito causale dei f('iu)UH'U: ma il terzo dipende dall' introduzione di certe ipotesi metafisiche, le enza relazione, ])er la loro origine, con la arenze fenonu'nali (come pei (\sempio n(d sistema leibnitziam d(dle monadi), allora si di(liiaia implicitamente (du* tutto ci( (die mn con(>sciamo d(drincatenaniento caiisal(^ dei fenomeni n(ui  che ap])arenza. i lemnucni slessi jum essendo (die apparenze. e (die il modo reale d(dla ju'oduziom: 4l(dle c(KS(^ si cela, airesperieuza. e si juii an( he ^iun.u,('re. cou Jjcihnitz. a nejiai'c ([iialsiasi azione l'eale ti'a le cose. La concezione metafisica d(dl(> s])irito come una sostanzff (coucezume nidi])endeute s dalla ricerca dejle ntHsc effcivuH (he da ([lulla d(dla rosa iti si-, e di cui a suo luo;;() spieu;h(M-emi) rori;in(,'j ha lud dominio dei f"a,tti psi(diici lo stesso effetto c]r^ in ([indio d(ii fatti fisi(d l'idea della rostf in si', distinta dai fenonn',ui, vale a diro essa accresci^ rinintelli^ihilit della loro ju-oduzioue. K (;vi'leute v\n'. il pr(d)Iema della conn(^ssione tra il tisico (^ il mentale 61 C(nnplica di nuove (liffic(dt. (lop(> (die la dottrina (hdla so_ stanza anima ha scisso l'uomo in due (esseri, v, per dir cos, indile uomini, distinti. Allora, pei' escmi)io. il i>otere dell' essere ai'ia362 al non familiare, o spiegando il fenomeno familiare e ridiu-endolo ad altri fenomeni non familiari, o mostrandoci che le leggi che reggono il fenomeno non sono familiari, quantunque il fenomeno lo sia. Di questa maniera r apparente contraddizione al i)rincipio si risolve in una vera conferma del principio stesso ; e possiamo ammettere come stabilito che la ('ompremiblit o IncomprenHbilit di un fatto sono dei fenomeni psicologici che dipendono dalla familkint o non fcunillnrlt di questo fatto ( l ). 9. Le considerazioni ]>recedenti ci offrono un dato inqjortante perla soluzione della quistione: quale sia il valore obbiettivo di questa tendenza naturale del nostro spirito a ricondurre i fenomeni che non ci sono iiienU' pi iiiconipiviisibilt'. luni fosso por altro, por im'jq)plio}iziono dol iriiioipio v\\v stabiliamo noi tosto. ]>oroln', (lualiiiuiuc siano i nostri (lo*;nii lilosotici o rolidu/iono  nooessariamonto soonosoiuto od inconq>ronsibilo. talo ossondo l'agonto ohe li produce. o al di l dolh condizicmi ompiriolio doi fononu'ui, e fors'anoho in luouo di osso, stanno, come cause di questi lenomoni, la natura o lo pnqu'icit Tti una cosa inosco.uitabile.  chiaro che ci devo intondortii della conqu-onsibilit e inoompreusibilit in un corto senso. La ]anda coniprcHdcrc ha due sensi. coiiispondenti a quelli cln . al soj^uito di Mill, abbiamo distinto u-li altri fenomeni, ma a questo fatto quale esso ci apparisve. secoiulo la nozione illusoria del periodo prescientifico. Noi non assimiliamo i fenomeni ad un fatto reale, ma ad una nozione puramente subbiettiva ed illusoria di (|Uesto fatto: non vi ha in realt assimilazione di certi fatti delTesperienza ad altri fatti dell'esperienza, ma il risultato a cui perveniamo manca di qualsiasi base induttiva. Ci si comprender meg'lio con un esempio: quando Aristotile spie^ra per il Nous Tori'ine del movimento, o juando ensiero ( la volont come causa di movimento spontaneo; ora la scienza ci mostra che (piesta nozione  falsa nel mondo dell'esperienza, la volont non potendo creare della forza, ma solo manifestare al di fuori quella che preesisteva i>'i latente neiroraanismo; l'azione volontaria fleiruomo e de^*li animati, a cui la spiegazione volizionale assimibi la produzione del movimento nelruniverso. non  (lunijue l'azione volontaria (jual essa  realmente, ma l'azione volontaria (jnal essa a[)parisce all'uomo })rima d'aver ricevuto le lezioni della scienza. In generale, noi possiamo estendere quest'osservazione^ a tutte le forme dcdla spiegazione volizionale: quando il metafisico sj)iega, cio cerca di rendere pi intelligibili, tutti i fenomeni della natura, assimilandoli all'azione vob^ntaria. nel tempo stesso che eg'li dichiara che questa, quab noi la conosciamo nel mondo dell'esperienza,  il pi incomprensibile dei fenonunii,  evidente che egli deve modellare (juest'azione volontaria metaem% pirica sulla nozione prescientifca, e non su (|uella scientifica, dell'azione volontaria empirica, poich  nella sua nozione scientifica che quest' azione diviene incomprensibile, e perci, nel secondo caso, eg'li spiegherebbe il mistero per un mistero pi graiule. Quando Hartmann, per ispieg'are il mistero del movimento volontario questo fatto, secondo lui, sorprendente che, per muovere, per esempio, il dito,  indispensabile, come mezzo d'esecuzione, 1' azione della volont sulb radici dei nervi motori corrispondenti, mentre noi non conosciamo u queste radici u i punti del cervello in cui si trovano ammette che la volont cosciente, per esempio di muovere il dito, d nascita alla volont incosciente di muovere le radici dei nervi motori che derealizzare il movimento, accompagnata dall'idea incosciente del posto che queste radici occupano nel cervello ; egli suppone che 1' atto di volont dell'Incosciente realizza immediata mente il movimento che esso vuole, che tra (juest'atto di volont e (juesto movimento non s'interpone una serie di azioni intermediarie automatiche, non pensate ne volute, come tra il nostro proprio atto di volont e il movimento che noi vogliamo. Senza questa su]) posizione, egli avrebbe bisog'no d' uu altro incosciente per ispiegare la conformit tra la volizione incosciente immaginata e il movinuuito delle radici dei nervi nu)tori che  l'oggetto di questa volizione. Ma facendo questa supposizione, qual  il tipo su cui Hartmann modella l'azione volontaria dell'Incosciente?  la nostra propria azione volontaria cosciente secondo la sua nozione prescientifca e volgare. Egli trova in se stessa incomprensibile la nostra azione volontaria cosciente nella sua nozione scientifica, la quale mostra che il rapporto tra la volizione e il movimento voluta Hartmaii. FU. (k'IvlncoHeirnte non  ininiecliato, che la volizione non  per se stessa e inmiediataniente la causa sufUciente del movimento voluto. L'azione volontaria dell'Incosciente gli sembra al contrario |)erfettamente comprensibile per se stessa, perch egli l'immagina sul tipo della nostra azione volontaria secondo la nozione primitiva che noi naturalmente ce ne formiamo, la volont non essendo per se stessa causa immediata e sufficiente del movimento voluto che secondo questa nozione di cui la scienza ha mostrato il carattere illusorio. Perch la spiegazione volizionale dei fenomeni sia una sjjegazioie nel senso popolare o metafisico di questa parola che questa volont metaempirica che deve spiegare i fatti dell'esperienza si chiami Incosciente o le si dia un altro nome qualunque, che essa si ponga nell'anima del mondo o nell'anima dell'atomo  necessario che all'azione di questa volont si attribuiscano dei caratteri che la nozione volgare afferma, ma che la nozione scientifica nega, dell'azione della volont che noi conosciamo. Il metafisico che ammette la teoria volizionale come una spiegazione della natura, deve supporre: 1.'* che la volont metaempirica sia causa di movimento spontaneo, cio che essa basti a produrre dal niente il movimento, mentre la scienza c'insegna che la volont empirica non pu creare della forza, ma solo dare un'altra forma alla forza gi preesistente; 2." che la v^olont metaempirica sia per se stessa causa immediata e sufficiente delle azioni volute, mentre la scienza c'insegna che, perch la volizione empirica sia seguita dal movimento voluto,  indispensabile l' interposizione tra i due fatti di una serie numerosa di azioni intermediarie, e perci il concorso di un meccanismo appropriato; o.'* che la volont metaempirica, nella sua qualit di semplice fatto spirituale, determini dei cangiamenti nel mondo fisico, mentre la scienza e' insegna che la volizione empirica. -1 come fatto spirituale, non essendo che un lato del fenomeno reale, il quale  al tempo stesso psichico e fisico, noi non abbiamo il dritto di attribuire una causazione (|ualunque nel mondo dei corpi al semplice fenomeno psichico della volont scompagnato dai suoi concomitanti fisici. Noi vediamo (jui come un'ipotesi metafisica o metaempirica differisca da un'ipotesi fisica o empirica: l'ipotesi fisica pi arrischiata non attribuisce all'agente supposto altro modo di agire che quello che l'esperienza ha gi costatato negli agenti conosciuti sul cui ti p^ esso viene concepito. L'ipotesi dell'etere sembra generalmente arrischiata ai logici. Le propriet di questa sostanza ipotetica differiscono dalle propriet delle sostanze conosciute, ma l'azione a lei attribuita per la spiegazione dei fenomeni, gli effetti ch'essa  supposta produrre, non sono che dei casi di leggi di causazione gi costatate. L'azione motrice attribuita a questa materia imponderabile si conforma rigorosamente alle leg'gi del movimento gi verificate nella materia ponderabile di cui abbiamo l'esperienza. A una causa ipotetica non si attribuisce mai la capacit di produrre un effetto determinato, se (|uesta capacit di una tale causa di produrre un tale effetto non  sperimentalmente dimostrata. La causazione che si suppone deve essere un caso di una legge di causazione gi costatata; il rapporto fra la causa supposta e 1' effetto che le si attribuisce deve essere identico ai rapporti verificati tra la classe corrispondente di cause e la classe corrispondente di effetti. Ma quali casi conosce il metafisico nel mondo dell' esperienza, nei (juali egli sia sicuro che si verifichino quei rapporti di causazione ch'egli suppone tra le sue cause ipotetiche e gli effetti che loro attribuisce? Dov' tra i fenomeni della esperienza una volizione di cui egli possa affermare ch'essa sia originalmente produttrice di movimento ; ch'essa sia causa nna(i8 mediata (U)\] a propria realizzazione, senza riiitervcuro di un apparecchio oruanieo appropriato, felieenente apprestato dalla natura: intine ch'essa basti, in quanto sen{)lice fatto spirituale, a produrre dei cangiamenti nel mondo corporeo V Donde sa egli dunque che la causa ipotetica  capace di produrre l'effetto che le attribuisce? Questa capacit della causa a i)rodurre l'effetto non potrebbe invocare alcuna [)rova sperimentale in suo appoggio; il metatisico l'ammette come una cosa affatto naturale ed evidente per se stessa. Ci  perch la nozione volgare e abituale sotto cui ci rappresentiamo le nostre azioni volontarie sup|)one nella volont empirica il potere che il metafisico immagina nella volont metaem|)irica: la no/ione scientifica ha corretto su questo punto la nozione volgare; ci non pertanto il modo di causazione che (luesta attribuisce alla volont non cessa di sembrare una cosa affatto naturale ed evidente per se stessa, anche do[)o che si  riconosciuto che (|uesto modo di causazione non  il reale; le suggestioni della vita di Qiiostn corrisiioiMh'iizn tra In volizione e l'iitto reale, die ci sembra y\\\ fatto si naturale. rin'en(hn*ci rimo im]ulso, (^ di})ende quindi dalla struttura appropriata, di t[uesto nuu-canismo: ora non potremmo jioi al posto di questa struttura, che arriva a un risultato eonf (^vi?'egare il suo effetto, al legame necessario tra questa causa e questo effetto, alla evidenza intrinseca o conoscibilit a priori di questo legame. Noi abbiamo visto pure che questi caratteri che distinguono un rapporto di causazione nel senso metafisico da un semplice rapporto di causazione nel senso fisico^ si desumono dalle differenze psicologiche per cui la nozione di una secjuenza che ci  faniiliare si distingue dalla nozione di una sequenza che non lo . Nella prima forma dell' idea di causa efficiente la somiglianza tra una causazione efficietrte o metafsica e una sequenza molto familiare  doppia: non  solo il legame tra la causa metafisica e il suo effetto che somiglia, per i caratteri indicati, al legame tra i fenomeni costituenti una sequenza molto familiare, ma la stessa causa metafisica  concepita a somiglianza dell'antecedente di alcuna di queste sequenze. Invece nella seconda forma dell'idea di causa efficiente, cessa la somiglianza specifica tra questa causa e l'antecedente di una determinata sequenza familiare, ma resta la somiglianza,' nei caratteri indicati, del legname tra la causa e r effetto ; sicch ci che distingue allora una causazione metafisica dalle semplici sequenze invariabili della scienza,  solamente che, mentre (jueste ultime non si ammettono che forzati, per dir cosi, dall'esperienza, e sembrano in se stesse incomprensibili ed arbitrarle, invece, nelle causazioni metafsiche, il legame tra la causa e l'effetto deve essere perfettamente comprensibile, necessario ed evidente intrinsecamente o conoscibile a priori. Per esporre d' una maniera conveniente ci che si rapporta al soggetto di questa seconda forma dell'idea di causazione efficiente,  necessario anzitutto di formarci un'idea pi precisa del processo mentale per cui l'uomo perviene naturalmente e quasi irresistibilmente ad ammettere questo principio generale che ogni fatto deve avelie una causa efficiente. Noi non possiamo ammettere, come abl)iamo detto, che questo priucipio, esprima esso una verit o una semplice illusione, sia lur idea innata, una necessit primitiva e inesplicabile del nostro pensiero, e perci dobbiamo cercarne l'origine nell'esperienza, quantunque in questo caso, come in tutti gli altri in cui si tratta di connessioni psichiche tanto intime e fibituali che sembrano affatto naturali e non degne di attirare la curiosit del pensatore, noi non ci dissimuliamo che far sentire il bisogno di una tale ricerca ci sembra anche pi difficile che il dimostrare la verit del risultato ottenuto. Una volta riconosciuta la necessit che lo spirito abbia attinto questo principio dall'esperienza, la sua origine non pu dar luogo ad alcun dubbio: le sole cause efficienti dell'esperienza essendo gli antecedenti delle sequenze pi familiari,  evidente che la base empirica, induttiva, del principio generale che ogni fatto deve avere una causa efficiente non pu trovarsi che in queste sequenze le pi familiari. La immensa maggioranza dei fenomeni della nostra esperienza giornaliera si riducono a dei casi di queste sequenze familiari, a cui sono propri i caratteri psicologici indicati che distinguono un rapporto di efficienza causale da una semplice sequenza uniforme: in altri termini, nei casi pi numerosi della nostra esperienza quotidiana, in cui noi possiamo assegnare la causa di un fenomeno, questa causa non  soltanto un antecedente costantemente seguito da un certo conseguente, ma un antecedente che ha col suo conseguente quel legame mentale che dipende dalla familiarit della sequenza; vale a dire la causa, oltre di esser costantemente seguita dall'effetto, lo spiega, e il rapporto tra la causa e l'effetto ci sembra necessario ed intrinsecamente evidente. Di l, per quest'impulsione che ci spinge costantemente ad assimilare, a generalizzare, impulsione che costituisce la base stessa dell'intelligenza, e di cui la forza cresce in ragione della ripetizione delle esperienze conformi, accade che noi ci attendiamo con sicurezza in tutti i casi ci che abbiamo visto nei casi pi frequenti della nostra esperienza, cio che crediamo che ogni fenomeno deve avere, non semplicemente un antecedente legato col conseguente da un rapporto di sequenza uniforme, ma un antecedente che sia una causa efficiente, vale a dire una causa che spieghi l'effetto, e che abbia con esso un rapporto necessario ed intrinsecamente evidente. Il principio della causa efficiente  dunque il risultato di una sorta di ragionamento industivo, e il processo per cui lo spirito uniano vi perviene  sostanzialmente identico a (luello per cui esso perviene a qualsiasi altra nozione generale. :Ma non bisogna credere che questo regionanumto, in virt del quale noi crediamo che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente, si faccia con rifiessione e con coscienza: in questo caso la iostra ricerca attuale non avrebbe alcuna ragione di essere, perch ciascuno saprebbe allora, senza bisogno d'intraprendere perci una ricerca psicologica, per quali motivi egli ammette che oani fenomeno ha una causa efficiente. Il ragionamento di cui parliamo  un inferenza incosciente; e in ci l'orgine del i)rincipio di causa efficiente non ha niente di eccezionale, i)erch tutte le verit o pretese verit assiomatiche, cio che si ammettono come evidenti per se stesse, non sono in realt che delle conclusioni di inferenze incoscienti. -Noi prendiamo ({ui per accordato (e crediamo di averlo dimostrato nel 1" Saggio) che gli assiomi, le verit pretese intuitive, sono dei risultati dell'esperienza, delle conclusioni induttive: ora  evidente che, se l'inferenza di cui un assioma  la conclusione fosse cosciente, met degli psicologi non crederebbero che non vi ha in questo caso alcuna inferenza, e che l'assioma si conosce indipendentemente dall' esperienza e d' una maniera intuitiva. Il significato della parola incosciente, nel senso in cui noi l' adoperiamo, non ha 374 niente di mistico: un'inferenza incosciente vuol dire che le premessse della inferenza non si trovano attualmente nella nostra coscienza, na solo la conclusione: le premesse sono le esperienze passate, ma queste agiscono a nostra insaputa nel determinare il risultato, cio la nostra credenza all'assioma. Quando nella dimostrazione di un teorema facciamo 1' applicazione di un assioma (ci che avviene in tutti i passi che fa il ragionamento i, sia che noi facciamo esplicitamente menzione dell'assioma, sia che senza pensare al principio generale, noi ci comportiamo praticamente come se lo prendessimo per regola, l'operazione mentale consiste nell' assimilazione del caso i)resente ai casi conosciuti nella nostra esperienza anteriore. Il caso presente , per esempio, l'eguaglianza di A con B e di B con C: noi assimiliamo questo caso a tutti i casi della nostra esperienza anteriore in cui abbiamo costatato che l'eguaglianza di due grandezze con una terza era associata con l'eo-uaolianza delle due grandezze fra di loro, e cos ammettiamo anche in questo caso la esistenza della stesta associazione, cio crediamo che A  uguale a C. Facendo (juesta interenza, noi non pensiamo attualmente a questi casi della nostra esperienza passata a cui il caso presente viene assimilato; nondimeno sono essi i motivi o ^11 antecedenti della nostra credenza che ^ essendo ecuiale a />, e li a C, A deve essere pure eguale a C. Queste esperienze passate agiscono, per dir cos, da lontano, nel determinare la nostra credenza (facendo astrazione d(4le modificazioni permanenti che esse hanno potuto apportare nell'organo dell' intelligeza) ; esse la determinano senz'aver bisogno di venire rappresentate attualmente nel nostro pensiero, e noi non sappiamo niente della loro azione, se non in quanto abbiamo ricevuto g' insegnamenti della psicologia. Non  soltanto negli assiomi che si pu trovare l'esempio d'inferenze, le cui premesse sono attualmente assenti dal nostro pensiero: nella maggior parte delle inferenze che noi facciamo abitualmente il caso presente  rapidamente assimilato ai casi della nostra esperienza passata, senza che questi casi siano attualmente rappresentati. Le esperienze passate determinano anche allora, per una specie di azione a distanza, il corso attuale dei nostri pensieri; ma noi non diremmo in tutti questi casi che vi ha un'inferenza incosciente, perch se abbiano il bisogno di addurre i motivi che giustificano la nostra credenza, noi possiamo il pi spesso facilmente trovarli, cio riprodurre attualmente nel nostro pensiero queste esperienze passate, che sulle prime aveano determinato il nostro giudizio, agendo da lontano e d'una maniera latente. Vi sono per dei casi in cui non potremmo spiegare i motivi della nostra afTermazion^', quantunque questa ci s'imponga con la pi grande forza e con Tevidenza pi completa: in questi casi, in cui ordinariamente diciamo che sappiamo la cosa j>er intuizione (servendoci dello stesso termine con cui lo psicologo apriorista denota le pretese verit evidenti per se stesse di cui egli non vuole ammettere l'origine sperimentale), vi ha un'inferenza incosciente nello stretto senso della parola. Quando si tratta di verit o pretese verit assiomatiche, oltre la difficol di rintracciare gli antecedenti dell'inferenza, vi ha un altro ostacolo che e' impedisce di far penetrare questi antecedenti nella coscienza, ossia di rendere l'inferenza cosciente:  che noi non sentiamo alcun bisogno di cercare i motivi che giustificano la nostra aft'ermazione. In questi casi la, fre(|U(Miza delle esperienze ha costituito fra le nostre idee quel h'i^'ame strettissimo che d al giudizio la forma della neccs.sitd (quantunque non una necessit assoluta). Ora (juando la coesione tra le nostre idee giunge a (luesto grado, la Cfr. Spencer Fsieol. t. 2, 2J)8, 800, 805. 80(i, ccc, oih -consciiueuza , come StuartMill Tha ben sog'iialato, che noi aTiiniettiaino la verit dell' affennazioiie anche nelTasseiza di prove (e talvolta in presenza di prove contrarie), la coesione stessa fra le idee essendo per noi una prova sufficiente. Perci, siccome noi non sentiamo il bisogno di giustificare la nostra credenza, 1' evidenza e la necessit con cui ci s'impone sembrandoci una prova sufficiente della sua verit, noi non ne cerchiamo le prove sperimentali, riteniamo anzi ogni prova di (juesta natura inutile, e ci manca quindi il motivo ordinario di portare alla luce della coscienza gli antecedenti della nostra convinzione, cssia di rendere l'inferenza cosciente. Cosi il sentimento di necessit che accompagna una proposizione, e che non dipende che da un'associazione molto intima tra le nostre idee, facendoci sembrare questa proposizione intrinsecamente evidente, ha per effetto di farla riguardare come indipendente dall'esperienza, e quindi come anteriore a questa, a priora, quantunque essa non sia che vuV infe'euza incosciente dalle esperienze passate.  perci che le sequenze molto familiari, V idea delle quali, per la frequenza delle esperienze,  accompagnata dal sentimento della necessit, ci sembrano evidenti per se stesse ed a priori ; ed  perci pure che ci sembra tale il principio che ogni fenomeno deve avere una eausa efficiente . Forse si creder di poter evitare la necessit di ricorrere alla nozione d'inferenza incosciente per rendere conto dell' origine dei princi])ii cos detti evidenti per se stessi, ammettendo che la proposizione genenerale sia stata stabilita coscientemente in un'e})oca della nostra vita intellettuale tro|)|)0 primitiva perch noi possiamo ricordarla, e che da allora si sia impressa fortemente nella nostra memoria, sicrh quando noi ora facciamo, ili ('tv. SiH/f/io 1, {-. [. \> Is. per esempio, l'applicazione d'un assioma in una dimostrazione geometrica, non occorra supporre altro che una deduzione dalla proposizione generale, l'operazione logica di (juesta maniera essendo cosciente s nell' uno che neir altro dei due momenti che essa percorre. Ma contro questa supposizione vi ha j)rima di tutto da obbiettare che, quand' anche fosse vero che nel ragionamento, qual esso si conq)ie ordinarianu*nle, noi impieghiamo coscientemente, es[)licitamente, rassioma come proposizione generale, bisognereb)e, per ispiegare la convinzione attuale della verit dell'assioma, nell' assenza della rapi)resentazione delle prove su cui esso  fondato, o anche lell'obblio di (jiieste ])rove, ammettere senqre che le esperienze passate agiscono a nostra insaputa per deteriinare questo risultato. V ha di pi ;  falso che nel ragionamento, (|ual esso si produce nella sua forma ordinaria e naturale, ^i faccia coscientemente o esplicitamente uso della |)roposizione generale: come sosteneva giustamente Locke, e conie ciascuno pu facilmente verificare, osservando il corso naturah dei suoi pensieri nella dimostrazione di un teorema di geometria, noi andiamo inunediatamente dal dato all'inferito, per esempio, dall'eguaglianza di .1 con /> e di B con C a quella di A con C\ senza passare ])er la j)remessa generale, ])er esemj>io, che due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra di loro; [)remessa che, se il geometra menziona, non  perch essa costituisca un anello nel concatenamento jiaturale dei suoi pensieri, ma per controllare questo concatenamento, per verificare se esso si  prodotto regolarmente, sottomettendo ai canoni della logica cosciente ciascun ])asso del ragionamento che in realt non si compie che per una logica incosciente. Ogni inferenza, al fondo, come insegna Stuart-Mill. e come abbiamo mostrato nel Saggio 1, fondandoci sulla natura stessa del pensiero,  un'inferenza dal particolare // 878 al particolare: la proposizione generale, (luantunque utile per assicurarsi se 1' inferenza sia rigorosa, non  indispensabile, n fa parte del processo naturale del ragionamento; diciamo di pi, il suo intervento non moditca essenzialmente questo processo, l'inferenza, come atto mentale, non cessando di essere dal particolare al particolare, bench, nella sua esposizione verbale, rivesta la forma di un'induzione seguita da un sillogismo. Cosi essendo,  evidende che l'inferenza non pu essere che incosciente, quando i particolari che costituiscono le premesse del ragionamento sono attualmente assenti dalla coscienza La nozione ({^inferenza incosciente, quale noi r intendiamo, coincide in parte con quella di associazione inseparabile degli psicologi inglesi. Nei casi pi spiccati, cio tutte le volte in cui l'inferenza si fa talmente a nostra insaputa che il filosofo stesso a prima oiunta crede che si tratti di una conoscenza intuitiva e non d'un risultato dell'esperienza, l'inferenza incosciente costituisce ni' associazione inseparahile (facendo per suir inseparabilit (juelle riserve di cui abbiamo detto nel Saggio 1): in questi casi, come abbiamo osservato,  il sentimento della necessit che accompagna il giudizio, dipendente dalla coesione fortissima tra le idee, che  la causa principale dell' illusione che ci fa riguardare questo giudizio conie a priori. Dall'altro canto, la pi parte delle associazioni inseparabili sono delle vere inferenze incoscienti. In questi casi non bisogna attribuire il legame tra le idee al solo principio della contiguit, ma nella produzione dell'associazione vi ha un'azione combinata di questo principio e di quello della somiglianza. Quando noi, per esempio, ci attendiamo dopo l'urto il movimento del corpo urtato, l'associazione tra le due idee  talmente forte, che potrebbe fornire un esempio di quella che gli associazionisti chiamano inseparabile^ (visto che il concetto cV inseparabilit, come abbiamo 379 _ mostrato nel Saggio 1, non pu essere che relativo, non essendovi associazioni letteralmente inseparabili \ In questo caso  anche applicabile la nozione d'inferenza incosciente. Non sarebbe renderci esattamente conto dell'associazione tra le due idee il dire che l'una richiama l'altra, con la quale  stata in contiguit nella nostra esperienza; non essendovi identit tra la presente rappresentazione del movimento del corpo urtato e le idee dei movimenti dei corpi urtati nella nostra esperienza passata. Noi proporzioniamo a un di presso il momimento che ci attendiamo alla massa del corpo urtato e alla massa e alla velocit del corpo urtante: questa circostanza non potrebbe essere spiegata dal solo principio della contiguit. La vera descrizione dell'associazione in questo caso  che l'idea (la sensazione o la rappresentazione) attuale dell'urto suscita in noi un'idea simile alle idee che si sono trovcTte in contiguit con le idee simili ad essa, in modo che il rapporto attualmente rappresentato tra l'urto e il movimento del corpo urtato si assimili ai rapporti analoghi dell'esperienza passata. Ora questo  essenzialmente lo stesso processo che, portato alla luce della coscienza, si chiama un'inferenza. Il proprio delle inferenze incoscienti , come nota il Wundt, che esse si producono con la pi grande sicurezza e in tutti gli uomini con una unifornn't completa. Esse sembrano tenere pi alla fisiologia che alla psicologia, l'uniformit e la fatalit con cui questi atti si compiono, facendone rassomigliare la produzione a quella dei fenomeni fisici. Questa uniformit e irresistibilit con cui sogliono prodursi le inferenze incoscienti, spiegano perch la metafisica, la quale appunto  il risultato di inferenze di (juesto genere, sia un fenomeno naturale, permanente e (juasi inevitabile dello spirito umano. Vi ha una somiglianza gi notata da Kant fra le illusioni naturali dei sensi che sono anch'esse il risultato di un processo d'inferenza incosciente e questa illusione naturale delTintelligenza, cio la metafisica, se si considera nella base comune su cui si elevano tutti i sistemi:  che Tillusione non cessa di subirsi, anche dopo che Terroneit ne  stata riconosciuta. LMncoscienza dei processi mentali che costituiscono il punto di partenza della metafisica, spiega pure questo fatto (di cui vedremo in se^-uito dei notevoli esempi), che sj)esso un metafisico, non avendo chiaramente coscienza dei motivi reali della sua convinzione, d come prove uniche delle sue ipotesi dei sofismi artificiali, che evidentemente non possono sembrare probanti che a chi  disposto o'i, per altre ragioni, ad ammettere la verit della tesi che si tratta d provare. Noi ci attenderemmo, per esem[io, che un'ipotesi, destinata a soddisfare il bisogno che ha il nostro spirito di cauHe efficieti, dovrebbe essere stabilita cercando di dimostrare che essa  la sola che possa introdurre nelle cose queste connessioni vecessarie, inteUlgibHi, hit rh cecamente eriilefi. che noi supponiamo tra le cause efficienti e i loro eftVtti. Tali sono, come mostreremo, le ipotesi di Platone e di Hegel: ma ne l'uno ne l'altro mostrano di aver coscienza di (|uesto fatto, che la base e la radice dei loro sistemi  il concetto di causazione efficiente, coi caratteri determinati che distinguono (piesta da una causazione ordinaria. Oggi che la dottrina di Platone non ha per noi che un interesse storico, potendo senza alcuna preoccupazione giudicare il valore degli argomenti su cui egli la fondava, abbiamo motivo di sor])reiiderci come una si alta intelligenza abbia potuto ammetrere dei paradossi tanto strani su delle prove altrettanto deboli. Ma la sorpresa cessa se pensiamo che (jiiesta dottrina, piuttosto che una conclusione di queste prove,  il risultato d'un processo d'inferenza, in ])arte almeno se non in tutto, incosciente. Riflettendo 381 a questa incoscienza dei processi mentali da cui risultano i concetti metafisici, e nel tempo stesso a questa verit logica che l'inferenza  dal particolare al particolare, ci rendiamo anche perfettamente conto della difficolt di trovare nella storia della filosofia una definizione precisa di certi principii, che sono tuttavia i pi essenziali e fondamentali per ogni metafisica, (jual appunto quello delle cause efiicienti. llume stesso trova la nozione di efficienza causale cosi indefinibile che dice:  noi non sappiamo nemmeno ci che desideriamo di conoscere quando ci sforziamo di concepirla (l). Il fatto  che il metafisico, per fare un'applicazione normale di questo principio, cio conforme alle esigenze naturali del nostro spirito, non ha bisogno di averlo mai formulato nettamente; egli non ha nemmeno bisogno di averlo mai formulato come proposizione generale, come il geometra, per fare una buona dimostrazione, non ha bisogno di aver mai formulati gli assiomi che si trovano in testa degli Elementi di Euclide. Nell'applicazione del principio di causalit efficiente, come in quella di un assioma matematico, non vi ha (considerando ci che  indispensabile air operazione) che un'assimilazione incosciente di tutti i casi che attualmente si presentano, ai casi dell'esperienza passata che costituirebbero la base induttiva del principio generale, se si desse all'operazione la forma cosciente e riflessa della logica. Per quanto spetta al principio di causalit efficiente, si tratta dell'assimilazione, talvolta alquantovaga, ma sempre la pi ii'rande possibile che sia permessa dalle particolari condizioni intellettuali dell'epoca e dell'individuo, di tutti i casi che si offrono airintelligenza, ai casi sperimentati di sequenze molto familiari, perch sono queste che costituirebbero la base induttiva Huiiu' DelVidea di potere o legame neeessario, li ]art*^ del principio, se esso fosse stabilito per un'operazione loo-ica cosciente e riflessa. S'intende che questi casi dell'esperienza passf^ta non sono presenti al pensiero, ne  necessario aver coscienza deirassirajlazione: semplicemente l'intellig-enza prova una soddisfazione pi grande, come se fosse inondata da una luce magg-iore, concependo le cose in ({uel modo, che pi le assimila a queste esperienze che costituiscono la base dell inferenza incosciente. Non  sorprendente, anzi  necessario, che l'operazione nu^ntale del metafisico sia pi o meno incosciente : ci  perch quest'operazione, quantunque conforme alle tendenze naturali dell'intellig-enza, non adempie le condizioni di un'inferenza legittima; difetto che diverebbe chiaro se l'inferenza si rendesse perfettamente cosciente, nel qual caso non vi sarebbe pi metafisica. Questo  appunto l'oggetto del presente Saggio: rischiarare della luce della coscienza questa logica, o piuttosto questa sofistica, naturale incosciente, di cui le concezioni della metafisica sono il risultato. Ci che per noi ha un doppio interesse: prima di comprendere il come, le leggi della produzione di quest'ordine di fenomeni, s importanti tanto per lo psicologo che per lo storico-, e poi di poter giudicare il valore delle inferenze incoscienti della metafisica, dopo averle trasformate in inferenze coscienti, alla stregua della logica ordinaria, e vedere cos se le concezioni a cui esse conducono, hanno un fondamento reale o pure ne mancano. 11. Il principio che ogni fatto deve avere una causa efficiente  dunque il simbolo verbale di una regola a cui lo spirito si conforma in quest'operazione irriflessa di assimilare, pi che pu, tutti i casi che si oftVono nuovamente alla sua attenzione, ai casi pi frequenti della sua esperienza passata, in cui ha visto i fenomeni di cui ha conosciuto il modo di produzione, non solo seguire un antecedente determinato, ma un antecedente tra il quale e il fenomeno che lo segue vi  stata questa connessione mentale costituita dalla familiarit della sequenza, che noi indichiamo coi termini: capacit della causa a spiegare l'effetto (o intelligibilit del nesso tra la causa e l'efl'etto), necessit di questo nesso, sua evidenza intrinseca ~ della stessa maniera che il principio che ogni fenomeno deve avere una causa fsica, cioun antecedente determinato,  il simbolo verbale di una regola a cui lo spirito si conforma nella sua operazione abitualmente pure irriflessa, quantunque la coscienza non abbia difficolt a rendersene conto, di. assimilare tutti i casi che si offrono nuovamente alla sua attenzione, ai casi della sua esperienza passata, pi numerosi che quelli di cui sopra, e non mai contradetti da osservazioni contrarie, in cui ha conosciuto i fenomeni seguire costantemente degli antecedenti determinati. Da una parte e dall'altra, la base dell'operazione  ugualmente nell'esperienza, l'inferenza  ugualmente dal particolare al particolare, ed essa si tira con un'eguale spontaneit, senza averne attualmente la coscienza. Non })isogna per supporre che il principio della causalit efficiente e quello della causalit fisica o semplice sequenza invariabile siano dall'origine dueprincipii distinti: all'origine lo spirito non concepisce altre cause che efficienti; la nozione della uniformit nelle sequenze dei fenomeni, distinta da quella di un nexus di efficienza causale fra di essi, non  che un prodotto della cultura scientifica.  la scienza che mostra, contro le nostre prime aspettative, l'esistenza tra i fenomeni di legami di causazione che non  efficiente, Epicuro si mostra s poco capace di concepire una causa che non sia efficiente, che, non potendo trovare una causa efficiente della deviazione degli atomi dalla verticale nella loro caduta nel vuoto, deviazione che u'iudica indispensabile per rendere conto dei fenomeni, egli l'attribuisce puramente e semplicemente all'azzardo: egli:w4 non erede eh. .ia sotto.nessa a qualche legge a qualhe ^Vuifonnit, una uniforn,it nella sequenza degh avveni enti, che non fosse stata al ten.po stesso xvna cau. io tk-iento, non avendo per lui alcun valore per telliKenza dei fenon.eni. Anche '^"uahuc^U nozione che lo spirito si torn.a spontaneamente della cau sifone . cos esclusivan^ente quella della causaz.one eftd^ e che Con.te, per indicare che noi non conoscuvn.o 'e:^; efficienti/ma solo quelle che la scuola scozIL chiama cause tisiche, bandisce la Pa-l   non vuol parlare che di leggi dei fenon.en, E no, ^h ; ..o "i visto, trattando dei nuotivi della teoria .^clX che i tsici non sogliono riserbare il non.e d. cau.a c/(,rt.in(. 1 11  officiente, rifiutandosi che aUimpulsione, cio alla causa cfficeme, H uiicarlo aoli altri antecedenti dei movimenti della ma ' ; ' .o^sono,.s.er/c/e.-. Platone la raccontare tso;rate i el Fedone che, ardendo nellasua giovinezza del de^i le o i conoscere le cause per cui i fenomeni si produno erava di soddisfarlo con lo studio della stona deU. T n ma che  so4dis.x il e siderio innato di conoscere Ze cause? ma quale ueiu ore: la scienza gli mostra gli antececleuti a cu, i fenonieni se-uono costantemente, ma non le cau^e erji Si questi fenomeni-, di pi quei fenomem stessi, dt euf o. credeva di conoscere gi le cause etficienti o " h  o stesso, di comprenderli perfettamente, gheh Phaeiio V^l (' s^j^. 885 presenta sotto un nuovo aspetto che ^^lieli fa sombraro incomprensibili. Invece delle cause efficienti che si attendeva a trovare da per tutto, non trova da per tutto che semplici antecedenti di sequenze invariabili. Un'altra prova dalla nostra affermazione che la nozione di una uniformit nelle sequenze dei fenomeni non  che un'acquisizione della coltura, e non, come il principio di causalit efficiente, un prodotto delle tendenze spontanee e cieche dello spirito, la abbiamo in (luesto fatto, che vi hanno dei filosofi aprioristi, come per esempio Galluppi , che, mentre dichiarano il principio di causalit efficiente uia verit necessaria e a priori, ammettono invece che il principio della costanza delle lei:\a'i della natura, cio, al fondo, della causalit che la scuola scozzese chiama tsica,  una verit contingente e sperimentale. Noi sappiamo infatti che il nostro spirito non ha alcuna disposizione a negare l'origine sperimentale di quelle nozioni che Bacone chiama Interpretazioni della natura, ma solo di (pielle che egli chiama anticipazioni della natura, cio di queste induzioni spontaneamente formate, di cui lo si)irito  gi equipaggiato ({uando comincia a rivolgere la sua attenzione riflessa sui fenomeni, e che  portato ad estendere ciecamente a tutto ci che egli incontra.  facile di coinprendere perch le sole cause che noi ci attendiamo all' origine siano le efficienti;  che, oltre che le seijuenze familiari, le quali, come abbiamo visto, formano la base induttiva del principio di causalit efficiente, sono di gran lunga i pi frequenti tra i casi di causazione della nostra esperienza, queste causazioni sono .ancora le prime conosciute, le sole che noi conosciamo sino ad una certa epoca del nostro sviluppo intellettuale; la frequenza con cui i fenomeni relativi ci colpiscono e la facilit di j)erce V. JSa(/(/io filosof. 1. 1. e. 4, 1. t. e. s. ]Kirji:^r. ss. 25 38H pirne Ih eounessionc dando loro infallibilmente il primo liio^'o nell'ordine sueces.sivo in cui le varie le^'g'i di caiusazione vengono conosciute (T. Prendiamo quest'occasione per osservare quanto sia inevitabile che le nostre esperienze determinino in noi la credenza dell'applicabilit universale del principio di causabilit effdente. Essa si deve, come abbiamo detto, alla frequenza dei casi di causazione efficiente (cio di uniformit di sequenza, aventi, in rapporto alla nostra conoscenza, questi caratteri psicoloo'iei |)articolari risultanti dalla familiarit dei fenomeni) che abbiamo conosciuti nella nostra esperienza, frequenza che  assai pi grande che quella dei casi di causazione non efficledo. Ora notiamo che, per farci una giusta idea di questa frequenza comparativa, noi dobbiamo tener conto, oltre che dell'epoca presente della nostra vita, di . in ^erme. ne.^li animali superiori. Cos per esempio quella ad assimilare tutte le causjrzioni a [uelle che ci sono j>i familiari, che comprenile i processi di formazioni' di tutti i sistemi relativi alle cause ethcienti. dai pii naturali e facili ad intendere, quali l'antropcMnortismo orossolano o la spiegazione meccanica universale dei fenomeni tisici, ai pi astrusi e artiliciosi, (inali la dottrina delle Idee di Platone o piella di lle.ocl. \(i non discuteremo sulla probabilit deiropinione emessa da Comte che lili animali superi i selva,;.iii ad imna animati da essenze spirituali o vitali, ha tors^ un esenq)ic in un fatterello che iMdei osservare una volta: il mio cane, animale bene svilui>[ato e molto sensitive, stava sdraiato sul terreno durante una calda e trauipiilla -iornata: ma poco lun-i da esso una lieve brezzolina faceva muovere un ombrello aperto, al ipiale il cune non avrebbe certo badato, se rescnza di lualclie (estraneo algente vivo, e che nessun estraneo aveva liritto  ludl'altro lo stesso ]>rinci])i. cio che rjinima  la s(da causa proi neirinferenza  sottinteso, neirun caso e nelTiiltro, quest'altro princi[>io. c1jssa spiegarsi mat a [uesto punto ld nostro lavoro. Il cane inetufisico di Darwin non *ra capace li fan* \spli sup})ost lalla sua >n(dusi>nc. e Darwin ha rauione li dichiaran (die il ragi>nam'nt> na fatt> Jn un molo ineonsa]>evole; ma noi abbiamo gi visto du' le c>n(dusiuii bdla metafsica risultano la inf'r'nze in li bdnire l'utniio utt nnhtHtlr nu'fttfsiro, s' egli intende ierci" attril>uir^ all' intelligenza bdl' uoim una fa-(dt speciale: la fac>lt in e tu fi sica pu"> an(die rintracdarsi neirintelligenza d(d )rutK iM>tendo essa definirsi: la tacdt li fan^ inc>scientemente Ielle inferMize MHiforim^mente a MU'te regde. he smio naturali e nnifoi'mi per tutti, ma  h' innlimen> son> contrarie alla I);!:ica 389 sica o semplice uniformit di sequejiza non siano all'orig'ine due principii distinti, na non vi sia primitivamente che un'idea unica della causazione, vi ha neirevoluzione dei concetti filosofici una differenziazione o-raduale di quest'idea primitiva, che arriva infine a un completo distacco fra la nozione di causazione efficiente e quella di uniformit di sequenza, per cui ogni uniformit di sequenza cessa di essere una causazione efficiente, e ogni causazione efficiente cessa di essere unauniformitdiseciuenza. Ci avviene per le modificazioni proo-ressive che da un canto la scienza, e dall'altro la metafisica, apportano all'idea originale di causazione. Dal suo canto, la scienza scopre sempre di pi, contrariamente alle prime aspettative dello spirito, dei rapporti di causazione che non  efficiente, e mostra infine i fenomeni che ci avevano dato l'idea di causazione efficiente, sotto un aspetto nuovo che non ci fa sembrare pi i loro rapporti di sequenza come delle causazioni efficienti; sicch il risultato ultimo  che tra i fenomeni non si trovano mai dei rapporti di causazione efficiente. Dal suo canto, la metafisica disfenontcuzza, se mi  lecito di dir cosi, ])rogressivamente le cause efficieifi. Per questo processo essa arriva infine a concepire delle cause che non sono sottoposte alla condizione del tempo, e tra cui e gli effetti non pu esservi (juindi un vero rapporto di sequenza uniforme: il processo va anche s lungi che, come vedremo in seguito, alla sequenza cronologica tra la causa e l'effetto si sostituisce una senplice anteriorit e posteriorit logica, o, come si dice, di natura. E mentre in quella, che abbiamo chiamato la prima forma dell'idea di causazione efficiente, la causa metafisica, se non  un fenomeno,  almeno modellata sulle cause fenomenali; nella seconda forma invece,  il nexus causale semplicemente che viene modellato sulle causazioni fenomenali (s'intende, sulle pi familiari), male Bsasss 390 cause ultrafenomenali che e si suppongono, non hanno pi, come vedremo, la minima anoloo-ia coi fenomeni. Noi possiamo dunque enunciare l'ultima fase a cui arriva naturalmente la differenzazione progressiva tra causazione efficiente e uniformit di sequenza, della maniera che segue: tra gli antecedenti delle sequenze invariabili dei fenomeni e i loro conseguenti non si trova mai una connessione tale che la causa spieghi V effetto^ e che si veda la necessit e la evidenza intrinseca del rapporto tra la causa e T effetto ; e dall'altra parte le cause efficienti^ cio le supposte cause che possono spiegare gli efl'etti, e tra le quali e gli effetti si immagina un legame necessario ed intrinsecamente evidente, non sono mai deg-li antecedenti fenomenali n somigliano ad alcun ogg-etto fenomenale. Ma questo completo distacco delle due nozioii della causazione, risultante da una lunga evoluzione del pensiero, non deve far dimenticare che esse derivano da uno stesso tronco, e che la loro base originale comune  nelle sequenze i)i familiari della nostra esperienza. All'origine non vi era che un'idea unica di causazione, che riuniva in s i caratteri ora divisi tra le due idee di causazione fisica o uniformitf di sequenza e di causazione efficiente o metafisica: la causa primitiva era un'antecedente fenomenale, come la causa nel senso di Mill e delle scienze positive, ma al tempo stesso poteva spiegare l'effetto e aveva con esso un rapporto necessario ed evidente intrinsecamente, come le cause ultrafenomenali dei metafisici. Entrando a parlare i)articolarmente dei concetti che si rapportano alla seconda forma della nozione di causalii efficiente, dobbiamo cominciare per la dottrina che ammette, al di l delle seciuenze uniformi tra i fenonuMii, delle cause efficienti sconosciute e inconoscibili. E in'effetto, dopo che si  riconosciuta limpossibilit di soddisfare il bisogno che ha l'intelligenza di cause efficienti, conformemente alla tendenza spontanea dello spirito di assimilare tutti i fenomeai a quelli che ci sono i pi familiari, la forma pi naturale che prende la nostra credenza nell'esistenza di queste cause,  di relegarle nella regione dell'inconoscibile. Quantunque l'ipotesi di cause efficienti conoscibili possa coesistere con quella di cause efficienti inconoscibili, in altri termini, quantunque sia possibile di supporre che, mentre alcuni fenomeni sono spiegabili i)er cause efficienti fenomenali o concepite sul tipo di queste, altri fenomeni invece sono inesplicabili e dovuti a cause efficienti metaempiriche e inconoscibili ; la forma pi coerenti^ che prende la supposizione di cause efficienti inconoscibili  la dottrina, prevalente nella filosofia contemporanea, SSb! 31)2 che non ci  u ci sar inai possibile in alcun caso di asseonare la causa efficiente di un sol fenomeno, e che tutti^ i fenomeni sono dovuti a cause efttcienti che non cadono n potranno mai cadere sotto le prese della nostra conoscenza. La dottrina non si limita ad ammettere che, nelle condizioni attuali delle conoscenze umane, le caiiU efficienti dei fenomeni sono sconosciute, ma essa aWriiia che, per la natura stessa della nostra conoscenza, (jueste cause sarann( sempre sconosciute, e che, quand'anche la scienza pervenisse, in un lontano avvenire, a dan^ di tutti i fenomeni la sola spie^-azione a cui essa pu* aspirare, cio a conoscere le leo^-i primitive della loro successione, e a mostrare in dettaolio come ciascun fenomeno accade in conformitcY di (|ueste leggi, anche allora noi jo-uorerennno le cause produttrici dei fenomeni, (iueste leo-i primitive a cui tutti i fenomeni potranno ricondursi non potendo far conosce che gli antecedenti di sequenze invarial)ili e incondizionali, ma non mai le vere cause, cio le cause efficienti. E questo il credo della pi parte dei filosofi e de-li scienziati contemporanei, che in un congresso scientifico  stato formulato col celebre motto: [giwmmus et giiorabimm. Il >rincipio su cui si basa la dottrina delle cause efficienti inconoscibili  che una causa fisica, l'antecedente di una sequenza invariabile tra fenomeni, non  mai una vera causa cio efficiente, e ci perch la causa, se  seguita costantemente daireffetto, non pu per si>Pqaio[^\\e\ senso popolare e metafsico della parola spiegazione) e non vi ha tra la causa e l'effetto un legame 7ieces.s-or/o n evidente intrinsecamente. Di l se ne inferisce che i fenomeni hanno delle cause efficienti ultrafenomenali inconoscibili. K evidente che il presupposto di questo ragionamento  che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente cio una causa che possa spiegare l'effetto e tra la quale e l'effetto vi sia un legame necessario 398 ed intrinsecanente evidente e non semplicemente una causa fisica, cio un semplic(^. antecedente a cui il fenomeno segue invariabilmente. La dottrina ammette perci che la chiusa efficiente di ciascun fenomeno, quantumiuc^ sia sconosciuta,  tale per che, se essa fosse conosciuta, spiegherebbe l'effetto, e si vedrebbe che essa ha con l'effetto un legame necessario (m intrinsecamente evidente. E cos che''(iaesta dottrina si rapporta a ciucila che ai)biamo chiamato la seconda forma della nozicme di causazione etlficiente: non sono infatti le cause supposte che vengono foggiate sul tipo delle cause pi familiari, na  il nexus che si suppone tra (iueste cause e i loro effetti che viene foggiato sul tipo del nexus dc^Ui^ causazioni pi familiari. ^ L'attermazione che noi non conosciamo le cause efficienti dei fenomeni o, come dice Comte, il loro modo essenziale di produzione,  legata con un' altra, cio che noi non conosciamo l'essenza o la natura intiiia delle cose. L' essenza o la natura intima delle cose e riouardata come un che di sconosciuto in esse che, se noi lo conoscessimo, ci spiegherebbe tutti i fenomeni che esse ci presentano. Si snpi)one che se la successione deali avvenimenti non ci mostra tra loro questa connessio'iie necessaria, intelligibile, intrinsicamente evidente, che noi immaginiamo dover esistere tra le cause e oli effetti,  perch noi non conosciamo delle cose che alcune propriet e avvenimenti staccati; mentre se conoscessimo la realt d'una maniera ade(|Uata, noi potremmo indovinare, dalla seiiplice vista della costituzione o natura delle cose, la loro maniera di agire e di patire in tutte le differenti circostanze, e allora noi sapremmo, non solamente che. ma perch a certe cause sea-uirebbero certi eftetti, e le successioni costanti degli 1) CiV. Mill. Fios. (li Hamilton tiad. fniiic. p. 1:5. -as 394 avvenimenti non sarebbero pi incomjirensibili, come sono attualmente per la limitazione delle nostre conoscenze. Cosi questa proposizione che noi non conosciamo l'essenza delle cose, non  che un'espressione diversa, ma al fondo equivalente, dell'altra proposizione che noi non conosciamo le cause efficienti dei fenomeni. Si ammette,  vero, che sono tutte le propriet delle cose che derivano dalla loro essenza, e che potrebbero esserne spieo-ate: ma le propriet dei corpi sono, sovratutto nella scienza moderna, le potenze che essi hanno di esercitare qualche azione sovra altri corpi, o di subire qualche passione da parte di altri corpi. Per consequenza, la principale supposizione, implicata nella proposizione che noi non conosciamo l'essenza delle cose,  che le maniere di agire e di patire dei corpi, cio al fondo tutte le legg-i di causazione, attualmente per noi inesplicabili, noi potremmo spiegarle, se potessimo conoscere queste supposte propriet sconosciute che costituiscono l'essenza dei corpi '1). La nostra pretesa ignoranza dell'essenza delle cose non essendo dunc^ue altro, al fondo, che la nostra [)retesa ignoranza delle cause efficienti, ne segue che, se 1' idea di causa efficiente non ha valore obbiettivo, e se, quindi, spiegare un fatto vuol dire seniplicemente mostrare come esso si conforma alle leggi generali delle sequenze dei fenomeni, e non assegnargli delle cause che abbiano con l'effetto una connessione necesHarla e che ci sembri comprensibile e intrinsecamente evidente; noi dobbiamo affermare che conoscieamo, o almeno che siamo capaci di conoscere, l'essenza delle cose, perch l'essenza d'una cosa non pu essere altro che l'insieme dei suoi attributi, e tranne il mistero che ci sembra trovare nelle leggi dei fenomeni, niente ci indica che al di l degli attributi conoscibili di ciascuna cosa, ve Cfr. Apj). al e. t). ne hanno altri pi fondamentali da cui essi derivano, e che sarainio per sempre inconoscibili.  vero per che quando si dice che noi non conosciamo l'essenza delle cose, questa proposizione implica, oltre la pretesa ignoranza in cui siamo delle, cause efficienti o del modo reale di produzione dei fenomeni, la mancanza di una vera realt in quegli attributi delle cose che noi conosciamo. La dottrina della inconoscibilit della essenza delle cose, o, come si dice in altri termini, della relativit della nostra conoscenza, viene presa in due sensi: alcuni di quelli che sostengono questa dottrina la prendono semplicemente nel senso che si rapporta alla pretesa inconoscibilit delle cause efficienti ; altri la intendono in un senso pi comprensivo, ammettendo, non solo che noi non conosciamo le cause efficienti, ma ancora che tutto ci che noi conosciamo delle cose non  che relativo al nostro modo di percepirle, e che qualsiasi attributo delle cose in se stesse ci  assolutamente sconosciuto. Noi possiamo aggiungere infine che oltre alla impossibilit di conoscere le cause efficienti e alla relativit delle nostre percezioni, vi ha anche un terzo fondamento della dottrina delTinconoscibile:  che lo spirito umano, quando vuol formarsi una concezione coerente delle cose, sembra incontrare certe alternative di proposizioni contraddittorie, di cui 1' una o l'altra dovrebbe essere vera, ma di cui non si pu ammettere n runa n l'altra, essendo egualmente, come si dice, inconcepibili. Le sorgenti della dottrina dell'inconoscibile sono quelle stesse della metafsica in generale; dapertutto l dove la metafisica dogmatica trova un essere metaempirico con attributi determinati, l'agnosticismo contemporaneo trova invece l'Inconoscibile. I tre fondamenti della dottrina dell'inconoscibile, corrispondenti alle tre sorgenti principali della metafisica (almeno nel senso 89() pi stretto di questa parola), non possono essere trattati che in parte distinte di questo Saggio: dei due ultimi partiremo nella 2^' parte perch, come Kant ha compreso perfettaiieate, la quistione delle antinomie dipende da quella della cosa in sh ; in questa non possiamo occuparci che del primo, cio quello che si riferisce all'idea di causa efficiente. E if\(/are l'effetto, e tra la (juale e l'effetto vi sia. \\u (^ii'ame evidente per se stesso. Siccome questi intermediari csj)licativi. c[ueste cause efficienti, non ci sono mai mostrate dalla scienza, egli ne conclude la limitazione ch^Ila nostra Incolta conoscitiva e 1' esisteiza di qualche cosa al di l dei limiti del conoscibile. E chinro cos che ruio dei fondaiuciiii della teoria dell'inconoscibile , anche in Spencer, il princi|)io di causalit efficiente. ^ 4. Ora (jual  la solidit di ([uesto fondamento? Sarebbe iiiutih' di dimostrare contro i teorici dell'inconoscibile che il principio di causalit efficiente non pu essere provato dall' esperienza, perch  ci che essi ammettono implicitamente, quando affermano che nessuna causazione dell'c^sperienza, nessuna sequenza tra fenomeni,  una causazione efficiente. Forse si dir che se questo principio non pu esso stesso stabilirsi induttivamente, pu forse dedursi da qualche principio pi generale, capace di essere stabilito induttivamente. Ma il princi[)io di causazione essendo la legge pi universale debile sequenze tra i fatti, (piesto principio pi generale dovrebbe essere una uniformit che abbracciasse, insieme alle sequenze, tutti gli altri rapporti trai fatti. Sar dunque il ])rincipio che ogni rapporto costante tra i fatti fcononosciuto nella sua natura reale) deve essere 401 intelligibile, necessario ed evidente intrinsecamente, (come quello tra la causa e l'effetto j. E nel fatto, come vedremo nell'Appendice al capitolo seguente,  ([uesto il presupposto generale implicitamente ammesso dalla metafsica. Ora anche questo principio j)i generale, di cui quello di causalit efficiente non sarebbe che un caso,  impossibile, secondo il teorico dell'inconoscibile, di provarlo per V esperienza, perch quando egli afferma che non conosciamo Vessenza delle cose, egli suppone che la conoscenza di questa essenza sarebbe la sola che potrebbe spiegare^ non solo le sequenze costanti, ma tutti i rapporti costanti tra i fatti dell' esperienza (per esempio la coesistenza uniforme delle propriet nelle diff'erenti classi delle cose). Egli ammette quindi che tutti i rapporti costanti dell' esperienza (tranne forse quelli che formano l'oggetto delle matematiche pure), e non le sole causazioni, sono egualmente misteriosi, e non ci mostrano questi veri legami, analoghi a quello di causazione efficiente, e supi)OSti dal priiKMpio generale di cui quello di causazione efficiente non sarebbe che un caso. Il principio di causazione efficiente, 0 quello pi generale da cui si dedurrebbe, il teorico dell'inconoscibile non pu dunque annnetterlo che per la sua evidenza intrinseca; ci vuol dire che egli deve riguardarlo come una verit a jrnori. ]Ma, come abbiamo mostrato sul Saggio 1. , tutte le nostre conoscenze si dividono in due campi: le une sono esistenziali^ cio affermano che le cose esistono, che esistono cosi o cos, che esistono in tale o tal altro ordine di secjuenza o coesistenza, ecc.; le altre non stal)iliscono niente sull'esistenza, sulla realt, ma affermano solamente che degli oggetti, reali o possibili, paragonati fra di loro, hanno certi rapporti di somiglianza o di differenza (di V. s[K'cialiiicntc ca[). '^. 28 402 cui il caso pi notevole  reg'iiaglianza o ineguag-lianza detiuita tra le grandezze/; di queste due classi di conoscenze, le seconde possono essere a priori^ ma le prime sono sempre a j)osferiori. Ora  evidente che il principio di causalit (efficiente o non efficiente) deve essere aggregato alla prima classe di conoscenze, alle esistenziali : ammettere dun(|ue che non derivi dall'esperienza sarebbe ammettere che esso  un fatto eccezionale e inesplicabile (inesplicabile nel solo senso legittimo che pu avere questa j>arola, che deve applicarsi nei casi in cui un fatto non pu ricondursi a leggi generali, tanto pi se, come nel nostro caso,  in contraddizione con esse), oltre che sarebbe andare incontro al l'altra difticok evidente della dottrina delle conoscenze a priori, tutte le volte che essa si estende a delle proposizioni oistenziali, di ammettere una coincidenza inconuM-ensibile tra il pensiero e la realt, che non  stata formata dalla impressione della realt stessa. V. Sa.iinio 1. e.:\. v^ rioi"i o jnetese tali: queste, per esenijiio un assioma matematico, si veritieanM uel mondo deiresperienza. e possono essere ([uindi confermate da (piesta: quello non ])u doinandare alcuna conferma alla ^realt, j)ereh non si realizza che nel mondo metampirico del metatisico Noi a))l>iamo dette nel test si esclude Torini iiu' induttiva del principio di eauvsalit ettciente. deve ammettersi come evidente intrinsecanieuto, cio per se stesso. Ci perch esso viene riguardato generalmente come un assioma, ed ammesso implicitamente come tale (cio eouic evidente j)er se stto contr rajrioL-lt li tili p.-.);) >iziu!ii. V. Sa (f II lo l. e. 1). v> 15. 404 espriiiioiio che la sicurezza che accompagna le operazioni della nostra intelligenza, la fede che noi abbiamo nelle nostre facolt conoscitive, il dritto, che ci affermiamo, di attenderci che le nostre funzioni mentali, normalmente compiute, non ci condurrano all'errore, ma alla verit. Ma quando facciamo un' affermazione sulle cose stesse, quando abbiamo o crediamo di avere una conoscenza, ci non pu essere che un risultato delT impressione delle cose stesse, cio dell" esperienza, salvo la sola eccezione che abbiamo indicata, cio le semplici intuizioni delle somiglianze e delle differenze. Ne segue che, il principio di causazione efficiente non potendo nm mettersi come una verit evidente per se stessa n come dedotto da qualche altra verit evidente per se stessa perch tali verit sarebbero delle conoscenze a priori, e queste non concernono mai l'esistenza; e dall'altra parte non potendo essere provato dall'esperienza perch non vi ha altra prova che un' induzione, o una deduzione tirata da un princijio generale stal)ilito da un'induzione precedente ; il |)rincipio di causazione efticiente non ha una i)ase possibile su cui fondarsi, e non possiamo attribuirgli alcun valon^ obbiettivo. Il teorico deirinconoscibile dir che il criterio della verit non pu essere al postutto che V evidenza, e che noi dobbiamo ammettere il principio di causazione efficiente perch esso ci forza a riconoscerlo per la sua evidenza stessa (qualunque sia d' altronde la sua base e la sua origini'), senza cercare delle prove, come ammettiamo, senza cercare delle prove, i postulati di cui sopra, implicati in ogni atto della nostra intelligenza. E nel fatto l'argomento, preteso perentorio, della scuola intuitiva, per giustificare le credeize iatumli del f/enere umano. Il principio dell'inconcepibilit della negativa di Spencer non ne  che un' altra forma, e non contiene di nuovo che un'esagerazione. Le cr(;denz(^ naturali del, 405 genere umano, o piuttosto le proposizioni che i metafsici vi sostituiscono, non hanno mai per s l'inconcepibilit della negativa ; questa non si trova mai nelle proposizioni sull'esistenza, e non  propria che degli assiomi matematici e di altre proposizioni simili, di cui nessuno ha contestato o contester mai la verit. Questo criterio  dunque inapplicabile nei casi in cui vi avrebbe bisogno dell'applicazione d un criterio. Fatta dunque deduzione dell' esagerazione contenuta nel principio di Spencer (cio l'elevazione ad assoluta necessit del pensiero di ci che non  che una tendenza naturale del pensiero), non resta, per giustificare l'idea di causazione efficiente e tutte le altre induzioni incoscienti che si trovano alla base di ogni concetto metafsico, che l' argomento dell'evidenza, quale noi sopra 1' abbiamo formulato. ra quest'argomento non  concludente, sovratutto per due ragioni: 1. L'esistenza di ci che Bacone chiama o'VidoIa trihns, cio le illusioni naturali dello spirito umano. Queste s'impongono talvolta cos universalmente e con una forza tale da meritare pi che qualsiasi altra affermazione il nome di credenze latamU del (jenere urnavo e o-iuiioono a un tal grado di evidenza, che se non va sino all' inconcepibilit della negativa richiesta da Spencer (che, come abbiamo detto, non si trova mai nelle proposizioni sull'esistenza), non  certo minore che quello del principio di causazione efficiente o di qualsiasi altro su cui sono fondati i concetti metafsici. L'esempio migliore  la credenza che il colore, il sapore e le altre qualit sensibili sono delle propriet obbiettive dei corpi stessi, e non delle semplici sensazioni nostre, come ammette il teorico dell'inconoscibile, e in generale ogni spirito coltivato. G' klola tribus sono generalmente delle affermazioni che hanno l'aria di darci delle conoscenze, e delle conoscenze sdr esistenza; per conseguenza essi non possono risultare che dall'esperienza. Cos essi devono 406 407 spargere un legittimo sospetto sulla validit, come criterio, dell' evidenza intrinseca d'una proposizione, quando questa volge, com'essi, sull'esistenza, ed  anche perci, com' essi, un risultato dell'associazione delle idee e dell' esperienza. Ma questo sospetto non pu estend(5rsi alle due altre categorie di affermazioni di cui ammettiamo la verit indipendentemente dall'esperienza, cio i postulati di cai sopra, implicati in ogni esercizio dell' intelligenza (e che, come abbiamo detto, non costituiscono per se stessi delle conoscenze), e le conoscenze intuitive delle somiglianze e delle differenze. E ci tanto perch gl'idola tribus non si trovano che in un'altra categoria di proposizioni, aventi un'origine e un contenuto differenti, quanto perch ogni dubbio su queste due categorie ci  assolutamente impossibile. 2. L'evidenza intrinseca d'una proposizione, se questa non  una semplice intuizione di somiglianza o di differenza nel (jual caso ammettiamo che l'evidenza intrinseca  un criterio della verit, e non possiamo non ammetterlo, la negativa, in tal caso, essendo realmente inconcepibile non pu essere che un risullato dell'esperienza, per consegnenza di un'inferenza, le cui ]remesse si trovano nell'esperienza j)assata, quantunque attualmente non ne abbiamo coscienza. In una parola, una proposizione sull'esistenza, che ci sembra evidente per se stessa, non  in realt che un'inferenza incosciente. Ma se  cos, non vi ha alcuna ragione perch non dobbiamo sottomettere una tale inferenza ai criteri di tutte le altre inferenze, cio esaminare, secondo i canoni della logica, se essa  stata ben tirata, se le sue premesse la giustiiicano, in una parola se si conforma ai tipo di un'inferenza legittima. Ma allora l'evidenza intrinseca finisce di essere un criterio, e la prova della verit sta nell'esperienza. Ci mostra come il criterio dell'evidenza intrinseca non  solamente insufficiente, ma #, m  necessariamente fallace. Infatti, quando  che s'invoca questo criterio? Quando la proposizione non si pu provare per l'esperienza. Ma una proposizione che deriva dell'esperienza quali sono tutte le proposizioni sull'esistenza, alla cui categoria appartengono tutte quelle di cui  quistione nelle controversie filosofche e intanto non si pu provare per Tesperienza stessa,  necessariamente un'inferenza illegittima, un'induzione che le sue premesse possono spiegare come fatto psicologico, ma senza poterla giustificare come conclusione logica. Questa considerazione generale trova la conferma ])iii evidente nell'esame dei fatti particolari. L'inferenza per cui concludiamo il principio di causalit efficiente (come qualsiasi altro tra quelli presupposti, esplicitamente o implicitamente, dal metafisico) non pu farci illusione che sinch la facciamo incoscientemente, accettandone il risultato come nna verit evidente per se stessa. Per distruggere l'incanto, basta elevarla alla luce della coscienza : allora non ci resta che la sorpresa come l'attivit cieca del nostro spirito, con un'imitazione cos imperfetta dei nostri processi logici coscienti, possa produrre un'evidenza, a cui giungono raramente i pi rigorosi di questi processi. . 6. Il punto di partenza dell'inferenza sono, come abbiamo detto, le causazioni efficienti sperimentate, cio le sequenze molto familiari tra fenomeni che noi abbiamo conosciute nell' esperienza passata. Siccon)e in queste causazioni, le cui esperienze si sono organicamente fissate nel soggetto pensante, la causa ha sj>ie(/ato l'effetto e si  trovato tra la causa v l'effetto un legame necessario e di un'evidenza intrinseca, il teorico dell'inconoscibile ne inferisce incoscientemente che ogni fenomeno  dovuto a una causa che. ])otrebbe spiegare l'effetto, (cio dare all'intelligenza questa soddisfazione particolare che si trova in ci che diciamo una spiegazione^ nel senso 408 po{)olare o metali^ico) e tra cui e Peffetto potrebbe trovarsi un legame iecessario e di un'evidenza intrinseca. Tali cause non essendo da noi conosciute, eg'li ne conclude che esse non sono dei fenomeni, che sono ultrafeoinonali, sovrasensibili, inconoscibili, tali i)er, che, se noi jiotessimo conoscerle, esse ci apiegherehhe'O \ loro ettetti, e troveremmo tra esse e g'ii effetti un legame ecessario e li un'evidenza intrinseca. Oi'a,  evidente che la teoria dell'inconoscibile, per quanto si riferisce alle cause ethcienti, o, come dice Conite. al modo essenziale di produzione dei fenomeni, non ha alcuna base reale. In effetti, primo, la base induttiva dell'inferenza incosciente che conclude all'esistenza di cause efficienti,  stata distrutta dalla scienza ; poich ((uesta, ciniie abbiamo visto, ci presenta sotto un nuovo aspetto (piesto sequenze che, nel periodo j^rescientifico, ci sembrano perfettamente comprensibili per se stesse, necessarie, intrinsecamente evidenti (in una parola causazioni elilicienti) solo perch sono familiari, e cosi risulta che, se le altre sequenze sono misteriose, queste non sono meno, anzi pi, misteriose delle altre e i lorc> antecedcmti non possono, pi che (juelli deliealtre, essere riguardati come cause efficienti. E i teorici dell" inconoscibile non sostengono meno, anzi pi fortenuMite degli altri tlosofi, che le stesse sequenze pi familiari sono incomprensibili, e che i loro antecedenti non possono essere riguardati come cause efficienti. Ma, secondo, quand'anche la scienza non avesse distrutto la base induttiva del principio di causalit efficiente, cio quand'anche gli antecedenti delle sequenze juolto familiari potessero ancora riguardarsi (dopo la riflessione scientifica) come cause efficienti, cio come cause capaci di spiegare i loro offV'tti. e aventi con questi eft'etti un ra])porto iiec.f'ssario ed intrinsecannMite evidente, siccome (piesf attitudine d di ([uesta totalit essendo costituita dai casi dai (|uali si inferisce, al contrario nell'inferenza da cui risulta la teoria delle cause efficienti inconoscibili, e in generale tutte le teorie le quali suppongono per tutti i fenomeni delle cause ultrafenomenali, i casi a cui s'inferisce sono, non una parte, ma la totalit dei casi compresi nella proposizione generale deirinduzione, poich rinferenza si estende a tutto ci che esiste in generale, e quindi anche ai fatti stessi che costituiscono il punto di partenza dell* inferenza. P. e. i movimenti volontari degli uomini (^ degli animali si trovano tra i casi che sono, per dir cos, i dat^ dell'inferenza, con la quale si conclude all'esistenza di altre cause efficienti, distinte dalla volont degli uomini e degli animali. Ora quei movimenti stessi che, in quanto dati dell'inferenza, avevano per cause efficienti la volont umana o animale, compariscono pure tra i casi conclusi, come aventi delle cause efficienti inconoscibili, o in generale ultrafenomenali. Tale incoerenza x,on ha niente di sorprendente, se si riflette ebe Hnferenza consiste in una cieca assimilazione di tutto ci' che si offre nuovamente alla nostra intelh.-enza, a certe impressioni della nostra esperienza passata, le quali sono assenti dalla nostra coscienza. Quando i t^nomeni stessi che produssero queste ipressioni si nprescntano alla nostra intelligenza, siccome l impressione non  pi la stessa, apparendoci essi sotto il nuovo aspetto in cui li mostra la riflessione scientifica, devono sottoporsi anch' essi a questo processo d' assi.nilazione incosciente, adattandosi al tipo generale che una teoria imprime ai fenomeni per l' effetto di questo processo. Cos i nostri propri movimenti volontari della nostra esistenza passata, che contribuirono pi che (yualsiasi altro fenomeno a darci 1' idea di causazione ethciente, xion saranno ora attribuiti alla efficienza della nostra volont, ne essa ne (pialsiasi altro fenomeno dell esperienza producendo pi sulla nostra intelligenza unpressione di causa efficiente, ma a quella di una volont uietaempirica, di una forza inconoscibile, ecc., ques i essendo i tipi di causazione che ora ci permettono di assimilare i fenomeni alle nostre esperienze passate, con la impressione mentale che esse ci produssero, da cui ci  venuta l'idea di causazione ethciente. ^ 7 Che concluderemo noi sulla dottrina della relativit della nostra conoscenza? Una conclusione dehnitiva sarebbe prematura prima di avere scandagliato tutte le b.xsi su cui essa si fonda: ma mettendoci a un punto di vista semplicemente obbiettivo (vale a dire facendo astrazione della difficolt che i dati dei nostri sensi non sono delle cose in se ma delle semplici sensazioni relative al soggetto percipiente), noi abbiamo gi dei motivi sufficienti per affermare il valore assoluto della conoscenza e rintelligibilit assoluta dei fenomeni. Se la nozione di causa efficiente non ha un valore ob415 biettivo, se perci la causa non  che T antecedente di una sequenza invariabile,  evidente che non abbiamo alcun motivo di affermare che non conosciamo il modo reale o, come dice, Comte, essenziale di produzione dei fenomeni. Conoscere il modo reale di produzione di un fenomeno  conoscere le cause di (|uesto fenomeno, cio ancora conoscere, poich non vi sono altre cause, che esso  seguito a un certo fenomeno antecedente o a certi fenomeni antecedenti secondo una legge o certi leggi di sequenza invariabile tra i fenomeni; ma i teorici dell'inconoscibile ammettono che noi conosciamo o jjossiamo conoscere questi antecedenti fenomenali e queste leggi di sequenza invariabile tra i fenomeni; dun(i|ue noi conosciamo o possiamo conoscere il modo reale o essenziale di produzione dei fenomeni. A ci si risponder senza dubbio che, malgrado tutto, il corso della natura non ce-ssa n^, cesser di essere incomprensibile: che non vi ha tra i fenomeni tisici una causazione che non sia un mistero, e che la produzione della sensazione e del pensiero al seguito di antecedenti fisici, (qualunque essi siano,  un mistero anche pi oscuro. Ma noi sappiamo che ci vuol dire semplicemente che non vi ha tra i fenomeni fisici una causazione che sia per noi un fatto perfettamente familiare, e che la produzione della sensazione e del pensiero al seguito di certe condizioni fisiche  un fatto che  per noi il meno familiare di tutti, il pi lontano da quelli che ci sono familiari. Il ministero, r incomprensibilit delle leggi della natura, non  che un fenomeno psicologico privo di qualsiasi importanza obbiettiva, il comprensibile e 1' incomprensibile, non essendo, come abbiamo visto, che sinomini del familiare e del non familiare. Vi ha un'incomprensibilit che ha un'imi)ortanza obbiettiva:  (juando un fenomeno resta isolato, quando non pu ricondursi a delle leggi generali. Allora il l'enomeno non essendo stato sottomesso a qualche leg-ge di causazione fisica cio (li sequenza invariabile, non  stato sottomesso al principio di causalit fisica, cio al principio che^ ogni fenomeno deve avere qualche antecedente a cui esso seo-ue invariabilniente: siccome questo principio ha un valore obbiettivo, allora l'incomprensibilit ha un valore obbiettivo. Ma quando l' incomprensibilit si npplica, non a dei fatti isolati, non sottomessi ancora ali ordine o-enerale della natura, ma alle leg'g'i stesse, che costiTuiscono quest'ordine, in quanto queste le-o-i non sono delle causazioni effcienU e non possono ricondursi a delle causazioni effdenfi, per conseguenza m quanto non si conformano al principio che ogni fenomeno deve avere una causa efficiente; siccome questo principio non ha che un sionificato subbiettivo (non esprimendo altra cosa che nn'esigenza extralogica e impossibile a soddisfare del nostro spirito allora l' incomprensibilit non ha che un si-niticato subbiettivo. Du-Bois-Reymond (r autore del famoso Ignoramm et igiiorahimas), dice:  Il line d'ogni scienza potrebbe ben essere, non di comp,endere V essenza delle cose, ma di far comprendere che (.uest'essenza  incomprensibile. Cos la conclusione finale della matematica  stata, non di trovare la quadratura del circolo, ma di dimostrare che  impossibile di trovarla: della meccanica, non di realizzare d moto perpetuo, ma di provare che  impossibile di realizzarlo. A questa comparazione di DuBois Reymond se ne potrebbe, contrapporre un" altra pi giusta e al tempo stesso pi veritiera: Cmne la matematica ha dimostrato che la quadratura del circolo , non impossibile ai matematici, ma impossibile e assurda in se stessa; come la meccanica ha provato che il moto perpetuo e, non irrealizzabile dai meccanici, ma affatto impossibile a realizzarsi; cosi la teoria della conoscenza mostra, non eie V essenza delle cose  inconoscibile, ma che non esiste, o almeno che non abbiamo alcuno motivo di affermare che esista, luV essenza delle cose, se per essenza d'una cosa s'intende altro che il complesso delle sue propriet sensibili, che i sensi ci presentano o che l' intelligenza pu rappresentarsi sul tipo di ci che essi ci hanno presentato. Se si ammette infatti che al di l delle ])ropriet sensibili e conoscibili vi ha un'essenza sopranseiisibile e inconoscibile,  perch si suppone che le prime derivano necessariamente da alcun che di jii fondamentale, che potrebbe spiegarle, se noi lo conoscessimo .s^;%((?'/c nel senso popolare e metafisico della parola sjfiegnzione,-^ Ma la spiegazione, in questo senso, implica lidea di causa efficiente: il fantasma delVessenza svanisce ilunque con quello della causa efficiente, e non , come questo, che un'illusione naturale del nostro spirito.  La ])i jj|.nni(io illusione ' ipiella rio (ho lo si)irito reclama (lualclie cosa al di l lei h'uaiiii pi .u.'iier.ili lei leiuuiieiii >r)lti siii)}mhi.i;mio elle la e>iioseeii/.a b'ile jiciu'ralit [li alte i-elative al le.iiaiue lei feiioiiH'iii  iiisntfieisa li iiiist'ritrcniin> attiniicre. se alcun ostacl> nn interveniss Ne\vtMi sendira nn aver iK)tuto nis segnarsi a considerare il \ivso coni*', un l'atto idtiino. K.iili non coin]U'en(l'VJi ch' l:i niat'ria ]M.tess jM'r eonse.i;uMiza ad annnettere P 'sisteuza l'un mezzo, di tal srta -Ih' il ]M's> poti'sse essere assimilata) all' im]>ulsionne non lui potuto essi're t'ntata. t all)ra il pes nvsta un tatto dtim>: 'ss>  u s' st'sso la sua 8pi'.!iazi>ne. L'unione dello spirito ' l'l cupo > stata lun-ann'ute consii-taisi in simile easo. Hisoona coneepire le (lualit mentali e materiali eiasenna secondo la sua natura pvoiu'ia: le une per i sensi, le altre \h^v la coseien/a. N(m dohbiami in seguito asimilare e generalizzare il i)i possibile eiaseuua categoria. Xoi ^eneralizziegazione scientitca dell'unione dello spirito e del corpo. Ogni spiegazione pi generale, oltre che non  necessaria,  impossibilc-Ecco un linguaggio che non ba niente di scientitico: La sensazione cosciente e un fatto, nella costituzione della nostra natura tisica e morale, cbe ^ assn bisogna lire:  Sino a riuesto giorno non albiani( saputo come lo spirito e il corpo agiscono l'uno sull'altro. A parlar propri auuMite, non vi ba niente pi a conoscere in fuori del tutto cbe si tratta solamente di generalizzare. Vi ba. dice Uume. in tuttala natura (puvlcbe cosa li pin nisterioso che l'unimie dell'anima e del corpo: unione per CUI una s noi. quamlo si pu dimostrare, n(n solo cbe tale supposizione ( ass(lutamente destituita di prove .nia cbe essa  un'illusione, e mostrare il nu'ccanismo di quest'illusu>nt . / 420 g-iare lo stato di riposo o di inovinonto di altri corpi. La forza allora  un teriniue astratto che indica, non una qualit occulta che sia nel corpo, ma semplicemente il fatto che il corpo  o pu essere la causa, cio ia condizione, di cang'iamenti in altri cori)i. L'astrazione g-iun^e al suo maximum, quando si usano certe espressioni, che sembrano fare della forza un soi>'getto separato, avente un'esistenza |)ro|)ria, come quando ile, per eui 421 non ])oteva mancarsi di attribuire questa propriet della materia ad una causa efficiente sconosciuta. Di questa maniera il dominio della forza divieie universale nella fisica, r intervento di questa causa occulta ritenendosi necessario, non solo per far comprendere la possibilit dei fenomeni, non familiari, deirazione a distanza, ma anche di quelli del movimeuto prodotto dalT urto, che, familiari in se stessi, non lo sono nelle loro leggi. La forza si considera ora come una qualit occulta della materia, ora come un che di distinto e separato da essa, che esiste i)er se stesso, essendo nella materia, secondo la comparazione di Torricelli, come in un vaso, o anch^^, come immagina Hirn, riempiendo lo spazio intermediario fra i corpi. Nel primo caso, cio quando se ne fa una c|ualit della materia, la forza significa senplcemenfe la causa efficiente, metaempirica e sconosciuta, ilei fenomeni fisici, e non  che uira})plicazione del concetto del r inconosci bile. Nel secondo caso, cio quando si riguarda come una realt esistente per se stessa, diviene un concetto metafisico sui generis, all'idea di causa efficiente inconoscibile aggiungendosi la trasformazione di una (qualit in una sostanza. Nella nozione della forza noi possiamo vedere, pi chiaramente che in quella di una causa efficiente incoiioscil)ile, come i concetti metaempirici che sembrano i pi discosti dairesi)erienza, non sono che delle suggestioni delle nostre esperienze pi familiari. Infatti in questa nozione Tinfiuenza di tali esperienze non ha solo il risultato, come ud semplice concetto di causa occulta, di suggerire l'idea di un rapporto di causazione simile, per i caratteri subbiettivi, ai pi familiari tra i rapporti di causazione conosciuti (cio nel quale, come in questi, la eausa  capace di spiegare l'effetto, e vi ha tra la causa e l'effetto un legame necessario ed evidente intrinsecamente); ma, accanto a questo risultato generico, ne ha 422 anche un altro specifico.  che la forza e il suo modo d'azione si cerca di assimilarli in qualche modo a certe classi determinate di fenomeni familiari, ag-o-iung-endo al concetto generico di causa occulta del movimento certe determinazioni particolari, o circondandolo di un corteo di certe vaghe e oscure associazioni (troppo vaghe e oscure per elevarsi al grado di affermazioni coscienti e riflesse), che ci indicano abbastanza le esperienze che liaiino servito di tipo e a cui  dovuta la suggestione. Queste esperienze non sono che quelle stesse che hanno servito di base alle npiegazion \\\V\w(ivsali ]>i ordinarie d^Ua natura. llume ha osservato che un eleiuento della nozione volgare di forza  la concezione di un??i.si^s animale, e tanti altri dopo di lui (coiie Mill, Spencer,> Huxley) hanno derivato quest'idea dalle nostre esperienze subbiettive dello sforzo muscolare . Redtenbacher dice: L'esistenza delle forze noi la riconosciamo per gli effetti ch'esse producono, e, in particolare, per il sentimento e la coscienza che noi abbiamo delle nostre proprie forze . Per mostrare quanto la nozione counuiu di t'orza sia impregnata del nostro proprio sentimento umano, si potrebbe forse addurre il fatto che, come nota M. de Birau, per designare questo non so che di sconosciuto, a cui si attribuisce la produzione dei fenomeni fisici, bisogna impiegare i segni di certe affezioni dell' anima, come sforzo, tendenza, nisus V. Mill. FiloH di Uaniltou e. IH. sulhi tiiu'. Spencer Prine. di soeiolofjia 4. paraor. H5!K Huxley ^. *'>^^'' V' - ^-^^ autori ei sem)raiio anche aver ultrepassato il seonc. Non  certo ammissibile per esempio rattermazione di Spencer che  Tuomo  forzato (li simluileggiare la forza obbiettiva in funzione di forza subbiettiva. V. Lange Storia del material, voi. 2. p. 2. e. 2. 423 ci in cui questo filosofo vede la prova che (juesta nozione (di cui naturalmente egli ammette il valore obbiettivo) ha la sua sorgente nelT intimit stessa del nostro essere agente e pensante . Nella nozione di forza si manifesta pure la tendenza a ricondurre o assimilare qualsiasi azion^^ tisica all'azione a contatto, cio all'urto o alla trazione. Hirn, accerrimo avversario della teoria meccanica, alla quale oppone la dottrina delle Forze, fa non per tanto per la sua dottrina stessa omaggio al princi[)io dei m(HH*anisti, che  che non  ammissibile altra azione se non a contatto.  perci che egli immagina le sue Forze, ch'egli chiama principe hifer media ri, diffuse nello spazio e se])arate dalla materia:  che ogni azioie apparentemente a distanza deve, secondo lui, attribuirsi ad un ijuidche sia a contatto con la materia che subisce quc^st'azione, e questo quid  la Forza. Cos egli dice:  sia vero il detto di Bacone che  tra gli errori o|)|)osti le cause d" illusione sono pressoch comuni. Questo rapi)orto della nozione dt^lla forza con (lutaste tendenze spontanee dello spirito, che lo s|)ingono ad assimilare la produzione di tutti i fenomeni, l'una ai nostri propri atti, e l'altra ai fenomeni familiari della comunicazione del movimento,  stato molto bene, osservato ed espresso da I)u Hois-Keymond, di cui riferir le parole. ^ cosa strana, vi ha per il iostro desiderio innato di ricercare le cause una specie di soddisfazione neirirnmao-ine d'una mano che si disegna involontariamente davanti il nostro occhio interiore, d'una mano che spinge dolcemente innanzi a se la materia inerte, o nell'immao-ine di braccia invisibili di polipi, per mezzo di cui le molecole della materia si stringono, cercano ad attirarsi le une le altre, e finalmente s'intrecciano in un gomitolo (1 1. Ora, a quali motivi dobbiamo noi attribuire la separazione della forza dalla materia, la sua elevazione al grado di soggetto reale, esistente per se stesso? Il motivo lo abbiamo gi visto, quando la Forza si fa intervenire nelle azioni a distanza:  il bisogno di assimilare queste jizioni a plicazioiie del metodo niateiiiatio(> alla eouoseeiiza del reale, conviene non di meno che non vi ia altra scienza. rigorosamente i>arlamh. che la matematica. Le sole matematiche, egli dice, di tutte le scienze umane, |)rocedono a somiglianza della scienza divina (Uisposfa a tre gravi opposhioui eoifro il libro De nut. Ital. Slip. II.) L'uomo sa le cose matematiche, ma Dio solo le cose lsiche {De Antiq, Did. sapietit. Conclusione). (8) Le cose procedcuio dall'essenza divina come dall'essenza del triangolo segue che i suoi angoli sono eguali a due retti. {Eth. [). 1. Schol. Prop. 17 e p. 2. Schol Pro]. 41).) Wallisii Opera .voi. 111. [>. 1()2 Dal punto di vista di Leibnitz, come osservi M. ercht' la irima  in possesso di segni convenienti per le sue idee, mentre la seconda non ha trovato ancora questi segni. Si tratterrebbe diinqiu. nelle inateiint'u-he  espresso il tipo della ragione uni viT-nlo; esse nell'astratto, come binatura nel concreto, ne sono la |)iii perfetta espressione obbiettiva. La inateiiiatica, dice Novalis,  la vera scienza, Tintendiinento realizzato; i suoi rapporti sono quelli del mondo. La scienza niatematica pura  la vita pi alta;  la vita degli dei. T niateniatici soli sono telici, perch il sapere perfetto  felicit perfetta (2. Il Taine ci mostra nelle  scienze >. {l.ii^^int/. />r ^riunii' phil. ^ninuhft. i>i\. Duteits t. 2. ljute l. i>a,i;. . Se-bellini I^f^ v".'//' .v'". 108 (parte 5); Prine. della flos. 2. j)arte n. 04 p. 170, 4. parte n. ; ecc. Met. }). 105 ((). ])arte), 108 (parte 5.); Reg. per la direz. dello spir. Reg. 4, t. XI. p. 217: Prine. della filos. I. parte n. 24 p. 70, II. parte u. 8, p. 128, ecc. V. Disc, del metodo che essa sa dedotta dai primi principii, in modo che, per istudiarsi di acquistarla, ci che si chiama propriamente filosofare, bisog-na cominciare dalla ricerca di questi principii, ed essi devono avere due condizioni, runa che siano si chiari e s evidenti, che lo spinto umano non possa dubitare della loro verit allorch si applica con attenzione a considerarli; l'altra che sia da essi che dipenda la conoscenza delle altre cose, in modo che essi possano essere conosciuti senza di queste, ma non reciprocamente (jueste senza di essi-, e dopo ci bisogna cercare di dedurre talmente da questi principi! la'^conoscenza delle cose che ne dipendono, che non vi sia niente in tutto il seguito delle deduzioni che si fanno che non sia chiarissimo . Cosi i mezzi per cui l'intendimento pu elevarsi alla conoscenza, senza timore d'ingannarsi, sono due: l'intuizione e la deduzione, e non bisogna ammetterne di pi. L' intuizione  delle cose che sono evidenti per se stesse: di quelle he non lo sono possiamo tuttavia averne la certezza,  purch esse siano dedotte da principii certi e incontestati per un movimento continuo e non interrotto del pensiero, con una intuizione distinta di ciascuna cosa (di ciascun passo del ragionamento). Le prime proposizioni derivate immediatamente dai principii possono dirsi conosciute sia per deduzione sia per intuizione; i principii stessi per intuizione; le conseguenze lontane per deduzione . Tuttavia nella 7^^ delle sue Ueijole per la direzione dello spirito Cartesio parla anche dell'induzione, ch'egli chiama pure enumerazione sufficiente, come uno dei mezzi Princ. della filos. Prefaz. (Lotter al tvadiitt.) p. 10 Cousiii. He(j. per la direz. dello ^pir. Ueg. 8. Cfr. Keg. o, 6. ecc. 445 che conducono sicuramente alla verit, anzi come il solo oltre alla intuizione. Ma Cartesio non intende V induzione nel senso nostro, moderno, della parola, cio come la estensione a tutta una generalit di casi di ci che si  osservato in alcuni. L'induzione non  \)q:c Cartesio che una specie di deduzione. Per induzione o enumerazione egli intende iT mezzo di stabilire la certezza di quelle verit che non derivano immediatamente da principii evidenti per se stessi, ina a cui si giunge per un lungo seguito di conseguenze, come (piando si conclude il rapporto tra le grandezze A ed E, dopo aver trovato il rapporto tra A e B, quello tra B e C, tra C e D e tra D ed E. Tutte le volte che abbiamo dedotto delle proposizioni immediatamente l'una dall'altra, se la dedu-zione  stata evidente, l'operazione si riduce a una vera intuizione.  Ma se deduciamo una proposizione da altre proposizioni numerose, disgiunte e nmitiple, spesso la capacit della nostra intelligenza non  tale che possa abbracciarne l'insieme d'una sola vista: in (jiiesto caso la certezza dell'induzione deve bastare. E cosi che senza potere ad una sola vista distinguere tutti gli anelli di una lunga catena, se nondimeno abbiamo visto V incatenamento di tutti questi anelli fra di loro, ci ci i)ei'metter di dire come il primo  congiunto all'ultimo:^ . Pressoch lo stesso dice nella spiegazione della Keg. 11: quando la deduzione  semplice e chiara, egli suppone che la si veda per intuizione; ma (luando  inulti[>la e inviluppata, in modo che lo si)irito non possa com})reii derla tutta intera ad un sol colpo, ma bisogna, affine di concluderne un i>'iiidizio unico, che la menioi'ia conservi i giudizi portati su ciascuna delle parti (dell' in J^e(j. 7. pa.ir. 2:^8-285. Keg. 7. \niatibili con la sua spiegazione del nmndo. Il concetto teologico non i cosi legato al resto del sistema cartesiano ]>er dei legami orgniiici. ma per quelli puramente artiliciali di una deduzione capziosa. ^'.' 452 (iato come la ragione del secondo, ci non  perch si tratti di due fatti, la cui relazione essendoci molto familiare, ci sembra perci necessaria e intelligibile (come avviene nelle spiegazioni della metafsica istintiva), ma perch si tratta di due fatti, o piuttosto di due proposizioni, che sono tra di loro nel rapporto logico di principio e di conseguenza, in modo che sarebbe contraddittorio di non ammettere il secondo, dopo aver ammesso il primo. L'essenza di questa forma di metafisica, non dobbiamo dimenticarlo, consiste in questa logica artificiosa, per cui si pretende di convertire i legami empirici e con^m^ew^?' tra i fatti in legami razionali e necessari. Perch Cartesio non  contento di avere ricevuto dall'esperienza le leggi della natura, ma vuole stabilirle a priori? perch non  contento di sapere che i fatti sono cos, ma cerca anche una ragione che mostri che essi devono essere cos? Cio evidentemente per questa tendenza innata del nostro spirito, che ci spinge a ricercare il perch, le cause delle cose, tendenza che non pu essere soddisfatta dalla semplice osservazione dei fenomeni, la quale ci d non le cause, ma solo gli antecedenti di sequenze invariabili.  un fatto d'esperienza intima che, se noi riusciamo ad immaginarci che tra questi fenomeni che P osservazione ci mostra come invariabilmente congiunti, ma non come connessi, vi sia, d' una maniera qualunque, un legame necessario, cio tale che la ragione possa, indipendentemente dall' osservazione che li mostra congiunti, comprendere che essi devono essere congiunti; allora la nostra aspirazione a conoscere il perch, le cause, , sino ad un certo punto, soddisfatta. Ora noi non crediamo sufficiente d' aver costatato questo fatto della nostra esperienza intima: noi vogliamo renderci ragione di questo fatto, comprendere il determinismo secondo cui esso si produce, sapere quali sono i fatti pi generali, ic leggi 453 dello spirito, a cui esso pu ricondursi. La prima difficolt, nelle ricerche psicologiche di quest'ordine, , come abbiamo gi osservato, di comprendere che vi ha qualche cosa che si deve ricercare: questi fenomeni della nostra intelligenza, che si producono con una intera spontaneit e d'una maniera pressoch istintiva, ci sembrano delle cose afPatte naturali e tali da non aver bisogno di alcuna spiegazione. Ma questa spontaneit e istintivit del fenomeno  per noi una i)rova che si tratta d'un'inferenza incosciente. In effetto questo fatto che una ragione a priori, la quale facesse comprendere che i fenomeni devono essere congiunti cos come l'osservazione ci mostra che soio congiunti, ci darebbe una risposta alla quistione del perch, delle cause suppone r ammissione implicita di due principii generali. 1. Che non basta di sapere che i fenomeni sono invariabilmente congiunti (cio qual sono le leggi gnerali della natura), ma bisogna anche cercare di sapere perch questi fenomeni sono invariabilmente congiunti, ci che implica la credenza che la natura delle cose  tale che vi ha un perch delle sequenze invariabili, delle leggi primitive della natura, date dall'osservazione. 2. Che una ragione a priori, che mostrasse che i fenomeni invariabilmente congiunti devono necessariamente esserlo, ci darebbe il perch della loro congiunzione: ci che implica, non solo che la natura delle cose  tale che vi ha un ^perch delle congiunzioni invariabili tra i fenomeni, ma  anche tale che vi ha tra i fenomeni un legame necessario, che la ragione pu scoprire a priori, e che  il perch della loro congiunzione. Queste supposizioni che noi facciamo implicitamente sulla natura del mondo obbiettivo, devono essere fondate sovra una base empirica, la quale, se non  sufficiente a stabilire logicamente la validit di queste supposizioni, deve essere almeno sufficiente a ^ spieo-are la loro origine, la loro presenza nel nostro spirito. In quanto alla prima delle due supposizioni, noi abbiamo mostrato che questa base empirica deve cercarsi nelle sequenze pi familiari tra i fenomeni, cio che sono queste sequenze che ci hanno dato l'idea di causa efficiente, ed  da esse che abbiamo inferito il principio che ogni fenomeno deve avere una causa tale (e non semplicemente un antecedente a cui esso segue d' una maniera invariabile). Ma anche per la seconda supposizione la base empirica non pu cercarsi altrove che in queste sequenze stesse. Infatti, poich un legame necessario e razionale, puramente logico, introdotto tra i fenomeni, d una soddisfazione al nostro desiderio di conoscere il perch d questi fenomeni, come la d, (quantunque ad un grado superiore, 1' assimilazione della produzione di questi fenomeni alle sequenze familiari che ci hanno dato 1' idea di causa efficiente, se ne deve concludere che tra queste due forme sotto cui lo spirito concepisce il perch delle cose, vi ha un'anologia, un fondo comune; che le due forme di metatsica rappresentate da queste due risposte date alla identica quistione del perch, si riattaccano, al fondo, a uno stesso processo del nostro spirito. Il fatto che le soluzioni della metafisica istintiva (che spiega i fenomeni riconducendoli alle causazioni che ci sono pi familiari) danno una soddisfazione pi completa, pi evidente, al nostro desiderio di conpscere il perch, che le soluzioni della metafisica apriorista (che cerca d' introdurre fra le cause e gli effetti un legame puramente logico),  una conseguenza necessaria dell'altro fatto, che nel secondo caso l' assimilazione dei fenomeni al tipo a cui lo spirito si sforza di assimilarli (cio a quelli che costituiscono la base empirica dell'inferenza incosciente),  assai pi imperfetta che nel primo caso. E in effetto, come abbiamo detto nel . 2, questo presup 455 posto della metafsica apriorista, che vi hanno tra i fatti delle connessioni necessarie e razionali, non pu essere fondato che sull'esperienza di qualche cosa come delle connessioni necessarie e razionali trai fatti; cos, non essendovi niente altro di simile nella nostra esperienza che le congiunzioni molto familiari fra i fenomeni,  nelle causazioni pi familiari che deve trovarsi la base induttiva di questo presupposto, e il tipo a cui questa metafisica cerca di assimilare le suo concezioni sui rapporti tra le cause e gli effetti. Tornando ora a Cartesio, noi dobbiamo prima di tutto rispondere ad una difficolt. Le considerazioni precedenti tendono a mostrare che, quando si  persuasi di avere scoperto tra i fenomeni, per mezzo di una ragione a priori, una connessione necessaria, ci  come avere stabilito tra questi fenomeni una connessione^ di efficienza causale. Ma i fenomeni successivi che costituiscono una legge della natura possono, nel sistema cartesiano, considerarsi come cause ed effetti gli uni degli altri? 0  piuttosto Dio che in questo sistema  la causa unica di tutti i fenomeni? La dottrina delle cause occasionali di Malebranche e di altri cartesiani, che nega ogni rapporto di efficienza causale trai fenomeni, non  certamente quella di Cartesio ; ma non vi ha dubbio che nel suo sistema non vi sia qualche cosa di simile, perch egli spiega tutto, al fondo, per l'azione di Dio. Ora come conciliare ci col concetto che Cartesio, sforzandosi di stabilire tra i fenomeni dei legami necessari e razionali, non intendeva perci che stabilire fra di essi dei legami di efficienza causale? Questa obbiezione non  che verbale, e nasce da ci che noi diamo al termine causa efficiente un significato che non  assolutamente conforme all'uso comune di questo termine. Per un rapporto di causalit efficiente \ 456 457 noi intendiamo un rapporto di sequenza tale che tra lo antecedente e il conseguente lo spirito possa, per esprimerci con le parole di Hume, vedere una connessione, e non semjlicemente constatare una congiunzione, comprendere perch^ e non semplicemente sapere che, il conseauente si verfica verificatosi l'antecedente. Questo carattere appartiene ai rapporti di causazione molto familiari, e a quelli che la metafsica immagina secondo questo tipo. La metafisica si distingue dalla scienza positiva, perch questa si contenta della congiunzione, del chey mentre quella cerca la connessione^ il perch. Tutte le specie di connessione che la metafisica crede di aver trovate, tutte le risposte che essa d a questo perch^ cadono per noi sotto, il concetto di causazione efficiente. Perci noi dobbiamo talvolta applicare questo termine difformemente dalla sua accezione pi comune: ma noi abbiamo avuto bisogno di un termine generale per indicare l'oggetto comune della nostra ricerca, e al tempo stesso il legame comune di parentela che unisce tutta una classe di concezioni metafisiche, l' identit fondamentale del processo del nostro spirito di cui esse sono il risultato ; non ne abbiamo trovato uno migliore che quello di causa efficiente, ma siamo stati costretti a non tenerci strettamente al suo significato ordinario. Secondo questo, l'antecedente di un fenomeno per essere chiamato causa efficiente di questo fenomeno, deve esserne V'dite(iedentii Incondizionate, cio tale che esso basti a produrre l'effetto senza bisogno di un'altra condizione: ci che nel sistema cartesiano non pu dirsi di alcuna causa fisica, poich, in esso, perch l'effetto segua la sua causa (fisica),  necessaria una condizione. Dio; e sotto questo aspetto, Dio solo meriterebbe il nome di causa dei fenomeni. L'uso comune, limitando, cos la nozione di causa efficiente, ha in mira la concezione pi ordinaria che la metafisica se ne forma, che  quella di un agente supposto, conoscibile o inconoscibile, o di una qualit secreta supposta negli agenti dell'esperienza, che , o sarebbe se si conoscesse, l'intermediario esplicativo delle sequenze tra i fenomeni. In questo senso, t' incondizionalit per produrre l'effetto  il carattere essenziale di una causa efficiente, quello che la distingue dai semplici antecedenti di sequenza invariabili dati dall' osservazione; poich si suppone che questi non siano gli antecedenti incondizionali degli effetti, ma che, perch gli effetti ne seguano, sia necessario anche l'intervento di una condizione, la causa efficiente. Ma noi avendo assimilato a queste concezioni pi ordinarie della metafisica, di agenti ipoteci o qualit ipotetiche negli agenti conosciuti, da cui gli effetti sono o potrebbero essere spiegati e non semplicemente a cui essi seguono invarifibilmente; avendo assimilato, dico, a queste concezioni quelle che la metafisica apriorista si forma sulla produzione delle cose, sui rapporti tra le cause e gli effetti; non possiamo riconoscere perci che un carattere, come essenziale al rapporto di causazione efficiente, e distinguente questo da quello di una semplice sequenza invariabile, cio che questo rapporto sia immaginato sul tipo, pi o meno fedelmente imitato, delle causazioni familiari da cui ci viene 1' idea di causazione efficiente. Cos, se non si volesse dare al termine causa efficiente che il significato ordinario, il principio che ogni effetto ha una causa efficiente (e non semplicemente un antecedente a cui esso segue invariabilmente), non sarebbe il vero presupposto fondamentale di ogni speculazione metafisica relativa alla quistione del perch, ma, per potere riferirvi tutte le speculazioni di quest' ordine, noi dovremmo esprimere questo presupposto d'una maniera pi generale, per es. cosi: Bisogna assimilare, pi che sia possibile, le nostre concezioni sulla produzione delle cose, sui rapporti tra le cause e gli eff'etti, ai rapporti di sequenza pi familiari. Tale  al fondo la vera espressione di questa premessa incosciente, naturale al nostro spirito, da cui egli parte per tirarne tutti i concetti metafsici relativi alla quistione del perch: il principio ogni fenomeno ha una causa efficiente nel senso ordinario ne  l'applicazione pi ordinaria, ma non ne  che un'applicazione particolare. Ora si deve notare che questa assimilazione alla sequenze familiari, che riesce a fare la metafisica, non  quasi sempre che approssimativa ed imperfetta: ci non  soltanto perch la connessione che essa riesce a stabilire tra le cause e gli effetti non sembra mai cosi evidente, cosi naturale, come sembra quella delle causazioni familiari (o se.mbrava almeno nel periodo prescentifico della nostra vita intellettuale), ma anche perch la condizione rigorosa che una causazione efficiente dovrebbe realizzare per essere una causazione, cio quella di costituire ma sequenza costante e incondizionale, non  il pi spesso adempiuta. Per es. nella metafisica teologica il rapporto tra la causa efficiente e 1 cfi'etto non  propriamente una sequenza-^ perci questa metafisica non dovrebbe, come fa, concepire Dio come esente dal cangiamento e dai rapporti di tempo. Nel cartesianismo e in altri sistemi aproristi la causazione efficiente che cerca di stabilirsi tra i fenomeni,  una seguenza costante, ma non  incondizionale. Nella forma di metafisica di cui parleremo nel capitolo seguente, la distanza dal tipo  anche pi grande: tra la causa efficiente e l'efietto non vi ha pi un rapporto di sequenza; causa ed effetto non sono nel tempo, non sono dei fenomeni ; alla sequenza cronologica si sostituisce una sequenza puramente logica, ideale, una anteriorit e posteriorit di natura . lo devo ricouoscere un'altra impropriet iiell'uso che ho fatto della parola causa. Io ho considerato tutte le leggi della natui'u di Cartesio indistintamente come leggi di causazione, e; o persiste nel suo stato di quiete o di movimento, sinclic una forza esteriore non lo l'accia cangiare da. questo stato). Ma, non parlando della prima parte della legge (cio che un corpo in quiete persister nella quiete) la quale d'altronde non lia alcun importanza al nostro punto di vista, perch esprimendo un fatto col quale siamo molto familiarizzati, non sollecita il metalsico apriorista a cercarne la ragione non vi ha alcun motivo di negare alla seconda parte il nome di legge di causazione, tranne forse quello che  anch' esso un prodotto della metafisica apriorista di volerla stabilire come implicitamente contenuta nel principio stesso di causalit. Il movimento  un cangiamento, un cangiamento da un luogo ad un altro: esso ha quindi una causa, e l'azione d'una forza esteriore non merita pi il nome di causa che il movimento anteriore del corpo stesso.  certo che noi possiamo distinguere nel movimento di un corpo, li)ero da ogni intuenza esteriore, un prima e un jjoi: tra questo prima e questo poi vi ha un rapporto delnito, e questo  una sequenza invariabile e ineondizionale. Per conseguenza il princi[>io metalsico della causalit effieieiite, del pari che il principio positivo della causalit tsica o uniformit di sequenza, si applica tanto nel caso del corpo che si muove jier rimi>uLsione d'un altro (o per (qualsiasi altra azione esteriore), ([uanto in porto a Dio arbitrario, e cos la libert di Dio, nella sua azione sul mondo,  salva, quantunra cos distruggere l'opera di Cartesio filosofo: ma la contraddizione tra il teologo e il filosofo non , se ben si guarda, che apparente. Sia i>urc che le verit cosi ilette necessarie ([uali lo verit matematiche e, secondo Cartesio, anche le verit fisiche dipendono dall'arjitrio divino, e non sono per L'on8C^\i(i7Ai(issoluta niente necessarie: ci non toglie che questa stessa necessit relativa che loro non si i)u negare l'impossibilit irica. specialnjente ad una di quelle che soiu>, non dei risultati delle nostre esperienze f Hit, familiari, ma semplicemente delle acquisizioni della scienza. Ora una tale necessit basta allo scopo della metafisica apriorista. la quale non pu aspirare che ad introdurre nelle verit em]>iriche e propriamente in quelle tra queste verit che non sono i risultati dell'esperienza pi familiare un grado di necessit uguale a quello che appartiene alle verit che chiamiamo necessarie V. Princ. della filos., Prefaz., t. 8. 10, 12, 14; Met. t. 1, 178, 194-195; Reg. per la direz dello spir., Keg. fi, ]). 227-228, ecc. (Nell'ultimo luogo indicato gli oggetti della nostra conoscenza sono distinti in assoluti e relativi: l'assoluto  ci che deve essere anteriormente conosciuto per i)oter conoscere il relativo, la conosc^enza del secondo si deduce da quella del primo, ma non reciprocamente; in ([uesta classazione delle cose la causa  ]>osta nella classe delVassolnto. l'efietto in quella del relativo). V. Principi della filosofia, 79, ibid. 118, ecc. J  . Non vi ha dubbio che, considerando il sistema cartesiano come una spiegazione della natura, il vero principio di questo sistema non sia il concetto di Dio, 1 aro^omento ontologico. In effetto mentre la prova a priori di Dio non suppone alcuna verit preconosciuta, tutte le verit che noi conosciamo sulla natura suppongono la preconoscenza di Dio, e, come notammo, affinch queste verit siano necessari, e a priori (cloche sovratutto premeva a Cartesio di stabilire), la preconoscenza di Dio quale essere necessario e dimostrabile a priori Ci risulta anche dal principio, s spesso inculcato da Car esio che la conoscenza dell' effetto presuppone que a della causa, e non reciprocamente la conoscenza della causa quella dell'effetto. Perch dunque Cartesio d come il primo principio della sua filosofia, don il concetto di Dio e r argomento ontologico, ma il cogito ergo sum . Ci indica che la spiegazione della natura, la ricerca del perch, non  il solo motivo deUa speculazione cartesiana. E in effetto,  chiaro, dalla maniera in cui Gar tesio espone i precetti del suo metodo, che vi ha in questo filosofo un'altra preoccupazione, oltre quella eli rendere intelligibile l' incatenamerito causale per delle rao-ioni a priori:  quella di portare in tutto il sistema detle conoscenze umane il pi alto grado di evidenza che lo spirito possa concepire. Tra le verit concernenti il reale l'esistente, la pi evidente, la pi immediata, e la realt del fatto della coscienza: l'argomento ontoloo-icol'implicazione dell'esistenza nel concetto di Dio era secondo Cartesio una verit egualmente evidente e immediata, ma la sua predilezione per questo sottile sofisma non poteva impedirgli di sentire che la sua evidenza non era cosi luminosa da poterla presentare V. Medita/., t. l; 1). 318; Ki^p. alle prime obbiez. t. 1. lu''Jb, Kisp. alle secomlc obbiez. t. 1. 461. 465 alla prima entrata in una filosofia che si dava per la realizzazione d'un metodo aspirante a conseguire la j)i alta evidenza che lo spirito possa proporsi per modello. Per conseguenza Cartesio segue quest'ordine; prende per punto di partenza il fatto della coscienza che in verit  il solo punto da cui lo s])irito i)ossa partire e fermata la realt del fatto della coscienza e del me il), si affretta ad andare, per dir cos, all'incontro dell'argomento ontologico, costruendo altre prove dell'esistenza di Dio che non presuppongono altra cosa che l' esistenza del pensiero e del me, per fiancheggiarne la prova a priori, della (|uale gli sembrano avere un'evidenza pi appariscente: e allora tutte le verit eh' egli andr a dedurre da Dio non solo saranno necessarie e a j)riori (ci a che sarebbe bastato il solo argomento ortologico), ma riposeranno sopra una base di un'evidenza non in verit superiore (perch l' argomento ontologico ha la Il cof/ito erf/0 suni inm r seinpliceiiuiite. ('oiiic talvolta si  (letto . la, costctazioiie delln iii(lii1)itabilit;i delh realt itivi deircspcrHiiiza interna, sentimenti, ])ensi(M'i, eee., sono i modi di ('ss(M-e et'r. Append. alla I. )>arte eap. 2). V. Ris). alla 2. e alla:i. ohhiez. di llobhes, t. 1. p. 470-175. Princ. della llos.. n. S, li. (JO ()>ai'te 1). Met. 1. 15S, (h-c. Qnesta secomla atiermazione non  cos indubitaldle come la realt del tatto della cos(enza: ma  nna di (pieste altermazioni spontanee del nostro s|>iiito. clic ([nantnnine siano, dal pnnto di vista, in cni noi ci ]oniamo. d'una validit (d)biettiva pin che contestabile, haum nondimeno nn'evidenza sahhirtticd, che  incom])ai'aMlmeiite sni)eri(H-c a (juclla (-he pu parere di avere nn semj>lice sotisma a.rli1rii della natura dipendono dalla volont di Dio, ma  Dio non Je ha stabilite che perch l'ordine, la legg-e eterna e necessaria domanda che sia cos. Di sorta che  1' ordine eterno, innnutabil(\ necessario, che  la leg'ge ch'eg'li segue inviolabilmente, (i per cui egli ha fatto e conserva tutte le cose > 1). Dio potrebbe restare inattivo, non ciear( un mondo; ma se eo:li lo crea, se eu'li ao-isce, egli lo fa secondo certe leggi, che si concepisce chiarissimamente che eg'li deve seg'uire, supposto che egli voglia agire* . Le volont, i disegni di Dio, noi possiamo, sino ad un certo punto, conoscerli a y>m>r/ : cos ALalebranche non rinunzia, quantunque la sua speculazione si ri\'olga [)referibilmente verso altri soggetti, all'obbiettivo princi[)ale della metafisica apriorista, che  di dedurre, di costruire a priori, le leggi della natura. La deduzione di Malebranche  costruita sullo stesso tipo che ((uella di Descartes: si tratta d'introdurre tra i fenomeni dei legami razionali e necessari^ deducendoli da Dio che  l'Essere necessario^ che non potrebbe senza contraddizione supporsi non esistente) . Segue dalla no'/.ione di Dio che egli deve agire della maniera pi degna di lui, pi conforme ai suoi attributi, cio della maniera pi semplice e pi uniforme: di l le leggi della natura ; cio, in definitiva, le leggi del movimento), che sono le pi semplici, le pi uniformi ciie sia possibile i corpi si muovono in linea retta, perch ([uesta linea  la pi sem})lice ; si conserva sempre un'eguale Mvilliiz. rrisf.. 7, n, IS. r2) h'ic. iklh( rrr., VI Scliiwriin. {'.'A Ific. iU'lhi rn\. Sclnnrini. li. {\k 207). Jffd. crist. XI, ecc. (0 /.'/>. ih'hi rrr., 1. i. e. 11. quantit di movimento (dalla stessa i)arte), perch (juesta legge  la })i uniforme; ecc. (1; La dottrina di Malebranche ha molta analogia con (luella di Leibnitz del migliore dei mondi possibili: Dio non pu mancare di scegliere, fra tutti i possibili, l'opera cbe  la i)i conforme ai suoi attributi, e che pu esscuxi eseguita coi mezzi pi conformi ai suoi attributi. K in seguito a questa comparazione di tutti i possibili, e dei seguiti necessari che ne dipendono, che Dio ha stabilito le leggi del movimento, e impresso alla materia i primi movimenti, per farno l'opera pi perfetta possibile, e che piu) essere eseguita per le vie pi semplici e pi uniformi possibili . I^e legg-i della natura e la natura stessa sono duntjue necessarie non necessarie nella loro esistenza, i)Och Dio poteva non creare un mondo, ma, nella supposizione che egli creasse un mondo, egli non poteva crearlo diverso dall' attuale, senza venir meno agli attributi necessari che costituiscono la natura divina . Questa necessit  una necessit logica: le leaai della natura sono delle verit necessarie, nel senso che il loro contrario implicherebbe contraddizione; perch esse sono delle conseguenze necessarie di una verit necessaria, il cui contrario imj)lica contraddizione (l'esistenza di Dio con gli attributi inclusi nella sua nozione). Senza dubbio, nella spiegazione della natura di Malebranche, col processo proprio della metafisica apriorista'Che tende a stabilire tra i fatti un legame Jofjico concorre quello della metafisica istintiva -L'he assimila la produzione di tutti i fenomeni alle causali) V. Hie. d"la rrr., 1. (5. 2 \invU) e. 4. e. Il, Schiurinicito XV, Courvrsdz. sulla uwfaps. X, 15. Leffgi gencr. della eotnun. del noriiiH'H., parte 1. o.s.servaz. dopo Tiirt. 14, ecc. V. (JoHversaz. stilla nelftf. IX, X, XI, Rie. della ver. Selii, in cui hanno provato che, moltiplicando il secondo per il terzo, e dividendo il prodotto per il primo, si ottiene per cpaoziente 6; e vedendo ottenersi lo stes-^o numero che senza l'operazione avevano conosciute essere il proporzionale, ne concludono la bont dell' operazione i)er trovare in tutti i casi il quarto numero proporzionale. Ma i matematici sanno in forza della dimostrazione della prop. de>-li Elementi di Euclide quali numeri sono fra ! 47G eli loro proporzionali, lo sanno cio dalla natura della proi)orzione e dalla sua propriet secondo cui il numero che si fa dal primo e dal quarto  eguale al numero che si fa dal secondo e dal terzo; ma con tutto ci essi non vedono adequatamente la proporzionalit dei numeri dati; se la vedono, essi non la vedono in forza di (juella proposizione, ma intuiti vament(% j>enza fare alcuna operazione  n ). Altri esempi di conoscenza intuitiva sono che due e tre sono uguali a cinque, e che, se si danno due linee parallele ad una terza, queste linee sono anche parallele fra di loro. La prima forma di conoscenza  sou'ii'etta all' errore ; la seconda e la terza non possono ingannarci. Le induzioni dell' esperienza sono ricondotte alla forma fallibile, (' infel/ccfnx e air n fiat ione IV v V. {:\) Hlh. Pars V. \no]K XXV. (4l De HfelccfHs cmendnt. l. e. (.'i) Eth. Pars II. Vv. , Scli. II. De hifelief. nitcndnt . . e cos, deducendo sempre V eftetto dalla causa prossima ,  dall'essenza di Dio, dalla causa prima, che in definitiva tutta la scienza deve procedere. La vera scienza consiste dunque a dedarre l'effetto dalla causa, partendo dalla causa prima (che si conosce per la sua sola essenza, perch l'esistenza di Dio  inclusa nella sua essenza, nel suo concetto); e questa scienza  intaitiva, perch, come abbiamo detto, essa passa dalla conoscenza di una cosa (la causa) alla conoscenza di un'altra cosa (l'effetto) d'una maniera immediata, cio senza l'intermediario d una dimostrazione . Queste cm-e, queste cause e questi effetti, sono delle cose astratte, delle astrazioni realizzate; cosi nel capitolo seguente noi dovremo tornare su Spinoza, e allora si vedr con pi precisione quale sia l'idea di questo filosofo i^wW efficienza causale^ ci che  il punto capitale per la comprensione del suo arduo sistema. Per ora possiamo notare, insieme alla identit generica, una notevole differenza tra l'idea di Spinoza e quella degli altri filosofi aprioristi di cui abbiamo })arlato. La tendenza della metafisica apriorista, in generale,  di assimilare, nella forma, tutte le causazioni a (juelle da cui ci viene l'idea di causazione efficiente. La forma che caratterizza (jueste causazioni, come conoscenze nostre,  la necessit e r evidenza intrinseca (]>ropria delle inferenze incoscienti), i (juali caratteri derivano della estrema fre(]|uenza delle esperienze a cui queste conoscenze sono dovute. Cos la filosofa apriorista iu generale intende apportare in tutte le relazioni causali questa forma di necessit e di evidenza intrinseca, razionale (cio fondata sui rapporti stessi delle idee e in ltli. Ass. , P(trs II prup. VII, De intelleetus etnen(taf ione VII, oc(\ De intelleet. emendat. dipendente dall' esperienza). Ma mentre alcuni filosofi aprioristi, come Descartes, si contentano di una evidenza di mostrai iva in cui la connessione fra le due idee (della causa e dell' effetto) che vogliono mettersi in rapporto non si vede immediatamente, ma vi ha bisogno perci deirintervento di altre idee intermediarie, altri invece come Spinoza e, al fondo, ;tutti gli altri filosofi i cui sistemi sono costruiti sullo stesso tipo del suo (cio fondati sulla realizzazione dei concetti astratti e sulla identificazione del rapporto ontologico tra la causa e l'effetto col rapporto logico tra il principio e la conseguenza), domandano un^ evidenza intaitiva ^\ol^ in cui la connessione tra r idea della causa e quella dell' effetto si veda immediatamente, senza 1" intervento di altre idee intermediarie chele mettano in rapporto. E chiaro che questa evidenza intuitiva assimilerebbe di pi che l' evidenza semplicemente dimostrativa i rapporti causali in cui essa si trovasse, al tipo che si tratta d'imitare; perch nelle causazioni familiari  immediatamente, intuitivamente, che lo spirito percepisce la convenienza tra l'idea della causa e quella dell'effetto, la necessit con cui r effetto procede dalla causa. Quest' apparente evidenza intuitiva, nelle causazioni familiari, consiste in un legame molto intimo tra le idee, costituito da uu associazione empirica: Spinoza invece, e i filosofi affini, vogliono ottenere quest'evidenza intuitiva per un legame puramente logico; cos, per essi, l'effetto  una conseguenza logica della causa, e una conseguenza, la cui connessione col principio (con la causa), possa essere dallo spirito percepita immediatamente. E perci che Spinoza dichiara adequata la sola conoscenza intuitiva, e la mette al di sopra delle altre forme di conoscenza. Ma ci si comprender d'una maniera pi chiara nel capitolo seguente. Leihnitz. .erienza, cio a posteriori, o per la ragione e A PRIORI, cio per le considerazioni della convenienza che le ha fatto scegliere. Cos le leggi della natu-,..x_(|uelle che non sono assolutamente necessarie, come sarebbe (questa, che ogni fatto deve avere una ragion determinante, o anche ([uest'altra, che i corpi non agiscono gli uni sugli altri che |)er impulsione dipendono dalla scelta della pi perfetta saggezza, e se ne deve rend(n-e ragione per le cause finali:  di ((uesta maniera che devono spi(\u'arsi le leggi del movimento, a cui le leggi dtil mondo materiale in sonnna si riducono. La s])iegazione leibnitziana delle leggi della nntura  dunque in primo luogo una spiegazione teologica e teleologica: ma essa  inoltre una spiegazione r^^^r/om^r/, perch Leibnitz annnette la possibilit di dedurre a priori (|Ueste leggi dalle  considerazioni della convenienza che le ha fatto scegliere. Le cause finali per Leibnitz non servono soltanto a sjiegare le cose gi conosciut(iper Tosservazione, ma sono anche un mezzo di scoverta, un jn-incipio da 481 cui si pu concludere a priori come le cose devono essere: egli non si limita a dire (argomentando a posteriori) ci  fatto della maniera pi conveniente, dunque  li prodotto d'una saggezza perfetta; ma dice ancora^ (argomentando a priori): ci  il prodotto di una saggtzza perfetta, dunque ci deve essere fatto cos perch cosi  il pi conveniente . Nella spiegazione teleologica di Leibnitz, col processo della metafisica istintiva concorre il processo della metafisica apriorista. Il principio fondamentale della filosofa apriorista deve a Leibnitz, possiamo dirlo, la sua espressione pi classica:  il principio della ragion sufficiente o determinante, secondo il quale niente accade, senza che vi sia una causa o almeno una ragione determinante, vale a dire qualche cosa che possa servire a rendere ragione a priori })erch ci esiste cos piuttosto che di ogni altra maniera  . Questo principio si applica tanto ai fatti particolari quanto alle verit generali, tanto alle verit contingenti, quanto alle necessarie; cos esso  anche espresso sotto (piesta forma pi generale:  non vi ha enunciazione vera di cui quegli che avesse tutta la conoscenza necessaria per intenderla perfettamente non potrebbe vedere la raragione. Posto il principio della ragion sufficiente, la prima quistione che si ha dritto di fare sar: Perch vi ha qualche cosa piuttosto che niente V . . . . Di pi, supposto che delle cose devono (l^ V. olti-o i 1. iiul. iiolla iiotM imuMMl. e. nelle diu' soiriKMiti, .V. .V. 1. 1. e. S. ^ IS. X. S. 1. 4, it, . ^ l:^, ir^sit. nlhi I Ueplica (li Clarke 1. Dnteiis. ]k 1. , ecc. ffisc. ih'lht con /orni, dclht fede eoa la niy. v> 2. Dlse. di meta/. (Lctt. e opusc. pubblic da F. de Careil), p. 856. Us. dei prine. di Malehv. (od. Diitcns, t. 2. \). 1, 201)), De Ipsd nat. slce de vi ins. t. (Dut. t. 2, ]). 2, 51), De unleo opt., eatoptr. et dioplr. pruie. (l)iit. t. 8, p. 146), Teodie. Prefaz. (ed Jaccpies, t, 2, ]). ), Dise, della conform. della fede con la rag. 2, ecc. Saggi sulla bont di Dio, ecc. 41. (8) Ossercaz. sul Uh. di King, 14. 31 482 esistere, bisooua che si possa rendere ragione perch esse devono esistere cos e non altrimenti  . Alla prima qiiistione: Perch vi ha qualche cosa? si risponde che la ragione delTesistenza delie cose finite  in Dio, e la rag-ione dell' esitenza di Dio (dell' essere perfettissimo)  in lui stesso, nella sua essenza o nel suo concetto, in cui l'esistenza  necessariamente inclusa (l'argomento ontologico) . Alla seconda quistione: Perch le cose devono esistere cos e non altrimenti? risponde la teoria del migliore dei mondi possibili. * Segue dalla perfezione suprema di Dio che, producendo l'universo, egli ha scelto il miglior piano possibile, dove vi sia la pi grande variet col pi grande ordine: il terreno, il luogo, il tempo i meglio utilizzati: il pi di effetto prodotto per le vie pi semplici ; il pi di potenza, il pi di conoscenza, il pi di felicit e di bont nelle creature, che 1' universo ne poteva ammettere. Perch tutti i possibili pretendendo all'esistenza nell'intendimento di Dio, a proporzione delle loro perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve assere il mondo attuale ii pi perfetto che sia possibile. E senza ci non sarebbe possibile di rendere ragione perch le cose sono andate cos piuttosto che altrimenti. Si pu dire che, tosto che Dio ha deliberato di creare qualche cosa, vi ha una lotta fra tutti i possibili, tutti pretendendo all'esistenza (perch tutti i possibili non sono compatibili fra loro in uno Pric. delld nat. e della graz,, 7. Come si vede, hi ([iiistione: Perch vi ha lualche cosa? si riduce alla piistione: Perch Dio esiste? Questa quistione oltrepassa la ricerca delle cause efficienti (il perch dell' esistenza della causa prima non potendo essere la causa efficiente): ma nell'Append. a questo capit. noi vedremo come tale 'ezza. Di pi, secondo i principii di Leibnitz, la distinzione tra verit a priori e verit a posteriori non II 485 esiste che per la limitazione della nostra intelligenza: per se stesse, tutte le verit sono conoscibili a priori; per la stessa intelligenza limitata dell'uonio, non vi ha un limite fisso che segni sin dove s' estenda la possibilit di conoscere il reale razionalmentp; perci l'esser poste al di l o al di qua dei limiti della nostra vista intellettuale non pu apportare nelle cose stesse una differenza obbiettiva, qual , almeno secondo i metafisici, quella tra il contingente e il necessario. La stessa distinzione tra verit fondate sul principio di contraddizione e verit fondate sul principio di ragion sufficiente, svanisce, in ultima analisi, secondo i presupposti di Leibnitz: il principio di contraddizione  il fondamento ultimo, tanto del principio di ragion sufficiente , quanto delle verit fondate su questo principio. Ci non segue soltanto dalle considerazioni precedenti sulla dottrina del migliore dei mondi possibili, ma ancora dalla dottrina ])sicologica di Leibnitz, che ammette che tutte le verit razionali sono dimostrabili (col metodo sillogistico) , che non vi hanno altri principii immediati che le verit identiche , e che cos i principii d' indentit e di contraddizione sone la base unica di tutte le conoscenze a priori. V'ha chi crede,  vero, che Leibnitz deriva dal principio di contraddizione, non tutte le verit a priori, ma quelle sole ch'egli chiama necessarie nel senso stretto, quali le proposizioni della matematica pura: ma questa interpretazione sembrer una limitazione arbitraria del vero pensiero V. i 1. indicati nella ])rinia nota. /iJpist. ad R. P. Des Bosscs erfisiche, tanto l'azione di un corpo su di un altro o tra Tanima e il corpo quanto le azioni immanenti delle monadi e r azione creatrice della Monade^ suprema, |)erch per tutte vi ha una ragione a priori che pu spiegare perch ci deve esistere cos e noi altrimenti. 7. Con Locke la metafisica apriorista volge all'agnosticismo e allo scetticismo. Le speculazioni di Locke sulla natura della conoscenza, i suoi liniti e i gradi della certezza, quantunque le sue ricerche sulForigine delle idee, il suo sensismo, le abbiaio fatto [)assare in seconda linea, costituiscono non |)er tanto, nel pensiero dell'autore, l'oggetto principale del faggio sul V intendimento Hnano . Questa teoria della conoscenza  fondata sul presupposto della filosofia apriorista, cio che una conoscenza assoluta, adc^iuata, delle leggi delle cose sarebbe una conoscenza a priori, che lo s[)irito tirerebbe, non dall' osservazione dei fatti esteriori, ma dalla contemplazione e la compara/Jone delle sue [)roprie Gap. 8 e 4. Una cosa si dico che a:;iscc su to e alle cause fisiche cie Leibnitz d specialmente il nome di cause efficienti. V. Preambolo. Tsmsv!Ssmm 488 idee. Locke  senza dubbio uno dei promotori della filosofia dell'esperienza: ma se egii inculca il metodo sperimentale,  perch crede che i limiti stretti, dentro cui  circoscritta Tintelligenza umana, non le permettono di conseguire la conoscenza perfetta, cio la conoscenza a priori, che sola potrebbe dare al bisogno che ha di conoscere, una soddisfazione reale. Locke definisce la conoscenza la  percezione della convenienza o leo'ame o della disconvenienza o opposizione tra du(*, idee. Questa convenienza 0 discouvenieiiza pu essere percepita, sia comparando immediatamente le due idee l'una con l'altra, e allora la conoscenza  intuitiva  cosi che lo spirito vede che il bianco non  il nero, che un cerchio non  un triangolo, che tre  uguale a due pi uno sia mediante l'intervenzione di una o pi altre idee, che lo spirito paragona tra di loro e con quelle di cui vuole scoprire la convenienza o la discorivenienza, e allora la conoscenza  dimostrativa cos lo spirito, non potondo conoscere l'eguaglianza dei tre angoli di un triangolo a due retti, intuitivamente^ comparando insieme i tre angoli del triangolo e due retti,  obbligato di servirsi di altri angoli a cui i tre angoli del triangolo siano eguali, e trovando che questi sono eguali a due retti, egli conosce perci dimostrativamente che i tre angoli di un triangolo sono pure eguali a due retti . Ma il fondamento ultimo della conoscenza  sempre Vintuizione^ anche nella conoscenza dimostrativa, perch, a ciascun grado della deduzione, la connessione delle idee, la loro convenienza o di sconvenienza,  percepita d' una maniera intuitiva . Ecco dunque i due gradi della nostra conoscenza: Virftiiizione e la dimostrazione. Ci che non pu rapportarsi all' uno dei due,  fede 1 489 o opinione, e non conoscenza, almeno riguardo a tutte le verit generali ^1). Quando le idee di cui noi percepiamo la convenienza o la disconvenienza, sono astratte, la nostra conoscenza  universale. Perch ci che  conosciuto di questa sorta di idee generali, sarfi sempre vero di ciascuna cosa particolare, in cui questa essenza, cio quest'idea astratta, si trova racchiusa; e ci che  una volta conosciuto di quest'idee, sar continuamente ed eternamente vero. Cosi per ci che  di tutte le conoscenze generali,  nel nostro spirito che noi dobbiamo cercarle e trovarle unicamente, e non  che la considerazione delle nostre proprie idee che ce le fornisce.  Che la conoscenza a priori sia per Locke la sola conoscenza adequata, quella in cui si ha, per dir cos, la concidenza tra l'intelligenza e l'intelligibile, lo indica gi questa circostanza, eh' egli non accorda il nome di conoscenza che alla intuitiva e alla dimostrativa: la conoscenza sperimentale, induttiva, non  per lui una conoscenza. Locke suppone che vi hanno sempre nelle cose stesse delle connessioni necessarie e razionali, cio percettibili a priori, sia che il nostro spirito possa o no averne la percezione attuale. Cos egli definisce la verit: la denotazione in parole della convenienza o disconvenienza delle idee, quale essa  realmente . Nel giudizio o l'opinione facolt che ci  stata data per supplire al difetto della vera conoscenza, cio della conoscenza a priori lo spirito suppone che le idee convengano o disconvengano: egli non vede la convenienza 0 disconvenienza delle idee, ma presume che vi sia . L. ecc. L. ecc. L. 4 e. 2 v^ 14. (2^ L. L. Pare da ci che Locke consideri la convenienza e disconvenienze delle idee cio le loro connessioni e incompatibilit necessarie e razionali ossia intelligibili a priori come una propriet obbiettiva delle idee stesse, che esiste sia che noi possiamo scoprirla o no, della stessa maniera che i rapi)orti fra le g'randezze esistono, sia che noi le abbiamo misurate o no ; e che ea'li ammetta che questa propriet deve trovarsi sempre nelle idee, tutte le volte che vi ha una congiunzione costante o un'incompatibilit tra i fatti che queste idee rappresentano. Questa propriet noi la percepiamo nella cocoscenza a priori, cio intuitiva o dimostrativa, di una verit generale; nella conoscenza a posteriori o induttiva non la percet)iamo, ma siamo ridotti a presumerla. La limitazione della nostra conoscenza a priori prova la limitazione delle nostre facolt conoscitive nello stato di mediocrit in cui esse si trovano in questa vita. Tutte le conoscenze generali sul reale si riducono insomma per Locke a sapere che tali propriet coesistono costantemente con tali altre propriet in un sog-getto comune, poich l'idea che noi abbiamo di ciascuna specie di esseri, di ciascuna sostanza,  l'idea di un grappo di propriet o di attributi che coesistono costantemente in uno stesso sog-getto (propriet che per la massima parte sono le potenze attive e passive delle sostanze, cio la loro capacit di modificare d' una certa maniera altre sostanze o di esserne modificate) . Una conoscenza a f)riori delle leggi delle cose sarebbe dunque la conoscenza di una dipendenza naturale, di una connessione necessaria e razionale^ fra le propriet coesistenti il cui complesso costitusce la L. 4 e. 12 ^S 10. e. 11 ^^ ^. r(msibilit importa naturalmente per lui, come per tutti i metafisici, che vi ha l qualche cosa che noi non conosciamo, e che, se la conoscessimo, ci farebbe comprendere come e perch i fatti sono congiunti. Per conseguenza Locke ammette la dottrina che noi non conosciamo Vessenza rea^e delle cose. Egli distingue Vessenza reale e VessenyM nominale. L'essenza nominale  il complesso delle note che costituiscono il concetto di ciascun genere . L'essenza reale  il fondamento delle i)ropriet che appartengono al genere, il principio da cui esse derivano, in altri termini, ci che, se fosse conosciuto, spiegherebbe come e perch queste propri(it coesistono le une con le altre, come e perch sono unite in uno stesso soggetto . Ci che prova che l'essenza reale delle sostanze none la loro essenza L. 4 e.:? ^ 11, 12. ! l-"). ^'.  ^^ -' ^' 9. e. 9 vS 12, e. 10 21, 1. 4 e. 4 ^ 12, e. (> ^ 15. ecc. 492 nominale, ma qualche cosa di sconosciuto,  che noi non vediamo alcuna connessione tra le loro propriet, non comprendiamo cornee perch queste propriet coesistono o sono unite in uno stesso sog-g-etto, non possiamo dedurle a priori dall'essenza nominale, (dal concetto) della sostanza . L dove 1' essenza nominale e ressenza reale s'identificano (ci che non avviene mai nelle sostanze, ma soltanto nei modi), come p. e. nelle figure g-eometriche, noi possiamo dedurre a priori da un piccolo numero di propriet che facciamo entrare nella definizione o nel concetto della cosa, tutte le altre propriet che ad essa ai)parteng-ono (21  Ma nella ricerca che noi facciamo per perfezionare la conoscenza che possiamo avere d $ 9. ecc. L. 3 e. 3 $ 18, e. 5 14, e. 11 v^ V\, 1. 4 e. 12 $ 8-9, ecc. potrebbe appendermi; e non  che per delle esperienze che io posso conoscere certamente quali altre qualit coesistono con quelle della mia idea complessa.  . i: essenza reale (ch'egli chiama ^wvq costituzione reale) di una sostanza, di un genere di esseri reali,  dunque per Locke un principio sconosciuto, e inconoscibile, dal quale, se lo conoscessimo, noi potremmo dedurre, per il solo ragionamento, senz'alcun soccorso dell'esperienza, tutte le propriet che noi conosciamo o possiamo conoscere del genere . Per le diverse specie dei corpi, l'essenza reale  la costituzione interione delle loro parti insensibili : cos  da questa diversa costituzione che derivano e potrebbero essere dedotte tutte le propriet osservabili che appartengono ai diversi corpi, le quali consistono quasi unicamente, come abbiamo detto^ nelle loro potenze attive e j^assive, tra le quali bisogna pure contare le propriet sensibili (secondarie) che non sono nei corpi stessi che delle potenze d' impressionare d'una certa maniera i nostri sensi. Locke oppone questa dottrina a quella degli sco\s.st\ci(\eMe forme sostanziali: vi ha tra le due dottrine sulle essenze delle sostanze materiali questa differenza capitale, che mentre, secondo i peripatetici, ciascuna specie di sostanze ha una natura propria, ed  governata da leggi proprie, irriduttibili alle lei>"ii o-enerali della materia e del movimento, invece Locke ammette, con la maggior parte dei filosofi moderni, la teoria meccanica, che spiega le propriet speciali delle cose per le leggi generali del mondo materiale. Ma se h. 4 e. 12 9. V. oltre il luojro riportato e quelli citati nelle due note precedeuti, 1. 2 e. 31 ^S 10-11, 1. 3 e. 11 ^S 22-23, 1. 4. e. H. $ 11, 15, e. 12 ^ 12, ecc. L. 2 e. 31 ^ H, 1. 3. e. 3. 17-18, e. > $ 2, e. 6  evidentemente, per Locke, un'applicazione i)articolaie del principio, generale che le propriet delle cose derivano e potre1bero dedursi dalla loro essenza reale. Ci e tanto vero che egli non accorda a quest'ipotesi che una certezza inlV^riore a (piella della dottrina di una essenza reale sconosciuta: le })roi)riet dei diversi corpi dovendo certamente derivare da qualche principio sconosciuto, il pi lu'obabile  che questo principio sia la costituzione delle loro parti insensibili (V. 1. 4 e.:^ 11, ib. IH. ecc.) Il presupposto della dottrina dell' essenza reale, che vi ha per ciascuna sostanza un principio, dal quale, se fosse possibile di conoscerlo. potre])bero dedursi tutte le propriet di questa sostanza, reooe anche, secondo Locke, nell'ipotesi che l'essenza delle diverse specie di corpi si concepisca in un modo diverso da quello in cui egli stesso la concepisce (costituzione delle parti insensibili), per esempio nel modo in cui la concepiscono gli scolastici: anche in questo caso, bisognerebbe ammettere che tutte le propriet della specie potrebbero dedursi a priori dall'essenza (1. 2 e. 31 6, 1. 8 e.  19, 1. 4 e. 6. 5, ecc.) 495 ma oltre queste vi hanno le qualit e le potenze che l'oro ha in comune con gli altri corpi, in altri termini tutte le qualit e potenze la cui collezione costituisce il genere (la sostanza) corpo o materia. Questa collezione di propriet suppone, secondo i presupposti di Locke, una causa della loro unione, qualche cosa che potrebbe spiegare perch le une coesistono con le altre, un principio, infine, da cui tutte potrebbero dedursi. Ci che si  detto della collezione di i)ropriei che costituisce, per la nostra conoscenza, la sostanza corpo, deve dirsi similmente della collezione di propriet che costituisce la sostanza spirito. Per una conoscenza razionale delle stesse propriet distintive dell'oro, non basterebbe di conoscere Vessenza reale dell'oro, la costituzione delle sue parti insensibili, se noi non conoscessimo inoltre il principio, da cui derivano le qualit e le maniere d' agire e di patire, tanto della materia quanto dello spirito. Questa conoscenza razionale in civetto supporrebbe che noi conoscessimo (razionalmente, cio a priori) la connessione tra le propriet sensibili dell' oro e questa costituzione delle sue parti sensibili: ma perci dovremmo conoscere (sempre a priori) tutte le maniere di agire e di patire della materia, e la connessione che vi ha tra i movimenti della materia e le sensazioni che essi occasionano nello spirito . Ci che sarebbe impossibile^ nella ignoranza del principio, dal quale potrebbero dedursi le potenze e le operazioni, sia della materia, sia dello spirito. Cosi al di l dell' essenza reale che possiamo chiamare fisica (la costituzione delle part insensibili dei corpi), Locke ammette un' essenza reale, che possiamo chiamare metafisica ;  T essenza o costituzione interiore sconosciuta della materia e dello spirito, che naturalmente egli conclude dalla incomprensibilit L. ecc. delle potenze e operazioni di queste due sostanze , e che, conformemente alla sua dottrina generale sulla essenza reale, egli deve concepire come il principio di tutte le loro propriet, la cui conosceuza, se fosse possibile, trasformerebbe la conoscenza di queste propriet da empirica in a priori. Qui ci troviamo in presenza di un' altra dottrina trascendente di Locke, quella della sostanza^ dottrina i cui veri motivi noi siamo ridotti a congetturare, poich le spiegazioni dell'autore a questo riguardo sono, a mio credere, assai insufficienti. Locke ammette che, nelle nostre idee delle sostanze, vi ha, oltre il complesso delle loro propriet o attributi, l'idea oscura di un quid sconosciuto, in cui queste propriet ineriscono, ed  questo quid che egli chiama, nel senso stretto, la sostanza. Se noi gli domandiamo perch bisogni ammettere questa entit trascendente, egli risponde che questi attributi noi non potremmo concepirli senza qualche cosa a cui essi ineriscano; il che significa semplicemente che vi ha una necessit mentale che ci forza ad ammettere questa qualche cosa. Ma per far sentire questa necessit mentale a quelli che non l'avvertono, e ritengono semplicemente che una sostanza  il complesso dei suoi attributi (questa estensione, questa forma, questo colore, ecc.) avrebbe bisognato ([ualche spiegazione. Tuttavia Locke aggiunge un'altra indicazione: la sostanza non  solamente il substratum a cui le qualit ineriscono, ma  anche ci da cui queste qualit risultano, ci che costituisce il loro legame, che  la causa della loro unione o della loro coesistenza in uno stesso soggetto . Questo ci mostra che la dottrina della sostanza  legata a quella dell' essenza reale, e che, secondo Locke,  la na L. 2 e. 23 ^ 22-28. 1. 8 e. H $ 8. 1. 4 e. 3 ^ 28, ecc. L. 2 i\ 28 5> 1. G. 1. 3 e. (> 21, ecc. tura della sostanza, del substratum sconosciuto delle qualit, che  il principio ultimo da cui queste derivano e potrebbero dedursi. Vi hanno nondimeno delle ragioni per credere che la funzione del concetto trascendente della sostanza, in Locke, non sia unicamente questa, di darci una rappresentazione delle cose tale che si concepisca come esse possano conformarsi alla condizione che loro impone il principio della metafisica aprhrsta, alla condizione cio che le loro leggi siano conoscibili a priori (per un'intelligenza che fosse adequata all' intelligibile). Per la sostanza dello spirito almeno, non potrebbe dubitarsi che Locke non obbedisca alla tendenzanaturale che ci spinge ad immaginare un substratum, un quid permanente, a cui gli stati della coscienza ineriscano, dopo che abbiamo ammesso la separabilil dello spirito dal corpo (l). In quanto alla sostanza della materia, r asserzione s spesso ripetuta che noi non possiamo concepire le qualit tutte sole, senza qualche cosa a cui esse ineriscano, fa pensare che Locke ha probabilmente intraveduti^ la grande difficolt del concetto ordinario della materia, difficolt che consiste in questo, che, dopo aver soppresso le propriet sensibili (secondarie), ci che resta del corpo l'estensioae secondo irli uni, l'estensione e l'impenetrabilit secondo gli altri non  che un'astrazione, che  impossibile di rappresentarci come qualche cosa di concreto e di per s esistente, e che forza perci il metafisico a trascendere l'esperienza, per avere un che di concreto in cui quest'astrazione possa inesistere. Ma questa  una quistione che appartiene alla parte II. Sin qui dell' agnosticismo di Locke: passiamo ora al suo scetticismo, che  il lato della sua teoria della conoscenza, su cui egli insiste di pi, e per cui egli pu considerarsi come il precursore di Hume. V. Appcnd. (Illa 1 parte, e. 2. Dal principio che la conoscenza assolata, adequata, delle leg"g-i delle cose, la sola che meriti il nome di conoscenza,  la conoscenza a priori, cio intuitiva o dimostrativa, Locke ne conclude che 1' esperienza, l'induzione, non pu dare delle conoscenze generali che siano certe. In effetto, V evidenza delle conoscenze induttive  inferiore a quella delle conoscenze a priori: ne segue, se le conosce nze a priori sono le sole adequate, che la loro certezza  la sola adequata, e che la certezza delle conoscenze induttive non  adequata, non  certezza, come queste conoscenze non sono conoscenze. Il risultato di questo corollario del principio della metafisica apriorista, associato con la convinzione che le leggi del reale non possiamo conoscerle che per l'esperienza,  l'incertezza iella nostra conoscenza generale sugli esseri reali. Per mostrare quest'incertezza il ragionamento di Locke  sempre lo stesso: perch si possa assicurare che vi ha tra due fatti un legame costante,  necessario di percepire una connessione a priori, per intuizione o per dimostrazione, tra le idee di questi fatti; questa connessione non la vediamo quasi mai; dunque non possiamo quasi mai assicurare che vi ha tra due fatti un legame costante. Siccome ci che noi conosciamo degli esseri reali si riduce per Locke, come abbiamo detto, alla coesistenza d'un complesso di propriet o attributi in uno stesso soggetto, cosi le nostre conoscenze generali sul reale si riducono a sapere quali altri attributi (qualit o potenze) coesistono o no costantemente con quelli che costituiscono gi i nostri concetti, o come dice Locke, le nostre idee complesse, delle cose, vale a dire con quelli ehe entrano nei significati dei nomi dei generi, e che noi supponiamo trovarsi nelle cose, quando le chiamiamo con questi nomi. Ora questa parte della scienza umana , dice Locke,  molto limitata, e si riduce pressoch a 499 niente. La ragione di ci  che le idee semplici che compongono le nostre idee complesse delle sostanze, sono di tal natura che esse non portano con s alcun legame visibile e necessario o alcuna incompatibilit co^ii alcun' altra idea semplice, di cui vorremmo conoscere la coesistenza con 1' idea complessa che gi abbiamo  . In verit alcune poche delle qualit primarie (dei corpi) hanno una dipendenza necessaria e un visibile legame fra di loro ; cosi la figura suppone necessariamente 1' estensione, e la recezione o la comunicazione del movimento per via d'impulsione suppone la solidit. Ma quantunque vi sia una tale dipendenza tra queste idee, e forse tra alcune altre, ve ne ha per tanto si poche che abbiano una connessione visibile, che noi non potremmo scoprire per intuizione ^o per dimostrazione che la coesistenza di pochissime qualit che si trovano unite nelle sostanze ; di sorta che per conoscere quali qualit sono racchiuse nelle sostanze, non ci resta che il semplice soccorso dei sensi Cosi quantunque noi vediamo il color giallo, e troviamo, per esperienza, il peso, la malleabilit, la fusibilit e la fissit unite in un pezzo d' oro ; con tutto ci, poich ninna di queste idee non ha alcuna dipendenza visibile 0 alcun legame necessario con un'altra, noi non potremmo conoscere certamente che l, dove si trovano quattro di queste idee, la quinta deve esservi pure, per quanto probabile sia eh' essa vi  efl'ettivamente ; perch la pi grande probabilit non importa mai certezza, senza la quale non pu esservi alcuna vera conoscenza   Ogni oro  fisso,  una proposizione di cui non possiamo conoscere certamente la verit Se si prende la parola oro per L. 4 e. 3 par. 10. L. 4 e. 3 $ 14. una specie determinata dalla sua essenza nominale; che r essenza nominale sia p. e. V idea complessa d' un corpo d' un certo colore giallo, malleabile, fusibile e pi pesante che alcun altro corpo conosciuto^ alcun' altra qualit non pu essere universalmente affermata 0 negata con certezza dell'oro, se non ci che ha con questa essenza nominale una connessione o un'incompatibilit che si pu scoprire. La fissit, p. e., non avendo alcuna connessione necessaria col colore, il peso o alcun' altra idea semplice che entra nell' idea Complessa che noi abbiamo dell'oro, o con questa combinazione l'idee prese insieme,  impossibile che noi possiamo conoscere certamente la verit di questa proposizione : Che ogni oro  fisso Come non si pu scoprire alcun legame tra la fissit e il colore, il peso e le altre idee semplici dell'essenza nominale dell'oro che noi veniamo di proporre ; cos se noi facciamo che la nostra idea complessa dell' oro sia un corpo giallo, fusibile, duttile, pesante e fsso, noi saremo nella stessa incertezza riguardo alla sua capacit di essere disciolto neir acqua regia, e ci per la stessa ragione, perch, per la considerazione delle idee stesse, noi non possiamo mai affermare o negare con certezza di un corpo di cui l'idea complessa racchiude il color giallo, un gran peso, la duttilit, la fusibilit e la fissit, ch'esso pu essere disciolto nell'acqua regia; e cosi del resto delle sue altre qualit. Io vorrei ben vedere un'affermazione generale su qualche qualit dell'oro, di cui si possa essere certamente sicuri che  vera. Senza dubbio mi si replicher subito: ecco una proposizione universale affatto certa, ogni oro  malleabile. A che io rispondo: Questa , ne convengo, una proposizione certissima, se la malleabilit fa parte dell'idea complessa che la parola oro significa. Ma tutto ci che si afferma dell' oro in questo caso,  che questo suono significa 501 un'idea nella quale  racchiusa la malleabilit; specie di verit e di certezza in tutto simile a quest' affermazione Un centauro  un' animale a quattro piedi. Ma se la malleabilit non fa parte dell'essenza specifica significata dalla parola oro,  visibile che quest' aftermazione ogni oro  malleabile non  una proposizione certa; perch che l'idea complessa dell'oro sia composta di tali altre qualit che vi piacer supporre nell' oro, la malleabilit non parr dipendere da quest'idea complessa, n derivare da alcuna idea semplice che vi sia racchiusa Locke distingue le proposizioni in reali o istruttive e verbali o frivole. Queste ultime sono le proposizioni che Kant chiam analitiche, cio quelle in cui l'idea deir atributo era gi compresa nell'idea del soggetto: cosi se per la parola oro s' intende un corpo giallo, pesante, fusibile, e malleabile, dicendo: ogni oro  malleabile., la proposizione sar certa ma frivola, essa volger semplicemente sul significato del nome, senza estendere per niente la nostra conoscenza sulle cose. Ma se la malleabilit iion  compresa nelr idea sig-nifcata dal nome che fa da soggetto, se la proposizione ogni oro  malleabeli  sintetica, allora la proposizione  reale o istruttiva, ma non  certa. Ora  siccome noi non abbiamo che poco o putito conoscenza delle combinazioni d'idee semplici che esistono insieme nelle sostanze che perii mezzo dei nostri sensi (i quali non danno certezza che del particolare), noi non potremmo fare sul loro soggetto alcuna proposizione universale che sia certa, al d l del termine a cui le loro essenze nominali ci conducono; e siccome queste essenze nominali non si estendono che a un piccolo numero di verit, pochissimo importanti, avuto riguardo a quelle che dipendono dalle loro costituzioni reali, ne segue L. 4 e. (j ^ 8 e 9. che le proposizioni generali che si fanno sulle sostanze^, sono per la pi parte frivole, se sono certe ; e che se sono istruttive, sono incerte e di tal natura che noi non possiamo avere alcuna conoscenza della loro verit reale, qualunque sia il soccorso che delle osservazioni costanti e 1' analogia possano fornirci per fare delle congetture .  Le idee complesse che i nomi che^ noi diamo alle specie delle sostanze significano, sono delle collezioni di certe qualit che noi abbiamo osservate coesistere in un substratum sconosciuto che chiamiamo sostanza. Ma noi non potremmo conoscere certamente quali altre qualit coesistono necessariamente con tali conbinazioni ; a meno che non potessimo scoprire la loro dipendenza naturale, di cui non potremmo portare la conoscenza molto avanti rispetto alle loro prime qualit. E per tutte le loro seconde qualit, noi non vi possiamo assolutamente scoprire alcuna connessione, primo perch non conosciamo le costituzioni reali delle sostanze da cui dipende in particolare ciascuna seconda qualit ; e secondo perch, supposto che ci ci fosse conosciuto, non potrebbe servirci per una conoscenza universale, ma solo per una conoscenza sperimentale, non potendo estendersi con certezza al di l d'un tale o d'im tal altro esempio, perch il nostro intendimento non potrebbe scoprire alcuna connessione immaginabile tra una seconda qualit e una modificazione qualsiasi d' una delle prime qualit. Ecco perch non si possono fare sulle sostanze che pochissime proposizioni generali che portino con s una certezza indubitabile* .  Io credo per me che fra tutte le seconde qualit delle sostanze, e fra le potenze che vi si rapportano, non se ne potrebbero nominare due di cui la coesistenza L. 4 e. Vili, ^ 9. L. 4 e. VI, $ 7. WtiiiflIWIlimii TTIlll'nriliii Iluiniiiililinx.nrinr jti. 503 necessaria o 1' incompatibilit possa essere conosciuta certamente, fuorch nelle qualit che apjmrtengono allo stesso senso, le quali s'escludono necessariamente l'una con l'altra. Nessuno, io dico, pu conoscere certamente per il i-olore che  in un certo corpo, qual odore, qual gusto, qual suono o quali qualit tattili esso ha, n quali alterazioni  capace di fare su altri corpi o di ricevere per loro mezzo. Si pu dire la stessa cosa del suono, del gusto, ecc. Siccome i nomi generali di cui ci serviamo per designare le sostanze, significano delle collezioni di idee di questa sorta, non bisogna sorprendersi che noi non possiamo fare con questi nomi che pochissime proposizioni generali d'una certezza reale e indubitabile. Ma pertanto, allorch l'idea complessa di qualche sorta di sostanza contiene qualche idea semplice di cui si pu scoprire la coesistenza necessaria che  tra essa e qualche altra idea ; sin l si possono fare delle proposizioni universali che si ha dritto di riguardare come certe: se p. e. alcuno potesse scoprire una connessione necessaria tra la malleabilit e il colore o il peso dell'oro, o qualche altra parte dell'idea complessa che  designata da questo nome, egli potrebbe fare con certezza una proposizione universale sull'oro considerato sotto questo rapporto; e allora la verit reale di questa proposizione Ogni oro  malleabile sarebbe cos certa come la verit di questa / tre angoli di ogni triangolo rettilineo sono eguali a due retti  . Tutta la nostra conoscenza generale  unicamente racchiusa nei nostri propri pensieri, e non consiste che nella contemplazione delle nostre proprie idee astratte. Da per tutto ove noi percepiamo qualche convenienza 0 qualche disconvenienza fra di esse, noi vi abbiamo una conoscenza generale ; di sorta che facendo delle L. 4 0. VI $ 10. proposizioni, o unendo come bisogna i nomi di queste idee, noi possiamo pronunziare delle verit g*enerali con certezza. Ma perch nelle idee astratte che i nomi generali delle sostanze significano, quando hanno una significazione distinta e determinata, non si pu scoprire legame o incompatibilit che con pochissime altre idee; la certezza delle proposizioni universali che si possono fare sulle sostanze  estremamente limitata e difettosa nel ] ri nei pai punto delle ricerche che facciamo sul loro soggetto ; e fra i nomi delle sostanze appena ve ne ha un solo (che l'idea che gli si attacca sia ci che si vorr', di cui possiamo dire generalmente e con certerza che esso racchiude tale o tal altra qualit che abbia una coesistenza o un'incompatibilit costante con quest'idea per tutto ove essa si trova il). Ci che pu fornirci delle proposizioni universali di un'intera certezza sono solamente le idee che sono unite con la nostra essenza nominale o con alcuna delle sue parti, per dei leo'ami che si possono scoprire. Ma queste idee sono in s piccolo numero e di si poca importanza, che noi possiamo riguardare con ragione la nostra conoscenza generale sulle sostanze (io intendo una conoscenza certa) come pressoch niente del tutto Infine, per concludere ; cosi che finisce il capitolo sulla verit e la certezza delle proposizioni universali), le proposizioni generali, di qualunque specie esse siano, non sono capaci di certezza, che quando i termini, di cui sono composte, sigmificano delle idee di cui noi possiamo scoprire la convenienza e la disconvenienza secondo che vie espressa. E quando noi vediamo che le idee che questi termini significano, convengono o non convengono, secondo ch'essi sono affermati o negati l'uno dell'altro,  allora he noi siamo certi della verit o della falsit di queste L. 4 e. VI ^> 13. proposizioni. Donde noi possiamo inferire che una certezza generale non pu mai trovarsi che nelle nostre idee. Se noi r andiamo a cercare altrove, nelle esperienze o le osservazioni fuori di noi, allora la nostra conoscenza non si estende al di l degli esempi particolari.  la contemplazione delle nostre proprie idee astratte che sola pu fornirci una conoscenza generale . Ho voluto esporre con le parole stesse dell' autore le opinioni di Locke suU' incertezza delle conoscenze generali che l'uomo pu avere sul mondo reale, perch questo lato della sua teoria della conoscenza -che non  posto, a mio credere, abbastanza in rilievo nel concetto che il pi ordinariamente si ha della filosofia di Locke ha per noi quest'importanza, che vi possiamo, per dir cosi, prendere sul fatto (ci che non sempre si pu, quando si cerca la filiazione delle idee nei sistemi filosofici, in consequenza del carattere pi o meno incosciente delle inferenze dei metafisici) il rapporto fra lo scetticismo e il sofisma a priori del nostro spirito che  la base della metafsica apriorista. Certamente Locke non  uno scettico radicale, come i pirronisti o Hume: lo scettico radicale pretende mostrare che  impossibile allo spirito umano di formarsi una concenzione coerente delle cose, ch'esso  condannato ad invilupparsi da per tutto nella contraddizione e nel dubbio, e attacca le credenze naturali dell'uomo, come fa evidentemente Hume, non allo scopo di mostrarne la falsit, e di sostituire ad esse i risultati della riflessione filosofica ci che non sarebbe pi lo scetticismo, ma allo scopo di introdurre nello spirito r incertezza e l'esitazione al soggetto di queste credenze, e quindi di tutto ci che sembra all'uomo di sapere con pi certezza. Locke non fa cos: ma nondimeno le sue proposizioni sull'incertezza delle conoscenze L. 4. e. VI lo, IH. generali sugli esseri reali sono un vero scetticismo, perch esse si estendono a tutto il reale, involgendo in una comune incertezza tutta la conoscenza generale, e perci tutte le conoscenze d' inferenza, che V uomo ha e pu avere del reale, dell'esistente. La fisica, dice Locke, non  una scienza e non  suscettibile di divenirlo: niente di certo, con le facolt che abbiamo, siamo capaci di sapere dei corpi, e peggio ancora ci troviamo rapporto allo spirito e alle sue operazioni . Quando Locke attacca la certezza delle proposizioni generali sulle propriet delle specie particolari dei corpi, le sue conclusioni potrebbero essere ammesse, sino ad un certo punto, anche dai non scettici: potrebbe ammettersi, per esempio, che non  assolutamente certo che in un corpo, in cui si trova il color giallo e il peso dell'oro, la malleabilit, la fusibilit e la capacit di essere disciolto nell'acqua regia, si devono pure trovare le altre qualit e potenze dell'oro, non essendo contrario a delle uniformit assolutamente stabilite della natura che qualche nuovo corpo venga scoperto, simile in tutto all'oro in un gran numero di propriet, ma differente nelle altre . Ma bisogna o'uardare, non soltanto alla conclusione di Locke, ma anche al ragionamento per cui la stabilisce. Se Locke nega che si possa affermare generalmente che col colore, il peso e le altre propiet costituenti l'essenza nominale dell' oro coesistano altre propriet non comprese in questa essenza nominale,  perch egli non vede alcuna connessione a priori tra le idee di queste ultime e quelle delle prime. Ma lo stesso ragionamento invalida tutte le conoscenze generali che l' uomo ha o pu acquistare sulla natura, le quali sono tutte induttive e a posteriori. Cosi tutte le conoscenze che si hanno o L. 4 e. 3 ^ 2t, ^ 29, e. H v^ 14, e. 12 ^ 10, ecc. Mill Log. potranno aversi delle leggi primitive della natura, quali le leggi del movimento, la coesione della materia, le leggi dell' azione del corpo sullo spirito e dello spirito sul corpo, hanno per Locke la stessa incertezza, per la ragione che sono (o saranno) delle verit induttive, e non a priori . Lo scetticismo di Locke  coestensivo al suo agnosticismo: quando un rapporto costante tra i fenomeni sembra inconprensibile (nel senso metafisico), egli nega che si possa assicurare la costanza di questo rapporto; l'incomprensibilit del modo essenziale e l'incertezza del modo fenomenale di produzione dei fenomeni, delle loro leggi, vanno sempre insieme, per Locke; perch la certezza, egualmente che la comprensibilit^ d'una verit geiii'rale consiste per lui nella sua suscettibilit di essere da noi conosciuta a priori. Ora l'agnosticismo di Locke non pu al fondo differire, nella sua estensione, da quello degli altri filosofi che hanno abbracciato lo stesso sistema, per esempio gli odierni positivisti (questo sistema non essendo arbitrario, ma fondato sulla natura stessa della nostra intelligenza): tutti i fenomeni devono 30s sembrare a Locke incomprensibili (nel modo essenziale della loro produzione], e perci ancora tutte le leggi dei fenomeni incerte. Locke,  vero, fa menzione, come di casi eccezionali, di alcune verit generali sul reale che noi possiamo conoscere per la visibile connessione tra le idee, a priori (e di cui per conseguenza possiamo essere sicuri): a quelle di cui si parla nei passi che abbiamo riportati, bisogna aggiungere l'impenetrabilit della materia , la capacit dei corpi di muovere e di esser mossi per mezzo dell'impulsione, la divisione delle loro parti per conseguenza V. notevolmente 1. 4 e. III. J 29. L. 4, VII, 5. 50S 509 deirintrusioiie di altri corpi , e forse alcune altre simili . Alcune di queste verit sono di quelle che Locke chiama frivole; tale  l'affermazione che la fig'ura suppone r estensione ; quelle che sono istruttive aflfer J.. 4. HI. 18. Al soi^oetto della eoinuiiicazione del nioviiiieiito jier l'inipulsioiie Locke sembra eoiitraddirsi. perdio talvolta ne ]arla come di una veritj a [n-ioii (1. e), talvolta come di un fatto puramente empire*, e [uinili incomprensibile e incerto come verit .nenerale (v. 1. 2 e. 28 par. 28-29: l. i e. 8 par. 29). Quest'apparente contraddizione si spiega per un'osservazione che abbiamo fatto nel cap. IV: ([uando Locke vede nell'impulsione una verit a priori (e per conse;uenza conp)rensibile e certa), ei;li juMisa al fatto della nostra esperienza prescientitica e familiare, senza tener conto della le;e, scoverta dalla scienza, seconde cui la forza passa dal corpo urtante al corpo urtato; ed ^ (piando pensa a (piesta leinge, che Q*f\ vedo nella comunicazione del movinu'uto dal corpo urtante al corjK) urtato una verit empirica (e per conseuenza incom[>ren8bile e incerta). Questo scambio dei risultati deiresi>erienza pifi familiare per verit a priori non e, iy Locke, la sola estensione illegittima che egli d al lominio deira])riori. Locke crede che il metodo dimostrativo e applicabile anche fuori della matematica. Ma su (piesto impiego illegittimo del metodo a priori, ci che vi ha in lui di preciso si riduce, io credo, all'atfermazione che la morale  dimostrabile, e alla sua pretesa di provare dimostrativamente l'evsistenza di Dio. La i>rima di ([ueste due opinioni ^ una delle forme del concetto della morale assoluta di cui parleremo nella jiarte III: essa non ap])lica il metodo a priori allji conoscenza del reale, di ci che  (ma di ci che deve essere), e non appartiene a (piella classe  E passando dall'esame delle azioni degli oggetti esteriori a quello degli atti volontari, confuta l'opinione che la coscienza percepisca il potere o V energia (efficienza causale) della volont, per la ragione * che V influenza delle volizioni sugli organi corporali  un fatto conosciuto per esperienza, come tutte le operazioni della natura,e che non si avrebbe mai potuto prevedere questo fatto nell' energia della sua causa;  che noi non potremmo, indipendentemente dall'esperienza, conoscere i limiti dell'impero della volont sugli organi, e rendercene ragione; che, se sentissimo il potere primordiale della volont, dovremmo conoscere per ci stesso il suo effetto immediato (che non  il movimento voluto, ma un altro, non sappiamo quale, di cui il movimento voluto  l'effetto ultimo). Il sentimento dello sforzo che noi facciamo per vincere una resistenza, non pu darci l'idea di forza o di potere, perch * noi sappiamo per esperienza ci che risulta da questo sentimento, ma  impossibile di saperlo a priori . Infine, noi non percepiamo nemmeno il potere efficace della volont nell'influenza ch'essa esercita sul corso delle nostre idee e sulle nostre facolt mentali, perch in questo, come negli altri avvenimenti naturali,  l'osservazionee l'esperienza sono le sole guide che abbiamo*:  per la sola esperienza, p. e., che possiamo scoprire i limiti dell' impero che 1' anima ha su se stessa, come di (inolio che essa ha sul corpo,  non  ragionando n per la contemplazione della natura delle cause e degli effetti  . Hiiiiio ritinta la ((uaiit di verit a priori anche a qnelle cansa/ioni familiari da cni ci viene l'idea di cansalit efficiente: nna di [ncste causazioni . cio il movimento d' una palla per l'urto d'un' altra palla,  appunto uno dei suoi esempi favoriti ]>er mostrare che tutte le relazioni tra le cause e rincipio  un' induzione tirata dalle nostre esperienze sulle connessioni pi familiari tra le cause e j^li effetti. Ora se Hume riconosce che queste connessioni sono conosciute dalla sola esperienza, come pu inferire da esse che tutte le connessioni fra le cause (efficienti) e "li effetti devono essere conoscibili a priori? Ma se si rifletter al reale ]U"ocesso psicoloj^ico dell' inferenza di Hume, si vedr che questa difficolt non  che apparente. Prima di tutto bisogna fare una distinzione: l'inferenza immediata di Hume e ne efticiente  Qui nd siamo in presenza Iella grande lifficolt he. c>me abbiamo detto altra v>lta,  il ])rincipale )stacol> che impMlisce di com])rengico per cui nasce e si sviluppa la nozione li causa efficiente. Ma noi abbiamo gi risolut) questa difficdt: ab)iani) gi si)iegato iu'st) fatto l>arad)ssastico apparentemente incompatibile con )gni spiegazione empirica dell'origine della nozione di causalit efficiente che le causazioni stesse, le inali, secondo n)i, -jstituiscono la base empirica d(^\V inferenza incosciente per cui ammettianu) il jn-incipic di causalit efficiente, cessano di sembrarci Ielle causazinii efficienti, e li ventano incomjirensijili c>me tutte le altre e tali da esigere una causazione reramcnte efficiente conu' intermediari> esjilicativo (vedi capitd>  questo fatto che si verifica in Hume: come la pi parte lei filosofi mMl*rni . egli esclude dalla classe Ielle causazi)ni efficienti tutte le causazioni empiriche (piantuniue la nozi)ne di causazitnie efficiente non ha potuto venirgli che da alcune di lueste causazini empiriche) : e sicctnne la forma della necessit e dell'evidenza legame necessario tra la causa e l' effetto ; e conclude che tutte le volte che noi parliamo di legame tra 1 a causa e l'effetto, noi non intendiamo altra cosa, oltre la sequenza costante tra due avvenimenti, che il legam'e tra le idee di questi avvenimenti costituito da una esperienza uniforme, per cui possiamo predire il secondo air apparizione del primo ; e che il rapporto che  tra la causa e 1' effetto non pu essere considerato che di queste due maniere, e noi non ne abbiamo altra idea. Non vi ha dubbio che la conseguenza logica d queste proposizioni non sia la dottrina che gl'interpreti di cui parliamo attribuiscono a Hume: ma, come abbiamo detto, Hume professa costantemente la dottrina contraria, cio che le cause empiriche, quelle che non sono se non gli antecedenti a cui gli avvenimenti seguono costantemente, non sono le vere cause produttrici di questi avvenimenti , e che l'efficienza causale, la connessione tra la causa e l'effetto, quantunque 1' esperienza non ce ne mostri alcun esempio,  qualche cosa di pi di una semplice congiunzione (sequenza) costante tra due fenomeni. Le conclusioni del 7 Saggio, che paiono, e a rigor di logica sono, distruttive di ogni efficienza causale, sono in contraddizione con le premesse stesse su cui Hume le stabilisce. Nella I parte del Saggio, egli vuol provare che tutte le idee che l'esperienza pu intrinseca (caratteri della oausazioue efficiente), oltre che nelle causazioni pi familiari, che ej^li ha escluso dalla classe delle causazioni efficienti, non si trova (piasi esclusivamente che nelle verit a priori o che Hume ritiene ancora tali, cos  in questa classe di verit che ej;li colloca le causazioni efficienti (s'intende nella supposizione che esse potessero diventare oggetti di conoscenza). Nel 4 Saggio, 1 parte, chiama le cause dell'esperienza pretese cause. darci della causalit si riducono a quella di una sequenza costante: ora in questa dimostrazione egli suppone sempre che vi ha tra le vere cause produttrici e i loro effetti un legame pi intimo che non sia quello di una semplice sequenza costante (legame che il pensiero potrebbe scoprire a priori nelle cause stesse, se potesse contemplare le vere cause), quantunque esso sia inaccessibile air esperienza.   invano che noi giriamo i nostri sguardi sugli oggetti che ci circondano, per considerarne le operazioni ; noi non siamo perci pi in grado di scoprire questo potere, questo legame necessario, questa qualit che unisce l'effetto alla causa, e rende l'una di queste cose il seguito infallibile dell'altra; noi vediamo ch'esse si seguono, ed  tutto ci che vediamo.  La scena dell'universo  soggetta a un cangiamento perpetuo; gli oggetti si seguono in una successione continua ; ma il potere o la forza che anima la macchina intera, si cela ai nostri sguardi. >^ Questa tesi, che 1' esperienza non e' istruisce mai del legame che rende inseparabili gli avvenimenti che si seguono; che il potere che realizza gli effetti, l' energia da cui essi procedono, non ci  mai manifestata ; che in tutte le operazioni della natura, il modo in cui esse si compiono  incomprensibile e misterioso; Hume la dimostra, esaminando le azioni degli oggetti esteriori, quelle dell'anima sul corpo e dell'anima su se stessa, e si riassume cos:  Non pare che alcuna operazione corporale in particolare possa farci concepire la forza agente delle cause, o il rapporto ch'esse hanno coi loro effetti. Tutto ci che le nostre ricerche pi profonde ci scoprono su questo punt, sono degli avvenimenti al seguito d' altri avvenimenti. La stessa difficolt ritorna, quando contempliamo le operazioni'dell'anima sul corpo: noi osserviamo il movimento al seguito della volizione ; ma il legame che li unisce, o l'energia che l'anima spiega nella prdazione deireffetto,  ci che non potremmo ne osservare n com|)rendere. L'impero dell'anima sulle sue proprie facolt o sulle sue idee non  concepibile. Cos tutto sommato, la natura non ci offre un solo esempio di legame da cui potessimo prendere 1' idea. Tutti g\ avveniuenti sembrano essere scuciti e staccati gli tini dagli altri: essi si seguono, in verit, ma senza che osserviamo il minimo legame fra di loro: noi li vediamc, per dir cos, in congiunzione, ma non mai in connessione. Ma tutto ci  impossibile di metterlo d'accordo con la conclusione di tutto il Sao'gio: se noi non abbiamo altra idea della connessione tra la causa e l'effetto che quella di una sequenza costante tra due avvcMiimenti, e del legame mentale empirico fra questi avvv'iiimenti che ci permette d'inferire l'uno dall'altro, Ihime dovrebbe vedere anche in connessione gli avvenimenti che egli non vede che in congiunzione, perch essi si seguono costantemente, e noi |)ossiamo inferirli gli uni dagli altri; il potere che realizza gli effetti sarebbe manifesto tutte le volte che noi abbiamo costatato gli antecedenti a cui questi effetti seguono costantemente ; sarebbe inutile d'immaginare, per ispiegare questi eff'etti, delle cause sconosciute o un potere secreto nelle cause conosciute; ne si saprebbe, infine, perch Hume neghi alle cause dell' esperienza il carattere di cause veramente produttrici dei loro effetti, per la ragione che da queste cause noi non potremmo inferire questi effetti a priori, ina soltanto dopo le lezioni dell' esperienza. Vi hanno dunque in Hume due dottrine distinte sulla causalit, la dottrina psicologica sull'idea di causalit e la dottrina ontologica sulle cause: la prima  la teoria empirista^ che riduce l'idea di causalit a quella di sequenza invariabile; la seconda  la teoria metafisica^ che ammette delle cause, tra cui e gli effetti vi ha un legame pi intimo che quello di una semplice sequenza invariabile. Le due dottrine contraddicono l'una all'altra, ma Hume mantiene l'una e l'altra. E che egli non intende sacrificare la dottrina ontologica alla psicologica, si rileva anche dalle parole che seguono le proposizioni in cui egli stabilisce quest' ultima:  Vi ha un esempio pi colpente della nostra ignoranza e della sorprendente debolezza dell'intendimento umano? Sicuramente se vi ha tra gli oggetti un rapporto di cui c'importa d'essere istruiti,  quello di causa e d' effetto Tuttavia talee l'imperfezione delle idee che ne abbiamo, che  impossibile di ben definire cosa  causa, senza imprestare questa definizione da qualche cosa di estraneo al soggetto. Gli oggetti similari sono sempre congiunti a degli oggetti similari; prima esperienza che ci serve a definire la causa: un oggetto talmente seguito da un altro oggetto, che tutti gli oggetti simili al primo siano seguiti da oggetti simili al secondo. La vista d'una causa conduce l'anima, per il suo passaggio abituale, all'idea dell'effetto ; seconda esperienza che fornisce una seconda definizione: la causa  un oggetto talmente seguito da un altro oggetto, che la presciza del primo faccia sempre pensare al secondo. Queste definizioni sono prese tutte e due da circostanze estranee alla natura delle cause:  un inconveniente senza rimedio; non vi ha mezzo di pervenire a una definizione pi esatta, e noi non potremmo determinare (juesta circostanza che lega le cause agli effetti. Non solo noi non abbiamo idea di questa connessione; noi non sappiamo nemmeno ci che desideriamo di conoscere, quando ci sforziamo di concepirla. Questa contraddizione del resto, questa perplessit, non deve sorprendere in uno scettico come Hume. Uno dei caratteri dello scetticismo -e segnatamente di quello di Hume  l'opposizione tra le credenze naturali dell'uomo e i risultati della riflessione scientifica. Lo scettico non prende partito n per le une n per g^li altri, e nemmeno intende di conciliarli, quando vi ha contraddizione fra le une e gli altri: cos, nella quistione del mondo esteriore, Hume ammette la credenza naturale che le cose materiali esistono per se stesse e sono indipendenti dai nostri sensi, e al tempo stesso la validit delle obbiezioni dei fenomenisti (o, come sono detti ordinariamente, seguaci di Berkeley) contro questa credenza. Cos fa pure nelle quistione della causalit: egli ammette al tempo stesso la credenza naturale delle cause efficienti, e la vera teoria psicologica suU' idea di causalit, che tende alla distruzione di questa credenza. Si potrebbe cercare di eliminare questa contraddizione di Hume, ammettendo che tutto ci che egli dice delle forze secrete produttrici degli avvenimenti e di un legame tra le cause e gli effetti che  qualche cosa di pi di una sequenza costante, sia, non il suo vero pensiero, ma una concessione che egli fa alle opinioni dominanti. Ma questo metodo d'interpretazione, che cercherebbe di eliminare le contraddizioni di Hume, arriverebbe a una radicale trasformazione della sua tilosofia, in nn senso affatto contrario al concetto tradizionale che se ne ha, e al senso letterale delle sue proposizioni, su cui questo concetto  fondato. Si avrebbe altrettanta ragione di vedere un semplice accomodamento alle opinioni dominanti, lontano dal vero pensiero dell'autore, nelle proposizioni di Hume implicanti l'ammissione di un mondo esteriore indipendente, quanta se ne avrebbe di vederlo in quelle implicanti l'ammissione di cause efficienti distinte dai semplici antecendenti costanti dei fenomeni. E se nella quistione del mondo esteriore, si fa di Hume, non uno scetttico, ma un fnomenista, alla maniera di Stuart Mill e di Bain, non si dovr, se si vorr essere coerenti, cessare di considerare come scettica la filosofia di Hume in generale? Questa  l'opinione a cui inclinerebbe Stuart Mill ; ma egli stesso confessa che sarebbe difficile di provarla d'una maniera decisiva. Io credo per me che si deve respingere come arbitraria ogn' interpretazione di un sistema filosofico, che presterebbe all'autore delle dottrine contrarie a quelle che egli esplicitamente professa. Noi lasceremo dunque a Hume le sue contraddizioni, e ci terremo all' opinione tradizionale che lo considera come uno scettico. Ma quest'opinione deve essere riformata nella parte che riguarda i motivi o la genesi di questo scetticismo. I metafisici hanno visto nello scetticismo di Hume una conseguenza del suo empirismo: ma gli sviluppi pi recenti dell'empirismo mostrano che non vi ha fra di esso e lo scetticismo una connessione naturale. Hume  uno scettico, non perch egli  un empirista, ma perch il suo empirismo si ferma a mezza via. Se, per esempio, egli  uno scettico nella quistione del mondo esteriore,  perch non si risolve ad abbracciare la concezione rigorosamente empirista, il fenomenismo di Mill e di Bain, che risolve gli oggetti materiali in sensazioni e possibilit di sensazioni. Cosi ancora, se egli rende sospette tutte le conoscenze d'inferenza sul reale, non  perch rigetti, come gli rimproverano i metafisici, le pretese verit a priori, ma perch ammette i presupposti della filosofia apriorista. Per lui, come per i metafisici aprioristi, la vera conoscenza  una conoscenza a priori , ci che, come sappiamo,  una conseguenza del principio che il legame V. Filos. di Hamilton, o. trad. frane V. fra gli altri Hegel Introd. alVEnciel., , e Rosmini N, S. sulVorig. delle id., . Le  vere scienze , le  scienze propriamente dette , sono le dimostrative, cio le matematiche pure (Saggio sulla filos. accad., verso la tne). Hfmtm tra le cause efficienti e durranno sempre ^H stessi effetti t Ei^pnre se vi lianno ne-li a/vor/ della metafisica apriorista. Per Hume, come per i metatsici aprioristi, la conoscenza adequata e la certezza non si otterrebbe che per r assimilazione della forma delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in generale alla forma delle conoscenze delle connessioni pi familiari. Quest'assimilazione non sarebbe possibile che in tre ipotesi: 1. Che noi conoscessimo le cause effdenti dei fenomeni, tra cui e i loro effetti noi vedremmo una connessione a priori. Sarebbe la conoscenza assoluta, che ci darebbe al tempo stesso la spiegazione completa e la completa certezza. La prima parte del Saggio, nella quale l'autore, dopo aver mostrato l'inqossibilit di scoprire A PRIORI il rapporto tra le cause e gli effetti, ne deduce che le cause efficienti ^ono inconoscibili, ha per oggetto di respingere questa l^Mpotesi. 2. Che noi conoscessimo a priori la coesistenza di tali qualit sensibili e tali forze secrete (di tali cause fisiche e tali cause effidentiy, in altri termini, che noi colon lo stesso dritto eoa cui Hume dnlita della coesistenza nniforme tra propriet scnsildli simili ne^^li agenti tsici e forze seeret^ simili. potrelde anclic dubitarsi della relazi(nie uniforme tra forze secrete simili ed effetti simili. Ma Hume trova indnbitahile che le stesse forze secrete protlurranno gli stessi effetti, perch egli suppone che la relazione tra (pieste forze e i loro effetti sarehe conosciuta a priori, [uirch conoscessimo (Queste forze: e il suo dubbio non si estende che alle relazioni tra le cause e gli effetti tra cui non vi ha clu* una connessione em l)irica. 534 iK^cessinio a priori che tali cause fisiche sono capaci d produrre tali effetti, ma senza conoscere il meccanismo per cui li producono, cio le cause efficienti. La conoscenza allora non sarebbe assoluta come nella 1'^ ipotesi: rassimilazioue al tipo sarebbe meno completa; ma essa sarebbe ancora tanta da aversi, non solo la certezza, ma ancora in certo modo una spiegazione dei fenomeni. QuestMpotesi  respinta nella 2^^ parte del Saggio. 3^ Che si potesse almeno t^mo.sfmre che il corso della natura  uniforme, che l'avvenire somiglier al passato, il non sperimentato allo sperimentato. In quest'ipotesi, non avremmo pi una spiegazione dei fenomeni; l'assimilazione al tipo non raggiungerebbe che lo scopo di elevare il grado di evidenza delle conoscenze sperimentali, che da induttive diverrebbero dimostrate (l' evidenza delle verit dimostrate somiglia pi air evidenza tipo^ che  intuitiva, che quella delle verit induttive) Rigettando queste tre ipotesi, Hume mostra l'impossibilit dell'assimilazione cercata, e quindi l'incertezza della conoscenza. Da ci che  stato detto di Loche e di Hume, abbiamo il dritto d' inferire che una delle sorgenti dello scetticismo questo fenomeno dello spirito umano non meno naturale e costante della metafisica, eh' esso accompagna come il rovescio accompagna il dritto  questa tendenza del nostro spirito, su cui  fondata la metafisica apriorista, per cui egli si sforza di assimilare la forma delle conoscenze delle connessioni dei fenomeni in venerale, alla forma delle conoscenze delle connessioni pi familiari. Questa tendenza ha per risultato di proporsi (quantunque d una maniera pi o meno incosciente) l'evidenza di queste ultime conoscenze come tipo unico a cui la certezza di tutte le conoscenze deve essere misurata. Una delle sorgenti dello scetticismo  il sentimento dell' impotenza dello spirito a realizzare l'assi 535 milazione cercata, della disparit tra la conoscenza e l'evidenza a cui si perviene e la conoscenza e l'evidenza a cui si aspira.  verisimile che non vi sarebbe pessimismo, se l'uomo non nascesse assurdamente ottimista: il pessimismo risulta dalla delusione di questa tendenza all'ottimismo innata al nostro spirito. Io non dir che lo scetticismo risulta parimenti dalla delusione di questa tendenza naturale, se non innata, al nostro spirito, a cercare un' evidenza superiore a quella a cui pu pervenire : il parallelismo non sarebbe esatto, perch, se questo  uno dei motivi dello scetticismo, non  il motivo unico. Gli altri motivi li incontreremo nelle parti seguenti di questo Saggio, poich, come vedremo, le soro-enti da cui deriva lo scetticismo sono, al fondo, le stesse sorgenti da cui deriva la uetafsica. Kant fonda tutto Tedifizio della sua Critica sul principio che l'esperienza non pu dare origine a proposizioni necessarie e rigorosamente universali. Questo principio comune per altro a quasi tutti i psicologi che non ammettono la teoria dell'esperienza-, nella parte che nega l'universalit rigorosa di qualsiasi proposione a posteriori, un prodotto della metafisica apriorista, derivante dalla stessa sorgente da cui lo scetticismo di Locke e di Hume sulle conoscenze generali di origine empirica, con cui esso ha l'analogia pi evidente.  per una conseguenza di questo principio che Kant esio-e che la conoscenza filosofica, la quale deve stabilire i fondamenti e i primi principii di tutte le conoscenze, sia una conoscenza a priori, e che egli d perci come tale la Critica della ragion pura e tutte le altre parti della sua propria filosofia. Questa preten Cvit. della rag. pura Introd. n. II. Crit. della rag. pura, Metodologia e. . Per ci che ri 53G sione (li Kant, che la sua filosofa  un sistema di conoscenze a priori, , senza dubbio, infondata; il punto di partenza della Critica sono delle osservazioni sui giudizi, sui concetti, sulle intuizioni, ecc., cio dei fatti dell'esperienza interna, e dei fatti g-cnerali, la cui generalizzazione non pu essere che un processo d'induzione. Ci basta a provare che il metodo che Kant ha effettivamente seguito non  quel metodo interamente a priori ch'egli ha preteso di seguire; ma per confessare che i risultati a cui egli perveniva avevano per fondamento l'esperienza e l'induzione, Kant avrebbe dovuto o rinunziare alla certezza apodittica ch^egli reclamava per essi, o rinunziare al principio che l'esperienza non pu dare delle conoscenze generali rigorose, Dei due scopi della metafisica apriorista, il prima, rio ch(  d'introdurre tra i fatti dei legami razionaU e necessari, e il secondario che  di elevare il grado di certezza delle conoscenze, Kant non pu avere di mira che quest'ultimo, quando egli reclama per la sua filosofia la qualit di scienza a priori: noi non potremmo attrilmir-li anche il primo, se non nel caso che egli si proponesse, ci che non fa, di costruire, a priori, senza niente ammettere come dato, le leggi del soggetto conoscente, e, in generale, le leggi dei fatti che formano l'ooo-etto delle sue ricerche filosofiche, come poi fecero i suoi successori a cominciare da Fichte. Tuttavia vi ha una parte dell'opera filosofica di Kant, in cui  evidente anche lo scopo primario della metafisica apriorista : sono gli FAementi metafisici della scienza della natura, guesti contengono una fisica i)um, una teoria della materia e del movimento realmente a priori, in cui non si accetta dall'esperienza che il concetto della o;nnnla la Ciitira (h'Ua ra-ionc pura. v. anche Prcfaz. alla 1 ediz. verso la mota, e Prefaz. alla 2 (mHz. vorso la tino. materia, come una estensione mobile ed impenetrabile: Kant vi segue il metodo geometrico, [)rocedendo per assiomi, definizioni e teoremi con la loro dimostrazione, e vi deduce a priori, oltre la sua teoria personale sulla costituzione della materia, il principio della conservazione della massa, il principio d'inerzia e le altre leggi del moviniento, e sinanche la legge newtoniana dell'attrazione. ^ 12. Fichte, Schelling, Hegel. Tutti sanno clu^ questi filosofi rappresentano il periodo, per dir cos, acuto della speculazione a priori. Bisogna per guardarsi -e la stessa osservazione conviene su per gi per tutti i metafisici aprioristi -dal malinteso di credere che questi filosofi fossero tanto assurdi da ritenere che per ottenere la scienza essi potessero dispensarsi di consultare i fatti, e bastasse di contemplare i propri pensieri. Non si tratta, dice Schelling, di passarsi dell'esperienza, e di costruire la natura con semplici idee; perch noi non sappiamo niente che per 1' esperienza; ma si tratta di trasformare le conoscenze sperimentali in un sapere a priori, dandosi la coscienza della loro necessit razionale a;. Lo stesso press'a poco dice Hegel: La filosofia ha per punto di partenza l'esperienza, e il suo contenuto non  che quello delle scienze sperimentali; ma al contenuto di queste scienze essa d la forma che le  propria, cio la forma di conoscenza necessaria ed a priori . Su questi filosofi saremo brevi: noi supporremo * le loro dottrine conosciute i pochi cenni che noi potremmo darne sarebbero inintellioibili per quelli che gi non le conoscessero -e ci limiteremo a indicare il loro rapporto con la sofistica naturale dei nostro spirito. Ci stesso, nel presente capitolo, non possiamo farlo che fntroduz. alla filoa. della natura. Introduz. aWeneu'lop. 12. d'una maniera incompleta, e anticipando sul seguente; la suddivisione della metafisica apriorista, di cui queste dottrine fanno parte, appartenendo propriamente all'argomento di quest'altro capitolo. La prima osservazione che ci si presenta su questi sistemi  il legame intimo tra la spiegazione idealista e il metodo a priori. Kant avea dato il suo idealismo per una risposta alla quistione: Com' possibile la conoscenza a priori? Questa conoscenza  possibile, rispondeva Kant, perch  il pensiero che d le leggi alle cose. I limiti della conoscenza a priori erano dunque, secondo Kant, i limiti della parte che ha il pensiero nella formazione del mondo dei fenomeni; e l'opposizione tra r a priori e 1' empirico corrispondeva all' opposizione tra il soggetto e l'oggetto, tra la forma, ingenita al soggetto, e la materia, data dal di fuori. Nell'idealismo post kantiano, caduto il dualismo del soggetto e r oggetto, della forma e la materia, cadeva al tempo stesso la separa'.ione dei due domini della conoscenza empirica e dell'apriori; il dominio della prima era assorbito in quello della seconda, come l'oggetto era assorbito nel soggetto. Tutte le leggi del mondo reale noi possiamo leggerle, dice Fichte, nel nostro proprio pensiero ; la natura non ha mistero si oscuro, piega si nascosta, che non ci sia dato di penetrarvi, perch le sue leggi le sono imposte dal nostro pensiero D'altra parte, il carattere particolare dell' idealismo post kantiano  ch'esso fa dell'attivit logica del pensiero nel senso che abbiamo spiegato, la forza produttice di tutte le cose: donde segue che spiegare le cose, descrivere il meccanismo della loro produzione,  costruirle a priori. Cosi l'idealismo e l'a Destinai. delVnono. tiad. fniiic. di Barchou de Penhoen, 2 odiz. !>. . priorismo sono, in questi sistemi, alternativamente prin^ cipio e conseguenza l'uno dell'altro; perch, come il loro idealismo importa una costruzione a priori delle cose, cosi la possibilit di una assoluta conoscenza a priori delle cose importa, conformemente alla spiegazione di Kant dei giudizi sintetici a priori, un idealismo egualmente assoluto. Se ora ci si domanda se, volendo spiegare la formazione dei sistemi, bisogna derivare il loro Tdealismo dal loro apriorismo, o piuttosto il loro apriorismo dal loro idealismo, risponderemo che non bisogna fare n l'una n l'altra cosa. Tanto l'idealismo, quanto l'apriorismo, hanno per questi filosofi un valore ciascuno per se stesso, e non come semplice conseguenza di un principio prestabilito: ci che basta a provarlo  la possibilit di derivare direttamente tanto l'uno quanto l'altro dalle sorgenti generali dei concetti metafisici. Ci che caratterizza la filosofia tedesca, dominante da Fichte ad Hegel, , come disse Cousin, con l'approvazione dello stesso Schelling, che essa aspira a riprodurre nelle sue concezioni l'ordine stesso delle cose ; in altri termini che, per questi filosofi, come per Spinoza, l'ordine (^ la connessione delle idee sono identici all'ordine e la connessione delle cose. Per definire questa filosofia, alla nota generica della metafisica apriorista, che  la produzione della conoscenza per un metodo puramente deduttivo, bisogna aggiungere questa nota differenziale specifica, che lo sviluppo della dimostrazione corrisponde allo sviluppo stesso dell'essere, che la filiazione logica delle conoscenze rappresenta la filiazione reale delle cose stesse, che il movimento o il progresso del pensiero, per cui si produce la conoscenza,  la riprodazione del movimento o del progresso delle cose per cui queste vengono prodotte. Questo metodo  espresso assai bene dalla parola co(X) V. Schelling, Giud. sulla filos. di Coiisin. I. Metodo. ' ' struzione: dimostrare mici cosa  costruirla^ far vedere il modo in cui essa  prodotta, perch il principio che serve a dimostrarla, il prhicijyruni cognoscendi,  al tempo stesso il principio di cui essa deriva, ci che la fa essere, il prindpiuTi essendl. Il rapporto logico tra principio e conseguenza  identico al rapporto ontologico tra producente e prodotto, e possiamo dire, tra causa ed effetto, purch ci s'intenda con la riserva che tra le cause ed effetti, di cui si tratta, non vi ha una successione cronologica, ma soltanto logica. Considerando dunque i termini della serie logica che, per questi filosoti, costituisce il sistema della conoscenza e al tempo stesso dell' essere, come essenti fra di loro nel rapporto di cause e di effetti ci che, con la riserva suddetta, abbiamo il dritto di fare, perch essi riguardano evif*'^i*^ff" '^'.-iii e. ^, e. 5, e.  ^Scsto. 2), Sajigio 7 e. 3, ecc. 543 questo sentimento non accompagna che le verit a priori o pretese tali). Egli definisce la causa efficiente: una cosa che si suppone necessariamente legata con l 'effetto; e per appoggiare la proposizione che nelle ricerche fisiche non si ha mai in vista di scoprire  i legami necessari o le cause etficienti dei fenomeni,  cita dei luoghi di parecchi autori (Barrow, Locke, Hobbes, Bacone), i quali in realt non dicono altro se non che il rapporto tra le cause e gli efietti  conosciuto per l'esperienza, e non mai a priori, supponendo cosi, come una cosa evidente per tutti, che il rapporto tra la causa efficiente e l" efietto deve essere conoscibile a priori. E ci dei resto eh' egli dichiara in seguito esplicitamente con queste parole:  In effetto, se noi potessimo in alcun caso vedere la maniera in cui la causa (efficiente) produce il suo effetto, noi saremmo in grado per ci stesso di dedurre 1' effetto dalla sua causa ragionando a priori  GALLUPPI (vedasi) ritiene anch'egli e in ci non fa che aderire all'opinione quasi universale dei metafisici che la conoscenza della essenza  come la chiam CICERONE (vedasi) -- delle cose trasformerebbe la conoscenza delle loro propriet da empirica in a priori. Cos dice:  Una scienza pura, cio interamente a priori, dell' anima  impossibile, perch supporrebbe la conoscenza dell'essenza dell' anima, conoscenza di cui siam privi. Viceversa noi siam sicuri che ignoriamo l'essenza dell'anima, perch siamo nell'impossibilit di stabilire sull'anima alcuna proposizione indipendente dall'esperienza  . Inoltre egli riguarda l'idea della scienza, quale 1' aveva concepita Cartesio, come l' ideale della conoscenza perfetta. L'oggetto della filosofia  di spie V. Elen. della filos. dello spir. ntn., v. 1 e. 1 sez. 2 e nota C. Siffftjio jloH., t, 5 \n\v. 47. 544 gare l'esistenze, l'esistenze spiegabili sono l'esistenze condizionali. Queste non possono spiegarsi senza l'esistenza assoluta. Neil' idea di un condizionale io non trovo r esistenza: il giudizio che pronunzia sull' esistenza di un condizionale  dunque un giudizio sintetico, e per ci sperimentale. Ponendo 1' assoluto, io pongo l'esistenza, e con (questa prima esistenza spiego l'esistenze condizionali. Maio non conosco l'essenza dell'assoluto; non posso perci conoscere a priori l'esistenza dell'assoluto; e il mio giudizio, che pronunzia sull'esistenza dell'assoluto,  pure sintetico: per essere analitico (cio a priori), io dovrei conoscere l'essenza divina. L'esistenza in generale , in conseguenza, un dato per me, ed io la conosco a posteriori, non gi a priori. Se potessi partire dall'assoluto, e far derivare da esso a priori tutte l'esistenze condizionali, io comprenderei interamente la natura, e la mia scienza sarebbe perfetta. Noi non giungiamo all'assoluto, se non j)artendo dal condizionale, e siamo neir impotenza di vedere gli effetti nella loro causa prima; per tale ignoranza non possiamo comprendere e spiegare perfettaimnite la natura H geometra possiede una scienza esatta, perch il suo metodo  interamente a priori: i suoi giudizi son tutti analitici, perch egli conosce adequatamente l'essenze degli oggetti su di cui ragiona Il metodo del filosofo non pu essere affatto lo stesso di quello del geometro; il primo non pu pronunziare i suoi giudizi sull'esistenza delle cose, se non vi  condotto o immediatamente o mediatamente dall'esperienza; e in conseguenza noi non possiamo conoscere alcuna esistenza a priori, come avverrebbe nel caso ci fosse possibile di dedurre l'esistenze condizionali dall'esistenza assoluta. Sti(/(/to flon.. t. ') par. 1>H. SERBATI (vedasi)  nei sistemi degl'idealisti tedeschi posteriori a Kant che vede idoleggiato 1'ideale della scienza assoluta. Noi conosciamo, egli dice, imperfettamente le essenze delle cose, essenze che costituiscono l'oggetto delle nostre intuizioni; onde accade che non tutto quello che troviamo poi nelle realit sensibili, e che appartiene alla cognizione di predicazione (,1), si riscontri nell'essenza, s che una parte di quest'ultima cognizione ci rimane priva di ragione, giacch ogni ragione sta nell' essenze Se un primo intelletto  la causa totale di tutti gli enti finiti, quel primo intelletto dee avere in s il loro essere intelligibile, ossia la loro essenza non imperfetta e vota come quella dell' intendimento umano, ma adequata e reale anch' essa Chi potesse vedere  queste essenze delle cose, quali sono in Dio, conoscerebbe pienamente il mondo, senz'aver bisogno d'alcuna esperienza esteriore e d'organica sensitivit; il che  quanto dire lo conoscerebbe, tutto quanto egli , a priori ; la qual cognizione e costruzione del mondo reale a priori  il fastigio della sapienza, a cui tende senza posa la mente. Ma la mente umana, per la imperfezione, come dicevamo, con cui conosce le essenze, l'essere intelligibile del mondo, prende vie diverse. Ella si propone il problema, e fin qui nulla in lei v'ha di reprensibile. Ma il filosofo, prima di sapere se e come sia da lui solubile, facilmente ammette il pregiudizio, che sia solubile, e solubile direttamente: pregiudizio certamente antifilosofco come tutti gli altri pregiudizi, pur tale che d un grande titillamento al sao orgoglio. Mettendosi dunque al lavoro per trovare una soluzione diretta, egli, privo dei materiali a ci necessari, supplisce colr immaginazione; e cos nacquero quei sistemi A PRIORI VA'v. Teos, 11 i)ro)l. loU'ontolog.. e 1. 85 546 che comparvero in Germania, tanto allettevoli per la sola forma ^speculativ^a; che anche la sola forma a priori alletta, bench imbottita d'immagini di nessun valore, perch rende una cotal traccia di quella sapienza a priori che  propria della Mente suprema . Mamiavi dice:  Tutti i giudizi percettivi e sperimentali vestono la forma sintetica, per la ragione generalissiina che V intimo essere delle sostanze ci  nascosto e si pu pensare che rimarr sempre tale  . La conoscenza ddV intimo essere delle sostanze convertirebbe dunque i giudizi attualmente sperimentali e sintetici che noi possiamo fare sulle loro propriet, in giudizi analitici o a ()riori (secondo Mamiani, come secondo Galkij)})!, tutti i giudizi a priori sono analitici) .. ^, 14. Infine, noi dobbiamo segnalare la presenza del principio della metafisica apriorista in alcuni di questi filosofi contemporanei a cui ordinariamente si estende la designazione alquanto vaga di positivisti: basteranno i due seguenti, nei quali esso si mostra con gli svilup]) pi estesi. Teosojrt. li. M. sez. H v. 1 art. 7. Couipcflio e siiiti'si della propria Filosofia, L. Ft'.rri. (Stiffijio su lift storia della filos. in Italia al nei'. 10, t. 1 iKi. tOf) (\ altro v('.) attribuisce a Gioberti la dottrina clic tutti i giudizi sintetici, tanto quelli a priori quanto quelli a posteriori, sono tali, perch^ l'essenza intima degli esseri, da cui derivano i loro attributi,  impenetrabile: se la l'onoscessimo, noi ]>otremmo dedurne per analisi (j^uesti attril)uti, e tutti i giudizi sarebbero analitici. Gioberti, per (i[uel che 8 saipia. non ha mai esplicitamente formulato (|uest{i dottrina: ma essa [mtrebbc forse inferirsi da certe proposizioni di ({uesto filosofo, sovratutto da ci che ei). V. Pr. princ, 147 e 189. () Pr. princ, % 176. (7) V. Pr. princ, % 190. (8) V. Pr. princ. 74 (cfr. 88) e 18. 550 plice espresBone dei rapporti dei fenomeni: questa forza^ di cui la persistenza  un dato a priori della coscienza, , secondo lui, la forza iperfenomenale, la realt assoluta di cui tutti i fenomeni sono la manifestazione . Considerando, come fa Spencer, la forza come una sostanza (e non come la semplice attitudine che hanno  corpi a modificare lo stato di riposo e di movimento degli altri corpi), la deduzione della legge della persistenza della forza dal principio che T essere non pu essere creato u annichilato, diviene meno forzata, non solo, ma la deduzione stessa viene dissimulata, V intervallo che vi ha tra il principio e la conseguenza svanisce, la conseguenza si confonde col principio. La forza essendo una realt, anzi la sola realt che esista veramente, la proposizione che afferma la persistenza della forza equivale alla proposizione che afferma che la quantit della realt  immutabile, che l'essere considerato nella sua totalit non pu avere n accrescimento ne diminuzione . Di qui si vede che anche nel sistema di Spencer, come in quello di Cartesio e degli altri metafisici aprioristi di cui sopra abbiamo parlato, la serie delle deduzioni riposa sopra una base metafisica, che in lui  la sostantificazione della forza; e si vede inoltre che, come abbiamo detto, il principio della persistenza della forza quale legge scientifica relativa ai fenomeni non , in questo sistema, il principio veramente ultimo, ma una conseguenza del principio ulteriore, che l'essere (la realt assoluta che  il sustrato di tutti i fenomeni) non pu avere ne cominciamento n fine . Sull'origine delle affermazioni intuitive che, se Pr, princ, f>0-62. Sufjfji di morale ecc. v. 8. Obbioz. sui primi ju-inc. e risposte. Conclusione. Cfr. cap. V 8 sulla line e Saggio i e. IX. 551 condo Spencer, costituiscono la base della scienza, troviamo in lui due dottrine diverse. Nei Primi PriU' cipii egli considera certamente il princijuo della persistenza della forza come una verit a priori nel senso tradizionale della parola : invece in altre o[)ere (2^ considera questo e gli altri principii assiomatici come a priori per l'individuo ma a posteriori per la specie, cio dovuti all' accuinulaziane e trasmissione organica delle esperienze avitiche. La differenza tra le due dottrine  senza ini)ortanza per la quistione se il sistema di Spencer sia costruito sul tipo della filosofia apriorista. L' essenza di questa filosofia sta nel metodo: essa ha per og-getto, come abbiamo tante volte ripetuto, di stabilire tra i fenomeni dei legami ufcessari e razionali^ e, per quest'oggetto, la condizione  che il metodo della scienza sia deduttivo, e che il punto di partenza della deduzione siano dei princi[)ii ammessi come verit evidenti per se st-^^.-se e necsssarie. Nel sistema di Spencer, questa condizione e esattamente adempiuta: egli fa derivare le generalit della scienza da principii assiomatici, che, secondo lui,  impossibile di provare induttivamente, e non hanno altra prova che la loro evidenza intrinseca; e a questi principii attribuisce l'inconcepibilit della negativa, che  il pii alto grado di necessit che noi possiamo immaginare. La quistione: come il nostro spirito si trova in possesso di questi principii? sono essi delle acquisizioni empiriche o delle necessit primordiali del pensiero V  una qui Saggio 1 e. IX \\. 2 a 505. V. Psicol. % 480, 488, 208, ecc.. e Saggi di inorale ecc. Obbiez. e Risp. n. 8. 0 e conclusione. Spencer insiste sa {uest'iinpossibilit in tutte le sue opere, anche in ([nelle in cui spiejia l'oriiiinc delle conoscenze assioniaiiche per l'eredit delle esperienze. V. Saggi di mor. ecc., 1. e. stioue che intere5?sa la psicolog-ia, ma non il metodo filosoteo. In (juaiito al rapporto dell' apriorismo di Spencer con la ricerca delle cause efficienti, si presenta la stessa difficolt che si  a*i presentata per Cartesio, Malebranche e Leihnitz. Le cause veramente produttrici dei fenomeni non sono, per Spencer, altri fenomeni, ma delle cause ultrafenomenali sconosciute e inconoscibili. Per ((uesto filosofo vale naturalmente la stessa risposta che per gli altri; i legami razionali e necessari ch'egli stabilisce tra i fenomeni possono chiamarsi causazioni efficienti, ma solo nel senso tecnico che noi diamo al termine, cio in quanto questa forma necessaria e razionale  modellata sulla forma delle conoscenze che per il nostro spirito costituisi'ono (d' una maniera incosciente) il tipo della causazione efficiente. Se al di l delle cause efficienti fenomenali lo Spencer ammette altre cause efficienti pi degne di questo titolo, questo fatto, oltre che  una conseguenza della sua teoria sul mondo esteriore, che ci accorda la conoscenza, non delle cose in s, ma solo dei loro fenomeni (apparenze), si spiega pure per la natura stessa della soluzione che la filosofa apriorista d del problema delle cause efficienti. Al b'isogno del nostro spirito di conoscere le cause, questa filosofia non d che una.soddisfazione incompleta, direi quasi piuttosto un simulacro di soddisfazione che una soddisfazione reale: questa non potrebbe ottenersi che seguendo lo slancio spontaneo del nostro spirito, che costituisce la metafisica istintiva dell'uomo, e che tende a spiegare tutti i fenomeni, riconducendoli alle sequenze che ci sono le pi familiari. Solo una tale spiegazione sarebbe completa, radicale (nel senso metafisico della parola spiegazione): ogni altra necessariamente lascia ancora nelle cose spiegate deV incomprensibilit ; e a (juesto fenomeno suhhiettivo si d, lo sappiamo, un valore obbiettivo, interpretandolo come un limite della conoscenza. Al suo scopo primario, che  di stabilire tra i fatti dei rapporti razionali e necessari, la filosofia apriorista aggiunge, come sappiamo, uno scopo secondario, quello d'introdurre nel sistema delle conoscenze sul reale l'videnza matematica, dimostrativa. E ci di cui Spencer ci d un esempio nella sua dottrina del postulato universale. Questo  che ogni proposizione di cui non possiamo concepire la negativa deve essere vera: esso  implicato in ogni atto dell'intelligenza, ed  per esso che si o'iustificano le premesse ultime delle nostre conoscenze da cui tutte le altre dipendono. Lo stesso postulato giustifica pure il legame che riattacca le conoscenze derivate alle primitive-, sicch l'inconcepibilit della negativa  il criterio unico della verit . Per questa dottrina la filosofa di Spencer  nell'opposizione pi radicale con la filosofia dell'esperienza, la quale inibisce di ammettere una cosa senza prova, e non riconosce nell'e-videnza intrinseca (spesso illusoria) d'una proposizione un criterio sufficiente della sua verit.  vero che se si prende l'inconcepibilit della negativa nel senso stretto, bisoana convenire che noi siamo forzati ad ammettere la verit delle proposizioni in cui essa si trova:  una fatalit del nostro pensiero, a cui sarebbe impossibile di sottrarsi. Ma nel senso stretto, rinconcepibilit della negativa non si trova mai nelle proposizioni concernenti, come diceva Hume, le cose di fatto, cio l'esistente, la realt: essa non si trova che nelle proposizioni cos dette analitiche, e in generale nelle affermazioni che non implicano altro che delle percezioni di somiglianze e di differenze. Ma non appartiene all'argomento di questo V. PsieoL Analisi generalo, e. . CtV. Mill, Loij.. l. 2 e. VII. u ^ 'f 554 capitolo di fi^eutere la validit del criterio di Spencer e i limiti della sua applicabilit : qui dobbiamo soltanto costatare il fatto che, elevando l'inconcepibilit della negativa a criterio unico della certezza, lo Spencer fa, come gli altri aprioristi, dell'evidenza matematica (cio intuitiva o dimostrativa) il tipo unico di ogni evidenza. V. su ci. Saggio. QuantuiKiiie lo scopo di questo capitolo non sia di fare una rivista cuerale di tutti i tilosoti che hauuo aiumesso il principio della uietatisica apriorista, pure io credo di dover fare menzione d'un altro tra i })i illustri tilosoti contemporanei, rHartiuauii. Egli risolve la realt in due elementi costitutivi, la Volont e l'Idea. La Volont  releniento illogico, il cui carattere  l'indeterminazione, il libero arbitrio, che talvolta va sino ad indentiticare con l'azzardo: ma l'iblea  governata, nella sua evoluzione, da una necessit logica, la cui legge  il principio della logica fornuile, cio il i>rincipio d'identit e di contraddizione.  questa necessit logica che determina, a ciascun momento, la somma delle Idee che l'ormano il cinitenuto della Volont: ma il come del mondo, a ciascun momento, non  che il contenuto ideale realizzato dalla Volont; il come del mondo e dumiue, a ciascun momento del processo, determinato da una necessit logica. 11 mondo e nella sua esistenza un atto continuo di Volont ; ma il processi t(tale  . (Ma non  evidente che nel primo caso, quand'anche il corpo urtante non G:illu]i)i, Sauijo filoaofieo. t. H par. i)0. 55S perdesse niente del suo moto, il corpo urtato si muoverebbe, non spontaneamente, dando a se stesso, come dice l'autore, il movimento che non ha, ma per l'azione di una causa esteriore? e che nel secondo caso se il corpo urtante si fermasse senza che il corpo urtato acquistasse alcun moto, il corpo urtante non si fermerebbe da se stesso, distrug-gendo, come dice l'autore, il moto che ha, ma sarebbe fermato da una forza esterna?) Ma il grado maggiore o minore di speciosit di queste pretese dimostrazioni  un punto secondario: la speciosit dell'argomento non  mai, in alcun caso, il motivo unico che lo fa impiegare. E ci di cui lo stesso Mill conviene, quando, a proposito degli esempi del suo terzo genere di sofismi a priori, dice: D'ogni tempo i geometri si sono esposti al rimprovero di voler provare i fatti pi generali del mondo esteriore per mezzo di ragionamenti sofistici, per evitare di appellarne alla testimonianza dei sensi. Ora  questa tendenza generale che importa il pi di spiegare: perch un argomento a priori, quantunque meno convincente, e spesso patentemente sofistico, si preferisce alla prova empirica, che  la sola capace di determinare realmente la convinzione, e quella che l'ha effettivamente determinata nello stesso autore? Ci avviene evidentemente perch, mentre la prova empirica mostra semplicemente che la cosa  cosi (che vi ha una tale uniformit di sequenza), l'argomento a priori sembra inoltre proprio a mostrare che la cosa deve essere necessariamente cosi, e a rispondere in un certo modo alla quistione del perch. Se  ai fatti della meccanica che il metodo dimostrativo  stato di preferenza applicato, ci non  soltanto perch, come  stato osservato , 1 matematici trasportano nella trattazione delle matematiche applicate le abitudini intellettuali contratte nello studio delle matematiche pure. Bisogna anche tener presente un'altra considerazione, cio che le leggi fondamentali della meccanica sono, tra le leggi conosciute della natura, le sole che siano ritenute come primitive, anzi  da esse, secondo la concezione prevalente nella filosofia moderna, che tutte le altre leggi della natura derivano. Tra le leggi fondamentali della meccanica, quelle delle azioni a distanza (che, secondo una delle forme della concezione meccanica del mondo, sono anch'esse delle leggi primitive) sono state,  vero, raramente dimostrate con ragionamenti a priori:  che le numerose ^ discussioni sulla possibilit dell'azione a distanza hanno stabilito la convinzione generale che queste leggi (supposto che non possano ricondursi ai fenomeni dell'urto) sono inintelligibili e ribelli a qualsiasi tentativo di spiegazione. P. e. (la Stewart, Ehm. della fil. dello spir. nni.. voi. H e. 2 sez. 4 ii. 'S. ttmittmuiammmmm imiw iiuiiaieeeaeafcgaBgaa^^j^.: Appendice I. 1. Noi abbiamo sin (jiii considerato il metodo a priori, in ([Uanto esso ha per oggetto di dare una si)ieo-azione dei tenonieni, come una delle forme sotto cui si realizza il concetto di causalit efficiente: ma  evidente che questo metodo non si applica esclusivamente, alle relazioni tra le cause e gli effetti. L'importanza incomparabilmente superiore di (jnesta classe di relazioni non deve farci perdere di vista che gli altri rapporti tra i fenomeni sollecitano anch'essi dalla metafisica una spiegazione. Come lo spirito umano non  pago di aver costatato che tal fenomeno segue invariabilmente tal altro fenomeno, ma domanda inoltre perch deve seguirlo ; cos esso non e pago di aver costatato che tal fenomeno accompaf/na invariabilmente talaltro fenomeno, ma cerca inoltre una ragione che faccia comprendere la necessit di questa congiunzione invariabile. La spiegazione metafsica, noi lo abbiamo visto al soggetto delle cause efficienti, presenta due tipi generali che sono due modi distinti di assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i pi familiari: V uno  la metafsica istintiva dello spirito umano fa dei ra|)[)orti pi familiari tra i fenomeni l'intermediario esplicativo di tutti gli altri ; 1' altro cerca invece di spiegare h. relazioni generali dei fenomeni assimilando la loro fornia^ :5(> 1 562 563 quali oacretti della conoscenza, a quella che  propria delle |)i familiari tra (jueste relazioni. Sarebbe inutile di considerare a parte il primo di (|uesti due tipi di spieo-azione nella sua a|>plicazione alle relazioni distinte dalle causali ; siccome non vi hanno, al di fuori dei ra[)})orti di se(|uenza, altri rap])0rti tra fenomeni che sembrino capaci di servire iV intermediario esplicativo universale (conica per esempio i fenomeni dell' urto e dall'azione volontaria), le spiegazioni della metafsica istintiva non si riferiscono g-eneral mente che alla ricerca delle cause (^ftcienti. Ma il secondo tipo di spiegazione metafsica, (juando si a]plica alle relazioni distinte dalle causali,  indipendente dalla quistione delle cause efficienti, perch esso non cerca che di trasformare i rapporti generali tra i fenoneni, quahuniue sia la specie di questi rapporti, da sem})licenente positci e contbgeti in razionali e vvceniiari. Il presupposto, su cui  fondato il metodo a priori, , come abbiano detto, un' inferenza incosciente, per cui la forna (U^lla conoscenza di tutti i rapporti gene rali dei fenomeni viene assimihua alla forma della conoscenza dei pi familiari tra questi rapporti. Come dal g'ran numero delle nostre esperienze di causazione noi concludiamo ehe tutti \ fenomeni sono sottomessi alla legge di causalit, cosi da ci che le causazioni pi familiari che noi abbiamo sperimentate per conseg'uenza la parte |)i considerevole della somma delle nostre esperienze di causazione -si sono presentate alla nostra coscienza coi caratteri della y?ece.s.9/7^! e dell'evidenza intrinseca, razionale, noi concludiamo che (piesti caratteri devono ritrovarsi in tutte le causazioni.  inneo-abile che noi facciamo (juesta conclusione, perch l'uomo ha la credenza istintiva che ogni fenomeno ha una causa efficiente le non semi)liceniente un antecedente a cui esso segue invariabilmente), e il carattere rigorosamente comune a tutte le nozioni che lo spirito umano si  fatto della causa efficiente sia che l'abbia concepita come fenomenale o come ultrafenomenale, come conoscibile o come inconoscibile, sia che nel concepirla si sia conformato alla sua tendenza pi spontaiuia, che  di elevare a tijio universale le causazioni pi familiari, o a quella meno spontanea, che  di elevare a tipo universale, non queste stesse causazioni familiari, ma la forma che  loro propria quali oggetti della conoscenza il carattere rigorosamente comune, dico, a tutte ({ueste nozioni,  che trrv la causa e 1' effetto deve esservi un le^^ame necessario e di un'evidenza intrinseca, razionale. Ed  ugualmente innegabile che questa credenza apparentemente istintiva deve essere una g-eneralizzazione di esperienze di causazioni, le (inali ci sono state date con questi caratteri che costituiscono la nostra nozione di causalit efficiente: senza di ci, Tidea di causalit efficiente sarebbe inesplicabile al punto di vista della teoria dell'esperienza. Ora, le nostre esperienze di causazione non costituiscono soltanto le premesse di quest' induzione, che tutti i fenomeni sono sottomessi alla leo-o-e della causalit: esse costituiscono inoltre, unite alle altre esperienze di relazioni uniformi tra i fenomeni, le premesse di quest'induzione i)i g-enerale, che tutti i fenomeni sono sottomessi a relazioni uniformi. E, della stessa maniera che da ci che i fatti pi familiari di causazione per conseguenza, come abbiamo detto, la parte pi considerevole della somma delle no-stre esperienze di causazione si sono presentati alla nostra coscienza come necessari e razionalmente evidenti, noi concludiamo che tutte le causazioni devono essere necessarie e razionalmente evidenti; da ci che i fatti pi familiari di causazione e tutti gli altri fatti .egualmente familiari di rapporti uniformi tra i fenomeni si sono presentati alla nostra coscienza come necessari e raziouanionti evidenti ci ehe  un risultato della ripetizione estremamente frequente delle esperienze di ciascuna specie di uraniente positive (cio anunesse solo sulla fede dell' esperienza) e contingenti (cio tali che la suj)posizione del contrario  perfettamente concepibile), quali esse sono per la scienza, in razionali e necessarie, non i sole lei>-i!i di causazione, ma tutte le leiz'u'i dei fenomeni in generale; in altri termini che il metodo a priori viene applicato, egualmente che alle causazioni, a tutte le altre uniformitc della natura. g 2. Il pi notevole tra i concetti derivati dall' applicazione del principio della metaiisica apriorista alle uniformit della natura in generale,  la suj)posizione che vi ha in ciascuna cosa (cio in ciascuna specie di cose; un che di fondamentale . wu'rssefza, (h\ cui tutte le propriet defila cosa derivano e possono dedursi (o almeno potrebbero dedursi, se qiu^sV essenza fosse da noi conosciuta). Le propriet che costituiscono ciascun genere di esseri che noi conosciamo, ci sono date. [)er dir COSI, come scucite e staccate U) une dalle altre. Noi non vediamo j)erch ad un' estensione iupencHrabih  congiunta l'inerzia, la gravit, ecc., come anche la capacit di ])resentare, in certe circostanze, i fenomeni della vita, e in certe altre, quelli del sentimento e del pensiero; noi non vt^liamo pcM'ch alla Hgura esteriore particolare ad un animale  costantementt' unita una certa orii'anizzazione intcn-iore e delle facolt psichiche determinate. Queste diverse propriet non hanno le une con le altre una^connessione che ci sembri necessaria e di un' evidenza intrinseca, razionale. Ma, secondo il presupposto che i rapporti uniformi dei fenom(Mii devono 5G5 essere necessari e di un' evidenza razionale . tra le diverse propriet che costituiscono ciascun genere di esseri dovrebl>e esservi una connessione necessaria e razionale; per conseguenza, data una i)ro[)riet del genere, o queir insieme di ju'opriet che  sufficiente a distinguere il genere dagli altri, tutte le altre propriet del genere dovrebb(M'o i)oterne essere dedotte. Cosi, siccome tra le propriet mostrate dall'esperienza, non troviamo questa propriet o conq)lesso di propriet distintive, da cui tutte le altre possano dedursi, ne concludiamo che la propriet o le ])ropriet distintive, da cui tutte le altre potrebbero dedursi, non sono oggetti della nostra esperienza: sono (jueste propriet fondamentali sconosciute, le (piali si sup])one che, se noi le conoscessimo, basterebbero a darci a priori la conoscenza di tutte le altre, che noi chiamiamo (cio che i metafisici chiamano) V essenza della cosa. Nel capitolo ch(^ pr(;cede, noi abbiamo considerato la dottrina, che vi ha per ciascuna sostanza un' essc^nza sconosciuta, dalla quale, se fosse conosciuta, potremmo dedurre tutte le propriet della sostanza, come una consege.nza del principio della causalit efficiente, perch la maggior parte delle jjroprieta delle sostanze sono, come dice Locke, delle potenze di aa'ire e di patire, e la dottrina su|)pone che la conoscenza delle essenze ci farebbe comprendere perch tali sostanze siano dotate di tali potenze, in altri termini come tali cause abbiano una, connessione razionale e necessaria con tali efletti: ma  evidente che, per essere esatti, noi avremmo dovuto considerare questa dottrina come una conseguenza, non del principio di causalit efficiente, ma del principio pi generale che tutte le connessioni uniformi tra i fenomeni devono essere necessarie e razionali, perch non tutte le propriet che attribuiamo alle cose si rapportano unicamente al loro modo di agire e di patire. Quando ci si dice che, se noi 5GH conoscessimo l'essenza della materia, noi comprenderemmo perch essa  inerte, perch  grave, ecc., perch  capace, in date circostanze, di vivere, di sentire, di pensare ; siccome questi e altrettali attributi non indicano che le potenze attive o passive della materia, noi possiamo vedere in (jucsf afterinazione una semplice conseguenza del principio che gli eff'etti devono avere con le loro cause una connessione razionale e necessaria. Ma quando Reid dice che ogni cosa che esiste ha un'essenza, dalla quale, se essa non fosse superiore alla nostra comprensione, noi potremmo dedurre le sue propriet e gli attributi della sua natura, noi non possiamo vedere in quest' attermazione generale che una conseguenza di un principio avente una generalit uguale, cio del principio cln, tutti i rapj)orti costanti tra i fenomeni devono essere razionali e necessari. Il concetto deW essenza dei metafisici moderni pu sembrare a primo aspetto assolutamente opposto a quello dei metafisici antichi: in efftto, mentre per i primi l'essenza d'una cosa  ci che vi ha in essa di j)i occulto e di pi impenetrabile, per i secondi invece l'essenza era ci che vi avea nella cosa di [)i notorio, e che costituiva la nozione stessa di questa cosa. Non di meno fra questi due significati della parola essenza, con le dottrine che essi implicano, vi ha un legame naturale, e il concetto modcn-no deriva incontestabilmente dall'antico. Il fondo comune dei due concetti  1' idea (impiegando le espressioni di Hume sui rapporti tra le cause e gli efftti; che tra le diverse propriet di un genere non vi ha semj)licemente conf/i unzione ^ ma anche connessione, in modo che, data l'una, le altre potrebbe esserne dedotte, se questa propriet primitiva fosse conosciuta. I logici, la pi parte almeno, distinguono, come tutti sanno, due sorta di definizioni, quelle di nome e 5G7 quelle di cosa. La definizione nominale, si dice, non fa conoscere che il senso del nome, mentre la definizione reale fa conoscere la natura stessa della cosa definita. Cosi l'essenza d' una cosa era, secondo i logici peripatetici, r insieme degli attributi che costituivano la definizione reale della specie a cui questa cosa a])parteneva. Io non discuter il valore della distinzione delle definizioni in nominali e reali; osserver semplicemente ci che non potr, credo, incontrare opposizione che possono distinguersi due classi di defiiizioni, di cui chiamer le une comjdete e le altre incomplete. Chianio completa una definizione che conq)ren(ie tutti gli attributi primitivi, che sono comuni agli oggetti appartenenti al genere definito; e chiamo incompletii una definizione che comprende, non tutti questi attributi comuni, ma solo quanti sono sufficienti a distinguere il genere definito da tutti gli altri. Per attributo priniitivo poi intendo quello che non  la conseguenza di (lualche altro attributo: per esempio esser terminato da tre linee rette  un attributo primitivo del triangolo, ma avere la somma degli angoli uguali a due retti non  un attributo primitivo, perch pu dimostrarsi che una figura terminata da tre linee rette deve avere questa propriet. La definizione del triangolo, del cerchio, delTellissi, e, in una parola tutte le definizioni geometriche, sono complete, perch esauriscono tutti gli attrilmti ])rimitivi comuni agli oggetti appartenenti a ciascun genere definito. Ma la definizione: l'uomo  un animale ragionevole,  una definizione incompleta^ |)erch non comprende tutti gli attributi primitivi comuni agl'individui del genere umano, ma solo (pianti sono sufficienti a distinguere questo genere da tutti gli altri. Se alcuno, per conservare la distinzione tradizioiale delle defiiizioni di nome e di cosa, volesse chiamare ^// casa le complete, e eli nome le incomplete, io credo che potrebbe farlo r)()S senza iin]>ropri(?tn, i)erch una detinizione completa ta conoscere la natura o l'essenza della cosa definita, queste parole nafara o essenzci di una cosa non potendo indicare altro, ([uando veng'ono prese in un senso non metafisico j ma positivo, che la totalit deg'li attributi, conosciuti e conosci)ili, di (juesta cosa (i primitivi). Non tutte le specie sono suscettibili di detinizioni complete^ come quelle delle figure geometriche. Le specie e i generi deg'li oggetti naturali per esenj)io l'uomo, V animale, V oro, ecc. possiedono un gran uunero di attributi tutti egualmente, a quanto sembra, primitivi, e di cui alcuni sono ancora sconosciuti: si potrebbe fare una collezione di tutti cjuelli che sono conosciuti, ma questa collezione si chiamerebbe una descrizione e non una detinizione, [)erch ]>er (h^Hnizione s'intende una breve formula, una proposizione*, e d' altronde, (|uand'anche si chiaiiasse definizione, non sarebbe una definizione che spiegherebbe la natur(( o rss^nzcf della cosa, perch nanclierebbero gli attributi non ancora conosciuti, (o almeno non si sarebbe mai sicuri che la cosa non lia, oltre gli attributi enunu'rati, degli attributi sconosciuti i, i quali fanno parte anchessi della natura o essenza della cosa. Ma i ])eripatetici ammettevano che anche di queste specie e generi, aventi un gran nunun-o di propriet indipendenti, a (juanto pare a noi, le une dalle altre, possono darsi delle definizioni, come noi diciamo, coiplete^ cio delle detinizioni che esauriscono 1' essenza della cosa definita. Tali definizioni doveaiK essere costituite, come tutte le altre, dal genere prossimo (a cui la specie definita era subordinata^ e dalla differenza specifica: una sola difl'erenza doveva bastare, non semplicemente a distinn-uere la cosa definita da tutte le altre, ma a far conoscere e svilupjare la natura di questa cosa. Come [)Otevano essi credere che la natura d' una COSI, per esempio l'uomo, avente un si gran numero di propriet fisiche e mentali, potesse riassumersi in una formula s breve?  che mentre noi rit(;niamo (juesto gran nuiirero di propriet come tutte egualmente primitive, i peripatetici credevano invece che di primitive non ve ne potevano essere se non tantci quante erano necessarie per distinguere la specie: fra tutte le propriet appartenenti in proprio alla specie definita (cio non comuni alle altre specie del genere f)rossimo) una sola era, secondo essi, primitiva, ed era questa che, sotto il nome di differenza specifica, costituiva, unita al genere prossimo (il (juale anch'esso poteva definirsi jer il genere suj)eriore e per la differenza propria, una sola), l'essenzM o natura della specie. Le altre propriet della specie erano derivate; esse fluivano, o emanavano, come dicevano gli scolastici, dall'essenza, cio dai due attributi compresi nella definizione, e potevano esserne dedotti. Cos il fondamento della dottrina della logica peripatetica sulla definizione reale, e, (piindi, sull'essenza, era (juesto presupi)osto metafisico: che le diverse propriet di ciascun genere di esseri sono, non semplicenumte in congiunzione, ma anche in connessione, cio non indipendenti e staccate le une dalle altre, ma tenute insieme per un legame razionale e necessario . Invece Alili (Lo.i;-. t e. (> p;irai;r. 2, e. 7 pani.i^r. 5), vede nella dottrina ])erii)a,tetica suU' essenza una di ([ueste illusioni imM>a*;ate dal lin.i;ua,irui,  li cui hi inetalsiea  si fertile. 1/ illusicme ((Uisisteva, seconih) lui . a scambiare il significato del nome per la natura della cosa. Secondo la dottrina di Stuart Mill sui concetti (cio sui siiiti inehisi nel gruppo. Ma i peril>ateti para-.:^ che. siecome jjli errori non si distru^-ono die lentamente, cos, bandita la falsa idea (hi ]eripatetici sulle essenze, le sopravvisse non pertanto una sua conseouenza;  l'idea sulle essenze dei metatsiei moderni. Le essenze individuali erano una tnzionr nata dalla falsa idea delle essenze di classi, e Locke stesso, dopo aver estirpato Tei-rore fondam^Mitale (nn^strando che le pretese essenze di (dassi erano semplicemente la sio;niticazione dei h)ro nomi), non pot liberarsi dalla sua e(Mise-uenza, e ammise delle essenze di oiiiictti individuali, che supixmeva essere le eause delle propriet sensibili di piesti o.^j^etti. La prima dit^icolt contro la .spieoazicme di Mill  che la definizione pei peripatetici non con]n-endeva tutti -li attributi, che. secondo la dottiina di Mill, ccstituiscom) la connotazione del mmie: questa spie-azione non rende conte d41a re-ob, che una sola diilerenza era sufficiente alla delnizione. }Kn-ch. come tMserva lo stesso Mill (e T, para-. 2 infine, e. S para-. ^) . la connpunto come essi potevano credere di esaurire, con una s(da differenza, la natura della specie ; e questo fatto imn pu sie-arsi se non ammettemb come prin571 strazione, e deve esser tale che si possano, per mezzo di essa, conoscere gli accidenti (cio gli attributi non cipio della dottrina che, per la connessione necessaria tra le ]>ropriet, l'ima di esse poteva dare tutte le altre. Ma vi ha una difficolt pili -rave ancora:  che hi dottrina di Mill, in cui s'impernia la spie-azione, secondo la ([uale l' ai>plicazione di un nome di classe implica V affermazione di un -ruip(> definito di attri)uti, che  soltanto una parte della totalit de-li attributi comuni alla elasse, non , a mio credere . che una semplice tinzione. Supponiamo due nuovi individui che ablnamo una somi-lianza s(do parziale con -li individui -ia conosciuti di una classe, ma che ne siano differenti l'uno per certi attributi e r altro pin certi Jiltri; e animettianio che 1' uno v'n-a a-orec. l'altro no. Ci non potr essere che in-rch -li attributi che 1' uno ha in comune con la classe sono in )iii -ran numero e di pii -rande importanza che riet. e non iMtevanotrovare niente di simile: ]>erci si contentarono di (piest*' altre essenze che conferiscono alla cosa, non ci che essa . ma ci che la fa chiamare col suo nome. Sia pure ! Ma perch essi si erano formata (iU(\sta va-a idea della essenza i , rispimde Mill. perch essi ammettevano il sistema realista . .secondo cui i oeneri e le s])ecie sono delle entit distinte da-T individui e ad essi inerenti ; perci essi credevano (die una cosa e cii lie si dice essere per la sua partecipazione alla natura di una i-erta 572 inclusi lucila d.etiiizioiie) propri alla cosa (li: la dimostrazione  af. punto il metodo per rendere noti questi accidenti {2\ per consei^'uenza, [)er riattaccare at>'li attributi inclusi nella definizione le altre propriet della cosa. Evidentemente, il tipo su cui Aristotile, come il suo maestro, concepisce T ideale del metodo scientifico,  (juello della g'eometria. La condizione della scienza tsostioiza u;('H('rjil('. M.\. ]>riiii;i di tutto. \i (l(>tti'iii}i ili ([iiistioiic (Iella (;ss('iiz:i e [Uclla (M>rrelativa della dci'mizioiic si trovano .;i in Aristotile-, e questi uer lui ( lie looieameuti^: la sua ]K>lemiea eoutro Platone  a]puuto uiui nuerra alle sostanze menerali . inerenti a.u T i udivi ti ui (V. ea). se^ut'ute). I)'altvoul ^. t). vhv non vede altro nel realisnu) elu' il jU'otlidto di una ])retesa toiulenza naturale a realizzare le astrazioni, cio, al tornio, a prendere le ]>arole per eose . U(u  fondata wv sovra lati storiverava a Platone, le sostanze Li'eiu'rali ihmi potevaiu) avere elie le jjreipriet stesse dotili esseri iiulividuali s'intende le propriet ^em-rali) . e [uesti non le aN'evano, se non ])ereb erano loro eomunieate da quelle. Non si vede elunijne eonu' Mill s]enln peredi alle assenze eraiH date, non tutti .i;li attributi della (dasse. ma sedo (luesta ]>orzione (die secondo lui costituisce la connotazieme d(d nome: intanto  ])er ispieuare i). Pbys. IV. IV. . ecc. (2i Jli'f. ! II. llLM. V. I . Pc Ah. 1. I. . Anni. Post. 1. .il. (21. l. X : ec'getto, e ve ne hanno due per ciascuno: la definizione, e l'ipotesi, la (juale  r affermazione dell' esistenza reale della cosa conforme alla definizione (8). Cosi, per i [)rincipii d(f cui, il 7ioto e certo per se stesso d'Aristotile equivale esattamente al nostro evidente intrinsecamente o evidente per se stesso: invece l'ipotesi, che afferma l'esistenza di un oo-g'etto reale conforme alla definizione, non |)u considerarsi come una verit intrinsecamente evidente. Con tutto ci Aristotile pu dire che la proposizione  nota o certa per se stessa, perch essa enuncia, non una verit d'inferenza, ma una verit immediata, intuitiva, cio dataci inunediatamente dalla percezione. In quanto alla definizione per se stessa, cio considerata se[)aratamente diiV ipotesi ^ non vi ha per essa n certezza n incer h'th. Xie. Vi, ni. : V : VI ; Anal. Posi. eee: V. A,Hd Pr. ; To,,. I, I (IJ G). m V. Anni. posi. I. VII : 1, X (1 G) (eonf, I, II. I. XI. ()); (12): Afri. II. II. (8-12). tezza d'alcuna specie: essa non  che l'espressione d'un concetto, e non una proposizione (affermazione) d) Osserviamo che per lo scopo della dimostrazione di stabilire una connessione necessaria e razionale tra gli attributi inclusi nella definizione e le altre propriet della cosa definita, non occorre che l'esistenza di questa cosa sia una verit intrinsecamente evidente, ma basta che siano tali i principii per cui questa connessione viene dimostrata (i principii da cui). I prin::ipii assiomatici da cui, secondo Aristotile, la dimostrazione deve precedere, sono,  vero, per lui, non delle intuizioni puramente razionali, come, in generale, per i filosofi aprioristi moderni, ma dei risultati delPinduzione: ma ci non impedisce che il metodo preconizzato da Aristotile sia anch'esso un metodo a priori. Noi abbiamo gi osservato che l)isogna distinguere tra la quistione psicologica: le verit assiomatiche sono delle necessit primitive del pensiero o dei risultati dell'esperienzaV e la quistione del metodo: , o no, una condizione della conoscenza filosofica adequata al suo oggetto che essa sia dedotta da principii assiomatici, cio dotati di evidenza intrinseca e necessari'^ In Aristotile noi troviamo un altro esempio del fatto che abbiamo gi incontrato in Spencer, vale a dire, un metodo a priori (cio che vuol dedurre la conoscenza da principii intrinsecamente evidenti) proposto come ideale del metodo scientifico, in unione con una [)sicologia empirista, (cio che spiega per V esperienza la presenza neir auima di questi principii intrinsecamente evidenti) Anni. Post. I. II (U); I, X. . V. Anal. Pont. I, XVIIl, li, XV, Anni, Pr. II. XXV, Mh. A'^iV. VI, ili r^). Di ih un'antitesi tra il proo;res8o logico e il protjresso cronologico della coiio.sceuza. che Aristotile esprime diceiiclu che kuaaiagii 5(0 Tornando alla teoria dell'essenza, Aristotile concepiva dunque le definizioni degli esseri reali e la loro funzione nella scienza del reale sul modello delle definizioni altro (> ci che ^ il pi noto e anteriore ]>er naturd o assohiiamete e altro ci che  il \n\ noto e anteriore per iol: il pi noto e anteriore per voi essendo il ]>articolarc, il sensibile^ e il pi noto e anteriore per natura essendo al contrario i princi])ii pi universali. (/b7//. Post., l.ll (5-10) ). Il pi jioto e anteriore per natura e il })rincipio logico Iella conoscenza ; il }>i noto e anteriore per o ne e il })rincipio cronologieo. Il }rincipio cronologico (Iella conoscenza e il ]>articolare e il sensiliile. perch * ojiiii conoscenza deriva, in ultima analisi. daircs]>erienza: ma il principio logico della conoscenza  ci clie vi ha tta da principii evidenti ]>(^r se stessi, e questi sono i i)i univeisali. (^uantunhiettivazione e un'esiu-essione metaforica di i granile notoriet (secondo l'ordine logico) dei i)rincipii universali  assoluta, eiot> la stessa per tutti e in tutti i casi, mentre l'anteriorit e la jdi grande notoriet del fatto [)articolare (secondo l'ordine cronologico)  relativa, varia secondo gl'iiulividui e i casi. In elfetto, se  costante che la conoscenza di alcuni ]>articolari (indeterminatamente) jireceda quella Udl'universale,  jniramente accidentale che i particolari (dtermin;iti) la cui (^(mo-^iicuiza ha. effettivamente preceduto la conosertcie, a riattaccare tutti i feuoneni geometrici che t^ssa pu jiresentare a un solo feunueno fondamentale, riguardato come definizione primitiva. A. ('onte, (^orsit di filos. posi!, lez. -t risulta evidentemente dalle sue dichiarazioni che per lui, come per gli altri filosofi aprioristi, il valore di questo metodo consiste principalmente in ci ch'esso fa vedere il perch, la ragione dei fatti, ne d spiegazione . Egli considera anche gli attributi inclusi nella definizione come le cause delle propriet della cosa definita (il medio della dimostrazione  la causa, per Aristotile, e la definizione  il ttedlo)\ [)erch essi sono la ragion sufficiente (nel senso leibnitziano della parola) della presenza di ([Ueste propriet nella cosa . E in questo 1 1 V. AnL Post.. Aristotile identifica continuamente questi due conc caso. V analogia d jKirticolare che se ne ]ui dedurre. X'^oi ah]iani i segnalati che ci (jffra Aristotile di traslormazioin di una relazione logica in relazione ontol(gica. Xotiamo che ({uesta trasformazione non pitreh]>e aver luogo che in una tilosi>lia clu^ non vede ch(^ ih',1 metodo a pri(H-i. cio tlimostrativo, il solo metinlo rigorosannuite scientifico:  soltanto quando il met(Ml della scienza (^ il dimostrativo, cio (luamh la cinn)sce-nza si dedutro giudizio, ma ancora della verit stessa, eia rhc si rhiama purr nujwne a priori e la causa ludle cose corrisponde alla nujione nelle verit .V. S. suWintcnd. um. 1. t, e. 17, vS 1.) In eletto  solo allora che la verit delU eonse-nenze dipende da (inedia dei principii ma non reeiproeamente la verit dei prineipii da (luella delle concernenze,: se invece le pren.esse generali si ammettono sulla prova dei latti particolari, la verit delle premesse dipende da quella delle onseonenze altrettanto che la verit delle conseguenze da quella delle piemesse. Non dobbiamo passare sotto silenzio che non tutti gli attributi della specie eram ritenuti dai peripatetici derivare dall'essenza, ma solo i iH'opri: si ammettevano, oltre i propri, degli attributi comuni a tutti gl'individui della specie che sopraggiuugevano all'essenza, ma ncm ne derivavano, erano gli aeeidenti ivseparahili. Tanto il proprio quanto l'accidente inseparabile erano predicati universalmente della specie; ma solo il proprio era predicato ueeessariameute. Questa necessit della predicaziime del proprio era quella specie di necessit che si attribuisce alle verit il cui -contrario  o si pretende inconcepibile o ripugnante .V IVrtirio Isag. De Accidente, e cofr. Zabarella Commeu. m Anul. Post. l. 1. c.ont. 52): era inlatti (Questa necessit che conveniva a un predicato il quale poteva essere dimostrato del sogiiiBiiTinijujiuiiijMiiiwiijMi,iijiimMi Ora  chiara la filiazione del concetto dell'essenza della metafisica moderna dal concetto dell'essenza della filosofia peripatetica: mano mano che si disperava di trovare queste definizini luminose, rischiaranti tutta la getto . Per la dottrina dell'accidente inseparal)ile i peripatetici si mettevano in contraddizione col concetto del predicabile accidente (Vaccidente, quale uno dei cimine predicabili, si definiva: quod inesse ae non inessc cidem pofest, Porfirio Tsufj. De accid., Arist. Top. S. al tempo stesso che col ])resupposto fondamentale della teoria della detniziime e dell'essenza. Il motivo ])er ammettere degli attributi generali della specie che tuttavia non derivavano dall'essenza, era, pare, l'idea che un attributo derivante dall'essenza non poteva trovarsi che l love si trovava l'essenza stessa: infatti il proprio si definiva, non solo: un attributo necessario derivante dall' essenza, uni ancora: un attributo (non essenziale) che conviene a tntta la specie e ed essa sola. Forse quest'idea era una conseguenza della tendenza che si ha generalmente ad ammettere che lo stesso eftetto ^ sempre dovuto alla stessa causa (il V. sofisma a priori di Stuart-Mill), l'essenza, come abbiamo detto, essendo considerata come causa e le propriet come efictti. Per mettere d'accordo il principio che uno stesso effetto non pu av(;re che una sola causa col presupposto della teoria lell'essenza (che vi ha una connessione necessaria tra tutti gli attributi della specie j, bisogna ammettere che tutti gli attributi generali della specie. salvo quelli che sono comuni a tutto il genere, sono proiri della specie: ma si era forzati dall'esperienza ad ammettere anche degli attributi generali, che, senza essere generici, non erano nemmeno propri esclusivamente della specie ; di l il concetto ibrido dell' accidente inseparabile. Del resto la contraddizione tra il concetto dell'accidente inseparabile e l'esigenza generale della teoria faceva s che la regola che il proprio doveva convenire esclusivamente alla sola specie era posta in obblio, e degli attributi che, conformemente a questa regola, avrebbero dovuto considerarsi come accidenti inseparabili, erano invece considerati come propri, cio come derivanti dall'essenza (p. e. la sfericit della luna, dice un perii t I SO natura della cosa, (jiieste difterenze spociticlio da cui tutte le propriet degli esseri dovevano poter essere dedotte, le essenze, bench s continuasse ad ainnietterle, si alJontaiiavano dal campo della conoscenza effettiva, sinch esse cessarono di essere considerate come roi>-o'etto della definizione, e allora il concetto moderno (il metafisico) dell'essenza prese il posto del concetto antico . pateticM). U'i'iv.i sciizjj (lul>lio (1;j11;i iiatuni. dolht Iumm. e )>otr(iblH' diinostmrsi, str picstji luitiira losst conosciuta. V. Zahan'lla Ih' nn'ido dcmoHstnii. 1. 1. aral)i!i lovcvaiio essere ^iiulica/i tuto seain)iarsi con la natura stessa della cosa, cio con la totalit ml>a.i;na sempre la specie, e vhi\ non  considerato comj; un jh'Opritnn, non  introd(>tto nell'esseuza. ci si risponden'bbe verisimilmente che il ccdore de:;li animali * una (qualit variabile, instabiN : esso cangila spesso allorch' tutte le altn qualil s"enere prossimo e la differenza specifica, una sola, ])erch la dicotoma (divisione del genere in due specie per l'au'o'iunzione di due differenze mutuamente opposte), che  il metodo di Platone periscoprire le definizioni , non pu dare che una sola differenza specifica. Ora questa definizione, evidentemente, doveva esaurire la natura della cosa definita; i)erch il metodo di divisione avea per oi4'i>'etto di dmoHlrarp le Idee (le specie', nel tentpo stesso che di dcfrlo. e la dialettica di Platone era, come (j nella di Heg*el, un metodo che pretendeva di riprodurre, nelTordiiu'. dei concetti, la 4>enesi stessa delle cose, di ricrearle per il i)ensiero (8). Sicch, scopreulo le definizioni delle Idee, erano le Idee stesse, quali esse sono in se stesse, che Platone intendeva avere sco\'erte, e la definizione doveva essere 1' esprc^ssione esatta, completa, della natura dell'Idea (della Specie). Ma perci era necesssario che i caratteri esjdicfamerde inclusi nell'essenza fossero supi)Osti racchiudere impicifavcfe tutti gli altri caratteri della specie:  solo a (|ueb*ri\"an bdla (h'iisca dta dei testi p(^r c)m]U'ovar(^ piesta detinizione della parola: l'inind* ju'incipi) bdb' i)ropri"t naturali b'ih' cose). Xd M'n)ne (71 ab. Si> c-l. Ulti h) stabilisce [uesta reoda li met>do. die per cri't l'una -osa biso"'mj juima avt-r Mnos(dut l'c^ssenza li pu'sta -osa. V. *ap. se^Ui^nte. {'^) V. cap. seguente. -tmtUtm sta condizione che la dialettica poteva essere, come Timniaginava Platone, una ricostruzione a priori del mondo delle Idee (cio di questa stessa natura reale contemplata sub specie aeterntatis). Questo rapporto tra la dialettica di Platone e la teoria della definizione ch'egli ha in comune con Aristotile, lo vedremo pi chiaramente nel capitolo seguente. 4. La dottrina platonicoaristotelica sulla definizione, oltre la connessione necessaria e intelligibile a priori tra le diverse proj)riet di un genere, suppone di pi l'anteriorit logica di uno dei caratteri differenziali del genere su tutti gli altri. Ma vi hanno anche dei casi in cui la prima di queste due suyjposizioni sta senza l'altra. Ascoltiamo, p. e., Leibnitz: Quando un'idea  distinta, e contiene la definizione o le marche reciproche dell'oggetto, essa potr essere inadequata o incompleta, cio quando queste marche o questi ingredienti non sono |)ure tutti distintamente conosciuti, p. e.: l'oro  un metallo che resiste alla coppella e all'acqua forte. Questa  un'idea distinta, perch d delle marche o la definizione dell'oro; ma non  completa, perch la natura della coppellazione e dell'operazione dell'acqua forte non ci  abbastanza conosciuta. Donde segue che (juando non vi ha che un'idea incompleta, lo stesso soggetto  suscettibile di pi definizioni indipendenti le une dalle altre, di modo che non si potrebbero sempre tirare l'una dall'altra, u prevedere ch'esse debbono appartenere allo stesso sogg^etto, e allora la sola esperienza c'insegna ch'esse gli appartengono tutte al tem|)0 stesso. Cosi l'ora potr ancora essere definito il pi pesante dei nostri corpi, o il pi malleabile, senza parlare di altre definizioni che si potrebbero fare. Ma non sar che quando gli uomini avranno penetrato pi avanti nella natura delle cose che si potr vedere perch appartiene al pi pesante dei metalli (o al pi malleabile) di resistere a queste due prove dei saggiatori  . L'autore suppone dunque che quando l'idea  completa (cio quando abbiamo una conoscenza distinta degli attributi inclusi nella definizione) le diverse definizioni di cui il soggetto  suscettibile (facendo tante definizioni quanti sono i caratteri differenziali) si possono tirare l'una dall'altra, e prevedere indipendentemente dall'esperienza ch'else appartengono tutte allo stesso soggetto: in altri termini egli suppone, come Platone ed Aristotile, che le diverse propriet della specie sono necessariamente legate, e che l'una pu dare tutte le altre; ma non riguarda, come essi, una di queste propriet come primitiva, e le altre come derivate. Vi ha nella scieiza moderna una notevole applicazione del concetto che le diverse propriet di un genere hanno una connessione necessaria e intelligibile a priori, senza la supposizione dell'anteriorit logica di una propriet sulle altre:  la dottrina di Cuvier della correlazione necessaria fra le parti di un organismo. Questa dottrina si riassume nelle seguenti parole dell'autore: Ogni essere organizzato forma un insieme, un sistema unico e chiuso, di cui le parti si corris|)ondono mutuamente e concorrono alla stesssa azione definitiva per una reazione reciproca. Alcuna di queste parti non pu cangiare senza che le altre cangino pure, e per conseguenza ciascuna di esse, presa separatamente, indica e d tutte le altre . In altri termini, la funzione di ciascuna parte di un organismo cooperando con le funzioni di tutte le altre, ciascuna parte deve adattarsi a tutte le altre: donde segue, secondo Cuvier, che una [)*irte qualsiasi e la sua forma pu indicare, indipendentemente dalPosservazione, quali altre parti devono coesistere con Y. .y. aulVhU. um. 1. 2. e. 31 ^ P Discorso sulle rivoluzioni della superficie del iflobo. ^ VV^. essa, e ([ualo deve essere la loro forma, in modo che ciascuna i)ii essere data da ciascuiraltra, e tutte da una sola. Ci importa che vi ha fra tutti i caratteri, i quali entrano nella descrizione di una specie, di un genere, di una famiglia, ecc., in nna ]>arola di tutte le classi di qualsiasi grado di generalit in cui i naturalisti distribuiscono gli esseri viventi, una connessione tale che, dato un solo carattere della classe, tutti gli altri se ne possono dedurre. Il i)rincipio della finalit interiore degli esseri organizzati, dal quale Cuvier dcM'iva la sua leizae della correlazione organica, non ha nella sua dottrina una base teologica: se gli organi sono adattati gli uni agli altri e al regime di vita dell'animale, ci non  perch il Creatore ha voluto che sia cosi, ma perch ci  una condizione necessaria dell'esistenza dellauiniale, perch se una funzione fosse modificata d'una maniera incom|)atil)il(* con le altre, l'animale non j)otre!)l)e esistere. Le leggi delle coesistenze e correlazioni degli organi possono essere sco[>erte a priori, deducendole dal princi[)io delle condizioni di esistenza ([)rincipio delle cause finali dei metafisici;; ma p(*r l'imperfezione delle sue conoscenze sull'influenza reciproca delle funzioni e l'uso degli organi, il naturalista  spesso costretto di abbandonare il metodo razionale, e contentarsi di ({uello Hupplemeifctre dell'osservazione, che gli fa conoscere che una relazione  costante, ma senza farglicne comprendere la ragione. . Bisoo-na distinguere fra una dottrina che si limita ad ammettere l'adiUtanento degli organi fra di loro e al moilo di vita dell'animale, e una dottrina che [>retende che un cangiamento (qualsiasi legli organi renderebbe l'animale improprio al suo modo di vita, e che resistenza e lo stato di ciascuna part(^ dell'organismo  talmente legata all'esistenza e allo stato delle altre, che, data,r una . le altre non potrebbero essere d' una maSf) niera differente senza che vengano meno \i\ condizioni necessarie dell'esistenza dell'animale. Di (jueste due dottrine la scienza contemporanea accetta la priua, ma respinge la seconda, che  ])ai"ten!iono. e che se una delle sue tunzioni fosse nioditcata l'una nianiera inconipatilule con le moditicazioni delle altre, !>:  In una ]>ar(da la forma del dente trascina la t'orma del (ondile. aratamenti' per l)ase d'un'erie:t piaulunque, cos l'uniiliia. r(nm>plata. il condile. il temore e tutte 1, e sarebbe impossibile che ve ne t'osse pi di uno (4;; che deve esservi pi di un movimento nel cielo (5i', che il mondo  necessariaiiumte sferico ((ii; ecc.: come esenipi della seconda forma, quelli in cui spiega perch il cielo si muove da oriente a occidente (7); perch le stelle sono sferiche; ecc.: In quanto a Noi abbiamo visto ('(mio nella (h)ttrina di Ciivit^r h^lla eorrehizioiie (leU(i forme la s})ieiiazioue apriorista si tVmde con la teleologica, l'u fusione di queste due forme di sjueoazioue deve ammettersi pure nelle coneezioni di Platone e di Aristotele sulla connessione tra i caratteri delle classi naturali, poich la loro dottrina sulla definizione, secondo cui le propriet possono dedursi a priori dall'essenza, deve conciliarsi ctm l'importanza suprema che il i)rincipio d(dle cause tnali ha nella loro tllosotia conc mezzo di spiegazione. {2i . Su]>plem. i\ Il [ntagorismo nel Timeo. (:^) De Coel 1. I. II. 2-5 ed. Didot, IH. 7. ('fr. (ialileo Dialof/h sfii massimi sistemi, giornata >rima. verso il principio. De Coelo De Coelo 1. l. ili. De Coelo De Coelo De Coelo . Platone, la sua spiegazione del eosuios , se 8 prende il Timeo alla lettera, una si)ieo\azione teleolog'ica e teolo^'ica: ma uuardando, pi che alla lettera del Timeo, ai |)rincipii >-enerali del sistema delle Idee, si vedr chela teleologia platonica , non trascendente, ma inuiianente, e che essa fa parte, come un momento subordinato, di una s[)ie^azione essenzialmente apriorista, per cui r ultima rag-ione delh; cose sta nella necessit, lo(''ica, che fa si che esse non potrebbero, senza contraddizione . essere altrimenti di come sono. A tal fine bisoa'na tener presente: 1. Che il Deminrii'o del Timeo  un elemento |)uramente rapi)resentativo. il . il vero essere, l'essere puro e senza restrizione: ma  imi.ossil.ile e contraddittorio .-he il vero essere non sia; Dio dunque uocessariamente i'. Questa forma si trova in S Bonaventura f/(.er. m^r. ;, i>*'H,e. 3). in Malebranche (v. Mie della ver.. . 4. e. ll.(, in Gioberti (v. Mr. allo si. della filos. Milano 1850 t. 1. paji. 272; e efr. p. . 2Hfi. . e crii altri luoghi delle sue opere iu cui atferma che .1 indizio VEnte  ft analitico Altre forme della dimostrazione a priori deducono l'esistenza di Dio. non dal suo concetto o essenza, co me le precedenti, ma dai suoi attributi. I.a pi notevole  u.iella di Clarke: il tempo e lo spazio, l'eternit e l'immensit, sono delle cose necessarie . che fe impossibile di c.ncepire che non esistano; ma queste cose sono degli astratti, che suppongono un essere concreto in cui ineriscano come attributi . e questo non pu essere che Dio; dumpie l'esistenza di Dio  necessaria (V. Tratt. dell'esist. ecc. e. 4, 20-26, Framm. d'um, W. 16.5. ecc.; Allo stesso tipo di dimostrazione a priori, dedotte, come questa di Clarke. da un'appartenenza di Dio. e non lalla sua essenza (e aventi per eggetto di stabilire la necessit metafisica dell'esistenza di Dio), possono ricondursi luella di Rosmini fondata sella necessit dell'essere ideale e la sua inerenza iu Dio (N. S. sulVorig. delle idee. n. 14.-8 e 1460J. e quella di Mamiani fondata sulla realt delle verit eterne e la loro inerenza ili Dio. (V. Uonfe.is. d'vn metaf. v. I, 1. 1. e. 11). l'unica iimnag'iiiabile, (|uantuu(|iie illusoria, d' un ju-oblema, che si presenta naturalmente, se non inevitabilnunite, nella moderna, filosofia teologica . Lo stesso KsMit. \'i naturale (the il cosiuolo^ico. e clnaiiii r oiitti*o . pure dice:  f^a ueeessitsi assoluta  il vero abisso Iella l'ai^iouc^ iiinaua Non possiamo difenderei dal ])ensero seguente u^ s(]portarIo. che un cssen* che noi ci iap})resentianio eonu' il iifi elevat di tutti:j.li esseri p>ssi\>ili . ri di ine. rimitivo. il quale  di sua natura insolubile. La terra riposa suU'idei'ante. 1' elefante sulla tartaru.Lia: ma su cdie ripos.-i hi rartarniia i (Mie si eonsiita iimmio stalulito eln' nna sostanza ultima esiste eoi suoi attrilniti. Mu donde viene elie essa esiste . eseienza L(> sjurito umano  senza dub)io trojipo grossolano e tr(]>]>o basso jH'i mni adtuarsi prontamente al ))i grande dei misteri (die r iiivilui>i>aiio . jn'r non ('(mteiitarsi di porre esattamente il problema senza cercare di risolveido (Filf)x, delV hwose'inte 3. ])arte. XW (ili ultimi i>rinci])ii. n. \). N(d abbiaim ^i riterito un luo^o di (ijilluppi, (die aiiiiiiett(^ (die. se noi c(Mioscessinio l'essenza di Dio. potremnn dedurne, a, prioi'i. la sua esistenza: e un altro di d'Alemlx^rt. (die vede nella ([uistione d(d iK'reh' deir(\sist(;uza (Ud primo essere il problema capitale da cui dipendono tutti ujli altri. A.i;;i;iuii.iianio (he tutti I l^*-' 59; fjSo titolo di dimostrazione a priori^ con cui quest'ariiomento veniva desf>'nato quando il senso della parola a pi-io ri non era ancora quello attuale, c'indica chiaramente che esso  stato, sin dall'inizio, compreso come un ragionamento che non prova semplicenKMite che Dio esiste, ma fa vedere inoltre la rag'ione perch e-li scolastici chiamavano a jn-iori la dimostrazione che provava un fatto per la sua causa (il termine causa essendo usato, come abbiamo visto, dai peripatetici in un senso lato, in cui poteva comprendersi pure la rag'ione dell'esistenza d'una cosa, (iuantun(jue questa ra*>'ione noti fosse una causa jirop ria mente detta). L' anolog'ia della rag'ione a priori per cui si dimostra l'esistenza di Dio, con la causa,  stata sfiinta ancora pi innanzi nella metafisica mod(M-na, in cui ed (i ci che prova della maniera [)i palpabile (|ual(* sia il motivo e lo scopo dell' a rg'o mento ontologico alcuni, e dei [)rincipali, tra i fautori di (juest'arg'omento affermano netttamente ch(^ la ragione  y^y/o/v' dell'esistenza di Dio  la cuttHCi di (juesta esistenza. Secondo Cartesio, si deve domandare di Dio, come d' ogni altra cosa esistente, qual  la causa per cui egii esiste; e Dio fa in (lualche modo riguardo a se stesso ci che la causa (efficiente riguardo all'effetto: e quantuncjue egli non emetta quest' affermazione a proposito dell' argomento ontologico, non pu esservi dubbio ch'egli non abbia di mira i tilosoli che inii)iej;an(> rar4, t5S, e ffisp. (d/r (^latrtr ohhicz., t. 2 iiag. M-74. r analo^^-ia tra la ragione per cui si dimostra Dio a priori e la causa efficiente. In effetto, come schiarimento  difesa contro le obbiezioni che gli vengono mosse, dice: che Dio  per s come per una causa formale, ma pu riguardarsi, in un senso analogico, come causa efficiente di se steso, per il gran rapporto che vi ha tra la causa formale, cio la ragione presa dall'essenza di Dio, e la causa efficiente (li; che la proposizione che Dio  per se come per una causa (e non come: senza causa) d(^ve intendersi in ([uesto senso, che l'essenza di Dio  tale, che  impossibile che egli non esista sempre , e che non ha bisogno, per esistere, di una causa esteriore ; e che la causa o la ragione per cui egli esiste da s, e non ha bisogno, per esistere, di una causa esteriore,  Viinmenslt della sua essenza (non bisogna dimenticare che l'argomento ontologico di Cartesio deduce V esistenza di Dio dal suo concetto o essenza di essere infinito in cui tutte le perfezioni devono essere comprese ). Spinoza, dando una forma rigida V. l^isp. (llr (,h(t(rtf. ohbiez.. . puj;. (>2-7l. V. Jiisp. ((Ih' Sci', ohhicz, t. 1. p. . V. Kiap. (illr Oiutrtr ohbiez., t. 2. p. (>5-l>8. Risp. itili' Sei'. Ohhii'z., t. 1. pajj. 4oS. Cartesio d pure mi altro scliiarinciito alla proposizione che Dio t' [iT s^ i'oiic per ima causa; voh che la causa per cui Dio ^. e continua seniir: ma. per fortitcare quest'argomento, ej^li dice appunto (nella stessa Risposta alle Sec. Obb. t. 1. pa;. 894) che neir idea di un essere sovranamente possente h contenuta l'esistenza necessaria, e che considerando 1' infinita potenza di (piest'essere. noi conosciamo cire('Z(Hl). U) V. Infroflx:. allo studio drlhi fiJos., t. l notti )2, ed. Milano I.S50 )a--. trit-t.^. Cfr. iid. jkij. 2M!.29(). tJrr. nios. di A, Rosmini. Hnisselle iStS t. 1 ]>a,u. :^()4-S()r), ecc. 597 un principio realmente anteriore al principio primo del suo sistema.  vero nondimeno che questi filosofi prendono in un senso troppo realista le loro proprie metafore, scambiando una vaga analogia con una vera identit : ci mostra quanto sia naturale di confondere la ragione a priori con la causa efficiente;  una confusione simile a quella che facevano gli aristotelici quando riguardavano l'essenza come la causa efficiente delle propriet. Sono dei fatti propri a spargere (pialche luce sull'origine dei sistemi di cui tratteremo nel capitolo seguente, i quali, come vedremo, sono fondati sulla identificaziou\ nel senso pi rigoroso, del rapporto fra il principio e la conseguenza e (piello tra la causa e l'effetto. In compenso, quella specie di vago e inconscio realismo che  nelle proposizioni precedenti, in cui r essenza e la necessit assoluta sembrano trattate come delle cose anteriori all'esistenza io agli attributi, nelle proposizioni dei peripatetici), che i)roducono l'esistenza vO gli attributi), ricever della luce, alla sua volta, dal realismo franco (^ deciso di (luesti sistemi . (\) Non ]K)ssiani lascijire osto, che il concetto di Dio racchiude (luello della sua esistenza: ma se  cos, come ben osserva (T(d)erti yTtrod. tomo 1. nota ) ). la voce Do eiiuivale alla proposiziont^ I)iiu unji dinn^strazione. ma soltanto la costatazione di questo tatto, che  impossibile di conc(q)ire Dio (di concepirlo d'una maniera chiara) senza concepire al tem')0 stesso ch'ejili esiste ed esiste necessariamente, e l'esistenza di Dio da teon^ma diviene assioma. Lo stesso Cartesio  costretto qualche volta a convenirne: cos nelle sue Hajjjioni che provano l'esistenza di Dio ecc. dis})ost(^ d' una maniera geometrica, vi ha questa domanda:  In quinto luogo io domando che si fermino lungamente^ a contemplare la natura dell'essere sovranamente perfetto; e tra altre cose che essi considerino che nelle idee di tutte le altre nature l'esistenza possibile si trova bene contenuta^ ma che nell'idea di Dio non h solo un'esistenza l)ossil)ilt^ ch(^ si trova contenuta, ma un'esistenza assolutamente necessaria. (Ci  riguardato da C'artesio conu' una verit assiomatica. V. nelle stesse Kagioni ecc. l'assioma). Perch da ci solo, e senza alcun ra. De.^-Bosses 17 marzo EpUt.alp. Des-BossesW marzo p. bis 1. 15 assolutamente i parti assolutamente di parti 1). bis n. 3, 1. 2 (Dut. II. I. 46>, Resp. (Dut. II. 1.46), Monadol. 2, Resp. p. 16a bis n. 2 sire insita ' sire de ci insita p. 167 ])is nota, 1. 15 confusa dell'universo il confusa dell'universo) il p. 169 bis 1. 2 testo una teotia una teoria 1. 2 nota non semina da ci non segua da ci p. 172 bis 1. 1 mistero rel mistero reale 1. 13 forza richiedente forza risiedente p. bis 1. 12 quella cis insita ({uesta cis insita 1. 22.  una volta entrata/ una volta entrato note, 1. 1 in nota. Ci per in nota) -Ci per 1. 3 in seguito). in seguite. p. bis 1. 8-9 hanno sensazione, ma non nel hanno sensazioni, ma non, nel senso stretto, senso stretto, 1. 12 non, vi ha in esse non vi lia in esse p. 194 )is . 18 come la reale come reale p. 195 bis n. 4 1. 0-7 interno: (.bid. nota 27, nota 24, interno (v. ibid. nota 27, noto artic. 4, ecc)  24. artic. l,. ecc.):  p. 201 bis 1. 21 da queste conformit da queste uniformit p. 203 bis 1. 12 i fenomeni appariscono i fenomeni ci appariscono bis 1. quortult. reffetto: Kant retfetto; Kant p. 214 bis 1. 0 sia che facciano sia che facciano p. bis 1. 9 connexio recam ronnervio reram p. 230 bis 1. sestult. ha due fatti tra due fatti [). 234 1. Idea filosofia della niosofia 1. 29-30 necetralizzare neutralizzare p. 272 1. 19 tal ettetto "" ^al effetto p. 1. 16 e di assegnare  di assegnare 1. . distolsero I' distolsero p. 1. 14 L'alternativa  inevitabile L'alternativa, secondo lui.  dunque inevitabile p. n. 1, 1. 6 che sanr che sar p. 291 1. 26 ci tratterebbe si tratterebbe p. 292 1. 18-19 ma, evidente "la  evidente p. 307 1. 1 III Noi abbiamo > Noi abbiamo p. , nota, 1. 3 non magis nos magis 1. 4 debat d.^beat i p. 311. nota, 1. 0  cosi in genere  cos in generale p. 1. ult. testo L'attrazine/L'attrazione dall'infanzia/dell'infanzia di questa di filosofia/di questa filosofia caduta del corpo primitivo/caduta del corpo primitiva Qualunque la filosofia/Quantunque la filosofia in rjue.^to modo in qwesto mondo successone/successione possa o lo sappia lo possa e lo sappia Tvndall/Tyndall dove sembrava allora doveva sembrare allora questa inferenza questa inferenza p. 384 nota 96 e seg. 96 a e seg. p. l. 4 dalla nostra affermazione della nostra afi^ermazione p. 390 1. t che e si suppongono che si suppongono p. 407 1. 24 ^6 '^> p. 415 l. 27-28 11 ministero/mistero metaempirico o metafisico/metaempirico e metafisico Harcllton/Hamilton p. 423 1. sestult. K E ancora E ancora p. 1. 1 note dei enunciati d'enunciati l'oggetto della scienza loggetto di questa scienza che ci sono i pi familiari che ci sono le pi familiari p. n. 1 1. 2 (t. 11 1. 3 Sec. ob)iez. p. 451 1. 15 restando la stessa p. 453 1. 17 (cio quali sono p. 1. 7 di setpienze invarial)ill p. 4e astrazione n classificazicme degli oggetti. Ma per qual ragione? Inoltre questi sviluppi che Mill d alla teoria di Corate ingrandiscono un altro dei punti deboli di questa teoria, cio la supposizione gratuita che vi  stato un periodo, nello sviluppo dello spirito umano, in cui la realizzazione delle astrazioni era un fatto universale sorvoliamo sulla stranezza di attribuire agli uomini appena usciti dal feticismo le nozioni di ature o essenze delle cose e di virt alla scolastica, che, stando ai dati della storia, non appariscono che con Platone e Aristotile e i loro discepoli. Stuart Mill fa una enumerazione delle astrazioni a cui i filosofi hanno attribuito l'obbiettivit; ma questa enumerazione  ben lungi dal provare che vi  stato un periodo, dopo la cessazione del feticismo o ad un'altra epoca qualunque, in cui tutti gli uomini, o i filosofi, hanno considerato generalmente le astrazioni come entit reali. A questa fase (la metafisica) non  pi un Dio che produce e dirige ciascuna delle diverse operazioni della natura:  una potenza o una forza o una qualit occulta, considerate come esistenze reali inerenti, bench ne siano distinte, ai corpi concreti nei quali esse risiedono e i quali animano in qualche sorta. In luoiro delle Driadi presiedenti agli alberi e producenti e regolanti i loro fenomeni, ciascuna pianta o ciascun animalepossiede allora un' anima vegetativa, la Spenuxrj i/jv^rj d'Aristotile. A un periodo ulteriore l'anima vegetativa diviene una Forza plastica, e pi tardi ancora un Principio vitale. Gli oggetti allora si conducono come fanno II perch  la loro Essenza d'agire cos ovvero in ragione di una virt inerente. Si rende conto dei fenomeni per le tendenze o le inclinazioni supposte dell'astrazione Natura, che, bench riguardata come impersonale,  rappresentata come agente per una sorta di motivo e d'una maniera pi o meno analoga a quella degli esseri coscienti. Aristotile afferma la tendenza della Natura verso il meglio, ci che gli fornisce la teoria d' un gran numero di fenomeni naturali. L'elevazione dell'acqua nella pompa  attribuita all'orrore della natura per il vuoto. La caduta dei corpi gravi e 1' ascensione della fiamma e del fumo sono interpretate come tentativi fatti da ciascuno di essi per occupare il suo posto naturale. Dalla dottrina che la natura non ha interruzioni (non habet saltum) si deducono molte conseguenze importanti. In medicina la forza curativa della Natura (vis medivatrix) fornisce la spiegazione dei processi riparatori che sono rapportati, dai fisiologi moderni, ciascuno alle sue operazioni e alle sue leggi particolari  .  Nessuno negher, a meno d^ignorare interamente la storia del pensiero, che in tutta l'antichit e in tutto il medio evo la speculazione  stata impregnata dell'errore che consiste a prendere delle astrazioni per delle realt. Le famose Idee di Platone furono la generalizzazione e la sistematizzazione di questo errore. Gli Aristotelici lo perpetuarono. Le essenze, le quiddit, le virt risiedenti nelle cose furono accettate come una spiegazione bona fide dei fenomeni... L'esistenza reale delie sostanze universali fu la quistione in litigio nella famosa controversia della fine del medio evo tra il Nominalismo e il Realismo, controversia che rappresenta uno dei punti capitali della storia del pensiero, perch  la prima lotta di questo per emanci ^. Comte e il posit, trad. frane, p. 11-12.I 4. 'A A 18 parsi dall'impero delle astrazioni verbali. I Realisti furono il partito pi forte; ma bench i Nominalisti avessero per un tempo soccombuto, la dottrina contro di cui essi si erano ritoltati cadde, dopo un breve intervallo, col resto della filosofa scolastica. Ma mentre le sostanze universali e le forme sostanziali, costituenti la specie pi grossolana di astrazioni realizzate, furono pi presto messe da parte, le essenze, le virt e le qualit occulte loro sopravvissero lungamente e furono per la prima volta completamente espulse dal dominio dell'esistenza reale dai cartesiani Anche lungo t^mpo dopo Cartesio si continua ad immaginare delle entit fittizie, come le chiama felicemente Bentham, per rendersi conto dei fenomeni pi misteriosi, sovratutto in fisiologia, dove, nascosti sotto una grande variet despressioni, delle forze o princpii misteriosi erano o rimpiazzavano la spiegazione dei fenomeni deglesseri organizzati. Per i filosofi queste finzioni sono semplicemente i nomi astratti delle classi di fenomeni che loro corrispondono. Alle astrazioni realizzate enumerate qui dall'autore possiamo aggiungere quelle degli antichi Indiani e degli hegeliani, indicate in un luogo citato in una nota precedente, e avremo una lista pressoch completa dei fatti che possono addursi per sostenere la teoria di Comte e di Mill, che vi ha un periodo nella evoluzione del pensiero umano, lo stato metafisico, la cui nota caratteristica ed essenziale  di elevare le astrazioni al grado di realt. Ma molti dei concetti indicati dal Mill non hanno alcun titolo per essere riguardati come astrazioni realizzate. L' anima vegetativa di Aristotile, egualmente che Mill, Comie e il positivismo, traduzione frane, Log. la sua anima umana (eccetto il nous) e animale, non  data da lui come una entit reale:  l'insieme delle funzioni del corpo organizzato, la sua forma o la sua energia, e questa, come le altre forme o essenze delle cose, non  per lui una realt sussistente per s stessa, non si distingue dalla materia realmente, ma solo c&n^ cettualmente. Le proposizioni dello stesso Aristotile e dei Peripatetici e le altre proposizioni simili, che attribuiscono alla natura delle tendenze e delle inclinazioni come ad un essere cosciente, sono, non dico affiitto innocenti, ma certo meno ree di metafisica di quanto lo suppone Mill.  Non bisognerebbe, dice Naville , esagerare 1 portata di questa mitologia, nella quale si deve fare la I^arte delle forme del linguaggio. L'orrore del vuoto attribuito alla natura, Famore del riposo attribuito ai corpi, erano delle formule che aggruppavano un gran numero di fatti reali. Il male era di prendere l'espressione figurata di un gruppo di fatti per un principio di spiegazione al quale la ricerca si termava.  manifesto, per esempio, che sinch si considerava l' orrore del vuoto come la spiegazione dell'ascensione dell'acqua in una pompa, non si dovevano studiare i rapporti del fatto col peso dell' atmosfera y> . Noi ammettiamo che in queste espressioni vi era spesso qualche cosa di pi che delle semplici metafore: era il concetto di una finalit incosciente attribuita alla na Orig. della fisica moderna, Rev. scientif. . Per mostrare quanto si pu andare lungi in questa via, di attribuire gratuitamente delle assurdit ai filosofi, metafisici o non metafsici, prendendo strettamente alla lettera le loro espressioni metaforiche, baster di citare l'esempio di Max-Miiller, che vede una personificazione della natura nella dottrina di Darwin della scelta o selezione naturale. V. Nuove Letture sulla scienza del linguaggio, trad. ital. II voi. p ^ I tura, in cui lo spirito vedeva un sembiante di spiegazione dei fatti, perch vi trovava una vaga assimilazione delle operazioni della natura a quelle dell'uomo, conformemente a quest'illusione naturale che ci spinge a credere che un fatto non  spiegato che quando  assimilato ai fatti che ci sono i pi familiari. Ma se ci  metafisica, non  per realizzazione di astrazioni, perch la pi parte dei filosofi, egualmente che il volgare, intende per natura il complesso di tutti gli esseri esistenti o almeno osservabili, e non un'entit astratta, n se ne fa un'entit astratta quando si personifica, ma semplicemente si umamizza (in una parola, nelle proposizioni sulla natura indicate dal Mill, non vi ha del realismo, ma una forma vaga delV antropomorfismo). Semba dunque che il Mill ha fallito in questo suo tentativo di dare un senso accettabile alla proposizione del Comte, che il sistema metafisico tende, come gli altri due, all'unit, e che il suo ultimo termine  consiste a concepire, in luogo delle differenti entit particolari, una sola grande entit generale, la natura  . Per quanto concerne le sostanze universali, le forme sostanziali, le qualit occulte, ecc. degli scolastici, noi abbiamo gi fatto le nostre riserve quando abbiamo discusso la tesi stessa del Comte. Delle riserve simili dobbiamo fare per l'altra entit, che il Mill considera come la pi importante fra le astrazioni realizzate dalla metafisica, cio la Forza. A. Comte Corso di filos. posit, voi I p. 10. Nella Filos. di Hamilton, cap. 16, sulla fine, sembra ridurre tutto le entit metafisiche, cio tutte le astrazioni realizzate, a quella di forza.  a notare che qui 1' autore spiega le astrazioni realizzate, ridotte al concetto di Forza, altrimenti ohe nella Log. lib. V o. 3 } 4 e nello scritto A . Comte e il positivi^ smo. Questa spiegazione si riassume nella proposizione che la forza  una nozione puramente subbiettiva, che  un  prodotto La pi parte dei pensatori moderni intendono certamente per forza qualche cosa di pi che le condizioni osservabili che si trovano in un corpo, per cui pu modificare lo stato di riposo o di movimento di altri corpi  in questo senso la forza,  come le qualit occulte degli scolastici, una variet della forma della causa efficiente che noi possimo cliiamare agnosticista : ma pochi riguardano la forza come un essere distinto dalla materia e sussistente per se stesso, che  il meno che si possa esigere per classificarla fra le astrazioni realizzate. Cos, fatte queste sottrazioni ed altre simili, ecco press'a poco ci che ci resta di astrazioni realizzate, fra i concetti che hanno avuto un' importanza reale nella storia del pensiero: quelle degli antichi Indiani, dei Platonici, dei veri realisti del medio evo (che erano una minoranza), degli Hegeliani; di pi le Forze di quei pochi tsici o filosofi che considerano la forza come separata dalla materia, e il Principio vitale e altre entit congeneri che molti fisiologi e filosofi consideravano un tempo come le cause dei fenomeni degli esseri animati (a cui si potrebbe aggiungere anche l'anima, che, considerata come una sostanza,  certamente della stessa famiglia che il principio vitale).  evidente che questi dati non autorizzano la conclusione che fra il periodo teologico e il periodo positivo ne n'ha uno intermediario in cui la realizzazione delle astrazioni  un fatto generale, e nemmeno quella che  nella realizzazione delle astrazioni che consiste essenzialmente o precipuamente questo stato intermediario della generalizzazione e dell'astrazione operanti sulla sensazione reale di sforzo muscolare o nervoso.  Questa terza spiegazione dello stato metafisico sarebbe assai migliore delle altre due, se fosse realmente possibile di ricondurre tutte le astrazioni realizzate, e generalmente tutti i concetti metafisici, a quello di Forza  questa realizzazione di astrazioni  una conseguenza indiretta della tendenza ad assimilare le azioni della natura alle azioni dell'uomo, che  un caso di quella pi generale a ricondurre tutti i fatti a quelli che ci sono i'pi familiari. In tutti questi casi la vera sorgente dell'illusione  il sofisma a priori che ci spiega tutte le illusioni della metafisica, cio, enunciandolo nella forma pi generale, la tendenza a modellare tutt^i le nostre idee sul tipo di quelle che ci sono le pi familiari, di cui l'effetto pi importante  quello studiato nella prima parte del presente Saggio, vale a dire la nozione di causa efficiente e le sue diverse applicazioni.  ad esso che dobbiamo ricondurre quella realizzazione di astrazioni in cui si verificano le due condizioni precedentemente indicate, cio la forma di metafi^tica die pu definirsi propriamente come un'obbiettivazionedei concetti astratti:  hi sola realizzazione di astrazioni che per noi  suscettibile di una spiegazione generale, alla quale sar consacrato il resto di questo capitolo. Cominciamo per definire d'una maniera pi chiara questa forma di metafisica. Si sa che alla quistione: che cosa corrisponda, nella realt, ai nomi generali  astratti, che  che essi significhino, si sono date tre soluzioni, elle, prendendo queste denominazioni dalla filosofa dei medio evo, possiamo chiamare il realismo, il concettualismo e il nominalismo. Secondo il nominalismo, non solo non vi Itanno nella realt che oggetti concreti e particolari, ma noi non abbiamo altre idee che di oggetti concreti e particolari; un nome generale, cio un nome di classe, iiod significa altro, e non pu altro suggerirci allo spirito, che le idee degli oggetti particolari e concreti appartenenti alla classe in quanto ai nomi a8tratti,essi non servono che ad esprimere pi brevemente la stessa idea che potrebbe essere espressa da una proposizione che non avesse per termini che dei nomi designanti gli oggetti concreti corrispondenti. Il concettualismo, che  la dottrina pi diftusa tra i filosofi^ ammette, come il nominalismo, che non vi hanno nella realt che oggetti concreti e particolari, ma, a differenza del nominalismo, suppone che, oltre alle rappresentazioni di oggetti concreti e particolari, noi abbiamo delle rappresentazioni astratte e generali (concetti), cio in cai sarebbe rappresentato solamente ci che  comune a tutti gli individui della classe, con l'eschisione di tutte le particolarit proprie ai diversi individui. P. e. oltre all' idea di questo e quel triangolo particolare (reale o immaginario), noi avremmo, secondo questa dottrina, l'idea astratta e generale di triangolo, che rappresenterebbe le qualit che possono essere attribuite in comune a tutti i triangoli, ma senza le particolarit che sono proprie ad uno o ad alcuni, p. e. le dimensioni, il colore, il posto determinato, l'essere equilatero, isoscele o scaleno, l'essere rettangolo, ottusangolo o acutangolo, ecc. Una tale idea si chiama generale, in quanto conviene a tutti gl'individui d'una classe; astratta in quanto non rappresenta che le qualit comuni a tutti, con Tesclusione delle particolarit proprie a questi e a quegli altri. Secondo il realismo j come vi hanno, nella realt, delle cose corrispondenti alle idee concrete e particolari e di cui queste sono le rappresentazioni, cosi vi hanno pure, nella realt, delle cose corrispondenti alle idee astratte generali e di cui queste sono le rappresentazioni, delle Saggio. ir I *' cose che sono a queste idee ci che la realt  all' immagine, al ritratto 1' originale. Vi ha dunque, secondo questo sistema, un triangolo astratto e generale, di cui l'idea astratta e generale di triangolo  la copia nel nostro spirito; e cos pure un uomo, un animale, un albero, un essere, astratto e generale, di cui l'idea astratta e generale di uomo, di animale, di albero, di essere  \ facsimile e, per dir cos, il duplicato, nel nostro pensiero; a ogni idea astratta e generale (ammessa dal concettualismo) corrisponde una cosa astratta e generale, di cui essa  la rappresentazione o l'immagine. Questo triangolo, quest'uomo, quest'animale, ecc. astratti e generali non sono delle entit misteriose e inconoscibili (come la Forza o il Principio vitale) e nemmeno delle personificazioni (come l'Aurora o la Notte dei miti o gli Eoni degli Gnostici): una cosa astratta e generale non  che l'idea astratta e generale corrispondente, che s^imprime, per dir cos, nella realt, che si obbiettiva e si esteriorizza, che passa, se mi  lecito di esprimermi cos, dallo stato debole allo stato forte (trasportando a questo sistema la distinzione di Spencer tra le sensazioni propriamente dette, cio la realt del volgare, e le sensazioni riprodotte o rappresentazioni); il concetto astratto e generale e la cosa astratta e generale hanno lo stesso contenuto, l' uno nella forma del pensiero, e l'altra in quella della realt. Il triangolo, l'uomo, l'animale, ecc. astratto e generale non ha, in altri termini, o piuttosto non , che l'insieme delle qualit comuni a tutti i triangoli, a tutti gli uomini, a tutti gli animali, senza le particolarit proprie a questi e a quei triangoli, a questi e a quegli uomini, a questi e a quegli animali. Questo triangolo, quest'uomo, quest'animale, ecc. astratto e generale  uno in se stesso, ma  presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti i triangoli, in tutti gli uomini, in tutti gli animali indi 30 viduali per questa sua presenza nei diversi individui apparisce multiplo, mentre in realt non  che uno : se tutti i triangoli, tutti gli uomini, tutti gli animali individuali si rassomigliano, se sono tutti triangoli, uomini, animali, e li chiamiamo tutti egualmente con lo stesso nome,  perch in tutti egualmente  presente lo stesso triangolo, lo stesso uomo, lo stesso animale astratto e generale. Una cosa astratta e generale non , insomma, che un attributo trasformato in sostanza; ma questa sostanza non  altro che l'attributo stesso considerato come esistente per se stesso, quantunque non mai isolato, ma sempre in compagnia degli altri attributi che compongono ci che per noi  la sola realt ma che per il realista  un tessuto di cui le realt astratte formano la trama, cio gli oggetti concreti e individuali. Le cose astratte e generali non sono dunque un altro mondo, un'altra realt, che si sovrappone alla realt empirica: sono la stessa realt empirica, cio la realt concreta, decomposta in elementi astratti, ma di cui ciascuno si considera pure come una realt, e non come una semplice astrazione mentale. Nei filosofi in cui 1'obbiettivazione dei concetti  una vera filosofa, cio uno sforzo del libero pensiero individuale per darsi una spiegazione delle cose e non un'ipotesi senz'alcun valore esplicativo, e che non ha altro fondamento reale che l'autorit e un cieco tradizionalismo, alla obbiettivazione dei concetti  unito un metodo, che consiste a scoprire questi concetti obbiettivati per un procedimento A PRIORI e deducendoli gli uni dagli altri, e che noi possiamo chiamare dialettica prendendo questa parola in un senso pi lato che i suoi autori, perch cos  stato chiamato dai due rappresentanti pi illustri di questa forma di metafsica, cio Platone ed Hegel, o PLAGEL e non ARISKANT  HEGLATO, e non KANTOTLE Senza questo metodo, l'obbiettivazioue dei concetti  un'ipotesi assolutamente vana; non  una spiegazione delle cose che unitamente a questo metodo. Esso, considerato nei suoi tratti essenziali cio comuni ai diversi sistemi, e da cui gli altri derivano pu essere descritto brevemente cos: si comincia per porre A PRIORI un concetto, s'intende, obbiettivato, cio si stabilisce, per ragioni puramente logiche, vale a dire indipendenti dall'osservazione, che esiste nella natura la realt corrispoudente a questo concetto facendo vedere p. e., che la non esistenza di questa realt sarebbe intrinsecamente impossibile e contraddittoria; da questo concetto primitivo si deducono altri concetti pure obbiettivati, cio si fa vedere che, data la realt corrispondente a quello, sono pure date, per una conseguenza necessaria, le realt corrispondenti a questi; da questi altri concetti se ne deducono, della stessa maniera, degli altri, e da questi altri altri ancora, e cos di seguito, sinch si siano scoverti, A PRIORI, per questa deduzione progressiva, tutti i concetti obbiettivati, cio tutto il reale, perch il reale, in questi sistemi, si risolve nei concetti obbiettivati ed  da essi costituito. La deduzione di cui si tratta in questi sistemi non  quella che la logica chiama cos, cio il sillogismo; ma essa pretende di concludere con necessit nel senso stretto della parola, che Kant definisce l'impossibilit di concepire il contrario GRICE STRAWSON MY NEIGHBOURS THREE-YEAR OLD IS AN ADULT e senza partire dai dati dell'osservazione; cos, quantunque si allontani pi o meno dalla deduzione della logica comune, fra i due processi di ragionamento che questa ammette, cio la deduzione e rinduzione,  la prima che essa prende per tipo, ed  in opposizione assoluta con la seconda. È questa  differenza fra la loro pretesa deduzione e la vera deduzione dei logici che è il principale ostacolo per comprendere questi sistemi e lo scopo a cui essi tendono: per conseguenza, per dare un'idea approssimativa di questa forma di metafisica, noi prenderemo come esempio un sistema in cui la deduzione si allontani /il meno che sia possibile, dalla vera deduzione, cioè da quella dei logici.  Nel sistema che ci servirò come esempio e che, come vedremo a suo luogo, non è una semplice immaginazione, ma una realtà storica i concetti obbiettivati formano delle coppie, e ciascuna di queste coppie è ciò che chiamiamo una legge della natura. La legge della natura, p. e., espressa dalla proposizione Vanimale è mortale – e i pianetti, e gl’angeli, e dio?, è la coppia dei due concetti obbiettivati 1'Animale astratto e generale e la Mortalità; la legge della natura espressa dalla proposizione la wateria gravita, la coppia dei due concetti obbiettivati Materia e Gravitazione; ecc. Così, se ogni animale è mortale, è perchè l'Animale astratto e generale, presente SENTE, NON ASSENTE in tutti gli animali, è accoppiato alla Mortalità; se ogni corpo gravita, è perchè il Corpo  astratto e generale, presente SENTE E NON ASSENTE in tutti i corpi, è accoppiato alla Gravitazione; ecc. Ora fra queste leggi della natura ve ne ha di più generali e di più particolari: ciò vuol dire che 1 concetti obbiettivati, le cui coppie costituiscono queste leggi, sono di gradi differenti di generalità, e per conseguenza anche di astrattezza. Le leggi più particolari formano diversi  gruppi, di cui ciascuno si condensa in una legge più generale; le leggi più generali cosi ottenute formano pure diversi gruppi, di cui ciascuno si condensa in una legge ancora più generale; e così di seguito, sinché si giunga a una legge suprema unica, in cui tutte sono riassunte e condensate. Questa legge suprema è un assioma: essa deve ammettersi, non in virtù d'un'induzione dalle leggi    particolari e dai fenomeni da cui queste possono ricavarsi, ma perchè la sua esistenza è intrinsecamente necessaria e la sua non esistenza intrinsecamente impossibile e contraddittoria. Dalla legge suprema, assiomatica GRICE CONVERSATIONAL AXIOM, si deduce un gruppo di leggi meno generali quantunque le più generali di tutte le altre; da ciascuna di queste leggi un gruppo di  leggi meno generali ancora ma più generali che le rimanenti; e così di seguito, sinché si siano scoverte A PRIORI tutte le leggi della natura per una deduzione progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più particolari. Ogni legge è, ricordiamolo, unji coppia di entità astratte e generali: così questa deduzione progressiva consiste a passare continuamente da una coppia di entità a un gruppo di altre coppie di entità, meno astratte e meno generali che quella. La coppia primitiva si ammette per la sua evidenza intrinseca; ciascuna delle altre si ammette in virtù di una deduzione, cioè come conseffuenza di una coppia precedente che ne è la premessa. In questo sistema noi possiamo vedere, io credo, più chiaramente che in un altro quale sia  lo scopo e il motivo di questa forma di metafìsica. Questo scopo e questo motivo è Vassimitazioììs del rapporto logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa e Veffetto. Che vuol dire infatti  che la coppia di entità CD può dedursi dalla coppia di entità AB?  Che data AB, sarà data perciò CD; che se AB esiste esisterà pure CD; infine, che l'esistenza di AB  trascinerà necessariamente con sé l'esistenza di CD. Ma ciò è pressoché dire che AB è la causa e CD il suo effetto, poiché ciò che noi chiamiamo causa ed effetto sono due cose di cui se l'una esiste esiste anche l'altra, in altre parole, di cui l'esistenza dell'una trascina necessariamente l'esistenza dell'altra. Per la trasformazione delle leggi in entità il principio logico, cioè il principium  cognoscendi^ si è trasformato in un principio ontologico, cioè in un principium essendi, e la deduzione di una proposizione da un'altra proposizione in una derivazione reale di una cosa da un'altra cosa. Per noi nella realtà non esistono che fenomeni particolari; una legge della natura non è Ili » che un'espressione più o meno sommaria di un complesso di questi fenomeni; come esistenza  distinta da questi fenomeni, una legge non è che una proposizione, o al più un'idea generale. Che data la legge A la legge più generale che è il principio è data anche la legge B la legge più particolare che è la conseguenza, in altri termini che se esiste la legge A, deve esistere anche la legge B, vuol dire semplicemente per noi che se la proposizione A è vera, deve  essere anche vera la  proposizione B Tra la legge che è il principio e la legge che ne è la conseguenza non vi ha dunque per noi, che le consideriamo  come proposizioni o come semplici concetti, che un rapporto puramente logico. Ma se le leggi sono, non più dei semplici concetti o delle proposizioni, ma delle cose, delle realtà distinte le une dalle altre e dai fenomeni, questo rapporto logico diviene anche  ontologico. Perchè allora dire che se la legge A è, è anche la legge ò, vorrà dire che se il  reale R1 – r1 -- esiste, esiste anche perciò l'altro reale R2 – r2 --, che di questi due reali il secondo deriva realmente e son semplicemente che se ne deduce dal primo, e che il primo è il principium essendi del secondo e non semplicemente che ne è il principium co(/no8cendi)> Per vedere più  chiaramente che la realizzazione delle astrazioni, cioè, in questo caso, la trasformazione delle leggi in entità, è la condizione per cui il rapporto puramente logico tra la legge generale che è la premessa e le leggi particolari che ne sono le conseguenze, viene trasformato in un rapporto ontologico tra la causa e i suoi effetti, dobbiamo riflettere che la legge generale e le leggi particolari  che se ne deducono non sono che due enunciazioni diverse se le leggi non sono che proposizioni o al più due rappresentazioni diverse se le leggi sono delle idee generali di una sola e stessa realtà, cioè di un complesso di fenomeni. Questa stessa realtà, questo stesso complesso di fenomeni, che la legge generale esprime o rappresenta d'una maniera piii indeterminata, le leggi particolari  l'esprimono o rappresentano d'una maniera più determinata. Così quando si deducono le leggi particolari dalla legge generale – GRICE REALER AND REALER -- ,  passando dal principio alle conseguenze il pensiero non passa da una realtà ad altre realtà distinte, ma dalla espressione o rappresentazione più indeterminata, più astratta, di una realtà, a un'altra espressione o rappresentazione  meno indeterminata, meno astratta, della stessa realtà. Il progresso dal più indeterminato al più determinato, dal più astratto al più concreto, è soltanto nel nostro pensiero: ma se le leggi sono delle entità, se degli astratti si fanno delle real^i distinte, il progresso del pensiejo che, nella deduzione delle leggi, passa gradatamente da nno stato più indeterminato a uno stato più determinato,  da uno stato più astratto a uno stato più concreto, è la rappresentazione di un progresso identico nella realtà, che passa anch'essa gradatami nte da uno stato più indeterminato o più astratto le leggi più generali a uno stato più determinato o più concreto de leggi più particolari. In altri termini, prima della realizzazione delle astrazioni, il passaggio dal più astratto al più concreto, cioè dal  principio alla conseguenza, era semplicemente un processo logico; dopo la realizzazione delle astrazioni diviene anche un processo ontologico, uno sviluppo, una derivazione reale, un passaggio dal producente al prodotto, dalla causa all'effetto. Nel seguito mostreremo d'una  maniera più chiara e più completa come la realizzazione degli astratti sia la condizione necessaria perchè il    rapporto logico tra il principio e la conseguenza nella deduzione venga identificato al rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Qual è dunque il motivo per cui si realizzano le astrazioni; nel nostro caso, per cui le leggi si riguardano come entità? È perchè la produzione reale delle cose, il modo essenziale di questa produzione, come dice Couite, sia una causazione efficiente, e non delle semplici sequenze invariabili. In questa forma di metafìsica, la vera causazione non è l'incatenamento regolare dei fenomeni die si succedono nel tempo, ma questa deduzione che è al tempo stesso una derivazione reale, questo passaggio continuo dal principio alla conseguenza, dal più astratto al più concreto, che ha luogo, al di fuori del tempo, nelle entità astratte, che sono la vera   realtà in cui si risolvono i fenomeni. Quando il realista trasforma le astrazioni in realtà per assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e 1'effetto, egli non intende assimilarlo al rapporto tra 1'antecedente di una sequenza invariabile e il suo conseguente, ma a quello tra la causa efficiente e il suo effetto. E infatti il raiv porto di derivazione tra l'entità  principio e le entità conseguenze nel nostro esempio tra la legge più generale e le leggi  più  particolari  che se ne deducono ha tutti i caratteri che distinguono la causazione efficiente da una semplice sequenza invariabile. Questi sono, come sappiamo: che il legame tra la causa e 1'efìetto sia d'un'evidenza intrinseca; che sia necessario; S*» che la causa spieghi, d'una maniera radicale,  esauriente, Veffetto, in modo da non lasciare alcun adito ancora alla domanda: perchè? È evidente che questi caratteri si ritrovano nel legame tra il principio e la conseguenza nella deduzione, dopo che, per la elevazione dei principii e delle conseguenze al grado di entità reali, la deduzione è diveuuta una derivazione reale. Nella deduzione la connessione tra il principio e la conseguenza  è indipendente dall'esperienza, e si vede, non solo A PRIORI, ma anche immediatamente; di più questa connessione ha la più alta necessità che noi possiamo immaginare, cioè l'impossibilità assoluta di concepire il contrario. Per vedere che anche il terzo carattere si ritrova nella T. derivazione successiva delle entità le une dalle altre, non si deve dimenticare una circostanza essenziale  del metodo con cui esse si deducono, cioè che 1'entità primitiva, da cui tutte le altre vengono gradatamente dedotte, è posta A PRIORI, per la necessità intrinseca della sua esistenza, o, ciò che è lo stesso, l'impossibilità intrinseca della sua non esistenza. Questa forma di metafìsica non è dunque che un'applicazione del concetto di causazione effìciente, uno sforzo per ritrovare al di là del  mondo dei fenomeni o piuttosto in questo mondo stesso, ma nella sua struttura latente e nel processo latente della sua auto-produzione quest'incateuamento di vere cause e di veri effetti secondo la nostra nozione spontanea della causalità, che non si riesce a trovare nei fenomeni stessi, i quali, come tali, cioè nella loro esteri(>rità, non ci presentano che degli antecedenti e dei conseguenti  di sequenze invariabili. La circostanza suindicata del metodo che, insieme alla realizzazione delle astrazioni, costituisce l'essenza di questa forma di metafìsica, cioè che l'entità primitiva da cui si fanno derivare tutte le altre viene posta A PRIORI, per la necessità intrinseca della sua esistenza, è un carattere essenziale di questo metodo e comune ai diversi sistemi Senza di essa il rapporto  tra i priucipii e le conseguenze non potrebbe identificarsi a quello tra le cause e gli effetti. Ciò non è solamente perchè,  Dell'assenza di questa condizione, la spiegazione non sarebbe radicale, esauiien te poiché resterebbe a spiegare il primo principio per cui le altre cose vengono spiegate; ma anche per un'altra ragione. L'anteriorità cronologica della causa verso l'effetto è sostituita, in  questa metafisica, da una anteriorità di natura, la quale non è che l'anteriorità logica del principio verso la conseguenza in un metodo puramente deduttivo, o piuttosto la obbicttivazionc di essa, conformemente al caratttere generale di questa filosofìa, che consiste a dare un valore e un'esistenza obbiettivi a ciò che non ha che un valore e un'esistenza meramente logici. Quest'anteriorità logica dei principii verso le conseguenze suppone che il principio primo sia stato stabilito A PRIORI; se non fosse così, il metodo non sarebbe a priori e puramente deduttivo, ma i principii sarebbero provati dalle loro conseguenze, e in definitiva dai fatti dell'osservazione di cui esse sono l'espressione astratta; ma allora le conseguenze avrebbero lo stesso titolo ad essere riguardate come   logicamente anteriori ai principii che questi ad essere riguardati come logicameute anteriori a quelle. Così, nel sistema che ci serve di esempio, se la legge generalissima da cui tutte le altre si deducono, non fosse stabilita A PRIORI, per la sua necessità intrinseca, essa sarebbe una semplice generalizzazione, un'induzione, delle leggi particolari che se ne deducono; ma allora essa non  avrebbe un'anteriorità logica su queste, perchè essa sarebbe provata da queste come queste sarebbero provate da essa. Perchè i principii siano logicamente anteriori alle conseguenze, bisogna che la certezza delle conseguenze presupponga la certezza dei principii, ma (piella dei principii non presupponga quella delle conseguenze. Perciò il metodo deve essere puramente deduttivo, e per  conseguenza il primo principio deve essere stabilito A PRIORI, cioè, come abbiamo detto, per la sua necessità intrinseca. Se il primo principio non fosse Jstato stabilito A PRIORI, se, quindi, i principii non fossero logicamente anteriori alle conseguenze, la dipendenza fra la certezza dei principii e quella della conseguenza sarebbe reciproca; allora non si avrebbe il dritto di dire che 1'esistenza delle entità GRICE SONS ASSENTE PRESENTE conseguenze dipende da quella delle entità principii, perchè con la stessa ragione potrebbe dirsi che l'esistenza delle entità principii dipende da quella delie entità conseguenze. Il I principio, se non fosse logicamente anteriore alle sue conseguenze, non sarebbe veramente il loro principimn coffnoscendi^ perchè si avrebbe  altrettanta ragione di riguardare le conseguenze p. e. le leggi più particolari come il principium cofynoscew(^?i  del loro principio p. e. della legge più generale. Quindi, in tal caso, l'entità principio non  potrebbe essere riguardata come il principium esfìendi delle entità conseguenze, perchè il principium cssendi, in questa metafisica, non è che lo stesso  principium coijnoscendi, che ha  acquistato un valore obbiettivo dopo l'obbiettivazione delle astrazioni, cioè dei principii e delle conseguenze. Ciò è dire, in altre parole, che la deduzione non sarebbe una derivazione reale, o che il rapporto tra il principio e la conseguenza non sarebbe identico a quello tra la causa e l'effetto. Lo scopo dunque a cui tende questa metafisica, cioè 1'assimilazione del rapporto tra il principio  e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l'effetto, ha per condizione necessaria che il metodo sia puramente deduttivo, e quindi che il principio primo sia stabilito A PRIORI, come intrinsecamente evidente e necessario: questa condizione è altrettanto indispensabile che l'obbieitivazione dei concetti astratti e l'incatenamento logico continuo fra questi concetti obbiettivati. I  rappresentanti più celebri di questa forma di metafisica non riguardano i concetti obbiettivati come uniti per coppie, come nel sistema che ci è servito di esempio: così la loro deduzione, il loro metodo dialettico, si applica, non a delle coppie di concetti obbiettivati di cui ciascuna è considerata come una legge della natura, ma a dei concetti obbiettivati isolati, di cui ciascuno rappresenta una forma o una determinazione costante e generale del reale, per conseguenza, qualche cosa di simile, anch'esso, a una legge della natura nel sistema che ci è servito di esempio. Inoltre la deduzione nei loro sistemi si allontana di più che in questo dalla vera deduzione, cioè da quella della logica ordinaria: basterebbe già questa dilì'erenza importante che la deduzione va da un semplice  concetto ad un altro, e non da una pro]K)8Ìzione ad un'altra cioè da una coppia di termini ad un'altra come la deduzione ordinaria. Ciò non pertanto il processo è essenzialmente lo stesso. Si comincia per porre A PRIORI, per la sua evidenza o necessità intrinseca, un concetto obbiettivato, da esso se ne deducono degli altri, da questi altri ancora, e così di seguito; e Tinsieme dei concetti  obbiettivati costituisce una serie di termini, che divengono sempre meno astratti o più concreti, mano mano che si va dal principio primo verso le conseguenze ultime e infatti le conseguenze, in qualsiasi deduzione, non potrebbero essere che il principio stesso a uno stato più determinato o più concreto. Si vede così come anche in questi altri sistemi la realizzazione delle astrazioni ha  per risultato 1'assimilazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e 1'effetto, e ne è la condizione necessaria. Se i concetti che stanno fra di loro nel rapporto di principi i e conseguenze, non fossero che delle semplici astrazi<mi mentali o dei termini generali di cui ciascuno esprime una classe di cose o di fenomeni, il loro rapporto non sarebbe che  logico; dedurre l'uno dall'altro significherebbe semplicemente che, se questo è vero, deve essere vero anche quello. Il progresso dal jnù indeterminato al più determinato, dal più astratto al più concreto, avrebbe luogo soltanto nel nostro pensiero, e non nella stessa realtà, perchè il concetto principio cioè il più astratto e i concetti conseguenze cioè i meno astratti non rappresenterebbero  che gli stessi insiemi di cose o di fenomeni, l'uno d'una maniera più astratta o piìi indeterminata, gli altri d'una maniera meno astratta o più detenninata. Ma se i termini che si deducono gli I'uni dagli altri non sono dei semplici concetti, cioè delle astrazioni mentali, ma delle realtà, allora dedurre B da A significherà, non semplicemente che se il concetto A è vero anche il concetto H  deve essere vero, ma che se il reale A esiste anche il reale B deve esistere, che Tesistenza di A trascina con sé l'esistenza di B, in altri termini, che A è la condizione di B, lo produce, ne è la causa. Il progresso dal più astratto al più concreto, dal più indeterminato al più determinato, non avrà luogo soltanto nel nostro pensiero, ma sarà la realtà stessa che sì metterà, per dir cosi, in  movimento, che passerà gradatamente da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato, più concreto o più determinato, in modo che questi stati successivi non cronologicamente, ma logicamente costituiscano una serie di momenti, in cui il conseguente deriverà sempre dal suo antecedente, ne sarà un prodotto, un effetto necessario. Non dimentichiamo che <|ue8t'incatenimento  di cause e di effetti, ottenuto per l'obbiettivazione dei ccmcetti e il legante logico continuo introdotto fra di loro, è modellato sul tipo della cansazione efficiente, e non su quello della semplice uniformità <ii sequenza, perchè il legame tra la causa e l'ettètto è intrinsecamente evidente e necessario poiché tale è il legame tra il principio e la conseguenza nella deduzione, e perchè l'effetto  è spiegato d'una maniera radicale ed esauriente poiché si deduce da un principio anch'esso evidente intrinsecamente e necessario Per dare un'ide^i generale di questa forma di metafisica, dobbiamo aggiungere che talvolta, invece dell'obbiettivazìone dei concetti propriamente de ti, si mette in opera un altro processo analogo, che conduce pure allo stesso risultato, cioè la trasformazione  del rapporto tra il principio e la conseguonza in un rapporto tra la causa efficiente e l'effetto. Quest'altro precesso consiste anche esso come l'obbiettivazione dei concetti  propriamente detti, nell'accordare un'esistenza per sé agli attributi, concepiti ciascuuo separatamente dagli altri che coesistono con esso nei soggetti concreti; ina invece di fare rappresentare, come quando si obbiettivano  i concetti, ciascun attributo da un tipo unico, presente al tempo stesso nei diversi individui che ne partecipano, si eleva al grado di realtà sussistente per se stessa, non questo tipo unico, ma tutto ciò che esso rappresenta, vale a dire tutto il contingente dell'attributo esistente nell'universo reale. P. e. l'estensione, come entità astratta sussistente per se stessa, sarà, non il concetto  obbiettivato  di estensione, ma tutta l'estensione esistente nell'universo, separata dagli altri attributi con cui coesiste nelle realtà concrete. Noi diremo con più precisione di questa varietà della nostra forma di metafisica. Qui basterà di accennare che anch'essa unisce alla realizzazione delle astrazioni il metodo che noi chiamiamo, in senso lato, dialettico; vale a dire che essa incomincia per porre A PRIORI, come intrinsecamente evidente e necessaria, un'astrazione primitiva, da questa deduce altre astrazioni, da queste altre ancora, e così di seguito, in modo che tutte queste astrazioni formano una serie di termini logicamente successivi, in cui si passa continuamente dal più astratto al più concreto, mano mano che si va dal principio primo verso le conseguenze ultime. Anche in  questo caso la realizzazione delle astrazioni ha per iscopo di trasformare il legame logico tra queste astrazioni in un legame ontologico: mercè questa realizzaziooe, il progresso dal più astratto al più concreto ha luogo nella realtà stessa e non soltanto nel nostro pensiero, e dedurre un'astrazione da un'altra non significa seuiplicemente che se un'idea o una proposizione è vera è anche vera  un'altra idea o un'altra proposizione, ma che se un reale esiste, esiste anche un altro reale, e che perciò il primo è il priiìCìpium essendi dell'altro e non soltanto il prìncipmm coiinoscendi, vale a dire lo produce o ne è la causa. Questa causa è una causa e/Hciente, per le stesse ragioni die abbiamo indicato precedentemente. Questa identificazione che fa il metafisico realista tra la semplice  ragione logica e la causa efficiente. ha la sua prima radice nell'analogia che sembra esistere fra questi due concetti, anche al punto di vista ordinario. La parola «perchè» significa al tempo stesso la causa di un fatto e la ragione che lo spiega o per cui dobbiamo ammetterlo. Quest'analogia è al più alto grado quando la ragione che prova o spiega un fatto consiste a dedurh) da principii  evidenti per se stessi e necessari, ciò che anticamente si chiamava ragione a priori. Ricordiamo un luogo di Leibnitz precedentemente citato: La ragione è la verità conosciuta di cui il legame con un'altra meno conosciuta fa dare il nostro assentimento all'ultima. Ma particolarmente e per eccellenza si chiama ragione, se è la causa non solo del nostro giudizio, ma ancora della verità stessa,  ciò che si chiama pure rafjione A PRIORI, e la causa nelle cose corrisponde alla ragione nelle verità. Quest'analogia che il nostro spirito stabilisce naturalmente tra la ragione e la causa, si mostra tuttora chiaramente quando la legge secondo cui avviene un fenomeno viene chiamata la causa del fenomeno senza pensare a sostantificare od oggetificare GRICE le leggi della natura, come nel sistema che ci è servito di esempio della nostra forma di  metafisica; e, come abbiamo visto, Aristotile ammette che la vera dimostrazione consiste a dimostrare per le cause, intendendo per cause tanto la causa efficiente e la finale quanto le premesse da cui una proposizione si deduce in un ragionamento puramente deduttivo queste premesse potendo essere sia Vessenza, da cui si deducono secondo Aristotile le pròprietà, sia una proposizione  più generale qualsiasi per cui si dimostra una proposizione più paiticolare Conformemente a questo significato aristotelico del termine causa; che confonde la causa propriamente detta con la ragione A PRIORI, dimostrazione A PRIORI, nel medio evo, equivaleva a dimostrazione per le cause; e nello stesso senso VICO (vedasi) dice che di tutte le scienze umane le matematiche unicamente procedono a somiglianza della scienza divina, perchè esse sole provano dalle cause. Noi abbiamo visto pure come i Peripalitici hanno sviluppato il concetto aristotelico che gli attributi essenziali sono le cause dei propri, affermando che l'essenza produce i propri per emanazione Averroe, che è la causa efficiente dei propri AQUINO (vedasi), che i  propri fluiscono dall'essenza che è la loro causa Scoto, e alrre proposizioni dello stesso genere; e infine come la ragione su cui è fondata la prova A PRIORI dell'esistenza di Dio, vale a dire l'argomento ontologico, sia stata riguardata dagli autori che hanno proposto quest'argomento, come la causa dell'esistenza di Dio In tutti questi casi il rapporto tra la ragione e la causa non può oltrepassare la semplice analogia: ma questa analogia diviene una vera identità, quando la ragione di una cosa e questa cosa stessa sono considerate IL FILOSOFISMA DI GRICE come due realtà distinte, mediante l'obbiettivazione GRICE OGGETIFICAZIONE dei concetti o qualche altro processo simile. Il perchè è evidente: la causa e l'effetto sono due fatti distinti e separati, e per conseguenza una astrazione ncm  può essere riguardata propriamente come App. Vìvo Risposta a tre gravi spposizioui contro il De antiquissima italorvm sapientia – Grice: “In fact,  better title for Vico’s Scienza Nuova would be SCEINTIA ANTIQUISSIMA!” , Append. Append. i la causa d'una cosa, se non quando si suppone che essa ne sia distinta e separata o piuttosto separabile nella realtiì, e non per una semplice  astrazione mentale. La nostra spiegazione dell'obbiettivazione GRICE OGGETTIFICAZIONE dei concetti che le dà per iscopo di tiasformare il nesso logico, introdotto fra questi concetti, in un nesso ontologico, sembra in contraddizione con un fatto, che è tuttavia quella che la parola realismo suggerisce prima d'ogni altro, vale a dire il realismo scolastico. Nella filosofia scolastica troviamo l'obbiettivazione GRICE OGGETTIFICAZIONE dei concetti, ma senza il mettnlo dialettico vale a dire senza il nesso logico introdottola i concetti obbiettivati GRICE OGGETTIFICATO: essa non può dunque avere, in questa filosofia, lo scoi)o che le abbiamo asseiTuato II realismo del medio-evo sarebbe un fatto assolutamente inesplicabile, se fosse l'opera del pensiero individuale, liberamente e seriamente applicato alla soluzione di un problema filosofico GRICE ON THE HISTORY OF THE UNIVERSALIA PROBLEM perchè, senza la dialettica, la realtà degl’universali è un'ipotesi senza scopo e senza motivo, un mistero più oscuro aggiunto gratuitamente ai misteri, veri o pretesi, del mondo reale, ohe la metafisica ha per compito di rischiarare: esso non si comprende che per il carattere tradizionalista e autoritario della filosofia scolastica. I realisti del medio èva non sono che dei platonici: i loro universali non sono che le Idee platoniche, ma per dir così, allo stato fossile; vi manca la vita, lo, sviluppo, questo processo, al tempo stesso logico ed ontologico, per cui, un concetta obbiettivato OGGETTIFICATO GRICE essendo  dato, sono dati progressivamente tutti gli altri; ciò che manca, del resto^ alle stesse Ide^» platoniche nell'interpretazione ordinaria, perchè questa, come i realisti del medio evo, toglie dal platonismo ciò che vi ha in esso di più arduo, ma che gli dà unicamente un valore e una giustificazione, cioè la dialettica^ Supplem. come metodo di dediirire i concetti obbiettivati OGGETIFICATO GRICE per trasformare il loro nesso logico in un nesso ontologico. Gli storici si accordano a vedere nei realisti scolastici una scuola di platonizzanti; ma per rendere conto deirorigine di questa fdosoHa, airintìuenza diretta di Platone, per se stesso o per l'intermediario dei Platonici, bisogna aggiungere Pintiuenza indiretta, non meno grande, ch'egli esercitò per mezzo di Aristotile. Il  realismo si dà come un^interpretazione d'Aristotile altrettanto che il nominalismo. Scoto, per esempio, come tutti i filosofi della sua epoca, è un peripatetico: egli ammette la realtà degl’universali perchè crede di trovarla in Aristotile, e distingue il suo proprio realismo da quello di Platone, attribuendo a questo, secondo Pinterpretazione anche oggi più ricevuta, la dottrina della  trascendenza delle Idee^ cioè che esse sono fuori delle cose, ne sono una duplicazione, mentre gli universali dello stesso Scoto e, secondo lui, di Aristotile sono nelle cose stesse, ne sono l'elemento costante e generale. Non vi ha dubbio che Aristotile non si presti a una tale interpretazione, quantun^pie assai lontana, secondo noi, dal vero significato della sua dottrina – GRICE: “Who cares? I rather have him say intereseting things than real ones!”: ciò è tanto vero che, non solo i suoi oppositori del rinascimento ITALIANO l'hanno Haureau. Filosofìa scolastica. Weber Storia della filosofia. Lange Storia del materialismo trad. frane, ecc.  P. e. Brucker Hisl. pkil. doctr. de ideis. Degerando Stor. compar. dei sist. di filos, MORE GRICE TO THE Mill Log. Comte e il  posti, trad. frane, Lange Stor. del mater. irad. frane,  ecc. inteso d'una maniera simile, riguardando le sne sostanze seconde GRICE SOSTANZA SECONDA, cioè le forme o le specie di PIROT no lo specimen, come realmente distinte dalla materia e sussistenti per se stesse. Aristotile certamente è un concettualista: una gran parte della sua Metafisica è una polemica contro i concetti realizzati, cioè le Idee platoniche, e la distinzione tra la forma o «^(Fo^ e la materia non ha in lui un valore ontologico, come in Platone,  ma semplicemente logico. Le Specie o Idee, secondo Platone, erano i concetti astratti e generali delle cose,  obbiettivati OGGETTIFICATO GRICE, in altri termini gli attrituiti corrispondenti a questi concetti riguardati come sostanze, cioè come esistenti per se stessi, quantunque non fuori delle cose come ammette Pinterpretazione tradizionale, ma nelle cose stesse: ogn'Idea era una in se stessa, ma era presente al tempo stesso in tutti gli oggetti che partecipavano all'attributo di cui l'Idea era la sostantificazione o TRASSOSTANTIFICAZIONE. Inoltre Platone, nell'ultimo periodo della sua speculazione, riduce l'Idea di una cosa  alla sola forma di questa cosa, astrazion facendo dalla materia, e riguarda la materia senza forma come un'entità pure esistente per se stessa ma assolutamente distinta dalle Idee; sicché ciò che noi diciamo il reale, vale a dire l'oggetto CICERONE RES concreto e particolare, risulta per lui dal concorso di questi due elementi, realmente distinti cioè esistente ciascuno per se stesso, l'Idea o specie e la materin. Aristotile conserva la distinzione platonica tra la forma o specie delle cose e la loro materia: la specie o forma d'una cosa è per lui il concetto astiatto e generale che si riferisce alla classe a cui questa cosa appartiene, o piuttosto l'attributo o insieme di attributi corrispondende a questo concetto, ed em una e la stessa per tutte le cose di una stessa classe; ma essa, come una e la stessa per tutte le cose d'una classe, e come distinta, cioè a parte, dalla materia, non aveva che un'esistenza concettuale; non esiste così nella realtà in cui non vi hanno secondo Aristotile die oggetti concreti e particolari ma solo nel pensiero, che si forma l'idea astratta della forma o specie e quella della materia, e se le rappresenta isolatamen-^e l'una dall'altra. Ma questa distinzione della forma o specie e della mataria, fondamentale nella sua fìlosotìa, è espressa spesso da Aristotile^ con formule in cui queste astrazioni sembrano trattate come vere entità, e die piuttosto che al concettualismo dell'autore sarebbero adattate al reali suu) platonico. La forma o specie è una sostanza così bene che la cosa concreta e particolare, che, per distinguerla «la essa, è chiamata la sostanza composta o con la materia, mentre la forma è una sostanza scevra di materia, Vi hanno tre sostanze, la forma o specie, la materia, e la terza ciie risulta da amendue, cioè la cosa concreta e particolare nelle  Crt%/or/e le forme o specie sono chiamate sostanza seconda. La cosa concreta e particolare è composta della forma o specie e della materia, ed è divisibile in queste due parti, e perciò è chiamata la sostanza conmposta, il (Jvyo'Aov. il tutto, la specie insieme con la materia, la forma mescolata alla materia, ecc. La  forma; Met. ecc. Nou indicliiauio i luogbi, che s'iucontrauo ad ogni passo, iu lui la forma o specie è chiamata Vovaia, perchè iu essi questa parola, piuttosto ohe sostanza, significa essenza, vale a dire ciò ohe neUa cosa corrisponde  al concetto o detiuizioue di questa cosa GRICE HYPOUSIA HYPOKHEIMENON SVBSTRATVM CICERONE coined ESSENTIA. SVBSTANTIA used by ORAZIO (vedasi) Ma questi due significati del termine ovata non sono in Aristotile distinti, e per conseguenza questo termine implica il primo di essi anche quando non denota direttamente che il secondo. Met. ecc. Met. e la  materia né si generano né periscono, perché ambedue devono preesistere all'oggetto generato-in altri termini le forme o specie dagli esseri p. e. dell'uomo, del cavallo, del PIROT sussistono sempre, così bene che la materia: ciò che diviene o si fa è l'accoppiamente o il concorso di queste due cose; per esempio non é il rame né la sfera che diviene, ma questa sfera di rame, la quale si fa dal rame materia preesistente e dalla sfera specie o forma pure preesistente. La specie o forma e la materia mno 2)rmeìpri, cause ed elementi delle realtà concrete. La  prima è superiore alla seconda; é più essere che questa e le è anteriore di natura. È dal concorso di queste due cause che sono prodotti gli esseri individuali; in questa produzione Veliìog, è come il padre e la materia come  la madre; la materia desidera la forma, come la femmina il maschio perché la contiene in potenza, e tende perciò a riverstirsene in atto. La forma é assimilata a un oggetto che ne contiene un altro o che sta sopra di esso; la materia a quello che vi è contenuto o vi sta sotto. L'eldog è uno e lo stesso nei diversi individui di una specie; il singolare è tale perché  M'sl&o? si unisce la materia, che è diversa nei diversi individui. Tavolta Phys. De Coelo ecc. Met. eco  Met. Phys. ecc. De part. anim. Met. Phys. De Coelo Met. De Coelo È il germe della dottrina di S. -m^mmf^'^ ! ir-'  Aristotile indica la forma con le stesse espressioni di cui  Platone si era servito per indicare l'Idea: altro è la fornvd stessa per se stessa e altro la ftirma mescolata con la materia; altro il cielo stesso  vnìe a dire la forma o la specie, e altro questo cielo, cioè il primo mescolato con la materia. Queste proposizioni e nianiere di esprimersi di Aristotile tanto più facilmente potevano indurre in errore i suoi commentatori scolastici, perchè egli preferisce 1'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, cioè quella che le riguarda come post^ fuori delle cose; ciò che da qualche verisimiglianza all'opinione che la dottrina di Aristotile dilferiva da quella di Platone, non perchè in questa gli  universali erano delle realtà, mentre in quella non erano che dei concetti, ma perchè nell'una erano fuori delle cose e nell'altra nelle cose stesse, quantunque reali egualmente nell'una e nell'altra. Ciò che Aristotile conserva, in sostanza, della distinzione platonica tra 1'eUog, ricondotto alla sola forma, e la materia, è quest'idea, corrispondente sino ad un certo punto ai dati dell'osservazione, che il reale può decomporsi in due elementi, concettuali, non reali essi AQUINO (vedasi) che la materia è il principio d'individuazione. Il problema scolastico, quale sia il  principio d'individuazione, è un semplice non senso al punto di vista del nominalismo, secondo cui né esiste né può concepirsi che esista un essere ROMAN SONS GRICE ASSENTE PRESENTE che non sia individiuile; esso non ha senso che se si ammette che l'essere SONS ROMA GRICE primitivo è una realtà universale, perchè allora nasce le necessità di spiegarsi perchè questa realtà si manifesta in una moltiplicità di particolari GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING also cited by Grice himself in CONCEPTION OF VALUE. Noi vedremo Supplem. che la  dottrina d’AQUINO (vedasi) sul principio d'individuazione, il cui germe si trova, come abbiamo detto, in Aristotile, non è ohe la riproduzione di una dottrina dell’ACCADEMIA. De Ooelo. M«^.:'%^  stessi come voleva Platone, che sono d'una suprema importanza per la concezione del mondo, perchè rappresentano r uno e r altro ciò che vi ha di stabile nelle cose, e al tempo stesso ciò che vi ha di logicamente primitivo, cioè che, servendo alla spiegazione del resto, è esso stesso senza spiegazione. L'uno la materia, che non si distrugge né si crea, ed è il fondo immutabile in cui s'imprimono successivamente le forme cangianti; 1'altro i tipi generali di queste forme, senza origine e senza fine e immutabili anch'essi come la materia stessa: tanto la materia, quanto questi  tipi, considerati nei loro attributi essenziali, cioè che sono sufficienti a definirli, sono dei dati ultimi dell'esperienza, che noi dobbiamo ammettere senza dimostrazione non vi ha, dice Aristotile, dimostrazione dell'essenza SONS ROMA GRICE e anche in ciò si trova in disaccordo con Platone, ma da cui dobbiamo sforzarvi di dedurre tutto il resto. Per quest'idea la filosofia di Platone GRICE HARDIE’S MASTERPIECE e di Aristotile è in un'antitesi radicale GRICE HARIDE: “I wonder how my tutor could philosophise on both” -- con tutte le filosofie anteriori. Essa prende per punto di partenza l'eternità dell'ordine attuale del mondo nel senso più largo dell'espressione, cioè l'eternità e stabilità delle specie, della terra, degli astri, ecc., mentre le filosofie anteriori  erano anzitutto delle cosmogonie. Di più essa ammette che ogni specie GRICE HOMO SAPIENS SAPIENS nome sicentifico del pirot PIDDOCK PHOLAS DACTYLUS LINNAEUS 1758?  The NED has an article as follows-  "Irot, obs. a. I. birot (Cotg.), cf. biddock]  1611 Cotgrave :  'Pirot, the pirot or hag fish; a kind of long shell fish.'  1686 Plot, Staffordsh., 250:  "A sort of solenes (which the  Venetians calt  cape longe and the English pirot)  • a kind of shell fish deep bedded  in a solid rock." The eventual source of both the texts quoted appears to be  Rondelet's Historia Piscium-  1558 L. Joubert, transi, Rondelet, Hist. des poiss., ii., 31: "Avios. aoliv, dóvag, örus, dáxtoios sont mots divers pour une mesme chose ci pourtraite, qu'on nomme en France couteaux, en Italie cape longe, en Anglois pirot."  Everyone knows the great influence exercised by Rondelet's book on later writers, and already in 1562 in Du Pinet's translation of Pliny's Historia Naturalis (ed. 1581, ii., 549) we find couteaux masles glossed in the margin by "en Italien cape longe, en Anglois pirot."  Now two questions may be asked. The NED derives the English pirot from French pirot; but where outside Cotgrave is French pirot to be found? It is nowhere noted as the name of any mollusc. In any case I propose to neglect it. On the other hand, is there anything real behind the pirot given as English by Rondelet?  I think it will be agreed there must be.  I have elsewhere shown  how numerous are the misprints made in the transcription of foreign names of fishes, etc., in the De Piscibus Marinis and Joubert's translation has sometimes added to the number. It may be that behind Rondelet's pirot lies obscured a form without r and nearer to piddock. In that case the history of piddock would be taken back 300 years before its first attestation in the NED. H. P. Grice. di esseri è governata da leggi proprie e speciali, che non derivano dalle forze generali che agiscono in tutta la materia, mentre le filosofie anteriori tendevano a spiegare tutti i fenomeni per i soli elementi materiali e le forze costanti da cui questi sono animati. Ma quest'idea, prima di tutto, non ha un'espressione perfettamente esatta nella divisione del singolo in due elementi, anche concettuali, forma e materia perchè 1' sMog di una classe di es  l'Appimdice. Beri, il suo tipo costante e generale, comprende anche la materia, e questa entra necessariamente nel suo Xóyog e nella sua essenza, cioè nel suo concetto e nella sua definizione. Inoltre, ciò che è il più importante, perchè Aristotile, in molte delle sue formule e delle sue proposizioni, tratta questa distinzione logica come una distinzione reale, e sembra elevare queste astrazioni al grado di esseri sussistenti per se stessi? L'una e l'altra circostanza, evidentemente, sono dei resti del realismo di Platone nel concettualismo del suo discepolo. Per comprendere 1'apparente realismo di Aristotile bisogna tener sempre presenti sopratutto due fatti: eh'egli è stato lungamente un platonico, e che nei suoi scritti egli s'indirizza specialmente a dei platonici. Così, da lina parte, quel concetto eh'egli ritiene in sostanza, come abbiamo detto sopra, della distinzione platonica tra 1'eUog e la materia, festa associato alle formule in cui 1'ha ricevuto nella scuola di Platone e a cui si è lungamente abituato; e da un'altra parte, come ogni novatore, egli cerca di presentiire i suoi propri concetti sotto quell'aspetto che li faccia sembrare meno discosti dalle idee e dalle abitudini mentali del pubblico a cui egli si rivolge. Ecco come il realismo del medio evo deriva da Platone, in gran parte, pe1l'intermediario di Aristotile. Aristotile ne è, per dir così, il veicolo, che lo trasmette agli scolastici. Come quei semi, rimasti per Nella Metafisica, nella sua polemica coniro la dottrina delle Idee, Aristotile parla come se tanto egli quanto i suoi lettori fossero dei platonici: secondo i modi con cui dimostriamo che esistono le idee, m secondo l'opinione secondo cui diciamo esservi le Idee,  <(Idee delle cose di cui non crediamo che ve ne siano >j ecc. ^^oi in questi luoghi significa i platonici. Met. secoli inattivi nelle piramidi egiziane, si svilupparono quando furono gettati in un terreno conveniente; così 1 residui del platonismo, rimasti nel corpo delle dottrine aristoteliche come dei materiali inerti e non assimilati, germogliarono e riprodussero l'antico platonismo da cui erano originati, quando, introdotti nella scolastica di BOLOGNA, PADOVA, SORBONA, VADIS BUE, trovarono le condizioni più favorevoli al loro sviluppo; cioè la mancanza del senso della realtà e del vero spirito filosofico, e in compenso lo spirito pedantesco che interpreta sacrificando la sostanza alla forma, inseparabile da un cieco dogmatismo, e 1'amore del paradosso che è l'accompagnamento naturale d'una scienza vuota di fatti e arida d'idee, che consiste in vane controversie, in cui si dibattono eternamente le stesse quistioni. Il platonismo del medio evo è, non lo dimentichiamo, un plat(mismo incompleto, in cui manca ciò che dà un valore al sistema delle Idee, cioè la dialettica del TRIVIO. È il solo che potesse svilupparsi dalle formule aristoteliche: i residui della dialettica platonica in Aristotile p. e. l'assimilazione del principio logico alla causa nella sua teoria della dimostrazione non erano tali da prestarsi ad uno sviluppo analogo. In conclusione, il realismo scolastico non potrebbe spiegarsi per i principiii generali per cui noi spieghiamo i concetti metafisici, per la semplice ragione che esso non è, a parlar propriamejite, una metafisica per ciò dovrebbe essere anzitutto una vera filosofia, dovrebbe dare una soluzione, o un sembiante di soluzione, al problema del perchè o a qualche altro dei problemi inevitabili, per quanto illegittimi, che l'intelligenza umana non può non proporsi, e che formano il dominio naturale che appartiene alla metafisica. Esso non si spiega che per ragioni storiche, perchè non è 1'opera della libera ragione, ma del tradizionalismo. Ma questa spiegazione ci riconduce infine all'origine prima dei concetti ricevuti per tradizione. Qui la nostra spiegazione^ quella che vede nelTobbiettivazione dei concetti un mezzo per applicare Videa di causa efficiente, non ci abbandona, perchè tale è, come vedremo, il motivo e lo scopo della dottrina platonica. Direttamente la nostra spiegazione non si applica che ai sistemi in cui Tobbiettivazione dei concetti è unita al metodo dialettico, ma indirettamente essa  spiega  anche quelli in cui non vi è unita, perchè le sopravvivenze, nello sviluppo della cultura umana, non si comprendono che per le ragioni che ne hanno determinato la prima apparizione, quando non erano dei semplici organi rudimentari, ma avevano uno scopo e una funzione. E del resto, parlando generalmente, è deatro questi limiti solamente cioè quando essi sembrano dare una soluzione ai problemi naturali dello spirito umano che costituiscono il dominio della metafìsica che noi crediamo che i concetti metafìsici si possono spiegare per le tendenze naturali della nostra intelligenza – il filosofìsma A PRIORI. Quando non sono che una modifìcazione o una mutilazione o combinazione arbitraria di concetti preesistenti, che il metafìsico senza genio ha imprestati, sfigurandoli, da un vero metafìsico, cioda un pensatore geniale, per quanto chimerico, questa spiegazione ci abbandona: essa non può dare ragione dei concetti derivati che solamente in quanto la dà dei concetti primitivi. Il seguito di questo capitolo avrà per oggetto i sistemi in cui l'obbiettivazione – Grice: I call my construction routine subjectification, or objecctification, for that matter!:” --  dei concetti è unita al metodo dialettico nel senso largo sopra indicato che noi diamo a queste parole --  Grice: Cicero does use objectum, meaning objection, but what would Davidson and Hintikka know!”: il tipo di metafìsica in cui concorrono questi due caratteri, potendo esserci utile un termine che lo indichi brevemente, noi lo chiameremo realismo dialettico. Il  rappresentante più illustre del realismo dialettico è Hegel. Se la realtà degl’universali nim è riguardata ordinariamente come una delle basi  del sistema di Hegel, è perchè essa è inviluppata nella dottrina, che l'autore presenta come più fondamentale, dell'identità dell'essere e del pensiero, e data come una conseguenza di questa. Questo sistema ha due facce, V idealismo e il realismo che, nel senso in cui qui prendiamo questo termine, non è 1'opposto di quello. L'abbiamo considerato sotto la prima di queste due facce; qui lo  considereremo sotto la seconda. Gli elementi del sistema hegeliano sono, come si sa, la dottrina delle idee e la dialettica. Ricordiamo brevemente in che consistano l'una e Faltra. Il reale è, secondo Hegel, un seguito di idee, di cui ciascuna è identica al suo oggetto. Queste idee s<mo astratte e generali, sono, in una parola, dèi concetti – GRICE CONCEPTUAL ANALYSIS; per conseguenza ciò che esse rappresentano e con cui s'identificano, sono degli oggetti astratti e generali come esse. Così ciascuna idea, per esempio quella dell'essere, del divenire, del tempo, del movimento, è al tempo stesso il concetto astratto e generale dell'essere, del divenire, del tempo, del movimento, e l'essere, il divenire, il tempo, il movimento astratti e generali, considerati come  esistenti per se stessi, perchè il pensiero e l'essere penstito sono una sola e stessa cosa, che si chiama jiensiero in quanto è pensata, ed essere in quanto esiste nel mondo reale. Hegel ammette dunque, come Platone e i realisti scolastici, che un termine generale rappresenta una realtà generale, distinta dalle cose particolari a cui questo termine si applica, e che non è che l'attributo SHAGGY HAIRY-COATEDNESS comune a queste cose a cui  il termine si applica, sostantifìcato GRICE oggettivato, cioè riguardato come sussistente per sé stesso. Ciascuna di queste realtà, come le Idee di Platone e gli Universali degli scolastici, è una in se stessa, ma presente al tempo stesso in tutti gli oggetti concreti e particolari che partecipano all'attributo di cui è la sostantificazione o oggettificazione. Hegel differisce da Platone e dai realisti scolastici, in quanto gli Universali non sono, per questi, che degli oggetti, mentre per lui sono al tempo stesso degli oggetti e dei pensieri – GRICE OBBLE OF POTCH, l' oggetto essendo inviluppato nell'idea che lo pensa, e facendo una cosa sola con quest^idea. La dialettica di Hegel, cioè il suo metodo di dedurre le idee, va  da un'idea all'idea contraria, e poi a una terza idea che comprende l'una e l'altra, p. e. dall'essere al non essere, e poi al divenire^ che comprende nella sua unità tanto l'essere quanto il non essere perchè il divenire è il passaggio dal non essere all'essere. Tesi,.antitesi e sintesi, questo è, dice Hegel – Grice: “And Russell laughed about it!:, il ritmo eterni dell'idea: tutte le idee formano una  serie successiva, in cui si passa sempre dai termini antecedenti ai termini conseguenti secondo una legge costante, che fa seguire a un'idea l'idea antitetica e a queste un'altra idea più comprensiva che coMCi7m le due idee opposte, cioè che contiene l'una e l'altra nella sua unità. La sintesi, cioè questa terza idea più comprensiva, porta essa stessa un'altra opx)osizione, la quale chiama  alla sua volta un'altra sintesi, e cosi di seguito, sinché si giunga al teimine ultimo della serie, che è la sintesi suprema, racchiudendo in se stesso tutti i termini precedenti e conciliando tutte le opposizioni. Questo passaggio dalla tesi all'antitesi e da esse alla sintesi non lega solamente tutti i termini successivi della serie isolatamente considerati; ma lo stesso rapporto vi ha fra le parti, cioè  le serie parziali, in cui si divide la serie intera, e fra le suddivisioni di ciascuna parte, e così di seguito, sicché il sistema di Hegel è stato paragonato ad un tempio gotico, in cui il tipo dell'insieme si ritrova in ciascuna delle sue parti. Passando da un'idea all'idea opposta, e da esse alla terza idea che le comprende amendue, Hegel intende dedurre la seconda idea dalla luima, e la terza da  esse due; vale a dire egli pretende che data la prima idea, è data la seconda come sua conseguenza necessaria, e date queste due idee, è data anche la terza, come conseguenza necessaria dell'una e l'altra. Così, percorrendo la serie successiva delle idee, per questo movimento regolare che va continuamente dalla tesi all'antitesi e da esse alla sintesi, si va continuamente dai principii alle  conseguenze, che divengono alla loro volta principii di altre c<mseguenze, e così di seguito, in modo che tutta la serie forma una catena logica continua, in cui i termini precedenti sono sempre i principii dei termini immediatamente susseguenti, e i termini susseguenti le conseguenze dei termini immediatamente precedenti. Queste idee, non dimentichiamolo, non sono dei semplici  concetti, ma anche delle cose astratte e generali, che sono gli oggetti di questi concetti. Perciò passare da un^idea all'idea opposta e da queste all'idea sintetica che le contiene amendue^ è ancora dedurre da una cosa astratta e generale un'altra cosa astratta e generale, e da queste una terza che contiene l'una e l'altra; ciò che vuol dire che data la prima entità, è data anche come sua  conseguenza necessaria la seconda, e date la prima e la seconda, è data anche come loro conseguenza necessaria la terza, in modo che la catena logica continua delle idee è anche una catena ontologica continua di realtà, in cui i termini susseguenti derivano sempre dai termini immediatamente precedenti e i termini precedenti danno origine ai termini immediatamente susseguenti. La  deduzione di Hegel somiglia ben poco alla vera deduzione, ma ha in comune con essa queste due condizioni: l'una che il passaggio dal principio alla conseguenza è fondato sull'identità, per cui la deduzione essendo da un'idea all'idea contraria, Hegel ammette che i contrarli Bono identici. L'altra che la conseguenza è il principio stesso a uno stato più concreto, più determinato l'insieme delle conseguenze che possono dedursi da un principio, colla deduzione ordinaria, equivalendo al principio stesso, che esse esprimono sotto una forma più concreta o determinata. Ciò si verifica nel terzo momento del movimento dialettico, la terza idea, cioè la sintesi, essendo più concreta delle due idee opposte che essa sintetizza, perchè comprende queste due idee come delle note o  determinazioni proprie. Dalla combinazione di questi due principii, cioè l'identità delle idee opposte e l'essere esse contenute nella terza idea, più concreta, che le sindetizza ed è pure identica con esse, ne segue che i diversi termini successivi della serie, cioè tutte le idee, non sono che degli stati differenti che attraversa successivamente uno stesso essere, dei momenti successivi dello  sviluppo di un'idea unica. Questo sviluppo è un passaggio continuo da uno stato più astratto a uno stato più concreto, per cui l'idea si aggiunge progressivamente delle nuove determinazioni, di cui ciascuna deriva, logicamente e ontologicamente, da quelle che la precedono. Ciò che vi ha di più difficile a spiegare nel sistema di Hegel è la forma particolare della sua deduzione, sovratutto  questo enorme paradosso che un contrario MASTER può dedursi dal suo contrario SLAVE – GRICE: “The servant is a very Oxonian play”, e l'altro, legato con esso, e che è effettivamente, come è stato detto, un rovesciamento completo delle leggi del pensiero, che i contrari sono identici, e che la contraddizione, per conseguenza, è una legge del pensiero e della realtà GRICE NEGATION AND PRIVATION. Il motivo determinante di queste dottrine ha dovuto essere, senza dubbio, l'aver compreso nettamente questo fatto incontrastabile, che la vera deduzione, quella che è fondata sul semplice principio d'identità, non è un progi-esso reale dei pensiero, ma semplicemente apparente in termini logici, non è un'inferenza reale ma solo apparente; mentre ad  Hegel era necessario un metodo che, pur es scudo una deduzione, fosse allo stesso tempo un progresso reale del pensiero, perchè dove rappresentare un progresso reale nelle cose stesse, una deduzione che non deduce delle verità nuove, ma si aggira nell'idem per idem, come fa il sillogisuìo, se essa rappresentasse una sequenza reale nelle cose stesse, non potendo rappresentare che la  sequenza dello stesso allo stesso, cioè l'immobilità, senza sviluppo alcuno, e quindi senz'alcuna derivazione reale. Ora la deduzione di Hegel dove rappresentare una derivazione reale, perchè l'essenza del realismo dialettico è, come cerchiamo di mostrare, la trasfosmazione del nesso logico in un nesso ontologico, del rapporto tra priucipio e conseguenza in un rapporto tra causa ed  effetto. Abbandonata la logica comune che prescrive di andare dallo stesso allo stesso, e cercando un metodo nuovo che andasse invece dal differente al differente, il rapporto di contrarietà è preferibile per Hegel a qualsiasi altro rapporto di differenza, perchè esso determina, data un'idea, quale sia l'altra idea che deve seguirla, coni' è necessario in una deduzione, in cui la premessa deve  rappresentare la causa, e la conseguenza  l'effetto di questa causa. Dei fatti psicologici assai ovvii davano, inoltre, qualche speciosità a questo concetto, che vi ha un passaggio necessario da un'idea all'idea contraria. Non è solo che la contrarietà è, come la somiglianza, una forza di associazione fondata sul contenuto stesso delle rappresentazioni e indipendente dall'esperienza; ma è  anche, come abbiamo osservato altrove, che le idee contrarie, purché s'intenda per idee le nozioni generali, cioè di classi, si suppongono e si implicano reciprocamente GRICE NEGATION AND PRIVATION SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE, in modo che è impossibile di avere la nozione della retta cioè della classe delle linee rette OR OF HEARING A NOISE or of IT NOT BEING THE CASE THAT SOMEONE IS HEARING A NOISE senza avere pure la Saggio. nozione della non retta OR OF NOT HEARING A NOISE or of it being the case that someone is hearing a noise cioè delle liuee che restano fuori della classe delle rette, la Doziooe del caldo cioè della classe degli oggetti caldi senza quella del freddo cioè degli oggetti freddi, del sauo senza  quella del malato, della luce senza quella dell'oscurità, of NOISE but not of SILENCE ecc. Ciò è per la ragione evidente che noi non possiamo esserci formata l'idea di una classe senza distinguere ed opporre gli oggetti che vi abbiamo inclusi e quelli che ne abbiamo esclusi; ed anche attualmente non possiamo rappresentarci i primi come formanti una classe, senza distinguerli e opporli  ai secondi, EGO NON EGO e per conseguenza senza rappresentarci, in un certo modo, anche i secondi. È ciò che vi ha di vero nella proposizione di Bain che ogni conoscenza I KNOW SOMOENE IS NOT HEARING A NOISE è relativa, perchè la nozione di una cosa implica sempre la nozione di una cosa opposta. Da «io che le idee contrarie si suppongono e si implicano mutuamente,  Hegel ne conclude naturalmente che anche le cose contrarie, cioè le entità astratte e generali, l'esjsere e il non essere GRICE ON BRADLEY ON NOT LIGHTING A CIGARETTE WITH A FIVE POUND NOTE, l'unità e la moltiplicità, la luce e l'oscurità, ecc, si suppongono e si implicano mutuamente: è una conseguenza necessaria dell'identità dell'essere ^ del pensiero. Un altro  fatto che ha potuto suggerire ad Hegel il suo principio che dato uno degli opposti è dato anche l'altro, è l'implicazione reciproca dei corretativi, p e. alto e basso, grande e piccolo, agente e paziente^,  padrone e servo, ecc, non potendo darsi degli oggetti a cui si applichi l'uno dei due termini IMPLICATVRA, senza darsi anche degli oggetti a cui si applichi l'altro EXPLICATVRA. Ammesso una volta che un contrario può dedursi dall'altro ciò che certamante è una cosa ben diversa dai fatti psicologici indicati, e non ha con essi che una vaga  Sagorio. uota. Saggio analogìa, Hegel ne conclude che i contrari sono identici, perchè la deduzione non può fondarsi che sul principio d'identità. Questo rapporto ambiguo fra i due termini, che è al tempo stesso d'identità e di  differenza cioè di contrarietà concilia l'esigenza della deduzione, che il passaggio dal principio alla conseguenza sia giustificato dalFidentità, con l'esigenza opposta del realismo, che questo passaggio sia un progresso reale del pensiero e dell'essere, e che perciò la conseguenza differisca dal principio, e non sia una ripetizione, totale o parziale, del principio stesso. L'altro concetto  fondamentale della dialettica hegeliana, cioè che, dati i due contrari, è dato anche un terzo termine che comprenda Funo e l'altro, è destinato a soddisfare a questa condizione della deduzione, che la conseguenza non sia che il principio stesso, divenuto più co»ncreto o più determinato. Il passaggio al terzo termine ha l'aria di essere giustificato dall'identità dei due primi, la concezione  dei due contrari come due lati di uno stesso essere, ciò che è supposto dalla loro identità, richiedendo Tidea di un essere unico di cui entrambi siano delle note o delle determinazioni, e quindi una terza idea in cui le due idee contrarie coesistano e siano, per dir così, fuse l'una con l'altra e unificate. Data questa legge del metodo dialettico, le due idee contrarie indicano la terza che deve  seguirle, come la prima di esse indica la seconda: è a questa condizione, come abbiamo osservato, che la seconda può essere riguardata come un eflfetto della prima, e La terza come un effetto della prima e della seconda. L'assimilazione del principio alla causa e della conseguenza all'effetto suppone, come abbiamo notato nel paragrafo precedente, che la conoscenza sia puramente A PRIORI, e quindi che il principio primo sia stabilito anch'esso per una necessità logica. È ciò che ha luogo in^ fatti nel «istema di Hegel.  Le due idee  priraitive, cioè l'essere e il dou essere, souo dimostrate per la loro implicazione nmtua  Se dato Tessere è dato anche il non essere, e dato il non essere è dato anche 1'essere come se^ue dalla legge generale della dialettica che dato l'uno  dei due contrari è dato anche l'altro ciò prova che l'esistenza dell'essere e del non essere è logicamente necessaiia, o ciò che vale lo stesso, la loro non esistenza logicamente impossibile. In effetto Pipotesi della non esistenza dell'uno o dell'altro, dato il legame necessario che esiste tra i due, sarebbe un'ipotesi che si distruggerebbe essa «tessa. Se non vi fosse l'essere, non vi sarebbe che  il non essere; ciò che è impossibile perchè dato il non essere è dato anche l'essere. E viceversa, se non vi fosse il non essere, non vi sarebbe che l'essere; ciò che è pure impossibile, perchè dato l'essere è dato anche il non essere. Senza l'esistenza necessaria delle due idee primitive, i principii, in tutto il seguito delle deduzioni, non ridarebbero logicamente anteriori alle conseguenze. In questo caso i principii non potrebbero assimilarsi alle cause e le consegiienze agli effetti, perchè si avrebbe altrettanta ragione di dire che l'esistenza delle entiti\ conseguenze dipende da quella delle entità principii, che eli dire che è l'esistenza delle entità principii che dipende da quella delle entità conseguenze. Il sistema dì Hegel ha, come abbiamo detto, una doppia faccia, idealismo e  realismo. Come idealismo, esso spiega l'universo, considerandolo come prodotto dall'attivitii logica del pensiero: sotto quest'a8i)etto è una forma dell'antroporaortìsmo, come l'abbiamo riguardato. Come realismo^ e più propriamente come realismo dialettico, esso crede di scoprire ciò che Comte chiama il modo essenziale di produzione delle cose, identificando il nesso logico tra il  principio e la consegueza al nesso ontologico tra la causa e Teffetto. Guardando il sistema dalla faccia dell'idealismo, il movimento dialettico delle idee è il progresso del pensiero che deduce come sarebbe in Euclide il seguito delle proposizioni che s'incatenano le une alle altre; guardando il sistema dalla faccia del realismo dialettico, il movimento dialettico delle idee è il progresso delle cose stesse che sono dedotte come sarebbe in Euclide il seguito delle verità o dei fatti, significati dalle proposizioni successive che s'incatenano. Hegel non afferma esplicitamente, come fanno altri realisti dialettici, che il principio logico è identico alla causa e la conseguenza all'effetto. Il suo predecessore Schelling che è anch'egli un realista dialettico nega anche quest'identità.  Come abbiamo visto in un capitolo precedente, la filosofia e le matematiche oltrepassano, secondo lui, il punto di vista dell'incatenamento causale; un fatto non viene spiegato in filosofia trovandone la causa in un altro fenomeno, ma trovando il principio donde derivano tutti i fenomeni. Hegel avrebbe aderito a questa proposizione di Schelling; nella Logica infatti egli non intende per  causalità che una forma particolare di successione tra fenomeni. E certamente, non si può dire che le entità che, nel realismo dialettico, procedono le une dalle altre, sono tra di loro delle cause e degli effetti, che usando le parole causa ed effetto in un senso differente dall'ordinario. La differenza più saliente è che tra le cause e gli effetti propriamente detti la succesione è cronologica, mentre tra le cause e gli effetti del realismo dialettico non è che logica e metafisica ciò che Platone e Spinoza GÌiìxim^no anteriorità e posteriorità di natura. Un'altra differenza è che la causa e l'effetto propriamente detti sono due fenomeni distinti e separati, mentre la causa, nel senso del realismo dialettico, sussiste Lof/iea paragrafi nell'effetto è, eome dice Spinoza, una causa imwanenie e l'eftetto non è che la causa stessa a cui si è ag«:iunta una nuova determinazione; perchè in «piesto pro^^iesso reale delle cose che, secondo il realismo dialettico, corrisponde al progresso lo;]pco del pensiero, non vi ha, come abbiamo detto, che uno stes-^o e unico essere, che passa successivamente da uno stato sempre più astratto o più indeterminato a uno stato sempre più concreto o più determinato. È perciò che Schelling ed Hegel, per indicare la derivazione  reale  delle  entità  conseguenze dalle entità principii, al concetto di causalità preferiscono quello di svihfppoLOGICALLY DEVELOPING SERIES GRICE JOACHIM MUNDER. Chiamandola sviluppo, essi intendono paragonarla alle fasi successive deiresistenza di un essere p. e. di un organismo, ma di cui le susseguenti siano condizionate unicamente dalle precedenti e non anche da condizioni esterne, come nell'organismo, e vi sia fra queste e quelle un legame necessario, nel senso  sti^tto della parola, cioè quello che i metafisici immaginano tra la causa efficiente e non il semplice  antecedente in una sequenza invariabile e il suo eftetto. Ma è evidente che un tale sviluppo, se esso fosse una successione cronologica, non sarebbe che una forma della causalità. Si avrebbe dunque lo stesso dritto, giacché la mancanza della successione cronologica non fa ostacolo, a chiamare una tale derivazione reale una causazione che a chiamarla uno sviluppo. Se le entità derivate,  nei sistemi di Schelling e di Hegel, possano chiamarsi effetti delle entità da cui derivano, e queste cause di quelle, non è, al postutto, che una quistione di parole. Dicendo che il realismo dialettico identifica il principio e la conseguenza alla causa efficiente e all'effetto, noi vogliamo dire semplicemente che esso spiega la produzione delle cose, assimilandola, come l'antropomorfismo e    le altre fomie della metafisica – THE CLOUD ‘SIGNIFIES’ – “CLOUD” “SIGNIFIES”,  The fact that he is shaggy ‘signifies’ – ‘Shaggy’ ‘signifies -- quantunque d'una maniera più lontana, a quelle causazioni della nostra esperienza più familiare. che sono il tipo dell'idea di causa efficiente. La quistione essenziale è se Schelling ed Hegel considerino le entità conseguenze come  derivate realmente cioè ontologicamente, e non soltanto dedotte, dalle entità principii. Ora non vi ha dubbio che essi non le considerino così. Schelling afferma, in propri termini, che l'assoluto produ<e le idee, e che le idee jprot^wcowo altre idee cioè quelle che sono logicamente anteriori quelle altre che si deducono da esse. Ed Hegel e gli hegeliani non parlano ripetutamente della  filiazione delle idee o anche delle cose corrispondenti le une dalle altre? non dicono che un'idea viene o esce da un'altra, e che questa apporta o chiama necessariamente quella; che la Natura procede dalla Logica e lo Spirito dalla Logica e dalla Natìira, come nella trinità cristiana il Figlio procede dal Padre e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio; che la dialettica cioè la legge secondo  cui le idee derivano le une dalle altre è la forza per cui si realizza l'attività  dell'idea;  ecc.? Queste espressioni in verità possono anche significare il punto di vista dell'idealismo, cioè che i concetti, in cui si risolve la realtà, si seguono e s'incatenano in virtù del loro legame logico, come le proposizioni d'Euclide e non le cose significate da queste proposizioni. Ma ciò clh; mostra che uno  almeno dei loro significati è l'altro punto di vista del sistema, cioè il realismo dialettico, è che esse equivalgono per gli autori alle afìfermazioni che un'idea essendo data, è data per ciò stesso un'altra idea, che le idee si seguono e s'incatenano in un ordine necessario, ecc. Le proposizioni d'Euclide non seguono necessariamente alle proposizioni da cui si deducono; souo le verità o i fatti  significati dalle prime Filosofìa e religione. ctie seguono nvcessariamente dalle verità o i fatti significati dalle seconde. Così queste affermazioni hegeliane non possono denotare il progresso del pensiero «»'«««duce punto di vista dell'idealismo, ma il progresso delle cose che vengono dedotte punto di vista del realismo dialettico. Ciò che mostra pure che le espressioni hegeliane significanti una derivazione reale tra le idee desiguano la sequenza logica della cosa che si deduce dalla co.a da cui si deduce e non semplicemente il legame psicologico tra i pensieri corrispondenti a questa sequenza logica è che questa derivazione implica, seconde. He-el e i suoi, una sorta d'identità di ciò che deriva con ciò da cui deriva. Quando essi chiamano il seguito e l'incatenamento  delle idee lo sviluppo, o il divenire, o il movimento dell'idea; quando dicono che un idea passa, o si continua, o si trasforma in un'altra; quando i diversi gradi del progresso dialettico, a  ciascuno dei quali si produce, com'essi dicono, una nuova idea e una nuova forma dell'esistenza, sono da essi riguardati come i momeftti d'un'idea unica; quando affermano che l'essere o l'idea passa  continuamente da uno stato più astratto a uno stato più concreto; essi considerano i diversi termini della serie, come abbiamo detto sopra, come degli stati successivi che attraversa uno stesso essere, di cui i precedenti condizionano e determinano necessariamente 1 susseguenti. Ma non sono le proposizioni o i pensieri costituenti una deduzione o un seguito di deduzioni, sono le veritiv o i fatti che si deducono gli uni dagli altri, che possono e devono considerarsi come una sola e stessa cosa una 8ola e stessa verità, un solo e stesso fatto, che prima si concepisce in una forma più astratte e più indeterminata, e poi successivamente in forme sempre pm concrete o più determinate. È questo passaggio graduale di uno stesso essere da uno stato più indeterminato a uno stato  più determinato, da uno stato più astratto a uno stato più concreto, che Hegel chiama uno sviluppo GRICE LOGICALLY DEVELOPING SERIES JOACHIM MAUDER, una successione di momenti, ecc., e che noi possiamo riguardare come un incatenainento di cause e di eftìbtti. in quanto i gradi o i momenti posteriori sono determinati e apportati necessariamente dai gradi o momenti  anteriori Del resto che questo sviluppo, questa successione di momenti, questa filiazione delle idee, e, in una parola, questa derivazione reale di cui parlano gli hegeliani, non sia, almeno sovratutto, che la derivazione logica tra la cosa che si deduce e quella da cui si deduce della quale si fa qualche cosa di obbiettivo, perchè delle cose che derivano logicamente le une dalle altre si sono  fatte delle realtà obbiettive, e non delle semplici astrazioni mentali è affermato nelle loro proposizioni che lo sviluppo logico è identico allo sviluppo ontologico, che il movimento del pensiero corrisponde al movimento della realtà, che l'incatenamento e l'ordine delle idee rappresentano l'incatenamento e 1^ordine delle cose, ecc. Taine ha dunque, in sostanza, ben interpretato Hegel,  affermando some vedremo che il suo sistema è fondato su una certa teoria della causalità, la quale consiste a riguardare come causa il principio logico e come effetto la conseguenza. Aderendo a questo concetto di Taine, noi non intendiamo altro affermare, in ultima analisi, se non che Hegel riguarda i termini o momenti successivi della serie dialettica come derivanti realmente, e non  soltanto logicamente^ gli uni dagli altri, e che questa derivazione reale è per lui la stessa derivazione logica, considerata obbiettivamente, cioè che essa consiste in questo che, data l'esistenza di un termine, è data perciò stesso per necessil'esistenza di un altro termine, questa necessità essendo una necessità logica. Riguardando, come Taine, queTmm . r' ru \^ sta dottrina di Hegel per una teoria della causalità, uoi vogliamo dire semplicemente che essa è un'applicazione del concetto di causalità efficiente. Essa applica questo concetto, perchè, secondo essa, l'esistenza di un termine dipende dall'esistenza di un altro termine, e questo è la condizione data la quale quello esiste e non può non esistere; ciò che, salvo l'assenza della sequenza nel tempo, è ciò che noi intendiamo  per causalità. Di più perchè in questo legame tra il termine da cui un altro deriva e quest'altro che ne deriva, vi hanno i caratteri che distinguono una causazione efficiente da una semplice causazione empirica o sequenza invariabile, vale adire: che l'effetto è spiegato dalla causa d'una maniera esauriente, cioè senza lasciare adito ancora alla domanda perehè; che il legame tra la causa e  l'effetto, cioè la capacità che ha la prima di produrre il secondo, e il secondo di essere prodotto dalla prima, è evidente razionalmente, cioè per il semplice rapporto delle idee, e non per l'esperienza; e infine che questo legame è necessario, nel senso più stretto della parola necessità. Questi risultati sono ottenuti da Hegel, considerando i termini successivi della serie dialettica, non come  semplici astrazioni mentali, ma come entità aventi un'esistenza propria e realmente distinte le une dalle altre. La base del sistema di Hegel, come di tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, è dunque questo principio: che la scienza è una deduzione progressiva, in cui si deducono sempre dei reali da altri reali e non semplicemente dei concetti o delle proposizioni da altri concetti o altre  proposizioni, affinchè il rapporto tra la premessa e la conseguenza venga assimilato a quello tra la causa e l'effetto. Se le premesse e le conseguenze non fossero dei reali, l'assimilazione sarebbe impossibile, perchè la causa e l'effetto sono due fatti reali, distinti e separati 1'uno dall'altro. La conseguenza  necessaria di questo principio è la realizzazione delle astrazioni. Infatti questi reali  che si deducono gli uni dagli altri non possono essere che dei concetti obbiettivati, o, parlando d'una maniera più generale, delle astrazioni realizzate. Ciò è per due ragioni: II realista dialettico non pretende di poter conoscere A PRIORI e, perciò, dedurre, tutti i fatti particolari dell'esperienza, vale a dire tutti gli esseri individuali con le circostanze e gì'incidenti particolari della loro  esistenza. Ciò a cui aspira la filosofia apriorista, di cui il realismo dialettico non è che una specie, è di riprodurre il contenuto stesso della scienza empirica, dandogli la forma dell'apriorità e della necessità. Ora la scienza non conosce che il generale: essa non determina i fenomeni particolari e le serie accidentali che essi compongono, ma le leggi di questi fenomeni, cioè le loro sequenze  o coesistenze costanti; essa non descrive gli esseri individuali, ma le forme o i tipi costanti di questi esseri. Così il realista dialettico, e il filosofo apriorista in generale, anche quando ha Taudacia di un Hegel, non pretende di conoscere A PRIORI e di dedurre che ciò che vi ha di costante nella natura, le leggi e le forme generali dell'esistenza: non sono tntti gli uomini individuali, con  tutti i loro caratteri particolari e tutti gli avvenimenti, anche insignificanti, della loro vita, eh'egli può pretendere di dedurre e di conoscere A PRIORI, ma l'uomo in generale, cioè i caratteri costanti del tipo umano; non tutte le cadute particolari di tutti i corpi che sono caduti nel passato o che cadranno nell'avvenire, ma la caduta dei gravi in generale, la legge o la determinazione generale  del peso o della gravità. Ciò che deduce il realista dialettico sono dunque delle proposizioni astratte e generali, di cui ciascuna pone l'esistenza di una legge o forma o determinazione generale delle cose p. e. dell'essere, del divenire, della gravità, dell'uomo, ccc. Ad ognuna di que-Toste proposizioui nou corrispoude, per noi, nella realtà che una classe di oggetti o di fenomeni individuali,  ciascuno coi suoi caratteri e le sue circostanze determinate: per noi, la realtà che corrisponde alla proposizione che esiste il peso, sono tutti i gravi che cadono, che sono caduti e che cadranno; la realtà che corrisponde alla proposizione che esiste Vuomo, sono tutti gli uomini che vivono, che sono vissuti e che vivranno; e così di seguito. Ma quando il realista dialettico deduce Vesistenza  dell'uomo o quella del peso, egli non può intendere, per questa sua deduzione, di porre, cioè di affermare, il complesso dei singoli uomini e delle singole cadute coi caratteri particolari e le circostanze determinate con cui esistono, sono esistiti, ed esisteranno nella realtà. Ciò è perchè il reale ch'egli deduce, cioè di cui pone o afferma 1'esistenza per la sua deduzione, deve essere Veffetto  e la conseguenza necessaria dei principii da cui lo deduce. Ma 1'esistenza dei singoli uomini e delle singole cadute reali, coi caratteri e le circostanze particolari della realtà, non è la conseguenza necessaria, e quindi nemmeno 1'effetto, dei principii da cui deduce l'esistenza dell'uomo o quella del peso in generale. Egli ammette infatti che i singoli uomini e le singole cadute, con le  circostanze determinate con cui si sono presentati e si presenteranno nell'esperienza, è impossibile di dedurli; ciò ch'egli ammette solamente che si possa dedurre è l'esistenza del tipo e della legge generale, dell'uomo e della gravità. Vi hanno dunque, secondo il realismo dialettico, due elementi nella realtà empirica, cioè nella nostra realtà: 1'uno deducibile e perciò necessario è 1'elemento  costante della natura, le leggi dei fenomeni e le forme generali degli esseri; l'altro non deducibile e perciò contingente è l^lemento variabile, le particolarità dei fenomeni e degli oggetti individuali, in cui queste leggi e questo forme si realizzano. L'uno di questi elementi disgiunto dall'altro non è per noi che un'astrazione, ma il realista dialettico deve considerarlo come una realtà, perchè  ciò che egli deve dedurre è un reale, e questo non può essere il nostro reale, in cui l'elemento necessario e deducibile è mescolato con l'elemento non deducibile e contingente, e che perciò non può essere la conseguenza necessaria dei principii già stabiliti e non può, quindi, riguardarsene come l'effetto. Questo reale che egli deve dedurre non può essere dunque che 1'elemento necessario  e deducibile, per sé solo, astratto, cioè disgiunto, dall'altro elemento che l'accompagna nella realtà empirica, e considerato come esistente per sé in questo stato di strattezza. È infatti questo elemento astratto che può solo riguardarsi come la conseguenza necessaria dei principii già posti, e quindi, se è una realtà e se anche essi sono delle realtà, come effetto di questi principii. Come  abbiamo detto nel paragrafo precedente, i reali che fauno da principii e quelli che fanno da conseguenze non possono essere che una sola e stessa realtà, che passa da uno stito più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato, perchè, nella deduzione, le conseguenze non fauno che porre, sotto una forma più concreta o più determinata, quello stesso che i principii  avevano già posto sotto una forma più astratta o più indeterminata. Ciò implica che i principii, cieè tutti i reali che, ad un grado qualunque del processo deduttivo, fanno da premesse, non possono essere delle realtà concrete, ma astratte, cioè delle astrazioni realizzate. Risultano dunque da ciò che abbiamo detto due caratteri comuni a tutti i sistemi di realismo dialettico: 1'uno che i reali  che esso deduce progressiva V. per più ampi sviluppi Realizzazione delle astrazioni. mente gli uni dagli altri, non sono delle realtà concrete, ma delle astrazioni realizzate^ e l'altro che queste astrazioni realizzate formano una scala di astrazione decrescente, non essendo che gli stati successivi o, come dice Hegel, i momenti, di nno stesso e unico essere, che passa gradatamente da uno  stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Noi ritroveremo questo secondo carattere, così bene che il primo, in tutti gli altri sistemi di cui parleremo nel seguito. I caratteri del sistema di Hegel, come di qualsiasi altro sistema di realismo dialettico, possono dividersi in due gruppi: gli uni sono comuni a tutti i casi di questa forma di metafisica, gli  altri particolari a ciascuno dei singoli casi. Questi ultimi, nel sistema hegeliano, sono le dtie differenze essenziali di questo sistema, cioè l'idealismo da cui in esso è accompagnato il realismo dialettco, e la forma speciale della deduzione, che consiste a passare dalla tesi all'antitesi e poi alla sintesi, ovvero dipendono da queste due differenze essenziali. I primi sono dati dallo scopo stesso  a cui mira il realismo dialettico, cioè l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l'effetto. Noi abbiamo già parlato di alcuni di essi, quali sono, oltre alla realizzazione delle astrazioni e al passaggio graduale dal più astratto al più concreto, la necessità che la deduzione differiscaa dalla deduzione ordinaria perchè deve essere un progresso  reale del pensiero e delle cose, e che il primo principio sia stabilito A PRIORI affinchè i principii siano logicamente anteriori alle conseguenze, e possano quindi considerarsene come delle cause. Dobbiamo anche parlare di due altri caratteri del sistema hegeliano che sono pure comuni, come questi, ai diversi sistemi di realismo dialettico, e si spiegano anch'essi per lo scopo di questa forma di metafìsica. L'uno è l'unità di metodo, la legge costante che governa i passaggi dalle idee date ad altre idee, il ritmo immutabile del movimento dialettico, che si compie uniformemente, nel sistema di Hegel, nei tre momenti della tesi, dell'antitesi e della sintesi. Lo scopo è evidentemente una identificazione più completa del rapporto tra le premesse e le conseguenze a quello tra le cause e gli effetti. Perchè un reale possa considerarsi come la causa efficiente d'un altro reale, non basta che il primo sia seguito dal secondo per un legame necessario e intrinsicamente evidente che ha con esso, ma bisogna accora che questa sequenza avvenga secondo una legge o una uniformità determinata, perchè anche la causazione efficiente è una causazione, e causazione vuol  dire sequenza invariabile, cioè che avviene secondo una legge o una uniformità determinata. Questa condizione del metodo dialettico, perchè il nesso logico tra principio e conseguenza possa trasformarsi in un nesso ontologico fra causa ed effetto, importa naturalmente la varietà nel tempo stesso che l'unità, vale a dire la moltiplicità dei passaggi logici nel tempo stesso che una legge  uniforme che governi questi passaggi. La moltiplicità dei passaggi logici si ottiene per la graduazione nella deduzione, per la esi)licazione solamente graduale e progressiva delle conseguenze implicate nel primo principio. La legge costante a cui si conformano questi passaggi logici, è la legge di causazione del mondo delle astrazioni realizzate, la loro sequenza invariabile, per cui  Hegel riguarda il metodo dialettico come la legge al tempo stesso del pensiero e delle cose. Questa moltiplicifcà dei passaggi logici e questa legge costante che li governa, le ritroveremo negli altri sistemi in cui all'obbiettivazione dei concetti è unito il metodo dialettico, nel senso generale che abbiamo spiegato, cioè il metodo di scopiire A PRIORI, ileduceDdoli gli uni dagli altri, questi  concetti obbiettivati. Uua conseguenza diretta dell'unità di metodi», e quindi indiretta dell'identiticazione del principio alla causa e della conseguenza all'effetto, è il monismo lo(jico ed ontologicoy cbe è anch'esso un carattere comune del realismo dialettico, La deduzione parte, in tutti i sistemi, da un primo principio unico monismo logico; ne segue, poiché le conseguenze non sono  che i principii stessi a uno stato più concreto, che tutte le astrazioni realizzate costituiscono gli stati successivi di un essere unico, che passa continuamente da uno stato più astratto a uno stato più concreto monismo ontologico. Il monismo logico, di cui l'ontologico è uua derivazione, risulta dall'uniformità di legge a cui è sottoposto il mondo delle astrazioni realizzate  Essa importa che  fra tutte le astrazioni realizzate vi ha un rapporto determinato che lega le une con le altre. Così una pluralità di principii egualmente primitivi e perciò senza legame l'uno con l'altro sarebbe in contraddizione con questa uniformità di legge. Queste entità di cui si facessero dei principii egualmente primitivi e senza legame l'uno con l'altro, dovrebbero essere anch'esse legate fra di loro dal  rapporto costante che costituisce la legge universale. Supponiamo, p. e., che nel sistema di Hegel vi fossero più serie d'Idee indipendenti fra di loro, e per ciascuna serie un principio proprio senz'alcun legame coi principii delle altre. Tutti i termini di ciascuna serie, in quest'ipotesi, e tutte le parti, grandi e piccole, in cui ciascuna serie si divide, sarebbero fra di loro nel rapporto costante  di tesi, antitesi e sintesi, ma non le diverse serie relativamente le une alle altre, nò i principii distinti che formano i punti di partenza delle serie distinte. Ciò sarebbe in contraddizione con la legge universale del mondo ideale, che tutte le idee e tutti i gruppi d'idee si dispongano in un ordine determinato, secondo il rapporto costante di una opposizione seguita <la una sintesi. Anche le  diverse serie supposte e i principii supposti di quc^ste serie dovrebbero essere uniti dallo stesso rapportò, ciò che importa una serie unica e un principio primo unico, e quindi il monismo, non solo logico, ma anche ontologico. Questo è, come abbiamo detto, un carattere comune del realismo dialettico, che ritroveremo in tutti i sistemi di cui parleremo in seguito. Fra tutti i sistemi di  realismo dialettico, quello di Hegel, quantunque ne sia l'esempio più illustre è il meno proprio ad indicarci chiaramente in che consista l'essenza di questo tipo di metafisica. Ciò è per diverse ragioni, che noi possiamo ridurre a tre: La realizzazione degli universali è inviluppata in questo sistema nella dottrina che le cose sono dei concetti, e presentata come una conseguenza dell'identità  dell'essere e del pensiero; ciò che non solo dissimula il vero perchè di questa realizzazione, ma potrt*bbe anche far credere che l'identità dell'essere e del pensiero è essenziale nel realismo dialettico. La deduzione di Hegel è così difforme dalla vera deduzione^ che si comprende appena come l'autore abbia potuto considerarla corno tale. Ciò può avere per risultato di nasconderci che il  carattere essenziale del metodo di questa metafisica è di essere o piuttosto di pretendere di essere una deduzione, vale a dire ciò che i logici chiamano con questo nome. Inoltre potrebbe farci credere che l'identità dei contrari e le altre particolarità della dialettica hegeliana siano dei caratteri essenziali di questo metodo, che noi dobbiamo attenderci di ritrovare in tutti gli altri sistemi  analoghi. Hegel non afferma esplicitamente il principio fondamentale del suo sistema, cioè l'identità del rapporto logico fra il principio e la conseguenza col rapporto ontologico fra la causu e l'effetto. Per queste ragioni saranno per noi più istruttivi gli altri sistemi: quello di Taine, a cui ora passeremo, sarà forse il più istruttivo di tutti, perchè la sua deduzione è la deduzione dei logici,  e perchè egli espone della maniera più netta la teoria della causalità che è la base del realismo dialettico. Non vi ha dubbio che Taine consideri Vastratto e generale come una realtà sussistente per se stessa. Egli parla continuamente di cose generali^ che corrispondono alle idee e nomi generali. Un'idea astratta e generale è ciò che corrisponde, nel nostro pensiero, a una cosa astratta e  generale nella realtà; è a questa che deve aggiustarsi, è essa che è il suo oggetto. 0 piuttosto, siccome tutte le nostre idee non sono che immagini di sensazioni, e noi non abbiamo, a parlar propriamente, idee astratte e generali, sono i nomi generali che corrispon Inlcllig.: Sin qui non abbiamo considerato che le cose particolari e la conoscenza che ne prendiamo; ci resta a considerare le  cose generali e le idee ohe ne abbiamo. Perchè vi hanno delle cose generali, cioè delle cose comuni a molti casi o individui; sono dei caratteri o gruppi di caratteri acqua designa un gruppo di caratteri che s'incontra sempre lo stesso in un'infinità di liquidi bere designa un gruppo di caratteri ohe s'incontra sempre lo stesso in un'infinità d'azioni. È così per le altre parole del dizionario;  ciascuna designa un carattere o gruppo di caratteri che si presenta o può presentarsi in molti casi o individui naturali. Ecco un nuovo oggetto di conoscenza,  t.ome vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai casi e individui particolari, così vi hanno in noi dei pensieri che corrispondono ai caratteri generali; si chiamano idee generali. pure la stessa opera, ecc. Nella più parte di  questi luoghi, come nel luogo citato, le cose generali THE ALTOGETHER DOG THE ONE AT A TIME DOG GRICE sono opposte agli oggetti individuali. Intelliy., dono alle cose astratte e generali, e le rappresentano, o, come dice il nostro autore, le sostituiscono, nel nostro pensiero. Sono questi nomi, non le pretese idee astratte, che ci rendono presenti le cose generali: un nome  generale p. e. albero o poligono e la cosa astratta e generale corrispondente formano una coppia^ tale che il primo termine tiri dietro di sé, faccia apparire, il secondo termine. Se un nome si applica a tutti gl'individui d'una classe, è perchè designa il carattere astratto HAIRY-COATEDNESS GRICE presente in tutti questi individui, ed è legato con lui: esso equivale alla vista, che non  possiamo avere, di questo carattere astratto. Alla presenza dinnanzi a noi di una qualità generale nasce in noi una tendenza a nominare ed un nome; tutte le volte che la cosa astratta e generale è presente negli oggetti, il nome è  Inlellig., ecc. Intellig. [nletlig. ecc. Intellig.: Pertanto se esee le percezioni e rappresentazioni sensibili degl'individui d'una classe lo evocano il nome, è grazie a ciò che tutte hanno in comune, e nou grazie a ciò che ciascuna d'esse ha di proprio; pertanto ancora se esso le evoca, è grazie a ciò che tutte hanno di comune e non grazie a ciò che ciascuna di esse ha di proprio; per conseguenza in  fine esso è attaccato a ciò che tutte hanno di comune e a ciò solamente. Ora questo qualche cosa è appunto il carattere astratto, lo stesso in tutti gl'individui della classe. È dunque a questo carattere, e a questo carattere solo, ohe il nome, mentalmente inteso o pronunziato, corrisponde; ciò che si esprime dicendo che il nome designa e significa il carattere. Di quesla maniera il nome equivale alla vista, esperienza o rappresentazione sensibile, che non abbiamo e non possiamo avere, del carattere astratto presente in tutti gli individui simili. Esso la rimpiazza e fa lo stesso ufficio. Intellig. presente nel nostro spirito, tutte le volte che essa è assente, esso è assente; così sostituisce la sua esperianza o la sua rappresentazione che ci sono impossibili. Noi Intellig.: Esso il nome corrisponde alla qualità comune e distintiva che costituisce la classe e che la separa dalle altre, e corrisponde solamente a questa qualità; tutte le volte ohe essa è presente, esso è presente, tutte le volte che essa è assente, esso è assente; esso è destato da essa, e non è destato che da essa. Di questa maniera è il suo rappresentante mentale, e si trova il sostituto d'una esperienza <5hf ci è interdetta. Esso tiene luogo di quest'esperienza, fa il suo ufficio, le equivale Artifìcio ammirabile e spontaneo della nostra natura: noi non possiamo percepire né mantenere isolate nel nostro spirito le qualità generali, sorta di filoni preziosi che costituiscono l'essenza e fanuo la classificazione delle cose; e tuttavia per uscire dalla grossa esperienza bruta, per apprendere l'ordine e la sirutlur't interiore del mondo, la strutttura interiore del mondo, perchè esso si compone, come di vari strati, di astrazioni realizzate più o meno astratte, bisogna che noi le ritiriamo dalla loro ganga, e le concepiamo a parte. Noi ricorriamo a un sotterfugio, associamo a ciascuna qualità  astratta e generale un piccolo avvenimento particolare e complesso, un suono, una figura facile a immaginare e a riprodurre; e rendiamo l'associazione si esatta e si stretta che ormai la qualità non possa apparire o mancare nelle cose, senza che il nome apparisca o manchi nel nostro spirito, e reciprocamente. La coppi. i così formata rassomiglia a questi strumenti di fisica e di chimica che, per un debole effetto sensibile, uno spoststmento d'aghi, una variazione di tinta, mettono alla    portata dei nostri sensi delle decomposizioni di sostanze o delle variazioni di correnti poste fuori della portata dei nostri sensi Similmente, quaado si tratta d'una qualità generale, di cui non possiamo avere né esperienza né rappresentazione sensibile, noi sostituiamo un nome alla rappresentazione impossibile Per questa equivalenza tra il nome e la rappresentazione i caratteri generali  delle cose arrivano alla portata della nostra esperienza, non abbiamo esperienza o percezione delle cose astratte e i^enerali considerate ciascuna isolatamente; ma esse non esistono al di là di questo mondo come le Idee di Platone secondo la più parte degl'interpreti. Sono quali forme viventi mescolate alle cose; costituiscono la porzione uniforme e fìssa dell'esistenza dispersa e successiva,  i soli elementi che siano da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi; come gl'individui e gli avvenimenti, in cui esse esistono, sono delle forme dell'esistenza, e non differiscono dagl'individui e dagli avvenimenti che perchè sono delle forme più stabili e più diffuse. Per indicare l'esistenza per sé delle cose astratte e generali e al tempo stesso la loro inerenza nelle cose concrete e  partirolari, Taine dice, come Platone, che quelle sono presenti in queste o altre  V. oltre i, Intellig. Intellig., luogo che riporteremo in una nota seguente. Saggi di critica e di Storia, Prefazione: Le qualità e situazioni generali che fanuo e disfanno le civiltà, e di cui la nostra vita effimera non è che un fiotto nella loro corrente, ci appariscono non come formule astratte, ma come forze  viventi mescolate alle cose, da pertutto presenti, sempre Jigenti, vere divinità del mondo umano, ohe danno la mano al di sotto di esse ad altre potenze padrone della materia come esse lo sono dello spirito, per formare tutte insieme il coro invisibile di cui parlano i vecchi poeti, che circola a traverso le cose, e per cui vive e palpita l'universo eterno. Qui le cose astratte e generali non  sono solamente sostanti dcate, ma quasi personificate. Intell., luogo che riporteremo in una nota seguente. Intellig, il luogo che riporteremo nella nota lo stesso luogo indicato nella nota precedente. espressioni equivalenti; che vi sono incluse o conte' nate; che ne sono delle porzioni o dei frammen' Intellig. Filos. class,, Posit. ingl. ecc. Notiamo le espresioni: i caratteri generali sono gli  abitanti pili dittnsi della natura e hanno il più largo posto nella scena dell'essere Intellig. riportato in una nota seg.; i caratteri comuni sono molto più diffusi nello spazio i>ohe i caratteri che persistono in un essere particolare Intellig.; questi estratti noi diremo asiratti presenti in molti punti del tempo e dello spazio; più un carattere è generale e astratto, più occupa posta, e lega individui  nella natura|»; dei caratteri più generali che universalmente diffusi sotto svisamenti diversi; nella natura un carattere, è sempre annegato in una folla d'altri; dei dati goneeali, cioè diffusi in territori esteriori molto vasti Posit. ingl,; dei dati universali, cioè diffusi su tutto il territorio del tempo e dello spazio Notiamo pure sotto un'altro punto di vista: Intelligenza; gli assiomi affermano che  se il primo dato s'incontra in qualche parte e notevolmente nella natura, il secondo dato non può mancare d'incontrarvisi perchè infatti un'astrazione realizzata, essendo sussistente per se stessii, non potrebbe incontrarsi anche fuori della natura In alcuni dei luoghi indicati le cose astratte e generali non si dicono presenti o assenti – MA SENTI SENTE SONS REALISSIMVM  nelle cose  donerete e particorari, ma in altre cose pure astratte e generali, ma meno delle prime. E in effetto la relazione tra il più astratto e il meno astratto in cui il primo inerisce, non potrebbe essere diversa che quella tra l'astratto ed il concreto.  Intellig., Posit. ingl., Filos. clas. ecc. Ripetiamo la stessa osservazione della nota precedente, cioè che nei luoghi indicati l'autore dice le cose astratte e  generali ineluse o contenute o altre espressioni equivalenti tanto negli oggetti concreti e particolari quanto in altre cose pure astratte e' ti; che sono gli elementi, i semplici, i componen<f  , e le cose i composti che ne risultano; ecc. generali ma meno della prima. Nelle note seguenti ci dispenseremo di ripetere Tosservazione analoga: basterà di dire ora in generale ohe l'autore si serve,  com'è naturale, delle stesse espressioni per indicare sia la relazione dell'astratto al concreto sia quella del più astratto al mono astratto di cui il primo si dice ohe è una nota quando si risruardano come semplici concetti. / filos. class,.: Il tutto è soggetto o sostanza, le parti sono attributi o qualità. sempre e da per tutto ove si trova, l'attributo è una qualità, un astratto, una porzione del  soggetto. Questa pietra è pesante, la materia è estesa, questa pianta vegeta, il sole è brillante; in tutte queste frasi Tattributo è un membro separato dal soggetto. L'estensione è una porzione del tutto che si chiama materia; il peso è una porzione del tutto che si chiama pietra; la vegetazione è una porzione del tutto che si chiama pianta; lo splendore è una porzione del tutto che si chiama  sole. L*Intellig.: La cifra aritmetica non sostituisce la cosa intera con tutte le sue qualità e caratteri, ma solamente la sua quantità e il suo numero; sostituisce solamente qualche cosa dell'oggetti immaginato, cioè a dire un frammento, un estratto: Il nome generale è astratto HAIRY-COATEDNESS GRICE perchè designa un estratto, cioè una porzione d'individuo, la quale si ritrova in  tutti gl'individui del gruppo esso è generale percè astratto; convieue a tutta la classe, perchè l'oggetto designato non essendo che un pezzo, può ritrovarsi in tutti gl'individui della classe. Ecco una coppia d'una specie nuova la coppia fra il nome SHAGGY e l'astratto designato HAIRY-COATEDNESS GRICE, poiché il suo secondo tarmine non è un oirgetto di cui possiamo avere  percezione ed esperienza, cioè a dire un fatto intero e determinato, ma una porzione di fatto, un frammento ritirato per forza e per arte daltutto naturale a cui appartiene e senza di cui non potrebbe sussistere fenza di cui non potrebbe sussistere, perchè le astrazioni realizzate non esistono che nella natura, per conseguenza, nelle cose concrete. Possiamo noi avere l'esperienza, percezione Questi elementi non ricevono un'esistenza fittizia daU l'astrazione; essi esistono per sé stessi, ma nelle cose; ciò vuol dire che ciascun elemento non esiste solo ma in unione ad altri elementi, insieme ai quali costituisce o rappresentazione sensibile di questo frammento staccato e isolato? Per ragione esplicativa s'intende uno o più caratteri del soggetto, inclusi in esso come un frammento  iu un tutto, pivi astratti e più generali di esso, e che essendo legati èssi stessi all'attributo, legano l'attributo al soggetto. Ciò torna a dire ohe l'attributo non è legato al soggetto stesso tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e generali del soggetto. Un attributo che un soggetto ha comune con un altro soggetto appartiene a questa porzione del nostro soggetto che si compone di caratteri  presenti in esso e nel secondo soggetto, cioè a dire comuni all'uno e all'altro, cioè a dire infine generali. Donde segue pure che appartiene solameute a una porzione del nostro soggetto, in altri termini a un frammento, a un estratto, a un astratto incluso nel nostro soggetto. Intellig., Posit. ingl. ecc. Intell.: Del gruppo di caratteri che costituiscono un corpo terrestre, Newton non ne avea conservato che uno, la proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva eliminato il resto. Del gruppo di caratteri che costituiscoro un pianeta egli non ne avea  conservato che uno, la proprietà di essere una massa in rapporto con un'altra massa; egli aveva pure eliminato il resto. Egli  aveva  dunque  liberato  (degagé)  dai  due  gruppi  una  proprietà asttatta  e  generale,  più  astratta  e  più  generale  che  ciascuno  di essi,  contenuta  in  ciascuno  di  essi  come  una  parte  iu  un  tutto, come  un  frammento  in un insieme, come un elemento in una somma. Invece di legare come i suoi predecessori il peso fil primo gruppo totale, e la tendenza centripeta al secondo gruppo totale, egli lega il poso e la tendenza centripeta a un elemento che si trova lo stesso nei due. Per quest'esempio evidente vediamo in che consiste il dato intermediario che ci fornisce la ragione d'una legge. Essendo dato  l'oggetto sottomesso alla legge  iiDO dei suoi caratteri, un carattere compreso nel gruppo iS «lei caratteri che lo costituiscono, un carattere incluso in esso, più astratto e più generale che esso, in breve un estratto da estrarre, Se si spiegasse la legge di gravità, si liberprebbe on dégayerait nel corpo che gravita un carattere più astratto e più generale ancora che la gravitazione. quest'ultimo  carattere esplicativo avrebbe gli stessi tratti e la stessa situazione che gli altri. Sarebbe dunque come gli altri una porzione, un elemento, un estratto del precedente, cioè della proprietà generale dei corpi a cui Newton ha legato la gravitazione, e si troverebbe come gli altri nel precedente in cui è incluso. Posit. ingl.: Con la definizione della sfera o di un altro oggetto qualunque si riduce  un dato infinitamente complesso a due elementi. I due attributi che entrano nella definizione sono dunque gli elementi dell'oggetto definito. Si trasforma il dato sensibile in dati astratti. Vi ha in fuori della definizione molte maniere di fare riconoscere l'oggetto. Solameute queste designazioni non sono delle definizioni esse non riducono la cosa ai suoi fattori, non la ricreano sotto i nostri  occhi, non mostrano la sua natura intima e i suoi elementi irriduttibili,..Vi ha una definizione in ciascuna scienza; ve ne ha una per ciat^cun oggetto. Noi non la possediamo da per tutto, ma la cerchiamo da per tutto. Noi fiiamo pervenuti a definire il movimento dei pianeti per la forza tangenziale e Tattrazione che lo compongono. Noi lavoriamo a trasformare ciascun gruppo di fenomeni  in alcune leggi, forze o nozioni astratte. Noi ci sforziamo di attingere in ciascun oggetto gli elementi generatori, come li attingiamo nella sfera. e in tutti i composti matematici pure Pos. ingl. luoghi citati in note seguenti, Intellig., ecc. Come gli astratti in generale sono gli elementi delle cose concrete, così tra gli astratti stessi i più astratti i meno comprensivi sono gli elementi dei meno  astratti i più comprensivi, iu modo che, decomponendo gli elementi stessi nei loro elementi, si giunge infine ad elementi primi, indecomponibili. Posit. questi corhposti ohe si chiamano cose. L'astrazione non fa che considerare ciascun elemento a parte, cioè solo; sceverandolo dagli altri elementi con cui è unito; essa e riduzione, che non è che una specie di astrazione ingl. J  ir  F//-r////.. Trovate queste coppie d'astratti ohe si cbiaraiano leggi della Datui*a, noi pratichiamo su loro la stessa operazione che sui fatti cioè di ridurle ai loro elementi. Quantunque più astratte, esse sono aucora complesse Esse possono essere decomposte e spiegate. Vi ha luogo per loro come per i fatti, di cercare gli elementi generatori in cui possono risolversi. e l'operazione devo continuare  sinché si sia giunti ad elementi assolutamente semplici, cioè tali che la loro decomposizione sia contradittoria. Vi hanno dunque degli elementi indecomponibili. Possiamo noi conoscere questi elementi primi? Per mio conto, io lo penso, e lu ragiene ne è che essendo degli astratti, essi non sono situati al di fuori dei fatti, ma compresi in essi, in modo che non si ha che  a  ritirameli. Ben  pili, essendo i più astratti, cioè i più generali di tutti, non vi hanno fatti che non li comprendano e da cui non si possa estrarli. Sì limitata che sia la nostra esperienza, noi possiamo dunque attingerli, ed è secondo quest'osservazione che i moderni metafisici d'Alemagna hanno tentato le loro grandi costruzioni. Essi hanno compreso che vi hanno delle nozioni semplici. cioè degli astratti  indecomponibili, che le loro combinazioni generano il resto, e che le regole delle loro unioni o delle lord contrarietà mutue sono le leggi prime dell'universo. Se qualcuno raccogliesse le tre o quattro grandi idee a cui mettono capo le nostre scienze, e i tre o quattro generi d'esistenza ohe riassumono il nostro universo. se in seguito, isolando gli elementi di questi dati, mostrasse ohe essi  devono combinarsi come sono combinati e non altrimenti; se provasse infine che non vi hanno altri elementi e che non ve ne possono essere altri, egli avrebbe abbozzato una metafisica senza usurpare empiéter sulle scienze positive. pure I filos, class. Prefaz., in cui è ripetuto lo stesso concetto che nell'ultimo tratto citato aggiungendo ohe tale è l'idea dello natura esposta da Hegel. Posit.  ingl. luogo citato nella nota seguente, e luoghi citati in una nota seg. di questo paragrafo e nel paragr., testo. Posit. ingl.: Ogni conoscenza consiste dapprima a legare o addizionare dei fatti. Ma ciò terminato, una nuova operazione comincia, la più feconda di tutte e che consiste a decomporre questi dati complessi in dati semplici. Una facoltà magnifica apparisce. io voglio dire l'astrazione, che è il potere d'isolare gli elementi dei fatti e di considerarli a parte. I miei occhi seguono il contorno d'un quadrato, e l'astrazione ne isola le due proprietà costitutive, l'eguaglianza dei lati e degli angoli. Le mie dita toccano la superficie d'un cilindro e l'astrazione ne isola i due elementi generatori, la nozione di rettangolo e la rivoluzione di questo rettangolo intorno ad uno dei suoi lati  preso come asse Da per tutto altrove è lo stesso. Sempre un fatto o una serie di fatti può essere risoluto nei suoi componenti. È questa decomposizione che si reclama allorché si domanda quale è la natura d'un oggetto. Sono questi componenti che si cercano allorché si vuol penetrare nell'interiore d'un essere. Sono essi che si designano sotto i nomi di forze, cause cause nel senso del  realismo dialettico, leggi, essenze, proprietà primitive. Essi non sono un nuovo fatto aggiunto ai primi; ne soao una porzione, un estratto; sono contenuti essi, non sono altra cosa che i fatti stessi. Non si passa, scoprendoli, da un dato a un dato dift'erente, ma dallo stesso allo stesso, dal tutto alla parte, dal composto ai componenti. Non si fa che vedere la stessa cosa sotto due forme,  prima intera, poi divisa; non si fa che tradurre la stessa idea da una lingua in una altra, dalla lingua sensibile in lingua astratta. Posit ingl. il luogo citato nella nota precedente il luogo citato nella nota il luogo che citeremo nel parag. testo, Intellig., ecc. I fenomeni o oggetti particolari, essendo composti di elementi astratti, sono delle cose complesse: consistono ad estrarrCj a ritirare, a  staccare, a separare^ dalle cose questi elementi e le loro coppie che chiamiamo l^ggi perchè una legge non è, come vedremo, che una coppia di astratti, ad isolarli, a metterli a parte, a me<terli a nudo, ecc. per la eliminazione o espulsione o separazione, ecc. degli altri elementi con cui coesistono. Posit, ingl. il luogo citato nella nota precedente, il luogo citato nella nota, il luogo che  citeremo nella nota seguente che citeremo in una delle note seg.. Intellig, eco. Gli astratti stessi decomponendosi in elementi più astratti, sono pure complessi  Posit. ingl. il luogo citato nella nota -^o  eompostiv. Posti. tngL. il luogo che citeremo nel paragr.: i meno astratti o meno generali sono pia complessi che i più astratti o più generati  Intellig. Per conseguenza le cose che noi  chiamiamo reali e le astrazioni in cui osse si risolvono meno le più astratte di tutte sono dei gruppi o delle riunioni di astratti Intellig. il luogo citato nella nota, Posit. ingl. luogo che citeremo nella nota seguente, Intellig. un soggetto distinto, p. e. questo parallelogrammo, o anche il parallelogrammo in sé, è  <  una somma o riunione di caratteri >)  Intellig. un carattere astratto non si  trova che in un caso o individuo particolare cioè in una compagnia di altri caratteri, ecc. Un fatto è un gruppo fittizio e un ananasso arbitrario perchè gli elementi, cioè gli astratti, che lo compongono non sono uniti che accidentalmente Posit. ingl. Un fatto è ancora  Posit. ingl. una sovrapposizione di leggi perchè una legge è una coppia di astratti, cioè di entità reali, e un fatto è dovuto  al concorso di più leggi. Intellig. €... separare démiler il tipo reale e costante ohe fa ciascun specie, ciascun genere, ciascuna famiglia, ciascun ordine, ciascuna classe il tipo si distingue dalla specie, dal genere, ecc., e li fa per la «uà presenza in tutti gli individui della specie, del genere, ecc. Intellig. : L'unità di Per indicare questa operazione, al termine astrazione Taine ne preferisce uno  nuovo, castrazione il), perchè il ciascun mucchio di pietre non è che un carattere generale dell'oggetto, e questo carattere può essere liberato degagé, ritirato, messo a paite per i processi ordinari, cioè a dire per mezzo di un nome, e in generale per mezzo di un segno. Ben più, non ve ne è più facile a mettere a parte, perchè tutti gli oggetti lo presentano. Inteilig.: Ciascuno di questi limiti,  superfìcie, linea o punto, è un carattere del cori)o, carattere isolato per astrazione, considerato a parte, e di più generale, cioè comune a molti corpi, o a dir meglio universale; cioè comune a tutti i corpi. Noi lo stacchiamo e lo notiamo per mezzo di simboli A qnesti elementi così rappresentati aggiungetene un altro, il movimento; esso s’incontra pure nella più parte dei corpi che  percepiamo; si può dunque staccamelo. Intellig.: Ecco delle leggi; ciascuna di esse o<msiste in un? coppia di caratteri generali e astratti che sono legati. Da un lato questa proprietà d'essere del ferro e d'essere esposto all'umidità, dall'altro la nascita di questo composto chimico che si chiama ruggine; da un lato la suprema durezza e dall'altro la proprietà di essere un cristallo di carbonio  puro è visibile che tutti questi dati sono dei caratteri generali, cioè a dire comuni a un numero indetìnito d'individui o di casi; che tutti questi dati 8«>no dei caratteri astratti, cioè degli estratti, considei-ati a parte: l'intermediario esplicativo cioè la ragione d'una legge si è sempre mostrato a noi come un carattere o una somma di caratteri inclusi nel primo dato della coppia cioè della legge,  più generali di esso se si considerano a parte, accessibili alle nostre prese poiché sono compresi in esso, e separabili da esso per i nostri processi ordinari di isolamento e di estrazione Una volta che, l'intermediario è separato démclé e rappresentato nello spirito da un'idea corrispondente, si fa in noi un lavoro intensivo che si chiama dimostrazione. I filos. class. Prefaz.: Ma allo stesso  tempo se ne può concludere contro i positivisti che le cause npn sono un mondo misterioso e inacessibile. che esse si riducimo a delle leggi, tipi o qualità dominanti. primo, per l'uno che uè fa il concettualismo, ha perduto il significato suggerito dalla sua etimologia, cioè di trai -fuori dagli oggetti qualche cosa che già esisteva in essi. Così egli chiama lo cose generali degli estratti, ohe  possono esaere osservate direttatnente e in se stesse, che sono racchiuse negli oggetti, che pertanto si può estrarnele, che le primo avendo la stessa natura delle ultime possono essere come le ultime separate dégagées per astrazione dai fatti che le contengono, ohe l'assioma primitivo cioè la coppia di astratti piti generale è compreso in ciascun avvenimento che esso causa, come la legge del peso è compresa in ciascun avvenimento che essa produce le cause sono per Taine, come spiegheremo in seguito, gli aBtratti e le loro coppie. / filos. class.: Io ho tracciato un triangolo  particolare, determinato, contingente, peribile, A B C, le astrazioni realizzate sono generali, indeterminate, necessarie, eterne per fermare la mia immaginazione e precisare le mie idee. Io ho estratto  da esso il triangolo in generale; perciò non ho considerato in esso ohe delle proprietà comuni a tutti i triangoli e non ho fatto su di esso che delle OO' struzioni che potrebbero convenire a tutti i triangoli. Analizzando queste proprietà generali e queste costruzioni generali, io ne ho estratto una verità o rapporto univerale e necessario l'eguaglianza degli angoli a due retti. Io ho ritirato il  triangolo generale compreso nel triangolo particolare; ciò ohe è un*astrazione. Io ho ritirato un rapporto universale e necessario contenuto nelle proprietà generali della costruzione generale; ciò che è ancora un'astrazione. Posit, ingl,: in questa operazione l'astrazione, che è evidentemente fruttuosa, invece di andare da un fatto ad un altro, si va dallo stesso allo stesso; invece di aggiungere   un'esperienza a un'esperienza, si mette a parte qualche porzione della prima» Posit, ingl.: Resta l'induzione, che sembra il trionfo della pura esperienza. Ed è appunto l'induzione che è il trionfo dell'astrazione. Quando io scopro per induzione che il freddo causa la rugiada, o ohe il passaggio dallo stato liquido allo stato solido produce la cristiiUizzazione, io stabilisco un rapporto tra due  astratti. Nò il freddo, né la rugiada, né il passaggio dallo stato liquido allo stato solido, né la oristalizzazione non esistono in sé vale a dire isolatamente. Sono delle porzioni di fenomeni, degli estratti di casi complessi, degli elementi semplici racchiusi in insiemi più composti. Io ne li ritiro e li isolo; isolo la rugiada presa in generale da tutte le rugiade locali. temporanee, particolari, ohe  io posso osservare; isolo il freddo preso in generale da tutti i freddi speciali, variati, distinti, ohe possono prodursi fra tutte le differenze di tessitura, tutte le diversità di sostanza, tutte le ineguaglianze di temperatura, tutte le oomplicazioni di circostanze. Io cougiungo un antecedente astratto con un conseguente astratto, e li congiungo, come mostra lo stesso Mill, per mezzo di separazioni,  di soppressioni, di eliminazioni. Io espello dai due gruppi che li contengono tutte le circostanze adiacenti; distinguo démélej la coppia nell'accerchiamento che 1'offusca; stacco, per una serie di comparazioni e di esperienze, tutti gli accidenti parassiti che si sono incollati con essa, e tiniseo così per metterla a nudo. Io ho l'aria di considerare venti casi differenti, e nel fondo non ne  considero che uno solo;  ho l'aria di procedere f>er addizione, e insomma non opero che per sottrazione. Tutti i processi dell'induzione sono dunque dei mezzi di astrarre, e tutte le opere dell'induzione sono dunque dei legami di astratti. Intellig.: Tutti questi metodi i metodi induttivi di Mill hanno ricorso allo stesso artifizio, che è l'eliminazione o Tesolusione dei caratteri che non sono  il carattere cercato. Sia un carattere conosciuto; esso è accompagnato, seguito e proceduto da dieci altri. Quale o quali di questi dieci sono legati alla sua presenza, in modo che la sua presenza basti perché essi siano dati come compagni, antecedenti e conseguenti \ Tutta la difiìcoltà e tutta la scoverta sono lì. Per risolvere la difficoltà e per operare la sooverta, bisogna eliminare, cioè  escludere, fra i dieci quelli ohe non sono legati di questa maniera alla^ua presenza. Ma siccome effettivamente non si può esoluderli, e ni'lla natura il carattere cercato è sempre annegato in una folla d'altri, si riuniscono dei casi che, per la loro (laudo a questo termiue uu siguitìcato pressocliè identico a quelli di porzione o di frammento: estratto equivale al fondo ad astratto, ma indica  che quest'astratto esiste già nelle cose, e l'astrazione non fa che considerarlo isolatamente. Quando Taine parla di astrazione, egli non dà a questo termine o ai termini analoghi il significato ordinario, percliè egli non ammette delle idee astratte diversità, autorizzano lo spinto a espellere questa folla. Si cercano degl'indizi che ci permettano di distinguere il carattere cercato e i caratteri  parassiti L'espulsione fatta, non resta d'innanzi a noi che il carattere cercato  a. Intellig. luogo citato nella nota, Intellig., e Posit. ingl.^luo;^hi citati nella nota.Pt>»i<. ingl. luogo citato nella nota, Posit. ingl., Mlo8. class. InteUig., Intellig. ecc. Posit. inni. e Intellig. citati in nota,  Int . e Filos. class. citati nella nota prec), Int., ecc. Intellig. Se iu questo fascio di caratteri, la cui persistenza  fa l'individuo si omettono tutti i tratti personali, il residuo è la razza, vale a dire un carattere presente in quest'individuo e in molti altri. Un estratto di questo residuo è la specie, vale a dire un carattere presente in molte razze. Un estratto di quetto estratto è il genere, vale a dire un carattere i)re8ente in molte specie; e così di seguito A questi estratti o residui, presenti in molti punti del  tempo e dello spazio, corrispondono in noi dei pensieri d'una specie distinta e che noi chiamiamo idee generali e astratte. a. Inietlig., citati, Intellig., citato, Posit., citato, PosH. ingl. e Intell., citati nella n. penult. e Intell, ecc. né quindi una facoltà di astrarre, ma semplicemente, come abbiamo visto, dei nomi generali e un'associazione di questi nomi con le cose generali. Questa è un'altra prova che dimostra che tutte le espressioni con cui egli attribuisce agli astratti un'esistenza isolata, cioè per sé, devono prendersi nel senso più rigoroso, perché questa esistenza isolata non avendola, secondo lui, nel nostra pensiero, non potrebbero averla altrove che nella realtà. Per denotare le sue astrazioni realizzate Taine aggiunge, come Platone, al nome della classe corrispondente  dellé^ parole indicanti che il carattere o gruppo di caratteri, che, secondo lui, è il vero oggetto designato da un nome di classe THE ONE-AT-A-TIME HAIRY-COATED THING, THE ALTOGETHER HAIRTY-COATED THING, deve considerarsi come esistente per set stesso separatamente dagli altri caratteri con cui è unito nei diversi individui della classe: egli dice, p. e. il poligono puro, l'albero in generale, il miriagono intelligibile opposto al miriagono sensibile, l'unità para o astratta opposta al dito o al sasso visibile, il triangolo astratto, il ferro in sè, il parallelogrammo in sè', il triangolo generale, ecc. si noti l'analogia con le espressioni platoniche; il poligono puro, l'albero in generale, ecc. significa: il gruppo dei caratteri comuni a tutti i poligoni, Intellig. Intellig.: Noi poniamo da un lato il miriagono intelligibile e l'idea precisa che gli corrisponde, dall'altro il miriagono sensibile e l'immagine confusa che gli corrisponde. Intellig. Intellig, Intellig.: La stessa analisi, se invece di un soggetto individuale, come questa goccia di pioggia o questo parallelogrammo, si considera un soggetto più o meno generale, come il 4)ar^llelogrammo in sé  o l'acqua in generale. Pilos. class. nota. • i -a tutti  gli alberi, ecc, esistente per se stesso, seuza i caratteri particolari a questo o a quel poligono, a questo o quell'albero, ecc. 11 poligono puro, l'albero in generale, ecc. è uno in se stesso, presente allo stesso tempo, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti i poligoni particolari, in tutti gli alberi, ecc. Noi abbiamo visto infatti che a un'idea  o a un nome generale corrisponde, secondo Taine, una cosa generale ricordiamo cL'egli suole contrapporre le cose generali e gl'individui e una cosa astratta è allo stesso tempo per lui una cosa generale, p. e. il triangolo astratto, il freddo e la rugiada isolati, il poligono puro jcioè astratto o isolato, il parallelogrammo in sé cioè Ancora astratto o isolato equivalgono al triangolo gene Int.:  Il poliv:ouo puro è una figura a molti lati senza che questi lati facciano un numero eioè quattr«s cinque, sei, ecc.; ciò che esclude ogni esperienza e rappresentazione sensibile l'albero in generale ha un'altezza, un fusto, delle foglie, senza avere tale altezza, tal fusto, tali foglie. Scmgi di crii, e di stor, Prefcus. luogo citato nella nota, Intellig, citato citato nella noti citato nella nota citato  nella nota, ecc. P. e., indipendentemente dai luoghi citati, neWIìUellig,, Un miriagono è un poligono di dieci mila lati. Impossìbile d'immaginarlo, anche colorato e particolare, a più forte ragione generale e astratto per provare che il vero oggetto designato da un nome generale è irrapresentabile;\ La tabella e il punto e la linea segnati in essa con la matita sono delle cose sensibili e  partiscolari, ma che sostituiscono dei limiti assolutamente astratti e generali cioè la supertìcie in se, la linea in se e il punto tu sè. a. Filos, class, il luogo citato Intellig, citato nella nota rale(ì)fS.\ freddo e alla rugiada prm in generale, al poligono in generale, al parallelogrammo soggetto generale; ciò implica che vi è una sola entità astratta per tutti gl'individui del genere, e non altrettante  quanti vi sono individui. Che più soggetti hanno lo stesso attributo, significa che la stessa entità astratta, eadem nti^ mero, è presente allo stesso tempo, pur restando una e la stessa, in molti soggetti distinti; le entità astratte V. nios. class,, cit. nella nota. Posit, ingl, nella nota Intellig., cit. nella nota. Intellig., nella nota Intellig.: Osserviamo dunque una serie di oggetti o d'avvenimenti,  avendo cura di non considerare in ciascuna di essi che la sua capacità d'entrare come componente in una collezione. Perciò omettiamo di partito preso tutti i suoi altri caratteri; dopo questa separazione, una fila di pioppi, un seguito di suoni, ogni altra fila o seguito cessa di essere una fila di pioppi, un seguito di suoni, un seguito o fila di oggetti o di avvenimenti determinati; essa non è  più che un seguito, fila o serie di uni o di unità. Ora. a questo punto di vista, tutti gli uni sona lo stesso uno e tutte le serie di uni sono la stessa serie; perchè i caratteri che distinguono gli individui gli uni dagli altri e le serie le une dalle altre essendo stati esclusi, gl'individui non possono essere più distinti gli uni dagli altri, e le serie non possono essere più distinte le une dalle altre. Ecco  come dimostra gli assiomi che se a due grandezze eguali si aggiungono due grandezze eguali le somme sono eguali, e se da due grandezze eguali si tolgono due grandezze eguali i resti sono eguali: Intellig. Sia una collezione d'individui simili, tal gregge di montoni, o una collezione d'unità astratte, tal gruppo mentale d'unità pure, figurate agli occhi per mezzo d'uno stessio segno  tracciato più volte. compariamo una di queste collezioni con un'altra collezione analoga, e facciamo corrispondere, col pensieso o altrimenti, un primo oggetto della pri 94 «queste creatrici immortali sono «sole stabiliti a traverso riiifìnità del tempo che spiega e distrugge le loro ma con un primo oggetto della seconda, un secondo con un secondo, e così di seguito, sinché una delle due  sia esaurita. Due oasi si presentano Ovvero le due collezioni sono esaurite insieme; allora il numero dei montoni è lo stesso nel primo e nel secondo gregge, il numero delle unità è lo slesso nel primo e nel secondo gruppo, nel qual caso si dice ohe le due grandezze sono eguali. Eguaglianza significa dunque presema dello slesso numero. Ovvero Tuna delle due collezioni è esaurita avanti  l'altra; allora il numero dei montoni è differente nel primo e nel secondo gregge; il numero delle unità è differente nel primo e nel secondo gruppo; in questo caso si dice ohe le due grandezze sono ineguali Ineguaglianza significa dunque presema di due numeri differenti Questa frase e quella corrispondente suU'efiCuaglianza sono state scritte da me; le altre parole, sia nel tratto precedente  che in quello che segue, dallo stesso autore. La parola stesso è scritta per indicare che deve intendersi nel senso più rigoroso possibile. Ora per questa sorta di grandezze noi possiamo provare l'assioma il primo. Siano due grandezze eguali a cui si aggiungono delle grandezze eguali. Secondo l'analisi precedente, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero d'individui  o d'unità, ohe le se ne aggiunge un certo numero, che la seconda contiene lo stesso numero d'individui o d'unità che la prima, ohe le se ne aggiunge lo stesso numero che alla prima, che nei due oasi lo stesso numero è aggiunto allo stesso numero, e che pertanto le due collezioni finali contengono lo stesso numero aggiunto allo stesso numero, vale a diro lo stesso numero totale d'individui  o d'unità, donde segue, secondo la definizione eguaglianza significa eoo. ohe le due somme o grandezze finali sono delle grandezze eguali. Come ho osservato nel Saggio ì. questa dimostrazione suppone ohe per lo stesso numero s'intenda uu numero astratto, un'entità, ohe, una in se stessa, sia presente allo stesso tempo in tutte le collezioni ohe perciò oi appariscono uumerioamente eguali. Se la parola stesso non dovesse intendersi in questo senso stretto, essa si • opere, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione, che disperde e moltiplica  i loro effetti; quando scognitìoherebbe eguale, e allora la pretesa dimostrazione non sarebbe ohe la più aperta petizione di principio. La stessa osservazione vale per la dimostrazione seguente dell'altro assioma. Similmente, siano due grandezze eguali, da cui si tolgono due grandezze eguali: secondo la stessa analisi, ciò significa che la prima collezione contiene un certo numero d'individui  o d'unità, che le se ne toglie un certo numero, ohe la seconda contiene lo sfesso numero d'individui o d'unità che la prima, che le se ne toglie lo stesso numero ohe alla pi ima, in modo che nei due casi lo stesso numero è diminuito dello stesso numero, e che, pertanto, le due collezioni finali contengono lo stesso numero diminuito dello stesso numero, vale a dire lo stesso numero restante d'individui o d'unità; donde segue ancora secondo la definizione, ohe i due resti o grandezze finali sono delle grandezze eguali. Dalle grandezze artificiali passiamo alle grandezze naturali. Qui l'autore passa a dimostrare gli assiomi per le grandezze geometriche, come sopra ha fatto perle aritmetiche: omettiamo questo tratto, perperchè non è una prova diretta di ciò che abbiamo asserito  nel testo. Che il lettore prenda la pena d'esaminare l'artificio di questa prova di tutta la dimostrazione. Per il pensiero, e con la confermazione ausiliaria dei fatti sensibili, noi facciamo corrispondere, membro a membro, due grandezze artificiali cioè due collezioni di unità, o facciamo coincidere, elemento ad elemento, due grandezze naturali due grandezze geometriche ciò si riferisce alla parte omessa; se questa corrispondenza o questa coincidenza sono assolute, l'idea d'eguaglianza nasce in noi. Noi veniamo di assistere alla sua nascita, e scorgiamo il suo fondo; essa racchiude un elemento più semplice, e si riduce all'idea dello stesso; in effetto, a un certo punto di vista, omissione fatta di ciò ohe bisogna omettere cioè astraendo dagli altri elementi differenti dalla  quantità le due grandezze divengono la stessa. Per conseguenza, al punto di vista inverso, addizione fatta di ciò ohe bisogna aggiungere cioè unendo alla quantità altri elementi |Ì»i««M^^™»iÌ»l*«IMMii ^liiPMiBMMWIiaiBMiilMii»* WP^M»^ÌÌI^ÌiMÌMiM^^ ^^ prianio una legge per mezzo d'un'induzioue, abbiamo Parìa di coDsiderare venti casi digerenti, ma in realtà non ne diiferenti  da essa la stessa grandezza si trasforma ili due grandezze egriea/t. Togliete alle due graudezze i loro tratti distiutivi, alle due grandezze artificiali eguali la proprietà d'appartenere a due collezioni distinte, alle due grandezze naturali eguali la proprietà di avere delle posizioni distinte; esse divengono la stessa gran»dezza. Reciprocamente, prendete due volte la stessa grandezza, e attaccatela volta per volta a due collezioni distinte o a due posizioni distinte; essa si trasformermerà in due grandezze eguali. Ecco ora la dimostrazione deWassioma che ogni fatto o legge ha una ragione esplicativa. Dopo il tratto citato nella nota In» tellig., ohe io prego il lettore di rileggere l'autore continua: Per dimostrare questa proposizione cioè che un attributo pili generale del soggetto non è legato al soggetto tutto intero, ma ad uno o più caratteri astratti e generali del soggetto, analizziamo a vicenda l'attributo e il soggetto. Noi abbiamo detto che l'attributo SHAGGY essendo piil generale del soggetto FIDO è comune al soggetto e ad altri. Ciò significa che esso è lo stesso nel soggetto e in altri La parola strsso qui e nel seguito ò neritta così nel libro stesso di Taine. Cosi la caduta, la struttura chimica, il peso sono gli stessi nella nostra goccia di pioggia e nelle sue vicine. Così Tegunglianza dei lati opposti è la stessa in questo parallelogrammo e in tutti i parallelogrammi, nel parallelogrammo ad angoli retti e nel parallelogrammo i cui angoli non sono retti. Pertanto dire che il soggetto FIDUS possiede un attributo HIRSUTUS comune ad esso e ad altri, è dire che altTi soggetti, reali o possibili, possiedono \o stesso attributo che esso. L'eguaglianza dei lati opposti  h la stessa nel  mio parallelogrammo e in quest'altro; la struttura chimica è la stessa nella mia goccia di pioggia e in quest'altra. In altri termini presa in sé, omissione e soppressione fatta dei soggetti distinti in cui risiede, l'eguaglianza dei lati opposti del mio parallelogrammo si confonde con 1'eguaglianza dei lati opposti dell'altro, e la struttura chimica della mia goccia di pioggia si confonde con la struttura chimica dell'altra, come tal triangolo, staccato dal consideriamo ebe un solo perchè è la stessa legge, cioè la stessa coppia di entità astratte, che si manifesta in tutti posto che occupa, e trasportato per sovrapposizione su tale altro, coincide e si confonde assolutamente con esso In una parola, ciascuna di queste due entità astratte, eguaglianza dei lati opposti e struttura chimica d*una goccia di pioggia, è una sola e stessa cosa, presente l'una in tutti i parallelogrammi e 1'altra in tutte le gocce di pioggia. Ora consideriamo il soggetto. Ciò che noi chiamiamo un soggetto, un soggetto distinto, è una somma o riunione di caratteri che non si ritrovano tutti e rigorosamente gli stessi in alcun altro, per quanto simile s'immagini. Questa goccia di pioggia, anche se le'si suppone una forma, un volume, una temperatura, una struttura interna esattamente le stesse che alla sua vicina o alla seguente, possiede inoltre dei caratteri che non possiede né la sua vicina né la seguente, cicè la sua situazione nel tempo rapporto ai suoi precedenti e nello spazio rapporto ai suoi dintorni. La stessa analisi se invece di un soggetto individuale, come questa goccia di pioggia o questo parallelogrammo, si considera un soggetto più o meno generale, come il parallelogrammo in sé o l'acqua in generale l'acqua comparata al mercurio, come il parallelogrammo comparato all'esagono regolare, è un soggetto distinto, che, essendo distinto, possiede forzatamente, come questa goccia di pioggia, uno o più caratteri per cui si distiqgue da ogni altro soggetto più o meno simile a cui é comparato Eccoci giunti a questa conclusione che il nostro soggetto essendo distinto da un altro soggetto non è lo stesso GRICE WIGGINS SAMENESS SUBSTANCE e possiede STRAWSON INDIVIDUALS nondimeno lo slesso attributo. Rimpiazziamo i termini per la loro detlnizioue. Soggetto distinto significa somma o riunione di caratteri di cui uno o alcuni sono assenti nell'altro soggetto; è a questa somma o riunione che direttamente o indirettamente l'attributo appartiene. Di là tre ipotesi, e tre ipotesi solamente. Ovvero l'attributo appartiene direttamente alla somma dei caratteri riuniti; ovvero le appartiene indirettamente, sia appartenendo a questa porzione della somma che si compone dei 7 questi casi. Ogni carattere o gruppo dì caratteri, comune ad una classe, è uno come un individuo o un avcaratteri assenti nell'altro soggetto INTERSOGGETIVO, sia appparteueudo all'altra porzione. Ora le due prime ipotesi sono contraddittorie. In effetto, da una parte, l'attributo SHAGGY non può appartenere alla porzione delU somma che si compone dei caratteri assenti nel scondo soggetto CATONE CICERONE; perchè allora non apparterrebbe al secondo soggetto, poiché questi caratteri vi mancano; ora, per definizione, gli appartiene. D'altra parte, l'attributo non può appartenere alla somma dei caratteri riuniti; perchè, allora non apparterrebbe al secondo soggetto, poiché questa riunione vi manca; ora, per definizione, gli appartiene. Queste due supposizicmi essendo escluse, non resta che la terza. Donde segue che l'attributo HAIRY-COATEDNESS BEATO  appartiene a questa porziimc del nostro soggetto che si compone di caratteri presenti in ess<» e nel secondo soggetto CATONE, cioè comuni all'uno e all'altro, cioè infine generali. Donde segue pure che appartiene solamente a una porzione del nostro soggetto, in altri termini a un frammento, a un estratto, a un astratto incluso nel nostro soggetto CICERONE E BEATO O FELICE; ciò che si doveva dimostrare. Ripeterò l'osservazione fatta nel Saggio Questa dimostrazione suppone che un attributo generale FELICE, cioè comune a molti soggetti distinti CICERONE CATONE, sia un'entità unica, presente allo stesso tempo in tutti questi soggetti distinti SMITH’S DOG, WILLIAMS’S DOG, JONES’S DOG. Perchè infatti le due prime ipotesi cioè che l'attributo appartiene alla somma dei caratteri riuniti di uno dei due soggetti CICERONE CATONE, o che appartiene alla porzione di questa somma phe si compone dei caratteri assenti nell'altro soggetto CATONE sono, secondo l'autore, contraddittorie Perchè lo stesso attributo FELICE non potrebbe appartenere una volta alla somma dei caratteri riuniti del primo soggetto CICERONE, e un'altra volta alla somma dei caratteri riuniti del secondo soggetto CATONE I ovvero in un caso ai caratteri differenziali del primo soggetto CICERONE, e nell'altro caso ai caratteri differenziali del secondo soggetto CATONE Perchè si suppone che quest'attributo FELICE è un'entità unica, eadem numero, e che per conseguenza sarebbe impossibile che appartenesse simultaneamente a più cose, o meglio a più entità, distinte, come per servirmi di una comparazione venimento particolare; non differisce da essi che per la sua stabilità e la sua diffusione in molti soggetti distinti. CICERONE CATONE È perciò che non vi ha niente di sorprendente se si trovano a un carattere generale dei compagni, dei precursori e dei successori, come se ne trovano a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Ciascuno dei caratteri generali essendo uno come ciascuno degl'individui e degli avvenimenti particolari, noi dobvolgare, sarebbe impossibile che la nlessa moneta, eadem numero, si trovasse simultaneamente nella mia tasca e nella vostra. Per mezzo dell'assioma dimostrato della ragione esplicativa l'autore dimostra il principio dell'induzione cioè che un carattere generale indicai sempre la presenza d'un altro carattere generale a cui è legato. Riportiamo anche questa dimostrazione: Un carattere generale è un attributo, lo stesso in molti soggetti distinti. Ora, secondo l'assioma della msrioHc cs/^/ica^im;, esso appartiene, non direttamente a tale o tal soggetto distinto, ma indirettamente a tutti per Vintermediario di tuia ijorz ione che loro e comune, e che, a questo titolo, ò un carattere generale; dimodoché esso suppone la presenza d'un altro carattere generale a cui appartiene; così la sua presenza basta per garentiroi la presenza  di quest'altro. Di più. (luest'altro a cui esso appartiene è generale; in altri termini ceso gli appartiene in non imposta qual soggetto, qual ambiente, qual luego, guai  momento; in altri termini ancora la presenza di quest'altro basta per trascinare e pertanto per garentirci la sua presenza. Così, in generale la presenza dell'uno, quello che ci è già conosciuto, basta per garentirci la presenza  dell'altro, quello che ci è ancora sconosciuto e che cerchiamo di riconoscere demélerj  Intellig,, lo devo avvertire il lettore che l'ultimo tratto citato e quello precedente cioè la dimostrazione dell'assioma della ragione esplicativa sono stati soppressi e sostituiti da altri nella 4. edizione. Filos, class. Posit. ingl. I, citato nella nota. bianio attenderci a trovare a quelli, come a questi, dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti, delle particolarità, delle proprietà personali. Se la narura è sottoposta a leggi generali, se vi hanno delle sequenze e delle coesistenze costanti tra i fenomeni fatto che dovrebbe sorprenderci, perchè noi possiamo immaginare benissimo uu mondo assolutamente caotico, senza alcun ordine, senza alcuna legge, ciò è perchè vi hanno delle coppie  di entità astratte, vale a dire certe entità astratte sono in un rapporto di sequenza o di coesistenza con certe altre: ogni entità astratta essendo una in se stessa ed essendo presente in tutta una classe di cose o di fenomeni, se essa è accoppiata con un'altra entità astratta pure una in sé stessa e suscettibile di essere presente in tutta una classe di cose o di fenomeni, ne seguirà che dapertutto  ove si troverà la prima si troverà necessariamente anche la seconda con cui essa è acccoppiaia, e la coppia di entità astratte, presente in un'intìnità di coppie di esistenze fenomenali, ci apparirà come una sequenza o coesistenza uniforme, una legge, di fenomeni. Se ogni uomo è mortale, se questa legge non soffre alcuna eccezione, è perchè l'uomo astratto è unito alla mortalità astratta, e  ijlt conseguenza da pn* tutto dove si troverà il primo, porterà con sé la seconda; se riscaldando i metalli essi costantemente si dilatano, è perche il riscaldamento  <lel metallo in sé stesso cioè astratto è unito alla dilatazione del metallo in sé stessa cioè astratta, e per conseguenza dapertutto dove sarà presente il primo trascinerà con se la seconda; una legge della natura è dunque una còppia di astratti, o piuttosto il suo fenomeno; l'Intellig. luogo obe riporteremo nella nota Heguente. della coppia apparisce come uniformità di rapporti tra fenomeni, come l'unità di ciascun astratto, isolatamente considerato, apparisce come uniformità di fenomeni, isolatamente considerati, cioè come identità specifica, geoerica, ecc. Come gli altri realisti dialettici, Taine lìitcllif/. vi  hanno dei caratteri comuni la cui presenza moltiplicala e ripetuta lega tra loro i diversi individui della classe. Questi caratteri sono la porzione uniforme e fissa dell'esistenza dispersa e successiva, e ciò solo basterebbe a far comprendere l'interesse che abbiamo a separarli les dcgaf/cr ed apprenderli. Ma la loro importanz:i, si fa notare ancora meglio per un altro tratto. Non siamo noi che  li creiamo per la comodità del nostro pensiero; non sono dei semplici mezzi di classare, degli strumenti di mneraotecnia. Non solo essi esistono in fatto, fuori di noi. e spesso ben al di là della corta portata dei nostri sensi e delle nostre congetture; ma ancora essi sono efficaci, l ciascuno di loro, per sé stesso e per sé solo, ne trascina con sé un altro che è il suo compagno, il suo antecedente  o il suo conseguente, e fa con esso una coppia che si chiama una legge. i caratteri generali sono, non solo gli abitanti più diffusi, ma anche gli attori piii importanti della natura; oltre il più largo posto, essi  hanno sulla scena dell'essere la prima parte e la più decisiva azione  Cfr GRICE FIRRT ROW ON StAGE. Intellig: Per certe classi l'idea generale acquisita corrisponde a una cosa  efì'ettivamente generale, cioè a un gruppo di caratteri che si trascinano o tendono a trascinarsi l'un l'altro, quali si iiiano gl'individui e le circostanze in cui l'uno di essi è dato, : v Nella natura i caratteri generali non sono staccati gli uni dagli altri; qualunque sia quello che noi abbiamo notato, non manchiamo mai di trovarlo legato a qualche altro. Difatti l'uno trascina l'altro o almeno  tende a trascinarlo. Ora è il primo che trascina il secondo, ora è il secondo che trascina il primo, ora è <>ia8Cuuo di essi che trascina l'altro. In tutti questi casi i due caratteri formano una coppia, e questa coppia si chiama una legge: un carattere, preso a parte, ha un'influenza; per sé riguarda le astrazioni realizzate come le cause delle cose e al tempo stesso come la sola realtà. Le cause  dei stesso e per sé solo, ne trascina qualche altro contemporaneo, antecedente o conseguente; basta che esso sia dato, perchè uno o più altri siano dati: Nel metodo induttivo che Mill chiama di differenza, si prendono due casi, il primo in cui il carattere conosciuto il primo termine della ooppia è dato, il secondo in cui non è dato. Poiché per la sua sola presenza, esso il carattere conosciuto  ne introduce un altro sconosciuto, quando sarà assente non Tintrodurrà; quest'altro ohe avrebbe introdotto mancherà, e, per tanto, non si troverà nel secondo caso: qualunque siano i due caratteri, simultanei o successivi, momentanei o permanenti, il legame per cui il primo trascina, provoca o suppone il secondo come contemporaneo, conseguente o antecedente, non è che una particolarità    del primo considerato solo e a parte. S'intende per ciò ch'esso ha. per se stesso, la proprietà d'essere accompagnato, seguito o preceduto dall'altro; ecco tutto. In altri termini, basta che esso esista perchè l'altro sia il suo compagno, il suo precursore o il suo successore. Dacché esso è dato, aloun'altra condizione non è richiesta; le circostanze possono essere qualunque, ciò non importa. Che esso sia dato in tale o tale individuo, con tale o tal gruppo di altri caratteri, in tale o tal  luogo o momento, ciò è indifferente; la proprietò che esso ha non dipende né dalle circostanze. né dall'individuo, nò dal gruppo circostante degli altri caratteri, né dal luogo né dal momento; preso a parte e in se stesso, isolato per l'astrazione, estratto dai diversi ambienti in cui si trova, esso possiede  questa proprietà. È perciò che in qualunque ambiente venga trasportato, esso la conserva con sé. Se la ha sempre e da per tutto, è perchè la ha da sé stesso e per sé solo; se la ha senza eccezione, è perchè la ha senza condizioae. Se tutti i triangoli ra'^chiudono una somma di angoli uguale a due retti, è perchè il triangolo astratto ha la proprietà di racchiudere una somma di angoli uguale  a due retti. Se tutti i pezzi di ferro sottoposti all'umidità si arruginiscono, è perchè il ferro preso a fatti particolari sodo i fatti  generali, cioè le leggi, da cui si deducono, o in altri termini, i dati complessi parte, in se stesso cioè il ferro in sé, il ferro astratto, e sottoposto all'umidità presa a parte, in se stessa all'umidità astratta, possiede la proprietà di arruginirsi. Se la legge è universale, è  perché essa è astratta. Niente di sorprendente in questa costituzione delle cose. Non è più strano di trovare dei compagni, dei precursori e dei successori a un carattere generale che di trovarne a un individuo particolare o a un avvenimento momentaneo. Senza dubbio, nello sparpagliamento infinito e il flusso irrimediabile dell'essere, questa sorta di caratteri sono i soli elementi che siano  da per tutto gli stessi e rinascano sempre gli stessi; ma essi non esistono in fuori degl'individui e degli avvenimenti come voleva Platone interi)retato alla maniera ordinaria, né in un mondo altro che il nostro; perchè essi sono i caratteri degli avvenimenti e degl'individui che compongono il nostro mondo. Come gì' individui e gli avvenimenti, essi sono delle forme dell'esistenza, e non  differiscono dagl'individui e dagli avvenimenti che perchè sono delle forme più stabili e più diffuse. A questo titolo, noi dobbiamo attenderci a trovare anche ad essi dei contemporanei, dei precedenti, dei seguiti, delle particolarità, delle proprietà personali, e per riuscirvi, non si ha che ad osservarli per se stessi e a parte. È appunto in ciò che consiste la difficoltà. Perchè come osservare  a parte un carattere che, essendo un estratto, non s'incontra e non può incontrarsi che in un caso o individuo particolare, vale a dire in una compagnia di altri caratteri? Come fare per istudiare nella natura il ferro in se esposto slW umidità in generale, e per costatare che, in questo stato di astrazione, esso ha per conseguenza la ruggine in generale? Come fare per separare deméler il triangolo astratto che non è né scaleno né isoscele né rettangolo, per misurare i suoi angoli astratti che non sono né eguali né ineguali, e per costatare che, iu questo stato strano, la loro somma è uguale a due retti? L'autore mostra che gli artifici del metodo induttivo e del deduttivo sono destinati a risolvere dell'esperienza hanno per cause gli elementi semplici, cioè ffli astratti, in cui si  risolvono; Vastrazione e la facoltà di scoprire i principii; la sorgente degli «sseri è un sistema di lesrgi cioè di coppie di astratti; questa dilfiooltà: Quando tra due dati possibili o reali abbiamo costatato un legame, accade spesso che questo legame si spieghi, e possiamo allora, non solo affermare che i due dati sono legati, ma anche dire perchè sono legati. Tra i due dati ohe lanuo coppia,  se uè trova un altro intermediario che, essendo legato da uua parte al primo e da un'altra parte al secondo, provoca per la sua presenza il legame del secondo e del primo. Niente di più importante che questo dato intermediario, poiché è esso ohe, per la sua inserzione fra i due dati, li salda in una coppia Bisocrna cercare in che esso consiste. Vi ha già un caso in cui sapphimo tutto ciò,  quello degli oggetti individuali sottoposti a a leggi conosciute. Per esempio. Pietro è mortale, queste due rette traacciate su questa tabella e perpendicolari a una terza sono parallele: ecco delle coppie di dati in cui il primo membro è un oggetto individuale, particolare, determinato, non generale. Di più questi oggetti sono sottoposti a leggi conosciute; nm sappiamo che tutti gli uomini,  nel numero dei quali è Pietro, sono mortali, che tutte le rette perpendicolari a una terza, nel numero delle quali sono le nostre due rette, sono parallele. Ora, in questo caso, rintermediario esplicativo che lega all'oggetto individuale la proprietà enunciata è il primo termine d'una legge generale: se Pietro è mortale, è perchè è uomo, e ogni uomo è mortale; se le nostre due rette sono  parallele, è perchè sono perpendicolari a una terza, e tutte le rette perpendicolari a una terza sono parallele. Ma uomo è un carattere incluso in Pietro, estratto da lui, più generale che lui; similmente perpendicolari a una tersa è un carattere incluso nelle nostre due linee, estratto da esse, più generale che esse. Donde si vede che, nel caso degli oggetti individuali sottoposti a leggi conosciute,  1 intermediario che lega a ciascun oggetto la proprietà enunciata è un carattere incluso in esso, più astratto e più generale di esso, comune ad esso e ad altri analoghi, e ohe, trascinando per la sua presenza la proprietà enunciata, la porta con se in ciascuno degVindividui a cui appartiene. L'autore mostra in seguito che la stessa è la natura dell'intermediario esplicativo, «quando si tratta,  non più di legare una proprietà a un oggetto individuale, ma di legare una proprietà n una cosa generale. Posit. inql. e Tntelliq.: Poijhè negli assiomi i due dati cioè i due astratti che l'assioma mette in rapporto sono tali ohe il primo racchiùde il secondo, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro unione: da pertutto ove sarà il primo esso porterà il neeondo, poiché il secondo è  una parte di esso, ed esso non può separarsi da sé. pure Posit. ingl. citato nella nota, Intellig. citati nella nota. citato nplla nota, nel luogo che con tene la dimostrazione dall'assioma della ragione esplicativa e citati nella nota, Posit, ingl. che citeremo in una nota seguente, Iniellig. che citeremo in nota nel seg. Intellig., ecc. Filos. class., Posit. ingl. ecc. Posit. ingl. Per conseguenza gli astratti in cui il concreto si decompone, ne sono,  secondo Taine, non solo gli elementi, ma anche i fattori: Intellig., Posit. ingl. luogo citato nella nota ecc. Questa causalità degli astratti, e quindi la loro realizzazione, è pure implicata in certe proposizioni come queste: le ragioni dell'orbita che la terra descrive intorno al sole, sono dei caratteri che, inclusi nella terra, le prescrivono questa  curva {Intellig,), o la conducono su di essa; le ragioni per cui un numero è divisibile per 9,  o per cui il poligono contiene una comma di angoli retti eguale al doppio dei suoi lati meno quattro, sono dei caratteri che, inclusi negli elementi del numero o del poligono, obbligano il primo a lasciarci dividere per 9 (latell. e il secondo a contenere quella somma di angoli retti; eco. ^T" il mondo  scoverto dall'esperieoza trovala suaragione coinè la sua immagine nel mondo riprodotto dall'astrazione Considerando gli astratti come cause delln realtà concrete (ed anche come cause gli uni degli altri,  v. *seguente), Taine ci dà la prova più evidente della esistenza per sé che loro attribuisce: evidentemente egli non potrebbe riguardare delle proposizioni o delle semplici astrazioni mentali come le cause dei fatti reali o di altre proposizioni o astrazioni mentali, di cui esse non sono che le premesse logiche. Un'altra prova dell'esistenza per sé che Taine atttibuisce agli astratti, è che essi sono, secondo lui, il vero essere, mentre il concreto non è che un'apparenza. La scienza lavora a ridurre il mondo dei fenomeni ad alcuni elementi astratti, a Irasformare i fatti concreti  in astrazioni; la natura è, nel suo fondo sussistente, un sistema di leggi e non Bemphce ha per sorgente un sistema di leggi; T osservazione sensibile non ci dà di essa che un'idea illusoria^ dobbiamo risolvere il mondo dell'esperienza negli astratti Posit. ingl. Filos, class. Filos, class, Per apparenza non dobbiamo però intendere un semplice fenomeno subbiettivo. SI tratta del concetto  metafisico cioè inimma-inabile e contradittorio di apparenza obbiettiva, qMaìe si trova p e  in Hegel o in Platone Suppl. Posit. ingl. luogo  che  riporteremo nella terra nota dopo questa, Filos. class  ohe riporteremo, eoe. Posit. ingl., luogo riportato nella nota e Filos. class, luogo che riporteremo Posit. ingl. che citeremo in nota e Intellig. che citeremo nella nota e nelle loro coppie che si chiamano leggi per passare dall'apparenza alla verità. Il mondo, contemplato dai Posit. ingl.: Noi vediamo ora 1 due grandi momenti della  scienza e le due grandi apparenze della natura. Vi ha due operazioni, l'esperienza e l'astrazione; vi ha due regni, quello dei fatti complessi e quello degli elementi semplici cioè dagli astratti in cui si decompongono. Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il primo è contenuto nel secondo e se ne deduce, come una conseguenza dal suo principio In un senso le astrazioni realizzate sono  contenute nelle cose concrete è la contenenza secondo la comprensione in un altro senso le contengono è la contenenza secondo Vestensione, Tutti e due si equivalgono; essi sono una cosa sola censiderata sotto due aspetti. Questo magnifico mondo cangiante, quesro caos tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita incessante infinitamente variata e multipla, si riducono ad  alcuni elementi e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno all'altro, dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi, dalle esperienze alle formule. E la ragione ne è visibile, perchè questo fatto che io percepisco per i sensi o la coscienza non è ohe una fetta Iranche arbitraria che i miei sensi o la mia coscienza tagliano nella trama infinita e continua dell'essere. Se  essi fossero costruiti altrimenti, ne intercetterebbero una altra; è l'azzardo della loro struttura che ha determinato questa. Essi sono come un compasso aperto, che potrebbe esserlo meno, e potrecbe esserlo più. Il cerchio ch'essi descrivono non è naturale, ma artificiale. Esso lo è si bene, che lo è in due maniere^ all'esteriore e all'interiore. Perchè, allorché io costato un avvenimento, l'isolo  artifìciamente dal suo accompagnamento naturale, e lo compongo artificialmente d'elementi che non fanno un insieme naturale. Quando io vedo una pietra che cade, separo la caduta dalle circostanze anteriori che realmente le sono congiunte, e metto insieme la cpduta, la forma, la struttura, il colore, il suono, e venti altri circostanze che realmente non solegate. Un fatto è dunque un  ammasso arbitrario, nello stesso seDsi e dalla coscienza, ò un seguito di fenomeni fuggitivi, senza niente di stabile, un iìusso universale, una Buccessione di meteore; contemplato dall'astrazione, è un insieme di forme persistenti, di leggi fisse, in una patola di cose eterne ed immutabili. Cosi si trova giustificata la profonda intuizione degli antichi pensatori tempo che un taglio arbitrario,  cioè a dise un gruppo fittizio, che separa ciò che è unito, e unisce ciò che è separato Unisce ciò che è separato, perchè gli astratti che compongono un fatto particohire non sono uniti che accidentalmente; separa ciò che è unito, perchè ciascuno di questi astratti non è, per dir così, che una metà, cioè uno dei due membri della coppia. che si chiama h gge, e che è, secondo Trine, il vero  essere reale, cioè sussistente per sé. Così, sinché noi non guardiamo la natura che con la osservazione sola, noi non la vediamo quale è; non abbiamo di essa che un'idea [provvisoria e illusoria. È propriapente un arazzo che non Vediamo che dal rovescio. Ecco perchè oerciamo di voltarlo. Noi ci sforziamo di separare démeler delle leggi, cioè a dire dei gruppi naturali, che siano  effettivamente distinti dal loro accompagnamento e che siano composti di elementi effettivamente uniti. Noi scopriiimo delle coppie di astratti, cioè dei composti reali e dei h3gami reali. Noi passiamo dall'accidentale ail necessario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità. Intellig. Le astrazioni realizzate sono immutabili sole stabili a traverso l'infinità del tempo ohe spiega e  distrugge le loro opere Filos, class, perchè rapprosentauo i tipi e le leggi costanti secondo cui si producono i fenomeni; sono eterne, perchè esistono fuori del tempo, cioè non si succedono nel tempo come gli oggetti e i fenomeni particobiri che le manifestano Filos. cldss.: l'assioma eterno, ci<»è la legge suprema, riempie il tempo e lo spazio, ma resta al di sopra del tempo e dello spazio  »;  e la stessa opera. È questa l'idea dell'eternità nei sistemi che realizzamo le astrazioni, come vedremo più particolarmente esponendo i sistemi di Platone e di SDinoza. indiani, che il vero reale non può cangiare, perchè è impossibile che il niente diventi qualche cosa e che quaU che cosa diventi niente. In conclusione Taine è un realista nel senso del medio evo, vale a dire gli universali  non sono per lui dei nomi né dei concetti, ma degli esseri reali, distinti dagli oggetti particolari. Vi ha un uomo astratto, che non ha che gli attributi comuni a tutta la specie, senza aver alcuno degli attributi particolari ad alcuni individui: quest'uomo astratto, uno in sé stesso, è presente allo stesso tempo in tutti gli uomini; se questi si somigliano, se sono tutti uomini e si chiamano tutti  così, è perchè in tutti si trova lo stesso uomo, apparendo come multiplo, benché in realta non sia che uno. Lo stesso che abbiamo detto dell'uomo, dobbiamo dire dell'animale, dell'albero, del rosso, del verde, del movente, del mosso, e in una parola di tutte le classi corrispondenti a un termine generale; per ciascuna classe vi ha un'entità astratta un animale astratto, un albero astratto, un  rosso astratto, ecc., che non ha, come l'uomo astratto, che gli attributi comuni a tutta la classe, e che è con gl'individui della classe nella stessa relazione che l'uomo astratto con gli uomini particolari. Ciò che distingue gli astratti di Taine da quelli di Hegel è che per il primo essi non sono dei pensieri come pernii sec(mdo. Per Hegel l'essere, il non essere, il divenire e tutte le altre  astrazioni realizzate del suo sistema esistono nelle cose e sono al tempo stesso dei pensieri, perchè per lui la realtà è identica al pensiero; Taine non ammette questa identità, e le sue astrazioni realizzate sono delle forme puramente obbiettive. Un'altra Saggi di critica e di storia. Il Buddismo. particolarità del sistema di Taine è che ogni astratto è, secondo lui, accoppiato con qualche altro,  con cui è in un rapporto di sequenza o di coesistenza, in modo che ciascuna di queste coppie rappresenti ciò che si chiama una legge della natura. Così un astratto non è, secondo Taine, un essere completo, ma la metà di un essere completo; i veri esseri sono le coppie di astratti, td è a queste che si applica, come vedremo in seguito, quel processo o metodo che nel sistema di Taine  corrisponde a ciò che Platone ed Hegel chiamano dialettica. Questa partic(»larità è caratteristica nel sistema di Taine, e lo distingue da tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, Queste coppie di entità astratte e universali, che noi chiamiaìiìo leggi della natura o di cui piuttosto ciò che cliiamiamo leggi della natura sono la manifestazione fenomenale, sono ordinate in gerarchia. Le leggi  cioè le coppie di astratti più particolari si dividono in gruppi di cui ciascuno si deduce da una legge cioè da una coppia di astratti più generale: queste leggi più generali alla loro volta si dividono pure in gruppi di cui ciascuno si deduce da una legge ancora più generale; queste leggi ancora più generali formano anch'esse dei gruppi che si deducono ciascuno da una legge più genemle; e  così di seguito, sinché si giunga a una legge suprema unica, da cui tutte le altre si deducono, per una deduzione progressiva, che va sempre da una legge più generale a un gruppo di leggi più particolari. La Intellig,. Ma oi resta un altro mezzo di comprendere le cose altro che l'osservazione, che ci mostra il mondo come un seguito di fenomeni fuggitivi GRICE DUNCAN-JONES, e a questo secondo punto di vista> che completa il primo, il mondo prende Ili legge suprema è una verità assiomatica, cioè tale che la sua negazione implicherebbe contraddizione GRICE STRAWSON ANALYTIC, NOT SYNTHETIC; l'auun aspetto diflerente. Per l'astrazione e la lingua, noi isoliamo delle forme persisienti, delle leggi fisse, vale a dire delle coppie di universali saldati a  due a due, non per accidente, ma j>er natura, e che. in virtù del loro legame stabile, riassumono una moltitudine indefinita di incontri cioè di casi in cui la legge si verifica Per lo stesso processo, al di là di queste prime coppie, noi ne isoliamo altre, più semplici cioè più astratte, ohe, simili alla formula di una curva, concentrano in una legge generale una moltitudine indefinita di leggi  x^articolari. Noi trattiamo allo stesso modo queste leggi generali, sino a che infine la natura, considerata nel suo fondo sussistente, apparisca alle nostre congetture come una pura legge astratta che, sviluppandosi in leggi subordinate, arriva in tutti i punti dell'estensione e della durata alla nascita incessante degl'individui e al flusso inesauribile degli avvcnimeuti. I filos. class.: Se ne è  concluso contro gli spiritualisti che non vi ha bisogno d'inventare un nuovo mondo per ispiegare questo, che la causa dei fatti è nei fatti stessi. che la sorgente degli esseri è un sistema di leggi, e che tutto l'impiego della scienza è di ridurre l'ammasso dei fatti isolati e accidentali a qualche assioma generatore e universale Segue il tratto citato nella nota che io prego il lettore di rileggere,  e poi continua con le parole seguenti È perciò che al di là di tutte queste analisi inferiori che si chiamano scienze, e che riducono i fatti ad alcuni tipi e leggi particolari, può esservi un'analisi superiore chiamata metafisica, che ridurrebbe queste leggi e questi tipi a qualche formula universale. Posit ingl,:  Vi hanno dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi più  generali, e da queste le leggi particolari, e da queste leggi i fatti che osserviamo. Come si vede dal contesto, gli elementi indecomponibili sono le entità più astratte, quelle ohe si trovano al termine dell'astrazione e ohe per conseguenza costituiscono la coppia di vniversali i più universali di tutti, tore la chiama 1'assioma eterno  GRICE ETERNAL TRUTH, CITY OF.  La conoscenza  del reale sarà un giorno A PRIORI, come sono attualmente le matematiche, e consisterà a dedurre tutto dall'a«sioma eterno. Da questo si concluderà non solo che il reale, attualmente conosciuto col metodo dell'osservazione, deve necessariamente esistere, ma anche che il non reale deve necessariamente non esistere, in modo che si veda che ciò che esiste è logicamente impossibile che  non esista, e che ciò che non esiste è logicamente impossibile die esista, e questi tre termini, reale,, possibile e necessario, coincidano perfettamente GRICE WHAT IS ACTUAL IS NOT ALSO POSSIBLE. L'iin altri termini quella che noi abbiamo chiamato la legge suprema. a. I filos. class, che riassumeremo o citeremo nel seguito del paragrafo. Filos. class, iX luogo citato nella nota  preced. et nella nota luogo che citeremo nel seguito del paragr. Posit. ingl. e fnlellifj. Filos. class Intellig. Filos. class. luoghi che citeremo nel seguito del paragr. Filos. class,: Essa quest'analisi supcriore chiamata metatisica il luogo citiito nella  nota riceverebbe da ciascuna scienza la detiuizione a cui questa scienza arriva, quella óell'estensione. del corpo astranomico, delle leggi fisiche, quella del corpo chimico, dell'individuo vivente, del pensiero. Essa decomporrebbe queste definizioni in idee o  elementi più semplici, e lavorerebbbe ad ordinarli in serie per sepanire déìnélcr la legge che li unisce che è quella ohe abbiamo chiamato legge suprema. Essa scoprirebbe cosi che la natura è un ordine di forme che si chiamano le une con le altre e compongono un tutto indivisibile. Infine, analizzando gli elementi e le defiuìzioni. essa cercherebbe di dimostrare ch'essi mm potevano dea di Taine come, del resto, di tutti gli altri aprioristi, anche i più radicali non è però che si deve escludere assolutamente l'osservazione, che si deve, per dir così, chiudere gli occhi, e COSTRUIRE GRICE CICERONE CONSTRUCTUM la realtà per la sola forza del pensiero. Il punto di partenza della scienza è necessariamente l'osservazione: è dai fatti dell'esperienza che si devono estrarre le leggi cioè le coppie di astratti più particolari; da queste delle leggi più generali, e cosi di seguito, sinché si giunga alla legge universalissima Ma scoverta questa per questo metodo di estrazione progressiva, si vedrà che essa è una verità assiomatica, e allora comincerà il processo inverso, che, invece di salire, come il primo, dai fatti alla legge suprema per le leggi intermediarie, discenderà dalla legge suprema ai fatti, per le leggi intermediarie, ma percorse in senso inverso, in modo che si vada sempre non, come la pririunirsi che in un certo ordine di combinazioni, che ogni altro ordine o oombinazione racchiude qualche contraddizione intima, ohe questo seguito ideale, solo possibile, è lo stesso che il seguito osservato, solo reale, e che il mondo scoverto dall'esperienza trova così la sua la ragione come la sua immagine nel mondo riprodotto dall'astrazione Tale è l'idea della natura esposta da Hegel. Posit. ingl., l'ultimo tratto citato nella nota. Gli elementi di cui si tratta in questi due luoghi non sono gli elementi indecomponibili di cui nel luogo del Posit. ingl. citato neUa nota. Quelli erano le entità più universali da cui tutto il resto si deduce; gli elementi di cui si tratta qui sono invece gli astratti piìì semplici in cui possono decomporsi tutte le astrazioni realizzate, comprendendo anche fra di essi le note differenziali ohe bisogna aggiunirere alle entità che sono più universali per costituire le meno universali immediatamente subordinate. La descrizione che 8 ma volta, dal particolare al generale GRICE STRAWSON, cioè dalla conseguenza al principio, ma dal generale al particolare, cioè dal principio alla conseguenza. Il secondo metodo, cioè la deduzione, ritroverà le stesse cose trovate già col primo metodo, cioè con l'estrazione; sarà lo stesso cammino, gli stessi passi, ma fatti in un ordine opposto; il primo metodo è andato dalla base al vertice della piramide, il secondo andrà invece dal vertice  alla base. Deducendo dall'assioma eterno le veritii trovate la prima volta per Pestiazione, la conoscenza empirica diventerà una vera scienza, cioè una conoscenza razionale; le verità di fatto saranno trasformate in verità A PRIORI; ciò che prima appariva come contingente apparirà come necessario; ciò di cui prima si sapeva solamente che è, 8i saprà allora anche perchè è. La deduzione, in una parola, non deve trovare niente di nuovo, ma dare soltanto alle vetità scoverte induttivamente i caratteri delVapriorità e della necessità, ciò che vuol dire ancora che essa deve spiegarle. Ecco come Taine descrive il metodo eh'egli preconizza. Siano i fenomeni della vita animale. Una parte di questi fenomeni, vale a dire la natura e i rapporti d'un gruppo d'organi e d'operazioni, e i cangiamenti che questo gruppo subisce da specie a specie e nello stesso individuo, si dedurranno dalla funzione della nutrizione. Sono cinquecento fatti ridotti a un solo. Noi separiamo un fatto generale, cioè comune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i momenti della vita,  la  nutrizione o riparazione degli orTaine fa in questi due luoghi del metodo, diciamo così, dtalettieo-^che però egli stesso non chiama mai così- è poco precisa, perchè egU cerca delle formule che convengano egualmente al suo proprio sistema e a quello di Hegel. Filos. class, gani, e ne facciamo derivare tutto un gruppo di fatti. Questo non è composto che di conseguenze; quello è il fatto sommario e generatore. Un'altra parte dei fenomeni, vale a dire ancora un gruppo di organi e di operazioni e i suoi cangiamenti da specie a specie e nello stesso individuo, si dedurranno da un'altra funzione, la distruzione o decomposizione continua dell'organismo: è anche questo un fatto universale e costante come la nutriziooe, a cui, come a questa, può ridursi tutto un gruppo di fatti, che non ne sono che le conseguenze. Un'altra parte dei fenomeni infine si dedurranno dal tipo, che deve persistere in tutti i cangiamenti dell'individuo e di generazione in generazione. Tutti i fenomeni dell'organismo animale si saranno dunque ridotti a tre fatti generali, la nutrizione, la dissoluzione e il tipo. Riduciamo ancora, cioè cerchiamo di dedurre tutti questi tre fatti da un principio unico. Supponiamo che il tipo sia un fatto primitivo, e che gli altri due, cioè la nutrizione e la decomposizione, possano derivarsi da esso; è il tipo stesso che sarà questo principio unico. Il tipo sarà dunque la causa del resto cioè il fatto generale da cui derivano tutti gli altri fatti. Si dedurranno <( da esso tutti i fatti che compongono l'animale adulto. Ciascun gruppo di questi fatti si è dedotto da un fatto dominatore. Tutti i fatti dominatori si saranno dedotti dal tipo. Noi non avremo più che una formula unica, <( definizione generatrice, da cui uscirà, per un sistema 4(di deduzioni progressive, la moltitudine ordinata degli altri fatti Voi intravedrete allora lo scopo di ogni scienza, e comprenderete che cosa è un sistema. Guar€date di là come abbiamo proceduto. Noi ci siamo te Ed. . « nuti uella regione dei fatti; non abbiamo evocato al« cim essere metafisico, non abbiamo pensato che a formare dei gruppi. Questi gruppi dati, li abbiamo rimpiazzati per il fatto generatore GRICE KEYNES. Abbiamo espresso questo fatto con una formula. Abbiamo riunito le diverse formule in un gruppo, e abbiamo cercato un fatto superiore che le generasse. Abbiamo continuato così, e sianìo arrivati infine al fatto unico,  che è la causa nniversale. Chiamandolo causa non abbiamo voluto dire niente altro se non che dalla sua formula possono dedursi tutti gli altri e tutte le conseguenze degli altri. Noi abbiamo trasformato cosi ia moltitudine disseminata dei fatti in una gerarchia di proposizioni, di cui la prima, creatrice universale, genera un gruppo di proposizioni subordinate, che, alla loro volta, producono ciascuna un nuovo gruppo, e così € di seguito, sinché appariscano i dettagli moltiplicati e € i fatti particolari dell'osservazione sensibile, come si vede in un getto d'acqua il fascio della sommità spargegersi sul primo bacino, cadere sui gradini in fiotti ogni volta più numerosi, e discendere di piano in piano, sinché infine le sua acque si accumulano nell'ultimo bacino, dove le nostre dita le toccano. In questa  scala Taine non riguarda le sue astrazioni realizzate oouie esseri metalisioi, perch?^ non sono fuori dei fatti come gli agenti ipotetici degli spiritualisti v. Filosoii class. Prefazione, ma nei fatti stessi, di cui sono una porzione, un estratto, ecc. Queste proposizioui. di cui ciascuna produce un gruppo di proposizioni subordinate, sino alle ultime, cbe pi'odueono i fatti particolari deirosservazione sensibile li producono, perchè, se ancbe i fatti sensibili non fossero prodotti dalle proposizioni, l'autore non chiamerebbe 1» proposizione prima definizione generatrice KEYNES GRICE e creatrice universale rappresentano ciascuna una indi ricerche tutti i passi sono segnati. Formato un gruppo di fatti, noi ne separiamo per astrazione qualche fatto generale, e ne deduciamo tutti gli altri. Riunendo uu gruppo di questi fatti general: che l' autore KEYNES GRICE chiama generatori, perché da ciascuno deriva tutto un gruppo di fatti particolari, cerchiamo per lo stesso processo quello che genera gli altri. Così dall'insieme dei fenomeni dell'organismo vivente abbiamo separato per astrazione tre fatti generali, il deperimento, la riparazione GRICE REMEDIAL ACTION e il tipo, e abbiamo dedotto da ciascuno un gruppo di questi fenomeni. Questi tre fatti generali alla loro volta li abbiamo riuniti in un gruppo, e da questo abbiamo staccato per lo stesso processo una proprietà di tipo, dalla quale gli altri due fatti si deducono. Il fatto più generale da cui si deduce ciascun gruppo di fatti, si trova in questi fatti stessi, e se ne separa per astrazione. Ora tutte le volt-e che voi incontrate un gruppo naturale di fatti, potete mettere questo metodo in uso, e scoprite una gerarchia di necessità; ne é qui del mondo morale come del mondo fisico. Una civiltà, un popolo, legge della natura, cioè una coppia di entità astratte; per conseguenza Taine, parlando della gerarchia delle proposizioni, intende parlare propriamente della gerarchia di queste coppie di entità astratte. Così, dicendo che una proposizione produce un gruppo di proposizioni subordinate, egli riferisce, in ur senso traslato, alle proposizioni quel rapporto di causa e di effetto, che come vedremo, egli attribuisce, nel senso proprio, alle cose significate dalle proposizioni, cioè alle coppie di entità astratte; o forse per queste proposizioni egli intende appunto i loro significati, cioè le coppie di entità astratte, come quiindo noi per assiomi o principii intendiamo, non le proposizioni stesse, ma i fatti, o meglio, le leggi, che esse significano. un secolo, hanno una definizione, e tutti i loro caratteri o i loro dettagli non ne sono che la conseguenza e gli sviluppi. PeF esempio, considerando la società a Roma, voi vi distinguete la falcolta molto generale di agire in corpo, con una vista d'interesse personale. Voi staccate questa facoltà egoista e politica, e ne deducete tosto tutti i caratteri della società e del governo romano. GRICE HEGEL PRUSSIA BISMARK MUSSOLINI Da questa facoltà si deducono i differenti gruppi di abitudini morali; da ciascuno di questi gruppi un ordine di fatti complicati e ramificati in dettagli innumerevoli, la vita privata, la vita pubblica, la vita di famiglia, la religione, la scienza e l'arte. Questa gerarchia di cause è il sistema d'una storia  L'autore, come vedremo in seguito, chiama causa di un fatto il fatto più generale da cui quello si deduce. Ogni storia ha il suo, e voi vedete come si ottiene. Per 1'astrazione, si separano nei fatti esteriori le abitudini interiori, generali e dominanti. Per l'astrazione, in ciascun  gruppo di qualità morali, si separa la qualità generale e generatrice GRICE KEYNES cioè da cui le altre si deducono A poco a poco si forma la piramide delle cause cioè dei fatti di più in più generali, da ciascuno dei quali si deduce un gruppo di fatti più particolari, e i fatti dispersi ricevono dall'architettum filosofica i loro legami e le loro posizioni Supponete che questo lavoro di  formare la piramide delle cause sia fatto per tutti i popoli e per tutta la storia, per la psicologia, per tutte le scienze morali, per la zoologia, per la fisica, per la chimica, per l'astronomia. All'istante, l'universo quale noi lo vediamo sparisce. I fatti si sono ridotti, le formule li hanno sostituiti; il mondo si è semplificato, la scienza si è fatta. Sole, cinque o sei proposizioni generali sussistono.  Restano delle definizioni dell'uomo, dell'animale, della pianta, del corpo chimico, delle leggi fisiche, del corpo astronomico, e non resta niente altro. Noi attacchiamo i nostri occhi su queste f i definizioni sovrane; noi contempliamo queste creatrici immortali, sole stabili a traverso l' infinità del tempo che spiega e distrugge le loro opere, sole indivisibili a traverso l'infinità dell'estensione  che disperde e moltiplica i loro eftetti. Noi osiamo di più; considerando che esse sono molte, e che sono dei fatti come gli altri dei fatti generali, cerchiamo di farvi scorgere e di separarne en dé(jager per lo stesso metodo che nelle altre cioè per l'astrazione il fatto primitivo e unico da cui esse si deducono e che le genera. Noi scopriamo l'unità dell'universo e comprendiamo ciò che la  produce. Essa non viene da una cosa esteriore, straniera al mondo, né da una cosa misteriosa, nascosta nel mondo. Essa viene da un fatto generale simile agli altri, legge generatrice GRICE KEYNES da cui le altre si deducouo, come dalla legge dell'attrazione derivano tutti i fenomeni del peso, come dalla legge delle ondulazioni derivano tutti i fenomeni della luce, come dall'esistenza  del tipo derivano tutte le funzioni dell'animale, come dalla facoltà dominante del popolo romano derivano tutte le parti della sua LINGUA, delle sue istituzioni e tutti gli avvenimenti della sua storia. L'oggetto finale della scienza è questa legge suprema; e quegli che, con uno slancio, potesse trasportarsi nel suo seno, vi. vedrebbe, come da una sorgente, svolgersi, per dei canali distinti   Queste detinizioni sovrii.ne», queste creatrici immortali, ecc., sono trattate così chiarameute come delle realtà, che è evidente ohe noi dobbiamo intendere per esse, non le definizioni propriamente dette, ma le astrazioni realizzate che ad esse corrispondono, e che, secondo Taine, esse significano. L'autore le chiama definizioni perchè non sono altra cosa che i gruppi di attributi compresi  nelle definizioni ben inteso che questi attributi si considerano, non come dei nomi o dei concetti, ma come delle entità esistenti per se stesse e ramificati, il torrente eterno degli avvenimenti e il mare infinito delle cose. Questa legge suprema è, come tutte le altre, un'entità, o piuttosto una coppia di entità, un'astrazione realizzata. Essa è l'immobile, l'onnipossente, la creatrice, ecc.; il  tempo e lo spazio derivano da essa, ma essa è fuori del tempo – GRICE ATEMPORALE TIMELESS SIGNIFICATIO e dello spazio; essa è un essere unico, e la sua unità  costituise 1'unità dell'universo, perchè ogni essere è una forma o una particolarizzazione di quest'essere unico: tutte queste attribuzioni suppongono evidentemente che la legge suprema esiste perse stessa, qimntunque presente nei fenomeni. Inoltre la legge suprema è, come abbiamo detto, un assioma, e la sua scoverta trasformerebbe la scienza da induttiva ed empirica in deduttiva ed a priori. Per questa gerarchia di necessità lo stesso che prima ha chiamato gerarchia o piramide delle cause il mondo forma un essere unico, indivisibile, di cui tutti gli esseri sono le membra. Alla suprema sommità delle  cose, al più alto dell'etere luminoso e inaccessibile, si pronunzia ra««iowa eterno cioè al principio del sistema delle cose, che è la parte per noi pili oscura, ma in se stessa più chiara, di questo sistema, si pone la legge suprema, evidente per se stessa e necessaria come un assioma di PEANO, e il rimbombo prolungato di questa formula creatrice compone, per le sue (mdulazioni inesauribili,  l'immensità dell'universo. Ogni forma, ogni cangiamento, ogni movimento, ogni idea è uno dei suoi atti. Essa sussiste in tutte cose, e non è limitata da alcuna cosa. La materia e il pensiero, il pianeta e l'uomo, gli ammassi di soli e le palpitazioni d'un insetto, la vita e la morte, il dolore e la gioia, non vi ha niente che non l'esprima, e n(m vi ha niente che l'esprima tutta intera. Essa riempie  il tempo e lo spazio coi fenomeni in cui si manifesta, e resta essa stessa al disopra del tempo e dello spazio. Essa mm è compresa in questi, e questi derivano da essa. Ogni vita è uno dei suoi momenti, ogni essere è una delle sue forme; eie serie delle cose discendono da essa, secondo necessità indistruttibili, legate dai divini anelli della sua catena d'oro. L'indifferenza allusione all'assoluto di Schelling, l'immobile, l'eterna, l'onnipossente, la creatrice, alcun nome non l'esaurisce; e quando si svela la sua faccia serena e sublime, non vi ha spirito d'uomo che non si pieghi, costernato d'ammirazione e d'orrore. Allo stesso istante questo spirito si rialza; egli obblia la sua mortalità e la sua piccolezza; egli gode per simpatia di questa infinitii cb'egli pensa, e partecipa alla sua  grandezza. Questo monismo di Taine, vale a dire la sua dottrina che vi ha nna legge suprema unica da cui tutte le altre possono dedursi, è una conseguenza naturale del suo metodo di dedurre le astrazioni realizzate, noi potremmo dire, applicando il termine usato da Platone e da Hegel, della sun dialettica. La legge che governa il mondo delle astrazioni realizzate è, secondo Taine, che  ciascun gruppo di coppie di astratti è prodotto da una coppia di astratti più generale, in altri termini che ogni moltiplicità si riconduce ad una unità superiore GRICE MULTIPLICITY. Sevi fosse, al vertice del sistema, una pluralità di. Queste serie delle cose ohe discendono dalla legge suprema sono ciò che prima ha chiamato gerarchia di necessità e piramide delle cause meno  naturalmente il vertice. La catena d'oro che, secondo i poeti, era sospesa al trono di Giove, simboleggia, secondo i platonici, le potenze superiori o le cause della natura, poste fra il mondo sensibile e la causa suprema. coppie di astratti egiialinente primitive, ciò sarebbe in contraddizione con questa legge, perchè anche (jnesta pluralità dovrebbe ricondursi ad una unità superiore. Daltronde  l'unità di principio è, come vedremo nel seguito, un carattere comune di tutti i sistemi di realismo dialettico. Taine, ammettendo che ogni gruppo di leggi deve dedursi da una legge superiore, suppone che l'unico modo di spiegare le leggi della natura è il terzo di quelli enumerati da MORE GRICE FOR THE Mill, cioè l'agglomerazione di più leggi in una legge più generale che le  racchiude tutte». È perchè l'esigenza del realismo dialettico è l'assoluta uniformità di metodo: il metodo di dedurre le astrazioni realizzate è infatti, nel realismo dialettico, non un semplice processo logico, ma una legge obbiettiva delle astrazioni realizzate stesse, il processo reale secondo cui esse si sviluppano o si producono. La produzione delle astrazioni realizzate deve essere  sottoposta a una legge uniforme, come è a delle leggi uniformi che è sottoposta hi produzione dei fenomeni. Taine confessa che la sua filosofia è costruita sullo stesso tipo che quella di Hegel. Egli mette Hegel al di sopra di tutti i filosofii, e dopo Hegel, Spinoza un altro realista dialettico: ciò che vi ha di vero, secondo lui, nell'hegelianismo è che il mondo dell'esperienza ha la sua  ragione in un mondo di astrazioni, e che, queste astrazioni possono essere ritrovate A PRIORI, e dedotte progressivamente le une dalle altre, in modo che, data l'una, siano date necessariamente tutte le altre. Questa filosofia, dice Taine, ha per origine Mill  Logica I filos, class,  e . gli stessi luoghi indicati nella nota precedente. Ifilos. class, i luoghi citati nelle note una certa nozione delle  cause. Io ho cercato qui cioè nel libro 1 filosofi classici di giustificare e d'applicare 7 e Posit.  ingl. (J  11,  Vili, il penultimo dei tratti citati nella nota anche i luoghi seguenti: Po»i<.mgrZ.: Le due risorse dello spirito umano sono 1'esperienza, quale la descrivono i fìlosoti britannici, e l'astrazione, quale l'ha descritta l'autore cioè quale operazione i cui prodotti non sono delle semplici  astrazioni  mentali, ma delle realtà che esistono per se stesse, e di cui le jiiù semplici o più astratte sono la ragione delle più complesse o meno astratte La prima conduce a considerare la natura come un incontro di fatti, la seconda come un sistema di leggi; impiegata sola, la prima è inglese; impiegata sola, la seconda è alemanna. Il compito della nazione della GALLIA è di precisare le  idee alemanne cioè, come risulta da ciò che ha detto precedentemente, le idee di Hegel e dei filosofi affini, correggendo e completando lo spirito alemanno collo spirito della Britannia. Ideal ingl.: L'idea di sviluppo, a cui si riduce il sistema di Hegel, e che consiste a considerare l'universo come una serie di termini che si necessitano mutuamente l'un l'altro, è il legato filosofico che 1'Alemagna ha fatto al genere umano. Filos. class,: La deduzione, che l'autore descrive in questo capitolo e che noi abbiamo visto nel paragrafo precedente, di tutte le leggi della natura da una legge suprema assiomatica leggi nel senso di Taine, cioè astnizioni realizzate, è quello stesso che hanno tentato i metafisici alemanni cioè Schelling ed Hegel con un'audacia eroica, un genio  sublime e un'imprudenza più graude ancora che il loro genio e la loro audacia. I loro sistemi sono caduti, perchè il processo deduttivo non era stato preceduto da un processo induttivo sufficiente; 4f ma i resti crollati della loro opera sorpassano ancora tutte le costruzioni GRICE CONSTRUZIONE  umane per la loro magnificenza e per la loro massa, e il piano semi-spezzato che vi si  distìngue, indica ai filosofi futuri lo scopo che bisogna infine attingere Posil. ingl, dopo il tratto ohe abbiamo indicato al principio di questa nota. Iniellig, 2^ equesta nozione. Io non ho cercato altra cosa qui né altrove. Un sistema filosofico dipende dall'idea che si ha della causalità. Precisando l'idea di causa, si può rinnovare la propria idea dell'universo. Se voi intendete per causa una  certa c(»8a*, avrete una certa idiea dell'universo e della scienza, e  se voi intendete per causa una cosa differente, avrete un'idea differente della scienza e dell'universo. Gli spiritualisti e i positivisti iiuiuaginano le cause dei fenomeni c-ime degli agenti situati al di là dei fenomeni stessi; i primi li assimilano alla volontà – DECAPITATION WILLED CHARLES I’S DEATH GRICE  umana, i secondi li dichiarano inconoscibili. L'autore mostra che la causa d'un diz.: L'esistenza deUe cose si può provare senza  ricorreVe  aU'esperienza, poiché, come la quantità reale, secondo i luateinatici, non è che un caso della quantità immaginaria, caso particolare e singolare in cui gli elementi della quantità immaginaria presentano certe condizioni che mancano negli altri casi, così l'esistenza reale non è che un caso dell'esistenza possibile, caso particolare e singolare in cui gli elementi dell'esistenza possibile presentano certe condizioni ohe mancano negli altri oasi. Ciò posto, non si potrebbero cercare questi elementi e queste condizioni i Hegel l'ha fatto, ma con imprudenze enormi; forse un altro, con più misura, rinnoverà il suo tentativo con piti successo.    I filos, class, dopo il tratto indicato nel principio della nota precedente. Posii ingl.: Ciò che l'autore conserva della filosofia degli Alemanni cioè, al solito, di Hegel e filosofi affini è  <  la loro idea della causa; le cause, in questo senso, si scoprono per l'astrazione. Filos, class, Flos, class, Posit ingl.: La parola causa porta  nel suo seno tutta una filosofia. Dall'idea che voi vi attaccate dipende tutta la vostra idea della natura. Rinnovare la nozione di cause è trasformare il pensiero umano. Filos. class, fatto è la legge o la (jiialità dominante da cui esso si deduce; che una forza attiva è la necessità che lega il fatto derivato alla legge primitiva, che la forza del peso è la necessità logica che lega la caduta d'una pietra alla legge universale della gravitazione. Le cause dei fatti  sono dunque nei fatti stessi: non bisiìgna inventare un nuovo mondo per ispiegare questo, come fanno gli spiritualisti, né dichiarare questo inesplicabile, relegando le cause in un mondo misterioso e inaccessibile, come fanno i positivisti. La causa d'un fatto concreto è un'entità astratta compresa in esso, cioè la legge o tipo o qualità dominante da cui esso si deduce; e la causa d'un'entità  astratta è un'altra entità più astratta compresa in essa, cioè la legge, tipo o qualità dominante superiore, da cui essa si deduce. È questa l'idea della causalità che l'autore accetta da Hegel GRICE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION. Filos. class,. Filos. class, i luoghi citati. Posit. ingl. luogo citato: Per cause intendiamo i componenti dei fatti, cioò gli astratti in cui si risolvono; esse non  sono un nuovo fatto aggiunto ai primi, ma Hono contenuti in questi, ne sono una ])orzione, un estratto, ecc. filos. class. \).  il luogo eitato nella nota e quello citato nel testo verso il principio di questo paragrafo. Hegel, come abbiamo notato, non chiama esplicitamente un'astrazione causa dell'altra astrazione che se ne deduce. Tuttavia Taine ha razione di dare per origine alla filosofia  hegeliana una certa nozione delle cause, perchè Hegel, considerand<» la deduzione logica come una derivazione reale, ha evidentemente di mira una certa idea di derivazione reale, che è a]>punto ciò che noi chiamiamo causazione efficiente, quantunque egli stesso non la chiami così; per conseguenza, l'idea fondjimentale del suo sistema, cioè di ricondurre questa derivazione reale alla  deduzione logica, è, come dice Taine, una certa noConformemente a qiiest'idea della causa e dell'eflTetto, che identifica la prima al principio logico e la seconda alla consegueenza, Taine considera V essenza d'una cosa, cioè gli attributi che entrano nella sua definizione, come la causa  degli altri attributi di questa cosa, perchè, secondo lui, tutti gli altri attributi d'una cosa possono dedursi da quelli che compongono la sua definizione. L'essenza d'una cosa è la causa interiore e primordiale di tutte le sue proprietà; la definizione è la formula generatiice; e 1'attributo che la costituisce una proprietà generatrice e prima cioè non derivata, che è la sorgente del resto, o da cui derivano le altro. Beninteso che questi attributi che entrano nella  definizione, sono delle entità  esistenti per sé stesse: sono degli elementi di cui si compone l'oggetto stesso, i suoi elementi (jeneratori, i suoi /a«on  . Il sillogismo va dalla causa all'effetto, perchè va da una legge a un fatto o a una legge più particolare che se ne deduce, e così si prova un fatto, come dice Aristotile, mostrando la sua causa. La vera prova della mortalità di Pietro, Giovanni e compagnia non è che tutti gli uomini sono mortali GRICE INTERPRETAZIONE SOSTITUZIONALE DELLA QUANTIFICAZIONE UNIVERSALE, ma che l'uomo astratto è accoppiato alla mortalitji: è questa coppia di astratti che, presente nella natura, è la causa della mortalità di Pietro, Giovanni e compagnia, e che,  presente nel nostro spirito, ne è la prova. Il sillogismo va dunque dalla causa all'effetto, perchva dall'astratto al concreto, e non dal generale al particolare, come dicono i logici ordinari GRICE: “STRAWSON Makes the same mistak in ”General and particular””. Notiamo zione delle cause », vale a dire una forma speciale eli'egli dà all'idea di causalità efficiente. PosiU ingl.. PosiL ingl. questa distinzione fra la proposizione generale che tutti gli uomini sono mortali, cioè la legge nel senso ordinario, e la legge nel senso di Taine, cioè la coppia degli astratti uomo e mortalità: non è la prima che è la causa, ma la seconda, perchè la causa è un'astrazione realizzata, distinta dai fatti particolari, quantunque contenuta in essi, e non una generalità, che noa è che la somma dei  fatti particolari. Come i fatti particolari hanno per cause le leggi astratte, contenrte in essi e da cui si deducono, così le leggi astratte hanno per cause altre leggi più astratte, contenute in esse e da cui si deducono: nel sistema di Taine, come in tutti gli altri sistemi di realismo dialettico, l'essere si sviluppa passando continuamente dal più astratto al più concreto, ed è in questo passaggio  che consiste la vera causazione. Così trovare la causa d'una cosa, oggetto particolare o astrazione realizzata, è considerare a parte un astratto contenuto nella cosa stessa, e la facoltà di scoprire le cause è l'astrazione. Taine sviluppa il suo concetto della causalità nell'ultimo capitolo del suo libro 1 filosofi classici: il metodo, ch'egli descrive in questo capitolo e che noi abbiamo rtassunto nell'ultimo paragrafo consistente a dedurre i fatti dalle leggi, cioè dalle coppie di astratti, queste leggi da altre leggi superiori, e cosi di seguito, sinché si giunga a una legge suprema, assiomatica, da cui tutto il resto gradatamente si deduce non è che il metodo di scoprire le cause dei fenomeni, e poi le cause di queste cause, e così di seguito, sinché si giunga a una causa prima, esistente per sé stessa, da cui deriva gradatamente tutto il resto. Egli comincia per definire la causa: Un fatto da cui si possano dedurre la natura, i rapporti e i cangiamenti Posit. ingl. -'I degli altri  >. Se dunque la nutrizione è una causa, «si potranno dedurre da essa la natura e i rapporti d'un gruppo d'operazioni e d'organi; si potranno pure dedurre da essa i cangiamenti che questo grupjio subisce da specie a specie e nello stesso individuo. Questo è? L'esperienza risponderà. Se essa risponde s^,  la nutrizione avendo le proprietà delle cause, è una eausa; e l'ipotesi giustificata diviene una verità. Ora l'esperienza risponde che dalla nutrizione può dedursi tutto un gruppo di fatti cioè la natura e i rapporti d'un gruppo d'operazioni e d'organi e i loro cangiamenti. Dunque la nutrizione  è la causa di tutto un gruppo di fatti. La nutrizione è un fatto, ma un fatto gènerale, cioè comune a tutte le parti del corpo vivente e a tutti i momenti della vita; anche il deperimento o la decomposizione continua è un fatto universale e costante. È anch'esso una causa come la nutrizione? Se è una causa, si potranno dedurre da esso come dalla  nutrizione, la natura e i rapporti di tutta una  serie di fatti e i loro cangiamenti. Ora l'esperienza dichiara che è così. Dunque il deperimento è la causa di un gruppo di fatti. Anche il tipo è una causa: resta a sapere se è una causa primitiva o è un effetto della funzione. Se è un effetto della funzione, si deve dedurre da essa l'esistenza, le variazioni, la persistenza del tipo. Ora questa deduzione è impossibile; dunque il tipo non lia per  causa la funzione. Supponiamo che dal tipo possano dedursi la decomposizione, la nutrizione e tutte le altre funzioni; il tipo sarà allora la causa del resto. Noi avremo < la definizione (jeneratrice, donde uscirà, per un sistema di deduzioni progressive, la moltitudine ordinata degli altri fatti. Guardate, continua 1'autore, come abbiamo procednto. Noi abbiamo formato dei gruppi di fatti;  abbiamo sostituito a eiascun gruppo il fatto generatore sostituito, perchè il fatto generatore, il principio, non è che il riassunto dei fatti generali, delle conseguenze; abbiamo riunito i diversi fatti generatori in un gruppo; abbiamo cercato un fatto superiore che li generasse. Abbiamo continuato così, e siamo arrivati infine al fatto unico, che è la causa universale. Chiamandolo causa noi  non abbiamo voluto dire niente altro se non che dalla sua formula si possono dedurre tutti gli altri e tutte le conseguenze degli altri. Così abbiamo trasformato la moltitudine dei fatti in una gerarchia di proposizioni, di cui la prima, creatrice universale, //e/iem un gruppo di proposizioni subordinate, che, alla loro volta, producono ciascuna un nuovo gruppo, e così di seguito. In questa  ricerca delle cause tutti i passi sono segnati. Astrazione che consiste a separare un fatto generale dai fatti particolari in cui è contenuto, ipotesi; che questo fatto generale è la causa di questi fatti particolari e verificazione di quest'ipotesi che consiste a dedurre i fatti particolari dal tatto generale; tali sono i tre passi di questo metodo. Un gruppo formato, noi ne separiamo per astrazione  qualche fiitto generale. Ammettiamo per ipotesi che esso è la causa degli altri. Conoscendo le proprietà delle cause cioè che dalle cause si possono, luogo citato nel pai^igr. preced. nota dedarre i fatti di cui esse sodo le cause, veritìchiamo se le ha: se non le ha, tentiamo l'ipotesi e la verificazioue sui suoi vicini, sinché noi troviamo la causa. Riunendo un gruppo di cause o fatti generatori,  cerchiamo per lo stesso processo quale genera gli altri. È così che noi abbiamo operato poco fa. Abbiamo separato per astraziope due fatti generali, il deperimento e la riparazione; abbiamo ammesso per ipotesi che erano la causa, l'uua delle operazioni nutritive, l'altro delle operazioni dissolventi. Abbiamo verificato queste due ipotesi deducendo dal deperimento e dalla nutrizione i fatti  di cui si erano supposti le cause. Riunendo queste due cause e un altro fatto generatore, il tipo, abbiamo staccato, per lo stesso processo, lina proprietà di tipo dalla quale tutte e due si deducono e che è quindi la causa di queste due cause. Lo stesso processo può applicarsi ai fatti del mondo morale. I fatti  particolari che compongono la vita del popolo italiano si deducono dalle abitudini interiori, generali e dominanti, separate per astrazione da questi fatti particolari. Queste qualità morali si deducono da una qualità più generale e più dominante, p. e. la facoltà egoista e politica del popolo romano, sparata da esse per astrazione. Così si forma una gerarchia, una piramide, di cause: nel mondo morale, come nel mondo tìsico, la causa non è che un fatto; un fatto generale, separato per astrazione dai fatti particolari che ne sono gli effetti; un fatto generale, da cui gli altri possono dedursi. Supponete questo lavoro fatto per tutte le scienze fisiche e per tutte le scienze morali. I fatti si •v: , luogo in parte riassunto e in parte riportato uel parag. precedente. sono ridotti ad alcune definizioni; noi contempliamo queste creatrici immortali, sole indivisibili a traverso  l'infinità dell'estensione che disperde e moltiplica i loro ef/etti; noi cerchiamo di separarne per astrazione il fatto primitivo e unico da cui si deducono e che le genera. Noi scopriamo così che ciò che forma 1'unità dell'universo è un fatto generale simile agli altri, legge generatrice da cui le altre si deducono, e da cui derivano, come da una sorgente, per dei canali distinti e ramificati, il  torrente eterno degli avvenimenti e il mare infinito delle cose. Questa legge suprema, quest'assioma eterno, è la formula creatrice, il cui rimbombo prolungato compone, per le sue ondulazioni inesauribili, l'immensità  dell'universo; essa non è compresa nel tempo e nello spazio, ma questi derivano da essa; è l'indifferenza perchè è ciò che vi ha d'identico in tutti gli esseri, l'ownipossente,  la creatrice; e le serie delle cose cioè delle astrazioni realizzate e, come ultimo termine, dei fenomeni discendono da essa, legate dai divini anelli della sua catena d'oro. È, in una parola, la causa prima, percui tutto esiste, mentre essa esiste per se stessa per questa necessità intrinseca, che è espressa dalle parole 1'assioma eterno. Così, supposto che questa legge fosse infine scoperta, noi  arriveremmo al vertice della piramide delle cause, e l'opera dell'astrazione sarebbe terminata. Nel Positivismo questa teoria della causalità è riassunta così: Vi hanno due operazioni, l'esperienaa e l'astrazione; vi hanno due regni, quello dei fatti complessi e quello degli elementi semplici cioè quello degli oggetti  GRICE OBBLE SOBBLE  Pas:, luogo riportato nel paragr. precedente.,  luogo riportato nel parag. precedente nota concreti e quello delle entità astratte in cui essi si risolvono. Il primo è l'effetto, il secondo la causa. Il primo è contenuto implicitamente nel secondo e se ne deduce, come una conseguenza dal suo principio. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dall'uno all'altro, dal complesso al semplice, dai fatti alle leggi cioè alle coppie di astratti, dalle  esperienze alle formule. E queste prime coppie trovate, noi pratichiamo su di esse la stessa operazione die sui fatti, perchè, a un minor grado, hanno la stessa natura. Quantunque più astratte, sono ancora complesse. Esse possono essere decomposte in astrazioni più astratte e spiegate. Esse hanno una ragion d'essere. Vi ha qualche causa che le costruisce e le unisce. Vi ha luogo per esse,  come per i fatti, di cercare gli elementi generatori cioè delle coppie di astratti più semplici in cui possono risolversi e da cui possono dedursi, e l'operazione deve continuare finché si sia giunti ad elementi assolutamente semplici, cioè tali che la loro decomposizione sia contraddittoria questi elementi assolutamente semplici sono la coppia di astratti i più astratti di tutti. Che noi possiamo  trovarli o no, essi esistono; l'assioma delle cause sarebbe smentito, se essi mancassero Vi ha dunque degli elementi indecomponibili, da cui derivano le leggi più generali, e da queste le leggi note. La spiegazione d'una le«;ge implica, secondo Taine, la sua decomposiziout^, non perchè, spiegandola, essH si risolva in una pluralità di leggi più generali  l® e 2^ modo di spiegazione di Mill, ina perchè ciò che la spiega, vale a dire ciò da cui essa si deduce, è una legge più astratta contenuta in essa, e l'astrazione è una decomposizione, appunto perchè l'astratto è contenuto nel concreto o in un meno astratto, e non si fa che estrarnelo. particolari, e da queste leggi i fatti che osserviamo. Noi possiamo ora compreud-re la virtù  e il senso di quest'assioma delle cause che  regge tutte cose, e che Mill mutila. Vi ha una forza interiore e costringente che suscita ogni avvenimento, che lega ogni composto, che genera ogni dato. Ciò significa, da una parte, che vi ha una ragione ad ogni cosa, che ogni fatto ha la sua legge; che ogni composto si riduce in semplici cioè che il più concreto si risolve nel più astratto; che ogni prodotto implica dei fattori; che ogni  nota. Ripetiamo l'osservazicme della nota penultima. Dicendo che ogni composto si riduce in semplici, l'autore intende dire «empliocmente che i fatti concreti si risolvono in coppie di astratti e le coppie di astratti in altre coppie di astratti di un'astrattezza maggiore. Ma ciò non importa per lui che ogni coppia di astratti deve risolversi in una pluralità di coppie più astratte: il concreto deve risolversi in più coppie di astratti, perchè un fatto è una, sovrapposizione di leggi . ma una legge interiore ncm è una sovrapposizione di più leggi superiori, perchè se fosse così, le cause, cioè le leggi, non formerebbero una piramide, e non i)otrobbero risolversi tutte in una legge o causa unica l'assioma eterno. La dottrina di Taiue, come si vede dall'esposizione dell'ultimo capitolo  dei Filosofi elassici, fatta nel paragrafo precedente, è che ogni gruppo di leggi inferiori deve dedursi da una legge superiore unica; gli elementi i semplici in cui si risolvimo quelle coppie di astratti inferiori sono dunque questa coppia di astratti superiori. Si risol/ono in essa, perchè essa è la legge sommaria in cui tutte sono contenute, e per conseguenza tutta hi loro realtà e, per dir così,  tutta la  h)ro sostanza si riduce alla realtà e alla sostanza di questa coppia unica. In ciascuna di un gruppo di leggi subordinate a una legge superiore possono distinguersi, per usare la lingua di Taiue, due porzioni: ciò che vi ha di comune in tutte, cioè questa legge superiore a cui qualità e ogni esistenza devono dedursi da qualche termine superiore e anteriore. E ciò significa, da altra sono subordinate, e ciò clie vi ha di particolare iu ciascuna, per dir così, la sua differenza. Di queste due porzioni Taine con considera come un'entità sussistente per se steessa ohe la prima, come Platone delle due porzioni in cui divide la Specie il genere e la diU'erenza non con considera come Idea, e per conseguenza come ycooiaiói^, che una sola, il genere. E come Platone SuppL   riguarda i Generi come gli elementi delle Specie benché il concetto delhi specie non sia costituito dal solo concetto liel genere, ma anche da quello della ditt'erenza e i due Generi supremi, cioè l'Essere e il Non essere, come gli elementi di tutte le Idee benché ogn'Idea abbia, a lato di questa porzione comune a tutte, una porzione propria, così Taine riguarda la coppia di astratti superiore  come gli elementi a cui si riducono le coppie inferiori benché ciascuna di queste coppie inferiori abbia una porzione difterenziale oltre a questa porzione comune e generica, i'iò é perché il mondo delle astrazioni realizzate è, per l'uno e per l'altro, hi piramide delle eause, e per conseguenza un astratto, per loro, non può avere un'esistenza per sé che quando é una causa, cioè quando da  esso si deducono altre astrazioni realizzate. Che Taine consideri una sola parte delle astrazioni in cui può decomporsi l'idea d'un oggetto come tulli gli elementi dell'oggetto stesso, quando 1'altra parte può dedursi da essa, si vede anche dai luoghi dove espone la sua teoria della definizione, in cui dà come gli elementi dell'oggetto definito i due soli attributi che entrano nella definizione,  perchè tutti gli altri attributi possono, secondo lui, dedursi da questi Posit. ingl. nota. Il realisnu» dialettico non può misconoscere questa verità innegabile, che il generale non è altra cosa che l'insieme dei particolari; è perciò che esso risolve la realtà delle entità conseguenze degli effetti in quella delle entità principii delle cause, nel tempo stesso che dà alle une un'esistenza distinta da  quella delle altre. parte, che il prodotto equivale ai fattori, che tutti e due cioè il prodotto e i fattori non sono che una stessa cosa sotto due apparenze; che la causa non differisce dall'effetto; che le potenze generatrici non sone che le proprietà elementari cioè gli astratti che l'autore riguarda come elementi', che la forza attiva per cui ci figuriamo la natura non è che la necessità logica che  trasforma l'uno nell'altro il composto cioè il più concreto e il semplice cioè il più astratto, il fatto e la legge per fatto si deve intendere, non solo un fatto particolare, ma anche un fatto generale, cioè una legge, in quanto si spiega per una legge superiore. Così noi designiamo anticipatamente il termine di ogni scienza, e teniamo la possente formula che, stabilendo il legame invincibile e  la produzione spontanea degli esseri, pone nella natura la molla della natura, nel tempo stesso che conficca e stringe nel cuore di ogni cosa vivente cioè di ogni cosa esistente le tenaglie d'acciaio della necessità. Questa esposizione della dottrina della causalità non differisce da quella che fa nei Filosofi classici; vi manca però un le astrazioni in cui si risolvono i fatti o gli oggetti concreti, ne sono dette, non solo gli eleinenliy ma anche i /allori, per significare che ne sono le cause, come dice Spinoza, immanenti Per la stessa ragione sono dette, non solo gli elemenli, ma anche i fattori, delle coppie di entità astratte le coppie di entità più astratte in cui esse si risolvono. Fattori è lo stesso che elementi generatori, come le ha chiamato sopra, Noi ritroveremo iu altri realisti  dialettici, cioè Platone e Spinoza, questo termine anteriore e il suo correlativo j[?os/mor<?^ ]»er significare la derivazione, al tempo stesso logica ed ontologica, di un'entità da un'altra entità. Naturalmente si dice anteriore ad un'altra l'entità da cui quest'altra deriva, e la seconda si dice posteriore alla prima. nota ^myr^ elemento  importante. È l'esistenza necessaria della cansii prima,  cioè della legge suprema, la sua assiomaticità. Questa è indispensabile affinchè la deduzione possa riguardarsi come una derivazione reale. Se infatti la legge generale non fosse stabilit^a che per una  generalizzazione delle leggi particolari subordinate, se il metodo della vera scienza andasse dal particolare al generale e non dal generale al particolare, perchè le leggi particolari deriverebbero dalla legge generale, e non piuttosto la legge generale dalle leggi particolari? Se queste derivano da quella, è perchè quella è logicamente anteriore^ cioè perchè le leggi particolari non possono essere date se non è già data la legge generale, mentre questa è già data senza che quelle siano ancora date. In altri termini, per usare la lingua di Aristotile, perchè la legL'e generale  è assolutamente più notoria che le leggi particolari, quantunque queste possano essere più notorie per noi. Ciò importa che il metodo della l'em conoscenza sia puramente deduttivo, che vada sempre dal generale al paricolare e mai dal particolare al generale; il che implica che il punto di partenza, cioè la legge più generale di tutte, sia un assioma. È a questa condizione dunque che la  deduzione può divenire una derivazione reale, in altri termini che il rapporto logico tra il principio  e la conseguenza può identificarsi al rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Ma ciò che è il più importante di osservare su (piesta teoria della causalità è che essa è legata inseparabilmente alla realizzazione delle astrazioni. Le cause dei fatti, dice Taine, sono le leggi, e la causa di un  gruppo di leggi è una legge più generale, e così di seguito, sino alla legge suprema, assiomatica, che è la causa di tutte le cause. Questo concetto suppone necessariamente che le leggi siano deile realtà esistenti per se stesse, delle coppie di 'entità astratte, come ammette Taine, o, se st, vi  ha un'altro modo di sostantifìcarle, un'altra forma qualsiasi di astrazioni realizzate; che le leggi  particolari abbiano un'esistenza distinta da quella dei fenomeni, e le leggi generali un'esistenza distinta da quella delle leggi particolari subordinate. Supponiamo infatti che non sfa così, e prendiamo il termine le(/ffe della natura nel suo significato ordinario cioè in <iuello che esso ha sia nella teoria nominatista sia nella concettualista In questo caso una legge particolare non sarà che  un'espressione sommaria dei fenomeni che se ne possono dedurre, e una l«^gge generale che un'espressione sommaria delle leggi particolari che se ne possono dedurre, e quindi, in ultima analisi, di una classe più larga di fenomeni. Così essendo, la legge suprema, e il gruppo di leggi immediatamente sabordinate ad essa, e i gruppi immediatamente subordinati a questo gruppo, e così  di seguito, sino all'ultimo bacino del getto d'acqua, cioè al mondo dei fenomeni, non saranno che delle espressioni differenti, cioè più o meno astratte, più o meno sommarie, di una sola e stessa cosa, che è precisamente questo mondo dei fenomeni: andando da un grado all'altro della gerarchia, le espressioni, o se si vuole aache, i concetti differiranno, perii loro grado di astrattezza o di  sommarietà, ma la realtà che loro corrisponderà, la cosa espressa o rappresentata, ^arà sempre una sola e sempie la stessa, il mondo dei fenomeni. Ma allora il progresso della deduzione, la discesa da uno a un  altro grado della gerarchia, sam un progresso del pensiero, che si rappresenterà il reale di una maniera sempre meno astratta, sempre più determinata, ma a <iuesto progresso del  [»ensiero non corrisponderà un progresso analogo nel reale stesso; non sarà questo stesso che. come il pensiero, passerà gradatamente da uno stato più indeterminato o più astratto a uno stato più determinato o più concreto; e per conseguenza la deduzione non sarà una derivazione reale, poiché perciò ogni nuovo passo nella deduzione dovrebbe rappresentare la produzione di alcun che   di nuovo nella realta stessa, e il rapporto ha il principio e la conseguenza non potrà identificarsi a quello tra la causa e 1eftetto. In breve 1'identificazione del principio alla causa e del a conseguenza all'effetto suppone necessariamente che le due cose che si riguardano come principio e come conse^'uenza siano due realtà distinte l'una dall'altra come avviene nel sistema di Taine e in  generale nel realismo; ma se il principio e la conseguenza - cioè l'insieme delle conscuenze sono la stessa cosa espressa o pensata di due maniere differenti come avviene nel nomiualisino e nel concettualismo, è impossibile che l'uno si consideri come causa e l'altra come effetto, perchè la causa e 1effetto sono necessariamente due cose differenti CAUSA SUI, e una stessa cosa non può  essere la causa e l'effetto di se stessa CAUSA SUI. Fra i grandi sistemi di realismo dialettico e (juello di Platone che ha la più grande affinità col sistema di Taine, col quale lia comuni, oltre alla obbiettivazione dei concetti e al metodo dialettico quale noi 1'abbiamo descritto nella sua forma generale, altri caratteri più speciali, che possiamo ridurre a «piesti tre: i concetti obbiettivati  considerati come puri oggetti e non anche come pensieri, come in Hegel; la gerarchia fra di essi, fondata sulla loro generalità descrescente; e una deduzione che somiglia alla deduzione ordinaria, perche non va, come questa, che dal generale al particolare. I concetti obbiettivati sono chiamati da Platone, come si sa, le Idee, cioè le specie  noi scriveremo la parola idea colla maiuscola,  per distinguere il senso platonico e t Noi Bou abbiamo indicata qui ohe una delle ragioni della obbiettivazione dei concetti. Bealizzazione delle astrazioni. greco del termine da quello affatto differente che ha nell’italiano, e che, per la sua confusione col primo, ha forse contribuito, più che qualsiasi altra ragione, a far accettare Vinterpretazione tradizionale del sistema platonico Le Idee  platoniche sono state erroneamente interpretate in un doppio senso. L'interpretazione tradizionale vede in esse i pensieri, cioè i concetti generali, della divinità creatrice, che sono stati gli archetipi, i modelli, secondo cui questa ha creato le cose. A questa interpretazione, che non ha alcuna base nei testi e che è con essi nella contraddizione più evidente, la più parte dei critici moderni ne  sostituiscono uq'altra, fondata, più che sui testi stessi di Platone, come CODE e GRICE, sull'esposizione del sistema platonico clie fa Aristotile – Grice: “Which, I now realise, it’s like studying Kant as read by Hegel!”. Questa seconda interpretazione vede pure nelle Idee gli archetipi, i modelli, delle cose, ma non ne fii dei pensieri della divinità come la prima: le Idee sono, secondo  essa, degli oggetti esistenti fuori delle cose, in un altro mondo, e fra questi oggetti e le co«e  non vi ha altro rapporto che quello tra 1'esemplare e la copia. Questa seconda interpretazione non è così arbitraria come la prima, ma in compenso essa rende il sistema delle Idee perfettamente vano e senza scopo. L'interpretazione tradizionale comprende almeno che Vipotesi delle Idee deve  essere, come qualsiasi altra ipotesi sia scientìfica sia metafìsica, una spiegazione del mondo, una risposta alla quistione delle cause; non comprendendo, sì per la sua arduità che per il suo carattere poco naturale, la spiegazione del mondo, la risposta alla quistione delle cause, del realismo dialettico, cerca, per dare uno scopo e una significazione al platonismo, di assimilarlo alla  metafisica  perenne dell'umanità, cioè all'antropomorfistica, non vedendo nelle Idee che un elemento di una spiegazione teologica. Ma alla interpretazione trascendentalista che pone le Idee fuori delle cose, ma senza farne dei pensieri, sfugge necessarianiente la spiegazione del realismo ai al etti co perchè questa suppone che le Idee, o generalmente le entità astratte e universali, siano immanenti,  cioè nelle cose stesse, ne siano 1'elemento costante e generale, senza poterle sostituire un'altra spiegazione, come cerca di fare 1'interpretazione teistica. L'interpretazione trascendentalista non teistica è fondata, oltre che sull'autorità d'Aristotile, sul motivo di voler salvare le idee platoniche da un'inconcepibilità di questo sistema, che è comune agli altri sistemi di realismo dialettico. Le  Idee sono gli attributi generali delle cose sostnntificati, e di cui ciascuno è riguaidato come uno in se stesso, ma inerente al tempo stesso nei diversi individui  a cui viene attribuito. Più  chiaramente, l'ipotesi  delle Idee consiste essenzialmente in questi due punti: Gli attributi astratti delle cose, p. e. la bianchezza, 1'umanità, la corporeità, ecc., non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle realtà. Essi sono, in un senso, delle astrazioni, in quanto non si trovano altrove ohe nelle realtà concrete, negli oggetti bianchi, negli uomini, nei corpi, ecc, in cui coesistono con gli altri attributi da cui queste realtà concrete sono costituite, e perciò, considerandoli isolatamente, noi li  astraiamo^ cioè li separiamo dagl'insiemi di cui essi fanno parte. Ma poiché ciascuno coesiste con altri, esso esiste pure per se stesso, perchè le cose che coesistono devono avere ciascuna una esistenza per se stessa. La bianchezza dell'oggetto bianco, l'umanità dell'uomo, la corporeità del corpo, ecc. sono dunque delle cose reali, (juantunque astratte, che si trovano nell'oggetto bianco,  nell'uomo, nel corpo, ecc, e ne fanno parte, come il mio braccio o la mia testa si trova nel mio corpo e fa parte di esso. Ma come il mio braccio o la mia testa ha un'esistenza per sé distinta da quella delle altre parti del mio corpo con cui coesiste, così la bianchezza, 1'umanità, la corporeità, ecc. hanno ciascuna un'esistenza per sé, distinta da quella degli altri attributi degli oggetti bianchi, degli uomini, dei corpi, ecc, con cui coesistono. L'astratto, in una parola, non è nn termine uè un semplice concetto, ma un essere reale; e il concreto non è la realtà unica, ma una realtà di secondo ordine, un composto, i cui elementi sono degli esseri astratti. Gli attributi comuni dei diversi individui non sono semplicemente simili, ma identici: ciascun attributo generale è un essere unico,  non vi hanno altrettante entità quanti sono gli individui in cui si trova (juest' attributo. P. e. uou vi hanno altrettante bianchezze astratte quanti vi hanno oggetti bianchi, altrettante umanità astratte quanti uomini, altrettante corporeità astratte quanti corpi, ecc. Vi ha una sola Hianchezza il bianco «^esso per se stesso j una sola Umanità l'uomo stesso, una sola Corporeità il corpo «^e««o,  ecc., che esiste niìmiìtannsLìnente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti bianchi, in tutti gli uomini, iu tutti i corpi, ecc  Se tutti gli oggetti bianchi o tutti gli uomini o tutti i corpi sono egualmente bianchi o uomini o corpi, se tutti si somigliano e portano lo stesso nome in una parola se vi hanno nella natura delle classi, dei gruppi di esseri speci licamen te o genericamente identici, è perchè in tutti gli oggetli bianchi« è presente y^ la stessa Bianchezza, in tutti gli uomini la stessa Umanitti, in tutti i corpi la stessa Corporeità, ecc., o, in allri termini, perchè tutti gli oggetti bianchi € partecipano » alla stessa Idea del bianco, tutti gli uomini alla stessa Idea dell'uomo, tutti i corpi alla stessa Idea del corpo, ecc. Ciascun'Idea è una in se stessa, ma sembra  moltiplicarsi per la sua presenza simultanea in molti individui. Ogni attributo generale è dunque una Mep,. /T entità unica, che è presente allo stesso tempo in tutti gli oggetti che partecipano a quest'attributo. Se questo attributo è generale è perchè, essendo imo e lo stesso in se, si trova simultaneamente in molte cose; la partecipazione di queste molte cose a una stessa entità spiega perchè  loro sia comune lo stesso attributo Ma come Vuno può esistere simultaneamente nei molti, senza moltiplicarsi e senza dividersi? È questa Tinconcepibilità da cui 1'interpretazione trascendentalista mira a salvare il sistema delle Idee. Ma questa inconcepibilità è una condizione necessaria del realismo dialettico, perchè (luesta metafica è una spiegazione delle cose in quanto unisce alla  obbiettivazione dei concetti il metodo dialettico, e questo suppone che, dediicendo le Idee, si deducano le cose stesse, e quindi che il mondo delle Idee e quello delle cose non siano due mondi diversi, ma due aspetti diversi Vastratto e il concreto sotto cui può considerarsi il mondo unico della realtà. Ciò che vuol dire, in altri termini, die le Idee non siano fuori delle cose trascendenti, ina nelle cose stesse /mma/ieHfj, che Vastratto non esista che nel concreto, e che il concreto non sia che rastratto stesso, a un grado ulteriore di determinazione. In opposizione alla interpretazione trascendentalista della più parte dei critici contemporanei, è sorta la interpretazione di Teichmuller, che è identica in sostanza aquella di Hegel. Il vantaggio di questa interpretazione è che essa  riconosce Vimmanema delle Idee, quantunque sembra che non metta sufficientemente in luce la loro sostanzialità, dalla quale sovratutto l'altra interpretazione deduce la trascendenza deduzione, in un senso, logica, ma che sfigura la concezione platonica, e le toglie qual CHIAPPELLI (vedasi) L’interpretazione panteista di Platone. siasi valore filosofico. Ciò che Hegel comprese  esattamente è la stretta affinità del sistema platonico col suo proprio sistema. L'uno e l'altro sono costruiti sullo stesso tipo, sono delle varietà di una stessa specie, che noi chiamiamo realismo dialettico. Ma da questa identità spe^ ci/Ica  Hegel conclude erroneamente a un'identità quasi assoluta. Egli pretende ritrovare in Platone gli elementi della sna propria dialettica, attribuendo anche  a lui il principio dell'identità dei contrari, e gli fa ammettere pure la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero ciò che è il motivo principale per cui Teichmuller nega il significato evidente delhi immortalità dell'anima in Platone, cercando in essa il simbolo di quella dottrina, ch'egli non riusciva a trovare nell'autore in forma aperta e letterale. La conseguenza è che a questa  interpretazione sfugge, come a tutte le altre, il vero significato della dialettica platonica, e quindi il modo in cui Platone spiega 1'universo, perchè la spiegazione causale delle cose, il loro modo essenziale di produzione, è, nel suo sistema come negli altri analoghi, il metodo dialettico che è la legge stessa delh', cose e non un semplice mezzo che uìettiamo in opera per conoscerle. Un'interpretazione esatta della dottrina delle Idee ha bisogno di distinguere nettamente due parti, sino ad un certo punto indipendenti, (piantunque non senza legame fra di loro, della filosofia platonica. Questa filosofia contiene due spiegazioni del mondo, due risposte alla quistione del perchè. In un senso, la causa efficiente è, per Platone, Dio, cioè l'anima del mondo, e l'universo è  spiegato d'una maniera antropomorfistica. È un'applicazione del concetto immediato, spontaneo, della causalità efficiente. In un altro senso, la efficienza causale, la spiegazione dell'universo, sta nel processo dialettico GOTT IM WERDEN, cioè nel modo in cui le Idee procedono, o si deducono, progressivamente le une dalle altre. È un'applicazione dell'altra fo^nia del concetto di  causalità efficiente. Queste due spiegazioni coesistono armonicamente, senza mescolarsi e senza turbarsi l'una con 1'altra. Vi ha un Idea di Dio o dell'anima del mondo, come delle altre cose, e quest'Idea si spiega, come tutte le altre, per la sua produzione, al momento necessario, nella evoluzione eterna del mondo delle Idee. Dio o 1'anima del mondo non è un'essenza spirituale nel senso  moderno: è, come l'anima dell'uomo, esteso, in movimento continuo, e muove i corpi comunicando ad essi il proprio movimento. La dottrina dell'anima del mondo si le;ia col sistema delle Idee perchè questo contiene una spiegazione teleologica delle cose l'Idea suprema, vale a dire più universale, da cui le altre derivano, è l'Idea del bene, cioè press'a poco, come vedremo, della  finalità.  Il legame più importante che ha con la dottrina delle Idee quella dell'anima umana, è l'ipotesi che le anime hanno intuiti» le Idee in una vita anteriore, e che la scienza la quale è A PRIORI è perciò una reminiscenza. Non vi ha luogo di respingere il senso letterale, cercandovi invece un senso riposto, delle dottrine platoniche sulFanima, sia divina, sia umana semimaterialità, preesistenza  e  immortalità, reminiscenza, ecc.\ si perchè sarebbe arbitrario, sì perchè esse entrano perfettamente nell'ordine dei concetti dell'epoca. La dottrina della intuizione delle Idee in una esistenza anteriore, con la sua conseguenza, cioè che la conoscenza è una reminiscenza di quest'intuizione, è costruita essenzialmente sullo stesso tipo che le altre dottrine di una intuizione sovrasensibiìe    Malebranche, GIOBERTI (vedasi), ecc., e serve, come queste, a spiegare la coincidenza tra il pensiero e la realtà in una conoscenza indipendente dall'esperienza. Le dottrine platoniche Saggio sull'anima hanno dato luogo a delle interpretazioni incompatibili col significato reale della dottrina delle Idee, di cui le più importanti sono: che Platone ha ammesso la dottrina dell'identità del  pensiero e dell'essere, e che l'immortalità dell'anima, 1'intuizione delle Idee in un'esistenza passata e la reminiscenza non sono clie dei simboli di questa dottrina che l'anima del mondo è un'entità intermediaria fra le Idee e le cose, in modo che è i)er mezzo di essa e, per dir così, a traverso ad essa, che l'azione delle prime si esercita sulle seconde che Dio è identico all'Idea suprema  (l'Idea  del Bene o al complesso di tutte le Idee. Noi esporremo le dottrine di Platone sull'anima e la divinità, e discuteremo queste interpretazioni, in un Supplemento. Vi hanno dei punti, nel sistema delle Idee, che non si riattaccano ai principii fondamentali di questo sistema cioè all'obbiettivazione dei concetti, e al legame logico introdotto fra i concetti obbiettivati per assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la eausa e l'effetto, e di cui anzi alcuni sono in contraddizione con le loro conseguenze più naturali. Tali sono le dottrine: che le idee sono numeri; che esse costituiscono le sole /orme delle cose, ad esclusione della materia, che le Idee e tutti gli esseri risultano da due principii egualmente primitivi, 1'uno formale e l'altro materiale, che le entità  matematiche formano una terza classe di esseri, intermediari fra le Idee e le cose. In un altro Sup[)leinento daremo l'interpretazione di queste dottrine, e cercheremo i motivi su cui sono fondate. Il sistema di Platone ci occuperà assai più largamente che qualsiasi altro. È ciò che non ci sembra inopportuno, sì per l'influenza eccezionale ch'esso ha esercitato nella storia della filosofia, sia  direttamente, sia per l'intermediario della filosofia aristotelica, sì per le controversie a cui ha dato luogo la sua interpretazione. La quistione più controversa, quella deW’immanenza  o trascendenza delle Idee, per non interrompere con una argomentazione troppo prolissa il corso della nostra esposizione, la tratteremo in un altro Supplemento. In questo capitolo parleremo solamente della  dialeiilca, mostrando in che consiste e come essa sia una spiegazione delle cose, e indicando le prove che giustificano il nostro modo d'interpretarla. La teoria della conoscenza di Platone è un apriorismo il più radicale. I sensi non sono, secondo lui, una sorgente della conoscenza, sono anzi per essa un ostacolo. 11 corpo è un impedimento all'acquisto della scienza, quando viene associato  a questa ricerca. Se qualche cosa della verità può manifestarsi all'anima, è nell'atto del pensiero, quando essa non è turbata né dalla vista né dall'udito, ma racchiusa in se stessa e sciogliendosi per quanto è possibile da ogni commercio e da ogni contatto col corpo, aspira a conoscere ciò che é. Non è per mezzo degli occhi o degli altri sensi che si perviene a scoprire le "essenze delle cose,  ma bisogna per ciò applicare il pensiero stesso all'oggetto che si considera, € non associando agli atti della ragione né quelli della vista né quelli di aìcun altro senso, ma impiegando il pensiero puro nella ricerca della pura essenza di ciascuna cosa. La. Fedone . Il dialettico senza l' aiuto degli ocelli né degli altri sensi si eleva alla conoscenza dell'essere per la sola forza della verità Rep,  o in altri termini, per la ragione sola Rep. Fedone Rep, eco. fe scienza é dunque il prodotto della spontaneità dello spirito questo non deve ceicare la verità al di fuori, ma in se stesso: perciò Platone dice che il movimento dell'intelligenza é, come quello dell'universo, in se stessa e da se stessa. Di là la maieutica che egli attribuisce a Socrate: questi non fa che aiutare il parto dell'idea, se l'int^erlocutore è fecondo, ed è evidente che quelli che tirano profìtto dalla sua conversazione GRICE CONVERSATION,  non imparano niente da lui, ma ritrovano in se stessi delle conoscenze che già possedevano, e eh' egli trae dalle  viscere della loro anima. Per conoscere tutto il divino Platone chiama divino tutto ciò che è sovrasensibile e quindi anche le Idee basta guardare dentro se stessi, nella propria intelligenza. La sapienza è una virtù insita nell'anima, non é come le altre virtù dell'anima e del corpo, che sopravvengono per 1'esercizio e 1'educazione: Y intelligenza somiglia all'occhio; come questo non può  non vedere, quando è  rivolto verso gli oggetti rischiarati  dalla luce, COSI quella non può non intendere quando è rivolta verso l'intelligibile, cioè verso l'essere realmente esistente. In certo modo la scienza di tutto ciò che esiste ci è innata, quantunque non ne abbiamo coscienza: e ciò Tim. Teeieto Alcih Rep. L'ultima proposizione è una conseguenza evidente dell'apriorismo, ed è facile  di trovare delle proposizioni simili negli altri filosofi aprioristi. p. e. Cartesio CITATDO DA GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION Jiieerca della verità per il lume naturale Opere pubblio, da Cousin, Malebranche Rieerca della verità, Leibnitz CITATO DA GRICE COME L’INVENTORE DELLA DISTINZIONE TRA L’ANALITICO E IL SINTETTICO  iV.   S, sulVint,  uni., ecc. Aristot.  Mei. anche oltre i luoghi che citeremo in  seguito sulla reminiscenza  Politico: noi conosciamo naturalmente tutto, ma come in un sogno; acquistare una conoscenza nuova è passare dal sogno alla veglia. -«r-  che si dice imparare non è in realtà che ricordarsi dì ciò che già si sapeva. Ciò  die  h)  prova è che tutti  gli uomini, se sono bene interrogati,  trovano tutto da se stessi: che s'interroghino su delle figure di geometria o su di altri oggetti simili, e vsi vedrà che è così. E intatti Socrate nel Menone si rivolge Jid uno schiavo e lo conduce, per mezzo di convenienti interrogazioni, a scoprire che, per avere un quadrato dop])io di un altro, bisogna elevarlo sulla diagonale di quest'nltro. Grice: I still would not call the slave’s reasoning correct – he was FORCED to a conclusion! È manifesto, dice Socrate, che è da se stesso che lo schiavo scopre questa verità, e che egli non gl'insegna niente, ma si limita a interrogarlo sulle sue proprie opinioni GRICE: In “On being forced to a conclusion” Wood argues thta slaves lack the realm of ends: le interrogazioni di Socrate non fanno che risvegliargli ciueste opinioni, che già  si trovavano in lui, e che,  così risvegliate, divengono conoscenze. Così egli conosce senza avere imparato da alcuno, tirando la scienza dal suo proprio fondo Ed egli farà lo stesso per le altre parti della geometria e per tutte le altre scienze. La dottrina della reìnitiiscenza contiene evidenteniente due proposizioni distinte: l'una è hi costatazione di un preteso fatto psicologico che non è  che una generalizzazione illegittima di ciò clie Platone ha osservato nella geometria dello schiavo, no del libero, cioè che lo spirito tira la conoscenza dal suo proprio fondo, o in altri tninini, che la conoscenza è A PRIORI; Valtra la spiegazione di questo fatto, cioè che ranima ha contemplato le Idee in una vita anteriore, e che è perciò che l'intelligenza in questa vita attuale jmò riprodurre  A PPRIORI l'intelligibile. Di queste due proposizioni, noi non dobbiamo per ora fare attenzione che Fedone Meno Menoue Fedone Fedrj ecc. alla prima: della seconda ci occuperemo in seguito, mostrando che la spiegazione platonica è costruita essenzialmente sullo stesso tipo che le altre ipotesi dei tilosotì aprioristi per cui essi hanno cercato di  spiegare questa inverosimile coincidenza  che la loro dottina stabilisce fra il pensiero e la realtà. Una teoria della conoscenza empirista ha per correlativo il metodo induttivo; una te<u'ia della conoscenza ^ipriorista, il metodo deduttivo. Cosi è questo il metodo inculcato da Platone. Si deve, in ogni ricerca, stabilire un principio, e poi farne derivare tutto il resto. Se vi ha bisogno, quindi, di giustiiìcare una proposizione, lo si fa  derivandola da qualche proposizione superiore, e questa ancora da un'altra, e continuare così sinché si arrivi ad un princii^io che ci sembri sufficientemente solido. Ciò che distingue la scienza daWopinione vera, Crai.: In ogni cosa ò sul principio che ciascuno deve portare una lunga attenzione e un lungo esame, per vedere se esso è stato ben posto o no: dopo averlo esaminato  sufficientemente, bisogna che tutto il resto sembri derivarne. Nel Fedone è così che descrive il metodo ch'egli segue dacché ha scoverto la dottrina delle Idee: supponendo sempre il principio ohe mi sembra più VALIDO GRICE LA CONEZIONE DEL VALORE, tutto ciò che mi sembra piùVALIDO GRICE LA CONCEZIONE DEL VALORE, VALIDO TIMIDO -IDO tutto ciò che mi pare essergli coìiforme lo ammetto come vero. e così fo sia ohe si tratti della ricerca delle cause, sia di qual8ia8i altro oggetto; tutto ciò che non gli è conforme lo rigetto come falso. Fedone dopo aver detto che le cose sono belle per ]*Idea del bello, grandi iier l'Idea del grande, ecc.: se dovessi rendere ragione di quest'ipotesi cioè dell'Idea del bello, o del grande, ecc., non lo farai  allo stesso modo, ponendo ancora uu'altra ipotesi, quella che ti parrà più conveniente tra i principii superiori, finché perverrai a qualche cosa di sufficiente? E discutendo del principio cioè della proposizione ultima da è che nella prima abbiamo anche la conoscenza del perchè, della ragione di ciaftcuna proposizione; nella seconda conosciamo la proposizione, ma senza il perchè. Vi ha,  in verità, un altro carattere distintivo, anch'esso importante: è che l'opinione, anche vera, è  sempre incerta ed ondeggiante, mentre la scienza è immutabile. Ma questo secondo carattere non è che una conseguenza del primo. Menone è sorpreso perchè si faccia più caso della scienza che dell'opinione vera, e perchè siano due cose differenti. Socrate risponde: Le opinioni vere, sinché  restano ferme, sono una bella cosa e producono ogni sorta di vantaggi; ma esse non consentono a restare f^rme lungamente e fuggono dall'anima dell'uomo; dimodochè esse non sono d'un gran pregio, a meno che non si leghino per il ragionamento tirato dalla causa. cui le ipotesi saranno state dedotte e delle cose che se ne deducono, non ti guarderai di confondere tutto insieme, come fanno  gU antilogi, se vorrai giungere alla scoverta di alcuno degli esseri? Platone chiama ipotesi una proposizione, anche la più certa, sinché non è stata dedotta. Bep., luoghi che citeremo in seguito. Le ipotesi di cui sì tratta qui' come nei luoghi della Bvpiihhliea sono delle proposizioni che pongono l'esistenza di qualche Idea; così il precetto di Giustificare una proposizione, deducendola  da altre superiori, non si applica qui che a tali proposizioni Platone vuole ohe si deducano da altre ponenti delle Idee superiori gli stessi luoghi della Repubblica. Ma noi abbiamo il dritto di generalizzare questo precetto, perchè, come vedremo, la scienza, nel senso rigoroso del termine, consiste appunto per Platone in un incatenamento di tali proposizioni e i principii da cui esse si  deducono.  Tim. e. Conv., eco.  Tim,  Meno,  ecc. Questo è ciò che sopra abbiamo chiamato reminiscenza. Queste opinioni cosi legate divengono dapprima scienze, e poi stabili. Ecco come la scienza è più preziosa della opinione vera, e con»e essa ne differisce per Fincatenamento». 11 carattere essenziale della scienza è dunque secondo Platone Fincatenamento deduttivo delle  proposizioni. Le parole del luogo citato ci mostrano inoltre il rapporto tra il metodo deduttivo e Papriorismo di Platone. Se la deduzione non è altra cosa che la reminiscenza, siccome questa implica il principio che lo spirito tira la scienza dal suo proprio f(mdo » o in altri termini che la conoscenza è A PRIORI, ne segue, da una parte, che la coooscrjnza A PRIORI di Platone non è che  una conoscenza che si produce per la deduzione pura, e da un'altra parte, che la deduzione platonica è un metodo A PRIORI, vale a dire che il suo punto di ymrtenza non sono delle proposizioni induttive e sperimentali, ma dei principii evidenti per se stessi. Questo risulta del resto da tutte le altre prove dell'apriorismo di Platone. Il metodo platonico non è dunque solamente deduttivo,  ma dimostrativo. Platone, corne tutti i filosofi aprioristi, eleva il metodo geometrico a metodo universale della scienza. Noi abbiamo osservato nel paragrafo precedente che, nel Menone, la dimostrazione geometrica è il dato di fatto, da cui Platone conclude il princìpio generale che la scienza è A PRIORI, e quindi la dottrina della reminiscenza. Una conseguenza e al tempo stesso un  indizio dell'apriorismo è l'importanza capitale, quasi esclusiva, attribuita al metodo. È ciò che si vede in Cartesio GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION, in Meno., luogo citato nel paragr. precedente. Menone Hegel e, in uua parola, in tutti i filosofi aprioristi. Platone non fa eccezione. Egli designa il proprio metodo col nome di dialettica. In un senso lato,  la dialettica è Varte d'interrogare e di rispondere Platone, con tutta la scuola socratica, vede nel dialogo LA CONVERSAZIONE DI GRICE la forma naturale d'investigare la verità – and hamburghers GRICE. In un senso più ristretto, è il metodo per arrivare alla conoscenza delle essenze delle cose, delle Idee. Ma tale è l' importanza del metodo in questo sistema, che la stessa parola dialettica serve ad indicare la scienza degli oggetti stessi su cui versa questo metodo, cioè la scienza del mondo ideale. Un altro carattere che Platone ha in comune con tutti i filosofi radicalmente aprioristi, è che per lui la filosofìa non è una scienza, ma tutta la scienza. La dialettica, egli dice, è la scienza che conosce tutte le altre scienze. Queste non fanno che apprestare i materiali alla  dialettica; è essa che mette in uso le loro scoverte. 11 filosofo ama la sapienza, non in tale o tal altra delle sue parti, ma tutta intera, e non me Oratilo,  Bep. eec.  Verso  hi  fine  dela  Bcp. Platone lamenta gV inconvenienti deUo studio della dialettica quale viene insegnata ai suoi giorni. In questo luogo sono compresi in un concetto comune e designati con gli stessi termini il metodo  proprio dell'autore e l'arte della conversazione o della discussione che insegnano i sofisti come GRICE. Il pensiero stesso è, egli dice, un dialogo o CONVERSAZIONE dell'anima con sé stessa – IMPLICATURE-FREE GRICE, in cui essa s'interroga e si risponde. Teet,  Sof,  liepuhhl.,  Fileho  Bep,  Nel  ^V fista a la dialettica è identificata alla filosofia. FU. Eìitid.  Bep. rita questo  nome se non colui che mostra del gusto per ogni sorta di scienze, clie vi si dà con ardore, e che è insaziabile d' imparare Bisogna dunque che il dialettico abbia un'anima che aspiri, sin dai primi anni, al possesso di tutta la verità, e ad abbracciare nella loro universalità le cose divine ed umane, contemplando tutti i tenii»i e tutti gli esseri; ed è nella sua natura di ricercare le essenze di  tutte le cose, o, per usare la espressione stessa di Platone, Vessenza tutta' intera, senza rinunzi ire ad alcuna delle sue parti. In verità r oggetto della tìlosoMa, o della dialettica, non sono i fenomeni, ma S(»lamente le Idee: ma la scienza non è che delle Idee, dei fenomeni non vi ha che opinione perchè la scienza è dell'universale, e Vuniversale è ridea; così, siccome l'oggetto della filosofia  o della dialettica non è una parte, ma la totalità, del mondo ideale, essa è, malgrado ciò, la scienza universale. Questa universalità della filosofia deriva dall'essenza stessa della metafisica apriorista, della stessji maniera che r importanza attribnita al metodo. Gli altri sistemi metafisici consistono a dare una spiegazione dei fenomeni, introducendo degli agenti ipotetici posti al di là dei  fenomeni stessi; e in questi sistemi, la filosofia non è propriamente che la teoria di questi agenti ipertìsici.e della loro azione sul mondo reale. Ma che un metafisico apriorista trascenda o no  Supplem. suU'imnian. delle Id. plat. P. e. Aristotile identifica la scienza prima con la teologia. Mct. mondo reale, il processo essenziale della metafisica apriorista è, in ogni caso, tutt'altro: il suo  scopo è d'imprimere nel reale stesso il carattere della necessità e della RATIO GRICE razionalità, e il mezzo per raggiungere questo scopo un'elaborazione del sapere empirico per trasformarlo in un sapere A PPRIORI. Così in questa forma di metafisica la filosofia non si distingue dalle altre scienze per un contenuto proprio, ma per la forma, cioè per il metodo scientifico: il suo  contenuto è quello delle altre scienze, che queste hanno prodotto con un metodo empirico, e ohe essa pretende riprodurre con un metodo A PRIORI. All'universalità della conoscenza filosofica questa varietà della metafisica apriorista che presentemente studiamo cioè quella che al metodo a priori o dimostrativo unisce la realizzazione dei concetti aggiunjre costantemente un altro  carattere, cioè la sua sistematicità, il legame intimo introdotto tra tutte le verità. Né anche su questo CoDfr. i luoglii di ScheUiiig e Hegel citati Citiamo anche qui Schelliug: l'idea deUa scienza assoluta, incondizionale, che è assolutamente una, e nella quale ogni scienza è pure necessariamente una, di questa scienza prima, che non si divide in più rami che per corrispondere ai diversi    gradi del mondo ideale visibile, e si sviluppa nell'albero incommensurabile della conoscenza  p. Ogni pensiero che non è stato pensato in questo spirito dell'unità e dell'universalità è in sé vuoto e deve essere rigettato. Ciò che non è suscettibile d’essere compreso armoniosamente in quest'insieme organizzato e vivente è un» sostanza inerte che, secondo le leggi organiche, sarà, presto o tardi, espulsa Lezioni sul metodo degli studii  accademici Ed Hegel: I^ scienza dell'assoluto è necessariamente sistematica. essa deve, in altri termini, formare un insieme di conoscenze legate strettamente fra di loro Una tìlosofia  ohe non riposa sopra una conoscenza sistematica non costituisce una scienza, ma piuttosto una forma, una maniera GRICE MANNER Di DI-MORA -- di sentire indiviì punto Platone fa eccezione: Ogni specie di figura, ogni costituzione di numero, ogni ragione d^armonia e di rivoluzione degli astri, tutte le cose devono manifestare il loro mutuo accordo a chi imparerà secondo il vera metodo, e lo manifesteranno se chi impara guarda all'unità, perchè la riflessione gli scoprirà un legame unico che unisce naturalmente tutte le cose. Non si  può conoscere la natura d'una cosa sola, per esempio dell'anima o del corpo, senza conoscere la natura di tutto l'universo Così, nel suo piano di educazione tracciato nella Repubblica. Platone prescrive che lo studio delle scienze, affinchè non sia un lavoro inutile, pervenga ai loro punti di contatto e alla loro parentela reciproca, e le comprenda nella loro affinità; duale e contingente  quanto al contenuto. Una conoscenza non è giustificata che quando essa è il momento di un tutto, in fuori del quale non è che un'ipotesi o un'opinione soggettiva. Inirod. alV Enciclopedia, Del resto questa unità sistematica, propria della elasse di metafìsici di cui parliamo, più che dalle loro dichiarazioni su ciò ohe deve essere la scienza speculativa, si vede dal modo in cui essi hanno  cercato effettivamente di realizzarla. Rimandiamo anche perciò a quello che abbiamo detto in questo capitolo su Taine e a quello che diremo su Spinoza. Epinom. FU. Ivi, per illustrare il metodo dialettico, è proposta come esempio l'invenzione delle lettere: dopo aver distinte le varie lettere e riunitele in generi, e riuniti questi generi in uno solo come vedremo che fa la dialettica per le  specie di tutti gli esseri, l'inventore delle lettere,. € vedendo che nessuno potrebbe apprenderne una sola separatamente e senza a]»prenderle tutte, ne immagina il legame come unico e faciente di tutte qualche cosa di uno – GRICE: DISTINCTIVE FEATURES IN PHONOLOGY -- ,  e l'arte rispettiva chiama, col nome d'un 'arte unica, grammatica. Fedro Rep, e elle, dopo che sono state  studiate isolataniente, siano presentate nel loro complesso, perchè sia compresa, in una vista d'insieme, l'affinità di queste scienze fra di loro e della natura dell'essere. Questa è la prova migliore per distinguere da ogni altro l'ingegno dialettico; chi è idoneo a una vista d'insieme è dialettico, gli altri no. Il legame di tutte le verità fa che, datane una, noi possiamo, senz'altro, ritrovare tutte  le altre. GRICE: “One problem with this is synchroniciy. My surname, Griss, Anglo-Norman, is pronounced by an Anglo-Norman in such a way that an Anglo-Saxon would not understand him – he would roll the r! Tutta la natura essendo aflìne, e l'anima avendo appreso tutto, niente impedisce che alcuno, ricordando una cosfi sola, ciò che gli uomini chiamano imparare, ritrovi da se  stesso tutte le altre, purché abbia della costanza, e non desista dalla ricerca: ricercare infatti e imparare non è altro che ricordarsi. In altri  termini, tutte le cose essendt) legate fra di loro, il ricordo di una sola può richiamare tutte le altre il passaggio da una conoscenza ad un'altra è identificato all'associazione delle idee, per cui un ricordo suggerisce un altro ricordo. ^la questa reminiscenza  non è, come abbiamo visto, che la deduzione. Così noi comprendiamo in che consista questo leiranu^ naturale che unisce tutte le cose: è un legame loirico. che deve incatenare tutte le conoscenze, deduceudole da un principio unico. Per formarci un'idea più precisa del metodo platonico, cioè della dialettica, noi dobbiamo paragonarlo col metodo matematico. È ciò che fa Platone stesso  nella Repubblica. A questo riguardo noi abbiamo già osservato che (questi, come in generale tutti i metafìsici aprioristi, ha immaginato il suo metodo filosofico sul tipo di quello delle matematiche le sole, tra le siiienzc costituite, che siano puramente deduttive. Una conferma di questa osservazione è che egli vede nello studio delle matematiche una preparazione indispensabile a quello  della dialettica. Esso ne è  \ii propedendea o il preludio: è esso die rende utile, da inutile che era, la facoltà dell'intelligenza; che purifica e rianima l'organo della verità, acciecato e quasi estinto dalle altre occupazioni della vita; che libera l'anima, imprigionata nella caverna dei sensi, e la fa ascendere nella regione superiore; e che la volge, dalle tenebre ov'era immersa, verso la luce  dell'essere e del vero Infatti, l'intelligenza essendo come l'occhio, che non può non vedere quando è rivolto verso la luce, l'importante è di farla volgere verso la verità, di dirigerla bene in modo che guardi là dove bisogna guardare: questa evoluzione, περιαγωγή, -- cf. Grice epagoe, diagoge -- dell'intelligenza è l'opera delle matematiche. Questo rapporto fra la dialettica e le matematiche  è espresso da Senocrate con una frase un po'volgare ma incisiva, chiamando queste i manichi della Jìloso/ia lU. Fra le scienze che costituiscono la propedeutica delhi dialettica, vengono contatta, oltre le mateaiaiiche pure, cioè il calcolo la logistica a la geo Kep. Meli. Men. <*it. nel punip:. prec. ICep,  lil>. liep. Hep, liep. Diog. Liiert. inetria, anche alcuno che possiamo riguardare come  matematiche applicate, cioè l'astronomia e V armonia GRICE WAS A PIANITS COWARD TOO BUT NO CONSECUTIVE FOURTHS. Ma queste scienze hanno valore sopratutto, per Platone, come esercizi ed applicazioni delle matematiche pure; egli vuole che si studino, non tanto per la conoscenza dei fenomeni reali, quanto per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione  di questi fenomeni. Il pensiero di Platone è, al fondo, che solo le matematiche possono svegliare il bisogno della conoscenza filosofica contraddistinta da questi due caratteri: l'universalità e astrattezza dell'oggetto, e il metodo dimostrativo e al tempo stesso darne anticipatamente un modello, quantunque imperfetto. Questa seconda proposizione è tanto vera, che Platone divide l'intelligibile  in due parti, l'una che è l'oggetto della matematica, e l'altra della dialet Bep. questo luogo e la sua interpietazioue nel Suppletn. stili' imman. delle Idee. Evidentemente Platone riguarda lo studio delle mnteuiatiche applicate astronomia e armonia come un accessorio di quello delle matematiche pure geometria e logistica. Così quando vuol dare un'idea generale dei processi delle discipline  che formano la propedeutica della dialettica, egli non descrive che quelli della logistica e, sopratutto, della geometria Hep,; e volendo indicare tutte queste discipline nel loro insieme, non fa espressamente menzione che della sola geometria, o della geometria e della logistica, considerandone le altre C(mie un accompagnamento. Così: la geometria, il cailcolo e simili; la geometria e le  ani sorelle; T abito delle cose geometriche e delle cose simili; la geometria e le arti seguaci; il calcolo, la geometria e tutta la propedeutica della dialettica. Come si vede, la geometria prende il passo sulla logistica: è perchè è la prinui che otfre più spiccato ciò che per Platone è la caratteristica della vera scienza, cioè l'incatenamento deduttivo. tica, e considera la prima come  un'immaginazione della seconda. Noi diremmo ciie il modello è la matematica, e la dialettica l'immagine; ma Platone inverte la relazione. Com'egli chiama le cose immagini delle Idee, che egli ha immaginate sul modello delle cose, così chiama il metodo matematico immagine della dialettica, ch'egli ha immaginata sul modello del metodo matematico. Veniamo ora alle dift'ereuze fra  il metodo matematico e il metodo dialettico. Perciò faremo parlare Platone stesso: KEP. D Socrate: Abbi dunque due specie di oggetti^ il visibile e l'intelligibile. GRICE: SO what I see I don’t understand?  E come prendendo una linea divisa in due parti ineguali, dividi ancora secondo lo stesso rapporto ciascuna di queste due parti, quella del visibile SENSIBILIA e  quella dell'intelligibile,  e giusta la chiarezza e l'oscurità relative, per una delle parti del visibile avrai le immagini. E Chiamo immagini prima le ombre, poi i fau A tasini rappresentati nelle acque e sulla su Bep. Suppl,  £nt. matem., nota. Platone rappresenta la totalità degli oggetti della conoscenza per una linea divisa in due parti, di cui l'una rappresenta la parte piìi chiara e l'altra la parte più oscura di questi oggetti, cioè l'una l'intelligibile e l'altra il visibile – cf. Wells, THE INVISIBLE MAN; e vuole che ciascuna di queste due parti sia suddivisa secondo lo stesso rapporto secondo cui è stata divisa la totalità, cioè in modo che l'una delle due suddivisioni del visibile, e di quelle dell'intelligibile, sia altrettanto più chiara dell'altra quanto tutto l'intelligibile è più chiaro di tutto il visibile. La  suddivisione meno chiara del visibile saranno le immagini. B C perfìcie dei corpi opaclii, lisci e brillanti, e tutte Te altre rappresentazioni di questo genere. Per l'altra parte poni gli oggetti cìie queste immagini rapjiresentauo, cioè gli animali, le piante e tutti i prodotti della natura o del Parte. Se vuoi, <liremo ancora elle la divisione è stata fatta secondo il rapporto del vero e del non vero,  di (piesta numiera: come Vopinabile cioè il visibile è al conoscibile cioè all'intelligibile così Vimmagine è «illa cosa Vediamo (ua come si deve dividere rintelligibile Una parte di esso l'anima è costretta «l'investigare servendosi come <l'imm.igini degli oggetti che già sono stati divisi, e partendo da ipotesi, non per risalire al principio, ma per discendere alla conclusio^le ; 1'altra parte, andando dalle ipotesi al princii)io che non è un'ipotesi, e stMiza servirsi di immagini come fa per la prima,  procedendo unicameiì' te con ldce> per via di Idee (avio'tg eìòeni <h^  avKhy tì]t^ ^iHoihìy lotovutyr^) Tu sai infatti che quelli che trattano la geometrìa, la logistica e altre arti simili, sup]»oiigono il pari e l'imj>ari e le ii.rure e tre specie di angoli e altre cose simili secondo  Vale  a dire la proporzionalità fra le due parti del visibile o dell'intelliccibile, paragouate tra di loro, e il visibile e rintelligibile, parasjonati riino con l'altro, sunsisterà ancora, se invece di paragonare questi oggetti per il grado della loro evidenza^ si paragoneranno per quello della loro realtà: le cose sodo altrettanto più reali delle immagini quanto rintelligibile lo è del visibile. D E A B ciascuna  arte, e che  supposte queste cose come conosciute, non credono dover darne ragione né a sé stessi uè agli altri, come di verità manifeste per t«itti; e che infine, partendo da queste ipotesi, discendono logicamente, di proposizione in proposizione, sino alla conclusione che si erano proposti di dimostrare. Tu sai pure ch'essi si servono di figure visibili, e ragionano sopra di quéste, ma  dirigendo il pensiero, non ad esse, ma a quelle di cui esse sono le immagini, facendo le dimostrazioni, p. e., in grazia del quadrato litesso e della diagonale stessa cioè delle Idee, ^ non del quadrato e della diagonale che essi disegnano, e così per tutte le altre figure, sicché essi usano come d'immagini delle figure che disegnano, e delle quali vi hanno pure le ombre e le immagini nelle acque, cercando di contemplare quelle altre figure che non si possono contemplare che con la ragione r?j  ^la^oia. Io ho chiamato questa una parte dell'intelligibile, ma ho detto che nella sua investigazione 1'anima è costretta a servirsi d'ipotesi, non andando al principio, poiché non può risalire al di là delle sue ipotesi, e a fare uso come d'immagini delle cose  stesse che alla loro volta hanno per immagini altre cose inferiori, in paragone delle quali sono chiamate reali e come tali state classate nella nostra divisione. Per l'altra parte dell'intelligibile io intendo quella che la ragione stessa attinge per la potenza della dialettica, le ipotesi non facendo principii, ma real11 D £ . mente ipotesi, servendosene come di gradini e di punti di appoggio,  sincliè pervenga a ciò che non è un'ipotesi, al principio del tutto {lov  nayzóg^ e attintolo e attaccandosi nuovamente nàhy  av alle cose att.accate ad esso, discende così sino alla conclusione, senza fare uso assolutamente di alcun sensibili», ma solo di Idee, andando a:t  Idee per via di Idee, e terminando ad Idee («Aa'  eìi^eaiy aliolg  ÓL^aviiby  Big  avià^  y.ai  zeUvià  u^  BuSr^. Glaucone. Comprendo, quantunque non abbastanza. Mi pare che tu dica qualche cosa di arduo; ma in somma tu vuoi stabilire che la parte deli'essere e dell'intelligibile che si conosce per la scienza della dialettica, è più evidente di quella che si conose per quelle che chiamiamo arti, che hanno per principii delle ipotesi, e chi contempla i loro oggetti ò costretto  certamente a contemplare con la ragione dtayoia e non coi sensi, ma poiché investiga non risalendo al principio, ma da ipotesi, non ti sembra avere intelligenza yovà^ intorno a questi oggetti, benché col principio diverrebbero intelligibili. La facoltii delle cose geometriche e simili tu la chiami, mi sembra, raziocinazione <Siàvoiay e non intelli(jenza ^où/', come se la rasiocinazione fosse qualche cosa d'intermedio  tra Vopinione e Vintelligenza,'^ Socu. Tu mi hai compreso peifetta mente. Ora a quelle quattro parti di cui abbiamo parlato, applica queste quattro alfezioni dell'anima: Vintelligenza yór^ai^ alla suprema, alla seconda la raziociiiazione, alla terza la fede, e all'ultima Vimmaginazione; ordinandole secondo questo rapporto: quanto gli oggetti a cui si applicano partecipano della verità,  altrettanto esse partecipano dell'evidenza. Kep. «Ninno certamente ci contesterà che il metodo dialettico é il solo che cerchi di pervenire, con un ordine dato vó6} na^ù  ;rarróg, alle essenze di tutte le cose; ma la più parte delle altre arti non si occupano che delle opinioni degli uomini e dei loro bisogni, o delle produzioni e composizioni, o della conservazione delle cose prodotte e  composte; le altre che abbiamo detto imrtecipare in qualche modo C all'essere, cioè la geometria e quelle che la seguono, sognano intorno all'essere, ma é impossibile ad esse di vederlo in veglia, sinché, servendosi d'ipotesi, le lasciano immobili e non possono rendL-rne ragione. Quando infatti vi ha un principio che non si conosce, quand'anche la conclusione e le proposizioni intermedie derivate da ciò che non si conosce siano ben legate fra di loro, come una tale dimostrazione potrebbe formare una scienza? Solo il metodo dialettico procede per questa via, facendo risalire le ipotesi al principio per renderle ferme, e trae a poco a poco l'occhio D dell'anima dal pantano barbarico in cui é Cioè y intelligenza jille Idee, la razioeinazione air iute 111gi1»ile che »i conosce  per le mateiuaticlie. la fede alle cose alla realtà feuomeuale, e Vimmaginazione eiy.adca alle immagini elxóyeg, \  inimerso, e lo eleva nell'alto, serveudosi per ministri ed ainti delle arti di cui abbiamo parlato: le quali spesso, per l'abitudine, abbiamo chiamato scienze, ma abbisognano di un altro nome, più chiaro dell'opinione ma più oscuro della scienza; noi sopra le abbiamo chiamato  rmiocinazione, ma non è  fra noi questione di nomi, occupandoci di cose tanto importanti. Chiamiamo dunque, come sopra^, E la prima porzione scienza^  la seconda raziochiazione, la terza fede e immaginazione la  A quarta; e le due ultime opinione, le due prime intelligenza yóìjdit^: Vopinione intorno al divenire ai fenomeni, Vintelligenza intorna all'essere; e ciò che l'essere è al  divenire, l'/'/itelligenza è aìVopinione, e ciò che l'intelligenza all'opinione, la scienza alla fede e la rasiocinazione tiW immaginazione. Fermiamo le proposizioni più importanti: Vi hanno quattro forme di conoscenza, o meglio dì credenza, corrispondenti a quattro classi di oggetti che possono cadere sotto queste facoltà. Come le quattro classi di oggetti Idee, intelligibili matematici,  cose, imniagini formano una serie discendente secondo il grado della loro realtà, così le quattro forme di conoscenza  intelligenza o scienza, raziocinazione,  fede, immaginazione formano una serie discendente secondo il grado della loro evidenza. L'opinione, il cui grado più alto è chiamato fede e il più basso immaginazione, é, come sappiamo^ una proposizione empirica, cioè non  dimostrata, ma  fonli)  Per la qiiistione cbe cosa bisogoi intendere per la parte dell'intelligibile cbe si conosce con le niateiuaticbe, rimandiamo al  Suppl. Ent. inat., nota tiniile. 1-1 I data sull'induzione o l'analogia. La raziocinazione equivale al metodo motematico, l'intelligenza o Scienza alla dialettica. Sorvoliamo sulla corrispondenza che Platone pretende stabilire fra i termini delle  due serie, la subbiettivae l'obbiettiva -concetto forzato e pieno d'incoerenze, <5  in cui l'autore stesso non ha potuto vedere niente di rigoroso e non facciamo attenzione che ad un punto, cioè che alla dialettica viene attribuita un'evidenza superiore a quella della geometria stessa. L'evideuza della geometria, per cui essa supera le altre conoscenze che Platone chiama opinioni, consistendo  nel suo carattere di  Questa divisione delle forme della conoscenza, o della «redenza, fu ammassa, in sostanza, da Pbitone sino all'ultimo atteggiamento che egli diede alle sue dottrine, che è quello che noi conosciamo per l'esposizione di Aristotile. Essa coincide infatti con quella del De anima, salvo che qui la scienza, ohe nella Repubblica equivale all'intelligenza, occupa invece il  seccmdo grado, corrispondendo alla (fidi^ota della Repubblica, e j'opinicne non viene suddivisa. Invece di ciò si aggiunge un'altra forma, cioè la sensazione, che nella Repubblica manca, perchè la divisione non vi è fatta a un punto di vista psicologico, ma semplicemente logico. Una proposizione generale, anche empirica  e chiamata per conseguenza da Platone un'opinione, dovrebbe  riferirsi alla Idea, perchè il concetto generale secondo Platone ha per oggetto l'Idea Suppl. Tuttavia la sua dottrina costaate è che tutte le proposizioni empiriche, anche le generali, non hanno per oggetto che i fenomeni, il sensibile (vedi ^•wi.59c d,  FiL ,  ecc. L' applicazione deWimmaginazione alle immagini non ha altra base che la relazione fonetica fra le due parole  [sUaaia^  eUcoy)  Del resto un'idea simile si trova anche in Aristotile, che attribuisce wlU fantasia le apparenze illusorie degli oggetti p. e. del sole come pedale De Anima. u I b  Bcieììza  A PRIORI e dimostraiiva, la dialettica dunque è inù perfettauiente A PRIORI e più perfettamente dimostrativa che la stessa geometria. La dialettica è più evidente della matematica, perchè non è, come questa, fondata  sovra ipotesi. Platone  chiama ipotesi una proposizione che si ammette senza darne la dimostrazione benché essa non sia assiomatica. La proposizione più certa, se non è dimostrata e, ripetiamolo, se non è nemmeno assiomatica, non è dunque per lui i^\ieim^ ipotesi non dimentichiamo che per dimostrazione bisogna intendere una deduzione pura, cioè le cui premesse ultime non sono  induttive ed empiriche, ma evidenti per se stesse  Le matematiche sono fondate sovra ipotesi, perchè esse non dimostrano resistenza dei loro oggetti cioè dei numeri, delle figure, ecc. Piatone crede dunque che anche le matematiche pure siano scienze esistenziali: egli non ammetterebbe la tesi che io ho cercato di stabilire nel saggio, cioè che le matematiche si distinguono dalie scienxe fisiche, perchè non hanno per oggetto che dei rapporti di somiglianza, e non affermano niente sulP’esistenza delle cose. Platone pensa invece, come Stewart e MiU, che le matematiche abbiano fra le loro premesse  Noi abbiamo visto ch« anche Hegel ehiauia ipotesi ogni proposizione non dimostrata una conoscenza che non è un momento di un tutto, cioè del sistema, essendo precisamente  per Hegel una proposizione "««/l»";*;^ ta E lo stesso fa in altri luoghi;  p. e. nella Lo</.  . la scienza pone in  principio il dubbio universale, cioè rigetta ogn'ipotesi, e non ammette se non ciò che è dimostrato. Stewart  meni, della fil. dello spirilo umano e MiU Logica,  ecc. Io ho parlato di questa dottrina nel Saggio certe proposizioni affermanti dei fatti fisici, cioè l'esistenza e le proprietà  di certi oggetti, e, come questi filosofi, chiama queste proposizioni delle /j>o/es/. In quanto alle matematiche applicate, non vi ha alcuna diflìcoltà a comprendere perchè  Platone dica che esse si fondano su ipotesi: egli non esprime così che questo fatto evidente, che i dati ultimi su cui (pieste scienze riposano, sono stati trovati per l'osservazione e non per il ragionamento A PRIORI. La  dimostrazione dialettica si distingue duiiqae dalla dimostrazione matematica e questa è la differenza che Platone mette più in vista in ciò che solo la prima è una vera dimostrazione; cioè che solo essa respinge ogn'ipotesi, ogni dato empirico e continf/ente, e non ammette che bielle premesse razionali e necessarie, vale a dire o evidenti per se stesse o dedotte da altre evidenti per se stesse. /:  Ma in un altro senso, ('hiamaudole ipotesi, questi tilosotì vogliono dire che i fatti supposti da queste proposizioni sono, d'una maniera rigorosa, fisicamente irrealizzabili: per essi queste proposizioni nou souo, come per Platone, precarie, perchè sempliceniente empiriche, ma false. Per un verso anzi la loro opini(me è diametralmente opposta a quella di Platone: per loro l'evidenza  speciale delle matematiche è dovuta alla loro ipoteticità; per questi, esse non sono abbastanza evidenti perchè ipotetiche. Per Platoue il carattere ipotetico delle matematiche ntui è che provvisorio: esso appartiene loro necessariamente in quanto scienze limitate; ma la loro «lestiuazione è di venire incorporate nel sistema universale delle conoscenze, costruito dalla dialettica FU,, L\itid.  ,  ii>ÌHom., luoghi citrati, e allora le loro ipotesi cesseranno di esse tali, perchè verranno ricondotte al principio Rep., luogo citato E in eft'etto queste ipotesi nou suppongono, al fondo, che l'esistenza di certe Idee perchè esse non souo delle proposizioni particolari ma universali e la dialettica, come vedremo più chiaramente in seguito, deve dimostrare l'esistenza di tutte le Idee. Tuttavia  anche la dialettica, in un senso, parte da ipotesi. Noi sappiamo che la tilosotìa aprioiista non pretende far senza dell'esperienza, ma trasformare il sapere empirico in razionale, rivestendone il contennto della forma della necessità e dell'A PRIORI. Il punto di partenza del dialetticè dunque necessariamente l'esperienza, per conseguenza le ipotesi, ma queste ipotesi egli si affretta a dedurle  da  altre ipotesi superiori, e queste da altre ancora, e così di seguito, sinché arrivi a delle premesse che non siano più delle ipotesi, cioè, come abbiamo detto, a delle premesse razionali e necessarie. Allora la scienza si è fatta; la conoscenza empirica si è trasformata in conoscenza a PRIORI: e il dialettico può rifare il suo cammino in senso inverso, ritrovando sui suoi passi le sue ipotesi  precedenti, nìa divenute delle verità dimostrate, e salite a quel grado supremo di certezza che è il privilegio delle projmsizioni  necessarie. Vi hanno così nel metodo dialettico due procedimenti, di cui la via è una,  ma di direzioni opposte: l'uno risale dalle ipotesi a ciò che le giustifica, cioè dalle conseguenze ai principii, sino al principio primo è il processo della scienza che si fa, e  corrisponde a ciò che Schelling chiama la filosofia regressiva l'altro discende dal principio primo alle conseguenze è quello della scienza già fatta, e corrisponde alla filosofia progressiva di Schelling. Il primo di questi processi è descritto a, e l'uno e l'altro a. A questi due processi si riferiscono pure i due luocrhi del Fedone citati., il primo al discensivo,  e V altro  aU'asoensivo. Però in  quello il processo discensivo non è descritto nella sua totalità; Platone dice: e supponendo sempre il principio che mi semlu'a più  VALIDO GRICE VALUE  » ecc.; la parola supponendo tnotìtutyo^^  indica che il principio di cui qui si tratta non è il principio primo.  àyvnóOeiog^  della  Repubblica. Il  metodo . Quantun(|ue le proposizioni del matematico si riferiscano, in definitiva,  alle Idee, pure i suoi ragionamenti non volgono, inimediatamente, che sulle cose cioè sopra oggetti particolari e sensibili, che sono come delle immagini per cui le Idee vengono rappresentate. La dialettica, al contrario, n  »n volge, anche immediatamente, che sulle Idee stesse, e in tutto lo svolgimento della sua dimostrazione non entra assolutamente alcun.a  rapx>resentazione sensibile.  Con questa distinzione fra il metodo matematico e il dialettico, Platone esprime due circostanze importanti in cui l'uno differisce dall'altro. Primo: secondo il presupposto platonico che la conoscenza generale si riferisce all'Idea, le proposizioni matematiche devono applicarsi alle Idee al triangolo in sé, al circolo in sé, alla decade in sé, ecc.; ma ciò non distrugge questo fatto d'esperienza, che esse possono anche intendersi, ed è così che sono generalmente intese, come enuncianti dei rapporti tra cose fenomenali. Invece, le proposizioni della dialettica non possono affatto interpretarsi come enuncianti delle relazioni tra fenomeni: ciò è perchè come chiariremo nel numero seguente l'oggetto della dialettica non sono che dei rapporti logici tra le Idee, a cui non corrisponde alcuna relazione simile tra i fenomeni. Secondo: la dimostrazione geometrica comprende due momenti; nel primo, che è la dimostrazione propriamente detta, infatti di cui qui si tratta non è  nn desideralum,  c<mie  nella  Repubblica, ma è il metodo stesso che l'autore ha effettivamente seguito. Ora Platone non ha preteso, come Hegel, di dare il sistema universale e comjileto della  scienza: il  suo metodo egli non l'applica che d'una maniera frammentaria e in ricerche particolari; e nel suoi saggi dialettici, come vedremo in seguito, i suoi punti di partenza sono dei pri:«cipii derivati, che egli non deduce, per conseguenza, delle ipotesi. la proposizione iiou si dimostra eia» della tigura individuale che si ha d'innanzi agli occhi; l'altro èia generalizzazione, l'applicazione  della stessa eonclusioue ad ogni altra figura che può essere enunciata negli stessi termini. Questo processo di generalizzazione non è una vera induzione, perchè se noi applichiamo la conclusione particolare a tutte le altre figure, è semplicemente perchè sappiamo che Io stesso potrebbe dimostrarsi di qualunque di queste altre. Nondimeno, come osserva  Bain, questo ricorso continuo a  figure particolari dà ad una scienza puramente deduttiva, qual è la geometria, l'apparenza di una scienza induttiva e sperimentale. Ma Platone respinge dal metodo dialettico questa stessa apparenza di un metodo induttivo e sperimentale: il dialettico non deve far uso assolutamente di alcun sensibile, ma. come abbiano visto, senza l'aiuto degli occhi uè degli altri sensi, elevarsi alla  conoscenza dell'essere per la sola forza della ragione e della verità. Qui cade a proposito di notare il legame intimo che vi ha, nel pensiero di Platone, tra le sue dottrine logiche e gnoseologiche e la teoria delle Idee. La dialettica, e la scienza, che, nel senso rigoroso, è un suo sinonimo, secondo Platone, non hanno per oggetto che le Logica. Logica delle matematiche, Geometria. All'epoca  di Platone si ricorreva alle figure anche uell'aritim'tica. Lungo tempo ancora dopo Platone, i Greci impiagavano, per le dimostrazioni teoriche, delle linee e delle serie di punti destinate a figurare ai lore occhi i numeri su cui ragionavano Tannory IMucazione  plutonica, nella Rev. Philos. Bep. òli   C.  Eep. Idee Ne segue che tutto ciò che Platone dice sull'apriorità della scienza e il suo  metodo deduttivo, noi dobbiamo applicarlo anzitutto alla scienza delle Idee ed è ad essa, d'altronde, che si applicano, anche immediatamente, la più parte delle proposizioni, relative a questi due oggetti, che noi abbiamo citate?iei paragrafi precedenti. La verità di questa osservazione è anche provata dall'ipotesi metafisica che Platone pone per base al suo apriorismo, e dall'interpretazione  ch'egli dà, conformemenie a quest'ipotesi, del processo deduttivo. Io intendo parlare della dottrina della reminiscenza: questa dottrina consistendo essenzialmente nella supposizione che l'anima ha intuito le Idee in una vita anteriore, non spiega, almeno direttamente, che l'apriorità e il processo deduttivo della scienza delle Idee, vale a dire della dialettica. Le verità che il dialettico deduce  le une dalle altre, non sono, a parlar propriamente, delle proposizioni, ma dei concetti dei concerti obbiettivati, cioè delle I,iee È ciò che risulta da e  ^ovratutto da. Si noti l'espressione 2)r///c/j>/o del tutto [rov  nat^iòz)^ cioè dell'universo, designante la verità primitiva da cui tutte le altre si deducono: questo principio del tutto, e^ videntemente, non ha un'esistenza puramente mentale, ma obbiettiva; non è una semplice proposizione, ma un essere reale. Lo stesso risulta dal Fedone, il principio di cui si parla nel primo di questi luoghi essendo un'Idea come le ipotesi di cui si parla V. oltre i due luoghi di cui ci occupiamo attualmente, TiiH, Parm. FiL Rep. ecc. il num. seg. nel 8ecoudo. Perciò la stessa progressione dialettica, €he Platone descrive come un'ascensione  graduale da un'ipotesi a un'altra ipotesi superiore cioè da una conseguenza a un'altra conseguenza meno remota sino al principio primo che le giustifica tutte, è pure da lui descritta come un'ascensione graduale dalla contemplali Ecco iuteirraluiente il primo luo^o  (cìi cui uel } 9'> nota prima è «tata citata ima parte;: Credetti, dopo essermi stancato nella considerazione delle cose, che io  dovessi guardarmi che mi accadesse come a quelli che guardano un'ecclissi di sole: alcuni in fatti perdono la vista, se non guardano V immagine di quest'astro nell'acqua o in un altro ambiente somigliante. Mi venne in pensiero qualche cosa di simile, e temetti di perdere la vista dell'anima, se io guardassi le cose con gli occhi o cercassi di conoscerle con un altro senso qualunque.  Credetti dunque di dover ricorrere alle ragioni (kóyovg^  che potremmo anche tradurre concetti), e guardare in esse la veritìi delle cose. Ma forse questa similitudine non è interamente giusta, perchè io non accorderei che colui che guarda le cose nelle ragioni guardi nelle immagini piuttosto che colui che le guarda nei fatti. Ma è questa la via per cui mi misi, e supponendo sempre la  ragione UdyoA che mi sembra più valida, tutto ciò che si accorda con essa, pongo come vero e così fo, sia che si tratti di cause, sia di qualsiasi altro oggetto ciò che non si accorda, rigetto come falso. Qui la parola Aó/og significa al tempo stesso concetto e ragione, e si applica alle Idee nell'uno e nell'altro senso: l'Idea infatti non è solamente un concetto realizzato, ma è anche un perche;  le cose avendo il loro perchè nelle idee, e le Idee stesse in altre Idee piit elevate nella scala dialettica. Anche Aristotile chiama Informa Uyo^,  lua questo termine, in quest'applicazione, non può significare, per lui. che concetto. A, invece di ragione, ho tradotto, per più chiarezza, ptnncipio. Per il Fedone 9. no^a  2.zione d'un'Idea a quella di un'altra sino all'Idea ultima da cui tutto si  deduce. Perciò ancora la dialettica ora è rappresentata come un metodo deduttivo puro che deve costituire la scienza universale, e ora come la ricerca dei concetti, o delle essenze, di tutte le cose; e in effetto, percorrendo tutta la s.u'ie dei principi i e delle conseguenze, qualunque sia il termine della serie a cui si fermi, e la direzioni'; ascensiva o discensiva ^ in cui la percorra, il dialettico  non trova altra cosa che dei concetti obbiettivati. La deduzione dialettica va dunque dalla posizione di un'Idea alla posizione di un'altra o di altre Idee, aventi con quella un legame logico necessario: questo legame logico unisce, se si vuole, delle proposizioni, ma purché s'intenda che ciascuna di queste proposizioni non pone che 1'esistenza di qualche Idea» È come nei sistemi di Hegel,  di Schelling, di Spinoza, di Taine, e in una parola di tutti gli altri che, come quello di Platone, aggiungono al metodo A PRIORI la realizzazione dei concetti: in tutti questi sistemi, come in quello di Platone, la deduzione non volge propriamente su delle proposizioni, ma su dei concetti realizzati. Si vede pure dagli stessi luoghi che la deduzione dialettica va da Idee a Idee per via di Idee: in altri termini tutti gli anelli della catena deduttiva sono delle Idee, e il passaggio dall'Idea precedente alla Idea conseguente dalhi premessa alla conseguenza è una deduzione immediata. Il yovg che corrisponde alla dialettica si distingue dunque dalla (hàt^oia (deduzione Bep. il principio del secondo tratto riportato, Fed., ecc.; e confronta ciò che  diremo sulla  definizione e il suo  rapporto con la dieresi. ordiDaria o metodo luateniatieo per quest'altro carattere, cioè die il primo è iu certo modo intuitivo, tauto percbè conosce immediatamente i rapporti logici tra le verità, quanto perchè, queste verità essendo degli oggetti reali, il pensiero si limita, nel processo conoscitivo, a riprodurre le cose stesse, col loro ordine e la loro connessione. La seconda al contrario è  </mpr«/ra, perchè le sue verità, cioè i rapporti tra le cose che costituiscono il contenuto delle sue proposizioni, non le conosce immediatamente, e il pas-^aggio stesso da una verità ad un'altra non si fa che per rintermediario di una dimostrazione. Questa differenza tra le due forme di conoscenza è indicata dalla stessa relazione dei termini che le denotano: dtàyoux  in contrapposto a  yovz  ci dice abbastanza che vi ha nelF una una mediatezza che non «siste nell'altro. Anche Aristotile, la cui lingua filosofica deriva, per tanti rispetti, da quello di Platone, chiama yov^  la conoscenza dei priucipii, che è immediata, e la semplice apprensicme dei concetti, ciò clie <!orrisponde pure peifettamente al significato platoiìico, l'intelligen/.a o dialettica ]datonica non eseicndo che la semplice apprensione dei concetti obbiettivati come abbiamo detto, nell'ordine e la connessione stessa che esistono fra di essi. Il dialettico va dunque da una Idea ad un'altra senza bisogno di una dimostrazione proli) Ordo et canne vio idearum idem est ne ardo et connexio rermn. Questa iiumediatezza o iutuitività del yov^ platonico è stata notata auche da Leibuitz. LEIBNIZ CITATO DA GRICE COME L’INVENTORE DELLA DISTINZIONE TRA L’ANALITICO E IL SINTETTICO. Non male platonieis  quatuor in niente coguitiones agnoseimtui', Sensus, Opinio, Scientia, Intellectns; nempe Experimenta, Coniecturae, Denioustratio et pura Intellectio, quae oeritntis nextiin tino vienlis ictn pereipit t> Epist. ad ffanschiiim. De phil. platon. HI, priamente  detta    le Idee si dimostrano per la  h)ro semplice successione: egli non impiega assiomi, non interpone, fra le verità ch'egli dimostra, delle proposizioni introdotte in grazia della dimostrazione stessa, ma progredisce continuamente da un essere reale a un altro essere reale, senza interrompere mai questo progresso del pensiero, mescolando, come dice Spinoza, ciò che è soltanto nell'intelligenza  con ciò che e nella realtà. Il dialettico, in una parola, non ragiona, ma vedere in effetto la conoscenza dialettica, se non è nel senso proprio xxw'' intuizione intellettuale perchè questo termine esprime la presenza immediata dell'essere al pensiero, che Platone non ammette, è la riproduzione o il risveglio di un'/wtuisione intellettnale; noi sjippiamo infatti che 1'anima ha intuito 11 Idee in  una vita anteriore, e che la scienza attuale è una reminiscenza. Anche questa intuitività Spinoza De iniellcctus emendalione. uy. La spiegazione della scienza per la reminiscenza di un'intuizione anteriore delle Id e prova al tempo stesso l'uno e l'altro dei due punti che abbiamo stabilito in questo numero; cioè che nella dimostrazione dialettica le verità che si deduc<Mio e quelle da cui si  deducono sono delle Idee, e che il passaggio da un'Idea ad un'altra è una deduzione immediata. Infatti il carattere essenziale della scienza essendo l'iucatcnamento logico, cioè deduttivo, delle verità, segue da questa spiejjazione che l'anima ha auche intuito quest'incateuamento logico e Platone ammette esplicitamente questa conseguenza quando identifica la reminiscenza e la deduzione Meno Ma l'anima non ha intuito dello proposizioni ideile verità puramente astratte, ma degli esseri reali cioè delle astrazicmi, ma realizzate; dunque quest'inoateuìimente logico essa non ha potuto intuirlo che tra esseri reali, e non tra proposizioni. Di più, se quest' incateuameuto logico ha potuto essere oggetto d'intuizione, tra le Idee logicamente incatenate la o immediatezza della  deduzione è una nota comune di questa varietà della filosofia apriorista caratterizzata dalla realizzazione dei concetti. Nel capitolo precedente noi abbiamo parlato della classazione di Spinoza delle forme della conoscenza; abbiamo visto che la forma più alta è la conoscenza intuitiva, che deduce, per una deduzione immediata, gli effetti dalle cause, a partire dalla causa prima, che non  deduce, ma apprende immediatamente; e abbiamo notato che queste cause e questi effetti sono delle astrazioni realizzate,  come  le Iconnessione deve essere innnediata, deve vedersi, per dir così, a colpo d'occhio; in altri termini il passaggio logict) da un'Idea ad un'altra deve essere una deduzione immediata. Se per fare questa deduzione fosse necessario V intervento di altri principii o  concetti intermediarii che non fossero delle Idee, siccome questi non hanno potuto essere intuiti perchè il solo oggetto dell'intuizione è stato il reale, cioè le Idee, nemmeno rincatenamento o connessione logica fra le Idee avrebbe ])otuto essere intuita. Noi potremmo aggiunijere che questa immediatezza risulta anche per un altro verso dall'assimilazione deUa deduzione alla reminiscenza:  quest'assimilazione suppone ohe la conseguenza segue il principio come un ricordo segue un altro ricordo; dunque nel primo caso, come nel secondo, la sequenza avviene immediatamente, e non per l'intermediario di un ragionamento. Noi osserveremo, del resto, che le due proposizioni stabilite in questo numero, cioè  che la dimostrazione dialettica non consiste .die a dedurre delle  Idee da altro Idee, e ohe questa deduzione è immediata, non ne fanno in realtà che una sola: è che le premesse e le conseguenze, in questa dimostrazione, non sono ohe delle Idee, o, per parlare più generalmente, dei concetti realizzati; proposizione che non è altro che quella di Spinoza « che l'ordine e la connessione dei pensieri sono identicici all'ordine e alla connessione delle cose.  177 dee platoniche. In Megel, il pas.sjijL'-io da anidra ad un'altra è accompagnato da una di ìn(»sl razione; ma v evidente, con tutto ciò, che per lui niridea è sufficientemente dimostrata dalla sua posizione stessr, al posto e al momento che le compete neirevojiizionc dell'Idea assoluta. È una conseguenza della dottrina dvW unità dello sviluppo logico e <lello sviluppo ontologico, e di quella dell'identità dell'essere e del j)ensiero. Lo stesso deve dirsi di Schelling che anch'egli anjuìette, in sostanza, questi due principii di Hegel La filosofia è jmt lui ww'' intuizione Intellettuale', la vera dimostrazione èia costruzione, e costruire una cosa è mostrarla nelTassoluto, indicare il grado o il momento del suo sviluppo a cui essa corrisponde. Ciò che abbiamo detto in (pu\sto nuinen» sarà confermato nel seguiti», esponenth» altri punti della dottrina platonica. Le Idee non si deducono tutte immediatamente dal primo principi*», nui la deduzicme è graduale: dall'Idea [primitiva altre Itlee, da queste altre ancoia, e così di seguito Insieme a questo carattere <lel meto<lo dialettico, cioè la moltiplicità dei gradi o dei passaggi della iiedu/ione, noi dobbiamo indicarne  un altro: è 1'ordine  La classazione delle forme della conoscenza di Spinoza è dunque identica, in sostanza, a quella di Piatene; esse non ditferiscono clic in uu punto secondario, cioè la suddivisione dell'o/zfnione,  11 metodo hetreliauo, dice VERA (vedasi), pone i termini dimo«traudoli, e li dimostra ponendoli Introd, alla Logica di Hegtì  Willm Storpia (iella filos. a lem, da Kant uino  ad Hegel f, . (A) \\ U-c, 12 regoliui' con cui si seguoin» ì concetti. Che bisogna intendere per quest'ordine? f]  nna disposizione simmetrica delle ld<*e, una legge generale della loio successione, come la tricotomia hegeliana tesi, antitesi e sintesi? Noi ci limitiamo per ora a congetturarlo. FI seguito mostrerà che questa congettura è fondata, e che il platonismo si contorma [)ienamente  a  (pu\st 'altra esigenza del rcalisììio  dialettico, che è la sistematUità che potremmo chiamare obbiettiva, cioè Vunità nella moltiplicità dei passaggi logici, un ritmo, una legge comune che li regola, e che è comerimmagine, nelle successioni del mondo delle Idee, <li <]uest'ordinft  e t|uesta regolarità che osserviamo nelle successioni del mondo dei fen<mieni. Notiamo a parte, intine, un  altro carattere generale del realismo (halettivo, v]w non è, come vedremo a suo luogo, che lina conseguenza della sifiteìnattcità^ cioè l'unità di principio. Le Idee si deducono tutte, immediatamente o mediatamente, da un principio unico, che è anch'esso, naturalmente, un'Idea. Noi abbiamo già incontrato questa proposizione in un luogo citato del Menone, in cui si dice che, in virtù del  legame di tutte le cose e della reminiscenza, noi [)ossiamo, ricordata una cosa sola, ritrovale da noi stessi tutte le altre. Siccome questa reminiscenza è la deduzione, e le cose dedotte e ipiella da cni si deducono non sono, per conseguenza, che delle Idee perchè, come abbiamo notati, questa è la sola deduzione che la reminiscenza possa spiegare, la proposizione del Menone ha (piesto  significato, che data hìì'Idea, noi possiamo da essa dedurre tutte le altre. È una esigenza evidente dei presupposti logici e gnoseologici di Platone che quest'Idea primitiva ii;ia stabilita a priori: senza di ciò la conoscenza non sarebbe A PRIORI, (piesf Idea sarebbe uuUpotcsi^ e la deduzione dialettica non sarebbe una dimostrazione.  1/  idea primitiva da cui tutte le altre si deducono, è  l'Idea del Bene o del Buono, zov àyaHov questa Idea è naturalmente, come tutte le altre, l'attributo omonimo delle cose realizzato, cioè considerato come esìsteute per sé stesso e come uno e lo stesso, letteralmente, in tutti gli oggetti a cui si attribuisce. Ecco ciò che lo prova: Tutto ciò che è intelligibile lo è per l'Idea del Bene. L'intelligenza è come la visione. Se alla vista e al visibile  non si aggiungesse la luce, né la vista vedrebbe, né il visibile sarebbe veduto; e fra tutti gli astri non vi ha che il sole, la cui luce faccia vedere chiaramente gli oggetti. Ora ciò che il sole è nel mondo visibile, rapporto alla vista e agli oggetti visibili, l'Idea del Bene è nel mondo intelligibile, rapporto all'intelligenza e agli oggetti intelligibili. L'Idea del Bene è ciò che dà la luce a tutte cose;  è per quest'Idea che gli oggetti conoscibili sono conosciuti; essa è la causa della scienza e della verità come conosciuta dalla ragione, fornendo la verità agli oggetti conosciuti e dando al conoscente la potenza di conoscere. A, evidentemente continuando la similitudine col sole, l'Idea del Bene è chiamata il più chiaro dell'essere Il significato di «pieste proposizioni è sidegato  suftìcientemente da ciò che segue il primo dei luoghi citati. Vi ha un principio primo del conoscere da cui deriva  Kep. luogo che riporteremo nel  uiim. seg. il  $  pree. ogDÌ verità;  avere Vintetligensa o, ciò che è lo stesso, la scienza^ d'uuacosa, è poterla dimostrare^  e dimostrarla è dedurla da questo principio primo; esso è evidente immediatamente, le altre verità non sono evidenti  che per esso. Questo principio primo del conoscere, evidente immediatamente, e per cui tutte le altre verità sono evidenti, è l'Idea del Bene. Il principio del tutto di cui nei luoghi del precedente paragrafo, è la stessa cosa che l'Idea del Bene, e 1'ascensione graduale da ipotesi in ipotesi sino al principio del tutto, è un'ascensione graduale da Idea in Idea sino all'Idea del Bene.  11 libro  della Repubblica comincia con un'allegoria, con cui Platone rappresenta il progresso dello spirito nella conoscenza. Egli immagina dei prigionieri rincliiusi sin da bambini in un antro sotterraneo, con la faccia sempre rivolta a una stessa parte, e senz'altra luce che quella che viene da un fuoco acceso a una certa distanza, in alto, dietro di loro. Di loro stessi e degli oggetti che passano al  di fuori, questi prigionieri non vedranno altra cosa che le ombre che si disegnano nel lato della caverna esposto ai loro sguardi; gli oggetti reali, per loro, Baranno «lueste ombre; e tutta la loro scienza si ridurrà a discernere acutamente le ombre che passano, e a ricordarsi l'ordine con cui sogliono passare, le loro sequenze abituali, le loro concomitanze. Che si sciolga qualcuno di questi  i)rigionieri, e si faccia ascendere nella regione superiore I egli dovrà abituarsi gradualmente alla vista degli oggetti reali, per non restare abbìigliato dalla soverchia luce. E prima discernerà facilmente le ombre e le immagini nelle acque degli mmiini e degli altri es liejj. seri; f)oi questi esseri stessi; in seguito di notte potrà guardare le stelle e la luna; ed è intìne che potrà contemi)laie il  sole stesso, e vederlo quale è. Dopo ciò, ragionando intorno a quest'astro, concluderà che è esso che produce le stagioni e gli anni, che tutto governa nel mondo visibile, e che è la causa in certo modo delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna. Il senso di quest'allegoria ci è spiegato dall'autore stesso. Il prigioniero nella caverna è lo spirito circoscritto tra i dati dell'intuizitme sensibile;  la liberazione, la conversione verso 1'intelligibile (n€()fay(oyrj) per lo studio delle matematiche; le ouibre e le immagini nelle ac<iue, gl'intelligibili matematici; la vista graduale degli oggetti reali, prima degli animali, poi delle stelle e della luna, e intìne del sole, è la progressione dialettica da Idea in Idea sino all'Idea del Bene. « Ultima iielF intelligibile è l'Idea del Bene, e appena può  vedersi, ma vedutala, si conclude che essa è la causa di tutto ciò che è retto e bello, che nel visibile genera la luce e il sovrano della luce cioè il sole, e neirintelligibilc, essa sovrana, fornisce la verità e l'intelligenza. Piima ha già detto che come il sole dà agli oggetti visibili, non solo la visibilità, ma anche la produzione e il nutrimento, così  l'Idea del Bene dà agli oggetti intelligibili, non  solo riutellibibilità, ma anche tessere e l'essenza. L'Idea del Bene è il principio delhi spiegazione uni  r»ll  a TìK» versale delle cose. ADassfigora lia compreso che l'intelligenza è la causa di tutte cose dottrina conforme a quella dell'autore sull'anima del mondo, ma egli non ha visto la conseguenza del suo principio, cioè che essa ha dovuto tutto disporre nel miglior modo possibile, e  quindi, se alcuno vuol trovare la causa dell'esistere di ciascuna cosa, o del suo nascere o perire o un'altra modificazione qualsiasi, bisogna ch'egli trovi come l'ottimo per ciascuna cosa sia di esistere o di agire o di patire d'una maniera tale. È così che Anassagora avrebbe dovuto spiegare le cause delle cose: per esempio dicendo se la terra è piana o rotonda, egli avrebbe dovuto farne  vedere la causa e la necessità, mostrando ciò che è l'ottimo PARETO GRICE OPTIMAL, e che l'ottimo è che essa sia tale; e dicendo che la terra è posta nel centro dell'universo, mostrare che l'ottimo è che essa sia nel rientro; e similmente per il sole, la luna e gli altri astri, le loro velocitji relative, le loro rivoluzioni e tutti gli altri loro fenomeni, egli avrebbe dovuto mostrare come 1'ottima sia che ciascuno di essi agisca e patisca come fa. In una parola a tutte queste cose egli non avrebbe dovuto assegnare altra causa se non questa, che 1'ottimo PARETO GRICE è che esse siano come effettivamente sono. La causa di ciascuna cosa è l'ottimo PARETO GRICE per  questa cosa; la causa comune di tutte, il bene comune a tutte. Invece di ciò, Anassagora non mette innanzi altre cause che l'aria, l'etere^ l'acqua e altre cose ugualmente assurde; egli fa come se alcuno, volendo spiegare le azioni di una  i)erRona, non Fedone \)7  l.- M. V, parlasse che di ossa, di muscoli e di nervi, negligendo la vera causa, che è la scelta deirottimo. Kgli, con tutti gli  altri fisici, danno il nome di causa a ciò che non lo inerita, confondendo (india cli<^ è veramente causa con ciò senza di cui la causa ncm produìiebbe il suo effetto. Essi non ammettono altre cause che meccaniche; « e la potenza per cui le <M)se sono disposte nel miglior modo in cui potevano esserlo, uè ricercano, nò stintano che vi sia in essa qualche forza divina; ma credono di aver  trovato un Atlante più foite di questo, più immortale e più capace' di contenere Tuniverso, e non ijensano che è il buono e ccmveniente che collega e contiene tutte le cose. (jui il principi!» del Bene è pres<Mitato come una conseguenza del teismo, e non come una necessità primordiale, come nella TJe[Mibblica: ma, come in questa, tutto deve dedursi da questo principio Spiegar*»,  infatti, non è che dedurre. E in effetto la spiegazione del Fedone,  (/Me,v/o  c'.s'/>/e  perchè  è }/ attimo^ implica la proposizione generale che» viù che esiste è l^otfimo, a qiu^.sta  projK>sizione può logicamente convertirsi in quest'altra: CIÒ cAc è Vottiwo csiaic.Wix da questa premessii noi possiamo dedurre l'esistenza tli  <*iascuna cosa reale, prendendo c,ome altra premessa la  ragiom^ per cui nel Fedone questa esistenza viene spiegata, cioè che esfia è r ottimo. Ora la proposizione ciò che è Tottimo eniste ^ equivale perfettamente alla posizione dell'Idea dell'Ottimo o, ciò che è lo stesso, del Bene, p(Mchè, conu^ spi(»gheremo in seguit<», la dialettica platcmica. i»onendo lui concetto, intende porlo in tutta Testensione di cui esso è logicamente suscettibile.  11 meceaiiismo della ileduzione, in questo caso, è quello stesso che PIat<nH*  desciive in se HS  . V. SII  questi»  liu>j5t» Suppl. fiiiiriium. delK* 1«1«m'. Vili. ' ^iiito, nel  hii»<;o del Fedone stesso che noi abbiiiino riI»oi({ito  liei  i^*  0 nota n." -t:  posto un concetto in questo cas  ), quello dell’ottimo, aniniett»ere come vero ciò che è eonfoiuie ad esso, rigettare come falso ciò che  non lo è. L'interprete trascendentalista ohbietterà che qui non si tratta delFIdea del liene, ma del bene attributo comune delle cose stesse: ma l'Idea del Bene ncni è che l'attiibuto comune delle cose, che Platone riguarda, \um come una seni [d ice astrazione, ma come ima reità; e d'altronde, nel tratto che abbiamo posto tra virgolette, cbiamando il bene una potenza che dispone le cose nel miglior modo possibile e in cui risiede una forza divina, e un Atlante che contiene Funi verso, egli lo considera espriissjimente come un'entità sussistente [»er se stessa, cioè come un'Idea. Tutte le Idee e tutte le cose si assorbiscono nell'Idea suprema, che è così ì'unO'-tutto.K ciò che si vede dal seguente luogo (l'Aristotile: E ciò ehe sembra facile, il dimostrine che tutto è uno, non riesce;  poiché dalVastnaìoìK'  {>/;  i/Miau) non risulta che tutte sose sono una, ma ne lisulta semplicemente qualche cosa in sé qualche Idea una »  ilm^^V usi razione a cui allude Aristotile,è rcqu'razione dello spirito che noi chiamianìo con questo nome, con la differenza che per noi, o piuttosto pei concettualisti, il risultato di qiuesta operazione è nn semplice conretto, per Platone era un concetto obbiettivato. Come per un ]nimo process<»  di  f(*'^rf/c/ow<?, applicato agli oggetti sensibili, si ottenevano le Ide(^ più vicine alTindi|1) MvJ. OoiiiV. il roiiiineiito a qucstu hiotio di Alt\ss;uiihn «li Aliodisia. e vi-di anche per Ì'E'/Mtaiz  Mei, ecr. CoiilV. imre per quc.stt» liiojst»  il  Siq»ploiiieiitn sniriimii. delle Idee platoiiielie. siilbi fine. viduale, cioè di una compreìtsione  massima, così per un'r/strasìouc ulteriore e progressiva, applicata alle Idee stesse, si ottenevano altre Idee di una comprensione mano mano decrescente, cioè sempre più astratte, sinché si giungevaalPldea più astratta di tutte, che secondo l'esposizione di d'Aristotile era quella dell'Essere o dell'ano. Ma secondo quest'esposizione stessa l'Idea dell'Es.sereo dell'Uno era identica a quella  del Bene. Così quest'astrazione suprema in cui il tutto è uno, non è altra cosa che l'Idea del Bene. Quest'Idea è Vuno-ttUto, perchè e il principio di cui tutte le altre Idee sono le conseguenze, e le conseguenze sono implicitamente cont4?nute nel princi|)io. Questo monismo logico che non bisogna confondere col panteismo, perchè un'entità astratta come il  Bene di Platone o l'Assoluto di  Schelling non potrebbe chiamarsi Dio che per metafora si trova anche in Schelling, in Spinoza, in Taine, e più o meno in tutti i realisti dialettici, secondo il grado maggiore o minore di somiglianza che la loro pretesa deduzione ha con la sola deduzione che ammetta la logica in cui la conclusione è un caso particolare del princi|iio generale che ta da piemessa. Qual è, in questo monismo, il ra[q>orto delle cose derivate col prin €Ìpiof  Dire che tutto vi è virtualmente ccmtenuto come in un germe, e che ne esce per una specie di svilupj)o o di esplicazione, non è che una semplice espressicme rappresentativa. Il realismo dialettico consiste nell' <dd»iettivazione, non solo dei concetti, nìa ancora dei rapporti logici fra questi concetti; per conseguenza, per indicare il rapporto in  <|UÌ.stione, noi non abbiamo che un'espressione ade(|uata: le altre cose scmo nel principio e derivano da  (piesto, come le conseguenze» sono nelle premesse e derivano da  (lueste. Nella forma della filosotia platonica, che noi possiamo chiamare il platonismo puro, e che è quella che noi troviamo nelle opere dell'autore e di cui facciamo l'è sposizione, cjuesto monismo è rigoroso. Ma uella forma die ci la troiioscere Aristotile, la quale appjirtieiie all'ultimo periodo della speculazioni di Platone, ed è, come vedremo in un Supplemento, un sincretismo tra i concetti propri a questo filosofo e quelli dei Pitagorici, a questo monismo rigoroso succede una specie di <lualisnio. Le Idee e le cose, in  (piesta seconda forma, vengono da due principii, l'Uno o l'Essere, che è identificato al Bene, e la Materia. La dif!erenza penV è meno protbnda di quanto potrebbe sembrare sulle prime, perchè, come spiegheremo in seguito, il vero principio, quello da cui le Idee propriamente si deducono, non è che il primo; solamente la Materia è riguardata come indipendente da esso ed egualmente primordiale. Ma ciò che importa qui di segnalare in questa dottrina è  <*.he i due principi vengono riguardati come gli elementi di cui tutte le Idee e tutte le cose sono costituite. Questo implica evidentemente che, in questa seconda forma del platonismo, tutto il reale viene assorbito nei due principii, come nella fiUMua primitiva lo era nell'uno <li essi. Ciò è tanto vero che Aristotile fa ripetutamente alla dottrina dei due elementi l'obbiezione che non  ])otranno esistere che gli elementi soli, e niente altro di piò; e che, secondo un'indicazione di Teofrasto, vi erano dei platonici, i quali atfernuivano che la verità e l'essere stanno tutti nei due principii. E appena bisogno di osservare che, se i due il) V. per l'identità tra 1' riio o Essere  v il  ììvììv.  Mei., A7/i. Kufl. ero. V. su ipiesta  «l<»ttnii:i  ilei due elementi il Suppl. sul pitagorisnid  plutonico. Mei. iMO, Mei. ])rincipii costituiscono tutta la realtà, e sono come la sostanza di cui tutte le Idee e tutte le cose sono fatte, è perchè essi sono dei principii nel senso logico, cioè dei concetti in cui tutti gli altri sono im])licitamente contenuti, perchè possono dediir.^ene. La dottrina che i due elementi sono i principii da cui tutto si deduce, si trova in Aristotile anche d'una maniera  esplicita. La conoscenza di una cosa qualun(iue (intendiamoci,  una  conoscenza  scientifica)  presuppone quella dei due elementi. Come si potranno imparare gli elementi di tutte h^ cose? È evidente infatti che anteriormente non si potrebbe conoscere nulla. Di piò la conoscenza dei due elementi ci dà, indipendentemente dalla esperienza, la c<uioscenza di tutte le cose. «E  gli oggetti sensibili come potrebbero conoscersi senz'averne la sensazione? Eppure sarebbe necessario, se quelli itavra) sono gli elementi di tutte le cose, da cui queste risultano come le voci composta cioè le sillabe dai loro propri elementi dalle lettere. Altrove Aristotile parag<ma il modo in cui le cose derivano dai due» principii a quello in cui le conclusioni derivano dalle premesse.  Se i principii <levono essere universali, an<*he le cose che ne derivano dovranno essere universali, come nelle dimostrazioni. Per quc'sto sij^ni tirato logico della parola eleinrnU  (aTtt/yfja) iniplii'ante rideii che essi sono dei principii di deduzione, couIronta Aristotile Mei. <« si dicouo elemenli delle diinoHtrazioui le prime dimostrazioni e che si contengono nella più p«rt« delle  altre»), e  si dicouo elenienli «Ielle ligure quelle le cui dimostrazioni si «'ontengono nelle diuiostrsizioni di tutte le altre o della più parte j^   Mei. ' k^M^lèa L'Idea del Bene non è solo il princìjiio logico prìncipium cognoscenfìi delle altre Idee, ma ne è anelie il principio ontologico priiuiplum essendi  Tn pensi senza dubbio come me che il sole d.à  agli oggetti visibili, non solo la potenza  di esser visti, ma anche la generazione e Taccrescimento e la nutrizione. Così tu puoi dire che gli oggetti conoscibili, non solo devono al Bene l'esser conosciuti, magli devono ancora l'essere e 1'essenza. 11 prigioniero liberato dalla caverna, nella sua ascensione nella regione visibile, dopo aver guardato il sole, conclude che è esso che produce le stagioni e gli anni, che tutt^ governa nel mondo visibile, e che è la causa delle cose stesse ch'egli vedeva nella caverna. Così lo spirito, nella sua ascensione nella regione intelligibile, dopo aver contemplato V idea del Bene, conclude che essa è la causa di tutto ciò che è retto e bello, che è la sovrana del mondo intelligibile, e che è essa stessa che genera il sole e la luce e noi possiamo aggiungere, per completare il parallelismo tra l'immagine e il suo significato tutto ciò che egli percepisce nel mondo visibile perchè, come il sole rappresenta l'Idea del Bene, così le ombre della caverna rappresentano gli oggetti visibili. Il Bene è chiamato il padre del sole. Questa identità tra il principium essendi e il principhnn (ofinoscendi è pure implicata nell'espressione il principio dell'universo per designare la premessa ultinta da cui tutte le altre Idee si deducono. Alla causalità del Bene si allude anche nella stessa Re|)ubblica, in cui si dice che Oio ha pi'odotto va liep. iuralmenie l'Idea del letto e ogni altra Idea. Siccome Pia. tone non conosce altro Dio, nel senso proprio, che l'anima del mondo, e questa non può produrre che ciò che ha un cominciaraento nel tempo; e d'altra parte i termini Dio e divino sono da lui spesso applicati ai principii delle cose, cioè  }i Ile Idee; così qui per Dio noi doobiamo intendere l'Idea suprema, che è il principio di tutte le altre. Intatti e il produttore delle Idee è chiamato il re, come il Bene Nel Fedone Timpiego della parola causa non può provare la causalità del Bene: dicendo che la causa dell'esistere e del modo di esistere di una cosa è che ciò è l'ottimo PARETO GRICE METIER DESTINAZIONE per essa, non se ne assegna la causa efficiente, ma semplicemente la raf/ione. Ma in fine del luogo in cui il Bene è chiamato un Atlante che sostiene l'universo, e la potenza per cui le cose sono disposte nel miglior modo possibile e in cui risiede una forza divina, Platone gli attribuisce senza dubbio, non solo la sostanzialità, come abbiamo osservato nel r)aragrafb precedente, ma anche l'efficienza. 11 concetto della causalità universale dell'Idea de! Bene si ritrova nell'esposizione d'Aristotile, benché inviluppato nelle dottrine pitagoreggianti. Il Bene della liepubblica è chiamato l'Uno o l'Essere, ed  è dato Suppl. 11 pitagorismo nel Timeo, Teet. Parm. Tim^  Sof,  Fedo.  FU, Conv. Bep., ecc. Senocrate chiaiuava Dei  l'Uno cioò il Beue e la Dualità indefinita la Materia; 1* Uno il primo Dio e il padro de^li Dei, la Materia la madre (Stol». Ed. phys,. Si veda pure ciò che diremo sul Demiurijo del Tiìneo in questo «tesRo  $ e nel Suppl. come riiiio  dei  dwi^rineipii delle Idee e delle cose, l'altro essendo la Materia, che, al punto di vista della dottrina dei numeri, si chiama anche la Dualità indefinita abbiamo i^ìii notato che questo dualismo appartiene a una tase posteriore della speculazione platonica, il cui carattere essenziale è una fusione dei concetti proprii del plat<misnio eoa quelli dei Pitagorici Principio in Aristotile è sinonismo di c«j(8a-e d'altronde FUno e la Materia non sono chiamati solamente i principii, ma anche le cause; così i principii delle Idee e delle cose significa: le condizioni che determinano resistenza delle Idee e delle cose e il modo di quest'esistenza. Tuttavia, siccome Aristotile chianui principii e cause anche gli elementi concettuali da cui le cose sono costituite, cioè la forma e la materia; e d'altra parte i due principii platonici sono detti anche gli chmcnti.vY\\\\i^  Vessenza di tutte le Idee, l'altro la materia: se ne potrei die inferire che la parola  principii in (piesto caso non esprime alcun'efficienza, e indica semplicemente gli elementi concettuali e siccome Phitone e un realista, anche reali, da cui le Idee e le cose sono costituite. E certamente i due principii platonici sono gli elementi da cui le Idee e le cose sono costituite: ma ciò non esclude la hm>  efficienza, implica  solainen:>e  ch'essi sono delle cause immanenti. L'Uno e la Materia sono i due concetti più astratti che si ritrovano nel contenuto di tutti gli altri concetti realizzati che Platone chiama Idee; in altri termini, in tutte le altre Idee vi ha la panisia dell'Uno e Met. ecc. Met. Met. eco. della Materia. Ma ciò non basta per chiamare il  inimo Vessensa, e tutti e due gli elementi, delle altre Idee, ne per chiamameli i principii; perchè essi non sono che la porzione comune del contenuto delle altre Idee, e a lato di questa vi ha inoltre la porzione propria e differenziale. Come abbiamo osservato nel paragrafo precedente, chiamando le due astrazioni supreme gli elementi di tutto il reale, Platone ammette che tutto il reale si risolve in queste due astrazioni, ciò che egli può tare perchè secondo lui esse contengono implicitamente tutte le altre Idee, come i principii nel senso logico le loro conseffuenze. Similmente, chiamando l'Uno 1'essenza di tutte le Idee, Piatone ammette che le essenze di tutte le Idee si risolvono in quest'essenza unica, perchè oltre che non ne sono che delle determinazi(mi o delle specificazioni, come vedrenu»  nel jmragr., essa le contiene tutte implicitamente, essendo il principio di cui (pielle sono le conse</wen^e. Nell'uno e nell'altro caso noi non abbiamo, al fondo, che la supposizione di un nesso logico fra le due porzioni del contenuto delle Idee, la comune e ìs. ììropria. Ora, come il nome di elementi dato alle due entità più astratte, e ciucilo, dato all'una di esse, di essenza di tutte; le Idee, suppone che la seconda di cpieste due porzioni derivi logicamente dalla prima, così il nome di principii suppone che essa ne derivi ontolor/i' cannente: se così non fosse, le due entità non  determinerebbero le Idee nella loro esistenza e nel loro juodo di essere, e non potrebbero esserne chiamate i principii e le cause. Nel sistema di Platone come in tutti gli altri costruiti sullo stesso tipo • che G. chiama realismo dialettico  vi ha fia le diverse astrazioni realizzate (in  lin  Conf. pree. lingiia liegeliana, fra i diversi iiionienti del sistema, nel tenipo stesso die un rapporto di differenza^ un ra[> porto (Videntità è questo il gran paradosso di tali sistemi, che in Hegel arriva alla negazione del luincipio di contraddizione. Quando Platone dice die tutto è uno o, ciò die vale lo stesso, che TUno o il Hene è Tessenza di tutte le Idee, egli si mette al putito di vista dell'/dentità; ma «piando «lice che ne è la causa o il prwcìpiOj  si mette invece necessariumente al punto di vista della differenza. Così noi troviamo in Aristotile, per indicare il rapporto fra l'Uno e le Idee, due formule diverse, ai>parentemente esclusive Vuna <leir altra, ma che non sono che due espressicmi differenti di una stessa dottrina: secondo l'una, l'Uno è Vessenza di tutte le Tdee; secondo l'altra, è la causa alle Idee della loro essenza, o di ciò che esse sono. La seconda formula coincide evidentemente con le prop()sizi<mi  della Repubblica di cui al cominciamento del paragrafo, salvo la dualità di principii, di cui nella Repubblica non vi ha alcuna traccia. Nella dottrina dei numeri nella quale le Idee vengono identitìcate con questi il rapporto tra i principii e le cose derivate  è rapppresen tato come una (jenerazione, I numeri e le cose sono (jenerati dall'Uno e dalla Materia. Delle altre formule con cui la derivazione delle Idee e delle cose dai due primi principii viene espressa neir esposizione d'Aristotile, ci riserbiamo di parlare in un altro paragrafo. Qui dobbiamo ancora indicare la cosmogonia Mei, ecc. Met. Met. , ^ail.   S),  ecc. del Timeo, in cui hi dottrina  dei due fuindpii è espicssa in forma simbolica: la Materia o Dualità indefinita vi e rappresentata da una massa informe agitata da un movimento disordinato, e l'Uno o Hene da un Demiurgo che v'introduce l'ordine e v'impiinìe delle torme e ddFe speeie definite. Ndl'allegoria dd Timeo il princi])ì(» veramente attivo, efficiente, è quello che rappresenta l'Idea <lel Bene: ciò è perchè  l'esigenza delia dialettica <li  Platone è, come vedremo in seguito, Vunità di priudpio, sia al punto di vista Unjico, sia al punto di Vista ontolof,ico: così  r^gli non attribuisca proj^riamenf^^ la funzione di causa prima, altrettanto che quella di premessa ultima da cui le Idee si deducono, che all'uno dei due principii, conservando in qualche guisa, nello stesso dualismo ch'egli tiene dai  Pitagorici, il nioni>smo primitivo ddla Repubblica. Andie ndl'esposizione <l'Aristotile il principio per eccellenza è quello die corrisponde all'Idea del Rene: così PUno è chiamato spesso il principio (/,   ài^xrj), come se Platone non ammettesm che un principio unico, ed è rappresentato come il principio attivo, in contrapposto alla Materia che sarebbe un principio passivo, comequando,  nelle cosmogtmie dei fisici  Siippl. e. // pitagorismo nel Timeo, Così (^rautore, interpretando il Timeo, dice che Platone rappresenta il mondo come generato (quantunque secondo lui sia eterno), in quanto non esiste per se stesso, ma deriva da altra causa Mullach. Fr.  S oltre i luoghi indicati nelle tre note seguenti  Met, Met, e dei teologi, trova il suo coniRpoiideute nella causa movente e foniiatrice p. e. il Nous d'Anassagora, o. nella generazione «lei numeri, lo paragona al padre, mentit? la Materia eorrisp<mderel)be alla madre. La vera funzione dei due prineipii, del resto, non può essere compresa eliiaramente che dopo Tesposizione completa della dialettica platonica. Ora (piai è il come di questa causazione che Platone attribuisce aiiridea tlel Bene? Quest'Idea, non  dimentichiamolo, non è altro ehe 1'attributi» comune delle cose che noi chiamianio buone, supposto esistente per se stesso, ed inw e  ^>  stesso in tutti gli oggetti a cui viene attribuito. Per concepire il mo(h> della sua efticienza, noi dobbiamo dun«|ue mettere <la parte qualsiasi rappresentazione che assimili quest'eftlcienza a (pielladi un agente ]>eisonale, qnalunqnesia la forma  in cui  possiamo immaginarla: quando Platone chiama il Bene Dio, egli non fa che una metafora per significare ch'esso è la causa primitiva e universale Da un'altra piute l'enmnazione, Firradiazione e tutte le altre immagini  <*he i neo-platonici prendevano dalla natura inanimata, non sono più accettabili che <|uelle che può suggerire l'identificazione del Bene a un Dio personale Ncm vi ha in  Platone alcuna traccia di rappresentazioni simili; e d'altromle tutte cpieste  ij>otesi  Siirebbero super MrL  Mei. É una ruppiesentazione che rimouta senza (lnl>l»io sino a Platone. 11 Bene nella Uepubblioa è detto. come aì)bianio visto. il padre del sole; così pure il Demiurgo, nel Timeo, il padre del mondo e dogli l>ei {IHm.  ecc.. Confi*. Plutarco Pskofjeiiia «Zarata, maestro di Pitagora, «liiamò la Dualità indefinita la madre dei numeri, e 1'Unità il padre. e ciò cbe abbiamo detto su Serocrate nella nota fine, perchè ciò che sappiamo della dialettica platonica contiene già una risimsta alla nostra quistione. Le Idee sono dei concetti realizzati, tra cui si pretende stabilire un nesso logico, quello che vi ha tra le premesse  e le conseguenze nel ragionamento deduttivo.  L'Idea del Bene è la premessa prima e assiomatica da cui tutte le altre si dedncono; essa è il princiino di cui  queste sono le conseguenze. ISe (piesto nesso logico non fosse che tra proi>osizioni o anche tra semplici concetti, esso non sarebbe che logico; ma essendo tra concetti realizzati, non è sohiniente logico, ma è anche ontologico. Se il principio è, la conseguenza è: supposto che  «piesto principio e qnesta conseguenza sono delle entità reali, cioè che vi hanno delle entità reali che stanno fra di loro nel rapporto di priucipio e conseguenza, ciò vuol dire che, data l'entità principio, è  <lata anche Pentita conseguenza, in altri termini, che l'esistenza dell'una trascina con sé l'esistenza dell'altra, ciò che costituisc-e  fra le due entità nn vero rapporto causale, o almeno  (luel rapporto analogo che i testi ci autorizzano a<l ammettere che  Plat<5ne stabilisce tia il Hene e le altie Id^^e. Tra il priììcipium co(jnoscendi e il princip'ìnm essendi, tra il uesso logico e il nesso ontologico, non vi hu duuque semplicemente coincidenza, ma identità: vi ha un nesso unico che è al temiK> stesso logico e ontologico, che noi chiamiamo logico al punto di vista subbiettivo,  cioè rispetto al nostro pensiero die deduce le Idee, e <*1ie al ])unto di vista obbiettivo, cioè considerando le Idee in s:^  stesse, chiamiamo ontologico. Questa identità tra il legame logico e l'ontologico è indicata chiaramente da Platone (juando, per designare la funzione logica del Hene, il suo posto di primo principio nella deduzione, lo chiama il principio dell'universo: questa  denomiuazioae sarebbe inopportuna, se la deduzione non fosse per lui una derivazione reale, in altri termiui, se il rapporto tra il principio e le conseguenze non equivalesse al rapporto tra la eausa e gli effetti. Forse il termine causazione non è il più proprio a designare questa derivazione delle entità conseguenze dalla entità principio: essa differisce da una causazione almeno in questo  punto, che la causa e l'effetto sono due cose distinte e separate, mentre l'entità principio inesifite nelle entità conseguenze, essendo una porzione la porzione comune del loro contenuto. È perciò che nei sistemi moderni analoghi al platonismo al termine causazione si è preferito quello di sviluppo: questo secondo termine è il più proprio a significare questo passaggio dall'implicito  all'esplicito, questo rapporto d'identità, nel tempo stesso che di differenza, fra l'antecedente e il conseguente, che risulta dalla trasformazione del nesso logico in un nesso ontologico. Tuttavia esso ha bisogno di essere chiarito, aggiungendo che lo sviluppo di cui si tratta è uno sviluppo necessario, ciò che è al fondo un ritorno all'idea di causalità, che è la sola successione che noi  concepiamo come necessaria. Un altro chiarimento indispensabile è che in questo sviluppo la successione non è cronologica, ma logica: essa significa che i termini posteriori hanno bisogno, per essere stabiliti, dei termini anteriori, mentre gli anteriori non hanno bisogno dei posteriori. Noi vedremo in uno dei paragrafi seguenti che questa successione logica che è anche ontologica,  perchè 1'obbiettivazione dei concetti porta con sé, come abbiamo osservato, l'obbiettivazione dei loro rapporti logici è chiamata, nel sistema platonico, come poi in altri sistemi analoghi, anteriorità e posteriorità di natura. Come abbiamo spiegato, la dialettica platonica è una serie continua di deduzioni, tale che la conseguenza della deduzione antecedente diviene il principio di una  deduzione susseguente, e che in questa catena di principii e conseguenze ciascun anello è, non una proposizione, ma un concetto realizzato, un'Idea. Ma risulta dal parag. precedente che il nesso logico tra le Idee è anche ]>er Platone un nesso ontologico. Ne segue che la dialettica platonica è anche un incatenamento continuo di cause e di eft'etti, in cni ciascun effetto èia causa di un  ettetto ulteriore, sinché la catena sia completa, queste cause e questi effetti essendo, non delle cose che si seguono nel tempo, ma delle cose eterne tra di cui la successione non è che logica  E infatti noi abbiamo nettato che quando, descrivendo il metodo di dedurre le Idee, Platone chiama 1'Idea ultima da cui tutte le altre si deducono «il principio dell'universo», egli riguarda evidentemente questa deduzione come una derivazione reale. Ora questa deduzione è a gradi multipli il dialettico, attinto il principio dell'universo, si attacca a ciò che è attaccato ad esso, e discende così sino alla conclusione, andando ad Idee per via d'Idee, e terminando ad Idee. Dunque anche la derivazione è a gradi multipli, e come la premessa ultima da cui tutta la serie si deduce è il principio primo nel senso ontologico rap[)orto a tutta la serie, così le ])reniesse particolari sono dei principii secondi e derivjiti rapporto alle Idee particolari che se ne deducono. Una conferma di questa interpretazione si ha nel Menone, in cui si dice che le opinioni divengono conoscenze scientifiche, quando sono legate per il ragionamento tirate» dalla causa, {aluag  Anyia^oì) Questo legame è il legame deduttivo che  incatena tutto lo scibile, e le cose che esso lega sono, non delle proposizioni, ma delle Idee. Infatti Socrate soggiunge: questa è la reminiscenza di cui sopra abbiamo parlato, e la reminiscenza è il ricordo dell'intuizione delle Idee uota Così il rafjìonamento tirato dalla causa sigli itìca: la deduzione di un' Idea da un'altra Idea che ne è la cauna. Tuttavia potrebbe credersi che questo luogo  non abbia la portata che uoi gli attribuiamo, perchè la parola aitia significa spesso in Platone, non la causa efficiente, ma serapliceniente la ragione. Delle prove più concludenti troviamo in Aristotile, ma esse non possono essere comprese che dopo un'esposizione completa del metodo dialettico. Noi le rimandiamo perciò ad un alti'o paragrafo, e pei ora ci limiteremo ad aggiungere  alcune osservazioni d'indole generale. La prima è che in tutti i sistemi in cui, come in quello di Platone, vi ha la realizzazione dei concetti unita al metodo deduttivo, vi ha pure 1'identità dello sviluppo logico con lo sviluppo omtologico. È ciò che abbiamo osservato pei sistemi di Hegel, di Schelling, di Taine, e che osserveremo in seguito per quello di Spinoza. In alcuni di «piesti sistemi  la derivazione delle Tdee è chiamata nno sviluppo, in altri come abbiamo visto nel sistema di Taini^,  e come vedremo in quello di Spinoza è data apertanu^nte per una causazione, egualmente che nel sistema platonico. L'argomento tirato da quest'analogia diviene più fort;e, se si jiensa che le particolarità del metodo deduttivo seguito in questi sistemi cioè che la deduzione è una  dhnostrasione, che essa è immediata, che i principii e conseguenze sono n<Hì  delle proposizioni ma dei concetti realizzati (ivOi  ^ ^ J^ltre di cui abbiamo parlato sono comuni anche a Platone, ed esse tendono tutte ciò che per alcune è evidente, e per le altre spiegheremo in seguito ad assimilare sempre più il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e l'elletto.  Queste analogie non si spiegano che por l'impressione comune che questi sistemi tendono a produrre, che è la realizzazione dell'idea di causalità effìciente per la trasformazicme del nesso logico, introdotto fra i concetti, in un nesso ontologico. Un'altra osservazione che conduce per un'altra via allo stesso risultato, è che l'origine d<»lla dottrina delle Idee non può trovarsi altrove che  nella ricerca delle cause efficienti. In generale un'ii»otesi metatisica nasce dall'una o dall'altra di queste due quistionì: (|uali sono le cause efficienti 1 qual è la cosa in se di (piest'apparenza che chiamiamo materia? Le Idee non possono essere una soluzione del problema della cosa in se: 4|uesto problenia non esiste per Platone; egli è un realisla uaturate, come «piasi tutti i filosofi della    sua e])Oca. Per conseguenza l'ipotesi delle Idee non ha psituto avere il suo punto di partenza che* nel [U'obhMua delle cause efficienti. E lo stesso Piatirne «iichiara che è cosi. Nel Fedone egli ci racconta come sia pervenuto alla dottrina delle Idee e della dialettica. Da giovane si era dato con ardore allo studio della fisica, bramoso di conosc(Me le cause di tutte le cose, perchè ciascuna:  cosa nascr*, perchè perisce, perchè esiste. Ma questo studio, lungi di fargli cimoscere il perchè dtille cose, gli rese incomprensibili i fatti stessi che prima gli parevano 'più chiari. Lesse con lo stesso ardore ì libri mI' Anassagora, piacendogli la sua dottrina che Vintelligenza è la causa di tutto; ma non vi trovò, come sperava, una spiegazione teleologica dell'universo. Vide invece che  Assagora fa come gli altri tìsici, •i quali non ammettono che cause meccaniche, scfuhbiando per la vera causa ciò che non è che la condizione senza di cui essa non produrrebbe il suo effetto. Per a|q>rendere (piale fosse questa causa si sarebbe fatto volentieri il discepolo di chicchessia; ma non avendo potuto uè ini parali j da altri uè trovarlo da se  stesso, si mise per un'altra via alla  ricrerca d(4la causa. Pensa che bisogna guardare le cose non in se stesse, iiiji iK*i Ioni  '/.óyot^  paileDclo sempre dal  h'tyn^ cìie gli seniln-asse il iiic<;!:lio stabilito, e declucendone tutto il resto  a~ nota iniiiia  e nota ]ninìa). La specie di causa die escogitò è quella di cui non cessa mai di parlare, l'Idea del bene, del bello, del grande e di ogni altra cosa. E d'allora alla quistione quale sia  la causii d'una cosa o d'un suo attributo, egli non dà che questa risposta assai semplice, che è l'Idea della cosa o dell'attributo; e se deve dare ragione di quest'ipotesi, lo fa deducendola da un'ipotesi 8U])eriore, e cos'i di seguito, sincbè pervenga a un principio che basti a sé, stesso. nota  Nella Repubblica la conoscenza ein[Mrica è distinta dalla vera scienza, in quanto ha per oggetto, non  dei veri rapporti causali, ma delle semplici sequenze invariabili: tutta la scienza del prigioniero nella caverna si riduce a sapere come le ombre sogliono seguirsi e accom])agnarsì; ciò che implica che Platone ha il concetto d'una causazione jnù vera che quella che egli trova nel mondo delle cose, e che non ha potuto trovare che nelle Idee e nella dialettica. Alle dichiarazioni <li Platone  dobbiamo aggiungere la testimonianza di Senocrate, il quale detìnisce la filosofia che per un platonico non piu> essere altia cosai che la dialettica € la scienza delle cause jn'ime e dell'essenza intelligibile y>  (l;, e qu<*lla d'Aristotile, che cominciii il capitolo in cui fa la critica del sistema delle Idee, osstM-vando che i partigiani di questo sistema vi furono condotti dalla ricerca delle  cause. MuUacli Fraiiiiii.  Mrt. Ora in (jual modo le Idee possono fornire una spieiì:azione causale delle cose? Fcuse in quanto un'Idea è la causa delle cose omonime'!^  in quanto, p. e., le cose belle sono tali per la presenza o la partecipazione del Bello, le cose grandi pei quella del Grande, eccJ  Comunque s'interpreti il rapporto tra le Idee e le core, è evidente che questa non è una  spiegazione. 8e  ammettiamo, come vogliono la più parte degl'interpreti, che le Idee siano fuori delle cose, tutto il rapporto tra le Idee e le cose è che quelle sono i modelli e queste le copie: ma resistenza dei modelli non spiega menomamente 1'esistenza delle copie. Ciò è sì evidente che gPinterpreti trascendentalisti sono stati costretti ad ammettere che la dottrina delle Idee non ha per  iscopo di spiegare le cose, ma di rendere possibile la conoscenza. Se invece le Idee sono, come noi crediamo, nelle cose stesse cioè se un'Idea non è che Fattributo omonimo delle cose, supposto esistente per se stesso, ed uno e lo stenao in tutti gli oggetti a cui viene attribuito certamente l'esistenza delle Idee porta necessariamente con se l'esistenza, nelle cose, degli attributi omonimi.  Ma è questa una spiegazione? È spiegare le cose dire che esse hanno un certo attributo per la presenza o la partecipazione di -iiuest'attributo, considerato come una realtà e ncm conie lina semplice astrazione? È una di quelle spiegazioni che Bain chiama illusorie, e che c<msistono a ripetere in altri l^ermini il fatto stesso che si tratta di spiegare nel nostro easo, il fatto è tradotto dalla  lingua ordinaria in quella della filosofia realista: una spiegazione perfettamente simile a quella del medico di Molière, che 1'oppio fa donnire perchè ha la virtù dormitiva; in uua parola non una  V, per qiiest opinione il  Sappi. spiegazione, ma iiua pura tautologia. Qualunque sia tlunque il modo d'interpretare le Idee, che esse siana immanenti o trascendenti, varrà sempre [ler questa jjarte la critica d'Aristotile, eh'esse sono un inutile raddoppiamento degli esseri, e che Platone iia fatto com(» aK cuno che, volendo contare un certo nuniero di oggetti, per riuscirvi più facilmente, ne aggiungesse degli altri. Noi non abbiamo, per cimseguenza, la scelta che fra due ipotesi: o le Idee non hanno alcuna reale ethcienza né alcun vah)re reale cernie principii esplicativi, o se li hanno, noi dobbiamo cercarli, non nel loro rapporto con le cost^ ma nei loro rapporti fra di loro, cioè nella dialettica. Ciò vuol dire che Platone ha voluto spiegare, non le esistenze particolari, ma:e forme generali di <|ueste esisteuze  spiegare significa mostrare il modo in cui le cose si producono, e la sua spiegazione consiste in ciò, ch'egli deduce queste forme le une dalle altre, a partire da un  primo principio assiomatico, e le riguarda come esistenti per se stesse, affinchè questji deduzione sia al tempo stesso una produzione reale. È solo a questa condizione che la dottrina delle Idee è una dottrina lilosofica. Noi osserveremo infine che 1'identilà dello svilupfio logico con l'ontologico è suppost4i dall'inseimrabilità  che ]*latone stabilisce fra la scienza o la dialettica e le Idee. È una sua dottrina costante che la dialettica non ha \ìer oggetto che le Idee, e cosi puie la scienza. Ciò non è, come potrebbs credersi, perchè il «concetto generale si riferisce all'Idea: infatti, come vediamo nel Timeo e nel  Filebo, egli dà per ogg<*tto alle  V. /*/. r)7 e   Tiil  d,  ò'o/.   a. Hejj. a . eoe. Jiep. («>  il . l>  a. ecc. ricerche fisiche, quantunque evidentemente esse si  riferiscano al generale e non al particolare, non le Idee j ma i semplici fenomeni. La dialettica, invece di dedurre le Idee stesse, potrebbe dedurre i generi e le specie delle cose che le Idee rappresentano: ma in questo caso la deduzione non sarebbe una derivazione reale,  perchè, come abbiamo più volte osservato e come  spiegheremo più chiaramente in seguito, è la sostantifìcazione –GRICE SUBJECTIFICATION o CATEGORY SHIFT cfr TRANSUBSTANTIATION dei concetti che trasforma il nesso logico fra di loro in un nesso ontologico. Ora la deduzione per Platone deve essero una derivazione reale senza di che essa non sarebbe una spiegazione: ecco perchè la scienza, il cui carattere essenziale è il metodo deduttivo, e la dialettica, che non è che un altro nome per  significare questo metodo, non possono avere secondo lui  altro oggetto che i concetti sostantitìcati. Questo ci fa comprendere pure un argomento del Parmenide per istabilire l'esistenza delle Idee, cioè che se non si ammettessero ciueste, si distruggerebbe la dialettica; e unakro, che non ne è che una variante, del Timeo, in cui l'esistenza delle Idee si fa dipendere dalla difì'erenza fra la  scienza e l'opinione vera, cioè, al fondo, dalPesistenza «tessa della scienza. In un senso si ha ragione di dire che la dottrina delle Idee ha per iscopo di rendere la scienza possibile. Le Idee, senza la dialettica, non avrebbero alcun valore, ma questa senza di quelle sarebl>e un semplice metodo subbiettivo, e non, come è per Platone, la rappresentazione del processo stesso per cui le cose  si producono; quindi le Idee non hanno altro scopo che di rendere la dialettica possibile. Per la trasformazione delle veritji generali in esseri generali, l'incatenamento deduttivo divenendo un'incateuamento causale y la scienza si trova costituita, perchè essa è, come dita poi Aristotile, la conoscenza della causa. Noi abbiamo esposto sin qui  salvo un  sol punto,  <5Ìoè  rassegnazione del  posto di primo principio all'Idea del Bene i caratteri della dialettica platonica che essa ha comuni con gli altri sistemi costruiti sullo stesso tip<», <ihe noi chiamiamo realismo dialettico: ci restano ad e^porne i caratteri propri e distintivi. Quest'ordine a cui ci conformiamo, per quanto ci è possibile, nella nostra esposizione, ci è consigliato dalla natura stessa del soggetto La deduzione di  Platone, di Hegel e di rutta questa famiglia di metafìsici non è niente affatto una deduzione nel senso ordinario e vero di questo termine; e ciò per questa ragione assai semplice, che il vero metodo deduttivo, quello che la logica (udinaria chiama così, non si presterebbe all'applicazione che, nei loro sistemi, pretendono fare di questo metodo. È evidente che questi filosofi, poi metodi  particolari ch'essi hanno immaginato, si sforzano di imitare, per (juanto è possibile, ciò che la logica chiama il metodo deduttivo: tutta la forza e il valore dei loro sistemi è in quest'apparenza <ìi deduzione, di cui sono obbligati a contentarsi, in difetto di una deduzione reale. Ma le loro imitazioni si pensi p. e. alla deduzione di Hegel, sono sì difformi dal loro modello, che sarebbe  impossibile di comprendere lo scopo e il significato di questi metodi, se non si sapesse prima  (piai è l'ideale di metodo ch'essi cercano di realizzare, approssimativamente e alhmtanandosene in sensi differenti. Ecco il perchè dell'ordine che ci siamo tracciati nell'esposizione del metodo platonico. La stessa eccezione che siamo stati obbligati di fare alla regola che ci siamo proposta perchè senza di ciò non avremmo potuto stabilire gli allri punti della dottrina che abbiamo trattati è appena se è un'eccezione. Tutto ciò, infatti, che abbiamo detto del primo principio di Platone salvo questo nome: il bene, c<m  le suggestioni che esso implica potrebbe convenire ugualmente all’assioma eterno di Taine, o alla Sostanza di Spinoza, o all'Assoluto di Schelling. Noi non  sappiamo altro sin qui se non che il concetto primitivo da cui tutti gli altri si deducono, è chiamato da Platone l'Idea del Rene: ma. qua! è precisamente il contenuto di questo concetto? e (piale la sua relazione con gli altri concetti? È da questi due punti che cominceremo il resto della nostra esposizione. La relazione dell'Idea del  ]5ene con tutte le altre è quella del genere con le specie:  ogni Idea, e per conseguenza, ogni cosa è una determinazione o una forma particolare del bene (rò  «/«.'/ó//, che varrebbe forse meglio tradurre: IL BUONO – Grice: “Excellent point! I wish we had such liability in OUR vernacular – BONVM CICERONE. Così secondo la Repubblica il dialettico definisce 1'Idea del Bene, astraendola (à(ùeh(^y) da tutte le altre; secondo il Filebo ogni essenza è nella classe del bene; secondo il Fedone ciò che esiste è sempre l'ottimo PARETO GRICE, e il bene h^^a  Q contiene tutte le cose; secondo il Timeo tutto ciò che è fatto secondo un modello eterno cioè secondo una Idea è bello il bello per Platone è, come diremo in seguito, identico al bene, e il Demiurgo, nella creazione dell'universo, volle che ogni cosa fosse buona, per  quanto era possibile, e costruì il bene in tutto ciò^ che fu generato Delle prove ancora più concludenti troviamo in Aristotile. Noi abbiamo già visto che il primo principio platonico che Aristotile chiama  abitualmente l'Uno o l'Essere GRICE MULTIPLICITY OF BEING, e che identifìca al Bene è 1'essenza comune di tutte le Idee, e l'astrazione suprema in cui tutto si unifica. A queste  indicazioni aggiungeremo  queste altre  V. per quest'espressione e le altre analoghe di cui Platone si serve per indicare l'astrazione, Suppl. Coint» abbiamo osservato la tendenza del rea* per coiupreiulere la ciji portata iiou si deve dimenticare che l'Uno o Essere deiresposizione aristotelica non è altra cosa €he il Bene della Repubblica: L'Uno è 1'sló'oz e \a  forma di tutti i numeri cioè di  tutte le Idee, e questi sono con esso nello stesso rapporto clie le specie col genere. L'identità dell'Uno col Bene e dei numeri con le Idee ha per conseguenza che tutte le Idee e tutte le cose sono, seccmdo Platone, dei beni. L'Uno o l'Essere è l'Idea più universale: essa non è Kemplicemente un universale, ma un genere; è il prim<t genere^ cioè il genere sonnno, che SI PREDICA GRICE BOEZIO di tutte le  cose e in cui tutte le cDse sono contenute. Notiamo, infine, Targomento con cui si dimostra l'esistenza del Non Essere GRICE NEGATION AND PRIVATION WIGGINS,  che, se non esistesse questo, tutti gli esseri si ridurrebbero ad un solo, l'Essere stesso: esso  sup[K>ne che il contenuto d'ogn'Idea consti di due parti, la comune o generiCii, che è l'Essere, e la  propria e distiativa^ che non essendo l'Essere, può essere  compresa sotto il concetto generale del Non Essere. Del resto è si ovvio che Platone abbia ammesso l'universalità assoluta dell'Idea dell'Essere, che lisnio dialettico: i risolvere il tutto uel primo priucii)io deve renlizzarsi d'una maniera più completa in un sistema, in cui, cimie in quello di Platone, il primo principio è al tempo  stesso il concetto più generale nel quale tutti gli altri sono compresi. AfeL  Mei. 3[et. Met.,  ecc.   Mei. Mei. 3Iet,,  ecc. Mei. noi avremmo potuto su questo punto dispensarci di qualsiasi prova, limitandoci a ricordare il punto realmente importante, cioè l'identità fra quest'Idea e quella del Bene. Ora <|ual è il signilicato o, come abbiamo detto, il contenuto dell'Idea del Bene? di quest'Idea  che Platone identifica con quella dell'Essere, peichè vi vede il piano o il tipo generale secondo cui tutti gli esseri sono costituiti? Elevando il concetto del bene o, piuttosto, del m buono a tipo universale, Platone vuol dire evidentemente: che tutte le opere della natura sono ben fatte, che da per tutto domina il principio delle cause finali, e che 1'universo dev'essere spiegato teleologicamente. Così Aristotile fa corrispendere il Bene platonico alla Nel periodo pitagoreggiante, in cui al mtnisitio h sostituito il dualismo^ Velemento materiale è altrettanto univorsak*. e della stessa maniera, che l 'elemento esaemiale. Per più  anq>i sviluppi su questo punte» rinviamo al Suppl. e al  Suppl. (Ine clementi: e intanto citiamo: Platone Sof.  universalità assiduta del No)i Essere che,  come vedremo, non è altro che la Materia dell'esposizizionc aristotelica  e sua inerenza, come attributo, in tutte le Specie, Aristotile Phys. il Grande e Piccolo, cioè la Dualità indefinita, contiene tutti i sensibili e tutti gl'intelligibili. Mei, i platonici sembrano servirsi dell'Uno o Essere e del Grande e Piccolo come di generi, gli elementi sono i massimamente universali e l'elemento  materiale essendo identico al male, tutti gli esseri devono partecipare al male si noti che nella lingua platonica la partecipazione di un'Idea è hi sua inerenza quale attributo. Nel terzo dei luoghi citati Aristotile dice sembrano, perchè. quautun<iue il principio materiale abbia lo stesso dritto ad assere riguardato come genere, pure Platone non considera come tale e quindi anche cmue Idea  che il principio essenziale. 8iia causa fiuale, al rò oi'J  'ty^xx . Vi ha però fra i due collidetti questa differenza, clie il bene di  Platone non può significare IL FINE METIER POINT PURPOSE DESTINAZIONE PIANO FINE DI PAINO PER CUI UNA COSA HUMAN HUMANISE TIGERS TIGERISE ESISTE, come il rò ov tPBxa di Aristotile, perché in questo caso non sarebbe  l'essenza stessa della cosa. Piuttosto che il fine stesso, esso indica dunque l'appropriazione delhi cosa a «piesto fine: in altri termini, ogni cosa è buona, per Platone, in quanto è APPROPRIATA A UN CERTO SCOPO – A GOOD CABBAGE, A GOOD KING, e questa proprietà geuerale delle cose di avere degli scopi ed esservi appropriate, considerata in astratto e sostantificata, si  chiama l'Idea del Bene. Il miglior commentario della dottrina sul Hene è il suo legame col concetto di una mente ordinatrice. Noi abbiamo visto come nel Fedone la proposizione che tutto è il meglio possibile, è presentata come una conseguenza Mei. È perciò che Aristotile uega che Phitoiie uhbhi aiumestitt^ nel senso proprio, la ciuisa iiuale. Mvt., Da (luesto luogo e «lall'altro citato  nella nota precedente (in cui dice che le Idee non hanno niente a fare con la causa, finale, quantunque Platone ahhia fatto di questa uno dei due principii fti h concluso ohe secondo Aristotile il suo maestro ha omesso il principio delle cause finali. La verità è che Aristotile atterma non che egli ha omesso questo principio, cioè la dottrina che vi hanno dei fini nella natura ciò che sarebbe  un errore evidente e inesplicabile. ma che secondo lui il fine non ò una causa; e ciò perchè, nel senso speciale che la parola causa ha nella dottrina delle Ideo, ohe Aristotile riguarda giustamente come il punto centrale della filosofia di Platone, non vi hanno per questi altr» cause che il principio essenziale e il principio materiale. È per la stessa ragione che gli rimprovera puro di aver  omesso la causa efficiente MtL, eco. quantunque r anima sia evidentemente per Platone una causa efficiente, nel senso aristotelioo, cioè motrice. della dottrina, desiderata in Anassagora, che il Nous, causa prinui dell'universo, ha disposto tutte le cose nel miglior modo in cui potevano esserlo. Il desideratuìu del Fedone è realizzato nel Timeo. Ecco in breve la cosmogonia che ci è narrata  in questo dialogo. Il mondo, cioè l'universo ordinato, il cosmos, è 1'opera di un artefice supremo demiurgo, che si è associati, come esecutori dei suoi disegni, altri artefici inferiori divinità generate dal demiurgo. Prima dell'azione demiurgica la uiateria era in uno stJìto caotico: Dio volle che ogni cosa fosse buona, e cangiò il disordine primitivo nelFordine attuale, servendosi come di  mezzi delle cause materiali, ma costruendo egli stesso il bene in tutto ciò che produceva  Egli il demiursjjo diede la forma agli elementi, ne compose il corpo del mondo, produsse l'anima e gli animali immortali cioè, oltre il mondo stesso, la terra e i corpi celesti; le divinità generate, imitando la sua potenza creatrice, produssero i vegetali, l'uomo e gli altri animali mortali. Il Demiurgo  e gli Dei generati agiscono, in tutto ciò che fanno, con un PIANO GRAND PLAN GRICE e per uno scopo: per ogni cosa prodotta, Timeo ci mostra la provvidenza e i savi consigli della divinità che hanno presieduto alla sua produzione. Egli distingue due generi di cause, la necessaria, che non è che una concausa, i cui effetti sono fortuiti e irregolari, e la divina, che produce con intelligenza il buono e il bello GRICE ON THE SHALL IN FIAT LUX. Il meccanismo delle cause finali è assimilato così completamente al suo tipo, cioè all'art^e umana, cjie la creazione del Timeo può dirsi, a rigor di termini, una vera fabbricazione GRICE CONSTRUCTION CICERO COSTRUERE CONSTRUCTUM.  Tim. Tim,  eco.  Tiii^.   Tim.,  ecc. Sarebbe difficile di dire  sino a qiial  punto la teleologia di Platone è realmente, come apparisce nel Fedone e sovratutto nel Timeo, una teleologia trascendente, cioè implicante un agente iperfìsico, analogo alla volontà umana. È una dottrina non dubbia del nostro autore che l'anima è la causa prima del movimento, per conseguenza di ogni fenomeno, e che quella  che governa il mondo è l'anima migliore, cioè  intelligente come dimostrano i movimenti dei corpi celesti, e agente sempre in vista del bene. Ma non ne segue che il bene deve essere spiegato interamente per V anima. Vi hanno almeno due casi in cui questa spiegazicme è certamente inapplicabile: l'anima non ha potuto produrre se stessa che è anch'essa una specie del Bene, né niente di ciò ch'è eterno, perchè essa è una causa che  agisce nel tempo, e la cui efficienza è semplicemente motrice. Ora come vedremo nel  Suppl., il mondo, cioè il sistema attuale dell'universo, è, secondo Platone, eterno, e la cosmogonia del Timeo non deve essere presa in senso letterale. In quanto al Demiurgo, la cui funzione è di produrre ciò che non potrebbe essere prodotto dall'anima, esso non è che un simbolo dell'Idea del Bene:  la causa immanente del Bene è rappresentata come un agente esteriore e personale. Non vi ha dubbio quindi che la teleologia platonica non sia, sino ad un certo punto, immanente: in un senso, essa lo è anche interamente, perchè anche nei casi in cui il bene deve essere spiegato per l'anima, questa non ne è la causa che in un  Leg., Epinom., Fedro, FU., Sof,,  Rep., ecc Suppl. Il  pitagorismo  nel Timeo. Suppl. // pitagor. nel Tim, senso, per dir così, fisico, cioè come un semplice antecedente. La vera causalità sta nella connessione logica delle Idee, e in questo senso il bene non ha altra causa che se stesso, perchè il bene nelle cose non è che l'Idea stessa del Bene, e questa è una necessità primordiale dell'essere, il principio assolutamente primo che non suppone niente prima  di sé. Perchè dunque questa etessa teleologia immanente è rappresentata da Platone come una teleologia trascendente Perchè egli sa che il concetto di finalità incosciente non può essere compreso che per quello di finalità cosciente. Il fine è un'idea essenzialmente umana, e applicarla alla natura è stabilire un'analogia fra le sue produzioni e quelle della no-»    Vi hanno in Platone, dice Janet Le cause finali Appendice due teorie della iiualità  l'una metafisica, l'altra tìsica. Secondo 1'una, le cose sono buone perchè partecipano al bene; secondo l'altra le cose sono buone perchè sono fatte per il bene. Nel primo caso la finalità è immanente e deriva da una causa impersonale: nel secondo caso è trascendente, e suppone una causa personale. Bisogna aggiuugere però che la prima teoria si applica universalmente a tutte le cose,  mentre la seconda, nella sua applicazione, è necessariamente limitata. Inoltre potrebbe dubitarsi se le due teorie siano realmente inconciliabili come crede Janet: esse non lo sono che se si ammette che la spiegazione del realismo dialettico, che rende ragione dei fatti deducendoli da principii logicamente anteriori, è incompatibile con la spiegazione fisica, che ne rende ragione per altri    fatti anteriori cronologicamente antecedenti invariabili. Il contrasto, qualunque esso sia, delle due teorie della finalità non è che quello delle due dottrine distinte della metafisica di Platone, quella delle Idee e quella dell'anima, e dei due concetti distinti della causalità di cui queste due dottrine sono l'applicazione. Si vedano pure, sui motivi del simbolismo del Timeo,  le altre considerazioni  che facciamo nel Suppl. Pitagor, nel Tim. stra attività. L'espressione ^/mZ?7à  incosciente o immanente non è che un'enunciazione più breve di questa proposizione: che i prodotti della natura sembrano^ quantunque non lo siano, gli effetti di un'attività cosciente, agente con un piano e per uno scopo. Ogni definizione possibile della finalità deve tornare, in ultima analisi, a quella di  Reid, in quel suo principio metafisico che ha tutta l'apparenza d'una tautolo.i^na: I segni dell’intelligenza e del diserjno nell'effetto provano un disegno e una intelligenza nella causa. Questo è dunque il concetto che Platone sviluppa nel Timeo e nel Fedone: le cose della natura o sono effettivamente l'opera d'un'intelligenza agente con un piano GRICE’S GRAND PLAN -- e per uno scopo DESTINAZIONE METIER, o sono costituite come se GRICE AS IF -- fossero l'opera d'una tale intelligenza. È perchè sono costituite così che esse si chiamano buone, e questa costituzione stessa, concepita aviò xaO' abtó^ è l'Idea del Bene, forma comune di tutti gli esseri. Questo significato dell'Idea del Bene risulta nettamente dai caratteri per cui Platone la definisce. Alcuni  di questi Reid Saggi sulle facoltà inlelleUunU delVnomo. Saggio. Anche nel Gorgin., il concetto del Bene è chiarito per la sua analogia con la finalità umana. Noi siamo buoni, noi e tutte le altre cose che sono huone. per la presenza di qualche virtù ANDREIA. Ma la virtù di ciascuna cosa, o strumento o corpo o anima o qual si voglia essere animato, non vi si trova all'avventura, ma si  deve all'ordine, alla regola e all'arac che sono stati posti in ciascuna di queste cose. Qui la parola arle^ in quanto si applica agli oggetti naturali, sembra non avere che un valore metaforico, come quando noi parliamo dell'ar^t^^io della natura Kant dice: la tecnica della natura Critica del giudizio – Grice: “Whereas what HE should HAVE said is the TECNICA DELLA FISI --  senz^ivere  perciò Tintenzione di personificarla, ma unicamente per indicare Vanalogia fra certi prodotti naturali e quelli dell'industria umana. caratteri non sono che delle espressioni generiche della idea di finalità: l'ordine raf^c,  xófruog raccordo fra i vari elementi di un tutto, la proporzione, il misurato, l'opportuno. ecc. Una determinazione più precisa è 1'appropriazione di ciascuna cosa alla sua  fun.zione: la virtù o la bontà dell'occhio è di essere appropriato alla vista, dell'orecchio, all'udito, ecc. Ma questa definizione non conviene che a quella che si è chiamata finalità di uso o di appropriazione, e il cui tipo è l'organizzazione degli esseri viventi, in cui le diverse parti sembrano fatte l'una per l'utilità dell'altra, e tutte per l'utilità dell'insieme. Così nel Timeo, descrivendo la  formazione degli animali, Platone non manca di mostrare, per  <iuanto glielo potevano permettere le sue conoscenze fisiologiche, 1'uso di cia^^cuna parte e lo scopo per cui è stata costruita così. Da questa specie di finalità possiamo distinguere con Janet quella che Janet chiama FINALITà di piano – Grice: “Otiosely, since a plan is a ‘finis’” --, e per cui tipo possiamo prendere i  movimenti regolari del nostro sistema planetario. È sovratutto come finalità di piano che il bene è realizzato dal demiurgo – Grice’s genitor or engineer--: nei movimenti regolari degli astri (9;, nella forma sferica del cielo e dei corpi celesti, nelle forme dei corpi ele Gorg. Tim. Bep. ecc.  FU. Sof. Bep,  Bep. ecc. FU. Tim. FU. FU.  Bep.  Tim. Le cause finali Tim. Leggi  Tim. mentari,  che sono ì poliedri re^ijolari della  geonietria , iiella proporzionalità fra i quattro elementi di cui è composto il corpo del mondo, e in una parola in tutto ciò che è prodotto dal Demiurgo stesso. Nel periodo pitagoreggìante questa forma di finalità prende il passo sull'altra^ prestandosi più facilmente a un'interpretazione matematica: così, secondo VEpidomide, il numero è la causa di tutti  i beni, ed è assente da ogni movimento in cui non vi ha né ragione uè ordine né beltà né ritmo né armonia, e in generale da tutto ciò che partecipa a qualche male. In questa forma, il Bene si manifesta nelle essenze stesse dei numeri come ordine regolare ed immutabile. Il principale ostacolo all'intelligenza di questa dottrina di Platone é che una dottrina essenzialmente ontologica é  presentata da lui come una risposta a una quistione puramente etica. Alla domanda dei socra Tim. Tini,  Arist. Eth, End. Ciò fa prima di tutto per evitare T inverosimiglianza di attribuire a Socrate delle rioercbe troppo diverse da quelle obe gli erano abituali; nel cbe, oltre un intento letterario, vi ha l'intenzione seria di riattaccare le proprie dottrine a quelle di lui^ facendo vedere cbe non  ne sono cbe uno sviluppo (su questa tendenza di Platone a riattaccarsi ai lilosofi precedenti, Supplemento Pitagorismo nel Timeo e nel Fileho, sul principio; Sono gli stesM motivi per cui, nell'esposizione della teoria delle Idee, gli esempi più abituali sono dei concetti morali, o di cui si fa uso continuamente nella conversazione ordinaria -- CONVERSATION: p. e. il buono, il giusto, il  bello, il grande, il piccolo ecc. nel Parmenide Socrate esita se deve ammettere Idee dell'uomo, del fuoco, dell'acqua e, in una parola, degli oggetti della natura. Sembra tici: quale il bene per noli in altri termini, in che consiste la felicità umana? egli risponde con una teoria sul bene delVuniverso. Il Bene, essenza comune di tutto ciò che esiste, é questo stesso bene, a cui ogni anima aspira,  facendo tutto in grazia di esso, che alcuni riducono al piacere ed altri all'intelligenza, ma che è superiore all'uno e all'altra, perchè esso è perfetto e pienamente sufficiente, mentre nessuno si contenterebbe di una vita di piacere senza intelligenza né di una vita di intelligenza senzii piacere. Evidentemente, questa identificazione non importa per Platone che il concetto della felicità sia  identico a quello del Bene, oggetto supremo dell'ontologia, perchè noi non potremmo attribuirgli il non senso che la forma o essenza comune di tutto ciò che esiste, è la felicità. La felicità è un bene, non il bene, vale a dire non è che una delle specie contenute nel genere supremo Nondimeno Platone può riguardare il possesso della felicità come la stessa cosa che quello del Bene, perchè  questo stato desiderabile dell'anima, in cui consiste la felicità, è tale, e non il suo  contrario, per la partecipazione o parusia del Bene. Così, questo Bene la cui parusia nella vita umana costituisce la felicità, essendo quel Bene stesso che ò il piano GRICE ACKRILL EUDAEMONIA generale secondo cui tutti gli esseri sono costituiti, alla inoltre che Platone abbia paura cbe lo si accusi  di smarrirsi in speculazioni oziose: è un resto di quell'utilitarismo socratico Senof. Memorah., di cui, pur ridendosene qualche volta Rep., dà un'esempio non dubbio, quando bandisce i poeti dalla sua repubblica Bep. Rep, FiL i luoghi del FU, citati nella nota  precedente. domanda: quale sia il bene per «oif egli può rispondere dicendo quale è il bene delV universo. Facendo cosi, non confonde la quistione etica con la quistione ontologica, ma considera la prima come un caso della seconda. Per ricondurre il bene suhhiettivo. oggetto dell'etica, al bene obbiettivo, oggetto dell'ontologia, Platone ha po'tuto partire da un'osservazione assai ovvia, cioè il sentimento di soddisfazione che accompagna lesercizio normale delle proprie funzioni. La legge della finalità nella natura ha per tipo l'organizzazione è là sovratutto che 1 filosofi hanno cercato il dominio delle cause finali ed estendendo qucsta legge a tutta la natura, Platone non ha ftitto che generalizzare una proprietà degli esseri viventi, su cui Socrate ed altri pensatori avevano, prima di lui, rivolto 1'attenzione. Neil'essere vivente stesso, questa proprietà si manifesta al più alto grado, quando  l'insieme delle sue funzioni si esercita di una maniera armonica e regolare, in una parola, nel suo stato fisiologico. Questo bene del corpo vivente, questa sua completa appropriazione ili suoi fini, è avvertito internamente come benessere: qualche cosa di analogo ha luogo per 1'anima. L'anima, che è l'essere vivente per eccellenza, ha anch'essa uno stato fisiologico e uno stato patologico:  lo stato fisiologico dell'anima, la sua sanità, è la virtù, il vizio ne è la malattia. Ora Arist. Eth.  i\ic. U-I(j. Maf/n.  Mar. specialnicDte Kant Critica del ffiudisio, V.  Senof. Memor. Notevolraente Ippocrate. Gnìetìo De plaeitis Ilippr^craiis et Platonis Rep. Sof. Leggi  eoe. la vita virtuosa è identica alla vita felice; ne segue che la felicità è, in ultima analisi, lo stato ^«io%/co dell'anima, e  che il bene per noi non è così che un caso del bene dell'universo. Questa subordinazione del concetto etico del bene a quello ontologico fa che, per definire il primo, Platone si serve delle stesse espressioni generali della finalità, che gli hanno servito per definire il secondo. La virtù, che, come abbiamo detto, s'identifica con la felicità, è l'ordine nell'anima, l'accordo fra le sue parti, la sua  appropriazione completa alle sue funzioni. e le definizioni del Filebo, la proporzione, il misurato, l'opportuno, si applicano al tempo stesso al bene dell'uomo e a queHo dell'universo. Delle due specie di finalità distinte da Kant, V esteriore cioè l'utilità d'una cosa per un'altra  e Vinteriore cioè l'appropriazione a un fine interno, come nelr organismo, il cui fine precipuo è la conservazione di sé stesso è la seconda che prevale nella teleologia di Platone. Ecco ciò che lo prova: Identificando il bene in se stesso col bene per noi, questo è elevat > necessariamente a tipo del bene universale. Il bene di ciascuna cosa deve essere dunque concepito per analogia col bene nostro quello che costituisce la  nostra felicità, cioè con un bene desiderabile per l'essere stesso in cui è presente. Così l'Idea del Bene è chiamata « ciò che vi ha di più  Rep., Gorg., ecc. Coiifr. per  Seuocrate Mullacli Fr. e  Arist. Topie, Gorg,  Rep.,  ecc.  FU. Sof.  Rep.  Rep.,   ecc. Rrp..  FU,.felice nell'essere, il che, se dovesse essere preso alla lettera, implicherebbe che il bene in tutti gli esseri è la felicità^ e secondo  un'indicazione dell'^^tca a Eudemo i numeri i numeri ideali di Platone aspirano all'unità come al loro bene. La felicità GRICE ACKRILL EUDAEMONIA BEATO essendo, come abbiamo visto, un caso della sanità, Platone eleva anche questa a tipo del bene universale. Così nella Rep. e il male, anche negli esseri non viventi, è ricondotto alla malattia: il male del ferro, la sua malattia,  è la ruggine, del legno la putredine, ecc. Citiamo pure il cominciamento di una definizione di Speusippo: \4yafiòy  tò ahiot^  (T(oir^(jta^  zolg  ovai^  dove la parola ahioy deve essere presa nel  ^^ji^o immanente della teoria delle Idee, secondo cui la causa d'un attributo nelle cose è la parusia dell'Idea corrispondente. Aristotile fa corrispondere, come abbiamo detto, il bene platonico  alla causa finale. E lo stesso fa Piatone medesimo nel FU,  H  d, identificando così il fine con l'essenza, come fa spesso Aristotile. È ciò che non potrebbero fare se il bene fosse l'utile GRICE PRICHARD, cioè un mezzo e non uno scopo. Neil'ipotesi d'una finalità interna, l'essere appropriato ad un fine METIER ciò che sarebbe per noi la definizione del bene e il fine stesso non sono due  cose necessariamente distinte.  L'organismo ha per Rep. Vili. A questi luoghi si può aggiungere Fedro, in cui le Idee che l'anima contempla nel piano della verità sono chiamate€ perfette, semplici, immobili e felici apparizioni warraara). MuUach. Pi^agm. graecorum  philoph, Speusippo Fragm.   Phys. De pari animai,  ecc. fine se stesso, cioè la propria sussistenza. Il bene è secondo  Platone identico al bello. Ora questo è un fine per se stesso e non come mezzo per un fine ulteriore. Socrate identifica anch'egli il bello col buono^ ma riducendolo, come questo, all'utile PRICHARD GRICE. Questo concetto, dentro certi limiti, sarebbe ammesso anche da Platone, ma purché non s'intenda per utile UTILITARIAN FUTILITARIAN GRICE PRICHARD una finalità puramente esteriore.  Se si prende in questo senso, la tesi socratica è respinta nell'Ippia Maggiore, perchè, l'utile essendo la causa del bene, avrebbe per conseguenza che il bello non sarebbe bene, né il bene bello. Nel periodo pitagoreggiante, il Bene è anche identificato Non abbiamo aggiunto ai luoghi citati la definizione di Speusippo la quale escluderebbe assolutamente qualsiasi  finalità esteriore:  Ayaòòt^  zò abzov tt^sxst^  Muli.  Fr., perchè niente prova che essa si riferisca al bene in se stesso cioè ontologico, e non piuttosto al bene per noi cioè etico. Tim.,  FU.,  Conv,  FAsis, ecc. Confr. Speusippo Definiz. di Platone MuUach. Fr. Senof.  Memornh. Gorg. Qualche cosa di simile pensa anche Goethe. Una creatura è bella, secondo lui, sovratutto quando la  costruzione delle diverse membra è in armonia con la sua destinazione CICERO DESTINO naturale – DESTINARE –comp. del prefisso DE e STINARE, forma allungata di STARE – Lewis and Short, DESTINO, destine, e può attingere il suo scopo. Così una giovane nubile non sarà bella, se non ha il bacino largo, il seno abbondante. Se un cavallo è bello, è perchè tutto nellaj sua  organizzazione serve perfettamente a uno scopo legittimo. Noi ammiriamo l'eleganza, la leggerezza graziosa dei suoi movimenti, ma vi ha ancora in esso qualche altra cosa che ci potrebbe spiegare un buon cavaliere o un conoscitore di cavalli; noi non ne riceviamo che l'impressione generale. Eckermann Conversazioni di Goethe traduz. frane, <;ome sappiamo, con l'Uno. In questa  identificazione Platone lia evidentemente di mira questa unità nella varietà, ili cui alcuni hanno cercato 1'essenza deì bello. La regolarità finalità di piano, il concorso di tutte le parti di un tutto a uno scopo comune finalità di appropriazione, sono delle specie di unità nella varietà. L'unità per eccellenza, Vindividuo, è il tutto in cui questo scopo è interno, cioè l'essere organizzato. Le  considerazioni precedenti hanno la loro conferma nel Timeo, la €ui teleologia è,  nella massima parte dei casi, interiore. In questo dialogo il concetto delle cause finali è applicato sovratutto, descrivendo la formazione del mondo come un tutto individuale e quella dell'UOMO Homo sapiens sapiens HUMANISE HUMANS HUMANISE. Nella formazione del mondo lo scopo del  Demiurgo è di farne un tutto completo, un essere vivente immune da vec<5hiezza e da malattia e sufficiente a se stesso, un dio felice, grandissimo, ottimo, bellissimo e perfettissimo. Nella descrizione della formazione dell'uomo GRICE HUMANS HUMANISE la teleologia di Platone, per quanto fantastica, non è che un'applicazi<me di questo principio fisiologico, ciie un carattere generale degli organi è la loro utilità per 1'organismo stesso Sarebbe inutile di ripetere ciò che abbiamo detto della forma degli elementi e degli altri esempi di finalità di piano nelle opere del Demiurgo: osserviamo solamente che la finalità di piano è evidentemente una finalità interiore. Da ciò che precede potrebbe concludersi che noi potremmo definire il bene l'astratto: l'appropriazione  dell'essere a un fine interno; e il buono il concreto: l'essere appropriato a un fine interno. Ma questa generalizzazione sarebbe troppo assoluta. Il Bene platonica oscilla fra due tipi, che sono quelli del concetto stesso di finalità: il prodotto dell'arte umana finalità esteriore, e quello, come dice Kant, della tecnica della natura, cioè l'organismo finalità interiore. Così in certi casi il bene si  traduce evidentemente nell'utile, e anche nel Timeo non mancano degli esempi di finalità esteriore: i vegetali sono stati creati per servire di nutrimento agli animali; il sole, non solo perchè il mondo divenisse, per la produzione del tempo, più simile al suo modello . ma anche porche gli uomini acquistassero la conoscenza del numero; ecc. Neiripotesi di una finalità puramente interna, la  spiegazione teleologica non potrebbe essere universale, tanto i)iiì nel sistema platonico, in cui dovrebbe applicarsi, non solo agli esseri reali, ma anche alle loro parti e alle loro qualità astratte. Infatti tutto L'individuo, secondo la definizione di Virchow, è una comunità unitaria nella quale tutte le parti  concorrono a uno scopo omogeneo. Tim. Tim. Tim. Tim. Tim. ecc. Tim. L'Idea  platonica può prendersi in due sensi, di cui l'uno esprinie l'attributo stesso, e l'altro Togjajetto, in genere, che possiede l'attributo. Così la stessa Idea ora ò chiamata con un nome concreto, e ora col nome astratto corrispondente: il grande e la grandEZZA p. e. Parm., il bello e la bellEZZA,  la  mensa e la mensaLITÀ Plat. Kep. e  Diog.  Laert.,  ecc. IL CAVALLO e la cavallITA Rep.  Gorg. Tim.  <5iò di cui vi ha Idea, deve essere, come abbiamo visto, una specie del Bene; ma non vi ha Idea solamente dell'uomo HUMANS HUMANISE GRICE, dell'albero, del corpo celeste, ecc., ma anche dell'osso, della foglia, del colore, della figura, ecc. Ora l'osso o la foglia non hanno il loro fine GRICE POINT PURPOSE WINCH in se stessi, ma nello intero organismo; e così pure al colore, alla figura, ecc. non potrebbe attribuirsi altra finalità, salvo in casi spe<5iali, che di contribuire al bene dell'universo, o di un altro tutto di cui siano delle parti. Del resto l'Idea del Bene non è, come tutte le altre, che la realizzazione dell'attributo omonimo UNIVOCO GRICE, e questo, il significato SIGNIFICATUM scare quotes what is meant/what is said GRICE -- del termine corrispondente: essa non può essere dunque che la generalizzazione di tutti i casi in cui questo termine è applicabile. Prima di finire sulla quistione del significato dell'Idea del Bene, dobbiamo aggiungere un'osservazione, che non potrà essere compresa chiaramente che dopo l'esposizione couipleta della dialettica platonica. Definendo il Bene pel concetto generale di finalità,  noi ci atteniamo strettamente, per quanto ci sembra, al pensiero dello autore; ma non ne segue che questi avrebbe trovato soddisfacente la nostra definizione. Come abbiamo accennato, e come spiegheremo nel seguito della nostra esposizione, non è solamente necesssario, secondo Platone, che tutto ciò che esiste, sia bene, ma ancora che tutto ciò che è bene^ esista. Vi ha, in altri termini, seconda lui, una condizione generale, che trovandosi nell'essere possibile, fa che questo sia, non semplicemente possibile, ma reale: questa condizione generale della realizzazione del possibile è  la conformità all'Idea Arist. Mh.  Nie, Eth. Eud., Magn. Mor suprema. È così che il dialettico scovre la realtà, in lingua moderna, la COSTRUISCE – GRICE CARNAP constructivism – construction of a thing, construction of an object – logical construction, rational re-construction costruisce: ciò che è conforme al Aóyo^  supremo,  egli lo ammette come vero, ciò che non gli è conforme, lo rigetta come falso. Il reale è dunque un caso definito del possibile, e definire la Idea suprema è appunto definire questo caso – CONSTRUCTUM --  CICERONE GRICE E CICERONE I’m a constructivist, enunciare questa circostanza, che si trova sempre nell'essere reale, e non si trova mai nell'essere semplicemente possibile: Questa circostanza è espressa completamente, definendo il bene pel semplice concetto generale di finalità V Sembra che Platone non lo credesse: evidentemente, secondo lui, una tale definizione non circoscrive abbastanza il reale,  non lo distingue abbastanza dal semplice possibile. La formula della realtà dovrebbe essere più precisa, dovrebbe aggiungere alla nostra definizione un altro elemento differenziale. Qual è quest'elemento? Platone confessa di non conoscerlo. Quest'ARCANO per usare l'espressione di Schelling nascosto nell’assoluto, che è la sorgente d'o(jni realtà^ egli non pretende di averlo svelato. È  a questa condizione che un'applicazione rigorosa del metodo dialettico sarebbe possibile: ma Platone non ha preteso, come Hegel, di costruire la scienza, ma solamente di mostrare ciò che essa deve essere. Ciò che caratterizza la dialettica platonica è il metodo di divisione dieresi. Esso consiste a dividere un genere nei generi immediatamente inferiori, questi in altri generi inferiori  ancora, e così di seguito, sinché si giunga ai generi indivisibili, cioè alle specie, nel senso stretto di questo termine. Questa divisione si applica, Fedone Taine L’intelligenza Kep. in cui fa dire a Socrate che non conosce sufficientemente l'Idea del Bene.  non nlle classi, cioè agli aggregati d'individui ma alle Idee, cioè ai concetti realizzati, corrispondenti a queste classi. >e  p. e., il genere  animale si divide in mortale ed immortale, il significato immediato di questa dieresi è, non che gl'individui che costituiscono la classe owiwa^e devono distribuirsi nelle due classi inferiori mortale ed iwimortale, ma che l'Idea, cioè il concetto obbiettivato, di Animale, contiene le due Idee, cioè i due concetti obbiettivati, inferiori, di Mortale ed Immortale. Per conseguenza Platone  riguarda un'Idea universale come un tutto, e le Idee più particolari ad essa subordinate, come delle parti di questo tutto. E siccome questa divisione in parti, cioè nelle Idee più particolari che essa contiene, non distrugge l'unità dell'Idea universale, di là la formula platonica che tutto è al tempo stesso uno e molti^ o, ciò che vale lo stesso, che Vuno è molti e i molti sono uno. È la grande  inconcepibilità del sistema delle Idee, che nessuna spiegazione potrebbe rendere più intelligibile. Platone, è vero, considera Vuno e i molti come due stati o due momenti successivi nello sviluppo della Idea anteriorità e posteriorità: l'Idea, una nel momento anterioie, diviene multipla nel momento posteriore. Ma questa successione, (piesf anteriorità e posteriorità, non è cronologica, ma  solan)ente logica, e resta sempre la difficoltà come l'idea possa esistere simultaneamente in due stati coutrarii. FU. Sof.  Polit. Fedro eoe. e Alex. Aphrod. in phil. princ. Suppl. Suppl. Suppl. La dieresi platonica è, o piuttosto pretende di essere, una classiticazione naturale: in altri termini, essa si propone di distribuire gli esseri in gruppi secondo le loro affinità reali. Di  più, percliè dei  gruppi inferiori siano riuniti in un gruppo superiore, 1'affinità deve essere tale, che (piesf ultimo gruppo possa, rispetto ai primi, considerarsi come un genere, nel significato rigoroso della parola; o, in termini ]>iù esatti la dieresi applicandosi, come abbiamo detto, non ai gruppi stessi, ma alle Idee corrispondenti, non a tutti i gruppi che potrebbero formarsi per la riunione di gruppi^  inferiori, corrispondono delle Idee, ma solamente a quelli che possono riguardarsi come generi nel senso indicato. Così Aristotile chiama costantemente {feneri le Idee uuiversali cioè tutte quelle che comprendono sotto di sé altre Idee più particolari. Inoltre egli obbietta ai platonici, che, auimessi  anche i loro presupi>osti, Vuno mm potrebbe essere unMdea, perchè è un scMuplice  universa  È ciò ohe prova lo stesso riinprovero «-lie Aristotile fa ai platonici, di spezzare, nelle loro dieresi, le ««lassi naturali collocando, p. e.; una parte degli uccelli fra o;li auimali  aquatici ^ e un'altra in un genere diverso v. De partib animai. Quest'obbiezione sarebbe senza valore, se alle esigenze della dieresi platonica bastasse anche una classificazione artificiale. È questa condizione  di una buona divisione, di non violentare i rapporti reali tra gli esseri, che Platone ha di mira quando raccomanda al dividente di dividere per membra secondo la natura delle cose, e cercare di non spezzare alcuna parte, come farebbe un cattivo scalco Fedro Mei, Categ, ecc. 15 sale, e non un genere; il die implica, ciò che del resto è affenuato esplicitamente nel commentario d'Alessandro  d'Afrodisia che i platonici non facevano Idee di tutti gli universali, ma solamente dei generi e delle specie. Il significato della parola ffenere, in Aristotile, è identico press'a poco a quello che essa ha presso i logici moderni. La sua definizione, quantunque puramente grammaticale, coincide, al fondo, con quella di Mill: un nome attributivo, che si applica a più oggetti differenti di specie,  significa un genere, quan Mei. Alex. Aphiod. in phil. prim. Ciò risultii Anche dal Politico, in cui 1'o«pitc oleate, che motto in pratica il metodo platonico, esorta il «uo intorlocntore a non dividero seniplicemente per parti. ma per treneri. Com\  non hisogna. ojfli dice, dividere ^li animali in uomini 0 bruti, perchè bruto non è un genere, questo nome non indicando una affluita reale tra  gli esseri a cui si applica. Siccome la dieresi è ovidontemente per Platone un metodo generale, che abbraccia tutti i casi in cui delle Idee più particolari sono contenute nell'ostensione d'un'Idea più universale Sof, questo luogo del Politico prova, come quelli citati d'Aristotile e d'Alessandro d*Afrodisia, non solo che la dieresi è una olassificaizione per generi, ma ancora che tutte le Idee  universali cioè contonouti altre Idee nella loro estensione sono, o piuttosto pretendono essere, delie Ideo di «reneri. Log. Meno questa differenza senza dubbio importante, ma non per la quistione presente che, secondo Mill, un genere si distingue per una moltitudine indefinita di caratteri che non derivano gli uni dagli altri, mentre, secondo Aristotile, tutti gli attributi di un genere derivano da un piccolo numero di attributi primordiali, cioè quelli che ne costituiscono Vesseìiza, o, in altri termini, ohe servono a definirlo. App. do risponde alla domanda: che è* Così bianco non sarà un genere del cigno o della neve, perchè non dice ciò che queste cose sono, ma semplicemente una loro qualità. Da ciò che abbiamo detto non bisogna però concludere che Platone non  ammetta Idee che delle specie e dei generi delle Sf)sr.anze, cioè degli ogi^etti individuali concreti. LUndividuale può anche essere per Platone una semplice astrcazioue, p. e: la bianchezza di questa neve, di questa carta, ecc. Così l'Idea del Bianco esisterà, a titolo d^Idea specifica, altrettanto che quella dell'Uomo, e l'Idea del Colore, a titolo d'Idea generica, altrettanto che quella  dell'Animale. Negli scritti platonici le Idee delle qualità, delle quantitsi, delle relazioni, ecc. sono anche d'un uso pili frequente che quelle delle sostanze: la proposizione di Aristotile, che, secondo i principii di Platone, non possono esservi Idee che delle sole sostanze, non è una indicazione storica, ma una semplice deduzione.  Top. Top. S  Mei. Di che vi ha Idea secondo Platone ì di  tutti i concetti indistintamente ì o vi hanno concetti a cui non corrisponde alcun'Idea? Da una parte l'analogia e la dottrina che il concetto si riferisce all'Idea spingevano Platone ad ammetterne una per ogni termine generale. Ma da un'altra parte, per la natura stessa e lo scopo deir ijiotesi, le Idee non potevano rappresentare altro per lui che i diversi tipi di cose e di fenomeni che osserviamo nella natura. Conformemente a questo punto di vista, a quanto ne dice Proclo in Parm., egli definiva V Idea esprimendo il rapporto fra le Idee e le cose in una forma  popolare: la causa esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura. Così, secondo Aristotile. non si ammettevano Idee degli oggetti artificiali Mei., dei negativi {àtei. Alla dieresi corrispoude un processo inverso, che  Platone, e dei relativi Mei.; e, geoondo Alessandro d'Afrodisia in phil, pr,, neppure dei mali. Ma 8u questo puuto Platone non precisò il suo pensiero che nell'ultimo periodo della sua speculazione: e infatti noi vediamo che nei suoi scritti, quando ciò gli fa comodo per la discussione, non esita a supporre delle Idee, di cui poi negherà l'esistenza. Così, secondo il Repubblica, vi ha un'Idea  del cattivo, del brutto e dell'ingiust», non meno che del buono, del bello e del giusto, cioè dei mali altrettanto che dei beni – Cf. Grice, ILL-WILL; secondo il  1. del letto, della mensa e degli altri utensili; secondo il Cratilo, della spola e degli altri strumenti; e secondo il Sofista, del non bello, del non grande e di tutti i negativi. L*esistenza delle Idee dei mali sarebbe in contraddizione  col rapporto di specie a genere che Platone stabilisce fra le altre Idee e quella del Bene. Tutto ciò che esiste, per lui, è necessariamente bene, quantunque questo non è mai un bene assoluto. Il bene assoluto è come una norma, a cui ogni essere tende ad avvicinarsi senza raggiungerla mài pienamente: la legge delle cose è questa tendenza, ma che esse se ne allontanino in questo o in quel senso determinato p. e.: una malattia o una deformità nell'essere vivente è un avvenimento puramente fortuito, e Platone per conseguenza non ammette' che esso si produca conformemente ad un tipo. Tuttavia è anche una legge delle cose che ir bene non sia mai assoluto; e perciò Platone, nell'ultima forma della sua filosofìa cioè all'epoca stessa in cui esclude le Idee dei mali, ammette,  come obbiettivamente esistente, un concetto generale del male, che riconduce alla materia delle Idee Suppl. I due elementi Per una ragione analoga, nel tempo stesso che respinge le Idee dei negativi e dei relativi, Topposizione e la relazione essendo anch'esse delle leggi necessarie degli esseri, ammette anche un'Idea del Non Essere, che riconduce pure all'elemento materiale, e delle  Idee di alcune delle relazioni fondamentali delie cose, quali l'Eguaglianza e la Disuguaglianza e lo chiama ì^xOeai^ astrazione e (Tvat^ycoyrj riduzione alV unità. U astrazione o riduzione aW unità svolge dalle cose individuali le Idee delle specie, da queste quelle dei generi prossimi, e così di seguito, riunendo progressivamente gli esseri in gruppi più estesi secondo i gradi decrescenti  della loro affinità, e rappresentando ciascun gruppo per un'Idea di più in più generale. Le Idee formano dunque una gerarchia, una scala di generalità crescente, che la dieresi e la avi^ayiùyrj percorrono in senso contrario, V una andando dalla sommità alla base, dall'uno al multiplo, dal generale al particolare, e 1'altra dalla base alla sommità, dal multiplo all'uno e dal particolare al  generale. Qresto processo di astrazione progressiva, di cui poi la dieresi devo percorrere tutti i gradi in una direzione opposta, o continuerà sinché si sarà formato di tutte le Stesso e il Diverso, che riconduce ai duo elemepti contrari Suppl. I due elementi. L'esclusione di eerte Idee è anche una conseguenza del metodo di divisione: questo suppone, come abbiamo detto, che ogn'Idea  superiore sia un genere; cosi nn attributo oamuue a molte specie non può dar luogo a un'Idea, se esso non serve di fondamento a una distinzione geì.erica. In questo caso sono compresi evidentemente i negativi p. e. non uomo. non bianco, non quadrato ecc.. Inoltre non potrebbero ammettersi, secondo questo metodo, Idee delle differenze ragionevolCt RATIO GRICE bipede,  ecc., benché Aristotile  supponga talvolta che l'elemento differenziale d'un'Idea sia anch'esso un'Idea altret tanto che l'elemento generico Met., ecc.: ciò egli fa certamente perchè 1'esifitenza separata di uno dei due elementi cioè del genere gli sembra avere per conseguenza necessaria l'esistenza separata anche dell'altro. Fedro e FiL Idee un sistema unico, riducendole ad uua sola, o si fermerà a una pluralitàdUdee indipendenti che non potranno ricondursi a un'Idea più generale. Ciò che abbiamo detta nel paragrafo precedente prova che di queste due ipotesi è la prima che dobbiamo ammettere. L'Idea del Bene a dell'Essere è, come abbiamo visto, il genere sommo, in cui tutti gli altri generi sono contenuti: alla sommiità della gerarchia sta dunque un'Idea unica; ogni pluralità  si riconduce a un'unità superiore. Così al sistema delle Idee si applicano esattamente (lueste parole di Bacone. € Tutta la natura delle cose è come acuta, e simile a uua piramide, perchè il numero degl'individui che formano la larga base della natura è infinito. Questi individui si riuniscono in ispecie, che sono pure in gran numero; poi le specie si elevano in generi, i quali a misura che   le idee si generalizzano, vanno rinserrandosi di più in più, in sorta che al fine la natura sembra riunirsi in un sol puuto. Ecco dunque l'ordine in cui le Idee sono disposte: alla testa l'Idea del Bene, la regina, come la chiama Platouey del mondo intelligibile: questa contiene sotto di sé un gnippo di Idee meno generali, ciascuna delle quali contiene un nuovo gruppo, e così di seguito,  discendendo sempre una scala di generalità decrescente, dai gradini di più in più larghi, che va dal genere sommo alle specie infime per una moltitudine di generi intermediarii. Il mondo ideale si forma per la divisione e suddivisione De dignilate et augmentis  scientiaruni Mep. L'Idea del Bene è chiamata anche r Idea ultima GRICE PHILOSOPHIA PRIMA PHILOSOPHIA ULTIMA Hep., perchè è il termine ultimo della avyaytùyfi^ ruscensione graduale da Idea ad Idea, di cui nella Mepubbliea, non essrndo altra cosa, come vedremo, che la avyaycoyi],: I l»^»^™. mi I "Il"  i.™«.ii.«^i  .i^i». ma  in  il^i  mi  ^  i uhm i saaaH^.^^M^_^iM progressiva dell'Idea suprema: è essti che sarebbo il punto di partenza della dieresi, se Platone applicasse questo metodo, non  frammentariamente, com'egli si limita a fan%  ma d'nna maniera completa e sistematica. Nella dieresi platonicn ogni divisione e suddivisione è composta di due parti; in una parola, questa dieresi è una dicotomia. Così, nella scala delle Idee, ogn'Idea di un gradino superiore ha sotto di se due sole Idee del gradino immediatamente inferiore, in altri termini, chiamando genere l'Idea  superiore, e specie le Idee inferiori, cioè più particolari, immediatameuie subordinate, ogni genere^  nel sistema platonico, non contiene che due specie. È la regola a cui Platone si conforma costantemente oegli esempi che dà del suo metodo, e che prescrive espressamente nel Politico. Dalla sua parte Aristotile, Xel periodi» pitagoreggiimte, alla sommità del mondo ideale si ammettono,  come sappiamo, non uno ma due universali Hupremi i due elementi. Ciò si concilia con le e8ij;enze del metodo platonico, che suppone un punto di partenza unico per la dieresi, considerando l'uno dei due clementi  come il genere sommo e la specie [elò^o^) tli tutte le Idee (, e l'altro come la materia Lo stesso risultate» ha la fuuzii»ne di essenza ESSENTIA GRICE  MULTIPLICITY OF BEING ovaia^ assegnata al prim<»  elemento  v.  ^14 perchè oi^aia^ per Platone ed Aristotile, equivale ad elòo^). Per pif. ampi sviluppi su questo punto rinviamo al Suppl. [due elemeuii delle Idee: ivi spiegheremo pure la dinìc(»ltà che presenta il luogo del Sofista. in cui.  oltre iil Non Essere cioè alla materia delle Idee, è attribuita anche ad altri c<»ncctti obbiettivati lo Stesso e il Diverso la stessa universalità che all'Idea dell'Essere. Sof.. rolit. (H) tutte le volte in cui è qui^tione  «Iella dieresi platonica, «uppone sempre che essa è una dicotomìa. Tuttavia Platone permette che si divida per un numero magp:iore, quando la divisione per due non è possibile;  ma i>er questa impossibilità non bisogna intendere un'impossibilità obbiettiva, ma un'incapacità del dividente a cui sfuggono le Idee iutermedinrie. E in effetto il metodo di divisione, secondo Platone, non è, come vedremo, un semplice artifizio logico, ma la legge stessa del mondo ideale: il carattere di questo metodo, per conseguenza, è l'assoluta uniformità. Ciò è tanto vero che nella  dottrina dei numeri ideali, in cui la diei-esi è rappresentata dalla generazione progressiva dei numeri, a ogni numero anteriore si fanno generare due numeri posteriari, riconoscendo così la dicotomia come legge universale dello sviluppo delle Idee. Mei., De pari, animai, Anal. Posi. Anni. Pr, ecc. Poi.  FU.  IH. Così uella divisione per otto, di cui nel luogo del Potit. citato nella nota  precedente, evidentemente il dividente ha saltato due ^radi (cio^. una prima divisione in due parti, e la suddivisione di ciascuna di queste in altre due, che suddivise alla loro volta della stesvsa maniera, foruiano così il numero otto. Suppl. I numeri ideali. Qualche volta Phitone, nelle sue dieresi, fa uso della sezione doppia, vale a dire» dopo aver diviso un genere per due secondo una  difì'erenza data, torna a dividerlo ancora per due secomlo una nuova diftereuza. Così nel Sof. l'arte di l'are è divisa in divina e umana, e poi in arte di fare le cose stesse e arte di fare le immagini. Altre due sezioni doppie si hanno nel Politico. Più che col metodo dicotomico, questa maniera di dividere sembra in coutraddizioue col principio che o» n'Idea universale deve essere un genere.   Ciascun membro d'ogni dicotomia è caratterizzato da una differenza unica, e le due differenze sono contrarie. Così 1'animale si dividerà in mortale ed immortale, il mortale in provvisto di piedi e senza piedi, il provvisto di piedi in bipede e multipede, il bipede in pennuto o senza penne, e similmente i generi collaterali. L'importanza e lo scopo di queste particolarità del metodo di Platone  saranno spiegati nel 20^: prima bisogna esporre la sua dottrina sulla definizione, ciò che faremo nel paragrafo seguente. SV., PoliL. Aristotile De pari, animai. Mei, ecc. oltre i luoghi della nota precedente, Arist. Mei., Anal. Pr., Anal. Posi. Anal. Posi. Anal. Pr., Mei. Platone pratica il metodo di divisione nel Sofista e nel Polilico. In questi due dialoghi hi dieresi è fatta servire alla ricerca della definizione, del sofista nell'uno e del politico nell'altro. Per conseguenza dei due generi in cui si divide ciascun genere superiore, non viene suddiviso che quello in cui è compreso 1*oggf'ttt) a definire. La definizione si forma aggiungendo progressivamente al primo genere, che è il punto di partenza della dieresi, le differenze che caratterizzano i generi intermediari e la specie  infima, trovati con le divisioni successive. Nel Sofista, la dieresi che giunge alla scoverta della vera definizione, è preceduta da altre che non sono ohe semplici tentativi, e queste ancora da un'altra, che è data come esempio del metodo a seguire, e <Mm cui si cerca la definizione del pescatore all'amo. Le tre tavole seguenti riassumono tre dieresi di quest(» dialogo nel quale il metodo è  applicato con più rigore, cioè quella per trovare la definizione del pescatore all'amo, e uno dei tentativi e la definitiva per trovare la definizione del s(»fi8ta. 0) ^ 03 1 g n^S^  So cQ S '', i*'  © «a. .£.5^  g •S-^  ^ o  p tm ^ * Sf  ? ® O; a^ ^  cs  S 5 i .£:5 o oc lU q: oc S>3'  © ?  iS o S SS .5 ffl? / ;:z  a p  <^ ^ SII » :8  -^ N OS  iJiS m4 ^^ Ss 1^3  '^^  o © S à .S  a^ *i  ce 4) 00 5 o ce «  «  52  s N co ©  A S,^ tu (ì) or 0 tu q: ì l-s P 4> O ^ 05  S? .Z;^  T ^ 0^ P 0) oc <©  >  s ©  ®  *p ^ OD  S ce  -^ c3 p  'oe r2  I  o  ^  P * ^  OD e 08 « ^ ^ I  'c 2  „ c8-^  i* a  p^.C o  ©5 P ao © a:i: oc ^ .^  «8  ^ :g .t; 0^ n3  g^ 0) .P  I P  -kJ V 03 c8 5^'5  e^ p,  p  .p P'C  © cc S 00 © t^ P P 00 p •^  P P © ^ Cd CO w cu 1 N <0 Sm «Pi^ ^ SS P«i^  ce p  ^ . '.'I O P OD P ©  bO »  p fi  .S^ I tì w  t ;-; e« 2 * • 08 ^ 4^ CO 'è^  ^ 08 &4 „ O ^  P ce  ^ oc ce 08 Pi  ^^  OD p ^5  ^ o P Cd P4 s, A. f O g La dieresi, quantunque abbia un valore per se stessa come vedremo nel prossimo paragrafo è tuttavia presentata da Platone come un metodo per la ricerca della definizione. Il rapporto intimo della definizione con la dieresi si vede già al primo colpo d'occhio dalla sua stessa composizione. I logici antichi, osserva Mill, sembrano aver creduto che la definizione ordinaria avea pure per uftìcio di formulare la classificazione usuale e, secondo loro, naturale, delle cose, cioè la loro distribuzione in ispecie, e di segnalare il posto superiore, collaterale, o subordinato, che ciascuna specie occupa rapporto alle altre. Si spiegherebbe così la regola che ogni definizione deve necessariamente farsi per genus et differentiam, e perchè una, sola difterenza qualunque er» considerata come sufficiente. Ma la dieresi per Platone non è solamente un metodo per ottenere la definizione; si può anche dire che per lui dieresi e definizione sono una sola e stessa cosa, che si chiama ctieresi considerandola nel processo della sua formazione, e si chiama definizione, considerandola già formata, cioè nel risultato di questo processo. La dieresi non è, in sostanza, che una catena di definizioni: in effetto la definizione platonica si fa per il genere prossimo e la differenza specifica una sola, e nella dieresi ciascun membro di ogni divisione viene espresso indicando il genere diviso e l'una delle due differenze opposte secondo cui esso si divide. Per conseguenza, se vogliamo comprendere il valore e il significato della dieresi di Platone, noi dobbiamo domandarci quale sia il valore e il significato della sua definizione. Come abbiamo osservato nelP appendice Log, precedeute, la definizione quella almeno che si fa per gemis et differentiam è stata considerata di due maniere diffei^enti: o come una semplice indicazione i>er far  riconoscere la cosa significata dal nome, distin lenendola da tutt^.le altre; o come l'espressione completa della natura o essenza di questa cosa^ vale a dire della totalità dei suoi attributi primitivi, cioè che non possono dedursi da altri attributi. Se è il primo caso che vale per la definizione platonica, la dieresi non è che una semplice classificazione delle Idee con la indicazione dei caratteri  su cui è fondata questa classificazione; se vale invece il secondo caso, la dieresi non è una semplice •classificazione, ma è una vera ricostruzione del mondo ideale. Neil'appendice noi abbiamo amiiiesso questa seconda ipotesi, deducendola da considerazioni generali sulla dialettica platonica: qui dobbiamo stabilirla sulPesame dei testi, il cui risultato possiamo lidurre ai punti seguenti: La definizione esprime l'essenza della cosa olma, o in altri termini, ciò che questa cosa è  o tan Plat. Fedo, Fedro,  Fìiiifr., Meno Leg. Bep, eco.; Arist.  Met,  Anal^Pr,  Anal.  Posi, eec. Meno, FU.,  Sof,  Teet.  Char7i,  Laeh,  Lys. Fedro  Futifr. e.  Farm.,  Ipp,  Mngg.,  ecc. zi taii  <» semplicemente ti  itrtt formula con cui Platooe propone 1a ricerca della defi* L'alata d'una cosa è il suo essere, la sua vera realtà. E infatti questo termine, nella lingua filosofica dei greci, riunisce al tempo stesso i significati dei due termini italiani; propriamente: essema, non propriamente: sostanza – hypousia – cf. soggeto, hypokeimenon, e nella lingua speciale di Platone è un sinonimo d'Idea, per designare gii esseri veri in cui si risolve la realtà fenomenica. Nel periodo pitagoreggiante, in cui le cose risultano, non dalle sole  Idee, ma anche dalla materia, 1'oùtria ESSENTIA – beingness -- non e che la forma, come in Aristotile; ma essa è Dizione indica evidentemente Vensema Fedotie Meno Eutifr, Bep.,  ecc., come in Aristotile ed AQUINO – filosofia d’AQUINO --, in cui la seconda di queste due forme sostantificata rò  u  t^ti è Tequivalente di aiata Mei. etr.,  ecc.. Teet. Del resto l'essenza no/m/ia^« Locke Sag. sulVititendim. um, Mill  Log. Bain  Log., ecc. è una inrovazione, allo «cojm di conciliare la dottrina tradizionale, ohe la definizione è la spiegazióne dell'essenza, col concetto della più jjarte dei logici, eh' essa non è che la spiegazione del senso del n<mie. Suppl.  Sup)» L'ideutità dell'Idea con V’avata spiega perchè Platone, per designare  le Idee, si serve delle parole S iau preposte ai nomi corrispondenti p.  e.  S  tati  xkiyri Bep.  t} iau  intatfjf^tj Parm.  ^Q  iazt preposto a un nome vuol dire al tempo stesso: ciò che il nome propriamente signiftoa – in scqre quotes Suppl. e: l'essenza della cosa ricercata dalla detìnizione Fedone. I due sensi coincidono, perchè ciò che il nome significa è spiegato appunto dalla definizione. Arist. Mei. ancora il solo essere vero, e la materia è ricondotta al non essere. Definire un concetto è dire ciò die vi ha di comune in tutti gli oggetti sottoposti a questo concetto. Così definire il simulacro è dire ciò che vi ha di comune nei diversi simulacri, e che, come unico in tutti, chiamiamo c<m un nome unico, simulacro; definire la figura, dire ciò che è lo stesso nel rotondo, nel retto e in tutti gli altri oggetti che chiamiamo figure; definire la virtù, dire in che tutte le virtù sono una sola e stessa cosa, cioè far vedere ciò che è lo stesso in tutte e quattro la fortezza, la temperanza INTEMPERANZA GRICE, la giustizia GRICE REPUBLIC, la prudenza, e che, essendo uno in tutte, chiamiamo giustamente con un sol nome, virtù. In altri termini, definire è generalizzare, trovare in una moltitudine di oggetti particolari la specie unica che li comprende, -- GRICE ON “=DF” -- abbracciando questa  moltitudine in una  formula  generale. Conoscere una cosa nel generale, p. e. la virtù, la santità, ecc. è conoscerne la definizione GRICE =df;  ignorare la definizione GRICE =df è ignorare la cosa stessa. LHntelligenza o la scienza d'una cosa, o GRICE =df STRICTLY =Def. BURALI-FORTI, Logica Matematica FORTI (vedasi) -- piuttosto della sua Idea, è V’intelligenza o la scienza di ciò che questa cosa è  Suppl.  / due elementi,  Sof. ,  3feno,,  Leg,,  eoo. Sof.  Meno  Leg. Teet. Polii, Euti/r,,  Leg,  Meno Teet,  Laeh,   (o  iati); insegnare questa cosa, o piuttosto la sua Idea GRICE E FORTI =Def. ,  è spiegare ciò che essa è, darne la  definizione GRICE E FORTI U ‘signifies that p’ =Def.   U intends that p. La dottrina che la conoscenza dell'Idea consiste nella definizione GRICE E FORTI U ‘signifies’ that p =Def. U intends that p. della cosa corrispondente, risulta anche dal princìpio dell'autore che le Idee non si conoscono che per la dialettica, la conoscenza che la dialettica dà dì un'Idea considerata per se stessa,  cioè indipendentemente dai suoi rapporti logici con le altre Idee non potendo essere altro come vedremo nel paragr. seguente che la definizione GRICE E BURALI FORTI U ‘signifies’ that p’ =Def U intends that p della cosa. GRICE E BURALI: Grice: “FORTI does not use “Def.’ But ‘Def’ without the dot. As in U ‘signifies that p =Def U intends that p. La definizione è l'espressione  adequata dell'Idea; essa la rappresenta più fedelmente che un ritratto l'originale. Cosi nella lingua di Platone questi due termini, la definizione e l'Idea definita, prendono spesso il posto l'uno dell'altro. Nel Politico sì dice che l'ospita eleate fa il politico volendo dire che lo definisce, come diciamo di un pittore o di uno scultore che fa l'oggetto stesso. Cercare e trovare la definizione è  cercare e trovare r Idea stessa che si tratta di definire; il defi Fedo,  FU,  Sof.,  Bep. Euti/r. FU.,  Rep., ecc.  pure  Polii,;  Le cose incorporee, che souo le più belle e le più grandi, gi mostrano chiaramente col solo Xóyog e non altrimenti. Polii. Sof,  Polii. Meno, Teet, Lach. Fedro,  eco,  Arist.  De  parlib  animai ueute nioHtra, niaiiiiVHta  cjuest'Idea; la conoscenza che la definizione GRICE E FORTI =Def ne dà è così completa, che Platone la cliiania una vista, benché egli non ammetta un intuizione propriamente detta delle Idee che in una vita anteriore. L'Idea è composta degli elementi stessi di cui 8i compone la definizione, cioè del genere e della differenza. Essa non è, al fondo, che la definizione obbiettivata, e perciò Platone la chiama 'Àóyog, cioè col ili  ]»riiic. e  e. Ili  (ed. Ditlot. Hììvhv  Suppl., per la dottrina di Platone clic lii detiiiiziono hì riforÌHce all'Idea. Polii, -ififi  e. Sof,  Kulifr. Meno Rep. ecc. Kuiifr.  «  e,  So'',  Tièu. .  6Vmr.   jì.  Kep. Leg., eoe. In alcuni di questi luotrhi non è espressamente al definente o. ciò ohe vale lo stesso. al dividente che Platone attribuisce questa conoscenza delle Idee ch'egli chiama metaforicamente  vedere; \m\j come abbiamo detto, è un principio platonico ohe le Idee non si ctmosoono che per la dialettica, e la conoscenza che questa dà di un'Idea, considerata isolatamente, non è altra cosa che la definizione. P^)  AriKt.  J/ij<.  Vili. Anal. Post.,  ecc. AriHl,  Met.: Socrate non poneva «epira^t (/ft)(>«frrtf) gli universali e le definizioni; questi Platone e hi sua scuola li separarono  tyÒQiaatA^  tali esseri chiamarono Idee. Sul significato di ^(OQKfZóg^  ;^ft)^iCft),  eco. il Suppl. Fed. nome che dà alla definizione, come Aristotile la sua forma, che, come si sa, corrisponde all'Idea platonica. Ma se la definizione phatonica deve esaurire la natuiu della cosa definita, ne se^ue che essa deve comprendere indistintamente ciascuno dei suoi attributi? È ciò che sembra  incompatibile con la reticola che Platone segue costantemente nelle sue dieresi, di definire ciascun genere per una sola differenza, essendo evidente che un genere non differisce da un altro per un unico attributo. Per Platone,  come per Aristotile e tutti i filosofi che hanno ammesso h* definizioni essenziali, la definizione non comprende esplicitamente che un certo numero degli attributi  dell'oggetto definito, quelli che poi sono stati chiamati attributi essenziali; tutti gli altri, i propri, non li couiprende che implicitamente^ cioè in quanto derivano, o possono dedursi, dagli essenziali. È ciò che Platone indica chiaramente quando afferma che la conoscenza delle proprietji suppone quella dell'essenza. È impossibile, egli dice, di conoscere se un oggetto abbia una data  proprietà, se ncni si conosce ciò che esso è ò' Uti; ricercando le proprietà d'un oggetto, si deve prendere per principio la sua definizione; è ad essa che bisogna guardare, e riferire ogni cosa, in tutto il se So/. e Polii., FU., Fedro, Leg. Teet., ecc. Mei. PA,y»,  De gen. ecc. Meno Rep. Meno Protag., Rep., Fedro guito della ricerca. Ciò importa evidentemeute che la defìnizione contiene delle  premesse per portare delle inferenze sugli attributi non compresi nella definizione stessa; il che, la conoscenza essendo per Platone A PRIORI, significa che, data la definizione, si possono dedurre da essa A PRIORI, cioè indipendentemente dalPosservazione, tutte le proprietà dell'oggetto definito. Ciò è confermato dal Fedone, in cui Platone riassume il suo metodo in questa regola  unica: prendere per princio il Xóyog che sembra il meglio stabilito, e ammettere come vero ciò che gli è conforme, ciò che non lo è rigettarlo come falso. Questa regola di metodo valendo per ogni ricerca, essa prescrive di dedurre, non solo ogn'Idea inferiore dall'Idea superiore, ma ancora tutti gli attribuiti di una cosa dalla sua definizione. Qui kóyoq oltre che RAGIONE GRICE RATIO ESSENDI RATIO COGNOSCENDI, cioè principio da cui le cose si devono dedurre significa al tempo stesso concetto e definizione: questi due significati – CONCEPTUAL ANALYSIS OF WHAT? – PHILOSOPHICAL ANALYSIS OF WHAT? GRICE -- al fondo si equivalgono, perchè la definizione, secondo tutti i concettualisti, non è che l'analisi, o lo sviluppo, del concetto. Questa dottrina dì Platone sulla defìnizione sembra un accompagnamento naturale del realismo dialettico. Anche nei sistemi, in cui la dialettica non è rappresentata, come in quello di Platone, come una ricerca della definizione, essa deriva dal carattere generale di questa filosofia, eh 'è di aspirare a riprodurre, come insieme di concetti, l'universalità stessa dell'essere e del conoscibile. Quando Hegel riduce la scienza a una serie di concetti, coi loro rapporti di successione logica, siccome questa è per lui la scienza universale, egli ammette implicitamente che tutte le proprietà e relazioni delle cose devono dedursi dai loro concetti cf GRICE RAMSEY DEFINITION – RAMSIFIED DEFINITION – The alternative to naming I shall callthe way of Ramsified DEFINITION, which  can dispense with the uniqueness claim. It will run: ‘(a) x judges juts in case there is a J and there is a V such that L, and x instantiates J; (b) x wills just in ase there is a J and there is a V such taht L, and x instantiates V.’  La dottrina è formulata della maniera Fedro più espicita in Spinoza ed in Taine.  Le proprietà delle co^e, dice Spinoza, non s'intendono, sinché s'ignorano le  loro essenze; se si tralasciano queste, si sovverte necessariamente la concatenazione del pensiero, che deve rappresentare quella della natura stessa. Talis requiritur conceptus rei sive definitio. ut omnes proprietates rei, dum sola^ non nufcni cum aliis conjuncta spectatur, ex ea concludi poS"' »int. Questo per le definizioni delle cose create; ma lo stesso requisito è poi assegnato alla  definizione della cosa increata. Anche per questa si richiede ut ab ejus definitione omnes ejus proprietates concludantur. La stessa dottrina nel Taine, benché espressa sotto una forma più ontologica che logica. La definizione è la proposizione che marca in un oggetto la qualità da cui derivano le altre e che non deriva da un'altra qualità. Non è una proposizione verbale, perchè v'insegna  la qualità d'una cosa. Non è l'affermazione d'una qualità ordinarìa, perchè vi rivela la qualità ch'è la sorgente del resto. È un'asserzione d'una specie straordinaria, la più feconda e la più preziosa di tutte, che riassume tutta una scienza, e in cui ogni scienza aspira a riassumersi. Così nella definizione della sfera s’annunzia che tutte le proprietà d'ogni sfera derivano da questa formula  generatrice. s'esprime l'essenza della sfera, cioè la causa interiore e primordiale di tutte le sue proprietà. Ecco la natura di ogni vera definizione. Causa, secondo Taine, è, lo sappiamo, un fatto più generale, da cui può dedursi un altro fatto o un gruppo di altri fatti. La dialettica di Platone non è che la dieresi. Così nel Sofista dice: Dividere per generi e né la stessa specie prendere per  diversa né la diversa per la stessa, non diciamo essere questo l'ufficio della scienza De intellectns emendalione, Storia della letteratura iìiglese dialettica  f Così chi è capace di fare ciò, vede acutamente un'Idea unica diffusa in molti, esistenti ciascuno separatamente, e molte Idee differenti contenute sotto una Idea unica, e ancora un'Idea unica in molti tutti ridotta all'unità, e molte Idee  affatto distinte: questo è saper discernere, per mezzo della divisione per generi, quali comunicano fra di loro e quali no. Ma (piesta scienza dialettica tu non l'attribuirai, io penso, che a chi puramente e giustamente filosofa. Nel Fedro dopo aver raccomandato di ricondurre a un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, ciò che è sparso <iua e là, e poi dividere e suddividere I>er ispecie com(* per altrettante articolazioni naturali, soggiunge: Per me, o Fedro, io sono amante di queste divisioni e riunioni ((rvyaycoywt')^ per essere più in grado di ben pensare e di ben parlare, e se vedo qualcuno che sia capace di comprendere 1'uno e il multiplo qual è in natura, io cammino sulle sue tracce come su quelle d'un dio. Quelli che hanno questa capacità, dio sa se a  torto o a ragione, ioli chiamo sino ad ora Preseuti pure in questi ni'4li lutti, cioè una in ciascuno Un tutto è il couìplfsso di cose o d'Idee inferiori contenute sotto un'Idea. Oss(^rvian^o, per dare ragione di quest'interpretazione, che queste tnolte Idee affatto disliìite non i)Otrebbero contrai>i)or8Ì alle molte Idee differenti contenute sotto un"* Idea unica, intendendo l>er esse delle Idee  che non possono ricondursi a un'Idea più generale: perchè in questo caso affatto distinte dovrebbe significare: che non partecipano in comune a qualche altra Idea; significato inammissibile, poiché secondo il Sofista tutte le Idee partecipano a <iuelle deWessere e del non essere e delh» stesso e del diterso, e queste stesse le une alle altre. Di più il contesto esige che anche in queste molte  Idee affatto distinte si veda un ciiso della dieresi e della sinagoge, come avviene infatti nella nostra interpretazione. ^^™ M»WIIIMI  Il  ini.  I  !  .1  il  -M-i   .1 I  11^ / dialettici. Nel Filebo la dieresi è evidentemente pret^entata come il metodo scientifico per eccellenza: non vi ha né può esservi metodo più bello di questo, di cui l'autore è stato sempre amante, ma che spesso sfuggendogli,  lo ha lasciato inope e desert4> ; è per esso che è stato messo in luce tutto ciò che è stato scoverto con arte; è un dono degli dei agli uomini, inviato per un Jtltro Pnmioteo con un altro splendidissimo fuoco (ibiil.); non si è sapienti in un soggetto qualsiasi, che quando si è in gra<lo di applicare questrO metiodo. Il metrodo così esaltato da Platone non può essere senza dubbio che il  dialettico; e del resto è ciò che egli dice esplicitamente, (piando dà per carattere proprio della discussione dialettica, che la distingue dalla eristica, il passare da ini' Idea generale albi moltitudine infinita dell'individui, ncm iuìmediatamente, ma per l'intermediario delle. Idee più particolari in cui essa si divide e suddivide. La stessa identificazione della dieresi con la dialettica nel Politico,  in cui l'aut.ore ci avverte che, come un fanciullo che si esercita nelle lettene yiìàuuaia viene interrogato su quelle di cui consta un nome, non per la sola quistione su questo nome, niit per divenire più (frammatieo in ogni quistione, così le dieresi di (luesto di«'ilogo non hanno solamente per iscopo di cercare il Àóyog del politico, ma di rendere più dialeUiei in ogni soggetti», o, ciò che  vale  lo stesso, più capaci di « dare e ricevere ragione Aóyoz» di ciascuna cosa. Agii)   liep., in cui questa lo<^uzioue, capace di dare e ricevere ragione, h impiegata evidentemeule come l'equivalente di dialettiro. giun^iaìuo infine il Sofista, in cui il metodo di  divisione è cliianiato il metodo delle ragioni (rà)#/  kóy(oy) y^^ le ragioni » (o/  'Aóyoi nella lingua platonica significa la stessa  cosa che € la dialettica; e Alfessandro Afrodisio in  phil.  pr., il quale, commentando l'osservazione d'Aristotile die la dottrina delle Idee è nata dallo studio posto nella dialettica, intendeper dialettica la definizione e il processo di cui essa è il nìomento finale, cioè la dieresi. Come si vede dal secondo dei luoghi citati, la dialettica è talvolta ricondotta, non alla semplice dieresi, ma alla  dieresi e alla sinagoge. Ma questa differenza non ha alcuna importiinza, perchè la dieresi implica la sinagoge, come un suo momento subordinato. La dieresi infatti non è che una classa/ione, e questa suppone la formazione delle classi, cioè dei concetti generali, ciò che Platone chiama (rvyay(oyrj. In certi casi la dialet^ tica sembra anche ridotta alla sola sinagoge. Così secondo la  Repubblica e il dialettico è il sinottico, cioè chi sa abbracciare molti oggetti in una vista d'insieme, comprendendo le affinità tra le conoscenze e tra gli esseri; secondo V Epino mide e il primo e il più bel modo di esaminare le cose è di riconduri-e in tutt^s le discussioni il particolare al generale; e secondo le Letjfii e non vi ha metodo più luminoso per lo spirito nmano che di poter guardare a un'Idea unica dai molti  PolUk'o  2p.  e. Hep. e Aristotile. AIeL  Allelui nel Filelìo il metodo di cai si parla ora è rappresentato come una semplice dieresi, e ora come una riduzione del multiplo all'uno sinagc»ge e una risoluzione dell'uno nel multiplo dieresi) dissimili. Ciò è perchè, trovati  tutti i concetti generali, vale a dire tutte le classi, e super-ordinandoli gl’uni agl’altri secondo il grado della loro generalità crescente operazioni che sono del dominio dèlia «rrra;/r,);/)y ;il risultato sarà una classazione sistematica di tutte le Idee, in altri termini, la loix) dieresi. Per la stessa ragione, siccome Platone identifica la definizione colla sinagoge perchè la definizione, non essendo  che l'esposizione del concetto, si ottiene, come (piesto, svolgendo ciò che vi ha di comune in una classe di oggetti (2Ì egli riconduce pure hi dialettica alla definizione. È ciò che fa nel Fiìebo, in eui la scienza più vera, cioè la dialettica, è ridotta alla conoscenza di ciò che è la giustizia stessa H. P. GRICE METAPHYSICAL ESCHATOLOGY AND PLATO’S REPUBLIC e tutte le altre  Idee, o in altri termini, alla possessione del loro JLÓyoz'^ e in quella ste^^sa parte della Repubblica in cui la dialettica è specialmente considerata come un metodo di dedurre gradatamente tutte le Idee da un'Idea suprema. Così a: non vi ha che il metodo dialettico che cerchi di prendere con un ordine determinato ciò che è ciascuna cosa; e: non chiami dialettico colui che prende la  definizione dell'essenza di ciascuna cosa? Ma per ricondurre la dialettica alla definizione Platone ha ancora una ragione più decisiva: è che la dieresi è il processo di cui la definizione è il risultato, e può anche considerarsi essa stessa, come abbiamo osservato, come una catena di definizioni. Fedro. Teeteto, Lefjf/i  J«63, eoo. MI! La dialettica essendo la dieresi, noi dobbiamo dunque applicare alla dieresi ciò che abbiamo detto della dialettica considCTat.a genericamente: quest'applicazicme ci darà i caratteri speciali del metodo platonico, di cui sino al  $  15 non abbiamo considerato, quasi esclusivamente, che quelli comuni con gli altri sistemi di realismo dialettico. Noi abbiamo visto: che la dialettica è una catena continua di deduzioni, in cui la conseguenza della  deduzione antecedente diviene il principio dtjlla deduzione, susseguente; che questi principii e conseguenze non sono delle proposizioni, ma delle Idee, in modo che la deduzione consiste a passare dalla posizione di un'Idea a quella di altre Idee; e che il principio primo è l'Idea del Bene, cioè l'Idea più universale, di cui tutte le altre sono delle specie o delle forme particolari. Noi abbiamo  visto pure che questa catena di principi i e conseguenze è percorsa dalla dialettica in due direzioni op[K>ste: 1'una ascensiva àyà^ats:, che va dalle conseguenze ai principìi, ])artendo dalle conseguenze ultime per arrivare al principio primo; e l'altra discensiva, che va dai jirincipii alle conseguenze, part^ìudo dal principio primo per arrivare alle conseguenze ultime. Ciò che abbiamo detto ci permette di determinare in che consistono questi due processi opposti della dialettica: il processo discensivo, che va dall'Idea del Bene alle per  questo  termine liep,  sue specie particolari, è la dieresi noi sappiamo che questa, applicata d'una maniera completa, deve abbracciare tutto il mondo ideale, partendp dall'Idea suprema che sta al vtrtice della piramide; il processo  asceitsiiWj che arriva come ultimo termine al termine primo della dieresi, cioè all'Idea del Bene, è la sinagoge La dieresi dunque non è solamente una classificazione ma anche una deduzione: in questa deduzione il genere diviso funge da principio, le specie, cioè i generi immediatamente inferiori in cui si divide, da ccmseguenze • (juesti generi e queste specie, come abbiamo detto, non  sono delle collezioni di oggetti particolari, ma le Idee che loro corrispondono. Che fa infatti il dividente? Pone prima  l'Idea di un genere, e poi quelle delle specie contenute in questo genere Perchè questo processo sia una deduzione, bisogna dunque che tra la prima di queste due posizioni-^quella dell'Idea dv\  genere e la seconda quella delle Idee delle specie contenute in questo genere    vi sia il rapporto di principio e conseguenza. La deduzione del dividente è COSI un passaggio continuo dalia posizione di un'Idea a quella di altre Id€?e, come abbiamo visto della deduzione del dialettico, prima d'aver identificato la dialettica con la dieresi. Questo passaggio continuo dalla l>osizione d'un'Idea quella di un genere alla posizione di ailtre Idee quelle delle specie che e^so  contiene e di cui ciascuna diviene alla sua volta il genere di una nuova divisione è un passaggio da un'affermazione esistenziale ad un'altra affermazione esistenziale: ogni divisione stabilisce che esistono, nel genere diviso^ t«li specie determinate, ed esse sole, dopo che si è stabilito, in una divisione antecedente,  l'esistenza, in un Filebo altro genere superiore, di questo genere e del    genere •collaterale, e di essi soli. In verità il dividente non afferma espressamente l'esistenza del primo genere, quello «he costituisce il punto di partenza di una dieresi: ma la posizione di questo genere, cioè dell'Idea corrispondente, deve implicare anch'essa un ^affermazione perchè n(m potrebbe servire da premessa in una deduzione, se non fosse l'equivalente di una proposizione, e  la posizione di un'Idea non può implicare altra affermazione che •quella dell'esistenza di quest'Idea. La dieresi, considerata come metodo di dedurre le Idee, è dunque un seguito continuo di affermazioni esistenziali, in cui l'antecedente è il principio della susseguente e la susseguente la conseguenza dell'antecedente. Il principio afferma l'esistenza di un'Idea generica: la conseguenza,  che esistono, contenute in quest'Idea generica, tali Idee specifiche determinate, ed esse sole. Ogni affermazione parziale compresa in questa conseguenza, cioè quella dell'esistenza di ciascuna Idea specifica che diviene un'Idea generica in una divisione ulteriore è «alla sua volta il principio di una nuova conseguenza, che non è che un'altra affermazione esistenziale simile all'affermazione  totale della conseguenza pt^cedente. Applicando il metodo di una maniera completa e sistematica, si avrà il sistema delle Idee riprodotto in un sistema di affermazioni esistenziali, che dall'Idea supi^ema del Bene o dell'Essere andm sino a quelle delle specie infime,  discendendo tutti i gradi della generalità per una deduzione progressiva, che svolgerà continuamente dal generale il  complesso dei particolari in esso contenuti. La proposizione che la dieresi è un metodo deduttivo, che consiste a dedurre dal genere le specie che esso contiene, significa che noi possiamo, secondo Platone, per la sola forza della logica e indipendentemente dall'osservazione reale, scoprire nell'Idea generica le Idee specifiche ad essa subordinate; ciò che implica che noi possiamo, secondo  questo filosofo, conoscere a priori che un dato genere si divide in tali specie determinate. In questa deduzione in cui Platone fa consistere la dieresi^ il principio, abbiamo detto, afferma che un certo genere esiste, la conseguenza che, in questo genere, esistono tali specie determinate, ed esse sole. Questa conseguenza contiene così due affermazioni: l'una che tali specie determinate esistono; l'altra che non esiste alcun'altra specie, e che esse sole esauriscono tutta l'estensione del genere. L'una e l'altra di queste affermazioni sono secondo Platone delle verità deduttive, cioè che noi scopriamo nell'Idea generica per la sola forza della logica e indipendentemente dall'osservazione reale. Due sono dunque le verità a priori, incluse secondo Platone, in ciascuna divisione: la prima che il genere contiene queste specie, e la seconda che non contiene che queste sole. Una verità A PRIORI essendo anche una verità necessaria, cioè il cui contrario è inconcepibile, queste due verità non sono solamente A PRIORI, ma anche necessarie, cioè il loro contrario è inconcepibile. Platone suppone dunque in ciascuna divisione; 1» che, esistendo il genere-cioè data la  realizzazione, nella natura, del concetto generico corrispondente esistono necessariamente le specie reali determinate che esso contiene; e che queste specie esauriscono, pure necessariamente, l'estensione del genere, in modo che l'esistenca di qualche altra specie sarebbe inconcepibile. Un esempio potrà chiarire questa differenza tra la dieresi platonica e una semplice classificazione. Quando il naturalista divide i vertebrati in mammiferi, uccelli, rettili e pesci, egli non enunzia che una verità di fatto: egli afferma semplicemente che queste classi esistono, e che esistono esse sole. Così la divisione del naturalista non che è una semplice classificazione: per essere una dieresi alla platonica, egli dovrebbe mostrare, non solamente die i inani in ìferì, gli uccelli, ecc. esistono,  ina die non possono non esistere dato che esistano dei vertebrati; né 8olament.e che queste sole classi <?sÌ8tono, ina che esse sole possono esistere, e l'esistenza -di qnalche altra chisse è inconcepibile. Vi hanno dei casi in cui questa seconda supposizione della divisione platonica si veriftea effettivamente; p. e. quando si divide la linea in ietta e curva, o, per tornare alle clnssitìcazioni  del nasumlista, quando si divide Tanimale in vertebrato e invertebrato: noi vediamo che, nel jnrenere dato, (pieste sole specie possono esistere, e non solamente che esse sole esistono; la divisione esaurisce necessariamente tutta l'estensione del genere, perchè 1'esistenza di qualche altra specie sareb>>e  inconcepibile. Ma f»erchè una tale divisione tosse una dieresi alla platonica, bisognerebbe che si verificasse anche la prima supposizione; ciò che non è, perchè dato il concetto della linea o dell'animale, e dato che (piesto concetto si sia realizzato nella natura, non è necessario nel senno indicato di questo termine ch'esso si sia realizzato in tutte le specificazioni di cui è logicamente suscettibile; in altre parole, non è necessario che, se esisti^ la linea o l'animale, esiste tanto la retta quanto la curva, tiinto il vertebrato <iuanto l'invert^^brato, la realtii del concetto non importando la realtà di tutte le sue specie possibili, cioè concepibili, ma solamente di (jualcuna di (|ueste s|»ecie Noi abbiamo visto che la ]M>sizione dell'Idea generica implica, per Platone, l'afterniazione dell'esistenza di quest'Idea, e che è quest'affermazione che funge da principio cioè da premessa nella deduzione in cui consiste la dieresi. La posizione dell'Idea della linea o dell'animale equivale dunque per Platone all'affermazione della realtà ^i questi concetti l'Idea platonica non è, lo sappiamo, ^he il concetto obbiettivato; in altri termini essa equivale all'afiermazione  dell'esistenza  della  linea  o  dell'ani  255   male.  Ma  perchè  dalla  posizione  del  concetto  di  linea o  di  animale,  e  dall 'affermazione  esistenziale  che,  secondo Platone,  implica  questa  posizione,  possa  dednrsi l'esistenza  della  retta  e  della  curva,  del  vertebrato  e  dell'invertebrato,  bisogna  che  Platone,  ponendo  un  concetto, intenda  affermarlo  in  tntta  la  sua  estensione  logica  intendendo  per  estensione  logica  quella  che  abbraccia, non  tutte  le  specificazioni  di  questo  concetto  che  si  sono realizzate  nel  mondo  obbiettivo  (questa  potrebbe  chiamarsi l'estensione  reale),  ma  tutte  le  sue  specificazioni possibili,  cioè  concepibili  -.  Per  esprimere  lo  stesso  pensiero con  una  locuzione  platonica,  bisogna  che  Platone, ponendo  l'Idea  della  linea  o dell'animale, intenda affermare, non semplicemente che la linea e l'animaie esiste, ma che esiste tutta la linea e tatto Vanimalc espres'sioni di cui Platone si serve per indicare che il genere denotato dal nome va preso nella sua totalità; ciò che noi esprimeremmo dicendo:OGNI linea, OGNI animale, salvo che la locuzione dell’accademia implica, oltre alla realizzazione evidente dei  concetti di linea e di animale, che questi concetti si prendono nella loro estensione logica, mentre nella nostra locuzione sono presi nella loro estensione reale. Così la dieresi platonica, considerata come metodo di dedurre le Idee, s)ippone, in ultima analisi, queste due condizioni: che le specie in cui un genere si divide siano tutte le specie possibili di questo genere; in altri termini, che  la divisione di un concetto generico esaurisca tntta la estensione logica di questo concetto; e che ponendo il concetto generico, esso si aflPermi come reale, pure in tutta la sua estensione logica. Queste condizioni realizzate, la dialettica di Plat  Olle sarebbe una vera deduzione, nel senso pro Sappi. prìo e logico del termine, e non una semplice sofistica, come quella di Hegel: noi vedremo  in seguito sino a qua! punto si realizzino. Questo significato della dieresi platonica, che noi abbiamo dedotto dalla identità di questo metodo col metodo dialettico, quale è descritto  sovratutto nella Repubblica, è anche confermato, oltre a ciò che diremo nel prossimo paragrafo, dalle seguenti osservazioni.^  lu apriorità della dieresi è espressa chiaramente nel Timeo: Quali e quante  specie la mente vede inesistere in ciò che è animale vale a dire nell'Idea dell'animale, tali e tante stabilì il Demiurgo che questo mondo dovesse riceverne. Ciò significa evidentemente che si può,  per la semplice inspezione dei concetti, e indipendentemente dall'osservazione del mondo reale, conoscere le specie in cui un genere si divide. Questa apriorità non è del resto che un'applicazione  delle dottrine generali di Platone sulla scienza e il metodo scientifico. Ch'egli abbia fatto effettivamente quest'applicazione si vede anche nel Politico, dove dice che noi conosciamo naturalmente tutto, ma come in un sogno, e acquistare una conoscenza nuova è passare dal sogno alla veglia; jjerchè egli non enuncia qni que Suppl. Più giù dice cbe ne non fossero stati creati gli animaU  mortali, il mondo non sarebbe perfetto, perchè non conterrebbe tutti i generi degli animali: Tutti i generi »qui non può significare tutti quelli cbe esistono di faitOy cioè ch« l'osservazione ci mostra nel mondo reale, ma tutti quelli che la mente vede inesistere in ciò che è animale, cioè che noi conosciamo A PRIORI che devono esistere,  ste proposizioni generali  t5he per applirarle al  caso particolare di cui è quistione, cioè W nuove dieresi necessarie per comiJetare la dehnizione del politico. Aristotile ci attesta che, secondo l’accademia, la dieresi è uua diuiostrazione. Nelle AnaL Fast. egli attribuisce ai fautori di questo metodo la pretesii di stabilire con esso (liiuostralirameiìfe che tutt^o ciò che è nel genere diviso si trova o nelPuno o neir altro dei due opposti  secondo cui il genere si divide, in altri termini che (|uestr» comprende realnxMitc^ le specie detìnite per (juesti due opposti, e n(»n comprende che queste sole speci(». Xelle AnaL f'r, Xoii fa un silh»»;isiiio vhì crostniiscc la dfHiiizinnc col nietodo divisivo. Conu* infatti ìwUv fonchisioni senzji medio, st^ alcuno dico che, s;» è «nu*sto, è necess:niauieiitc quest'altro, avviene che altri  ne domandi il pcrclir; . così ndlc dctìniziimi costruite col metodo divisivo. Che è liionio? l'u animale mortale, pedestre, bipede, implume. M.i perche t si domanda per ciascuna di «lueste attribuzioni. Il dividente #//m e di mosti fra roti i a dieresi y come erede, eke tulio v o morfitle o immortale tutto vu<d dire evidenteuuuite: tutti» ciò che «> nel j^euere di cui mortale e immortnle sono  le differenze. cio«> nel ;;enere animale). Ma tutto questo discorso non e una definizione. Per cui. iiuand'anclie si dimostri con la dieresi. In definizione almeno non si fa con sillogismo. Arist. Aitai. P.^si. Per conjprendere hene questo luogo, bisogna confnmtarh> con Anni., in cui Aristotile fa vedere che. per ciascuna delle elivisioni successive, è senza prova che la cosa definita si pone  nell'uno dei due membri di questa divisione anziché nell'altro; p. e., in una dieresi per ottenere hi definizione dell'uomo. dopo aver diviso raninmle in mortale e iunnortale, è senza prova che si dice che l'uomo è mortale; perchè da ciò che ogni animale è o mortale o iunnortale, ne segue che l'uomo deve essere o l'uno o l'altro, ma n«m che sia l'uno anziché l'altro. i *i> .>S  , cont:iit;iiHl<)  lo opinioni platonidic sul valore dimostrativo «Ulla  dieresi j, mostra elie essa non potrebbe servire alla dimostrazione di oji^ni quistione, e che non è che una piccola ])or/ione del metodo dimostrativo: proposizioni in eui non possiamo vedere naturalmente che le jintitesi delle tesi di Platone, di cui sappiamo *x'\ìi h* Idee sulla universalità del metodo  dialettico (:^). Nella sua critica  della dottrina che la dieresi è' lina dimostnizione, Aristotile prende di mira, quasi esclusivamente, un'applira/Jone di questa dottrina, cioè che è una dinKKsMazione della  <h*tìnizione. È perchè egliiion considera la diensi rlie come un mezzo per trovare la detinizione: è così int'attti che IMatone la presenta nei i\\w  dialoghi in <ui pratica (piesto metodo, cioè il Solista e il Politico <-iò  in eui dobbiamo vedere un altro esem|Mo dello sforzo costante di (piesto filosofo di riattaccare, più che può, le sue speculazioni alle ricerche di Socrnte e dei socnitici (H)-. NelPAppendice il  coiiimcuijuio  d'Alcssaudn)  «l'Afrodisia.  «piosto pjinij»r. pa^. 2t7 sul luogo dol Fileho, e il palagi'. Amtt. I*r. l. v^AunL  Poni. nota. La dieresi dimostra . necoiido Platom*, la definizione, in quanto dimostra resistenza dell'Idea definita. Dimostrata per la dieresi l'esistenza d'un* Idea, Platone ammette ehe sia dimostrata al tempo stesso la sua definizione, pcrebò egli jiresuppone che i caratteri che si vanno progressivamente aceumulaudo nelle divisioni successive per arrivare alla posizione di tpiest' Idea, devono costituire la totalità dei suoi caratteri esHemiali, cioè primitivi e da cui tutti gli altri possono dedursi. Per la dottrina che la definizione si riferisce all'Itlea, v. il Sappi. noi abbiamo visto quale sia il sioniticato del termine di dimostraziouG in Aristotile, cioè che essa non è per lui una sempliee deduzione, ma una deduzione in cui la proposizione conclusa diviene, per la deduzione stessa, una verità razionale e necessaria. Come ablùamo osservato nel    10'\ Piatirne definisce la dialettica l'arte d'interrogare e di rispondere, ^ designa con questo nome tanto il metodo particolare al suo sistema, quanto l'arte della discussione ordinaria, quale V insegnavano i sofisti. Notiamo ehe cif) ^gli fa nei luoghi stessi in cui espone il metodo dialettico, descrivendolo, ud FHvho, come metodi» di divisione e sin}igO;i;e, e nella Repubblica, eome metodo  di dedurre le l4lee e scoprire le Ipro definizioni Questo passaggio n-a il senso stretto del termine dialetliea eon eui designa il metodo particolare al suo [»roi)rio sistema e il senso più lato (eon cui desig'ia l'arte della discussione in generale; (piesta idenliiicaziiuie. per conseguenza, tra i due concetti, il più particolare e il più generale,  designati da (luesto termine; signitìcaiìo evidentemente  che, secondo Platone, la sua dialettica non differisce in sostanza da una discussione ordinaria ben condotta, o, facendo astrazione dalla forma dialounca, clic è un (ilemento accessorio, dal ragionamento ordinario e dai processi Nella Rep. Nella Rep, anche Fileho. Come si vede nei dialo<»bi propriauu*.ute dialettici, cioè il JSofìsta e il Politico, in cui, come dice TOCCO (vedasi)  Ricercht  piatoniche. la forma drammatica scomparisce per far luogo all'espositiva,  e alla ricerca in comune del vero da scoprire sottentra rinsegnaniento della verità già trovata. Nel Sofista lo stesso ospite di VELIA riconosce elio il dialogo non h no<3C88niio. V^^^-• BBBBI I I di cui esso fa uso. Platone non può essere dunque, come Hegel, r  inventore di una logica uiwvtv, diversa ttalla comune e in antitesi c«>n essa: la sua dialettica non può essere cbe un caso dalla logica comune, e deve fondarsi sugli stessi principii. Ora la logica comune non conosce che due processi, 1'uno che conelude dai particolari al generale induzione, l'altro che conclude dal generale ai particolari deduzione. Sono appunto i due processi della dialettica di Platone le due vie, com'egli li chiama  (1> descritti  nella Repnhhlica, e che noi abbiamo identificati,  V uno con la SINAGOGE e V altro con. la dieresi. L'osservazione precedente trova nn'altra conferma nel luogo più v.ilte citato del Fedone, i» cui Platone riassume il metodo da lui seguito dopo la scoverta della teoria delle Idee, cioè: stabilito un principio, porre come vero ciò che si accorda (^),A(oa)^€r) co» esso, e rigettare  come falso ciò che non si accorda. Questo luogo prova che la deduzione a cui aspira Platone è una vera deduzione, fondata sul principio della coerenza come si vede dalla parola greca citata  e che non pone esplicitamente nella conclusione se noa ciò che implicitamente è contenuto nella premessa. Tutte le Idee, come abbiamo visto si deduU) Kep, In verità la SINAGOGE noo  oorrispoDcle che a quella specie d'induzione, che non ia che lia.smnere in una proporzione gènerale tutti i fatti particolari osservati. La vera induzione dei lo'Tici moderni, quella che estende realmente la nostra conoscenza, aiTdando dai fatti osservati a quelli non osservati, non può aver luogo in un metodo assolutamente aprioristico, qual ^ la dialettica di Platone. la  nota e u. <50no  dal heiw, e questa è l'idea generalissima, di cui tutt« le altre sono delle specie o delle particolarizzazioni. È naturale d'inferirne che la deduzione platonica, cioè )a dialettica, o, più propriamente il processo d/^cewMvo di questa dialettica conclude sempre dal generale ai particolari, dall'Idea dal genere a quelle deHe sue specie. Questa osservazione conduce più prossimamente al nostro  scoi>o, si^ ricordiamo ciò che abbiamo notato. n., cioè che il modo in cui nel Fedone viene spiegata l'esistenza di ciascuna cosa suppone che il principio della deduzione platonica di tutte le cose dall'Idea del Bene sia questa proposizione generale: fMtto ciò che è bene esiste è questo per altro il solo senso in cui possiamo concepire che le forme particolari del Bene si deducano dall'Idea  generale Se è così, non è logico di concluderne che la deduzione platonica consiste, in tutti i suoi gradi, a porre un genere in tutta la sua estensione logica tutta la linea^ tutto Vanimale, o, NELLA LINGUA ORDINARIA GRICE LA LINGUA ORDINARIA, ofjni linea possibile, offni animale possibile e poi a dedurre, dal genere così posto, tutte le specie che implicitamente contienef  Che ponendo un'Idea generale, cioè suscettibile di dividersi in Idee più particolari, Pl}#one intenda affermare il genere corri s[»on dente in tutta la sua estimsioue logica, non è solo una generalizzazione del fatto che ciò egli fa ponendo l'Idea del Bene, ma può anche concludersi da una conseguenza necessaria di questo fatiti. Se tutto ciò che é bene esiste^ ne seguirà che tutte le  specificazioni possibili del Bene devono esistere; quindi ancora tutte le specificazioni posgibili di ciascuna di queste specificazioni. Così, tutti i generi esistenti essendo per Platone delle specificazioni del Bene, la conseguenza sarà che tutte le specie possibili di un genere s<mo reali, in altri termini, che dato un genere, sono date per ciò stesso tutte le sue specie possibili. Platone ammette  dunque che ogni concetto generico, più o meno generale, ch'egli deduce dal Bene, può essere atfermato in tutta la sua estenèione logica. Se ciò non prova che questi concetti intende a^ fermarli così nelFatto stesso in cui li dediice, pròva almeno cìu^ esiste la condizione necessaria perchè possa farlo; e noi dobbiamo supporre eh'egli lo fa effettivamente, se vogliamo spiegarci la  progressività della deduzione dialettica, cioè coni'essa sia una deduzione h gradi multipli, che va continuamente, com'egli dice, * da Idee a Idee per via di Idee – cf. GRICE VIA D’IDEE, VIA DI PAROLE, VIA DI COSE.  >  È l'ipotesi più ovvia, o a dir meglio, la sola ovvia – SPERANZA VIA DELLA CONVERSAZIONE,  che possa farci comprendere questo tratto essenziale del  metodo dialettico, precisandociò che d'una ni iniera generica abbiamo stabilito. Come ultima prova dell'identità tra la dieresi e là deduzione dialettica, indicheremo il rapporto di aHienorità e posteriorità che Ptatone ammette tra le Idee come fanno, con gli stessi termini o con termini analoghi, tutti i metafisici i cui sistemi appartengono al tipo realismo dialettico V a ìì ter io rità e  posteriorità indica i gradi successivi dello sviluppo logico, significando la derivazione dell'Idea posteriore dall'Idea anteriore, Orav secondo Platxme, Vaiiterittre è il generale, e il posteriore il [mrticolare: l'Idea generica è anteriore alle Mee specifiche, e queste sono ad essa posteriori. Dunque, secondo lui, le Idee specifiche derivano logicamente dalla Idea generica; questa è il principio,  e quelle le conseguenze; e lo sviluppo logico delle Idee è un progressi continuo dal generale al particolare, che va dal vertice della piramide ideale a: la sua base, passando successivamente per tutti i gradi intermediHri. Della dottrina dell'anteriorità e posteriorità delle Idee parleremo più lungamente: ma qui era necessario di accennarla, mostrandola sotto il suo aspetto logico, mentre aUora la considereremo sotto l'aspetto ontologico LORHARDUS ONTOLOGIA OGDOAS SCHOLASTICA Grice Strawson Pears Metaphysics -- Prima di finire questo paragrafo, noteremo la stretta affinità tra il sistema di Platone e quello di Taine, affinitji tanto più col|)ente che questo filosofo, accettando l'interpretazione trasceìulentalista della teoria delle Idee, non era posto a un   t>unto di vista da cui potesse comprendere il valore e il signifiejito della dialettica platonica. Ricordiamo la gerarchia di necessità di cui parla Taine, di cui la priina, creatrice universale, genera un gruppo di necessità subordinate, che alla huo volta producono ciascuna un nuovo grujipo, e così di seguito, 'Sinché appariscano i dettagli moltiplicati e i fatti particolari dell'osservazione  sensibile. Ric(udiaino pure che queste necessità non sono delle semplici proposizioni generali o dei concetti astratti, ma delle cose astiatte e generali, in altre parole dei concetti realizzati come le Jdee platoniche; che le necessità superiori sono le gèralità più elevate, e le necessità inferiori ad esse subordinate le generalità meno elevate che esse contengonoe infine che questa produzione  o generazione di necessità ncm è che la filiazioni» logici, per cui la consegaenza derì%\'i dal principio. Del lesto sircome la deduzione del Inaine non è una divisione del genere nelle sue specie, come quella di Platone, ciò die vi ha di comune tra i due fil isofi, oltre alla realizzazione dei concetti e agli altri caratteri del realismo dialettico fra cui la sistematicità e l'unità di principio, si  riduce a quest'idea assai naturale, che la dediizi(Mie. come filiazione logica dei concetti realizzati, è concepita sul tipo della deduzione ordinaria, cioè come una conclusione dal generale al particolari' 'A), .«• i'ò Si potivhbe <lmiqin'  ilin dn. m.l rettìisttnt (lltb'lllc.a  i siKtcìiii di Platone v «li Taiiu' rappiesent:iiio un jrem'n^ dÌHtinto ^t iti Come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente,  la dieresi platonica, considerata come metodo deduttivo, è fondata su due principii:  l'uno che le specie in cui un genere si divide sono tutte le sue specie poscarattcrizzatii da ciò.  rlic i concetti  obbiettivati foruiauo uua gerarchia ai piiiicipii di lina generalità crescente, in modo che la deduzione va «einpre da un principio generale a un gruppo di principii più particolari compresi 8otti>  di esso. 11 carattere specifico del sistema platonico è che questa deduzione è al tempo stesso una classitioazione, in altri termini, ohe i due processi logici deUa deduzione e della divisione formano per Platone una sola e stessa cosa . eh'egli chiama il metoffo dialettieo. Questa circostanza speciale del sistema di IMatoue tiene forse in gran parte allo stato delle conoscenze positive nella  sua epoca. Delle due parti in cui si può dividere la scienza della natura. ci<»è la fisica f,e7ierale e la fisica parlieolare o storia naturale, le prime acquisizioni scientifiche non potevano concernere quasi unicamente che la seconda: in tali condizioni del sapere positivo è ovvio di considerare couìc primitive e irriduttibili le uniformità «pedali osservate nei domini particolari della natura ed  elevarle a tipo di tutt*^ le uniformità dei fenomeni, e i concetti particolari allo studio degli esseri viventi esercitavaut> facilmente un'influenza preponderante sulla concezione del mondo e dell'essere in generale. Hi là quella filosofìa che potrebbe chiamarsi orr/anicisia di cui . nella storia della filosofia. Platone ed Ari8t4»tile ci danno gli esempi più evidenti.  I^ definizione d'Aristoaie  deir essere naturale in generale  € ciò che mosso continuamente da un principio interno perviene a un fine determinato Phys. è evidentemente foggiata sul tipo dell'essere vivente. U concetto dell'essere in Plat<me ed Aristotile apparisce con questi caratteri: di essere governato da leggi propri© cioè speciali ciò che spiega V’imporwinza nella loro filosofia, deiresscHza e della definizione:  di essere la causa spontanea dei proprii cangiamenti; e di tendere, in tutte le manifestazioni della sua attività, ad uno scopo interno. Sono i caratteri che, nella interpretazione primitiva dei fatti . dovevam»  essere attribuiti >igli esseri viventi, lì mondo delle Idee è sovratiitto per Platone la rappresentazione del mondo degli esseri viventi: l'universi» sensibile h un animale che contine tutti  gli animali sensibili, e il suo archetipo è Tldea deiranimale, c<mtenente, come sue parti, tutte le Idee generiche e specifiche degli animali Tim. e. J»2  e. pure Arist. Mei,: Se i numeri ideali vanno sino a dieci, non ye ne «iranno per tutte le idee: le specie degli animali sono di pifi. i»er comprendere come Platone possa ridurre tutto il mondo delle Idee al couiplessc»  delle Idee degli  animali, bisogna ricordare ch'egli riguarda ccuiie animali le piante, gli astri e il mondi»  stesso come un tutto. Tuttavia il pensiero di matone non ò che non vi hanno altre Idee che di animali, ma che il complesso delle Idee degli esser animati, dall'Idea universale di essere aniniait<» alle specie infime degli animali, contiene in sé tutto il nuuido delle Idee, ogn' Idea che non sia Idea di  essere animato. essendo quella di qualche parte o qualche attributo di essere animato. Del resto l'infiuenza dei c<»ncetti desunti dalla considerazione degli esseri organizzati sulle concezioni generali della filosofia platonica si rileva sovratutto nei tre punti seguenti: •» 1termini f'Jto, tZrfof  «  ^»n<»»""«<'«>""' ^ P»^*^»^*' italiane corrisp<m<lenti specie, genere, tipo  ecc., esprimono  dei concetti che hanno avuto evidentemente la loro prima origine nella comparazione degli esseri organizzata e richiamano s<»vratiitto dei rapporti esistenti tra questi esseri. Queste par(»le sinoontrano ad ogni passo nelle opere di zoo:(»gia, di botanica e di scienze affini. La dottrina delle Idee ci mostra anche per un altro lato linfiuenza della concezi«>iie che abbiamo chiamato  orfianieÌHÌa\  è. che essa vede nelle Idee \v necessità primitive della natura, ciò che importa che i fenomeni di ciascun essere come, almeno in apparenza, quelli degli esseri organizzati si spiegano per la natura o l’essenza speciale di quest'essere, in altri termini che «»gni cosa ha delle leggi speciali da cui sono regolati i »uoi fenomeni. La riduzione iXaWcHsema alla forma, che si trova 1-.  ^.  sìbili, in altri termini che la divisione esaurisce l'estensione lofifica del genefe; e l'altro che, ponendo nn contauto in Platone quanto in Aristotile. è sujriserita aneli' essa «lalla considerazione degli esseri organizsati, perchè in questi la forma  è, come dice Cuvier Regni animale più essenziale che hi materia Aggiungiamo in fine rhe le attìnità di diversi gradi esistenti tra  gli ess<*ri  viventi, tra quelli sovratutto tra cui non si ammette alcun legame geneah»gico.  suggeriscooo vagamente V idea di qualche cosa d'identico e di esistente per se stesso, di un;i torma comune che s'inq»rime nei diversi esseri di uno stesso tipo. Così Agassiz dice: 41* individui sono solamente i sustrati SOGGETTI SOSTANZE PRIME SOSTANZA PRIMA SOGGETTO SPECIMEN di tutte queste CATEGORIE GRICE CATEGORIA PRAEDICAMENTVM PREDICAMENTO PREDICAMENT I PREDICAMENTO CONVERSAZIONALE DI GRICE categorie della struttura su ciìi si fonda il sistema naturale della zoologia Della  speeie e della classificazione in zooloffia. Gl'individui non eostituiscono la specie, la rappresentano e cosi pure il genere, la famiglia.  1’ordine, ecc. Cuvier cinsegna che i sott'oregni {enìbranche nienls)  s(mo fondati sulla distinzione di piani di struttura diversi, di fornte o di modrfli differenti. dentro cui ijli  animali Harelèhi'r(t stali per  e,os) dire fasi» A meno che le forze tisiche già in attività non ahhiano immaginato questi piani. e non li ahhiano in seffnito iènpressi nel mondo materiale come nn modello nel (piale  la nalura fonderebbe ormai costantemente tatti  f/li esseri, non avrehhero potuto aver luogo queste relazioni generali tra gli animali. Che si prendano qui'stc metafore nel senso proprio, e si avrà il sistema delle Idee. Il metodo di Flatcmc non è che il metodo dei naturaliftti la cui prima applicazione ò stata alla natura vivente, al quale egli airgiunge 1'apriorità e la necessità, in una parola  la deduzi<me. La gerarchia delle Idee platonicln^ ci dà un'immagine aggrandita e, ]»er dir Cv>8i, condensata di i[uesta gradazione moltiplicata di tipi di una generalitìi d^'cr.'S^ente, di questa disposizione arborescente delle fornu^ della natura, che è sì evidente sovratutto nella natura vivente. Senza dubbio i gradi delhi gerarchia, nel mondo ideale di Platon**,  s(mo assai più numerosi  ohe cetto generico, s'intende atferma^rlo iu tutta la sua estensione logica. Il secondo di questi due principii suple categorie CATEGORIA IL PREDICAMENTO CONVERSAZIONALE DI GRICE, esprimenti i diversi gradi di athnità tra gli esseri viventi, ammesse dai naturalisti. Senza dubbio ancora, la più parte delle at!ìnità si; cui i gruppi sono fondati nelle classificazioni dei  naturalisti, non pcitevano nemmeno e»sere sospettate all'epoca di Platone. La classitìcazione degli animali di Linneo HOMO SAPIENS SAPIENS TIGERS TIGERISE HOMO SAPIENS SAPIENS HUMANISE non com])rende che quattro gradi -- classi, ordini, generi e specie!;  Aristotile. ehe è riguardato come il fondatore delle grandi chissiticazitmi Cuvier ^SVorm delle scienze  naturali t. P^  14<») non ammette che tre graditi generi s(un^•»i  (ui^aatn', P e. gli uccelli, i pesci GRICE ICHTHYOLOGICAL NECESSITY, i serpenti, ecc.. i generi medi (utyà'/ia) ^  l* specie De animalilms Ifistoriar Ma (dtre le identità di organizzazione su cui sono fVmdati <|uesti gruppi, vi hanno per Aristotile delle analogie o anche identità parziali su cui possono fondarsi altri  gruppi. Così i «eneri sommi  rhe corrisponderebbero press'a poco allo classi dei vertebrati, si riuniscimo nella CATEGORIA generale di tt'diua <*i^*' provvisti di sangue, che corrispon<lerebbe al sotto-regno tlei vertebrati. Al di sopra di questi». divisioni Aristotile ammette naturalmente quella  <ii animale e quella superiore di essere vivente. Cert;iniente Platone n(m  erji un naturalista; egli non era capace di distinguere, nei gruppi ch'egli forma, l'analogia più o meno reale dalla vera affinità. Ma appunto perciò dove essere portato a nioltiplicare indeti  aita niente i gradi di affinità tra gli esseri reali, per questa temleuza a trovare da per tutto un'idea generale, che costituisce secondo lui lo spirito fatto per la diah'ttica. L'inipmtanza della natura vivente nella dieresi platonica  risulta anche dalla,  critica di Aristotile, questo metodo, negli esempii eh*egli ne dà. applicandosi per il solito agli esseri animati Mei. De pari, animal., Anat. f*r. Anul. Post., ecc. Si sa inoltre che il successore immediat<» di Platone, Speusippo. mostrò le affinità tra gli esseri ns'ili cere indole specialmente tra gli esseri viventi  (v. MiiUaoh pone il primole non implica die la determinazione  dì prendere i concetti in un senso particolare, difforme, a dir vero, da qnello in cui generalmente vengono presi. Il primo è la condizione necessaria del seconde^, ed implica una veduta particolare sulla natura reale delle cose. È esso dunque il tratto veramente caratteristico della dialettica platonica: noi dobbiamo stabilirlo d'una maniera più diretta, mostrando al tempo stesso il modo determinato in cui Platone cerca di applicarlo. Perciò prima di tutto noi richiameremo l'attenzione sui caratteri particolari della dieresi platonica, di cui abbiamo parlata, cioè che ogni divisione è una dicotomia, che ciascun membro di ogni dicotomia è definito per una differenza unica, e che le di» differenze sono contrarie. Quale potrebbe essere lo scopo di queste condizioni a cui Platone  si astringe costantemente nella pratica del suo metodo? Queste condizioni implicano una certa ipotesi sulla natura reale e un'ipotesi evidentemente contraria ai fatti dell'osservazione, perchè, ricordiamolo, il metodo di Platone è un metodo naturale, in cui ciascuna parte di ogni «liviFragtH. phil gmeror. voi. IH.  Fnigm.  SpciiKÌppi: era evidenteineute un' uppiicaziimc e uua confcruiii, »al teiiciio dei fatti, dei priiicipii della dialettica platoiiiea. Infine il concetto teleologico o FINALISTA metier, di cui Platone fa la forimi generale di tutti gli esseri t^  la legge foudanientnle della natura, ha la sua  applicazione più plausibile, l'unica secondo alcuni filosofi, come Kant O KANTOTLE se non ARISKANT PLATHEGEL o HEGPLATO, noi inoivdo degli esseri viventi. In una nota noi vedremo come certi sviluppi ilei concetto teleologico o FINALISTA GRICE METIER i»i alcuni natunilisti possono gettare qualche luce sovra uno dei punti più importami della dialettica dell’ACCADEMIA, cioè die le specie reali in cui un genere – ORNITORRINCO ECO si divide, sono tutte le spìccie possibili di questo genere. sioue deve essere un genere, e la definizione di ciiM^cuno di questi generi deve abbracciare. la totalità dei suoi, attributi primitivi. Qual è dunque, ci domandiamo, il motivo di quest'ipotesi  f  La risposta non è diffìcile: è che essa era la più  propria a dare una torma determinata all'ideale di metodo che Platone si era proposto. La lingua ci offre numerosi esempi di coppie di contrari, in cui noi vediamo che il genere in cui essi sono contenuti, non solo non contiene di fatto che questi soli membri, ma che non può contenere che essi soliy resistenza di qualche altro essendo inconcepibile. Questi contrari si chiamano contrari  senza medio: tali sono: uno^ più; movimento, riposo; luce, oscurità; retto, curvo; salute, malattia; saggio, pazzo; scabro, liscio; ecc. Ai casi in cui dei nomi distinti sono impiegati per designare i contrari, dobbiamo aggiungere gli altri in cui V uno dei nomi contrari si forma unendo all'altro un prefisso indicante \a negiizione: p. e. finito, infinito; normale, anormale; pari, dispari;  conosciuto,  sconosciuto; Grice’s publication, Grice’s unpublication, ecc. Al di fuori di questi casi noi troviamo raramente che i membri in cui si divide un concetto generico siano tutti i membri logicamente possibili: è un fatto dovuto in parte alla struttura della lingua, e in parte alla natura stessa delle cose, che noi ci limitiamo a segnalare senza cercare di spiegarlo. Per conseguenza Platone, in cerca di divisioni che esaurissero l'estensione logica dei generi divisi, eleva questi casi a tipo universale delle sue dieresi, l'esigenza del suo sistema, come di tutti i Bain Log.Vi bauno, secondo lui. nella lingua britannica parecchie centinaia di tali coppie di contrari, in cui per designare ciascuno dei due viene impiegato un nome distinto come negli esempi ohe abbiamo citati. sistemi di  realismo dialettico, essendo rasgoluta unifoi»mità di metodo, perchè il metodo, in questi sistemi, non è nn semjdice processo siihbiettivo, ma la le^ge delle eose stesse, cioè dei concetti fealizzati. La diviene platonica non e dunque semplicemente in due opposti, ma in due opposti fra cui non vi ha medio, cioè oltre ai quali un'altra specificazione del  <::enere diviso, non solo non esiste  di fatto, ma non può essere concepita. E infatti, nelle dieresi del Sofista e del Politico e neìjli esempi che dà Aristotile del met«)di> platonico, noi vediamo lo sforzo evidente di dividere in o])])osti di questa specie: perciò basta di  <lare uno sguardo alle tavole che si trovano nella nota, e alP esempio ehe abbiamo citato sulla fine dello stesso paragrafo. In certi casi Platone non riesi'e ad  t»ttenere una tale opposizione, ma è impossibile che vi riesca in tutti i casi, il suo metodo non essendo che una semplice utopia, che non potremmo attenderci di vedere realizzata d^ma maniera completa., : Che gli opposti in cui Platone divide siano, almeno a quanto egli pretende, degli opposti senza medio, è un fatto attestato espressamente nel luogo seguente di Aristotile: Non è  necessario che il definente e il dividente Sofista, Polit, e Arist. Anal. Pr, Anni. Posi., Departih. Animai., ecc. Nel /^o/*<.,  ili cui vi hauuo le dieresi per trovare V arte del  tessere. que8t(» sforzo è meno evideute. Ma queste dieresi non sono fatte secondo le regole: in molti casi infatti V’autore si limita a dividere in due specie, senza indicare le ditferenze per cui esse dovrebbero definirsi Ora 1'opposizione, e per conseguenza l'opposizituie senza medio, non è, per Platone, iu'inediatamente fra le apecie stesse, ma fra le dift'erenze che le definiscono. conosca tutte le cose che esistono (1^...  Se pone gli opposti e la differenza, e che tutto cade o nell'uno o nell'altro di questi opposti, e pone che la cosa cercata si trova ueir uno, e ciò conosca; niente importa che egli sappia o  ignori le altre cose a cui le differenze possono attribuirsi. K manifesto infatti che se, procedendo così, perverrà alle specie in cui non vi, ha più differenza,, avrà la definizione dell'essenza della cosa. Che poi ogni, cosa cada nella divisione, sie quelli sono degli opposti fra cui non vi ha medio, non è semplicemente postulato cioè ammesso senza prova benché aì>bia bisogno di esserC;  pnivato);  poiché è necessario che tutto ciò che è contenuto nel generi*, si tr.>vi o nell'uno o nell'altro di questi opjmsti. se sono veramente la differenza di (jnel  genere > . Le parole se somf  def/li opposti fra cni non vi Ita medio noi dobbiamo intenderle come se 1'autore dicesse: s'è vero, come suppongono quelli che adoperano questo metodo, che sono degli opposti fra cui non vi ha  medio. Come aH'ermavano al<Miiii platonici: Spciisippy, secondo i oommeutatori d'Aristotile Mulbicb Frng. phil. graec, Speus. Sulla spiegazione di Filopono di quest*opinione di Speusippo, cioè <*bc egli cerca con quest'argomento di rigettare la divisione e la definizione,  Suppl. // pilay. nei dincep. di Plat.y  Speus: noi non possiamo vedervi, invece, come ivi spiegheremo cbe un'espressione del princijiio platonico del legame intimo di tutte le eonoscenze. La differenza non è naturalmente che uno di questi opposti. 4'*i**totile  si esprime cosi perchè egli vuole enunziare due condizioni, cioè che il dividente ponga due  o)q)osti come al solito, e che fra di essi si trovi una differenza per la definizione cercata. AnaL Posi, lofatti elle cosa vuol provare Aristotile? <5he non è necessario elle il dividente conosca tutte le cose che sona contenute nel genere diviso se questo è il genere assolutamente primo, conni ricliiederebln* un'applicazione rigorosa del metodo, tutte le cose in generale. A questa proposizione può obbiettarsi che, se non si conoscono tutte le cose contenuta nel genere, è senza prova che si ammette che esse cadano tutte nell'uno o nell'altro degli opposti in cui esso si divide. Aristotile risponde che, se si verifica la cx>ndizione della dieresi, voluta da quelli che impiegano questo metodo, cioè che gli opposti in cui il genere si divide siano degli opposti senza medio, non vi ha bisogno di prova per ammettere che tutto ciò che è contenuto nel genere deve cadere o nell'uno o nell'altro di questi opposti. E infatti per essere sicuri che una divisiinie è couipleta, noi non abbiamo bisogno di conoscere tutto ciò che è compreso nel genere, che quaDdo essiv esmirisce la estensione retde di questo irenere, ma non la sua estensioue lotfica y. e. nella divisione dei vertebrati in mammiferi, uccelli, rettili e pesci. Ma quando una divisione esaurisce, non solo l'esten8i<me reale^  uìa  anche 1'estensione loiiica  del genere come in quella degli animali in vertebrati ed invertebrati noi possiamo ammettere senza prova che la divisione è completa, iierchè è una verità evidente per se stessa. La condizione della dieresi che essa deve dividere in opposti senza medio, ci fa anche comprendere l'importanza e il signitìcato del principio platonico che la stessa è la scienza dei contrari, in altri termini che è impossibile di conoscere V’uno dei contrari, se non si conosce – GRICE I KNOW SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE -- al tempo stesso anche V altro. Questo piincipio era I ritenuto così importante per la dialettica platonica, che Aristotile lo dà, insieme allo studio dei contrari in generale, come carattere distintivo tra questa dialettica e quella di Socrate CITATO DA GRICE! Evidentemente esso serviva a Platone per mostrare la necessità della dieresi per la definizione. Infatti^ secondo questo principio^ la conoscenza di un'Idea implica quella dell'Idea contraria – GRICE IS HEARING A NOISE, che è l'altro membro della  divisione,  IT IS NOT THE CASE THAT GRICE IS HEARING A NOISE e conosciute queste due Idee, si conosce per ciò stesso l'Idea immediatamente superiore che le contiene ambedue, perchè non è che la parte comune delle loro definizioni; la conoscenza di quest'Idea implica pure, alla sua volta, quella dell'Idea contraria e dell'Idea superiore che le contiene ambedue, e così di seguito. Ora ciò che c'importa d'osservare è che questo principio, che la stessa è la conoscenza dei contrari, non è vero  ohe se si tratta di  contrari senza medio. In questo caso le due nozioni contrarie si suppongono reciprocamente, perchè ciascuna di esse  È LA NEGAZIONE DELL’ALTRA, e ogni nozione suppone la NOZIONE NEGATIVA corrispondente. Una nozione generale, infatti, non è che il significato d'un termine generale, e per conoscere con precisione il significato di un termine, bisogna Fedone e Legj?i e. Mei,  dopo avere parlato della defiuizione socratica come antecedente della dottrina delle Idee: Allora all'epoca di Socrate non vi era ancora la forza dialettica per poter considerare i contrari, anche a parte della definizione^  e ricercare se la stessa è la loro scienza. Due sono le cose che si possono a buon dritto attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e la definizione dell'universale. Per la dottrina che, per definire una cosa, bisogna ancdefinire la cosa contraria, Bain che ha una dottrina  analogar Logica sapere, non solo i casi in cui può essere applicato, ma anche quelli in cui non può essere applicato; ciò che è appunto avere LA NOZIONE NEGATIVA OPPOSTA A QUESTO TERMINE –GRICE: NOT-NOISE.  j n Il pernio su cui volge la nostra interpretazione della dialettica platonica e potremmo anche dire del sistema intero delle Idee è questo significato, che noi abbiamo spiegato, della divisione dicotomica. Alcuni interpreti, tirando una conseguenza legittima dalla maniera ordinaria di comprendere la dieresi, vedono nell'ammirazione di Platone per il metodo dialettico e quelli che sanno praticarlo, una meraviglia quasi infantile; indizio, essi aggiungono, di un pensiero giovane, che contempla per irV'ma  >^ proprio mondo. Secondo noi invece, la dieresi platonica è l'attuazione, la più completa che fosse possibile, d'un ideale elevato, quantunque chimerico, della scienza e del metodo scientifico. Stabilito che, i»er la divisione in due contrari senza medio, tutt« le specie in cui un genere si divide sono tutte le sue specie  logicamente possibili, ne segue che ciascun genere può essere affermato, secondo Platone, in tutta la estensione di cui è logicamente suscettibile. Vi  ha dunque, secondo lui, una gerarchia di proposizioni di meno in meno generali, di cui ciascuna stabilisce l'esistenza di un genere, aftermandolo in tutta la sua estensiore logica  -meno le ultime, che stabiliscono l'esistenza dei generi infimi,  cioè delle specie nel senso piii stretto, perchè queste, nel sistema delle Idee, non hanno un'estensione, né logica né reale. La prima stabilisce l'esistenza del genere su Sono gl'individui ró àtofia. Arist. Mei., An. Post., De pari. anim. ed. Didot. eoo. L'essere, in questo sistema, non è ohe l'essere necessario, cioè !'i, premo, e può formularsi così: tutto ciò che è bene, esiste tatto ciò che è bene vuol dire, come abbiamo spiegato, ogni bene possibile, ogni specificazione del concetto del bene cbe noi possiamo concepire. A questa sono subordinate altre due proposizioni che stabiliscono l'esistenza dei due generi inferiori in cui il bene si divide; a ciascuna di queste altre due, che stabiliscono l'esistenza dei generi inferiori in cui si divide ciascuno di questi due generi, e così di seguito; ogni proposizione affermando, in una forma generale, che esiste tutto ciò che il nome del genere sigoi fica tutto ciò che è animale, animale mortale, animale mortale provvisto di piedi, ecc. e che le proposizioni susseguenti esprimono d'una maniera di più in più determinata e particolare. Ciascuna di queste proposizioni è la premessa, di cui le proposizioni subordinate sono le conseguenze: così, percorrendo, dalla sommità alla base, questa gerarchia di proposizioni, noi facciamo una deduzione continua, che non  è che lo sviluppo graduale di ciò che è implicitamente contenuto nel primo principilo^ e che da questo andando di conseguenze in conseguenze sino alle conseguenze ultime, non fa che esprimere sotto forme sempre più larghe e più particolari ciò che esso enunzia già nella forma più cempendiosa e più generale. Ogni proposizione corrisponde a un'Idea, e la gerarchia delle proposizioni alla gerarchia delle Idee, che la dieresi percorre dall'alto in basso, anridea; il ooutina:ente, vale a dire ciò che noi chiamiamo Tiadiyiduale, non è un essere, cioè una realtà, ma un semplice fenomeno. Per conseguenza, Tldea generica ha un'estensione, perchè contiene sotto di sé le Idee specifiche; ma queste non hanno estensione, perchè tra gli esseri reali sono i più particolari di tutti, ohe non possono contenere sotto di sé niente di più particolare – the idea of GRICE. dando dall'Idea del Bene a quelle delle specie infime, e la sinagoge dal basso in alto, dalle Idee delle specie infime a quella del Bene. Tutto ciò non è che un corollario della dottrina della divisione dicotomica, quale noi l'abbiamo interpretata. Ma poiché ad ogn'Idea di genere corrisponde per Platone una proposizione affermante la esistenza di questo genere in tutta la sua estensione logica ciò che è la conseguenza immediata della divisione in due contrari senza medio, per mezzo della quale il nostro corollario è stato dedotto dobbiamo noi ammettere che Platone, nell'atto stesso che pone un'Idea generica, intende affermarla in tutta la sua estensione logica? Ciò non segue, in verità, dalla divisione in contrari senza medio: ma come non ammetterlo, quando sappiamo che Platone dà la dieresi  per una deduzione^ e  questa è la condizione necessaria perchè essa sia tale? Per vedere quanto vi ha di chimerico nel metodo platonico, e comprenderne al tempo stesso il valore e il significato, non dobbiamo dimenticare due punti d'un'importanza capitale, che abbiamo stabiliti nell'esposizione precedente. L'uno che questo metodo è un metodo naturale, che, nelle sue divisioni e suddivisioni, pretende di aggruppare gli esseri secondo le loro reali affinità; e l'altro che la definizione, che la dieresi dà di ciascun genere, per il genere superiore e 1'una delle due differenze opposte per cui questo si divide, è una definizione essenziale, che deve esaurire la totalità dei caratteri primitivi del genere, cioè che non possono dedursi da altri caratteri. Non sarebbe impossibile di dividere tutti gli esseri in modo che ogni divisione e suddivisione consti di due soli membri, e che questi due membri siano definiti, come vuole Platone, da due contrari senza medio: ma alcune delle classi così ottenute non avrebbero per caratteri che degli ATTRIBUTI PURAMENTE NEGATIVI GRICE NON-NOISE; la classificazione non sarebbe naturale; e la definizione di ciaficun genere potrebbe bastare a distinguerlo da tutti gli altri generi reali, ma non ne determinerebbe la natura, in modo da poter convenire a questo solo genere, e non ad altri generi possibili, quantunque non reali, aventi una natura più o meno differente. Questa è la circostanza sovratutto importante per la dieresi platonica, che ogni definizione per essa ottenuta deve determinare con una precisione assoluta la natura del genere definito, in modo che se questa fosse minimamente differente, la definìzione non potrebbe più convenirgli: senza di ciò la divisione non mostrerebbe questa coincidenza tra il reale e il possibile, che è la condizione  precipua di questo metodo e la sua speciale caratteristica. Infatti supponiamo che le definizioni delle specie infime non avessero che la precisione sufficiente a distinguere ciascuna specie da tutte le altre specie reali: ciascuna di queste definizioni, quantunque tra le specie reali non si applicherebbe che ad una sola, sarebbe anche applicabile ad infinite altre specie possibili, che, pur avendo la stessa definizione, differirebbero da essa più o meno profondamente. P. e. Vanimale mortale bipede implume supposto che da questa definizione non potessero dedursi tutti gli altri attributi della specie umana, come sarebbe la esigenza del metodo platonico quantunque tra tutti gli esseri reali non potrebbe designare che l'uomo solo, abbraccerebbe, nel tempo stesso che l'uomo, un'infinità di altri esseri possibili, aventi una forma, una struttura e altri caratteri fisici e psichici più o meno differenti da quelli dell'uomo. Ma in questo caso la dieresi non mostrerebbe che le specie esistenti dell'animale esistono necessariamente, e che esse sole  i)ossono esistere: essa non sarebbe dunque una ricostruzione A PRIORI del mondo reale, perchè in una tale ricostruzione necessario, reale e possibile sono dei termini che hanno precisamente la stessa estensione –GRICE SEEING AND SEEING-X.  La condizione dunque perchè la dieresi '^ 'a aia, come vuoìe Platone, una ricostruzione A PRIORI del reale, è che le definizioni, per essa  ottenute, esauriscano r essenza, cioè la totalità de^^li attributi primitivi, dei generi definiti. Allora la dieresi mostrerebbe che le specie esistenti che essa ha riprodotte  tali quali esse efiistono, e, per dir cosi, ricreate esistono necessariamente, perchè contenute nell'Idea suprema, la cui esistenza in tutta la sua estensione logica è. come sappiamo, data A PRIORI e, per conseguenza,  necessaria; e che esse sole possono esistere, perchè esauriscono l'estensione logica dei generi immediatamente superiori, e questi quella dei generi ancora superiori, e così di seguito, in modo che l'Idea suprema, cioè il tipo universale e necessario di tutti gli esseri, si è realizzato in tutte le specificazioni di cui è logicamente suscettibile, e tutto ciò che è possibile è reale, come tutto ciò  che è reale è necessario. È così che la dieresi è una dimostrazione, e che le verità empiriche le ipotesi^  ottenute nel processo ascensivo della dialettica, sono trasformate, nel processo discensivo, in verità razionali e necessarie. La dialettica platonica a parte le supposizioni relative al primo principio, per cui rimandiamo è fondata dunque su tre presupposti: che ciascun genere possa  dividersi per due contrari senza medio ^ senza violentare, con questa divisione, le affinità reali degli esseri che si tratta di classificare.  che le definizioni formate per l'accumulazione progressiva delle dif'ferenze su cui si fondano le successive divisioni, esauriscano la totalità degli attributi primitivi dei generi definiti. che, nel passaggio continuo da Idee a Idee per via d'Idee, in cui  consiste la dialettica, la posizione di un'Idea generica implichi l'affermazione di quest'Idea in tutta la sua estensicme logica. L' attuabilità del metodo platonico dipende dalla verità o erroneità dei due primi presupposti: il terzo, supposta la verità  dei due primi, non trascinerebbe per se stesso alcuna impossibilità pratica neir applicazione del metodo, ma presenta in coinpenso delle  difficoltà d'indole teorica, che mettono in forse la legittimità logica del metodo stesso, considerato come un ideale e astrazion facendo dalla sua attuabilità. Platone ha il diritto di attribuire alle sue Idee un'estensione logica e, in generale, un'estensione qualsiasi Evidentemente le esigenze della dialettica vengono in ccmtraddizione con  quelle della nostra facoltà rappresentativa, quando  cerchiamo di concepire gli universali come delle realtà obbiettive e sussistenti per se stesse. Vi hanno certe condizioni della rappresentazione, da cui il metafisico non può esimersi, anche quando oltrepassa i limiti del rappresentabile: una di queste condizioni è l'individualità; tutto ciò che noi concepiamo, o crediamo semplicemente di concepire, se non è un essere individuale, non può  essere che un aggregato di esseri individuali. Quando Platone divide, com'egli dice, tutto il bene, tutto l'animale, tutto l'animale mortale, ecc vale a dire, come abbiamo spiegato, ogni bene possibile, ogni animale possibile, ogni animale mortale possibile, egli pretende al tempo stesso  che le sue divisioni non si riferiscono che alle Idee; ma è evidente eh'egli non potrà mai riuscire, io non  dico a rappresentarsi, ma a immaginare di rappresentarsi, un essere obbiettivo corrispondente a tutto il bene, a tutto Vanimale, a tutto l'animale mortale, com'egli immagina di rappresentarsi un essere obbiettivo corrispondente al bene, iiiVanimale, M'animale mortale semplicemente. In altri termini, la sua Idea non può essere che un concetto obbiettivato, e non può, per conseguenza,  considerata per se stessa, cioè indipeDdentemeDte dalle Idee subordinate e dalle cose a cui si dice che si partecipa, avere un'estensiooe ne reale né logica, perchè, come ammettono i concettualisti, la quantità in estensione è esteriore al concetto, e gli appartiene, non assolutamente come quella in comprensione, ma relativamente ai concetti subordinati e alle cose a cui esso si applica.  Ciò è perchè un concetto, sia obbiettivato, sia come semplice rappresentazione supposta esistente nel nostro spirito, noi non potremmo immaginarlo che conformemente a questa condizione delPimmaginabile che è V’individualità, vale a dire come un individuo astratto^ sussistente nella realtà o semplicemente rappresentato, come un tipo di tutti gl'individui di una classe, che ha tutti  gli attributi identici in tutti questi individui, e nessuno di quelli particolari a certi individui determinati. Platone concepisce dunque 1'Idea come un individuo astratto, presente al tempo stesso in tutti gì'individui concreti e particolari, e che uno in se stesso, sembra moltiplicarsi apparendo come altro nei diversi individui particolari in cui è presente: tutte le forme in cui egli esprime il  rapporto fra le Idee e le cose, che l'Idea è l'uno nei molti, che è una e la stessa in tutti gli oggetti particolari, che è presente in ciascuno di questi oggetti , ecc., tendono a questo concetto, che è enunciato apertamente  nella Repubblica, dove dice che ciascuna delle Idee è una, ma pare molti, apparendo da per tutto per la loro comunione con le azioni e coi corpi Suppl. a. e la recìproca fra  di  loro. Ma se è cosi, vi ha contraddizione fra il concetto dell'Idea in se stessa e quello dell'Idea nella sua funzione nel processo dialettico. Di questa contraddizione potrebbe farsi un argomento contro la nostra interpretazione della dialettica platonica, obbiettandoci che la dieresi non può essere una deduzione, perchè manca una condizione indispensabile, cioè l'equivalenza fra la  posizione dell'Idea generica e l'aflfermazione del genere corrispondente in tutta la sua estensione logica. Ma malgrado questa inevitabile incongruenza fra i due elementi del sistema, cioè le Idee e la dialettica, non si negherà ohe la deduzione di Platone quale la nostra interpretazione gliel'attribuisce somigli a una vera deduzione più che quella di Hegel. Essa si fonda, in ultima analisi,  sopra un  equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] prendendo per generale ciò che è semplicemento a«fraf<o), ma si tiene strettamente, facendo astrazione dalla pratica, ai principii della logica comune, e non è, come quella del filosofo tedesco, un ROVESCIAMENTO aperto delle leggi fondamentali del ragionamento. Se con tutto ciò questi ha dato la sua dialettica  per una dimostrazione, a più forte ragione ha potuto farlo Platone; e il confronto tra 1 due filosofi ci mostra un altro esempio di un fatto che si può più volte osservare nella storia della filosofia, cioè del cai^attere più semplice e più  naturale delle concezioni del mondo antico, in comparazione di quelle del mondo moderno, più ricercate e più artificiali. Noi termineremo questo paragrafo,  mostrando che nella dieresi si verificano le cojidizioni generali del metodo dialettico, che abbiamo descritte. La dimostrazione dialettica diflerisce dalla dimostrazione matematica, in quanto questa, quantunque in definitiva si riferisca alle Idee, non volge immediatamente che sugli oggetti particolari e sensibili; quella, al contrario, volge, anche  immediatamente, sulle sole Idee. Con ciò  Platone indica due diflferenze tra il metodo matematico e il metodo dialettico. L'una che, mentre le verità della matematica 7 + 5 = 12 enunciano, almeno immediatamente, dei rapporti tra oggetti particoli^ri, p. e, d'eguaglianza, d'ineguaglianza, ecc., le verità della dialettica non enunciano invece che i rapporti logici fra le generalità, che Platone sostantifica, chiamandole Idee. Questi  S(mo: dei rapporti di contenenza cioè che tale Idea generica contiene tali Idee specifiche, e di sequenza logica cioè che l'Idea generica è il principio di cui le Idee specifiche sono le conseguenze: essi non possono correre fra gli oggetti particolari,  ma solo tra le generalità, e non sono quindi suscettibili del doppio senso che Platone altribuisce alle verità matematiche, interpetrate, dal filosofo, come rapporti fra Idee fra il quadrato in sé e la diagonale in sé, e dìil volgare, come rapporti fra cose individuali fra questo o quel quadrato e questa o quella diagonale. L'altra differenza tra il metodo matematico e il metodo dialettico è che, nella geometria, una proposizione – cf. REISMAN GRICE’S HARDY -- OBVIOUSLY non si dimostra immediatamente che della figura particolare che si è costruita, estendendo in seguito la stessa conclusione a tutte le altre figure che possono enunciarsi negli stessi termini. GRICE ON RAMSEY Ciò dà a questa scienza l'apparenza d'una scienza induttiva e sperimentale – GRICE PRE-WAR, mentre la dialettica, cioè la dieresi, deve essere un metodo deduttivo puro, che deve respingere ogni dato  empirico, e non deve trarre il generale che da un'altra generalità superiore. In verità, Platone, nelle sue dieresi, non si conforma esattamente a questa condizione del suo metodo; stabilendo le sue classi, egli indica spesso alcuni casi, o anche la totalità dei casi, compresi in una classe. Ciò il più delle volte ha pei iscopo di chiarire il concetto della classe; ma qualche volta lo soopo è  evidentemente di giustific ire una dieresi per un appello all'esperienza. Allora il processo puramente dialettico della dieresi, che trae il particolare dal generale, si complica col processo opposto, cioè colla sinagoge – cf. Grice epagoge, diagoge; e noi sappiamo del resto che, secondo Platone, il processo discensivo, cioè la dieresi, suppone, come suo antecedente, il processo ascensivo, cioè la sinagoge GRICE EPAGOGE DIAGOGE  Ma ciò non toglie niente al carattere essenzialmente deduttivo e aprioristico del metodo platonico, perchè la filosofia apriorista, come abbiamo altre volte osservato, non pretende far senza dell'esperienza, ma trasformare i dati empirici in verità razionali. La dialettica è un passagu:io continuo, come dice Platone, da Idee a Ide^ per via  di  Idee Ciò si verifica esattamente nella dieresi. Infatti il dividente non fa che porre, prima una classe generale, e poi succesdivamente le classi di meno in meno generali, in cui quella si divide e suddivide. Ciascuna di queste classi è un'Idea, perchè la dieresi, secondo Platone, si riferisce alle Idee; e il passaggio da classi in classi è una deduzione di Idee da Idee, perchè ponendo un'Idea,  Platone intende affermarne l'esistenza, e l'esistenza delle Idee meno generali è una conseguenza dell'esistenza dell'Idea più generale che le contiene. La dialettica è pure presentata da Platone come una ricerca delle essenze, cioè delle definizioni, di tutte le cose: ma la definizione è l'espres  Polii,  Sof,, eoe.  Polii. e  Sof.  sione adequata dell'Idea, P analisi del concetto di cui questa è 1'obbiettivazione; siccLè la scoverta della definizione non è cbe la scoverta dell'Idea definita, la dieresi dando al tempo stesso le classi, cioè le loro Idee, e la totalità dei caratteri per cui si definiscono. La proposizione cbe la dialettica è un passaggio continuo da Idee a Idee per via d' Idee, stabilisce due caratteri ^el metodo dialettico. L'uno che le verità che il dialettico deduce le une  dalle altre, non sono propriamente delle proposizioni, ma delle Idee sono, se si vuole, delle proposizioni, ma di cui ciascuna non fa che porre un'Idea, affermarne 1'esistenza; e l'altro cbe in questo incatenamento deduttivo, che costituisce il processo discensivo della dialettica, tutti gli anelli sono delle Idee, in altri termini che da Idee a Idee la conseguenza è immediata, cioè si vede  intuitivamente e non mediante un ragionamento. La dieresi considerata come un ideale, e astrazion facendo dalla pratica soddisfa anche alla seconda di queste due condizioni della dialettica: si vede intuitivamente e che data l'Idea generica sono date le Idee specifiche perchè per ciò basta di vedere che queste date specie sono contenute in questo dato genere e che non sono date che  queste sole Idee specifiche perchè la divisione in due contrari senza medio mostra immediatamente che questi esauriscono l'estensione logica del genere. Nel metodo platonico è tanto importante di vedere che la posizione delle Idee specifiche segue dalla posizione dell'Idea generica, quanto di vedere che dalla posizione dell'Idea generica non segue che la posizione di queste sole Idee  specifiche. Ciò è perchè, se vediamo in una dieresi che tutte le divisioni successive, sino agli indivisibili, esauriscono 1'estensione logica dei generi divisi, noi vediamo al tempo stesso che questi generi devono essere affermati in tutta la loro estensione logica, e che la dieresi è una deduzione e non una semplice classificazione. La deduzione dialettica deve conformarsi al tempo stesso  a due condizioni: l'una la moltiplicità dei passaggi logici, e l'altra una legge comune a cui tutti questi passaggi si uniformano. Nella dieresi si verificano pienamente queste due condizioni del realismo dialettico: essa è una deduzione a gradi multipli, e in ciascuna deduzione particolare si realizza il tipo uniforme della divisione dicotomica. Questa, nel sistema platonico, è ciò che la tesi,  antitesi e sintesi nel sistema hegeliano: vale a dire 1'uniformità di sequenza del mondo ideale, che, nelle sequenze logiche tra le Idee, è ciò che una legge di causazione nelle successioni tra i fenomeni. Dalla condizione precedente dell'uniformità di sequenza nel mondo ideale segue un'altra condizione del realismo dialettico, cioè l'unità di principio. È ciò che si vede chiaramente nel  sistema platonico, in cui, la legge delle Idee essendo che si dispongano secondo il tipo della divisione dicotomica, niente vi sarebbe di più incoerente che una moltiplicità d'Idee primitive, cioè che non potessero subordinarsi a un'Idea piìi generale. Qui cade a proposito di osservare che il legame fra tutte le verità di cui parla Platone, suppone secondo lui la loro derivazione comune da  una verità più generale; in altri termini, che la deducibilità di tutte le Idee da la  nota un'Idea unica suppone, per Platone, che questa sia come lo esige la dieresi V Idea più generale, in cui tutte le altre siano contenute. Ciò vediamo nel luogo più volte citato dal Menone, secondo cui è per V’affinità di tutta la natura cioè per la costituzione di tutti gli esseri secondo un tipo comune che si  può, ricordata una cosa, ritrovare da se stesso tutte le altre. La condizione perchè la deduzione dialettica sia una dimostrazione, è che V Idea primitiva sia stahilita A PRIORI. La dialettica essendo la dieresi, quest'Idea primitiva, che è come l'assioma – GRICE CONVERSATIONAL AXIOM -- da cui parte la dimostrazione dialettica, deve essere l'Idea più generale, cioè quella del Bene.  L'apriorità del primo principio è espressa chiaramente da Platone, quando dice che la dimostrazione dialettica non è fondata sovra ipotesi come la dimostrazione matematica, perchè la dialettica toglie alle ipotesi il loro carattere ipotetico, deducendole dal principio che non è un'ipotesi àyvnó&stog  -ipotesù come abbiamo spiegato, è per Platone NO IPOSTASI ma un dato empirico,  sinché non è stato dimostrato Questo principio àt^vnó&ezog, cioè certo A PRIORI e non dato semplicemente dall'esperienza GRICE EXPERIENTIAL, è il punto di partenza della dieresi, cioè l'Idea del B«ne. La proposizione che quest'Idea dà l'evidenza a tutte le altre implica infatti eh'essa è evidente immediatamente perchè senza di ciò come potrebbe rendere evidenti le Idee che se  ne deducono?; e del resto quest'evidenza immediata è indicata da Platone anche esplicitamente, quando chiama il Bene il più chiaro dell'essere. La filosofia progressiva – GRICE OXONIAN DIALECTIC AS PROGRESS --, che va dal primo principio alle sue conseguenze, suppone, come antecedente, la filosofia regressiva  che va dalle conseguenze al primo princìpio; perchè è una  legge del nostro spirito, che nessun filosofo apriorista ignora, che la nostra conoscenza cominci dall'esperienza – A DULL FIRST STAGE GRICE. Le ipotesi devono essere ricondotte al principi gradualmente, cioè deducendo un'ipotesi da un'altra ipotesi superiore, e così di seguito, sinché si giunga al principio che non è uua ipotesi. Questo è il processo ascensivo della dialettica  filosofia regressiva: il processo discensivo filosofia progressiva percorre gli stessi gradi in senso inverso, ritrovando sui suoi passi le ipotesi precedenti, ma trasformate in verità razionali e necessarie. La corrispondenza di questi due processi  C(m  la sinagoge e la dieresi è una delle prove più evidenti della nostra interpretazione della dialettica platonica. 1 caratteri del metodo platonico che  abbiamo per la geconda volta enumerati, sono dei caratteri generali del realismo dialettico, essi derivano, come vedremo in seguito, dallo scopo stesso di questa metafìsica, cioè di realizzare, per 1'obbiettivazione dei concetti, l'idea di causa efficiente, trasformando in una connessione ontologica la connessione logica introdotta fra questi concetti. Oltre il metodo direttOj di cui abbiamo  parlato sin qui, vi ha nella dialettica platonica un metodo ini  f  Bep, luoghi riportati Rep. Rep. Fedone e Rep. Rep. . itesa %Vii N diretto, di cui parleremo in questo paragrafo. Questo secondo metodo, che è un complemento indispensabile del primo, è indicato ed esemplificato nel Parmenide. Esso consiste, alla epichereisi del VELINO GRICE R. A. A  a sviluppare le conseguenze  contradittorie implicate in un'ipotesi data, e Parmenide di VELIA che dà il nome al dialogo, e ne è il protagonista lo applica alle due ipot43si opposte che si possono fare sull'uno, cioè che «siste e che non esiste. Prima IL VELINO (vedasi) ha letto un suo scritto in cui confuta 1'opinione comune che vi hanno molti esseri, dimostrando che da quest'ipotesi ne seguirebbe necessariamente  una cosa impossibile, cioè che i molti esserì avrebbero al tempo stesso degli attributi contradittori. Parmenide raccomanda, come un mezzo indispensabile alla scoverta della verità, di esercitarsi nel metodo praticato dal VELINO, ma apportandovi due modificazioni: l'una di applicarlo, non agli oggetti sensibili, ma alle Idee. Platone suppone in questo dia» lo^o, come fa anche del resto  implicitamente nel Sofista e nel Politico, che Parmenide e gli Eleati in generale ammettono il sistema delle Idee; e l'altra di esaminare non solo le conseguenze che derivano dall'ipotesi che una cosa o a dir meglio, un'Idea esista, ma anche quelle che derivano dall'ipotesi che essa non esista. Per esempio, se vuoi prendere l'ipotesi che ha fatto IL VELINO^ se la pluralità esiste, bisognerà   esaminare ciò che avverrà alla pluralità per se stessa e nel suo rapporto con l'unità, e ciò che avverrà all'unità per se stessa e nel suo rapporto colla pluralità; e ancora  bisognerà di a. nuovo esaminare, se la pluralità non esiste, ciò che avverrà e air unità e albi pluralità tanto per se stesse quanto nel loro rapporto reciproco. Così pure, se si sup[>one che la somiglianza sia o non sia, bisoonerà  vedere ciò che avverrà tanto nell'una (|iianto nell'altra ipotesi, e a ciò che si è supposto, e alle altre cose, sì considerati per se stessi che nei loro rapporti reciproci. E lo stesso si dica della dissoni ìc^lian za, del moto e dello stato, della generazione e della corruzione, dell'essere stesso e del non essere. E in una  parola, che che tn supponga, sia esistente sia non esistente sia avente qualsiasi  altro attributo, bisognerà esaminare ciò che gli avverrà e per se stesso e relativamente a ciascuna delle altre cose che sceglierai, e a molte e a tutte egnalmcMite; e poi ancora ciò che avverrà alle altre cose, e i)er se stesse e relativamente a quella che avrai ])resa, tanto nell'ipotesi che esista quanto in quella che non esista, se vuoi, perfettamente esercitato, j)enetrare a fondo la verità. Per far comprendere meglio questo metodo, cedendo alle preghiere di Socrate e degli altri astanti, Parmenide ne dà un esempio applicandolo alPIdea deirunità. Egli suppuue dunque prima che l'uno esista, e poi che esso non esista; e deduce egualmente, tanto dall'una quanto dall'iti tra ipotesi, che l'uno e le altre cose, sì considerati in se stessi che nei loro rapporti reciproci, hanno al tempo stesso degli attributi contrari e non hanno nessuna di questi attributi. Le deduzioni di Parmenide non sono che dei sofismi sottili, il più spesso nemmeno speli)ciosi: la seconda ipotesi non è trattata meglio della prima; la (lertuzioue nell'una è altrettanto sofistica che nelraltra. La più parte degli interpreti hanno torturato il  l armeiiirte per .crearvi nn risultato dogmatico e positivo,, credendo  che bisogni vedervi qualche cosa di più di  ci«> per eui lo dà lo stesso Platone, cioè di nn semplice esercizio dialettico. Noi uon dobbiamo tener conto delle interi)retazi<.ni  arbitrarie che pretendono di scoprirvi un senso riposto diftorme dal suo significato letterale, quali sono quelle dei neophitouici, di Hegel e dogli hegeliani, di Fouillèe, e in una parola di tutti gli autori che hanno interpretato Platone col proposito di trovarvi delle /jrofonde verità, cioè, nella nngliore ipotesi, le loro proprie dottrine filosofiche. Faremo solamente un'osservazione suir interpretazione di Hegel, che vede nella diakttica del Parmenide di VELIA la dottrina dell'identità dei contrari. Hegel ha compreso la profonda affinità tra il suo proprio eistenia e quello di Plat<.ne: sono infatti due  esemplari d'uni, stesso tipo, quella metafisica che noi chiamiamo realismo dialettico. Ma questo tipo nei due sistemi si realizza di maniere differenti, che Hegel ha il torto di voler identificare. 1/ idea generale della dialettica BERLINIAN DIALECTIC LA DIALETTICA DI HEIDELBERG, comune tanto a Platone (pianto ad Hegel, è quella At un metodo a priori, in cui i concetti  obbiettivati si deducono gli uni dagli altri – GRICE: STRICTLY MOORE BELONGS IN CANTABRIAN DIALECTIC --,  in modo che questo processo logico di deduzione sia al tempo stesso uno sviluppo ontologico, una filiazione di questi ctmcetti obbiettivati. Ma  V. per .«euivio lU ne la a ipotesi o nella 2 ipotesi. quest'idea generale nei due sistemi si realizza di maniere differenti.  Il principio dell'identità dei contrari nel sistema di Hegel è legato alla forma speciale del suo metodo di dedurre i concetti, che consiste a passare da un concetto al suo opposto e poi a un terzo che li coucilii Ma questo principio non potrebbe avere alcuna funzione nella dialettica platonica, perchè questa deduce i concetti passando dal geneiale ai particolari subordinati. Un metodo come  quello praticato nel Parmenide, cioè che consiste a dimostrare la coesistenza dei contrari in uno stesso soggetto, non può crmiprendersi altrimenti che come metodo confutativo. E d'altronde Parmenide dice espressamente che questo metodo non è che quello che è stato praticato da Zenone *ora lo scopo di Zenone è stato di dimostrare che è impossibile che vi 43Ìano molti esseri, percliè  è impossibile ch'essi abbiano degli attributi contrari. Più speciose, per conseguenza, che le interpretazioni |»rece.lc*n temente indicate, sono quelle di Zeller, di TOCCO (vedasi) e di altri critici, che vedono nella 2. parte del Parmenide una riduzicme all'assurdo – R. A. A. GRICE -- delle due tesi opposte sull'uno, per istabilirne indirettamente una terza, che Platone non enuncia esplicita  La parte dialettica del Parmenide, cioè quella die deduce le conseguenze contraddittorie derivanti dalle due ipotesi sull'uno, -è preceduta da una prima parte che contiene delle obbiezioni eontro la teoria delle Idee. I critici di cui parliamo ammettono <5he ciò che forma il legame tra le due parti del dialogo, è che il risultato indiretto della 2. parte . cioè della <lialettca, è una nuova  concezione delle Idee, che evita le obbiezioni della 1. parte, modificando il rapporto fra le Idee e le cose. Questo concetto non ha più alcun fondamento nella nostra interpretazione delle Idee ohe dimostriamo largamente nel Snpplem., perchè esso suppone r interpretazione  Irascendenialisln, li-""• mente, ma che lascerebbe nondimeno intravedere. L'idea in cui s'impernia quest'altro  modo d'interpretare il Parmenide, consiste in sostanza a considerare la prima ipotesi esaminata dal filosofo eleate se l'uno è-come l'equivar lente della tesi stessa della filosofìa eleatica, cioè che tutto è uno, o che l'uno solo esiste coll'esclusione del molti. Ma il concetto primitivo da cui esso muove, cioè che la parte dialettica del Parmenide è la confutazione di certe tesi per istabilirne  indirettamente qualche altra, potrebbe anche dar luogo ad un'altra interpretazioue, che indicheremo quautunque non sia stata proposta da alcuno^ perchè, fra tutte le interpretazioni di questo genere, sarebbe la meno apertamente contraria al significato evidente delle due ipotesi esaminate da Parmenide. Essa consisterebbe ad ammettere che se l'analisi della prima posizione: V»mo è,  arriva a delle conseguenze contraddittorie, ciò è, secondo Platone, perchè il contenuto del concetto dell'uno è  stato inesattamente determinato, e che così tutta la parte diiilettica del Parmenide avrebbe per risultato indiretto una determinazione più esatta di questo contenuto. Ma contro tutte in generale le interpretazioni che vedono nella 2. parte del Parmenide una dimostrazione ex  absurdh di una tesi qualsiasi, sta il fatto incontestabile che le due ipotesi opposte esaminate dal filosofo eleate, se l'uno esiste e se l'uno non esiste y sono due proposizioni rigorosamente contraddittorie, che non lasciano alcuna possibilità ad una terza proposizione intermedia. E infatti Parmenide ha detto che l'esercizio, dialettico eh'egli propone a Socrate, consiste ad esaminare, dopo le conseguenze dell'esistenza di V.  Zeller  Filos. dei  Greci, TOCCO (vedasi) Ricerche  ptatoniche – cf Grice on Hardie’s masterpiece on Plato!. 1 ciascun concetto V Uno, il Molti, la Somiglianza, la Dissomiglianza, ecc. quelle ancora della non esistenza dello stesso concetto. Conformemente a questo principio, egli esamina prima  ciò che accadrà se 1'Uno esiste, e poi ancora ciò che accadrà se lo stesso Uno non esiste. L'Uno non vuol dire 1'Uno di VELIA o Dio o le Idee in generale o qualsiasi altro concetto simile, platonico o non platonico, che gl'interpreti hanno immaginato o potrebbero immaginare. L'Uno vuol dire semplicemente l'Idea dell'unità, ciò che i concettualisti chiamano il concetto dell'unità,  realizzato, in altri termini quest'attributo, che noi intendiamo indicare chiamando una cosa una, obbiettivato e considerato come un'entità unica esistente per se stessa «rrò xuO' abvó. E infatti Parinenide ha detto che il metodo, che poi ay)plica all'uno, deve applicarsi alle Idee. Conformeniente al principio che ha stabilito, quantuuqi'C dica che comincerà per la sua propria ipotesi,  quest'uno della cui esistenza o non esistenza esamina le conseguenze, non è 1'uno eleatico, che è un'unità concreta cioè un essere concreto che ha per attributo l'unità, ma l'unità astratta, l'attributo stesso separato dagli oggetti concreti a cui appartiene, in una panda l'Idea dell'uno. Cosi 1'uno di cui è quistione è chiamato slòo" e alzò    tV , espr«'8si<mi  che, come sr sa, designaiuo lo  Idee. Così ancora dal concetto di quest'uno si escludono tutte le note che non entrano nel puro concetto dell'unitùy separando questo concetto da tutti gli altri concetti distinti, p. e. l'essere, l'identità, la diversità; e da una moltitudine di luoghi si vede evidentemente che l'uno di cui si tratta non è che l'entità che è presente in tutti gli oggetti a cui applichiamo il nome uno, o in altri termini,  alla quale questi oggetti partecipano. Non è quistione in sostanza che dell'unità matematica, vale a dire quella per la cui ripetizione Ai il  Questo è il puiìt» che bÌROcrna anzitutto fissare, se vogliamo realmente interpretare il Parmenide e non fare si forma il numero, cousidenita naturalmeute, non come una semplice astrazione, ma come un'astrazione realizzata. Alcuni critici, dall'analogia  d'un luogo del Sofista contro l'uno di VELIA in cui si dice clic se questo fossa veramente uno, uou dovrebbe avere uè parti nò figura col eominciamenta della la ipotesi del Parmenide in culle stesse determinazioni si escludono dall'uno di cui si tratta in questo dialogo. hanno conolu-io che la 1.  parte della 1.  parte di quest'ipotesi ò una confutazione dell'uno eleatico. Mu è evidente che in tutto il dialogo è quistione di uno stesso uno: come in un»v parte si parlerebbe dell'uno eleatico, se in tutto il resto si parla dell'Idea dell'uno ì Nt»n è sorprendente d'altronde che Platone nel Sofista deduca dall'uno eleatico la stessa conseguenza che nel Parmenide deduce dall'Idea dell'uno, perchè la deduzione nel primo dei due dialoghi è fondata sulla identificazione arbitraria dell'imo  eleatico a una pura astrazione, a ciò che Platone chiama l'uno stesno. in altri termini all'Idea dell'uno vi si dice in sostanza che se l'uno è di figura sferica, come vuole Parmenide, esso ha delle parti e iiuindi non può essere veramente uno, perchè ciò che è veramente uno, cioè 1'uno alesai lò  cV aitò non può avere delle parti. Ma come può dire Parmenide, mentre si tratterà dell'Idea dell'uno,  ohe  comincerà  dalla  sua  propria  ipotesi,   cioè  dall'uno eleatico]  Ciò  dipende  forse  da  qualche  cosa di più che l'affinità dei due concetti e l'identità della forma verbale con cui si esprimono {V  uno).  Platone  attribuisce  a  Parmenide e agli  Eleati  in generale  la  teoria  delle  Idee ciò ohe secondo me non è una semplice finzione  drammatica  (v.  Sappi, pilagor. nel Timeo e nel Fileho-:Qg\i deve dunque, tra le dottrine conosciute dei VELINI, cercarne qualcuna che si presti a questa interpretazione arbitraria della loro filosofia. Il loro Uno e il loro Ente, sia perchè designati con dei nomi che sembrano sostantificare degli una costruzione arbitraria. Le due ipotesi esaminate nella 2* parte del dialogo non sono né più né meno che queste: «piest'entità che corrisponde al termine nuo esiste; quest'entità non esiste. Parmenide non dice: quali conseguenze si avranno se ammettiamo che quest'uno è tutto, o che esso solo esiste, e non i molti? Egli non determina nemmeno il concetto dell'uno d'una maniera particolare per poi esaminare le conseguenze che derivano da questa determinazione: V’uno non é preso che nel  significato ordinario di questo termine, a cui non bisogna che aggiungere, conforuìemente ai principii del sistema platonico, le condizioni generali (eli' obbiettivazione dei concetti. Non vi  ha oltre di ciò, nelle due ipotesi esaminate, alcun presupposto, né espresso né sottinteso. Le conseguenze che se ne svolgono, nascono semplicemente dalle supposizioni che l'unità abbia o non abbia  una realtà obbiettiva nel senso che queste parole hanno uel sistema deJle Idee: esse ne nascono per via di ragionamenti certamente capziosi, ma suftìcienteinente intelligibili per se stessi, e senza sottintendere qualche altra supposizione p. e. clu^ 1'uno é tutto, o che esso attributi, sia perchè immutabili e ultrafenomenali quantunque immanenti come le Idee platoniche, diventan«>. nel T  interpretazione di Phitoue, l'Idea dell'uno e dell'ente. Su' questo concetto si troveranno più sviluppi nel Suppl. Pilay. nel l'ini, e nel FU.: qui noteremo che il processo è al fondo lo stesso che quello ohe abbiamo osservato nella confutazione «Iella dottrina eleatica nel luogo citato del Sofista. Come può r ipotesi che 1'uno è equivaler* . come dice Zeller, a quella che tutto è uno, o, come  dice TOCCO ((vedasi), che l'uno soltanto è – L’APORIA DI TOCCO. quando Parmenide esamina lungamente ciò che avviene all'uno nei suoi rapporti con le altre cose e ciò che avviene alle altre cose in se stesse e md loro rapporti con l'uno l / solo esiste con l'esclusione dei molti, o che il concetto deirunità si deve determinare d'una maniera piuttosto che d'un'altra. Se la dialettica del   Parmenide miu* il)lu verità uua parte delle nr^omoutazioDi del Pariueuide suppougoDo una certa detenuinazioue del cimoetto dell'imo, che lum eutra nel significato comune di questo termine: è che, conformemente alla 8ua abitudine di elevare le Idee airassoluto Suppl., Platone intende per unt» un'unità assoluta, pura, senz'alcuna mescidanza di pluralità  |v.  la  1& parte della 1» parte  della 1^  ipoteai e, nella 2^* parte della stessa ipotesi. mentre gli oggetti a cui attribuijimo r unità sono generalmente delle unitii che contengono una pluralità. È la prova migliore clic può invocare in suo appoggio l'opinione secondo cui lo scopo della parte dialettica del Parmenide è di conciliare l*unità con la moltiplicità e specialmente l'interpretazione clic abbiamo supposto, secondo  cui questa parte del dialogo avrebbe per risultato indiretto una determinazione più esatta del concetto dell'unità. Ma questa determinazione dell'uno  coinr esclusivo di qualsiasi moltiplicità non è supposta ohe da una parte solamente delle deduzioni della 1» ipotesi: la più parte sono indipendenti da questa supposizione; basterà di citare quellc che abbiamo già citato nella nota del  ))aragiiilo ^da 1. Da un altro canto essa è abituale a Platone, e si trova, ntui solo nella Repubblica, ma ji nelle nel Sofista, che è posteriore al Parmenide perdio vi alliule jciò che basterebbe ad escludere che questo dialogo iib)>ia  per iscopo di ctunbatterbi, per sostituirgliene un'altra. Del resto questa determinazione del concetto deiruuità non è, eome abbiamo notat<i  . che un caso di  un processo generale che Platone applica a tutta una classe d'Idee p. e. oltre l'uno, all'ugujile. al retto, al GIUSTO – H. P. GRICE, Phlosophical Eschatology and Plato’s Republic --, ecc.; processo che si può osservare in tutti gli s(n'itti  platonici, fra cui lo stesso Parmenide, e che è supposto nella polemica «l'Aristotile, il quale, come si sa, esp<me e critica il sistenui delle Ideo nella sua  fonua definiti v» i\. Suppl. rasse a un risultato, questo non potrebbe essere dunque che negativo: quando la tesi e l'antitesi formano un'al ternativa completa, e si dimostrano non pertanto egualmente assurde, 1'unica conseguenza che se ne possa tirare è che la conoscenza è impossibile e che la ragione s'inviluppa in contraddizioni insolubili. Sarebbe inutile, da altra parte, diniostrare che  questa non può essere r opinione di Platone. Noi dobbiamo aggiungere, contro ogni interpretazione che attribuisce alla parte dialettica del Parmenide l'intenzione di giungere a un risultato qualsiasi, positivo o negativo, che la più pajte delle argomentazioni sono dei sotismi così evidenti, che è impossibile di ammettere che Platone se ne sia servito sul serio per dimostrare una tesi  qualunque. Ed è notevole che, come abbiamo osservato, le deduzioni dell'i, 2*»  ipotesi se l'uno non esiste non sono meno sofistiche che quelle della 1*. L'unico mezzo che ci resterebbe per ammettere che la dialettica del Parmenide mira a un risultato positivo, sarebbe di supporre che Platone non fa sul serio che le deduzioni di una sola ipotesi. Delle due ipotesi egli deve ammetterne  una, e noi sappiamo qual è; ma dalla 2*^  parte del Parmenide sarebbe impossibile di deciderlo. Ma da questo fatto incontestabile, che la 2*  parte del Parmenide è un semplice esercizio dialettico, che non può condurre, né direttamente, né indirettamente, a stabilire una tesi qualsiasi, se ne deve concludere, come fanno Grote ed altri interpreti, che 1'autore non ha alcun proposito  dogmatico? Questa interpretazione, che sopprime interamente il valore fìlosofico del dialogo, è pertanto la più ovvia nella maniera ordinaria di intendere la dialettica platonica. 11 proposito dogmatico, o in altri termini, il valore tìlosotico della dialettica del Parmenide, non si comprende che mettendola in rapporto <5on la dialettica propriamente detta, cioè con la dieresi. ti  Esso deve  cercarsi, non nei risultati a cui quel metodo conduce, ma nei presupposti che esso implica, i quali sono quegli stessi che presuppone la dieresi. La dialettica platonica è fondata su tre principii. Che l'esistenza deir Idea del Bene può stabilirsi A PRIORI, ed è per conseguenza una verità necessaria. Che data l'Idea del Bene sono date necessariamente tutte le specificazioni possibili di  quest'Idea (poasibili vuol dire che non racchiudono una impossibilità logica Ciò, posta che l'esistenza dell'Idea del Bene è una verità A PRIORI e per conseguenza necessaria, implica che anche resistenza di ciascuna delle specificazioni possibili di (piest'Idea è una verità ujjcualmente A PRIORI e per conseo-uenza necessaria. Che l'Idea del Bene è l'Idea di tutte le Idee, il tipo comune  di tutti gli esseri; in altri termini che tutto ciò che esiste, ogni Idea, ogni forma dell'esistenza, è una fonna determinata o, come abbiamo detto, una specificazione dell'Idea del Bene. Anche questo terzo principio è una verità A PRIORI e necessaria: infj\tti esso è uno dei punti fondamentali della dialettica, cioè della scienza quale la concepisce Platone, e, secondo lui, ogni verità scientifica  deve essere A PRIORI e necessaria. Segue dai tre principii riuniti che, sec<mdoPlatone, tutto ciò che esiste è necessario che esista, e La necessità e apriorits\ «Iella proposizione che tutto ciò che è è bene, risulta del resto dalla riduzione dell'Idea del Bene a quella dell'Essere. Per questa riduzione infatti le divisioni dell'Essere saranno la stessa cosa che «{uelle del Bene, e quindi tutte le  forme possibili cioè concepibili dell'essere la stessa cosa che tutte quelle, del bene. sarebbe logicamente impossibile che non esistesse; e viceversa che tutto ciò che non esìste è necessario che non esìsta e sjirebbe logicamente impossibile che esistesse. Tutto ciò che esiste^ tutto ciò che non esiste non significa ogni essere particolare, ma ogni f«>rma generale dell'esistenza, ogn'Idea, che  esiste o che non esiste. Nel generalo dunque, secondo Platone, tutto ciò che è reale è necessario, e tutto ciò che non è reale è logicamente impossibile, e per conseguenza questi tre termini, possibile, reale e necessario, sono, c;)me abbiamo detto altra volta, perfettamente co-estensivi. Ciò è vero tanto del sistema di Platone quanto di ogni altra forma di realismo dialettico, anzi, in  generale,  di ogni filosofia che eleva il metodo A PRIORI a metodo scientifico universale. Questi presupposti della dieresi platonica, che ciò ciie è reale è necessario, e ciò che non è reale è logicamente impossibile – NOTHING CAN BE READ AND GREEN ALL OVER GRICE – A PRIORI, but not analytic! --, sono quegli stessi che presuppone il metodo del Parmenide. Questo m-todo  c;)nsiste  intatti a sviluppare le contraddizioni che derivanr) dall'ipotesi dell'esistenza o da quella della non esistenza. Ma se dall'ipotesi dell'esistenza di una cosa derivano delle conseguenze contraddittorie, che altro può ciò provare se non che è impossibile che quest i cosi esista? E se le conseguenze contraddittorie derivano invece dall'ipotesi della sua non esistenza, che altro si dimostra con ciò  se non che è neces-iarit» che la cosa esista? Il metodo del Parmenide implica dunque questi presupposti: che l'esistenza d'un'Idea che esiste può dimostrarsi facendo vedere che dall'ipotesi della sua non esistenza risultano delle conseiruenze contraddittorie: e che, viceversa, la non esistenza d'un'Idea che non esiste può dimostrarsi facendo vedei-e che le conseguenze contraddittorie  risultano dall'ipotesi della sua esistenza – il R. A. A. di VELIA e GRICE -- Per noi l'esistenza o la non esistenza delle specie o forme generali degli oggetti, altrettanto che degli stessi oggetti  particolari, sono cose di fatto, che non possono stabilirsi che con prove tìi fatto: per Platone sono delle verità necessarie ed A PRIORI, che possono dimostrarsi per le conseguenze contraddittorie <5he  derivano dalle ipotesi contrarie – il R. A. A. di VELIA e GRICE. Bisogna distinguere il metodo ettfettivamente seguito nel Parmenide e quello ohe deve seguirsi e di cui il primo non dà che un esempio per farlo comprendere. Il metodo ettettivameute seguìto, cioè V esercizio dialettico sull’uno, è, come lo chiama Platone, un giuoco che somiglia a una cosa seria {jifìay^aismórig  naióià^ . Nel giuoco le conseguenze contraddittorie si deducono taut4> dall'una quanto dall'altra delle due ipotesi contrarie, e la deduzione non può essere, anche per Plaloue, che un tessuto di sofismi – GRICE – PHILOSOPHER’S PARADOX – We are all alone.. I hated it when that scot of a tutor I suffered at Corpus led me perversely to self-contradiction! La cosa seria è il metodo indiretto per dimostrare o rigettare le Idee: esso deve essere una vera dimostrazione, e le conseguenze contraddittorie non può dedurle che da una sola ipotesi, da quella della non esistenza se l'Idea deve ammettersi, da quella dell'esistenza se deve rigettarsi GRICE VELIA R. A. A.. Se i due processi il  <jiaoco e la cosa seria differiscono, è perchè Platone non vuol dare un'applicazione reale del suo metodo, ma un semplice esempio che ne faccia comprendere il meccanismo. La 1» parte dell'esercizio dialettico sull'uno è un esemiùo forse sarebbe meglio dire: un'immagine-dei metodo indiretto per dimostrare l'esistenza delle Idee che esistono; la 1* parte un esempio dello stesso metodo per dimostrare la non esistenza di quelle che non esistono GRICE NEGATION AND PRIVATION R. A. A. VELIA.  I due esempi sarebbero più chiari, se volgessero su due Idee distinte: volgono su una sola e stessei Idea  i>er escludere la possibilità di un risultoAto,  e mostmre che si tratta di un giuoco, e non della cosa seria che esso rappresenta. Se si domanda perchè Platone, invece di fare un'applicazione reale del suo metodo, si limita a darne un esempio imperfetto, che non ne manifesta che il meccanismo esteriore, la risposta non è difficile: è che quest'applicazione non si sente in grado di farla. Il metodo proposto nel Parmenide è un'utopia assolutamente irrealizzabile, perchè 1'esistenza e la non esistenza si stabiliscono, come abbiamo detto, con prove di fatto – GRICE: SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE, e non per lo sviluppo delle contraddizioni inerenti alle ipotesi contrarie, o per qualsiasi altro metodo A  PRIORI. Platone ben s'accorge che le applicazioni eh' egli può fare del metodo che immagina, non corrispondono all'ideale che si è formato, e che cercando delle dimostrazioni, egli non trova che dei ragion<amenti sofistici. Per conseguenza egli si contenta di un esempio, che invece di una vera applicazione,  sia, come abbiamo detto, un'immagine del suo metodo, in modo che 1'assenza dell'intenzione di concludere scusi il carattere sofistico della deduzione. È qualche cosa di simile a ciò che fa nel Sofista e nel Politico: anche qui non abbiamo un'applicazione reale del metodo, ma un'immagine imperfetta che non ne esprime che la forma, perchè la dicotomia non viene applicata alle vere  Idee – SOME LIKE WITTERS BUT MOORE’S MY MAN – Grice: Give me a Paddy over a jew boy anyday! --,  e  non ha quindi vero valore scientifico. Il metodo dialettico, tanto diretto quanto indiretto, non è per Platone che un ideale, certamente attuabile in se stesso, ma ch'egli ha la coscienza di non poter attuare, Queste considerazioni spiegano pure perchè il metodo per dimostrare  l'esistenza e quello per dimostrare la non La dieresi, come sappiamo, noD si applica clie alle Idee – we are not lobotomists, or co-operative grammarians!,  ed è  UQ 'esigenza del sistema delle Idee, come Platone ammette espressamente nell'ultimo periodo della sua speculazione ohe non vi siano Idee che di ciò che vi ha di costante e di perpetuo nella natura. Grice: “Whereas Plato applied the Dieresis to ideas only, Austin – with his Oxonian dialectic – extended its range to words – important ones! – co-operation.  Per conseguenza, come non vi hanno Idee degli oggetti NON-NATURALI artificiali – Grice: “NON-NATURAL meaning does not look like an item in the word – it’s  fiat thing!” --, non vene dovrebbero essere, per la stessa ragione, delle arti, che  intanto sono l'oggetto delle dieresi nel Sofista e nel Politico. Filebo '>esistenza si applicano, nel Pannenide, a una sola e stessa Idea. Ciò non è solamente, come abbiamo detto, per mostrare Fassenza d'un'intenzione seria. Se Platone avesse supposto la non esistenza di uu^Idea reale per dare nn «sempio del metodo per dimostrare l'esistenza, e l'esistenza iV un'Idea chimerica – PEGASUS -- [)er darne uno del metodo per <limostrare la non esistenza, il carattere necessariamente sofistico della deduzione avrebbe dato un indizio della inattuabilità di questi metodi – Grice: “I suspect that was the case when I introduced Quine to Marmaduke Bloggs – his reply was so terse!” --  “But then he had already been offended by mine and Strawson’s neighbour’s three-year old who was an adult!” -- Perciò egli preferisce un esempio in cui sia esclusa assolutamente la posSibilità di giungere a un risultato, qual è quello di sui>porre prima l'esistenza e poi la ntui esistenza della stessa Idea –Grice: “Timothy’s playmates thought the idea of a sweater red and green all over – no stripes or spots allowed – was absurd rather than, as I was expecting, synthetic A PRIORI -; così questo carattere sofìstico della <ledu/ione senibreni una conseguenza inevitabile, non dell'inattuabilità dei mètodi in se stossi, ma delle condizioni anormali in <5ui si praticano. In conclusione la dottrina racchiusa, quantunque non espressa esplicitamente, nel Parmenide, è questa: che la non esistenza di ciò che è reale prendendo il reale nelle sue forme generali e l'esistenza di ciò  che non è reale sarebbe un' iiìi possibilità logica; e che, per conseguenza, r esistenza o la non esistenza d'un'Idea può essere dimostrata, mostrando che dall'i|K)tesi contraria – GRICE R. A. A. VELIA -- derivano conseguenze contraddittorie fra di loro. La seconda proposizione non è in verità una conseguenza necessaria della prima, ma da questa a quella il passaggio non è diftìcile,  perchè, un'impossibilità logica essendo una nozione che riunisce degli elementi incompatibili – GRICE SHAFFER’S OR SOME OF THE STROKES, or Wiggins’s OTHER THAN --, dalla proposizione che un'ipotesi è un'Impossibilità logica non vi ha gran distanza a quella che quest'ipotesi trascina con sé delle conseguenze contraddittorie. Questa dottrina del Parmeni<le si ritrova in  parte nel Fedone, in cui si dice che bisogna controllare l'ipotesi dell'esistenza d'un'Idea, esaminando se le conseguenze che ne derivano si accordano o non si accordano fra di loro. Ciò corrisponde al principio del Parmenide che l'esistenza d'un'Idea erroneamente ammessa trascinerebbe conseguenze contraddittorie. Ma sin qui il metodo non avrebbe che una portata negativa GrICE NEGATION AND PRIVATION. La trasformazione essenziale del metodo del VELINO, che da negativo lo muta in positivo, è l'altro principio che le conseguenze contraddittorie derivano pure dalla non esistenza d'un'Idea reale. Per questa trasformazione la dialettica distruttiva dei VELINI diviene costruttiva, cioè un metodo indiretto per diuìostrare A PRIORI le Idee, che, come spiegheremo in seguito, è un complemento indispensabile del metodo diretto, cioè della dieresi. L'altra modificazione del metodo del VELINO (vedasi), cioè che esso deve applicarsi alle Idee e non albi cose sensibili – GRICE: SOMEONE IS NOT HEARING A NOISE --,  risulta dal concetto della dialettica platonica in generale. Tanto il metodo diretto quanto il metodo indiretto hanno  per oggetto ciò che è necessario e conoscibile A PRIORI; ora tale ijon può essere ciò che è peril)ile e particolare, ma ciò che è immutabile ed universale, e questo è l'Idea platonica. Nella sua parte negativa cioè in quanto sviluppa le contraddizioni implicate nell'ipotesi dell'esistenza d'Idee che non esistono il metodo indiretto del Parmenide è una riprova dei risultati del metodo diretto,  cioè della dieresi, e di uno dei principii fondamentali che questo presuppone, cioè che tutto ciò che esiste non è e non può essere che una forma del Bene. La sua applicazione più ovvia, in questa parte negativa, sarebbe di dimostrare l'impossibilità di certe specie – CENTAURI, CAVALLI ALATI -- di un genere, che sembrano possibili quantunque non siano reali. La dieresi sarebbe  già una dimostrazione di ciuest' impossibilità, perchè esaurendo essa, non la sola estensione reale^ Fedone  U. ...,  -r-" ma tutta la estensione logica del genere – CIRCOLO QUADRATO --,  escludere queste specie dalle divisioni è mostrare che esse, non sola non esistono, ma è impossibile d'un'impossibilità  logica che esistano. Ma con tutto ciò si presenterebbe sempre naturalmente la  quistione: se tutte le specie possibili – CHIMERA – l’IPPOCERVO di CROCE -- dell'animale devono esisterò, perchè NON esiste il centauro, la chimera, l’IPPOCERVO di CROCE, il circolo quadrato di Meinong – citato da Grice --  o  qualsiasi altra specie che noi possiamo immaginare, quantunque non la troviamo nella realtà – NOT A SWEATER WHICH IS GREEN AND RED ALL OVER – NO STRIPES OR SPOTS ALLOWED f  Platone  rispondere che il centauro, la chimera, l’IPPOCERVO di Croce, il circolo quadrato di MEINONG, il sweater di Grice che e ‘red and green all over (no stripes or spots allowed) -- e  qualsiasi altra >^pecie immaginabile – SYNTHETIC A PRIORI --,  ma non reale, è un concetto incoerente e implicante delle contraddizioni, che il metodo del Parmenide svilupperebbe – Grice’s neighbour’s thre-year old adult -- in una serie di coppie di attributi contraddittori – as in Grice’s example: the inventor of the synthetic analytic, who was Leibniz, was not Leibniz! La quistioue è tanto più naturalo, che la divisione dicotomica per contrari senza medio non potrebbe jrinnijere, come abbiamo osservato nel paragrafo  precedente, che a formare delle classi,  di cui alcune sarebbero detìnite per semplici negazioni, e tutte per dei caratteri, che potrebbero bastare a distinguere ciaBcuua chisse reale da tutte le altre, ma che non detìn irebbero questa classe in modo che la definizione convenisse alle sole forme reali e non a forme ipotetiche più o meno ditferenti dalle reali. A ciò Platone risponde senza  dubbio che per determinare d'una maniera completa la natura di ciascuna classe alla PEANO, e mostrare così ohe non vi hanno altre forme possibili che le reali . ai caratteri ottenuti per la dicotomia si devono aggiungere altri caratteri ohe ne sono inseparabili e che hanno con essi un legame necessario e CONOSCIBILE A PRIORI. Sarà forse utile di ravvicinare le soluzioni ohe Platone  ha dato o ha potuto dare di queste difficoltà della sua dieresi, con certe idee di un zoologo filosofico, cioè di Cuvier il quale ha in comune con Platone, oltre al punto di vista teleologico o finalista – metier mestiere ministerium, una tendenza evidente air apriorismo, tanto pit che, come abbiamo osservato, la concezione delle Idee platoniche è modellata sovratutto sulla natura vivente nota. Noi abbiamo parlato della dottrina  Nella sua parte positiva cioè in quanto mostra le conseguenze contraddittorie derivanti dall'ipotesi della non di Cuvier della connessione dei caratteri negl’esseri organizzati Appendice: abbiamo visto ohe essa è fondata sulla necessità di una cospirazione armonica tra le funzioni o METIER e gli organi dell'animale cospirazione armonica che  sarebbe un caso di ciò che Platone chiama 1' Idea del Bene TIGERS TIGERISE; e che le leggi che esprimono queste connessioni di caratteri sono, secondo l'autore, altrettanto necessarie e A PRIORI che le verità matematiche, come 7 + 5 = 12. Da tiuesto principio della connessione necessaria dei caratteri Cuvier ne deduce ohe si può dimostrare A PRIORI la necessità ICHTYOLOGICAL NECESSSITY di certe interruzioni nella catena dei pesci e degli esseri, per l'impossibilità A PRIORI l’ornitorrinco che certi caratteri coesistano, cioè che certi organi si trovino ECO KANT L’ORNITORRINCO simultaneamente nello stesso organismo. Così  nella lezione ya dell’Anatomia comparata, dopo aver indicato nell'art. le principali differenze di cui sono suscettibili gli organi  che servono a ciascuna funzione animale, dice. Si vede che supponendo ciascuna delle differenze d'un'oigano unita successivamente con quelle di tutti gli altri, si produrrebbe un numero considerevolissimo di combinazioni – GRICE: BYZANTINE!,  che corrisponderebbero ad altrettante classi – CICERO: classe, l’unica entita atratta -snob! -- di animali. Ma queste combinazioni, che sembrano possibili quando si considerano d'una maniera astratta, o matematica come preferisce Grice, noi' esistono tutte nella natura, perchè, nello stato di vita, gli organi non sono semplicemente ravvicinati, ma agiscono gl’uni sugl’altri, e concorrono tutti insieme ad uno scopo comune – il metier de la conversazione  Perciò le raodifioazioui dell'uno esercitano un'influenza su quelle  di tutti gli altri. Quelle di queste modificazioni che non possono esistere insieme, s’escludono reciprocamente, mentre altre si chiamano, per dir così,  FREAKS OF NATURE e ciò non solo negli organi che sono fra loro in un rapporto  immediato, ma ancora in quelli che paiono a prima vista i più lontani e i più indipendenti. Generalizziamo quest'idea di Cuvier; ammettiamo ohe, se le  combinazioni d'organi e lo classi d'animali corrispondenti, che sembrano posHihili  quando si considerano d’una maniera astratta, esistenza d'Idee che esìstono, Tapplicazione più importante del metodo indiretto del Parmenide è di dare una non esistono tutte nella natura, è sempre per la ragione di cui parla Cuvier come sembra che egli dica, quantunque è diffìcile che tale sia il suo pensiero; noi avremo questo  concetto platonico: che tutte le specie immaginabili dell'animale che non esistono^ non esistono perchè è logicamente impossibile che esistanOy e questa impossibilità logica consiste in ciò, che l'Idea dell'Animale come del resto tutte le altre contiene 1'Idea del fiene, mentre queste specie immaginabili ohe non esistono, non contengono l'Idea del Bene cioè non vi ha in esse questo  concorso di tutti gli organi a uno scopo comune, di cui parla Cuvier, e quindi sono delle idee contraddittorie in cui noi riuniamo confusamente i caratteri dell'animale con altri caratteri  che sono  con  essi  incompatibili.  Generalizziamo  ancora  l'idea  di  Cuvier; estendiamola  dagli  esseri  viventi  a  tutti  gli  esseri  della  natura ;  avremo  il  principio  fondamentale  della  dialettica  di  Platone, che tutto ciò che non esiste non può esistere perchè non è bene, perchè tutto ciò che esiste deve essere necessariamente bene, e tutto ciò che è bene deve necessariamente esistere. La quistione perchè tutte le specie che noi possiamo immaginare in un genere dato non esistano, può presentarsi, come abbiamo detto, in questa forma: perchè le classi ottenute per la divisione  dicotomica si efifettuino solamente nelle forme realmente esistenti, e non in altre forme dififerenti possibili, ohe potrebbero essere definite per gli stessi caratteri su cui si è fondata la divisione. Noi abbiamo detto ohe la soluzione, ricavata dalla teoria della definizione, è che ai caratteri su cui si fonda la divisione e per cui le classi si definiscono, sono necessariamente cougiunti, e se ne  possono dedurre, gli altri caratteri propri delle forme realmente esistenti e che le differenziano da tutte le altre forme possibili o piuttosto, come dice Cuvier, che sembrano possibili quando si coièfiiderano d'una maniera astratta. Questo concetto di un legame logicamente necessario fra tutti i caratteri di una classe, che forma la sostanza della dottrina pla base al metodo diretto, cioè alla  dieresi. In questa forma del realismo dialettico, i concetti si deducono per la tonico aristotelica della definizione, ha un'analogia evidente col principio di Cuvier che fra tutte le parti di un essere organizzato vi ha una dipendenza mutua, conoscibile a priori e logicamente necessaria, in modo che da ciascuna  di queste parti possono dedursi tutte le altre Appendice. Tale è, secondo Cuvier,  questa dipendenza reciproca fra le parti di un organismo, ohe ciascuna specie di esseri potrebbe essere riconosciuta por ciascun Irammento  di ciascuna delle sue parti. Discorso stille rivoluzioni della superficie del globo, e che dalla vista di un solo osso si potrebbe concludere la forma di tutto lo scheletro Anat. compar., anzi rifare tutto l'animale Discorso  ecc. Questo principio non si  applica solamente alla specie, ma a tutte le categorie della classificazione, sino al concetto di animale e a quello di essere vivente in generale. La minima faccetto d'osso, la minima apofisi, hanno un carattere determinato relativo alla classe, all'ordine, al genere e alla specie a cui esse appartengono, sino al punto ohe tutte le volte che si ha soltanto un'estremità d'osso ben conservato, si  può con dell'applicazione, e aiutandosi con un po'di destrezza dell'analogia e della comparazione effettiva, determinare tutte queste cose cosi sicuramente che se si possedesse r animale intero Discorso ecc. (U analogia e la comparazione effettiva non sono che degli aiuti, l'essenza del metodo è la deduzione fondata sulla correlazione necessaria tra le parti di  un organismo. Conformemente  a questo principio, egli mostra la dipendenza necessaria fra i caratteri delle divert^e classi dei vertebrati Regìio animale, fra quelli degli esseri organizzati in generale, fra quelli che sono propri agli animali distinguendoli dalle piante Anat, compar,, ecc. Ogni coesistenza di caratteri di qualsia'» grado di generalità, che il naturalista può costatare negli esseri viventi, è dunque secondo  Cuvier una connessione necessaria, risuK tante dalla necessità a priori d'una finalità immanente nell'organir dieresi, ma questa suppone un concetto primitivo, che non può dedursi per la dieresi stessa, della stessa ma* Bino cioè, com'egli si esprime, ohe tutte le parti di ud organismo concorrano a uno scopo comune. Anche per Platone il legame necessario tra tutti gli attributi di un  genere, che permette di dedurre tutto il resto da quelli compresi nella definizione, dove fondarsi, almeno precipuamente, sul principio teleologico – GRICE CICERO DE FINIBUS --, perchè secondo il Fedone  la causa perchè una cosa ha un attributo qualsiasi, è che l’ottimo PARETO GRICE OPTIMAL per essa è di avere quell'attributo. Ogni connessione di caratteri di Cuvier ha  naturalmente per conseguenza l'esclusione a priori di nn'infìnità di coesistenze di caratteri: se tal fonna di A coesiste neeesftariamente con tal forma di B, è logicamente impossibile che coesista con tutte le altre forme di B immaginabili. Così pure per Platone ogni legame tra ciascuno degli attributi su cui è fondata la divisione, e ogni altro attributo di un genere che si può dedurre da  quello, ha per conseguenza V’impossibilitìi logica e la contraddizione perchè è così eh'egli determina l'impossibilitìi logica d'un'intiniti\ di altre coesistenze di attributi, che potrebbe dimostrarsi col metodo del Parmenide, facendo l'ipotesi deir esistenza d'Idee in cui avessero luogo queste coesistenze. Dando la massima generalizzazione al principio della connessione dei caratteri di  Cuvier, esso includerebbe il principio della dieresi platonica, che le specie reali in cui un genere si divide sono tutte le specie possibili di questo genere. Infatti ogni divisione esprime una coesistenza di caratteri,  solamente 1'esprime con una proposizione disgiuntiva: A si divide in B e C,  vuol dire che i caratteri di A SIGNIFICATIO coesistimo o con quelli di B NATURA o con quellidi  C NON-NATURA, ma ntm mai con altri caratteri che non si trovano né in B né in C. Così, se anche questa coesistenza di caratteri è una connessione necessaria, è esclusa A PRIORI la possibiliUi, oltre B e (>, di altre specie di A. Ma con ciò non avremmo che uno dei principii fondamentali della dialettica platonica, cioè che ciò che non è reale è necessario ohe non esista: per avere  questa dialettica in nieia che la catena delle proposizioni geometriche suppone dei principii che non possono formare 1'oggetto d^alcun teorema. Ora questo concetto primitivo o a dir meglio r’oggetto reale che corrisponde a questo concetto non può ammettersi semplicemente come dato di fatto: in questo caso esso non sarebbe che wwHpotesi, e 1'incatenamento di deduzioni, in cui  consiste la dieresi, non sarebbe una dimostrazione. Allora la conoscenza non sarebbe A PRIORI, e il principio non avrebbe una vera priorità logica sulle conseguenze, ciò che importa che il rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi al rapporto tra la causa e l'effetto, perchè l'anteriorità ontologica della causa verso V’effetto indispensabile perchè 1'una sia una  causa e l'altro un effetto non è, in questo sistema, che l'anteriorità logica del principio verso la conseguenza. Il concetto primitivo, vale a dire l'Idea del Bene, deve dun que stabilirsi A PRIORI: essa deve essere quindi o un assioma o una verità anch'essa dimostrata. Ma Fesistenza dell'  Idea del Bene non può darsi per una verità assiomatica, cioè per una di quelle verità che basta che siano enunciat;e ed intese perchè siano ammesse: essa deve essere dunque una verità dimostrata. Per una tale dimostrazione noi moderni penseremmo naturalmente a qualche cosa come 1'argomento ontologico, vale a dire intero a parte la realizzazione dei concetti, bisognerebbe aggiungere l'altro principio egualmente fondamentale, cioè che ciò che è reale è necessario che esista. Non  avremmo, in altri termini, e. IO il presupposto della prima metà del metodo del Parmenide, quella che fa l'ipotesi dell'esistenza, cioè della sua applicazione negaliva^ che bisognerebbe completare per quello dell'altra metà di questo metodo, quella che fa l'ipotesi della non esistenza, cioè della sua applicazione positiva un argomento clie provi l'oggetto mostrando che il suo concetto  stesso ne include la realtà, o come si dice ordinariamente, che la sua essenza implica resistenza. È questa infatti la sola argomentazione per cui si possa dimostrare direttaìneute un primo principio vale a dire una cosa che non potrebbe dedursi da un'altra cosa. Ma di una tale argomentazione non troviamo alcun indizio in Platone. Non vi hanno nella dialettica platonica che due metodi  per dimostrare le Idee: il metodo diretto, che è la dieresi, e il metodo indiretto del Parmenide. L'Idea del Bene, non potendo dimostrarsi per la dieresi, deve dunque dimostrarsi col metodo del Parmenide. Ammettendo ciò noi non tacciamo un'ipotesi, perchè il metodo del Parmenide si applica alle Idee in generale; esso deve quindi applicarsi anche all'Idea del Bene. È per quest'applicazione  che questo metodo è un complemento indispensabile della dieresi, e che Platone può dire che esso è necessario alla scoverta della verità. Noi possiamo anche dire che la parte positiva del metodo del Parmenide, cioè quella che sviluppa le contraddizioni risultanti dall'ipotesi della non esistenza, non ha, al fondo, altro oggetto che di dimostrare l'Idea del Bene. Noi dobbiamo ammettere  che, secondo Platoue, se l'ipotesi della non esistenza delle altre Idee esistenti implica delle conseguenze contraddittorie, ciò è perchè esse sono delle forme del Bene, e negando una di esse si nega una forma del Bene; sicché in tutte le dimostrazioni indii*ette che partono dall'ipotesi della non esistenza, in ultima analisi l'unico punto dimostrato è che il Bene, in qualsiasi forma, o, come  dice Platone, tutto il Bene, deve esistere, ciò che è il vero principio primo della dieresi. Di quewì  V. Paru. ~ sta maniera l'impossibilità logica della non esistenza delle altre Idee è una conseguenza dell'impossibilità logica della non esistenza dell'Idea del Bene, ciò che è necessario perchè 1'esistenza di quest'Idea sia una verità logicamente anteriore a quelle dell'esistenza di tutte le altre.  Così Fldea del Bene, quantunque sia necessario dimostrarla, è in un senso una verità immediata, in quanto tutte le altre verità della dialettica cioè tutte le altre Idee si deducono da essa, ma essa non si deduce da altra cosa, e si prova per l'inconcepibilità della sua negazione. Il metodo del Parmenide, mettendo in luce quest'inconcepibilità, mostra l'inseparabilità tra il concetto del bene e  quello della sua esistenza: è una specie di argomento ontologico indiretto, e noi siamo sempre alla definizione spinoziana del primo principio: ciò la cui essenza implica l'esistenza o, come spiega Io stesso Spinoza, ciò la cui natura non può concepirsi se non esistente. È for»e alla dinioHirazioDe dell'Idea del Bene col metodo del Parmenide che allude il luogo seguente della Repubblica: Chi non è capace di definire, separandola da tutte le altre, l'Idea del Bene, e, come in una mischia, penetrando per tutto confutando (è)$7re(>  èy  ^a/yi  àia  nàyTcoy  èkéyxoyy  óie^mp)^  avendo cura di con/alare non secondo V’opinione ma secondo la realtà^ procedere in ttitto ciò con ragioni inconcusse, questi dirai che non conosce né il bene stesso né alcun altro bene, ecc. Le parole  sembrano indicare un procedimento per istabilire l'Idea del Bene, che consiste in un metodo confutativo ohe si applica all'universalità delle cose. E infatti è, in un senso, all'universalità delle cose che deve applicarsi il metodo del Parmenide per istabilire il primo principio. Poiché le verità fondamentali sul primo principio non sono solamente che il Bene esiste ed esiste necessariamente,  ma anche t Un'altra osservazione prima di finire sul Parmenide. La dieresi suppone necessariamente un altro metodo diverso per dimostrare il suo punto di partenza. Ma perchè Platone preferisce il metodo indiretto, cioè la dimostrazione ex ahsurdis GRICE R. A. A. Negation introduction reductio ad absurdum ZENO DI VELIA f  E perchè il metodo indiretto lo concepisce come lo  sviluppo di una serie di coppie di attributi contraddittori inerenti simultaneamente allo stesso soggetto? Né l'uuo né l'altro di questi due punti della dottrina platonica ha, bisogna convenirne, un legame necessario coi due punti centrali del sistema, cioè l'ipotesi delle Idee e la dieresi.  Per ispiegarli dobbiamo anche tener conto di un altro fatto, cioè dello sforzo evidente di Platone di  rìattaccarsi alle tradizioni filosofiche dell'epoca, nel Parmenide alla scuola o setta di VELIA Suppl. Questo sforzo apparisce della maniera più chiara quando egli attribuisce a Parmenide di VELIA e agli VELINI in generale la dottrina delle Idee. Questa scuola essendo celebre per la dialettica Zenone VELINO passa presso gli antichi per esserne stato l'inventore Platone, in cerca di punti  di contatlo colle tradizioni più illustri, non poteva mancare di cercare di riattaccarvisi anche per questo lato. Il Parmenide non ha duncjue solamente per issopo di tracciare un metodo indispensabile al conseguimento della verità, ma anche di avvicinarsi ai VELINI mostrando che la sua projjria dialettica GRICE OXONIAN DIALECTIC deriva dalla eohe esiste uecessariiiiueiite ogui  forma del Bene, e die tutti eiò ohe esiste ò uecessiiriaineute una foruia del Beue in uua parola che è ueoessario che tulio il Bene esista et che osso sia ridea universale. Per dimostrare queste proposizioni bÌKOj::norebbe ooufutare, d'uua maniera generale, 1'ipotesi della non esistenza di tutto ciò cbe è bene cioò di tutto ciò cbo esiste e quella dell'esistenza di tutto ciò cbe non ò beue cioè di tutto eiò cbe non esiste. leatica. Così egli imita, in questo dialogo, la dialettica di Zenone VELINO, assegnandole una funzione importante nel suo proprio sistema, e attribuendola, nella nuova forma ch'egli le dà, al fondatore della scuola, ci mostra il vecchio eleate che l'insegna al giovane Socrate – CITATO DA GRICE: “Socrates said he knew nothing, because that’s how dialectic proceed. Similarly, at Oxford, Ausdtin said he knew nouthing – even if we never believed him!” --. Dopo il Parmenide, Platone riguarda come stabilito che la sua dialettica si origina da quella degli Eleati, e nei dialoghi in cui è praticata la dieresi, cioè nel Sofista e nel Politico, la parola non è a Socrate, ma a un supposto filosofo della scuola di VELIA. Abbiamo visto che l'Idea del  Bene è,  non solo il principio logico, ma anche il principio ontologico, la catisa di tutte le altre Idee. Abbiamo visto pui'e che 1'essere il principio logico delle altre Idee e l'esserne il principio ontologico non sono due fatti distinti, ma due espressioni difterenti di uno stesso fatto, perchè se un concetto si deduce da un altro, ed essi sono, non dei semplici concetti, ma delle realtà, dei  concetti realizzati, la  realtà premessa è il principium essendi della realtà conseguenza, e la deduzione eqiuivale a una derivazione reale, a una produzione delì'ettetto dalla sua causa. Abbiamo indicato le prove, per dir così, generiche, da cui si può concludere che Platone ha esteso questo legaìne causale a tutti i gradi della deduzione progressiva in cui consiste la sua dialettica, in modo  che l'incatenamento logico eh' egli introdiice fra tutte le Idee sia al tempo stesso un incatenamento di cause e di effetti. Ora la deduzione per Platone è la dieresi; il genere è il principio, le specie in cui si divide le conseguenze. Ne segue che tra le Idee dei generi e le Idee delle specie intendendo sempre per genere la classe X Sofista in principio. 1 li superiore e per 8i)ecie le classi  immedìataraente inferiori in cui si divide vi La, secondo Platone, una derivazione, non solo logica, ma anche reale – GRICE: “AUSTIN SUSPECTED WORDS LIKE REALITY, BECAUSE LATIN WASN’T FIRST NATURE TO HIM!”; che Tldea generica è la causa e le Idee speci fiche i suoi effetti, o in altri termini, trattandosi di una causalità, non esteriore, ma immanente, che la  serie delle Idee, secondo la loro generalità decrescente, costituisce i gradi successivi, i momenti, di uno sviluppo necessario, che è al tempo stesso logico ed ontologico. È ciò che dobbiamo provai*e particolarmente nel presente paragrafo. I gradi successivi, i momenti, di questo sviluppo necessario, logico ed ontologico, sono indicati da Platone, come poi da Spinoza, coi termini anteriore  e posteriore di natura nQÓisfJok^  xaì  vaze^ot^  xaià  (pva^i'. Secondo le definizioni di Aristotile, Platone chiama anteriore ciò che può essere scii::a il posteriore, mentre il posteriore non può essere senza l'anteriore; ovvero: ciò tolto il quale è tolto anche il posteriore, mentre tolto il posteriore, non è tolto perciò l'anteriore. In altri termini, il posteriore porta con sé l'anteriore, mentre  l'anteriore non porta con sé il posteriore p. e. uomo porta con sé animale, mentre animale non porta con sé uomo. Questo rapporto di anteriorità e posteriorità corre tra i concetti generici e specifici, o, parlando più propriamente, tia le realtà corrispondenti a questi concetti: il Genere P Idea é anteriore alle Specie  le Idee, e queste gli sono posteriori. Le specie opposte che provengo  Met,,   Caieg., ecc. Met., Eth. End., Top. p,  e. Eth. End.: anteriore è il comuue e separabile yoyoiatóy  P^^' il significato di questo termine v. Sappi.; a tutti i multipli sarebbe anteriore il Multiplo. no dallo stesso Genere per la stessa divisione si chiamano simultanee di natura oifia  rfi  (omei. Aristotile usa i termini anteriore e posteriore in un senso più lato, ma nel sistema platonico, come  termini tecnici aventi il significato delle definizioni precedenti, non denotano che una relazione tra il generale e i particolari. Ciò risulta dai luoghi d'Aristotile, in cui si vede che pei platonici, perchè una cosa sia anteriore ad un'altra, deve essere Phytt. e Met.: Le cause di una stessa cosa possono essere 1'una anteriore e V’altra posteriore, ciò ohe avviene quando V’una è il genere di cui  V’altra è una specie; p. e. della sanità lo sono il medico e l'artofice, del diapason il doppio e il numero. Met.: secondo i partigiani delle Idee, dovrebbe essere prima non la Dualità, oom'essi ammettono, ma il Numero perchè più generale. I primi generi sono ì generi più vasti Met.; i primi di tutti gli esseri sono rUno o Essere, identico al Bene, e la Dualità indefinita, cioè le due Idee più  universali di tutte Met,, ecc. Quest'applicazione dei termini anteriore e posteriore e sinonimi si vede pure in Categ., Top. Mei., ecc.: noi riporteremo in seguito alcuni di questi luoghi. Anche Alessandro d'Afrodisia, commentando i luoghi che si riferiscono ai platonici, applica i termini anteriore e posteriore ai concetti generici e specifici: v. in phil. pr, ecc. Categ. e Top. Quantunque  Aristotile non attribuisca espressamente questa denominazione ai platonici, non può esservi alcun dubbio che non appartenga ad essi, tanto per r’allusione al metodo di divisione e divisione per opposti – GRICE NATURA NON NATURA, quanto per il suo rapporto evidente coi termini anteriore e posteriore. separabile x^oiìimóy)^  cioè sussistente per se stessa infatti due concelti di  cui l'uno poitii con sé,  cioè include, l'altro, se si tratta di concetti obbiettivati, non possono essere nel sistema platonico che una Specie e il suo Genere; e più chiaramente ancora da altri luoghi in cui Aristotile, dopo aver supposto che, nel sistema platonico, un'entità è anteriore ad un'altra, ne conclude che quella deve abbracciare questa nella sua generalità. Lo stesso risulta pure dalla  definizione del termine simultanei di natura; perchè il significato di questo termine, nella definizione che ne dà Aristotile, oltre il caso indicato di specie opposte in cui un genere si divide, non abbniccia che un altro caso che può rientrare in esso, cioè quello di due termini correlativi, quali il doppio e la metà i correlativi essendo una sorta di oppo  Eth. Eud.,  y-lO,  luogo iu parte citato,  e Metaf. Così in Met. fa quest'obbiezione a Platone: il Lungo e Corto da cui procedono le linee, il Largo e Stretto da cui procedono i piani, e l'Aito e Basso da cui procedono i solidi per questa dottrina  Suppl,  Entità  uiatem. si seguono cioè sono fra di loro anteriori e posteriori? In questo caso il piano sarà una linea e il solido un piano perchè il Largo e Stretto sarà una specie del Lungo  e Corto e TAIto e Basso una specie del Largo e Stretto. GRICE: “And by the same token, I am a plant, since I digest!”. Un'obbiezione analoga – GRICE: “Blatantly ignoring implicature!” -- fa un po'più giù a dei platonici dissidenti cioè a Speusippo. E in Met, obbietta ohe l'unità che è nella dualità dovrebbe essere anteriore ad essa, perchè tolta la prima si toglie anche la seconda; e che  per conseguenza quest'unità, essendo anteriore ad un'Idea cioè alla Dualità, dovrebbe essere un' Idea d'Idea Idea d'Idea non può significare, applicato al sistema platonico, ohe specie di specie, cioè Idea generica d' un'Idea specitica. sti, e questi potendo considerarsi come due specie di uno stesso genere. Dopo quello che abbiamo detto nei paragrafi precedenti, non abbiamo bisogno di  mostrare che questo rapporto di anteriorità e posteriorità, che Platone stabilisce fra il generale e i particolari subordinati, implica secondo lui il legame logico tra principio e conseguenza. Ci resta a stabilire che egli ha riguardato espressamente questo legame anche come ontologico dico espressamente perchè un legame logico tra concetti obbiettivati è necessariamente, per il fatto stesso  di quest'obbiettivazìone, un legame ontologico. Un indizio di questo significato dell'anteriorità e posteriorità platonica l'abbiamo già nel senso in cui questi termini vengono usati nella logica di Aristotile. Si sa la dottrina di Aristotile sulla dimostrazione: la dimostrazione scientifica è quella che si fa per le cause, e si dimostra per le cause quando si dimostra per priora o, continuando a  tradurre come abbiamo fatto il termine greco corrispondente, per gli anteriori. Il concetto di anteriore implica cosi per Aristotile quello di causa: per priora egli intende delle verità, che non siano solamente le premesse da cui altre verità, cioè le posteriori, si deducono, ma che siano anche le cause dell'esistenza di qiu'ste altre verità. Cause non vuol dire per questa  dcAuizione Categ. In  Top., oltre il primo caso, vengono indicati, invece dei correlativi, gli opposti in generale. sovratutto An, Post, An. Posi.: Causas vero etiam esse oportet et priora, si quidem causas. E: Nam scit magis qui ex superioribus causis scit; ex priorihutt etenim scit quando ex non aliunde effectis causis scit. cause della coDclusione perchè ciò è comune tanto alle dimostrazioni scientifiche, quanto  a un'altra deduzione che non si fa per priora ma anclie della cosa stessa, del fatto che è l’oggetto della conclusione. Così il senso aristotelico dell’anteriorità e post'Criorità  include al tempo stesso due concetti, come quello che attribuiamo a Platone: il rapporto logico tra il principio e la conseguenza, e il rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. Senza dubbio, chiamando cause le  premesse di una dimostrazione scientifica, Aristotile fa un uso improprio del termine causa: è solo in un SENSO TRASLATO che l'essenza può essere chiaiiìata causa delle proprietà che se ne deducono, o gli assiomi matematici dello proposizioni dimostrate. È, come in Platone, una confusione tra il principium cognoscendi e il principium essendi: tra i principia cognoscendi Aristotile  riguarda come cause quelli che può più facilmente identificare con questa. Potrebbe dirsi che attribuendo la causalità a delle proposizioni o a dei semplici concetti, Aristotile eleva per un momento delle astrazioni al grado di realtà perchè noi non possiamo riguardare come cause che delle cose che esistono per se stesse, e si distinguono dai loro effetti realmente, e non soltanto logicamente Questo realismo, per dir così, metaforico di Aristotile è al vero realismo di Platone come p. e. la personificazione poeti FACCIOLATI (vedasi) Institutiones logicae peripntetice. App. Ma hì deve notare che la causa, in questa teoria, non è presa sempre in questo senso improprio; la causa può essere la causa finale CICERO FINIBUS GRICE END metier o anche la causa nel senso più stretto, cioè la efficiente nel significato aristotelico. Anal. Post. tica delle forze della natura è alla personificazione reale dei miti e delle religioni naturaliste. Questa personificazione, che nella coscienza del poeta non è che uno stato istantaneo, diviene in quella del facitore di miti uno stato permanente e definitivo: così il vago realismo d'un Aristotile, che confonde la causa con la ragione – GRICE RATIO COGNOSENDI RAIO ESSENDI, dà luogo al realismo deciso d'un Platone o d'un Spinoza, quando nella coscienza del filosofo è divenuto uno stato permanente e definitivo. È per altro un fatto indiscutibile che l'uso che fa Aristotile dei termini anteriore e posteriore si riattacca a quello che ne faceva Platone. Le sfere di applicazione di questi termini coincidono sino  ad un certo punto nei due filosofi: anche per Aristotile l'universale è anteriore, e il particolare ad esse subordinato, posteriore. Di più, per distinguere l'anteriore dal posteriore presi nel senso logico ed ontologico che Aristotile attribuisce a questi termini, egli si serve talvolta del cri  Così  neW  Anal. Post,  intende per proposizione anteriore V’universale e per posteriore la particolare in essa  compresa ciò che d'altronde non potrebbe essere altrimenti, dato il significato logico dei termini anteriore e posteriore, la conseguenza essendo un caso particolare della premessa maggiore. Un po'prima, ha detto che l'universale è causa.  lìnd, distinguendo Tanteriore di natura e l'anteriore per noi, dice che anteriore di natura è il generale, per noi il particolare GRICE PARTICULARISED CONVERSATIONAL IMPLICATURE. Come per Platone il genere è anteriore alla specie, e le specie in cui il genere si divide, simultanee di natura Top. Nelle Topiche, in cui tratta dei luoghi per provare che una definizione non è fatta, come deve essere, per priora, questo termine è preso quasi sempre in un significato identico al platonico, cioè come sinonimo di piìì generale. terio stesso di Platone, cioè die  anteriore è quello tolto il quale si toglie anche il posteriore.  Top. È curioso fteguire le vicende dell'ubo dei termini pHore e posteriore da Platone alla filoKofia moderna. Gli scolastici, continuando ad usarli nel senso aristotelico, chiamano dimostrazione n priori quella che si fa  i>er le cause (o pelle ragioni considerate come cause, e a posterioì^i quella ohe si fa  per gli effetti (p. e. 1'argomento cosmologico per provare 1'esistenza di Dio e quello fisico-teologico sarebbero a posteriori, l'argomento ontologiccì sarebbe a priori, perchè prova Dio assegnando la causa, cioè la ragione, della sum esifrtcììzn^. Sin qui il significato dei termini è ancora quello di Platone. Ma siccome nel ragionamento induttivo il principium cognoscendi non può assimilarsi al principium  essendi come nella dimostrazione propriamente detta cioè quella che deduce da principii evidenti per se stessi, così la dimostrazione propriamente detta si disse a priori, e il ragionamento induttivo a posteriori. Di lìi fu facile il passaggio al significato che questi termini hanno nella filosofia moderna, e conoscenza a posteriori divenne il sinonimo di conoscenza sperimentale, conoscenza  a priori «piello di conoscenza razionale, o indii)endente dall'esperienza. È notevole ohe, dopo questo cangiamento della connotazione dei termini, la loro denotazione coincide ancora con quella di Platone, perchè anche Platone chiama la conoscenza sperimentale del generale « posteriori cioè dai suoi effetti, mentre la conoscenza dalle cause era per lui a priori nnche nel senso moderno  della parola, cioè razionale. Nella iMetafìsica il LIZIO usa i termini anteriore e posteriore in un senso più vago di quello ch'essi hanno nella sua  teoria della dimostrazione. Tuttavia anche nella Metafisica questi termini hanno un significato ontologico, non ben definito forse, nia in cui risaltano sovratutto questi due concetti: quello di una derivazione del posteriore ma che non è  necessariamente causale, come si vede p. e. in cui chiama la potenza anteriore all'atto non nel senso cronologico e quello di un maggior grado di Ma senza esagerarci uè diminuirci V importanza  di questo legame storico tra la dottrina del LIZIO e quella dell’ACCADEMIA, per istabilire il significato dei termini anteriore e posteriore, noi passeremo ad altre prove più importanti che  ridurremo a queste tre: P I termini anteriore e posteriore indicano una sequenza metafisica, il cui tipo, nel mondo dell'esperienza, è la successione cronologica, specialmente quella che avviene secondo una legge, p. e. V’evoluzione degli organismi. Non sam inutile di citare le definizioni che Aristotile dà del significato primitivo dei termini anteriore{nQóz€Qoy e simultanei «.uà, prima  di passare a definirli nel loro significato platonico. Una cosa si dice anteriore ad un'altra principalmente e massimamente secondo il tempo, secondo cui l'una è detta più vecchia e più antica dell'altra. Simultanee si dicono nel senso più stretto e assoluto le cose la cui produzione è nello stesso tempo. Nella Metaf. si parla della realtà dell'anteriore Mei.: gli anteriori sono superiori nell'essere,  ro)  shai vneQpàkkei), Anche il secondo di questi due concetti si riattacca al significato platonico dei termini, perchè Platone considera 1'anteriore come più reale del posteriore. Si veda più giù, in questo stesso paragrafo. Categ. Categ. Le rappresentazioni che si fa Aristotile della derivazione delle Idee dai primi principii, implicano tutte una successione nel  tempo. In  Met, domanda ai  platonici: come i numeri (cioè, pei platonici ortodossi, le Idee) vengono dai due principii 1 per una mescolanza? per una composizione? ne vengono come da materiali che continuano ad esistere in essi f o come da un germe? allusione all'idea di sviluppo di cui parleremo in seguito o come da nn contrario che si cangia nel suo contrario f Altrove Met. si rappresenta 21 \  quistione era  una controversia tra i platonici se il bene deve riguardarsi come principio, o deve ammettersi che sia generato posteriormente. Alcuni moderni i platonici che sostengono la seconda opinione convenendo, dice Aristotile, coi teologi secondo i quali l'ordine nel mondo è stato preceduto dal chaos, ammettono che il buono e il bello non appariscono che nel progresso della natura degli esseri {nQoek&ovarjg  if\q  toyy  o^kùp  (ùv<tb(ù^. I poeti antichi, continua Aristotile, avevano un'opinione simile, perchè attribuivano il principato e il regno su tutte cose, non ai primi esseri, quali la notte o il cielo o il chaos o l'oceano, ma a Giove. Nel capit. seguente in princ. dice di questi platonici che paragonano i principii del tutto a quelli delle piante e degli animali, perchè si va sempre  (tanto questa derivazione come un passaggio dalla potenza all'atto ciò che, egli dice, è impossibile, perchè le cose eteme non possono essere che in atto. In Met., dopo aver riferito la proposizione platonica che l'Idea del due viene dal Grande e Piccolo lo stesso che la Dualità indefinita eguagliati, osserva: dunque prima erano ineguali e poi divennero eguah, e non h in grazia della  speculazione che fanno la generazione dei 7iumeH in altri termini, questa generazione deve intendersi nel senso stretto, come implicante una successione nel tempo. A questa pseudoidea di causalità, che il realismo dialettico attribuisce alle sue astrazioni reaUzzate, non può corrispondere niente di rappresentabile, in cui non entri V’idea di una sequenza nel tempo, perchè è solo come  una sequenza nel tempo che noi conosciamo e possiamo immaginare la causalità. È perciò che le espressioni platoniche, indicanti la derivazione tra le Idee, suggeriscono sempre questa sequenza. Il senso reale di queste espressioni anche quando non indicano che una semplice sequenza, come i termini anteriore e posteriore è del resto abbastanza chiaro, se si aggiunge all'idea di sequenza  quella di necessità, implicata nel loro significato logico. Causalità infatti, nel significato comune ohe è lo stesso, ai fondo, ohe quello della metafisica, -- GRICE: “I like that: metaphysical meaning is ordinary meaning!” -- vuol dire appunto sequenza necessaria. nel tutto quanto nelle piante e negli animali dal più indeterminato e più imperfetto al più determinato e più perfetto (If  ào^iazcoy  àiek^i/  oh  àei  za  v€k€ióz€()a)' e che così avviene, secondo essi, anche nei primi, tanto che l'Uno cioè il loro primo principio non è nemmeno un essere. Questi priim, di cui parlano questi platonici, che vengono paragonati agli esseri primitivi nelle antiche cosmogonie, questo progresso della natura degli esseri, questo sviluppo che va sempre dal più indeterminato e imperfetto  al più determinato e perfetto, e che ha il suo analogo in quello delle piante e degli iiuimali, non devono intendersi  in un senso cronologico. Non si tratta evidentemente che d'una successione metafìsica, come si vede nell'opposizione tra 1'esser principio il bene e l'esser generato posteriormente, perchè il modo in cui il primo principio dei platonici genera le altre cose non è una produzione  nel tempo, ma una derivazione ab aeterno, in cui la successione non è che logica. La comparazione del tutto alle piante e agli animali è un'anticipazione dell'idea di sviluppo nel senso hegeliano; il passaggio continuo dal più indeterminato e imperfetto al più determinato e perfetto non è che il passaggio continuo dal più astratto al più concreto, che avviene tanto nella dialettica di Hegel  quanto in quella di Platone, e noi possiamo aggiungere, in qualsiasi altra deduzione di qualsiasi altra forma di realismo dialettico. I platonici di cui si tratta sono Speusippo e la sua scuola: sono dei dissidenti, ma essi non hanno abbandonato la dotttina platonica dell'anteriorità e posteriorità,  uè quella che l'anteriore è il generale e il posteriore il particolare. Infatti Aristotile ripete contro  questa scuola la Vedi, per questa proposizione chn l'uno non è un essere, Supplem. Speusippo, obbiezione che ha fatto a Platone, che se i principii materiali delle grandezze non si seguono, non si vede perchè il solido debba comprendere la superficie, e la superficie la linea, ma se si seguono^ la superficie dovrebbe essere una linea [IMPLICATURA? GRICE] e il solido una superficie [IMPLICATURA? GRICE – “Il quadrato tiene tre lati”]. Per il riferimento a Speusippo tanto di quest'obbiezione quanto delle opinioni precedenti, rimandiamo al  Suppl.; ma per vedere che nei due casi si tratta degli stessi filosofi, basta di confrontare Met. 1j^ anteriorità e posterioritàj nei numeri ideali, indica una filiazione di questi numeri gli uni dagli altri. Platone, nell'ultima forma  della sua filosofia, ammette due sorta di numeri: i numeri ideali cioè le Idee, che, in quest'ultima forma del suo sistema, sono dei numeri e i numeri matematici cioè che formano l'oggetto dell'aritmetica. Un carattere distintivo tra i numeri ideali e i numeri matematici, è che i primi hanno anteriorità e posteriorità. Anche i numeri matematici hanno, in un senso, anteriorità e posteriorità,  in quanto costituiscono una serie i cui termini si seguono con un ordine determinato. Ma questo senso dei termini anteriore e posteriore non è quello tecnico che questi termini hanno nella filosofia platonica Così Aristotile per indicare il numero ideale, in contrapposto al numero  matematico, dice: quello che ha anteriorità e posteriorità. Per conseguenza noi dobbiamo ammettere che  quest'anteriorità e posteriorità dei numeri ideali deve intendersi nel senso proprio, cioè tecnico, della filosofia platonica. La filiazione che Platone ammette tra questi numeri che hanno anteriorità e posteriorità, è questa: ogni numero genera  Mei, Suppl. Ent.  matem. Met. due numeri, 1'uno pari che nasce dal suo raddoppiamento, e l'altro dispari che nasce da questo raddoppiamento e r  aggiunzione dell'unità. Ora noi vediamo in Aristotile che i termini anteriore e posteriore applicati a questi numeri o alle unità che li costituiscono significano appunto l'ordine di questa generazione. Cosi in Met.: le unità che sono nella prima Dualità cioè nel Due ideale sono generate simultaneamente aaa. se l'una unità fosse anteriore all'altra, sarebbe anteriore anche alla Dualità che è  da esse. Né bisogna nascondersi che avviene nella dottrina dei numeri ideali che vi hanno delle dualitfi anteriori e posteriori, e similmente per gli altri numeri. Le dualità infatti che sono nella Tetrade cioè nel Quattro ideale siano simultanee fra di loro: ma esse sono anteriori a quelle che si trovano nell'Otto nell'Otto ideale, e sono esse che hanno generato come la Dualità in sé aveva  generato esse stesse le tetradi che si trovano nell'Otto in sè. L'unità quella che è una parte della Dualità ideale dovrebbe essere anteriore alla Dualità: infatti, tolta essa, è tolta anche la Dualità  il criterio di Platone per distinguere l'anteriore e il posteriore. Dunque dovrebbe essere necessariamente un'Idea  d'Idea, essendo anteriore r un'Idea, e dovrebbe essere stata generata anteriore. E  Ciascuna delle due unità che costituiscono la Duali(|à ideale dovrebbe essere anteriore alla Dualità perchè, dice Aristotile, somiglia di più all'Uno in sé, e questo è anteriore a tutto. Ma non dicono così; quella che generano la prima tra tutte le cose che generano è la Dualità. Suppl. Bisogna notare che nei luoghi citati Aristotile estende l'anteriorità e posteriorità, che Platone ammette tra  i numeri, alle L'anteriorità e posteriorità dei numeri ideali non può essere altra cosa che l'anteriorità e posteriorità delle Idee che essi rappresentano, e la filiazione tra i numeri anteriori e posteriori corrisponde alla subordinazione logica di genere e specie tra le Idee rappresentate. Cori questa filiazione tra i numeri non può significare altro che una filiazione tra le Idee che rappresentano,  essendo evidente che, generando i numeri, Platone geìiera le cose stesse cioè le Idee con cui li identifica. In altri terunità che li costituiscono quando chiama simultanee le unità dello stesso numero, e anteriori e posteriori quelle dei numeri che sono in questo rapporto. Lo stesso fa in altri luoghi in cui chiama l'unità che fa parte di un numero, simultanea al numero stesso  e a in cui  domanda, nelU ipotesi che le unità dei diversi numeri che, secondo Platone, sono eterogenee differiscano di quantità, se sono le prime le minori o le posteriori vanno crescendo, o se è al contrario. Sinché si tratta dei numeri stessi, si potrebbe supporre che V anteriorità e posteriorità non signilìchi che i diversi gradi di generalità delle Idee che questi numeri rappresentano. Ma questa spiegazione essendo inapplicabile alle unità, questi termini, in questo caso, non potrebbero avere altro significato immaginabile ohe la successione metafisica di cui nel n. 1. Si veda, per una maggiore eluoidazione di questo punto, il Suppl. Qui aggiungeremo solamente che il penultimo dei luoghi citati prova, non solo che 1'anteriorità e posteriorità, applicata ai numeri ideali, ha il solito  significato definito d:i Aristotile ciò che dimostra il criterio usato per distinguere l'anteriore e il posteriore, ma ancora che un numero anteriore rappresenta un'Idea più universale, come apparisce dalle parole Idea rf'  Idea, che noi abbiamo già spiegato in una nota precedente. Così Aristotile dioe(3/e(: Generano le cose che seguono za énófzeya-^cioh che seguono ai due prinoipii, come mini la generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri non è che 1'espressione, in termini pitagorici, di questo nesso ontologico tra le Idee, che è 1'obbiettivazione del loro nesso logico. E per conseguenza i termini anteriore e posteriore, che significano i diversi gradi di questa generazione, significano pure i diversi gradi dello sviluppo delle Idee, o, ciò che vale lo stesso, i diversi anelli del loro incaten amento causale. Anteriore e i termini simili è sinonimo di principio, posteriore di cosa derivata da questo principio. Così tutte le entità, di cui si ammette generalmente che Platone le ha riguardate come principii, sono anteriori alle cose di cui sono i principii. L’Uno cioè, senza pitagorismo, l'Essere o il Bene e la Dualità indefinita sono i primi degli esseri, anteriori  a tutte le altre cose, che sono chiamate za énó/aeya. Le Idee sono anteriori alle cose, e sono pure chiamate i primi degli esseri l' Idea del Bene è il primo dei beni, la Dualità ideale la prima dualità, ecc. Siccome i numeri ideali non producono soltanto le cose, ma anche le entità matematiche, essi sono anteriori anche alle entità matematiche, che, come tutti i concetti obbiettivati, producendo  le cose di cui sono i concetti, sono anteriori a queste, e si dicono perciò medie fra le Idee e i sensibili. Pei platonici per cui i primi numeri sono gì'ideali, le cause prime di tutti U vuoto f la proporzione, V abbondante ^ e le altre cose tali, dentro ki decade; perchè alcune cose attribuiscono ai principiialtre cioè quelle che seguono ai numeri.  V., oltre i luoghi citati nella nota, Met, ecc.   Met, Mh. Eud. Alex. Aphrod. in phil. pr., ecc. MeL e Suppl. gli esseri sono i numeri ideali; sono i numeri matematici per quelli per cui i primi numeri sono i matematici. La sinonimia tra principio iiìoh principio assoluto e primo come anche tra cosa derivata e cosa posteriore apparsa nel progresso della natura degli esseri è evidente nei due luoghi della Metafìsica citati cioè  Met.  Aristotile continua ad usarli come sinonimi nel tratto che se^»ue il primo di «luesti due luoghi, e lo stesso fa anche altrove, come in  Met., in cui dopo aver detto che anteriore ha due sensi, nell'uno dei quali  anteriore è V universale, e nell'altro la materia di cui un oggetto si compone, rimprovera a Platone di riguardare l'Uno in sé come principio nell'uno e nell'altro di questi due sensi del termine anteriore come universale, perchè ogni numero è uno, e come materia, perchè si compone di unitji. Ma 1' equivalenza di primo e di anteriore a principio è sovratutto evidente in  Met.: L'Uno e l'Essere possono specialmente riguardarsi come coutenenti  Mei, Mei.: È Btrauu che al pnmo cil eterno e sufficientissiino a se stesso, questi stessi attributi primi, la sufficienza a se  stesso e 1'eterna censervazione, non appartengane in quanto ò bene. Dunque è conforme alla ragione che sia vero affermare che il principia è tale cioè è il Bene, ma è impossibile ohe sia 1’Uno in sé. Ne segue una grave ditticoltà, che alcuni hanno cercato di evitare, riconoscendo ohe l' Uno è il primo pHncipio ed elemento, ma del numero matematico. Questa equivalenza tra anteriore  e principio di ciò a cui si dice anteriore, si vede pure in Met., cioè nel luogo citalo, in cui si dice che le unità della Dualità, somigliando al primo principio, cioè l'Uno in sé, più della Dualità stessa, dovrebbero esserle anteHori. tutti gli esseri, e sembrare si>ecialmente pnncépie per essere primi di natura. Tolti infatti essi, sono tolte anche <rvi^ai/ai{)Bitai le altre cose, poiché tutto è uno  ed essere Perchè dall'esser primo, cioè anteriore a tutto il resto, seguirebbe essere il principio assoluto, se non perchè l'anterioreè il principio di ciò a cui è anteriore? In quanto le specie sono tolt« tolti i generi avt^ayaiQBizai  zoìg  yéyeai)^ più sembrano principii i generi che le specie. Principio infatti è rò  Tvi^ai^ai()ovyy> vale a dire ciò tolto il quale è tolto anche ciò di cui si dice  principio. La definizione di principio è dunciue la stessa che quella di anteriore. In tutti questi luoghi, riferendosi essi alle dottrine platoniche, Aristotile deve usare sì il termine primo che il termine principio nel significato platonico. In Top,, in cui non deve usarli, a dir vero, nel senso platonico, ma in quello certamente della lingua filosofica dell'epoca e che è comune perciò anche ai  platonici, dice: Ciò che è principio è pvimo, e ciò che è primo è principio. Ora, ripetiamolo, se principio, nel senso assoluto, cioè di primo principio, è il sinonimo di jpr/mo, cioè di quest'altro assoluto il cui relativo corrispondente è anteriore principio nel senso relativo deve essere sinonimo dell'altro relativo, cioè di anteriore. In altri termini, come ciò che è anteriore a tutio il resto è il  principio di tutto il resto, così ciò che è anteriore ad un'altro sarà il principio di quest'altro a cui si dice anteriore. Indipendentemente dal significato dei termini ante^  Anche in Anal. Pont. Aristotile dice: Lo stesso dico primo e principio; ma noi non possiamo tirarne alcuna deduzione sul significato platonico di questi termini, perchè qui parla della sua propria terminologia, e relativamente  alla sua teoria della dimostrazione. riore o primo e posteriore^ abbiamo altre prove in Aristotile che dimoBtrauo che Platone considera le Idee più universali come principu delle Idee più particolari. La principale è che i platonici chiamano i generi priìicipii dello specie, e per conseguenza anche deglMndividui compresi nelle specie  per specie qui deve intendersi, come si vedrà dal  seguito, le specie infime. In MeL  Aristotile enumera le quiationi dubbiose che il filosofo deve esaminare, e una delle quistioni è questa: E se i principii e gli elementi sono i generi, o gl'ingredienti nei quali si scompone ciascuna cosa. E supposto che i generi, se gli ultimi che si predicano degl'iudiviJui  o i primi; p. e. se Panimale o l'uomo è principio ed ha più essere ^à'A'Aòy  èazi al  di là del singolare na()à    xa*'  exaazo»^  è uno dei modi con cui Platone esprime la relazione tra le Idee e le cose. Questa quistione non è un semplice dubbio che si propone Av'stotile, ma ha un fondamento storico. Infatti in Met., parlando dei significati della parola elemento, dice: Alcuni chiamano elementi i generi, e più che la differenza, perchè il genere è più universale elemento  per i platonici è sinonimo di principio  Met. E in Met., indicando le cose che sono riguardate come sostanze:    Avviene a un altro punto di vista il genere essere più sostanza delle specie, e l'universale dei particolari >(ciò che corrisponde al fzàkkóy iati di Met. Ora questi generi, che sono riguardati come principii, come elementi ii come piii sostanze delle specie, non sono evidentemente dei semplici concetti, ma dei concetti obbiettivati, cioè delle Idee: questa è dunque una dottrina platonica, perchè noi non possiamo attribuire le Idee che a Platone, e d'altronde essa non si comprende che in relazione alla dieresi platonica, cioè come una trasformazione in un legame ontologico del legame logico tra le Idee generiche e le Idee specifiche. Ma se l'una delle due soluzioni della quistione che ci presenta Aristotile cioè che principi i ed elementi sono i primi generi, vale a dire i generi nel senso stretto, è una dottrina filosofica della sua epoca, non ne segue che lo stesso deve dirsi dell'altra cioè che principii ed elementi sono i generi ultimi, vale a dire le specie. Questa seconda soluzione, che non è che l'antitesi della tesi platonica, Aristotile la propone per  indicare che la proposizione che i generi sono principii e più sostanze delle specie non è una  Met. Per Platone le Idee generiche danno più essere e sono piil sostanze delle Idee specifiche, perchè per lui 1'essere e la sostanza delle Idee specifiche sono contenuti in certo modo in quelli delle Idee generiche. Ciò è perchè le Idee specifiche si deducono dalle Idee generiche, e per conseguenza  esistono implicitamente in queste e non ne sono che un'esplicazioìie  L la stessa ragione per cui Platone dice che tutto è  uno, e, egli stesso o alcuni discepoli, ohe tutto l'essere è nei due principii. La sostanza, disseminata nel momento posteriore, esiste, concentrata, nel momento anteriore, perchè l'Idea si sviluppa passando dall'uno al multiplo. Chiamando le Idee generiche elementi,  Platone esprime, al fondo, lo stesso concetto, per che questa dcuomiuazione implica che tutto il reale delle Idee specifiche e delle cose si risolve nelle Idee generiche Così tanto la denominazione di elementi quanto quella di pia sostanze delle Idee specifiche equivalgono, in ultima analisi, all'altra di  2>W«c*/>/i: ogni principio è  j^ev  Vìeitoné elemento e piic sostanza di ciò di cui è  principio, perchè le cose derivate non sono per lui ohe le cose stesse da cui derivano, e la derivazione non è che uno sviluppo, cioè uno svolgimento  o, come abbiamo detto, una esplicazione.  (/ conseguenza necessaria della dottrina delle Idee, e che le dottrine platoniche forniscono anche dei motivi per sostenere la proposizione contraria, cioè che le specie sono più principii e più  sostanze dei generi. La quistione se i principii siano i generi o le specie si ritrova in Met e  ITI. In quest'ultimo luogo jriL  Nella maniera iu cui la presenta Aristotile, la tesi che gli elementi e i principii sono i generi e non gì'ingredienti sembrerebbe la dottrina comune di due sistemi  HIos  liei, di cui l'uno ammetterebbe che elementi e principii sono i generi primi, e l'altro i generi ultimi.  Ma il vero è che tutti quelli ohe sostengouo questa tesi non la intendono ohe in una sola delle due forme indicato da Aristotile, vale a dire ammettono che questi elementi e principii sono i iroiu'ri primi, cioè i generi propriamente detti. Ciò si vede nel  III  cap.  dello  stesso  lib.  Ili, in cui Aristotile ripresenta con più sviluppi la quistione se principii ed elementi siano i generi o gì'ingredienti.  Ivi, esponendo le ragioni in appoggio dello due proposizioni contrarie, è cosi che dice sulla prima: In quanto conosciamo ciascuna cosa mediante le definizioni, e i generi sono principii delle definizioni, è necessario che i generi siano anche principii delle cose definite. E se avere la scienza degli esseri è avere quella delle specie secondo cui gli esseri sono nominati, i generi, di certo,  sono i principii delle specie. i^Met. È appena bisogno di osservare che queste ragioni su cui si appoggia la proposizione che i principii sono i generi, proverebbero abbastanza se fossero necessarie altre prove ohe la proposizione stessa ohe si tratta di una dottrina dolla scuola platonica. In seguito vedremo che le ragioni su cui è appoggiata r altra pretesa forma della tesi, cioè che i principii  sono i  generi ultimi e non i primi, sono desunte anch'esse, quantunque forzatamente, dalle dottrine platoniche. Se più è principio ciò che è più semplice che ciò che lo è meno, siccome le ultime delle cose che vengono dal genere {là Igxo-io. i(bv  £x zov yéyovg, vale a dire: le ultime entità che il dividente ricava dalla diviene del'genere, in una parola le si ripete negli stessi termini la  quistione di  III. I. 9,  cioè se, supposto che i principii ed elementi siano i generi e non gl'ingredienti, deve ammettersi che sono i primi generi o gli ultimi; ma per primi generi s'intende i primi nel senso più stretto, cioè il genere sommo di Platone, rUno o Essere, che il LIZIO, seccmdo la sua abitudine, sdoppia in due generi distinti, V’uno e 1'essere – GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. GRICE CODE PLATONISM AROSTELIANISM Però questa dottrina che i generi supremi, cioè l'uno e l'essere, sono i principii primi delle cose, è riguardata come un'applicazione della dottrina più generale che i principii sono i generi, e come legata solidariamete con specie infimo sono più  semplici dei  generi esse infatti sono indivisibili, mentre i generi si dividono in molte e diffsrenti specie, più le specie ohe i generi sembrerebbero  essere principii. Ma in quanto le specie sono tolte tolti i generi, più sembrano principii i generi: principio infatti è ^ò av^ai^aiQovìf)^  (v. più  su, questo  paragr. n.,  in cui è già stata citata 1'ultima parte di questo luogo. S’osserva facilmente che gli argomenti tanto per l'una quanto per l'altra delle due tesi contrarie sono tirati da dottrine platoniche. La ragione in appoggio della prima  tesi, che più è principio ciò che è più semplice ohe ciò che lo è meno, è una deduzione forzata dalla dottrina eh e il primo principio è l'Uno in sé Met. Non è possibile che 1'uno sia un genere degli esseri, e nemmeno l'essere. È necessario infatti ohe le differenze di ciascun genere siano e ciascuna sia una. Ma è impossibile tanto che le specie di un genere si predichino delle proprie  differenze, quanto che sé ne predichi – GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO il genere separatamente dalle sue specie. Per cui se l'uno o l'essere è un genere – GRICE: But for Aristotle, being is not a genos --,  nessuna differenza sarà una uè essere. Ma se non sono generi, non saranno nemmeno principii, se sono i generi che sono principii  Met. È evidente ohe in questo luogo la parola  genere deve intendersi nel senso stretto, cioè come quello a cui sono subordinate delle specie. essa: infatti confutando la prima dottrina, il LIZIO fa delle obbiezioni, che non hanno di mira direttamente essa stessa,  ma la seconda, perchè vogliono dimostrare che le specie sembrano principii più che i generi. La  4  Oltre a ciò le differenze saranno principii piìt che i generi. Ma se anche  esse sono principii, i principii, per dir così, diventano infiniti, specialmente se si pone come principio cioè come principio primo il primo genere. Questo luogo prova ohe le differenze secondo i platonici non sono principii, com yotrebhe sembrare da Met., in cui si dice che €  alcuni dicono elementi i generi, e piìi che le differenze I platonici non possono riguardare le differenze né come  principii  né come elementi, perchè essi nou le considerano come delle entità sussistenti per sé stessi, in una parola come delle Idee. Alessandro d'Afi^disia,  in  phil,  pr., commentando questo luogo, nota che IL LIZIO combatte la dottrina che i generi sono principii, perchè nel suo pensiero essa è legata con quella che sta confutando, cioè che i principii primi sono i generi sommi. E te  l'uno ha più natura di principio, Tuno essendo l'indivisibile  e i generi essendo divisibili in specie,  sarà più uno l'ultimo PREDICATO GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO cioè, la specie infima e quindi sarà più principio che il genere. Met. L'uomo infatti non è un genere degl’individui quindi, non si divide in essi come un genere nelle specie  V.  per tutto questo periodo il comm. d'Aless.  d'Afrod., Inoltre nelle cose in cui vi ha anteriorità e posteriorità non nel senso tecnico aella filosofia platonica che abbiamo spiegato nou è possibile che ciò che SI PREDICA GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO in comune di esse sia qualche cosa al di là di esse fnaoà zai^ra cioè sene faccia un'entità distìnta: p. e. la dualità essondo la prima dei numeri, non vi sarh un Numero generico  al di là ntroà delle specie dei numeri; e similmente non vi sarà una Figura al di là delle specie delle figure si allude a un'argomento capzioso dei platonici, fondato sul doppio senso AEQUI-VOCALITY delle parole anteriore e posteriore, per escludere le Idee generiche dei numeri e delle figure v. il commento d'Aless. d'Aphrod. e confr. Suppl. Ma se di queste cose non  335 prima  dottrina essendo incontestabilmente platonica, deve esserlo anche la seconda; e del resto basterebbe a provarlo la natura degli argomenti che servono a combatterla, perchè questi non potrebbero avere del valore che per un platonico, e non si comprendono che come argomenti ad hominem. In questa discussione del della  dottrina che i principii primi sono i primi generi, cioè 1'uno e 1'essere, questa dottrina viene riguardata, non solo, come abbiamo detto, come un'applicazione di quella che i principii sono i generi, ma come una conseguenza del presupposto che il più univeisale è sempre principio del più particolare. Evidentemente vi hanno dei generi al di là nagà delle specie, molto meno ve ne saranno delle altr^; di queste cose infatti sembra massimamente ohe  vi siano dei geperi. Tra gl'individui invece non vi ha anteriorità e posteriorità {p per conseguenza ciò che SI PREDICA GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO in comune di essi, cioè la specie, può essere alcun che al di là di essi, vale a dire può farsene un'entità distinta. Di più dove c'è un meglio e un peggio, il meglio è sempre anteriore; per cui di tali cose non potrebbe esservi genere. Per  queste ragioni dunque le specie ehe SI PREDICANO GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO degl'individui, sembrano essere principii più che i geneH, Met.    Se infatti gli universali sono sempre più principii, vale a dire: se più un'entità è universale, e più è principio è chiaro ehe saranno principii i generi sommi; perchè questi SI PREDICANO GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO d'ogni  cosa. Met. Il principio e la causa deve essere al di là (^nagà delle cose di cui è principio, e poter essere separato  ^^o)Qi^ofiéyr^y)  <ia  ©ss® (sono due espressioni platoniche per indicare ohe il comune si astrae e se ne fa un'entità distinta Supp. Ma perchè si ammetterebbe esservi alcun che di tale al di là nagà dei particolari, se^non perchè SI PREDICA GRICE BOEZIO PRAE-DICATIO in universale e di tutti t Ma se per ciò, i più universali più si devono porre principii (xà  fÀàkkoy  xa&ókov  ^àkXoy 'liL questa proposizione non è certo la base della dottrina che i primi principii sono i concetti universalissiniì, ma anche di quella che le Idee generiche sono i principii delle Idee specifiche. Se IL LIZIO la indica solamente come il presupposto della prima, è  perchè nella sua esposizione del sistema platonico, come del resto nelle opere stesse di Platone, tiene più posto la dottrina che tutte le Idee derivano dalle Idee universalissime, che quella più generale di cui essa non è che un caso, che le Idee più particolari derivano sempre dalle Idee più universali. ^Bxéoy  àgyàg,  cioè iiua cosa più universale più si deve porre principio che unii meno  universale; per la qual cosa principii saranno i primi generi. Più principio non può voler dire ohe: un principio più primitivo, Sicché la proposizione che i più universali sono più principii significa che gli universali di diversi gradi formano una scala di principii, in cui il più generale è un principio più primitivo che il più particolare. Ma ciò alla sua volta non può voler dire altra cosa se  non che questi principii derivano gradatamente gU uni dagli altri, il più particolare dal più generale; non i»uò avere, in altri termini, altro senso che quello che noi abbiamo spiegato déìV anteriorità e posteriorità, Le Idee generiche essendo i principii delle Idee specifiche, ne sono anche le causCy perchè principio e causa sono dei termini perfettamente equivalenti, tanto per Platone  quanto pel LIZIO. Così in Met. troviamo la proposizione: € L'uomo ha molte cause, l'animale, il bipede, che noi non possiamo che riferire ai platonici, perchè evidentemente implica la realizzazione dei concetti di animalo e di bipede. In questo luogo. come altrove, p. e in Met., per bipede non devo intendersi la differenza dell'uomo, perchè le differenze per Platone non sono Idee, ma  un genere subordinato ad animale e superordinato ad uomo. Il concetto che le Idee più generali sono i principii dello più particolari, è espresso pure indicando il rapporto delle Bell concetto indicato in Met., che il più generale GRICE GENERALISED IMPLICATURE è sempre il principio del più particolare GRICE PARTICULARISED IMPLICATURE, è quello che riassumo tutto il  sistema platonico. Le Ideo cioè le Specie sono i principii delle cose, le Idee più universali i principii delle Idee più particolari, e il principio primo è l'Idea univcrsalissima del Bene – H. P. GRICE, ARISTOTLE ON BEING AND GOOD --,  identico all'Uno e all'Essere H. P. GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. Per questo concetto il sistema platonico ha una più grande coerenza che le altre forme del realismo dialettico. Perchè il processo per cui l'Idea più astratta si astrae dalla più concreta e il processo inverso – GRICE CONVERSO -- per cui l'Idea più concreta deriva dalla più astratta, non sono che urni continuazione di quelli per cui le Idee si astraggono dalle cose, e le cose derivano  dalle  Idee. In una parola la stessa rehizione di  universale a particolare, che vi ha fra le Idee e le cose, vi ha tra i gradi successivi dello  sviluppo delle Idee. Ma più che V identità che la relazione tra le Idee più universali e le più parconde alle prime con la preposizi<me significa evidentemente una derivazione. Così rà U tov  ytyov:; "cl luogo citato nella nota, Met., come altrove  p. e. in Categ. – GRICE AUSTIN e Top, in cui  Aristotile parla souza dubbio alla plutonica per dire: i generi inferiori e le specie di uu genere. Si noti che iu questo stesso mi lo troviamo frequentemente espressa la derivazione delle Idee e delle cose dai duo principii primi. I numeri ideali e le altre entità sono, o vengono, o i platonici li fanno, l^  t(ò,f  ct^jjfO)//,  ix  to\)  fcVò^  xat  zfjg  àoQtatov ^vàdog,  tx Tov  iyóg o £X  tf}^  àogiazov óvàóo^ semplicemente, ecc. Met., eoe. In alcuni luoghi, come nei quattro primi citati, è chiaro che questa derivazione indicata dalla proposizione l-x  non è  uu i semplice composizione da elementi., 22 ticolari ha col rapporto tra le Idee e le cose, a noi importa di notare quella che essa ha col rapporto tra l'Idea del Bene e tutte le altre Idee. H. P. GRICE ARISTOTLE ON BEING AND GOOD Noi troviamo in Aristotile le stesse formule per esprimere la relazione tra il Bene e le altre Idee e per esprimere quella tra le Idee più generali – GOOD IS SAID IN MANY WAYS H. P. GRICE ARISTOTLE ON BEING AND GOOD e le più particolari subordinate. Come l'Uno o Bene è principio e causa di tutte le Idee, così le Idee generiche sono principii e caìise delle  Idee specifiche  L'Uno o Bene è elemento di tutto ciò che esiste, ed ha più essere delle cose che ne risultano perchè tutto è uno, e l'essere sta tutto nei due principii: le Idee generiche sono elementi anch'esse, ed hanno più essere che le Idee specifiche, nota. La derivazione di tutte le cose dall'Uno e l'elemento materiale è indicata chiamandoli primi e anteriori a tutte le altre cose, nota: la  derivazione delle Idee più particolari dalle Idee più generali è pure indicata coi termini anteriore e posteriore. L'Uno e la Dualità indefinita generano tutti i numeri ideali, e questi sono pure generati gli uni dagli altri, quelli che corrispondono alle idee più particolari da quelli che corrispondono alle Idee giù generali, M4r  La derivazione delle entità più particolari delle entità più universali  è anche rappresentata come i gradi successivi di uno sviluppo, e questa rappresentazione significa pure la derivazione di tutte le cose dal primo principio, perchè il primo principio è il primo grado, il punto di partenza, di questo sviluppo. Infine la prepiìsizione |x indica tanto la derivazione di tutte le cose dai principii primi quanto la derivazione delle Idee più particolari dalle Idee più  universali. Tra le formule che esprimono il rapporto di tutte Idee coi primi principii, una sola non trova la corrispondente tra quelle che esprimono il rapporto delle Idee più particolari con le Idee più generali: è la riduzione dei due principii l'uno all'essenza e l'altro alla materia di tutte le Idee, destinata a conciliare la teoria pitagorica dei due elementi coi presupposti della dialettica  platonica. Questo parallelismo tra le due serie di formule prova d'una  maniera evidente l'identità dei rapporti che esse esprimono, e non lascia alcun luogo a dubitare che la derivazione delle Idee più particolari dalle Idee più universali sia altra cosa che quella di tutte le Idee dall'Idea universalissima. Sia che indichino Tuna, sia che indichino l'altra, esse non possono SIGNIFICARE GRICE che una sola e stessa cosa: 1'obbiettivazione del nesso  logico tra il principio e la conseguenza e la sua identificazione con quello ontologico GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS ONTOLOGY tra la causa e l'effetto. Le espressioni che indicano la derivazione di tutte le Idee dal principio essenziale l'Uno o il Bene, indicano egualmente la derivazione di tutte le Idee dal principio materiale la Dualità indefìnita. È che il rapporto delle Idee con l'uiìo dei due principii non può differire in sostanza dal loro rapporto con Ta'tro. Platone,  considerando come genere e come Idea V’uno solo di questi principii perchè la dieresi esige un punto di partenza unico riguarda necessariamente esso solo come primo principio logico perchè la deduzione non è che la dieresi e quindi come causa  prima perchè il rapporto tra la causa e V’efietto non è che il rapporto tra il principio e la conseguenza. Ma in realtà il principio ch'egli  chiama materiale ha lo stesso dritto ad essere riguardato come jirimo principio di tutta la deduzione, o per conseguenza come causa prima. Infatti anche per esso si verificano le due condizioni per cvù un'entità deve essere riguardata come il principio logico e come la causa di altre entità: è che queste ne siano delle specificazioni, e che ne siano tutte le specificazioni logicamente possibili.  Se Platone non attribuisce propriamente la funzione di primo principio logico cioè di punto di partenza della dieresi e la causalità che al princii Noi termineremo l'esposizione del sistema platonico, mostrando come l'identificazione del rapporto tra il principio e le conseguenza con quello tra la causa e 1'effetto, è l'idea madre, e, per dir cosi, il germe di questo sistema. Siccome tutti gli  altri sistetni di realismo dialettico derivano dallo stesso germe e dalla stessa idea madre, ciò sarà mostrare al tempo stesso come i  caratteri generali  di  questa  forma  di  metafìsica  siano  le  conseguenze di  questa  identificazione. Il  sist>ema  platonico, e in generale ogni sistema di realismo dialettico, si riduce a due dottrine: le astrazioni realizzate, che Platone chiama Idee, e il metodo dialettico. Noi indicheremo dunque successivamente come1'una e 1'altra, considerate nei loro tratti generali, risultano dal concetto di causalità che è l'origine di questa filosofia. Bealiszazione delle astrazioni. Questa, come abbiamo detto, è necessaria per due ragioni: Il realismo dialettico, come qualsiasi altra fomia  di filosofia apriorista, non pretende di scoprire a priori o  di dedurre i fenomeni e gli oggetti individuali con le loro circostanze particolari, ma ciò che vi ha di costante e di generale nella natura questo è infatti l'oggetto della conoscenza scientifica, e la filosofia apriorista non aspira che a riprodurre il contenuto stesso della scienza positiva, dando a questo contenuto la forma dell'apriorità e della  necessità. Per conseguenza il realista dialettico distingue due elementi in ciò che noi chiamiamo il reale, pio ohe egli chiama essenziale, egli non può farlo che arbitrariamente e, per dir così, verbalmente: il suo scopo è di soddisfare in un certo modo all'esigenza della sua dialettica, che è l'unità di principio, in contraddizione con la sua nuova dottrina della dualità, che egli deve ai pitagorici. vale a dire nella realtà empirica: l'elemento costante e generale, eh'è il solo che egli ammette che sia deducibile e necessario, e V’elemento particolare e variabile, che è per lui non deducibile e contingente. Questi due elementi del reale non sono separabili, al punto di vista comune, che per una  semplice astrazione mentale; ma egli deve ammettere che il primo ha in realtà un'esitenza indipendente e distinta da quella del secondo, perchè ciò che egli deve dedurre sono degli esseri reali, e non delle proposizioni o delle semplici astrazioni mentali ciò che è la condizione indispensabile perchè la deduzione rappresenti una derivazione reale, cioè un rapporto di causa e di effetto. P. e. Platone deve dedurre e dimostrare a priori che esistono le specie degli uomini e dei cavalli, coi caratteri costanti e generali di queste specie, ma non che esistono, sono esistiti ed esisteranno i dati uomini individuali e i dati cavalli individuali del mondo reale, coi caratteri particolari di ciascun individuo, e gl'incidenti particolari della sua esistenza. L'elemento costante e generale di queste specie, distinto dall'elemento particolare e variabile, cioè individuale, non è, al punto di vista comune, che un'astrazione mentale; ma Platone deve considerarlo come reale, quantunque astratto, perchè è esso solo, isolato dall'elemento individuale, che egli deve dedurre, e ciò che egli deve dedurre deve es$ere una realtà, e non una semplice astrazione mentale. Se egli  non lo deducesse isolato dall'elemento individuale, la sua deduzione non potrebbe rappresentare una derivazione reale, un nesso ontologico di causa ed effetto, e non semplicemente logico di principio e conseguenza. Supponiamo infatti che quando egli pone, deduceudole dai principi! che ha posti precedentemente, la specie dell'uomo e quella del cavallo, i reali eh'egli intende porre cim questa sua deduzione siano i cavalli e gli uomini individuali dati del mondo dell'esperienza: questa deduzione non potrebbe rappresentare una derivazione i-eale delle cose dedotte da quelle da cui si deducono, perchè i cavalli e gli nomini individuali dati del mondo dell'esperienza, che sono, secondo Platone, contingenti e indeducibili, non ijotrebbero essere la conseguenza necessaria delle cose da cui si dedurrebbero, e quindi nemmeno Veffetto, perchè l'effetto è ciò che è dato necessariamente data la sua causa. Questi reali eh'egli deve porre, deducendoli da quelli che ha posti precedentemente, devono essere dunque ciò che vi ha di generale e di costante nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratto da ciò che vi ha in esse di particolare e di variabile, cioè d'individuale; perchè ciò solo, per Inr, è una conseguenza necessaria dei principii già posti, e può quindi, essendo una realtà e non una semplice astrazione mentale, considerarsi come un effetto di cui questi principii sono la eausa. Ciò che vi ha vdi costante e di generale nelle specie degli uomini e dei cavalli, astratte» da ciò che vi ha in esse d'individuale e di variabile, e considerato, in questa astrattezza, come una realtà, è ciò che Platone chiama l'Idea dell'uomo e quella del cavallo. L'Idea dell'uomo e del cavallo sono dunciue le specie stesse degli uomini e dei cavalli, astrazion facendo dal loro elemento contingente e non deducibile, e considerate nel solo elemento necessario e deducibile: sono queste specie stesse, perchè ciò che Platone intende dedurre è il mondo reale stesso, quello che è l'oggetto della nostra esi)erienza, di cui è costretto a negligere certe circostanze, perchè le ritiene non deducibili. Queste circostanze che si devono negligere, e fatta astrazione delle quali, il residuo è l'Idea, sono le particolarità e l'esistenza stessa degl'individui; ciò che resta è il tipo dell'uomo e del cavallo: quello che è necessario e deducibile è che, nella realtà, questo tipo esista; che esso si effettui in tali o tali altri individui determii\ f*nati, ed anche in tale o tale altro numero determinato d'individui, questo è non deducibile e puramente contingente. Questi tipi, astratti dalle particolarità degl'individui in cui si manifestano, ed anche da qualsiasi numero o moltiplicità d'individui, e considerati, in questo stato d'astrazione, come reali, sono le Idee. Deducendo le Idee, Platone intende dedurre le specie stesse del mondo dell'esperienza e infatti, come abbiamo detto, ciò che egli deve dedurre è il mondo reale, perchè le Idee sono per lui queste specie stesse, senza certe determinazioni con cui ci sono date nel mondo dell'esperienza: l' Idea è la specie allo stato astratto, la specie l'Idea allo stato concreto, cioè l'Idea a cui si aggiunge la determinazione del numero e le differenze che distinguono ciascuno dei multipli cosi ottenuti, vale a dire la posizione in un punto determinato del tempo e dello spazio, i caratteri individuali, gì'incidenti della storia di ciascun individuo, ecc. Di più, non solo l'Idea è la stessa cosa die la specie, che solamente si concepisce astrazion facendo da alcune delle sue determinazioni; ma la specie, in quanto è veramente reale,  non è che l'Idea. Tutte queste determinazioni che, aggiunte all'Idea, costituiscono la specie, non sono veramente reali, perchè non sono dedotte: infatti il realista dialettico deve dedurre tutto il reale, perchè la sua deduzione rappresenta il modo essenziale di produzione dell'universo reale; quindi ciò che non può dedursi non può essere per lui veramente reale. La specie, come complesso d'individui, è dunque un fenomeno, un'apparenza, quantunque obbiettiva, la cui realtà  è l'Idea; e il mondo delle Idee non solo è il mondo stesso dell'esperienza, Suppl. considerato astrazion facendo da alcune delle sue determinazioni, ma è tutto ciò che vi lia di reale in questo mondo dell'esperienza. Tutto ciò che abbiamo detto in questo numero si applica tanto al sistema di Platone quanto a quelli di Hegel o di Taine, e in generale a tutti i sistemi che obbiettivano i concetti e in cui questa obbiettivazione è unita al metodo dialettico. I concetti obbiettivati, in tutti questi sistemi, rappresentano 1'elemento necessario e deducibile del mondo, astratto dall'elemento indeducibile e contingente^ e considerato, in questa astrattezza, come reale e come la sola cosa che sia veramente reale. Noi spiegheremo in seguito perchè questi filosofi vedono quest'elemento necessario e deducibile del mondo precisamente nei concetti obbiettivati. Nella deduzione la ccmseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non è che il principio stesso in una forma, più detcrminata o più concreta. I fatti reali che corrispondono alle conseguenze sono gli stessi che i fatti reali che corrispondono ai principii, semplicemente i principii esprimono questi fatti d'una maniera più astratta o più indeterminata, le conseguenze d'una maniera più concreta o più determinata,.Così, se non vi ha altro di reale che il singolo, i fatti particolari dell'esperienza, al progresso nella deduzione non corrisponderà alcun progresso nelle cose stesse; passando dal principio alla conseguenza, non si passerà dall'aftermaziono d'un reale a quella di un altro reale; il reale affermato sarà sempre lo stesso; prima espresso d'nna maniera più astratta o più indeterminata, poi d'una maniera più concreta, o più determinata Allora la deduzione non rappresenterà una derivazione reale, o, ciò che è lo stesso, il rapporto logico tra il principio e la conseguenza nou jiotrà identificarsi al rapporto ontologico tra la causa e l'effetto, perchè questa identificazione suppone che da un reale si deduca un altro reale, la causa e 1'effetto essendo due fatti reali, distinti e separati l'uno dall'altro. Ciò che 8i è detto è vero tanto nell'ipotesi del nominalismo quanto in quella del concettualismo: nella seconda ipotesi alle proposizioni che fanno da principii corrist)onderanno dei concetti più astratti; a quelle che fanno da conseguenze dei concetti meno astratti; ma le realtà rappresentate da questi concetti saranno sempre le stesse realtà, che i concetti corrispondenti ai principii penseranno d'una maniera più astratta, e quelli corrispondenti alle conseguenze d'una maniera meno astratta. Così il progiesso dal più astratto al meno astratto, dal più indeterminato al più deteiminato, avverrà solamente nel nostro pensiero e non nella realtà stessa, e la deduzione non potrà rappresentare una derivazione reale, perchè, passando dal principio alla conseguenza, non si passerà da un reale ad un altro reale, ma il reale affermato sarà sempre lo stesso, che solamente si pensem ora d'una maniera più astratta o più indeterminata, ora d'una maniera più concreta o più determinata. Perchè dunque la deduzióne sìa una derivazione reale, e il rapporto tra il principio e la conseguenza s'identifichi col rapporto tra la causa e l'effetto, è necessario che al nominalismo o al concettualismo si sostituisca il realismo, cioè che si amfuetta che l'astratto e l'indeterminato ha un'esistenza per sé, indipendente e distinta da quella del concreto e del determinato. Allora il progresso dal più astratto o più indeterminato al più concreto o più determinato avrà luogo nella realtà stessa, e non solamente nel nostro pensiero; passando dal principio alla conseguenza, si passerà da un reale ad un altro reale, e non semplicemente da un'espressione o rappresentazione a un'altra es[>ressìone o rappresentazione dello stesso reale; e deducendosi un reale da un altro, la deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè il principio e la conseguenza saranno due realtà distinte, come sono aa«a due realtà distinte la causa e 1'effetto a cui si cerca d'identificarli. Tutto ciò ha la sua applicazione più evidente nel sistema platonicOo  La dialettica platonica consiste a dedurre da un genere le sue specie, p. e. dall'animale Taniraale immortale e l'animale mortale, dall'animale mortale Tanimale propriamente detto e la pianta, dall'animale propriamente detto quello provvisto di piedi e quello senza piedi, ecc. Essa pretende che se l'animale è, sono anche necessariamente l'animale immortale e rlnimale mortale; che se l'animale mortale è, sono anche necessariamente l'animale propriamente detto e la pianU, e così via; e vede perciò neir ani. naie il principium essendi o la causa dell'animale immortale e dell'animale mortale, nell'animale mortale il principium essendi o la causa dell'animale propriamente detto e della pianta, e così via. È evidente che se non esistessero che degli animali individuali, se animale, animale mortale e animale immortale, pianta e animale propriamente detto,  ecc. non fossero che dei termini generali o dei concetti generali; deducendo dall'animale 1'animale immortale e l'animale mortale, dall'animale mortale l'animale propriamente detto e la pianta, ecc., questui deduzione non potrebbe avere alcuna pretesa a rappresentare una derivazione reale, in altie parole il principio e la conseguenza non potrebbero identificarsi alla causa e all'effetto. Se l'animale è, sono anche necessariamente l'animale immortale e l'animale mortale, significherà semplicemente che se una  proposizione è vera, sarà vera necessariamente anche un'altra proposizione, ovvero che se un concetto è vero, cioè è conforme alla realtà, saranno anche necessariamente veri, cioè conformi alla realtà, altri concetti; ma non potrà significare che se un reale esiste, esistono anche necessariamente altri reali. Gli oggetti  reali che si affermeranno dicendo € l'animale esiste, saranno gli stessi  che gli oggetti reali che si affermeranno dicendo l'animale immortale e l'animale mortale esistono; semplicemente questi oggetti reali la prima volta saranno espressi o rappresentati d'una maniera più astratta o più indeterminata, la seconda volta d'una maniera più concreta o più determinata. Il legame  tra il principio e la conseguenza non sam dunque ontologico, perchè non si dedurranno dei  i-eali da nitri reali differenti^ ma sarà semplicemente logico. Ammettiamo invece, come vuole Platone, che oltre agli afaimali concreti e individuali, vi siano degli animali astratti e generali; che i termini animale, animale mortale e animale immortale, ecc. DESIGNINO GRICE DESIGNATIO ciascuno un essere reale distinto da tutti quelli designatidagli altri. Allora il progresso  dal più indeterminato al più determinato avrà luogo nella realtà egualmente che nel nostro pensiero, e la deduzione rappresenterà una derivazione reale, perchè deducendo dall'Animale l'Animale immortale e l'Animale mortale, dall'Animale mortale l'Animale propriamente detto e il Vegetale, ecc., si dedurianno sempre dei reali da altri reali distinti; perciò fra il principio e la conseguenza  il legame non sarà semplicemente logico, ma anche ontologico, poiché, il principio e la conseguenza essendo delle realtà distinte, il principio non sarà semplicemente il principium cognoscendi y ma anche il principium essendi, ciò che vorrà dire che il principio sarà in qualche sorta la causa, e la conseguenza l'effetto di questa causa. Ciò che abbiamo detto in questo numero ci mostra  al tempo stesso due condizioni necessarie di una filosofia, che è fondata sulla identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza con quello tra la causa e l'effetto: l'una che si realizzino le astrazioni, e l'altra che queste astrazioni realizzate formino una scala di astrazione decrescente, in modo che la deduzione vada sempre da entità piùastratte ad entità meno astratte, e queste  entità più astratte e meno astratte siano gli stati logicamente sucessivi di una stessa realtà, che passa progressivamente da uno stato più astratto a uno stato meno astratto anteriorità e posteriorità di natura. Questa seconda condizione l'abbiamo anche trovata in Hegel e in Taiue e la ritroveremo in Spinoza, e possiamo considerarla come un carattere generale del realismo dialettico. Vi ha  un punto che ci resta a rischiarare.  Le considerazioni precedenti ci mostrano che una tilosofia fondata sulla identificazione del principio e della conseguenza alla causa e all'effetto deve realizzare necessariamente le astrazioni: ma perchè queste astrazioni realizzato sono precisamente dei con cri 11 obbiettivati, come abbiamo visto in tutti i sistemi di cui abbiamo parlato! I concetti  obbiettivati non rappresentano adeguatamente l'elemento costante e necessario della realtà empirica. Non ò solo un fatto costante e generale della natura che esiste il tipo Uomo ciò che corrisponde al concetto obbiettivato dell'avzoài^6()o)7iog, ma anche che questo tipo si realizza in una moltitudine d'individui, che, sparsi nella serie del tempo, occupano successivamente tutta la serie  (secondo la dottrina antica della stabilitti ed eternità delle specie. Che t^sistauo tali o tali altri individui determinati ed anche tal o tal altro numero determinato d'individui sarà, secondo i presupposti del realismo dialettico, un fatto contingente: ma che esistano, ed esistano sempre, molti individui, non è un fatto che ha lo stesso  titolo ad essere rigtardato come necessario che l'esistenza  stessa del tipo che essi realizzano! L'astrazione realizzata che rappresenta la specie umana non dovrebbe essere dunque, nel sistema di Platone e degli altri realisti dialettici, una moltiplicità indeterminata d'individui umani indeterminati che occupano successivamente dei punti indeterminati in tutta la serie dei tempi, anziché 1'Uomo indeterminato, astratto assolutamente dal numero e  dal tempo, e non li semplicemente da un numero e da un tempo determinati? Se sì ammette che un indeterminato reale può concepirsi e può esistere, il primo di (luesti due indeterminati reali non è altrettanto concepibile e altrettanto possibile che Paltro f Perchè dunque Platone e gli altri realisti dialettici di cui abbiamo parlato, hanno concepito le astrazioni realizzate che rappresentano  le specie reali degli esseri, nella seconda forma anziché nella prima? A. questa quistione rispondono gli argomenti di Platone per provare l'esistenza delle Idee. Se si negliggono gli argomenti più deboli, gli altri possono ridursi sommariamente a questi due: la somiglianza generica e specifica degli esseri, questo fatto sorprendente che lo stesso tipo si ripresenta uniformemente in individui  distinti ed anche senza alcun legame fra di loro come p. e. nei minerali e nelle specie diverse delle piante e degli animali che non hanno fra di loro, al punto di vista antico, alcun legame genealogico, non può spiegarsi che ammettendo che tutti gli esseri che si somigliano partecipano in comune a qualche cosa che è una e la stessa in tutti: questa qualche cosa è l'Idea; la verità dei concetti  e delle conoscenze scientifiche che sono unioni tra concetti suppone l'esistenza di oggetti reali che corrispondono adequatamente a questi concetti: questi oggetti sono le Idee. Si avrebbe torto di vedere in questi argomenti i soli motivi per cui Platone ammette l'esistenza delle Idee. S'egli trova questi argomenti concludenti, è perchè ha bisogno di astrazioni realizzate per potere  identificare  il rapporto tra il principio e la per la 1»  prova  il  Supplem. e  per la  prova cioè per il gruppo di argomenti che essa riassume lo stesso  Supplem. y lo stesso luogo e parte conseguenza a quello tra la causa e l' effetto, e questi argomenti gliene fornivano: vi era in essi un motivo sutfftciente, non per realizzare le astrazioni, ma per preterire ad altre le astrazioni realizzat* che potevano  basarsi 8u di essi. Si sarebbe ingiusti, d'altronde, verso questi argomenti di Platone, negando assolutamente ad essi qualsivoglia valore. La 1» prova contiene la sola spiegazione che abbia dato la metafisica di «no dei fatti più Lprendenti della natura: è uno dei più importanti di nuelli di cui Darwin si propone di dare una spiegazione scientifica ma pei soli esseri viventi, e la. Landò  inesplicato 1'altro fatto per cui lo spiega ci^ la legge d’eredità.  La 2» prova  o,  p.uttos^  il  2« Ippo di prove presenta, sotto le forme che Piatone crede più incalzanti, una conseguenza, secondo no. logica, della teoria dei concetti. Un filosofo che non avesse avuto bisogno, come Platone, di astrazioni reatoZ  avrebbe respinto il principio in forza de la con^uSza, invece di ammettere la  conseguenza in forza def principio. Ma se la teoria dei concetti non fosse la dottrina comunemente ricevute, sarebbe evidente per tutti, secondo me, che delle idee astratte suppongono necessarSTente ddle realtà egualmente astratte. Come ho detUi nel Saggio, il pensiero implica naturalmente la eredenza o la supposizione di un oggetto, reale o possibile, che abbia, nella forma  dell'obbiettività, il contenuto stesso che l' idea ha nella forma della rappresentez.one. Nell'esereizio naturale del pensiero, queste stessa distinzione fra una rappresentazione e un oggetto rappresentato per noi non esiste: noi crediam.. istintivamente che i pensiero colga immediato.nente l'oggetto pensato, e che ciò 1 \i .  », »  e lì che è presente al nostro spìrite, sia quest'oggetto stesso e  non la sua rappresentazione, perchè questa, della «tessa maniera che la  sensazione, s’obbiettiva, ed è riguardata come una COSA – CICERONE: RES -- esteriore. Quest'illusione, come tutte le illusioni naturali, persiste anche quando noi abbiamo appreso che è un'illusione: anche allora noi continuiamo a proiettare, per dir così, al di fuori di noi, o almeno al di fuori del momento attuale,  le nostre rappresentazioni, e a credere che ciò che è presente al nostro spirite non sono delle semplici rappresentazioni, ma gli oggetti stessi -- o meglio, LA COSA -- rappresentati. È quest'illusione naturale il meccanismo per cui si ottiene il risultato che il pensiero si riferisce all'oggetto pensato; che quando noi ricordiamo, prevediamo, in una parola affermiamo, quantunque non vi  siano nel nostro spirito che delle semplici rappresentazionì, ciò che noi intendiamo di affermare non sono queste rappresentazioni, ma i fatti stessi – LA COSA -- che esse rappresentano. I fatti stessi – LA COSA -- significa, come abbiamo detto, degli Oggetti, reali o possibili, che abbiamo, nella forma dell'obbiettività, il contenuto stesso che le idee corrispondenti hanno nella forma  della rappresentazione, Ne segue che, se noi abbiamo delle idee astratte, noi dobbiamo istintivamente proiettare GRICE HUMEIAN PROJECTION,  per dir così, al di fuori di noi queste idee astratte, come proiettiamo al di fuori di noi le idee concrete, e credere di avere presenti al nostro spirito, non delle semplici rappresentazioni astratte, ma degli oggetti astratti corrispondenti. Questa,  illusione naturale persiste anche quando la riflessione psicologica ci ha appreso che il nostro pensiero non coglie immediatamente gli oggetti, ma non consiste che in semplici rappresentazioni; e ha per risultato, anche allora, che quando noi avremo delle idee astratte, e formeremo dei giudizi unendo delle idee astratte, noi ammetteremo o supporremo degli oggetti astratti corrispondenti  (reali o possibili, secondo che  crederemo o no alla verità dell'idea astratta, e intenderemo di affermare l'unione di questi oggetti astratti nella realtà, come le loro rappresentazioni sono unite nel nostropensiero. Questa conseguenza forzata del concettualismo, in cui noi abbiamo visto una prova della erroneità di questa teoria, dove sembrare a un filosofo che, come Platone, cerca delle  astrazioni realizzate, una prova evidente della loro esistenza; di più dove dargli un motivo sufficiente per preferirò i concetti obbiettivati a qualsiasi altra forma di queste astrazioni realizzate che egli cerca Tanto l'una quanto 1'altra delle due prove per cui Platone stabiliva la realtà degli astratti cioè che i concetti suppongono degli oggetti reali che siano,  per usare la lingua della scolastica, formalmente ciò che i concetti stessi sono obbiettivamente ^ e che la somiglianza specifica e generica si spiega per la presenza di una stessa entità in tutti gl'individui della specie e del genere soddisfaceva al tempo stesso alla doppia esigenza di astrazioni realizzata che vi ha nel realismo dialettico: vale a dire di sepamre 1'elemento costante e necessario della natura dall'elemento variabile e contigente, e di fare del princìpio e della conseguenza due realtà distinte, che rappresentino uno stesso essere a due gradi differenti di astrazione. Queste due prove dei concetti obbiettivatì non sono speciali al solo Platone, ma comuni, in sostanza, a tutti i filosofi che obbiettivano i concetti.  Quando Taine spiega le sequenze e coesistenze uniformi dei fenomeni per gli accoppiamenti delle entità astratte presenti in questi fenomeni; quando dice, per esempio, che se tutti i triangoli hanno gli angoli uguali a due retti, è perchè gli angoli astratti del triangolo oatratto sono eguali a due retti, o che se tutti i pezzi di ferro sottoposti all'umidità si arruginiscono, è perchè il ferro in sé,  sottoposto all'umidità in se stessa, ha per conseguenza la ruggine in generale – GRICE: And when Plato says that horses neigh, it is because HORSENESS gets attributed NEIGHING ITSELF ; questa spiegazione è perfettamente identica a quella di Platone, quando spiega 1'identità specifica e generica delle cose per la presenza in tutte di un'Idea unica. Ed Hegel, risolvendo tutti gli  esseri in concetti obbiettivati, non ammette anch'egli, come Platone e Taine, che in tutti gli oggetti di una classe è presente uno stesso concetto obbiettivato t e se è così, non spiega implicitamente, coine quelli fanno esplicitamente, la somiglianza degli oggetti della classe per la partecipazione comune allo stesso concetto obbiettivato! Non è meno evidente, dall'altra parte, che quando  Hegel stabilisce l'esistenza dei concetti obbiettivati in virtù del principio dell'identità dell'essere e del pensiero, la sua prova ha per primo punto di partenza, come gli argomenti di Platone, oltre alla teoria dei concetti, la corrispondenza assoluta e necessaria tra la rappresentazione e la cosa rappresentata, che secondo lui non si spiega che per la loro identità. In quanto a Taine, quantunque  esplicitamente egli non ammetta i concetti, deve ammettere non di meno che noi pensiamo le cose astratte e generali perchè è evidente che per credervi, come egli vuole, dobbiamo pensarle; di più egli sostiene che i nomi e le conoscenze, cioè le proposizioni, generali hanno per oggetto queste cose astratte e generali: ma se è cosi, questi termini generali, che sono o possono essere  accompagnati dal pensiero delle cose generali, SIGNIFICANO GRICE, al fondo, dei concetti, i quali anche per lui, come per Platone e per Hegel, implicano necessariamente degli oggetti astratti corrispondenti perchè non sono secondo lui, come secondo essi, che il pensiero di questi oggetti astratti. Noi vedremo tuttavia nei paragrafi seguenti che non tutti i realisti dialettici si sono rappresentate le astrazioni realizzate sotto la forma precisamente di concetti obbiettivati: ciò non ha niente di strano, se s’ammette che le due prove indicate per istabilire la realtà degl’astratti non sono il vero motivo per cui si realizzano le astrazioni, ma per cui si dà una forma speciale a queste astrazioni realizzate, necessarie per applicare il concetto di causalità che è la vera base del  idealismo dialettico. Noi faremo un'enumerazione dei caratteri generali del metodo dialettico, cioè che sono comuni al sistema di Platone e agli altri sistemi di realismo dialettico, indicando come ciascuno si deduca dal concetto fondamentale di questa forma di metafisica. Il metodo del realismo dialettico c<msi8te a dedurre delle astrazioni realizzate da altre astrazioni realizzate. Questo  metodo, essendo una deduzione, ha necessariamente per tipo la deduzione della logica, cioè il sillogismo BARBARA CITATO DA GRICE ASPETTI DELLA RAGIONE, ma s’allontana più o meno, non meno necessariamente, da questo tipo, perchè deve dedurre dei reali da altri reali poiché senza di ciò il principio non potrebl>e  assimilarsi alla causa e la conseguenza all'effetto. Ciò  importa che questa deduzione deveessei^e un progresso reale del pensiero, che rappresenta un progresso reale nelle cose stesse; mentre la vera deduzione, essendo fondata rigorosamente sul principio d'identità, non può che affermare nella conclusione, sotto una forma differente, ciò che era stato già affermato nelle premesse. WOMAN’S REASON GRICE -- Questa difformità necessaria  della deduzione del realismo dialettico dalla vera deduzione fa che spesso non si comprenda che essa pretende di essere una deduzione, come è avvenuto generalmente per la dialettica platonica. Questa che, come abbiamo visto, consiste a dedurre da un genere tutte le sue specie reali, che sono al tempo stesso tutte le sue specie possibili non sarebbe una vera deduzione che se la premessa  fosse, non l'affermazione del concetto generico obbiettivato, cioè dell'Idea del genere, come è di fatto, ma la proposizione generale che tutte le specie possibili del genere devono esistere. Ma in questo caso non si dedurrebbero dei reali da altri reali distinti; quindi la deduzione non rappresenterebbe una derivazione reale, ma il rapporto tra il principio e la conseguenza sarebbe puramente  logico, e non potrebbe identificarsi a quello ontologico GRICE STRAWSON PEARS ON ‘ONTOLOGY’ IN “METAPHYSICS” tra la causa e l'effetto. L’astrazioni realizzate che, in questa deduzione, fanno da principii e quelle che fanno da conseguenze, devono formare una scala di astrazione decrescente, in modo da costituire degli stati logicamente successivi di un essere unico,  che passa gradatamente da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Ciò è perchè, come abbiamo detto precedentemente, la conseguenza, o piuttosto l'insieme delle conseguenze, non potrebbe essere che il principio stesso in una forma più concreta o più determinata, e il passaggio dal più astratto o più indeterminato al più concreto o più  determinato, in cui consiste la deduzione, deve rappresentare un progresso nella realtà stessa, e non semplicemente nel nostro pensiero, senza di che la deduzione non rappresenterebl)e una derivazione reale Ciò importa che il più astratto o più indeterminato e il più concreto o più determinato siano due realtà distinte, quantunque al tempo stesso due forme d'un'esistenza unica, e non  semplicemente due espressioni – the expression of emotions GRICE DARWIN -- o due rappresentazioni distinte di una stessa realtà. È un tratto clie abbiamo trovato in tutti i sistemi precedenti e che è più essenziale al realismo dialettico che la stessa obbiettivazione dei concetti, come vedremo nei paragr. seguenti, in cui lo ritroveremo in Spinoza, le cui astrazioni realizzate non sono,  a parlar propriamente, dei concetti obbiettivati. Il primo principio noi diremo in seguito perchè il primo principio è necessariamente unico deve essere stabilito a priori, per la sua necessità intrinseca, in modo che la conoscenza sia puramente a priori, e la deduzione sia una vera dimostrazione. Ciò è perchè, nel realismo dialettico, l'anteriorità cronologica della causa verso l'effetto è  sostituita da una anteriorità logica che; obbiettivata, si chiama anteriorità di natura. La certezza delle conseguenze deve dipendere dalla certezza dei princìpi!, ma questa deve essere indipendente da quella. Se non fosse così, Pesisenza delle entità conseguenze non dipenderebl)e dalla esistenza delle entità priucipii, e il rapporto tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi  a quello tra la causa e l'effetto. Non solo la dimostrazione dialettica non deduce che delle astrazioni realizzate d’altre astrazioni realizzate, ma questa deduzione deve essere, per quanto è possibile, immediata, vale a dire il legame logico fra le astrazioni realizzate che fanno da premesse e quelle che fanno da conseguenze deve vedersi, per quanto è possibile, intuitivamente e non mediante  un ragionamento, in modo che dalla posizione delle une si passi immediatamente a quella delle altre, e la dimostrazi(me non consista che nella loro posizione successiva. Di questa maniera lo svihippo della dimostrazione non è che la riproduzione dello sviluppo stesso della realtà, e la scienza è una sorta d'intuizione, in cui il pensiero non fa che asssistere, per dir cosi, alla evoluzione  delle cose, limitandosi a rifletterla passivamente come uno specchio. È ciò che è espresso nel principio hegeliano dell'identità dello sviluppo logico collo sviluppo ontologico GRICE STRAWSON PEARS ONTOLOGY IN METAPHYSICS e nella proposizione di Spinoza: ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Questa identità è spiegata da Platone considerando  la scienza come un risveglio dell'intuizione del mondo ideale in una vita anteriore. Spinoza la chiama una conoscenza intuitiva, e Schelling la fa consistere, nel senso proprio, in un'intuizione intellettuale. La ragione di questa immediatezza della deduzione del realismo dialettico è che il principio logico deve identificarsi colla causa efficiènte. Perchè una causa possa considerarsi come  efficiente, la sua connessione coll'effetto deve essere una verità, non solo razionale, ma anche intuitiva, deve essere evidente per sé che la causa è capace di produrre l'effetto, e 1'effetto <lì essere prodotto dalla causa. Ne segue che il legame logico tra il principio e la conseguenza non potrebbe identificarsi col rapporto tra la causa cuciente e l'effetto, se questo legame logico non si  vedesse intuitivamente, ma fosse necessario di stabilirlo per una dimostrazione. La deduzione dialettica implica una moltiplicità di passaggi logici vale a dire tutte le entità non si deducono immediatamente dal primo principio, ma si passa gradatamente «la questo alle conseguenze ultime per una moltitudine di anelli intermediari. RAGIONE > RAGIONE CONVERSAZIONALE. Di  più tutti questi passaggi logici sono regolati d’una legge costante; in altre parole, il metodo della deduzione è rigorosamente uniforme, ed è considemto come la legge stessa delle astrazioni realizzate. Questa legge, nel sistema hegeliano, è il passaggio dalla tesi all’anti-tesi e da queste alla sin-tesi; nel sistema platonico, la divisione dicotomica dell’idea generica nelle Idee specifiche; nel  sistema di Taine la gerarchia delle coppie d’astratti, secondo cui un gruppo di leggi inferiori deriva costantemente d’una legge superiore. È nel mondo delle astrazioni realizzate ciò che una sequenza invariabile nel mondo dei fenomeni, salvo che qua si tratta di una sequenza cronologica e là di una sequenza semplicemente logica. Questa uniformità di sequenza delle astrazioni realizzate, che implica al tempo stesso una moltiplicità di passaggi logici e una legge comune che li regola, è evidentemente un corollario dell'identità tra il principio e la conseguenza e la causa e l’effetto. Infatti, se la causazione efficiente si distingue dalla causazione empirica perchè il legame tra la causa e l'effetto è intrinsecamente evidente e necessario ciò che è la ragione determinante per  identificarla col rapporto tra il principio e la conseguenza, essa non è al postutto che una forma della causazione, e causazione vuol dire sequenza invariabile. Un altro carattere, che è una conseguenza del precedente, è l'unità di principio. La legge c(miune che regola i passaggi logici, implica che tutte le astrazioni realizzate si dispongano in un ordine uniforme, secondo un tipo costante  che si riproduce a tutti i gradi del progresso dialettico – FROM THE MANY TO THE WISE – GRICE ATHENIAN DIALECTIC OXONIAN DIALECITIC,  e si ritrova in tutte le parti del mondo delle astrazioni realizzate. Questo tipo costante consiste, come sappiamo: nel sistema di Platone, in due Idee opposte subordinate a  un'Idea più generale; in quello di Hegel in due idee  opposte seguite d’una terza che le sintetizza; in quello di Taine, in un gruppo di leggi inferiori subordinate a una legge superiore. Questo tipo costante deve realizzarsi sempre e da per tutto, perchè è la legge del mondo delle astrazioni realizzate: ognuna deve essere dunque colle altre in rapporti determinati, in modo che questi rapporti riproducano il tipo costante secondo cui tutte sono   disposte ed ordinate. Ma ciò sarebbe incompatibile con una pluralità di principii primi: anche questi dovrebbero avere fra di loro quei rapporti determinati, necessari perchè il loro insieme presenti anch'esso il tipo comune, ciò che importa la subordinazione degli altri a qualcuno di essi o di tutti a qualche altro principio superiore.  P. e. una pluralità di generi sommi pel sistema di Platone  o di leggi supreme nel sistema di  Taine richiederebbe, perchè non vi fosse un'eccezipne al tipo universale che è la legge di ciascuno dei d|ie sistemi, un altro genere o un'altra legge ancora superiori, a cui questi generi o queste leggi fossero subordinati. Nel sistema di Hegel una pluralità d'idee ugualmente primitive e indipendenti – eccetto il regno di Prussia -- le une dalle altre  richiederebbe che anche queste idee si ordinassero fra di loro secondo la legge comune di un'opposizione seguita da una sintesi, ciò che importerebbe la sequenza logica delle altre da qualcuna fra di loro. Questa unità di principio che potrebbe chiamarsi MONISMO logico – the principle of conversational helpfulness – NOT “the principles” --, importa un'altro monismo, che potremmo dire ontologico. Le conseguenze, nel realismo dialettico, non essendo che i principii stessi a un grado più avanzato di determinazione, dire che tutte le astrazioni realizzate si deducono da un principio unico è dire che tutte costituiscono degli stati logicamente successivi di un essere unico, che passa progressivamente da una stato più indeterminato – RAGIONE -- a uno stato più  determinato – RAGIONE CONVERSAZIONALE.  Questo monismo logico ed ontologico, che è anch^esRo un carattere generale del realismo dialettico, è una conseguenza indiretta del concetto di causalità su cui è f(»^ata questa filosofia, derivando da un altro concetto che ne deriva della maniera più diretta, cioè, come abbiamo visto nel numero precedente, la legge uniforme del  metodo dialettico. Il stisteraa di Spinoza – GRICE: “HAMPSHIRE LOVED HIM – but then he loved most Jews!” -- è un realismo dialettico, come quelli di Platone e di Hegel, ma in questo sistema le astrazioni realizzate a cui s’applica la dialettica, cioè la deduzione, non sono delle Idee come in quelli di Platone e di Hegel. La dialettica non può dare il reale nella sua integrità, ma  solamente l'elemento necensario del reale – ENGINEER --:  questo, nel realismo dialettico, si astrae, per conseguenza, dall’elemento contigente, e si considera, in questa sua astrattezza – metodo matematico di Grice --,  come una realtà distinta, presente nelle cose, ma sussistente per se stessa. Nei sistemi di Platone e di Hegel questo elemento necessario del reale, astratto dall'elemento  contigente, sono le Idee, cioè i tipi generici e specifici, riguardati ciascuno come Vuno nei molti, vale a dire come uno in se stesso, ma presente, pur restando uno e lo stesso, in tutti gl'individui della specie o del genere. Nel sistema di Spinoza, invece, sono le cose stesse multiple e infinite, considerate, come dice l'autore, sub specie aeternitatis; vale a dire ciò che vi ha di costante negli  stati successivi dell'universo, riguardato come una realtà eterna, cioè al di fuori del tempo, presente in tutti questi stati successivi, ma sussistente per se stessa. Un'altra circostanza caratteristica del sistema di Spinoza è la relazione diversa ch'egli stabilisce fra il pensiero e le cose. Platone si mette al punto di vista più ordinario, nel quale il pensiero e la realtà appariscono come due cose  affatto distìnte, fra cui non vi ha che un rapporto di azione reciproca; per Hegel tra il pensiero e la realtà vi ha un'identità assoluta; per Spinoza vi ha un parallelismo, che si spiega per un'identità fondamentale, anteriore, nel senso platonico e spinozista del termine alla loro distinzione. Sono questi due caratteri propri del sistema di Spinoza, che, uniti a quelli comuni del realismo dialettico, danno un'impronta speciale a questo sistema, e rendono conto dei suoi tratti più generali. Il concetto che riassume tutta la fisolofia di Spinoza è la celebre proposizione: Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Questa proposizione esprime al tempo stesso il principio del realismo dialettico cioè l'identità del rapporto tra il principio e la conseguenza col rapporto tra  la causa e 1'effetto e quello del parallelismo tra il pensiero e le cose. Quantunque a noi non importi studiare il sistema di Spinoza che in quanto è uno sviluppo del primo dei due principii, pure, questa parte essendo inseparabile dall'altra, cioè quella per cui è uno sviluppo del principio del parallelismo, noi dobbiamo esporre tanto l'una quanto l'altra, facendo precedere quest'ultima, senza  la quale non ci sarebbe possibile di far comprendere la prima. Il principio del parallelismo tra il pensiero e le cose è la dottrina del parallelismo psico-fisico, o psico-somatico come preferisce Grice, salvo che il termine parallelismo, nel sistema di Spinoza, va preso in un senso assai più rigoroso. In questo sistema, oltre alla concomitanza costante tra i fenomeni psichici e certi fenomeni  fisici e la loro indipendenza reciproca. Per questi due punti della dottrina di Spinoza Eth.  Prop. col Cor. e lo Sohol., Cor. prop. Pr. e Schol. parte  Prop., e Schol. parte Prop., eco: il parallelismo importa: P Glie ogni fatto fisico ha ud concomitacte psichico e viceversa. Ne segue che non vi ha corpo senza spirito come non vi ha spirito senza corpo, che tutto è animato che  ogni cosa vive, sente e pensa. Ne segue pure che ad ogni fatto fisico non corrisponde che un solo fatto psichico, concetto che, come vedremo, ha per risultato dMntegrare le singole anime degli oggetti partieotari  nell’anima unica del tutto, trasformando il sistema di Spinoza da semplice ilo-zoismo in un vero pan-teismo ebreo. Che il fisico e lo psichico sono, come dice l’autore, due  espressioni difterenti di una sola e stessa cosa. Per conseguenza la serie fisica v la serie psichica non si corrispondono solamente pei loro rapporti di concomitanza – cf. il triangolo semantico di Grice -- costante, ma fra i termini delle due serie vi ha, insieme alla loro differenza, una identità parziale, come se fossero modellati sovra un tipo comune, che gli unì e gli altri rappresentano,  quantunque gli uni differentemente dagli altri. Questo parallelismo psico-fisico così inteso, è, insieme al concetto generale del realismo dialettico, il germe da cui si sviluppa tutta la metafisica dì Spinoza. Il tratto che salta più agli occhi nella filosofia di Spinoza e che è, come spiegheremo, una conseguenza del principio del parallelismo è la sua dottrina dell'unità dì sostanza. L'universo  è un essere unico, che si chiama Dio o la Natura -- Deus sive natura – GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS.  Dio o la Natura NATURANS NATURATA GRICE SIGNVM DI NATURA NATURANS SIGNVM DI NATURA NATURATA è una sostanza infinita, la cui essenza è costituita da un numero infinito di attributi, ciascuno infinito nel suo genere, ma di cui noi non  ne conosciamo che Eth. parte, Sohol. prop. Eth. Schol. pr. due, l'estensione e il pensiero grandioso non senso, in cui noi dobbiamo vedere, piuttosto che un prodotto del genio metafisico dell'autore, un effetto di questa tendenza verso il colossale e l'iperbolico, che caratterizza l'immaginazione ebrea e orientale Ogi^i cosa è un modo della soistanea unica, che esprime d'una maniera  determinata e finita questi due termini per Spinoza sono equivalenti l'essenza di questa sostanza, cioè per quanto noi ne conosciamo, l'estensione e il pensiero infiniti In questo concetto della sostanza il principio del parallelismo si mostra evidentemente in due punti. Per Spinoza, come per CARTESIO CITATO DA GRICE CERTEZZA,  ^essenza della materia consiste nell'estensione,  e per conseguenza l'estensione è per lui la sostanza delle cose materiali, vale a dire ciò che vi ha in esse di permanente, e di cui tutti i loro fenomeni sono dei modi di essere o delle determinazioni, cioè delle forme, degli atteggiamenti svariati. Similmente tutti i fenomeni psichici sono per Spinoza delle forme o degli atteggiamenti svariati di una cosa permanente, che è il pensiero assolutamente considerato, o, come  egli lo chiama ancora, il pensiero sostansialc. Ciò Dio, Vuomo eco. trad. frano, Eth. Def., Sohol. prop., Schol. prop,, Dim. prop., parte Dira. prop. e Schol., Sohol. prop., Epist., Epist. fr., ecc. Eth. parte. Dim. prop.. Prop. e dim., parte Def., De ini. emetul,. Ili,  Episl., EpisL, ecc. Eth. Parte  Prop., Cor. pr., Dim. pr., Dim. pr., Schol., Dim. pr., Dim, pr., Parte Def., Dim. pr., Dim. pr., Schol. pr., Dim. pr., Cor. pr., ecc. Dio, Vuomo eco., Epist. Epist., Epist., Eth, Prop. o dim., e dim., e dim., parte  Prop.  e  dim.,  eoe. mmi I 1'' ri suppone: Che tutti gli altri fenomeni psichici siano ricondotti al pensiero. Oosì la psicologia di Spinoza è l'esempio più tipico di quella che Wundt chiama intellettualista. Tutti i fatti interni, apparentemente diversi dal pensiero, sono pure dei pensieri, ma confusi: i sentimenti stessi o come dice Spinoza, gli affetti sono anch'essi delle idee confuse. Ciò è perchè il principio del parallelismo importa, come abbiamo detto, che il fisico e lo psichico sono due espressioni diverse d'una sola e stessa cosa, e rappresentano, per dir così, un tipo comune, su cui l'uno e l'altro sono modellati. Ora questo non è concepibile  che assimilando tutti gli  ;iltri fenomeni psichici al pensiero, alla rappresentazione. Che vi sia una sostanza del pensiero, di cui tutti i pensieri siano delle  forme  cangianti  e  limitate,  come  vi  ha  una  sostanza materiale  di  e:iì  tutto  ciò  che  avviene  nel  mondo fisico  è  una  forma  cangiante  e  limitata. Questo concetto di un pensiero sostanziale, die è il substratum permanente di tutti i pensieri, è una conseguenza naturale del principio di CARTESIO CITATO DA GRICE CERTEZZA che l'essenza dello spirito consiste nel pensiero, e si ritrova, in altra forma, in Malebranche e in altri cartesiani. Noi vedremo nell'Appendice che sulla natura dello spirito, concepito come una sostanza, cioè come un substratum permanente su cui i  fenomeni psichici sono tVmdati, la metafisica immagina costantemente un certo numero d^ipotesi, e che una di queste è che la  sostanza dello spirito O ANIMA è anch'essa un fatto psichico, cioè un pensiero o un sentimento, permanente e fondamentale. La dottrina del pensiero sostanziale di Spinoza è senza dubbio una forma di quest'ipotesi; salvo che egli cerca, non la sostanza  dell^anima individuale, ma quella deir anima del tutto, di Dio o della Natura. Ma essa è anche evidentemente un'applicazione del principio del parallelismo, perchè essa trasporta nel mondo psichico, cioè nell'attributo del pensiero, quella stessa relazione tra la sostanza e suoi modi, che 1'autore vede nel mondo fisico, cioè nell'attributo dell'estensione. La prima determinazione del  pensiero sostanziale, il suo modo originario da cui tutti gli altri derivano, eterno come il pensiero sostanziale stesso, sono le idee, cioè l'intendimento o la conoscenza. Il sistema di Spinoza non è un semplice ilo-zoisnìo, ma è anche un pan-teismo, perchè egli attribuisce al tutto, come tale, un'intelligenza propria, distinta da quelle degli esseri particolari, quantunque queste nonne siano  che delle partecipazioni. L'intendimento, nella cosa pensante, cioè nel tutto considerato sotto l'attributo del pensiero, è unico come ii suo oggetto: è una conoscenza assoluta, una copia perfetta, di tutto il reale, un sistema d' idee che rappresenta esattamente il sistema delle cose, e in cui ad ogni oggetto reale corrisponde un'idea unica,  come  Elh.  Parte  Def.  e  AffecL  Getter  Definii,  ed  JKrplie. ,  Parte  Dim.  prop., Cor. prop.,  Diui.  prop.,  eoe. Append. Le idee o T intendimento sono il modo originario del pensiero, anteriore di natura come dice Spinoza, a tutti gli altri, perchè gli altri modi del pensiero, cioè gli altri fatti psichici, si risolvono, secondo lui, in idee confuse e inadequate, e queste nascono, come ora spiegheremo, dalle idee adequate. V. Dio  Vuomo  ecc.  trad.  frano.,  Eth, dim. prop. .«p ad ogni idea corrisponde un oggetto nnico nella realtà. L'idea corrispondente ad un oggetto costituisce il lato interno di quest'oggetto, cioè la sua anima o, come dice Spinoza, la sua  mente GRICE MEANING MENTIRE STEVENSON SCARE  QUOTES, di cui però l'oggetto stesso non ha che una percezione imperfetta. Noi e tutti gli esseri  pensanti individuali siamo parti di un essere pensante unico ARISTOTELE DIO PENSIERO PENSATTO GENTILE;  il nostro intendimento si confonde coll'intendimento unico che è nella cosa pensante; le nostre idee sono una partecipazione delle sue idee. Ogni idea considerata assolutamente, vale a dire in quanto esiste in Dio, cioè nel tutto, è vera, perchè è della natura del  pensiero  di corrispondere GRICE CORRESPONDENZA VERITA perfettamente all'oggetto pensato. Le nostre idee vere ossia adequate sono le idee stesse del tutto, del suo intendimento unico, che noi percepiamo nella loro integrità (ex loto, vale a dire noi ne partecipiamo in modo che questa partecipazione continua a rappresentare esattamente 1'oggetto, come l'idea nella sua totalità: le nostre  idee false o  V.  Dio, l'uomo e  la beat. trad. fi-auc., lOT108.,Mh,  parte Prop. e diui., e dira., Dim. pr., Cor. prop., Schol., Scbol, pr., Cor. prop. e dim., Dim, pr., Sohol. pr., Dim. pr., Dira. pr., Pr. e  dim., Dim.  pr., eoe.  y.Dio, ruomo eoe., Mh.v H  Dim. pr., Sohol. pr., Dim. pr., Dim. pr., eoe. V. jWo, Vuomo eco. nota, Eth  Prop. e dim.. e  dim,  Soboi.  prop.,  Prop. e  Cor,  ecc. V. De  inielL  emend., Dio, V uomo eoo. nota Mh. Cor. prop., Sohol.  pr., Schol. pr., eoo. De  ini.  emend,  Eth,  Pr. e dim, e dim, e  dim, ecc. De ini, em, Eth. p. e . pr. e  dim., eoo. di  una  maniera  qualunque inadequate sono ancora le idee del tutto, ma che noi percepiamo per frammenti, o, come dice Spinoza, ex parte o mutilate  GRICE STRAWSON PEARS METAPHYSICS BRADLEY ON THE FRAGMENTARY, l'errore non essendo niente di positivo, ma solamente una privazione di conoscenza GRICE NEGATION AND PRIVATION I DO NOT KNOW THAT THIS IS NOT RED. Per ispiegare le nostre idee inadequate, cioè frammentarie, Spinoza dice che le idee adequate corrispondenti sono in Dio, cioè nel tutto, in quanto egli  costituisce, non la nostra mente soltanto, ma insieme ad essa le menti di altri oggetti, o in altri termini in quanto egli ha, non l' idea del nostro corpo soltanto, ma insieme ad essa le idee di altri corpi. Così il pensiero unico di Dio, cioè del tutto, non esiste al di fuori dei pensieri individuali; è questi pensieri individuali stessi, addizionati e fusi in un solo pensiero; come un'immagine unica che risulti dalla sovrapposizione di molte immagini, in modo che l'immagine risultante rappresenti d'una maniera perfetta e completa la cosa stessa che le immagini componenti rappresentano imperfettamente e parzialmente. Evidentemente quest'ipotesi di Spinoza di una intelligenza unica del tutto, di cui le intelligenze individuali sono delle partecipazioni, è un effetto della tendenza costante della metafìsica a fare dell'universo, come dice Schopenhauer, un macrantropo, a dargli una coscienza e una personalità. Ma non è meno evidente ch'essa è un'applicazione del principio del parallelismo. 11 concetto che ogn'idea, assolutamente De ini, ememt, Eth. p. Cor. prop., Prop., Cor. prop.,  p. Dim. prop., eco. Mh. Prop. e dim, Prop. e dim,  Scbol. prop.,  eoo. Eth. Dim.  prop. Cor.  prop. Dim. prop. ,  ecc. considerata, è vera ed adequata, Spinoza lo deduce esplieitamente dalla proposizione che ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum. Da  questa proposizione egli avrebbe potuto dedurre egualmente che l'idea, assolutamente considerata, deve essere unica per ciascun oggetto, e per conseguenza V intem ipotesi, perchè essa non consiste che in questi due concetti. Il parallelismo psico-fisico, cioè il parallelismo tra l'idea e la realtà perchè tutto lo psichico si risolve nel pensiero, e tutto il pensiero nelle idee vere e adequate risulta, secondo Spinoza, dalla identità fondamentale di questi due lati inseparabili dell'essere. La sostanza pensante, egli dice, e la sostanza estesa sono una sola e stessa sostanza, che ora si comprende sotto l'uno, ora sotto 1' altro di questi due attributi. Così pure un modo dell'estensione e l'idea di questo modo è una sola e stessa cosa, espressa di due maniere difterenti. In altri termini,  un corpo e l'idea di questo corpo, o, ciò che è lo stesso, la sua mente, è una sola e stessa cosa, che ora si concepisce sotto 1'attributo dell'estensione, ora sotto quello del pensiero. P e. il circolo reale e l'idea del circolo stesso che è in  Dio vale a dire l'idea adequata e, se non fosse una stranezza, l'anima di questo circolo è una sola e stessa cosa che si spiega per due attributi diversi. P. e.  ancora la volizione e il movimento corporeo che 1'accompagna è una sola e stessa cosa, che chiamiamo volizione quando la consideriamo sotto l'attributo <lel pensiero e la spieghiamo per le leggi di questo, e chiamiamo movimento quando la consideriamo sotto l'attributo dell'estensione e la spieghiamo per le leggi del moto e della quiete. Ne segue che  Mh. Dira. prop. sia che noi  concepiamo la natura sotto l'attributo dell'estensione, sia che la concepiamo sotto l'attributo del pensiero, noi troviamo da una parte e dall'altra un solo e stesso ordine, una sola e stessa concatenazione di cause ed effetti; che p. e. la serie delle azioni e passioni del corpo corrisponde alla serie delle azioni e passioni delTanima, quantunque l'una si svolga indipendentemente dall'altra. Dall'  una e dall'altra parte noi vediamo seguirsi le stesse cose; ma ora Ic^ consideriamo come modi del pensiero, ora come modi dell'estensione. Il concetto di Spinoza, che metteremo più in luce in seguito, è che l'idea e il suo oggetto e per conseguenza, l'anima e il corpo sono due modi di essere di una sola e stessa cosa che, una in se stessa, si ritiova sotto queste due forme distinte, pur  restando identica a se stessa. I fatti che egli vuole spiegare sono sovratutto due. L'uno che l'idea e la cosa hanno per dir così, lo stesso contenuto, questa sotto la forma delia realtà, quella sotto la forma del pensiero. L'altro la concomitanza costante, la corrispondenza, tra i fenomeni psichici e i fenomeni somatici che li accompagnano. Nel secondo di (|uesti due fatti si è visto sempre un  mistero: è sem])re sembrato incomprensibile che il fenomeno psichico sia prodotto dal fenomeno tìsico corrispondente, e questo da quello. Dalla pretesa impossibilità di un legame causale tra i due ordini di fenomeni che egli ammette con Malebianche e con Leibnitz – CITATO DA GRICE COME “l’inventore della distinzione analitco-sintetico --, Spinoza ne conclude che non vi ha fra di loro che una semplice concomitanza, un paralle AVA. Schol. prop.  e  Scbol.  prop.  e  IH  Scbol. prop  liftino, e, come Malebranche e Leibnitz – l’inventore della distinzione analitico-sintetico – Grice --,  cerca un'ipotesi per impiegare  <|ue8ta concomitanza. 11 primo fatto, cioè la conformità tra il pensiero e le cose, è tanto più un problema per Spinoza, che e^li non ammette, uè  che le cose agiscano sul pensiero né che il pensiero agisca sulle cose. L'ipotesi di Spiuoza per ispiegare i due fatti è costruita sullo stess'> tipo che tutte le ipotesi metafisiche in g«»nerale: egli cerca un fatto familiarissimo, e assimila a questo i fatti che si tratta di spiegare. Questo fatto familiarissimo è che una stessa cosa, in due modi di essere o stati differenti, deve ^somigliare e  corrispondere a se stessa. È ciò che osserviamo il più abitualmente: ma <]uesti due modi di essere differenti di una stessa cosa noi non possiamo concepirli che successivi, mentre Spinoza pretende concepirli simultanei. È perciò che quest'ipotesi è un concetto metafìsico nel senso più stretto, cioè trascendente l'immaginazione, e non soltanto l'esperienza. Oltre il parallelismo tra il fisico  e lo psichico, cioè tra i modi dell'estensione e i modi del pensiero, la proposizione che V ordine e la connessione delle idee sono identici alVordine e alla connessione delle cose significa, come abbiamo detto, che lo sviluppo logico del i)ensiero corrispomle allo sviluppo reale dell'essere. È quella stessa identità tra il processo logico e il processo ontologico che abbiamo osservato in  Platone, in Hegel e in Taine. Spinoza suppone, per conseguenza, come essi: cht la vera conoscenza è un  sapere a priori, che si produce per il solo movimento logico del pensiero, cioè per un metodo puramente deduttivo; che questa deduzione non volge su delle proposizioni, ma su delle semplici idee beninteso, delle idee astratte; e che i gradi o momenti successivi nel progresso della  deduzione rappresentano dei gradi o dei momenti successivi nel progresso del reale in se stesso anteriorità e posteriorità di natura nel senso che abbiamo spiegato parlando di Platone, in modo che il principium cognoscendi sia anche il principium essendi, e il legame tra le premesse e le conseguenze s' identifichi col legame tra le cause e gli effetti. È un'altra forma del parallelismo tra il  pensiero e le cose, purché si ammetta il presupposto gnoseologico dell'autore, cioè che vi ha una conoscenza del reale assolutamente a priori, che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo per la sola forza logica del pensiero. Vi hanno, secondo Spinoza, tre (fcneri di conoscenza, ed è il terzo che è il solo ade(|uato. Esso procede dalla cognizione dell'essenza di Dio alla cognizione dell'essenza delle cose, e questo passaggio dall'una cognizione all'altra è una dedusione: così il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre tutte le cose particolari dall'essenza di Dio, cioè della Sostanza. L'esistenza di ciò da cui tutto il resto si deduce, cioè di Dio o della Sostanza, è una verità evidente per se stessa, assiomatica senza di ciò la conoscenza non sarebbe a priori: Dio o la  sostanza è la causa di  sé, vale a dire ciò la cui natura non può concepirsi che come esistente, o ciò la cui essenza involge 1'esistenza, in altri termini dal cui concetto o dalla cui definizione segue necessariamente che deve esistere. ConlVouta Eth. Schol. piH)p.  Schol. piop. Dim. prop. Schol.  prop.  ecc. Klh,  Scbol.  prop. Scbol. prop. Dim.  prop.,  De iulelL emend., ecc.  Per la uecessità,  nel realismo dialettico, che il primo principio della deduzione sia una verità a priori v. e  i  1. indicati nella  n. 2 di  Eth  Def. e  Prop. e  dim. Schol.  prop. SE -^  K Dio è la causa di tutte le altre cose nello stesso senso in cui è la causa di sé, vale a dire, come la sua esistenza segue dalla sua essenza, cosi è dalla sua essenza che segue pure V’esistenza delle altre cose. Tutte le cose seguono  eternamente dall'essenza di Dio, come dall'essenza del triangolo segue eternamente che i suoi tre angoli sono uguali a due retti eternamente,  per8, Prop.  e  dilli.,  Diui.  prop.,  eoo. Questa dottrina di Spinoza che l'esisteuza di Dio, cioè la prima verità da cui si deduooDo tutte le altre. si deduce dalla sua essenza o dal suo concetto, è iiaturaliuente una variante della dottrina corrispondente di Cartesio – CITATO DA GRICE: CERTEZZA. Anche Spinoza riguarda, come Cartesio – CITATO DA GRICE CERTEZZA --, Tidea di esse*'f, necessarioj cioè la cui esistenza segue dal suo concetto, come inseparabilmente legata a quella di essere perfettissimo, cioè assolutamente infinito benché talvolta sembri considerare, come fa Cartesio CITATO DA GRICE CERTEZZA,  l'esistenza necessari:^ come una conseguenza dell'infinità Eth.  Schol.  prop.,  Epist.,  Epy , e tal altra invece l'infinità come una conseguenza dell'esistenza necessaria Eth. Schol. prop., Episi, Ep. È su questa inseparabilità tra il concetto di essere necessario e quello di essere assolutamente infinito che è fondato il suo paradosso che Dio o la Natura – CITATO DA GRICE, “METAPHYSICS” GRICE, STRAWSON, PEARS -- deve avere un numero infinito di attributi, e non soltanto quelli che noi conosciamo, cioè il pensiero e l'estensione Eth. Schol. pr.. ,  Epist,,  Ep, Episi., sia perchè dall'esistenza necessaria dell'essere segue la sua assoluta infinità,  i, sia perchè è solo da questa assoluta infinità che può seguire la sua esistenza necessaria. Spinoza non si allontana molto da  Cartesio CITATO DA GRICE CERTEZZA,  dando l'esistenza di Dio per una verità assiomatica, perchè anche questi talvolta considera l'esistenza necessaria dell'essere perfettissimo piuttosto come un assioma che, come una verità di dimostrazione. Kisp. alle See. Ohbiez. ed. Cous. Eth. Schol.  pr.  Eth.  Schol.  pr.  Dim.  Prefaz.  Eth. Schol.  prop.    e Schol.  prop. che le conseguenze  d'una verità  eterna devono essere anch'esse delle verità eterne – GRICE LA CITTA DELLA VERITA ETERNA. La dottrina di Spinoza  è, come  sappiamo, che tutte le proprietà d'una cosa devono potersi dedurre dalla sua essenza, cioè dalla sua definizione: ora le altre cose non sono che dei modi della sostanza unica, cioè di Dio; così egli vede tra Dio e le cose lo stesso rapporto che  tra 1'essenza e le proprietà, e ammette che tutto ciò che esiste deve dedursi dall'essenza o dalla definizione di Dio, come le proprietà di una cosa si deducono dall'essènza o dalla definizione di questa cosa. Per esprimere la derivazione delle cose da Dio, Spinoza dice il più abitualmente - e noi vedremo il perchè che le cose secinono o sono segnite il più delle volte necessariamente,   spesso anche senza quest'avverbio dall'essenza o dalla natura di Dio o di alcuno dei suoi attributi. Ma altre volte indica più chiaramente il senso lo<jko di questa derivazione, dicendo che se ne concludono o se ne deducono j e confrontando dei testi in cui ripete uno  stesso Eth. Dira.  prop. e Schol.  prop. Dim. prop. Eth. Dim.  prop,  Schol. prop.,  Dim.  prop., prop., Schol. prop. Dim.  prop, Dim. proi. Schol., Dim. prop.,  Prefaz.,  Prop.  e dim., Dim.  prop. , Cor. i)rop.,  ecc. Spesso questa forma è sostituita da un'altra «imile, cioè che le  c<»se  seguono dalla necessità della natura odelVessema divina: Eth.  Schol.  prop., Prop.,  Dim.  prop.,  Schol.  prop.,  Cor.  prop.,  Append.,  Schol.  prop. Schol. prop.  ecc. Eth,  Schol.  prop. ,  Prop.  e  dim.,  Prop., Dim. pr., Dim.  e Schol.  prop.,  Prefaz.  ecc. Eth.  Dim. prop.,  Schol.  prop.,  Cor. prop.  Dim. prop.,  ecc. r  concetto, si vede che tutte queste espressioni sono per rautove e^iuivalenti. In questa dottrina di Spinoza dobbiamo notare l'identità con quelle di Platone e di Hegel, e al tempo stesso la differenza. Tutte le idee, per Spinoza, devono dedursi da un'idea unica, come per Platone e per Hegel: ma  quest'idea, per l'uno, è un concetto astrano perchè l'essenza, considerata a parte,  non è che un'astrazione ma non un concetto generale come per gli altri due perchè Dio o la Natura CITATA DA GRICE, STRAWSON, PEARS Metaphysics -- è un individuo, e non un'entità generale come le Idee di Platone o di Hegel. Che una cosn si deduca da un'altra, e che questa sia la causa e quella  1'effetto, sono per Spinoza delle proposizioni perfettamente equivalenti. Egli dice ad ogni passo che Dio è la causa di tutte le cose, che queste sono, o sono state, prodotte da lui, ch'egli le determina o le ha determinato ad essere e ad operare, che le crea o le ha creato, ecc.; parla continuamente dell'azione di Dio, della sua potenza, ecc. Ma tutto ciò signitìca che le cose possuìfo dedursi  dall'essenza di Dio, ne sono le conseguenze;  o a dir meglio, poter dedursi dall'essenza di Dio ed esserne causate sono per Spinoza una sola e stessa cosa, perchè per lui la causa è identica al principio logico e V effetto alla conseguenza. Noi abbiamo visto infatti che Dio è la causa delle cose nello stesso Mh. Prop. e  dim.,  Prop. o  diiii.,  Schol.  prop. Cor.  prop.  Dim.  prop.,  eoo. De  ini.  em,,  eoo.  L' espressioDo più abituale di Spinoza, che le cose srguoìw o sono seguile dall'essenza di Dio, esprime il doppio aspetto del rapporto tra Dio e lo cose, cioè tanto il logico (ohe le cose sona le conseguenze deir essenza di Dio quanto 1'ontologico che ne sono gh effetti. senso in cui è la causa di sé, vale a dire in  (|uanto dall'essenza di Dio può dedursi l'esistenza delle cose  come se ne può dedurre la suji propria esistenza. Così, dimostrato che tutto ciò che cade sotto un intelletto infinito può dedursi dall'essenza di Dio come le proprietà d'una cosa dalla sua definizione, l'autore ne conclude: che Dio è la causa di tutte le cose; che è causa per sé e non per accidente; che è la causa assolutamente prima; ch'egli agisce per la sola necessità della sua natura; e  quindi che è causa libera; che è anteriore a tutte le cose per causalità; che è causa efficiente tanto dell'essenza quanto dell'esistenza delle cose (;;  che è causa efficiente anche di ciò che determina le cose ad operare in un certo ìnodo; che le cose non avrebbero potuto essere prodotte da lui in niun altn modo né in niun altro ordine. Dire che le cose sono, o sono stiate, prodotte da Dio, e cli'(ssse ^^eguono, cioè possono dedursi, dalla sua essenza, sono delle espre^.s  AV/i. prop.  lf>,  e. Cor., proj». Dim. prop.:U. |  Cor.  Ciò vuol dire fhe è causa neci-ssariameiito. clie non può non produrre gli ett'etti  che  pn)du<o.  Pio. Viionio ecc.,  Cor. Dim.  prop. Nello  Scliol.  della  prop. questa jjroposizione è data, non come una conseguenza della proposisioue, ma come  equivalente ad essa  Hrefaz. Cor.  prop.  Si dice libera quellji  cosa die esiste per la sola necessità della sua ujitura ed  è determinata ad  aj^ire da sé sola. Parte  Del". Schol. prop. Sehol.  prop. dim.  prop. Prop.  e  Dim. f.  sioni  elle Spinoza (jonsidera come identiche di senso: le cose che sono in potere di Dio significa le cose che seguono dalla natura di lui; la sua potenza, causa di tutte le cose, è la  sua stessa essenza, in quanto tutte le cose seguono da (piesta. Come si vede dalle proposizioni precedenti, quando Spinozii parla di Dio come causa, egli non intende propriamente attribuire la causalità che air e««enra di Dio due cose differenti, perchè Dio è il tutto, la sostanza coi suo modi, Vessenza di Dio è quest'astrazione che Spinoza riguarda come il substratum del tutto, la sostanza  separatamente dai modi. Così egli dice che le cose emanano o fluiscono dalla natura di Dio come dall'essenza del triangolo deriva 1'eguaglianza dei suoi angoli a due retti; che Dio è causa, o a<?isce,  per la necessità della sua natura; che è da questa necessità della natura divina che le cose sono state determinate ad essere e ad operare in un certo modo; che Dio è causa dei modi dell'estensione in quanto ha l'attributo dell'estensione e dei modi del pensiero in quanto ha V’attributo del pensiero perchè Schol. prop. ,  Uiui.  prop.  Sohol., Dim.  prop.,  Schol.  prop.  e  App.  Schol. e  Dim.  prop.  Prop. e  dim.  Dim.  prop.,  App.  Schol.  pr., Cor.  pr.  Mh.  Schol. iirop.,  Kpisl. Cor.   prop.,  Dim. pr., Dim. pr.,  App. Schol.  prop.,  ecc.  prop.  e  dim.,  e  dim.  prop. .  Una  proposizione jinaloga  nell'App., cioè ohe tutte le cose furono predeterminale dn Dio, non dalla sua volontà, ma dalla gita assoluta natura,  Dim. pr., Pr.,  dim.  pr.  ei-v. r essenza è il complesso degli attributi  e le cose si deducono dall'attributo di  cui sono i modi; ecc. Spinoza distingue la natura naturante e la natura naturata: la natura naturante è definita Dio in quanto è considerato come causa libera, e consiste negli attributi della sostanza astrattamente considerati; la natura naturata GRICE SIGNUM NATURALE – SIGNVM PER NATURA NATURANTE – SIGNVM PER NATVRA NATVRATA -- è tutto ciò che segue dall'essenza di Dio, vale a dire i modi di questi  attributi. Talvolta non è Dio stesso che è riguardato come causa delle cose, ma l'attributo divino di cui esse sono i modi, cioè il pensiero o l'estensione: è l'espressione più esatta del pensiero di Spinoza, che senza dubbio userebbe più spesso, se non volesse discostarsi dalla lingua comune. Il  principio e la conseguenza considerati come realtà oggettive sono una stessa cosa in due stati differenti: quello a uno più astratto, più indeterminato; questa a uno stato più determinato,  più concreto. Infatti la conseguenza non è che un'applicazione, un caso particolare, del principio. La conseguenza racchiude dunque il [irincipio, come il concreto racchiude l'astratto. Di là l'assioma di Spinoza, che l'idea dell'effetto involge, cioè racchiude, l'idea della causa. Ne segue che le idee di tutte le cose involgono l' idea dell'essenza di Dio,  Def., Dim. prop.,  Pr.  e  dim., Schol. ,  Cor. prop.,  ecc. Schol. prop.  Dim. prop. e  Dim.  prop. As8. , De  int.  em.  (la conoscenza d'un effetto non è che una conoscenza più perfctt-i della sua causa e . I  la definizione d'una cosa creata deve comprendere la sua causa prossima. a perchè questa è la causa di tutte le cose. Quelle dei modi del pensiero non involgono che quella dell'attributo del pensiero; perciò i modi del pensiero non possono avere per causa che l'attributo del pensiero. E in generale le idee dei modi di un attributo non involgendo che l'idea dell'attributo stesso, questi modi non possono avere per causa che Dio  considerato sotto questo solo attributo. Le cose pensata seguono e si concludono dall'attributo di cui sono i modi, della stessa maniera e con la stessa necessità che i loro pensieri dall'attributo del pensiero. Dall'identità della causa col principio logico e dell'effetto con la conseguenza segue pure questo canone del metodo di Spinoza, che la vera scienza procede dalla causa all'effetto    perchè la dimostrazione procede dal ])rincipio alla conseguenza e consiste a conoscere le cose per le loro cause. Di là l'identità del processo con cui si produce la conoscenza  Elh.  p.  Prop. pr. e  diiii.,  Schol.,  p. Dini. pr.,  pr. e dim., ecc. Un'altra espressione dello stesso concetto è che tutte le cose esprimono in un modo deter in  inalo V essenza di Dio. Eth.  p. Cor. prop., Dim. prop.,  p. Def., Dim. prop., Dim. pr., Cor.  prop.. ecc. La proposizione che le idee di tutte le cose involgono l'idea  dell'essenza di Dio, equivale, al fondo, a quella che tutte le cose sono dei modi della sostanza divina. 1/essenza di Dio essendo compresa in tutte le cose, cioè nei suoi effetti. Dio è, dice Spinoza, causa immanente, non transiente  Elh. p.,  pr. e  dim.. P. Dim. prop.  P.  dim.  prop.  Nella dim. della prop. il ragionamento è invertito: le cose hanno per causa Dio considerato sotto l'attributo di cui sono i modi, quindi le loro idee devono involgere il concetto di quest'attributo. Episl. Cor. prop. Eth, p. Schol.  prop., De ini. em., eco. col  processo con cui si produce la realtà stessa: ordo et conuvxio idearuni idem est ae ardo et connexio rerum. La concatenazione delle  nostre idee vale a dire, la loro concatenazione logica deve essere tale che il «ostro pensiero non sia che la rappresentazione delle cose: esso deve andare da una cosa all'altra, progredendo secondo la serie delle cause; i nostri concetti devono derivare, cioè dedursì, gli uni dagli altri, come le cose concepite derivano, cioè sono prodotte, le une dalle altre. Ma quest'antitesi fra i concetti che  si deducono e le cose concepite che sono prodotte, non rende esattamente il pensiero di Spinoza: che le cose sono prodotte le une dalle altre significa che possono dedursi le une dalle altre; e similmente che i concetti si deducono (jli uni da(/li altri può esprimersi pure dicendo che sono prodotti gli uni dagli altri. Non vi ha da una parte uji incatenamento Elh.  p. Prop. Spinoza dimostra  questa proposizione per l'assioma che la conoscenza dell'effetto dipendente dalla conoscenza della causa. De ini. em. De ini. em. De ini. em.: Adde quod idea eodem modo se habet obiective, ac ipsius ideatum se habet realiter. Si ergo daretur aliquid in natura nihil commeroii habens cum aliis rebus, eiu» etiam si datur essentia obiectiva, <iuae convenire omnino deberet cum formali,  nihil etiam commercii haberet cum aliis ideis^ id est. nihil de ipsa poterimus concludere; et contra, (luae habent commercium cum aliis rebus, uti sunt omnia quae in natura existunt, intelligentur et ipsorum etiam essentiae obiectivae idem habebunt commercium, id est, aliae ideae ex eis deducen tur, (juae iterum habebunt commercium cnm aliis p. L'autore aggiunge in nota alle parole  nihil etiam commercii haberet cum aliis ideis: Commercium hahere cum aliis rebus est produci ab aliis aut alia producere Essenlia ohieiliva vuol dire. causale nella realtà, e da un'altra parte un incatenamento deduttivo nel pensiero: è un solo e stesso incatenauiento, che ora si considera tra le cose, e ora tra le loro rappresentazioni. Aftinché il nostro pensiero rappresenti di questa maniera  l'esemplare della natura, bisogna che tutte le nostre idee siano prodotte da quella che rappresenta 1'origine e la sorgente di tutta la natura, cioè l'essenza di Dio, in modo che questa idea sia l'origine e la sorgente di tutte le altre idee. Ciò che è necessario di osservare è che quest'incatenamento causale delle cose, identico all'incatenamelito deduttivo dei concetti, non ha luogo tra le cause  e gli etfetti fenomenali cioè che sono dei fatti particolari e separati gli uni dagli altri ma tra i gradi successivi dello sviluppo di quest'essere unico, che Spinoza chiama Dio o la Natura. Come si vede da ciò che precede, quest'incatenamento causale, che è al tempo stesso un incatenamento deduttivo, abbraccia, anche nel sistema di Spinoza, molti anelli come in tutti i sistemi che identificano  il rapporto tra la causa e l'effetto col rapporto tra il principio e la conseguenza. Il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre dall'essenza di Dio le essenze delle cose €onfoiiuemeiite all lingua scolastica, la rappresentazione; essentia formalis, la realtà Si veda pure il u., nella nota seguente, e il n. nel De int, em. è la continuazione del luogo riportato nella nota precedente: Porro ex hoc  ultimo, quod diximus. scilicet quod idea omnino cura sua essentia formali debeat convenire, pate;i iterum ex eo quod, ut mens nostra omi.ino ref'erat natnrae exemplar, debeat omnes suas ideas producere ab ea, quac refert originem et foutem totius naturare, ut ipsa etiam sit fons ceterarum idearuni. Si veda pure il n. particolari: ma queste non si deducono immediatamente da quella, non  ne sono gli effetti immediati. L'essenza di Dio e le essenze delle cose particolari sono i termini estremi di una serie, in cui ciascuno degli altri termini è la conseguenza e l'effetto del termine precedente, e la premessa e la causa del termine susseguente. Tra i modi infiniti ed eterni di Dio tutto ciò che segue dall'essenza divina è eterno ed infinito come essa Spinoza distingue quelli che  seguono immediatamente da un attributo divino, e quelli che seguono da un attributo divino mediante qualche modo che segue da quest'attributo in altri termini che seguono da un modo che è seguilo dall'attributo. Seguire da un attributo divino o da un suo modo significa al tempo stesso, come sappiamo, po^tersene dedurre ed esserne prodotto. Tra i modi che seguono dagli attributi  mediatamente, niente ci vieta di Così Spinoza parla di cause prime e di cause prossime intendendo la parola causa nel senso spiegato, in cui è 1'equivalente di principio logico Il terzo genere di conoscenza ora è fatto consistere nel conoscere le cose per le cause prime Ulh, p. Schol. prop., De int. em., eco. ed ora nel conoscere l'essenza di ciascuna cosa per la sua causa prossima De int, em., eco. La seconda deiìnizione equivale alla prima, perchè anche la causa prossima deve essere conosciuta per la sua causa prossima. e cosi via via sino alla causa prima. Nell'Appendice  alla  p. contrappone gli effetti ohe sono prodotti immediatamente da Dio a quelli che per prodursi hanno bisogno di piìì cause intermediarie. Gli effetti che sono prodotti immediatamente da Dio sono  quelli di cui si tratta nella proposizione ohe egli cita, cioè i modi ohe seguono immediatamente dagli attributi.   A7/i.  p. prop. Dim. prop. Dim. prop.  JMStfii. supporre che ya uè siauo dei più prossimi e dei più remoti; iu altri termini, che oltre a quelli che seguono da un attributo attraverso un solo modo, ve ne siano degli altri che ne seguono attraverso una pluralità di modi di cui Tuno  segue dall'altro. È a ciò che pensiamo naturalmente, quando Spinoza parla di una serie di cause, che il nostro pensiero deve riprodurre come concatenaisione logica di ccmcetti. Inoltre, come mostreremo. Spinoza ammette, al di là <legli attributi, qualche cosa di più fondamentale, che ne è il substratum come essi lo sono dei modi è ciò ch'egli chiama Vessere assolutamente indeterminato, e la logica «lei sistema esige che gli attributi se ne deducano e ne siano prodotti, come i modi si deducono <? sono prodotti dagli attributi. Nella serie delle cause, cioè delle cose eterne ed infinite, il cui incatenamento causale è rappresentato dall'incatenamento logico dei concetti, il termine susseguente è sempre una determinazione del termine precedente. È l'attuazione del principio  che l'idea delFettetto involge l'idea della causa. Il primo termine della serie A ciò non si oppone la proposizione di Spinoza che i modi ohe non seguono immediatamente da qualche attributo divino, devono seguirne mediante qualche modo aliqua modificalione che segue da un attributo Dim. prop. Infatti questo modo può essere la conseguenza di uno o più altri modi anteriori, e nondimeno Spinoza può parlare anche in questo caso come se fosse il solo modo intermediario, perchè ogni modo contiene in 66 stesso i modi anteriori di cui è la conseguenza conformemente all'assioma che l'idea dell'effetto racchiude l'idea della «ausa. De int. emend. i»,  e ed  Eih,  p. Schol. prop.. i è  Vessere assolutamente indeterminato: gli attributi, cioè l'estensione e il pensiero  sostanziale, ne sono le prime determinazioni. I modi immediati dell'estensione sono la quiete e il movimento. I modi mediati sono coi modi immediati nello stesso rapporto che questi con gli attributi. Un esempio dei modi mediati pure nell'attributo dell'estensione è l'aspetto di tutto 1'universo facies totius universi che pur cangiando di maniere infinite, resta nondimeno sempre lo stesso.  È una determinazione dei modi immediati, perchè ogni varietà nel mondo materisile consiste in una diversa distribuzione della quiete e del movimento e nella diversa natura del movimento stesso. Ciascun termine della serie è il substratum di quello che lo segue, vale a dire ha con esso la stessa relazione che la sostanza coi modi. L'essere si forma,  ])er dir così, per strati successivi,  aggiungendosi progressivamente nuove determinazioni, di cui la susseguente è la c<mseguenza e Fetfetto della precedente. In questo progresso, è un solo e stesso essere, che passa continuamente, come per una forza interna che lo necessita a svilupparsi, da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato. È ciò che sopra ^ abbiamo chiamato i gradi successavi dello sviluppo di Dio e della Natura: ma si deve intendere d'una successione, non cronologica, ma solamente logica, perchè le Episl. Dio, V uomo ecc.. la dim. della prop. Eth,  p., con la dim. della prop. Epist,  Eth.  p. gli assiomi, lemmi, ecc. tra la prop. e la prop.;  e Dio, Vuomo,  ecc. trad.  frane. conseguenze dell'essenza di Dio sono, come abbiamo detto, eterne come il loro principio. Questo concetto  di Spinoza, che il processo secondo cui le cose si producono è uno sviluppo continuo al di fuori del tempo, che consiste a passare costantemente da uno stato più astratto, più indeterminato, a uno stato più concreto, più determinato, è, vi ha appena bisogno di notarlo, un carattere comune del realismo dialettico, che noi abbiamo già incontrato in tutti i sistemi precedenti. Ciò che sef/ue,  cioè si deduce, dall'essenza di Dio, non sono gli oggetti peribili e cangianti, ma ciò che vi ha di eterno e di immutabile nella natura. Le cose seguono o jlaiscoao dalla natura di Dio <sempre con la stessa necessità, allo stesso modo che dalla natura del triangolo segue ab aetenio ed in eterno che i suoi tre angoli sono eguali a due retti. L'onnipotenza di Dio è stata in atto ab aetenio, e  rimarrà in eterno nella stessa attualità Tutto procede per una certa eterna necessità della natura, tutto <segue dalla eterna necessità della natura SPOTS ARE MEASLES di Dio Come è per un'eterna necessità che le cose derivano dall'essenza di Dio, così è per un'eterna necessità che devono concepirsi come derivate da quest'essenza perchè l'ordine e la connessione delle idee sono gli  stessi che l'ordine e la connessione delle cose: tutti i decreti di Dio involgono una verità ed una necessità eterne. Tutte queste prò  Eth.  p. Scbol. pr. Mk. App. p.  P. Schol. pr.  P. a  Dira. prop. e dini. prop. Schol. pr. il sapiente è conscio di se stesso o di Dio e delie cose per una certa eterna necessità. Epist. posizioni sono basate sulla prop. parte ehe l'autore cita, in cui ha dimostrato che  tutto deriva dalla essenza di Dio come le proprietà d'una cosa dall'essenza di questa cosa. Il concetto che esse esprimono è clie la essenza di Dio è una causa eterna ed immutabile, che agisce d'una maniera eterna ed immutabile: la conseguenza è che gli effetti di questa causa devono essere anch'essi eterni ed immutabili. Spinoza afferma ripetutamente l'eternità e l'immutabilità degli  attributi divini, cioè del pensiero e dell'estensione considerati assolutamente, vale a dire astratti dai loro modi. L'eternitti è pure esplicitamente attribuita a tutti i modi necessari degli attributi, sia immediati che mediati: tutto ciò che segue dall'essenza di Dio, sia immediatamente sia mediatamente, è, come abbiamo detto, eterno ed infinito come essa. In quanto all'immutabilità  esplicitamente è affermata in Dio l'uomo e la beatitudine di tutti i modi immediati^che sono i soli modi eterni ed infiniti che Spinoza ammette in quest'opera, e nell'Epist. dell'unico esempio che, in tutti i suoi scritti, egli dà dei modi mediati, cioè dell'aspetto di tutto l'universo che, come abbiamo visto, resta sempre lo stesso malgi-ado i suoi infiniti cangiamenti. Noi dobbiamo dunque ammettere che  tutti i modi necessari cioè che se Mh. p. Dini. prò., pr. e dim., ecc. y Eth. p. Cor. pr, Dim. pr., p. Soh. pr., p. Schol. prop. De int. em., Dio V uomo e la beat. in nota, eco. Dio Vuomo e la beat., Eth. p. pr., Dim. pr., p.^Scoi. pr. Dio, Vuomo e la beat. n. Dio, Vuomo e la beat. guoiio necessariamente dall'essenza di Dio, tanto^11 immediati qnanto i mediati, sono, secondo Spinoza, non solo  eterni, ma anche immntabili. Ciò è confermato dal De intellectus emendatione, in cui la serie delle cauae^cioè ress(*nza di Dio e le cose che gradatamente se ne deducono vale a dire, come sappiamo dall'Etica, i modi immediati e mediati che seguono dagli attributi divini, è chiamata la <serie delle cose fisse ed  eterne, y>ed opposta a (|uel]a delle cose singolari mutabili. Del resto Pimmutabilitii in Spiiìoza accompagna necessariamente l^eternità, perchè T eterno per lui non è ciò che esiste in ogni tempo ^ma ciò che esiste al di fuori del tempo, e, per conseguenza, di ogni successione e di ogni cangia., luogo che riporteremo. Eth. p. DEF. Vili.  Per aeternitutem iutelligo ipsam existeutiam, quatenus ex sola rei aeternae defìnitioue necessario sequi concipitur.  ESPLICATIO. Talis euiin existeutia ut aeterna veritas, sicut rei essentia, concipitur, propteraque per durationem aut lem pus explieari non poteste tametsi dura Ho principio et fine carerà concipintur. Dim. pr. e Scbol., e Dim. pr. l'antitesi fra l'esistenza eterna e V esistenza ohe si spiega o si definisce per il tempo e la durata. Per comprendere questo concetto dell'eternità di Spinoza che  è quello del realismo dialettico in generale GRICE TIMELESS, si deve avvertire che le cose fisse ed eterne sono, come spiegheremo in seguito, delle entità astratte, per concepire le quali bisogna fare astrazione di certe determinazioni della realtà empiiica. fra di queste la posizione nel tempo e la durata. Che le cose fisse ed eterne sono fuori del tempo e della durata, significa dunque  che devono essere concepite astrazion facendo del tempo e della durata tanto di un tempo e di una durata determinati quanto del tempo e della durata infiniti, ed esistono cosi come devono essere conceDite. perchè le astrazioni, in questi sistemi, sono delle realtà, e non dei semplici concetti. mento. Le cose fisse ed eterne, cioè i modi eterni ed infiniti dell'Etica, costituiscono, in un senso,  tutto il reale, perchè Spinoza afferma, da una parte, che queste sole cose seguono, o possono dedursi, dall'essenza di Dio, e da un'altra parte, che tutte le cose seguono, o possono' dedursi, da questui essenza Ciò non importa però che 1 modi eterni ed infiniti non siano altro che il complesso delle cose particolari, cioè empiriche. Ciò che prova che essi hanno un'esistenza distinta è che  Spinoza nega che le cose singolari, ossia finite e che hanno una durata determinata, siano prodotte dall'essenza di Dio assolutamente considerata, sia immediatamente sia raediatamente. Vi ha in (,uesto sistema una doppia sene di cause, a cui corrisponde un doppio ordine di realtà. Una cosa singolare o, come la definisce l'autore, finita e che ha un'esistenza determinata lia per causa  un'altra cosa singolare, che la precede nel tempo, HERBERT GRICE, questa un'altra, e così di seguito all'infinito. Queste cose non sono prodotte dall'essenza di Dio assolutamente considerata, cioè non se ne possono dedurre. È l'ordine delle realtà empiriche, e la loro causalità è una causalità empirica, cioè che si riduce a una sequenza invariabile. Ma al di là delle realtà empiriche vi  ìmnno le co^a fisse ed  eterne, cioè l'essenza di Dio e i modi eterni ed intì  Mh. p. prop., anche  i    indie, nella nota dopo la seguente.  Etk,  p. Schol.  prop., Pr.,  Schol. pr., Schol. pr., Schol. pr., Pr., Sohol., Dim. pr., Pr., App. p., Epi^t.,  e?c.  V. Età.  p. Dim. prop. e  Schol.,  p. Dim. prop. e Dim. pr.. Eth.  p.   Prop.  e  Dim.  pr.,  p.    Dim.  prop.  e  Dim.  prop.  Diti, che SODO prodotti  dall'essenza di Dio assolti tameDte coDsiderata, cioè che se De deducouo. Per quest'altro ordiDe di realtà vale im'altra  causalilà: è quella del realismo dialettico, iu cui causa equivale a principio logico ed effetto a conseffuenza, e che Spiuoza ha di mira, quaudo dice che l'idea dell'effetto ìd volge, cioè racchiude, l'idea della causa DARK CLOUDS MEAN RAIN. Le cose fisse ed eterne  haono, come abbiamo detto, un'esistenza per sé, distiDta dall' iDsieme delle cose singolari; ma sono presenti in queste, e ne sodo le cause prossime. Chiamaudole cause prossime, Spili) De  ini.  em, nel luogo ohe riporteremo. Per questa presenza naoovdta plalonica delle cose fìsse ed eterne nelle cose che esistono nel tempo, il concetto dell'eternità viene completato e avvicinato al  cor.cetto volgare, ohe ne fa uua durata infinita VEpist., in cui Spinoza definisce la eternità infinitam existendi fruitionem. In un certo senso può dirsi che le cose fisse ed eterne esistono sempre, cioè in ogni tempo, perchè le cose fenomenali in cui esse sono presenti  come l'astratto è presente nel concreto esistono sempre, cioè in ogni tempo. Ma in se stesse, vale a dire astrazion facendo  delle cose fenomenali in cui sono presenti o a dir meglio delle altre determinazioni che, aggiunte ad esse, costituiscono le cose fenomenali, sono fuori del tempo e della durata: esse sono anteriori al tempo e alla durata, che appariscono a un grado posteriore dello sviluppo dell'essere anteriorità e posteriorità di natura, al -rado ultimo, perchè Spinoza riguarda il tempo e la durata come la  nota distintiva dell'individuale, oiob, come dicevano gli oolastici, àeWomnimode determinatum nota De ini. emend., thid. Lo stes^^o concetto, espresso d'una maniera differente, nello Scolio alla prop. p. dell'Etica: ivi si distinguono le cose immediatamente prodotte da  Dio cioè i modi eterni ed infiniti, si immediati che mediati e le cose singolari che sono prodotte mediante quelle; Dio  è causa assolnfamente prossima delle une cioè delle cose fisse ed eterne, delle altre può anche dirsi causa remota. Doza intende dire delle cause immanenti perchè sono presenti negli eftetti, e considera, per conseguenza, le cose singolari, prese nel loro insieme, come le stesse cose fisse ed eterne ad un grado ulteriore di determinazione. Noi sappiamo infatti che intendendo le parole  causa ed effetto nel senso del realismo dialettico l'ettetto nou è per Spinoza che una determinazione della causa, vale a dire la causa stessa  a uno stato più determinato, meno astratto.  È perciò che le cose singolari sono chiamate le cose che hanno un'esistenza determinata: finito e determinato e infinito e indeterminato sono per Spinoza dei termini equivalenti, perchè il finito per lui è il  determinato, cioè il concreto, e l'infinito le cose fìsse ed eterne l'indeterminato, cioè l'astratto Un'altra prova Eth.  p. Dim. prop. Prop. e Dim.. ecc. L'espressione « esi.Atenza detenninatJi è per Spinoza l'equivalente di durata determinata che equivale alla su:i volta a durata finita e l'opposto di eternità. Ma siccome denota l'esistenza individuale eswa deve significare anche l'idea che  naturalmente suggerisce, cioè che le cose a cui si applica sono delle realtà concrete, e non delle astrazioni realizzate come lo. cose fisse ed eterne. VEpist., in cui si trova la celebre proposizione determinatio negatio est GRICE NEGATION AND PRIVATION, ohe egli prova per la oonsi'lerazione che la figura, cioè una delerminaiione eli'estensione, non h che una limitmione di questa  perchè non esiste nell'es:;ensione infinita, ma solamente nelle estensioni finite. Questo principio che la determinazione è una negazione, cioè una limitazione, si verifica, nel sistema di Spinoza, in tutti i passaggi del reale da un grado anteriore al irrado posteriore. Così la quiete e il  movimento, che sono i modi immediati dell'estensione, cioè le sue prime determinazioni, ne sono pure  delle limitazioni perchè la estensione in quiete è limitata dall'estensione in movimento, e viceversa. Così pure l'estensione e il pensiero sono delle limita  che dimostra che a quest'indetermiDato cioè alle cose fìsse ed eterne è attribuita uua realtà propria, distinta dal complesso delle cose che hanno un'esistenza determinata, è l'uso frequente del tempo passato HE MEANT IT per indicare la derivazione  dall'essenza divina dei modi eterni ed infìniti e, in generale, di tutte le cose di cui le cose fisse ed eterne  >sono 1'elemento veramente reale; seguirono, furono prodotti, furono creati,  ecc. Spinoza può esprimersi così, perchè le cose fìsse ed eterne essendo distinte da quelle che esistono nel tempo^ la loro produzione non è un fatto che si ripete continuazioni dell'essere  assolutamente indeterminato^perchè questo è assolutamente infinito, mentre i suoi atttributi si limitano l'uno con l'altro, e non sono infiniti che ciascuno nel suo genere  Epist. Per Spinoza, come per tutti i realisti  dialettici, il vero essere è l'elemento eterno e necessario delle cose. È ciò che è affermato iraplicitjimente nelle proposizioni in cui dice ohe tutte cose seguono, cioè si deducono,  dall'essenza di Dio nota se si mettono in rapporto con le altre in cui dice invece che da quest'essenza non seguono, cioè non si deducono, che i modi eterni ed infìniti nota Eth. p. Prop. e Dim., Dim. pr., Dim.  pr., Schol., App.  p., Prefaz. p. Eth, p. Schol. prop., Prop., Schol. prop. Eth, p.  Schol.  prop., App.  p.. Dio, V uomo e la beat, trad. frane, ecc.  Indicherò  pure  Eth.  p. Schol. prop.    tutte le cose fluirono necessariamente dalla natura di Dio come dall'essenza del triangolo segue l'eguaglianza dei suoi angoli a due retti, Prop. e Dim. Prop. tutte le cose sono state detcrminate dalla necessità della divina natura ad  essere e ad operare in un certo modo e App.  p. tutte le co»e  furono predeterminate dall'assoluta natura di Dio. mente per un tempo infinito, ma che avviene  una volta sola, al dì fuori del tempo, e può quindi coiisidf^rarsi come passato quantunque nell'eternità non vi sia, come dice l'autore, né quando né ante né posti,  porche non è in feri, ma già compiuto ab aeterno. Spinoza distingue due njodi di concei)ive le cose, o piuttosto due forme della loro esistenza stessa: da una parte il loro essere empirico, la loro esistenza nel tempo e nella  durata, che noi ci rappresentiamo per i sensi e l'immaginazione; da un'altra parte le cose considerate 8uh specie aeiern itati f(,  che  s4)iio 1'oggetto della scienza assoluta. Considerare le cose sub specie aeternitatis vuol dire concepirle come eterne, e questo non è per Spinoza un pensiero fittizio o una semplice astrazione mentale, ma le cose pensate sub specie aeternitatis sono, secondo  lui, eterne come si pensjino. Le cose, dice, Spinoza, in due modi si concepiscono da noi come attuali cioè come reali: l'uno in (pianto esistono in un certo tempo e in un certo luogo, l'altro in quanto seguono, cioè si deducono, dalla essenza di Dio. Le cose che si concepiscono a questo secondo modo come vere ossia come reali, le concepiamo sotto la specie  Eth,  p. Schol.  prop.  A7/«.  p. Cor. prop.,  p. Dim.  pr.. Dim. pr., Schol., Dim. pr., ecc. Questa eternità, in alcuni dei luoghi  indicati, è espressa come la esclusione di ogni relazione di  tempo e di ogni durata, perchè è in ciò che consiste anzitutto, per Spinoza, reternità quantunque essa implichi inoltre che ciò che in se stesso è al di fuori del tempo e della durata è presente in ciò che occupa tutto il tempo e tutta la  durata, concetto inseparabilmente legato al primo, perchè ciò che ò al di fuori del tempo e della durata è, secondo Spinoza, »;iò che esiste ueeessarianiente. dell'eternità. Noi dobbiamo concepire le cose sotto la specie dell'eternità, perchè è con una eterna necessità che derivano dalla essenza di Dio. Questa specie di eternità sotto cui devono essere concepite è la stessa eternità della natura divina. Dobbiamo concepirle eterne come la natura divina, perchè dobbiamo contemplarle come necessarie e percepire questa loro necessità quale è realmente in se stessa: ora in se  stessa questa necessità delle cose è la stessa necessità della eterna natura di Dio. L'esistenza eterna è l'esistenza che segue nenecessariamente dall'essenza di Dio. È in questo senso che Dio è eterno cioè in quanto la sua essenza implica la sua propria esistenza: è in questo senso pure che le cose si concepiscono sub s[)eci<'ì  aeternitatis, cioè in quanto si concepivscono come esseri reali  per la essenza di Dio, o in quanto per questa essenza involgono l'esistenza vale a dire in quanto la loro esistenza è una conseguenza necessaria dell'essenza di Dio. Che le cose concepite Klh.  \ì. Schol. pr.: Re» duobus modis a  n()l»is ut ìictiialcs coacipiuiitur, vel quateuus easdem cura relatioiie ad certuni tcuipus et locum existere, vel quateuus ipsas in I)eo contili»'ri et ex naturae  divinae necespìtate coupequi conoipiuius. Quae auteni hoc secundo modo ut verae seu reale» coucipiuutur, eas 8ub aeternitatis specie coucipimus. Mh.  p. Dim. pr. COR. PR.: De natura ratiouis est res coucipere sub specie aetwnitatis. DEMONSTR.: De natura enini rationis es rea ut necessarias et non ut contingeutes eoutenipbiri. Hanc autem rerum necessitatem vere, hoc est, ut in se  est percipit. Sed haec rerum necessitas est ipsa Dei aeternae naturae necessitas. Ergo de natura ratioiiis est res sub hac aeternitatis specie contemplari. Eth. p Dim. prop.: Aeternitas est ipsa Dei essentia, quateuus bacc necessariam involvit exìsteutiam. Res igitur sub specie aeternitatis siano per Spinoza delle realtà veramente eterne, oltre che da queste proposizioni risulta dalla sua  dottrina, che la scienza assoluta, cioè il terzo genere di conoscenza, deve contemplare le cose sub specie aeternitatis. Tanto più che secondo il principio del parallelismo orda et connexio idearum idevn. est etc. deve esservi equazione perfetta tra il pensiero e la realtà e che il terzo genere di conoscenza è una conoscenza intuitiva, in cui non hanno luogo, per conseguenza, delle astrazioni  puramente mentali o altre rappresentazioni ausiliarie, ma 1'intelligenza non fa che riprodurre l'oggetto intelligibile come la percezione l'oggetto sensibile. Questa  equivalenza tra una cosa concepita sub specie aeternitatis e una cosa realmente eterna, si vede inoltre nei luoghi in cui espone la sua dottrina dell'eternità della mente umana. La mente umana è eterna in ciuanto è 1'idea del  corpo umano concepito sub specie aeternitatis (4/. ma il corpo umano concepito sub specie aeternitatis è eterno come la mente stessa. Cosi Spinoza parla dell'esistenza presente della mente, che 4c si  <letioisce o si spiega per il tempo e la durata, di8tin«aiendola dalla sua esistenza eterna o al di fuori del tempo e della durata; e parla pure, negli stessi luoghi sub specie aeternitatis concipere  est res concipere, quateuus per Dei essentiam ut entia realia coucipiuutur, sive quatenus per Dei essentiam involvunt existentiam. Eth. p. Schol. pr., Dim. pr., Dim. pr., eco. Dio, l'uomo e la beat. trad. frane, Eth. p.. Schol. prop., p. Schol. prop., />«  ÌH<. ew^^Hrf., ecc. De int emend., ecc. Eth. p.,  Pr., Dim. e Schol. Eth. p. Dim. prop. e Schol. pure p. Schol prop. Ubigli  Btea^ierflMoi,  éitìV esigenza, presente del corpo che <si detìnisee o si spiega per il tempo e la durata^ciò che implica che anche per il corpo vi ha un'esistenza eterna, al di fuori del tempo e della durata. Così ancora la mente, in (pianto si conosce o si considera sub specie aeteruitatis vale lo stesso che la mente in quanto è eterna, e le cose realmente eterne, come quelle considerate sub specie aeternitatis,  hanno per contrapposto le cose € in quanto si considerano con relazione a un certo tempo e a un certo luogo. Che il corpo umano deve avere, come la mente umana, una doppia esistenza, l'una temporanea e l'altra eterna, è d'altronde la conseguenza inevitabile di uno dei principii fondamentali del sistema di Spinoza, cioè del parallelismo  P. Dilli, pi-., Dim. pr., Schol. pr e  Diiii. pure  p..  Schol. prop. P. Dim. pr., o Dim. prop. Eth,  p. Prop. mens uoàtra quatenus se et corpus sub specie aeternitatis co«;noscit e Diin. lo stesso, ma invece di cognoscit, eomipil e Prop. Deus quatenus per esseutiam humanae mentis sub specie aeternitatis cousideratam explicari potest. pure Dimostr. prop.: mentis natura quatenus ipsa ut aeterna veritas per Dei uaturam consideratur. Quatenus  ut aeterna veritas per Dei natnrnm consideratur non differisce essenzialmente dalla espressione più abituale considerata sub specie aeternitatis^perchè le cose si considerano sub specie aeternitatis in quanto si riguardano come verità  necessarie dedotte dell'essenza di Dio. lo Schol. della prop., riportato nella nota. La frase di questo scolio quatenus ex naturae divinne necessitate conseqni  concipimus è evidentemente l'equivalente di quella della Dim. prop. quatenus ut aeterna veritas per Dei naturam consideratur. Schol. prop. e Sch. prop. pure i luoghi della p. V. indie, nelle duo note  prima della precedrnte. psico-tìsico date le sue dottrine che la mente è V idea del proprio corpo, e che la nostra mente, in quanto è eterna, è l'idea del nostro corpo concepito sub specie aeternitatis. Non può esservi, secondo Spinoza, né uno spirito senza corpo né un corpo senza spirito, perché il tìsico e lo psichico, sono per lui le due facce inseparabili sotto cui si rivela una realtà unica. Spinoza afferma, come conseguenze del parallelismo psico-fisico, che le idee delle cose singolari, cioè le loro menti o le loro anime, non durano che mentre durano le cose stesse; che: i'anima non è stata mai senza corpo, né il corpo senza anima; che l'esistenza presente della nostra mente cioè quella che si definisce per il tempo e la durata cessa quando cessa l'esistenza presente del nostro corpo. Per la stessa ragione deve ammettere se vi ha, oltre all'esistenza presente, un'esistenza eterna della nostra mente che questa seconda esistenza ha luogo anche per il nostro  corpo, perché  il corpo di cui la nostra mente é l'idea nella sua esistenza eterna, é il corpo stesso della sua esistenza presente, concepito sub specie aeternitatis. Tutto ha dunque, secondo Spinoza, una doppia esistenza, l'una temporanea e 1'altra eterna, il nostro corpo come la nostra mente, e come il nostro corpo tutti gli oggetti contemplati dalla ragione, perché la ragione, come abbiamo  visto, deve contemplare Uth, p. Propr., Prop., e Cor. e Schol. di questa. nota. P. Cor. e Schol. pr. Dio Vuomo e la beat. trad. frane, la nota Eth. P. Schol. pr. Schol. prop. p. ciò che diremo nella nota finale di questo paragrafo sul vero significato della dottrina dell'eternità della mente umana. tutto sub specie aeternitatis. Essa deve conteraplare sub specie aeteruitatis tutte le cose presenti,  passate e future, salvo che deve contemplarle non come presenti, passate o future, ma come eterne. Gli avvenimenti stessi devono essere contemplati sub specie aeternitatis, perchè anch'essi sono oggetti della ragione GRICE RUBICON GIULIO CESARE morte di Socrate, ed è solo la loro temporaneità che non è che oggetto dell'immaginazione. Tutti gli avvenimenti, come tutti gli  oggetti, esistono dunque a un doppio stato: l'uno nel tempo e nella durata, come li conosce l'immaginazione, e l'altro fuori del tempo ed eterno, come li conosce la ragione. Non si deve credere però che le cose considerate sub specie aeternitatis sono gli oggetti individuali con tutti i loro earatteri individuali, e con questa sola differenza, che bisogna rappresentarseli, non come temporanei,  ma come eterni. Le cose concepite sub specie aeternitatis non sono delle finzioni, ma ut verae seti reales concipiuntur. Perciò devono rappresentare ciò che vi lia di etemo e d'immutabile nelle cose, Telemeuto costante della natura, che è sempre lo stesso nella successione e il cangiamento incessante dei fenomeni. Non sono, a parlar prnpriamente, gli oggetti individuali, con le circostanze che fanno di ciascuno tale o tal altro individuo distinto e differente dagli altri, che bisogna rappresentarsi come eterni, ma le forme o i tipi costanti della natura – le quattro stagioni di VIVALDI --, che essi rappresentano, e di cni non sono che degli esempi. Le cose concepite sub specie aeternitatis sono gli oggetti della scienza assoluta, cit»è del terzo genere di conoscenza: ma la realtà  empirica, 1'individuo, non può essere, secondo Spinoza, un oggetto del terzo genere di conoscenza. Noi abbiamo visto infatti che il terzo genere di conoscenza consiste a dedurre le cose dall'essenza di Dio, e che le cose<singolari o che hanno un'esistenza determinata non seguono, cioè non possono dedursi, dall'essenza di Dio. Inoltre il terzo genere di conoscenza consta d'idee adequate;  ma Spinoza non ammette che delle cose empiriche, individuali, vi siano delle idee adequate. Noi non abbiamo che una cognizione inadequata, o delle idee mutilate e confuse, sia del nostro corpo, considerato come oggetto individuale, e delle sue modificazioni, sia delle parti che locompongono e dei corpi esterni considerati come ogi^etti individuali, sia della nostra mente e delle idee   della nostra mente corrispondenti alle modificazioni del nostro corpo. Tutti gli oggetti empirici, individuali, noi non ce li rappresentiamo che mediante le modificazioni del nostro corpo, e le rappresentazioni così formate costituiscono l'immagina Eht. p. prop. e Dim. Schol. prop. p.. £th. p. Soho). pr!  (oli. uella nota. i 1. cit. nella nota. parag. Mh. p. Schol. pr., Dim. pr., Sch. prop.,  p.  Prop., De int. emendai.,  eoo. Eth. p. Prop., Pr ,  Cor. pr. .Eth,  p. Pr. Eth,  p.  Pr.  Eth.  p.  Cor.  pr., Pr., Pr., Cor. pr.,  p. Ili Afttct, gener, definii, Eth, p, Pr, Schol. pr., Prop., Cor. prop.  Eth,  p.  Schol.  pr. Eth,  p. Prop.,  Propr., Prop. e Cor., Cor. prop., Schol. pr.,  p. Prop., ecc.  K zione, che  noQ  è che il grado infimo di conoscenza, e non consiste che in idee inadequate. Che le cose concepite sub specie aeternitatis si svestano della loro individualità, risulta del resto dai luoghi precedentemente citati, in cui esse si contrappongono alle cose concepite con relazione a un certo tempo e un certo luogo perchè la posizione in un tempo e in un luogo determinati sono state sempre riguardate come le condizioni dell'esistenza individuale. Ciò che si concepisce sub specie  aeternitatis, non sono, a parlar propriamente, le cose stesse, ma le essenze delle cose. L'essenza, in effetfco, è \\u' eterna verità , cioè necessaria e che si verifica sempre, perchè è sempre la stessa nella sue Eth. p. Schol. pr.  i^or.  prop. Scliol. prop. p. Prop.,  De ini. emend.  Eth,  p. Schol. pr., Cor. pr., Schol. pr. De ini. emend. ecc. -Che delle cose inclividuali non VI  siano  idee adequate    «i  vede pure dalla distinzione tra gh atìetti che si riferiscono alle cose di cui abbiamo intelligenza e quelli che si riferiscono alle C(»se singolari Ufh. p Prop. e  Schol.  prop. u., e dalla proposizione che formandoci delle idee chiare e distinte, cioè adequate doi nostri affetti, h separiamo dal pensiero delle loro cause esterne cioè delle cose particolari ohe ne sono l'oggetto o V occasione e li uniamo invece a dei pensieri veri Sch. pr. e  Schol pr. Schol. prop. e  Schol. prop.  p. V. Età. Exiplicat. Def.,  Schol. prop., Schol. prop.,  De ini. em. Dire di una cosa che  si considera come un'eterna verità GRICE CITY OF ETERNAL TRUTH equivale per Spinoza a dire che € si considera sub specie aeternitatis Eth. Dim. prop. cit. nella  nota, e questa nota. De int. em. De ini. em. n. cessione degrindividui, e una verità che si verifica sempre, per un apriorista radicale come Spinoza, è una verità necessaria. E infatti il terzo genere di conoscenza il cui  oggetto sono, come sappiamo, le cose considerate sub specie aeternitatis deduce propriamente dall'essenza di Dio, non le cose stesse, ma le loro essenze. Così Spinoza preferisce di dire che ciò che si considera sub specie aeternitatis è l'essenza del corpo umano, anziché il corpo umano stesso e se non fa lo stesso per la mente, è perchè e.ii^li vuol esporre la sua dottrina della eternità  della mente umana in una forma che l'avvicini, più che sia possibile, alla dottrina comune dell'immortalità dell'anima, e per un'altra ragione che vedremo nella nota in fine del paragrafo. Ci si potrebbe obbiettare in verità che l'essenza d'una cosa non differisce per Spinoza dalla cosa st-essa, perchè egli dice in una definizione che all'essenza d'una cosa appartiene ciò, dato il quale, la cosa  necessariamente è posta, e tolto il quale, la cosa necessariamente è tolta, o ciò senza cui la cosa e viceversa ciò che senza la cosa non può uè essere uè concepirsi», facendo così entrare nell'idea dell'essenza d'una cosa individuale tutte le note che entrano nell'idea di questa cosa stessa. Ma è chiaro che nell'uso della parola essenza egli non si conforma sempre a questa definizione: quando  dice che l'essenza è un'eterna verità, egli Jl)  Elh. p. Schol. pr. Elh. p.  Schol.  pr. e  De ini. em. Elh. p. Prop.  Elh.  p.  Def.  È in questo significato che intende la parola essenza nell'Ass., nello Schol. della prop., nella Prop e nel Cor. della  prop., parte. b  n Don può intendere per questo termine che ciò che intendono generalmente gli altri filosofi, cioè V essenza comune  a tutti gl'individui d'una specie, l'oggetto d'una definizione generale. Che sia questa l'essenza che deve essere contemplata sub specie aeternitatis è ctmfermato dal Trattato De int emend, in cui dice che le essenze delle cose singolari mutabili non devono ricavarsi da queste cose stesse, ma devono cercarsi nelle cose fisse ed eterne, le quali possono riguardarsi come dei generi delle  definizioni delle cose singolari mutabili. A queste essenze cosi intese cioè come oggetti delle definizioni generali, concepiti separatamente dalle proprietà particolari a tale o tal altro individuo, Spinoza non attribuisce, come gli altri filosofi, una semplice esistenza concettuale, ma una realtà propria e distinta, perchè le cose considerate sub specie aeternitatis non sono per lui, come  abbiamo visto, delle astrazioni mentali, ma delle cose veramente eterne e sussistenti per se stesse. Evidentemente, le cose considerate sub specie aeternitatis non sono altro che i modi eterni ed infiniti dell'^^ica e le cose fisse ed eterne del Trattato De intellectus emendatione. Infatti le cose considerate sub specie aeternitatis sono quelle che formano 1'oggetto del terzo genere di conoscenza,  e questo consiste a dedurre le cose dell'essenza di Dio: ora, secondo l'Etica, dall'essenza di Dio non seguono, cioè non possono dedursi, che i modi eterni ed infiniti, e secondo il Trattato de int. emend., la serie delle cause, gli oggetti che la ragione deduce gli uni dagli altri, non sono che le cose, luogo che riporteremo nel paragr. Prop. p.. fisse ed eterne. Noi possiamo dunque applicare alle cose considerate  ^«6 specie aeternitatis ciò che Spinoza afferma dei modi eterni ed infiniti o delle cose fisse ed eterne e viceversa. Ora noi abbiamo visto che le cose fisse ed eterne o i modi eterni ed infiniti hanno un'esistenza distinta da quella delle cose singolari e temporanee ma sono presenti in esse e ne sono le cause immanenti e non sono che esse stesse a uno stato «.9//77^/o, cioè separate da alcune  delle loro determinazioni. Lo stesso dobbiamo dunque dire delle cose considerate sub specie aeternitatis. Spinoza le identifica con le cose sin-ohiri e temporanee riguardandole come queste cose stes'se concepite di un altro modo, perche le cose considerate sub specie aeternitatis e le cose singolari e temporanee sono e stesse cose a due gradi differenti di determinazione, le une a uno  stato astratto, le altre allo stato concreto. Ma può al tempo stesso distinguerle, e può ammettere che le une sono presenti nelle altre e ne sono le cause immanenti, perchè secondo lui l'astratto esiste per sé, quantunque non si trovi che nel concreto, e r effetto è la causa stessa a uno stato più avanzato di determinazione. La sola difficoltà che presenta rinterpretazione di questa dottrina di  Spinoza è di sapere con precisione quali sono le determinazioni del rea  Le cose considerate sub specie aeternitatis non sarebbero considerate così, se non fossero, non solo esistenti fuori del tempo e della durata, come ce le rappresenta Spinoza, ma anche presenti nelle cose che occupano tutto il tempo e la durata: è a questa sola condizione che una cosa esistente fuori del tempo e della  durata può essere riguardata come eterna, perchè noi intendiamo per eternità una durata infinita, o, come dice Spinoza, la fruizione infinita dell'esistenza. le cioè del reale empirico, delle cose esistenti nel tempo e nella durata, di cui bisogna fare astrazione per concepire le cose sub specie aeternitatis, cioè per farne delle cose fisse ed eterne, dei modi eterni ed infiniti di Dio. Questa  quistione siccome le cose considerate sub specie aeternitatis sono le cose in quanto formano oggetto del terzo genere di conoscenza, o, ciò che è lo stesso, in quanto seguono necessariamente, cioè si deducono, dalla essenza di Dio equivale a quella di sapere qual è precisamente l'oggetto del terzo genere di conoscenza, in altri termini quali sono le determinazioni delle cose che Spinoza  rignanhi come necessarie e deducibili dall'essenza di Dio, e quali quelle che riguarda come accidentali e non deducibili. Senza dubbio ciò che Spinoza riguarda come necessario e come deducibile è ciò che vi ha di eterno e d'immutabile nelle cose, l'elemento permanente e sempre identico della natura: ma si tratta appunto di sapere ciò che egli considera, nelle cose, come eterno ed  immutabile, e al tempo stesso come esistente per sé, benché presente nelle cose stesse; quale è nelle cose l'elemento variabile e fenomenale che non è che l'oggetto deìV immaginazione, e quale l'elemento sempre ideutico a se stesso e veramente reale che è l'oggetto della vera scienza. Su questa quistione, bisogna convenirne, noi non troviamo quasi altro in Spinoza, d'una maniera  esplicita, che ciò che possiamo trovare in qualsiasi altro realista dialettico, p. e. in Platone. L'elemento eterno e necessario della natura si distingue dalle cose individuali, è costituito dalle loro essenze comuni, ed esiste per sé benché presente nelle cose individuali, al di Nota fuori della successione e del cangiamento. Ciò implica che, per concepire quest'elemento eterno e necessario, noi  dobbiamo fare astrazione di ogni determinazione del reale come complesso di cose individuali, e non includere nei nostri concetti che 1'universale puro, le forme e le leggi generali della natura. Anche in ciò Spinoza si accorda esplicitamente con gli altri realisti dialettici. Le basi della nostra conoscenza razionale sono, dice Spinoza, delle nozioni comuni a tutti gli uomini, che  rappresentano ciò che vi ha di comune a tutte le cose: di queste proprietà comuni di tutte le cose noi  a4>biawio delle idee adequate, e siccome esse non costituiscono l'essenza di alcuna cosa singoiar©  Bel senso della parola essenza di cui si tratta nella Def. P., devono essere concepite senza alcuna relazione di tempo, ma sub specie aeternitatis. Noi abbiamo anche idee adequate di ciò  che è comune al corpo umano e ad altri corpi esterni e alle loro parti: infine tutte le idee che si deducono da idee che sono, nella nostra mente, adequate, sono anch'esse, nella nostra mente, adequate. La conoscenza razionale è una conoscenza universale, che è costituita da nozioni comuni cioè generali e da idee adequate delle proprietà delle cose e non delle cose stesse; e se Spinoza  contrappone la conoscenza del terzo genere a quella del secondo in Mh. p. Cor. prop. Prop. e  Cor. P. Prop. Cor. prop. P. Prop. Prop. P. Sohol. prop. e  Schol. prop. p. quanto la prima lia per oggetto il singolare, ciò non è perchè essa non sia una conoscenza universale come quella del secondo genere, ma perchè l'universale che è l'oggetto del secondo genere di conoscenza non è   che la collezione dei particolari, astrattamente considerata, mentre quello che è 1'oggetto del terzo genere esiste per se stesso indipendentemente dalle cose particolari, ed è quindi singolare anch'esso quantunque non  nello stesso senso che le cose che si chiamano propriamente singolari, cioè le mutabili. E infatti ciò che nel Cor alla prop. parte ha detto del 2° genere di conoscenza, che esso è  costituito di nozioni comuni e di idee adequate delle proprietà delle cose, Spinoza lo considera, nelle  Dim. delle proposizioni della parte come una definizione generale della ragione, quindi non può non applicarsi anche al 3«genere di conoscenza, che è la conoscenza razionale per eccellenza.  Si vede  anche dal primo di questi due luoghi che queste € proprietà della cose di cui si tratta   nel Cor. prop. parte, sono, le proprietà comuni delle cose», cioè, non le proprietà comuni a tutte le cose di cui nella  Prop. parte , ma  tutte le proprietà generiche e specifiche in generale perchè nella Dim. della Hlh,  p. Sch.  pr. Elh  p. Schol. prop., Schol. prop., De ini. em. Nel De int. em. nello stesso luogo in cui chiama le cose fisse ed eterne singolari, distinguendole dalle cose singolari «mutabili, intende per singolari senz'altro le mutabili, cioè le cose singolari nel senso ordinario. De natura rationis est res sub quadam aeternitatis specie percipere Cor. prop. parte. prop. p. V gli affetti clie si riferiscono alle proprietà comuni delle cose sono tutti quelli che nascono dalla ragione, i quali vengono apposti a quelli che si riferiscono alle cose singolari, e nello Schol. alla  prop. n. in cui si cita questa prop. gli 4C affetti che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose sono detti invece gli affètti che si riferiscono alle cose di cui abbiamo intelligenza e contrapposti a quelli che si riferiscono alle cose che concepiamo d'una maniera confusa e mutilata, cioè alle cose singolari di cui nella prop. È superfluo, del resto, dimostrare che il 3" srenere di conoscenza ha  per oggetto, secondo Spinoza, l'universale in se stesso^do\)o che abbiamo visto che esso non ha per os»getto le cose individuali, e che non si riferisce che alle essenze comuni di queste cose. Ciò che bisogna notare è che questi uni vergali, di cui Spinoza fa delle cose eterne sussistenti per se stesse, comprendono per lui tutto ciò che vi ha di generale nelle cose, sino alle loro leggi più  particolari e alle loro specie ultime. Noi abbiamo visto infatti che si deve concepire sub specie aeternitatis V essenza del corpo umano e quella della mente umana, e similmente le essenze di tutte le cose, perchè il terzo genere di coli) Nella Dim. delhi  prop. p. le cose che intendiamo chinramente e distintamente GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION cioè  gli oggetti della conoscenza razionale, non sono solamente le proprietà comuni delle cose, ma anche ciò che può dedursi da esse: ma anche questo non può essere che alcun che di generale IF IT’S HAIRY-COATED IT IS HAIRY AND IT IS COATED,  perchè di tutte le cose obo intendiamo chiaramenle e distintamente GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION  (e non delle sole 4 proprietà comuni delle cose si dice che le loro rappresentazioni vengouo in noi eccitate più spesso che quelle delle altre evidentemente perchè queste sono particolari ed esse sono generali. I  iiosceuza consiste a dedurre dalPesseuza di Dio tutte le cose^cioè propriamente, le loro essenze. Aggiungiamo che di tutte le modificazioni del nostro corpo e di tutti i nostri  affetti noi possiamo formarci delle idee chiare e distinte GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION, cioè adequate, e, per conseguenza, conoscerli col  terzo genere di conoscenza; che dall'essenza di Dio seguono necessariamente, insieme alla mente umana, tutti i suoi fenon\eni, i diversi gradi di perfezione degli esseri e tutto l'ordine della natura; e che, perchè  il nostro pensiero rappresenti la realtà, dobbiamo produrre tutte le nostre idee da quella dell'essenza di Dio per tutte le nostre idee dobbiamo intendere tutti i nostri concetti generali; per conseguenza per tutti i concetti generali vi devono essere degli oggetti  corrispondenti, cioè delle  € cose fisse ed eterne, che si deducono dall'essenza di Dio. Noi abbiamo detto, commentando la  proposizione di Spinoza che la ragione deve contemplare sub specie  a6<<?rw/<a/is  tutte le cose presenti, passate e future: salvo che deve contemplarle, non come presenti, passate o future, ma come eterne. Avremmo dovuto dire, per essere esatti, che la  ragione deve fare astnizione, insieme alla loro temporaneità, di tutte le circostanze, che sono legate a questa temporaneità, vale a  dire di tutte le loro particolarità  puramente individuali, che sarebbe assurdo di contemplare sub specie aeternitatis, perchè sarebbe assurdo di farne delle forme stabili, costanti, della natura. Eth. p. Pr., Prop. e, Cor., Prop., Prop, Scbol. prop. Eth. Pref.  della  p. Elh. App p. Eth. p. Prop. e Sehol. De hit. em. Potrebbe credersi, ed effettivamente è stato creduto da alcuno, che le € cose  considerate sub specie aeternifatis )>  o  le «( cose fisse ed eterne siano identiche alle Idee platoniche IL CERCHIO DI GRICE. E nel fatto le une e le altre sono delle astrazioni realizzate; le une e le altre rappresentano l'elemento eterno e necessario delle cose; le une e le altre sono la constantificazione dell'universale, che è considerato egualmente nei due sistemi come avente un'esistenza  distinta da quelle delle cose individuali, ma come presente in queste cose e causa immanente di esse. Ma non si può ammettere che Spinoza jibbia determinato dello stesso modo che Platone «luesf universale che ha come lui sostantifìcato. Per separare l'elemento eterno e necessario delle cose dall'elemento mutabile e contingente, Platone e Spinoza hanno fatto due ipotesi differenti, e il  confronto dei due sistemi ci mostra che le determinazioni della realtà femmcììale, di cui bisogna fare astrazione per concepire il vero reale, che è 1'oggetto della vera scienza, sono maggiori in Platone che in Spinoza, in altri termini, che le astrazioni realizzate del primo sono più astratte che quelle del secondo. Così l'editore di Spinoza Hermann nella prefazione al volume dice del  Trattato De intellectus emcudatione: lu hoc traetatu persequitnr divini Platonis de idcis doctrinam. Le parole ohe seguono ravvicinano il metodo che Spinoza espone in questo trattato, alla dialettica tii Hegel. L'autore ha un'idea giusta della dottrina di Spinoza nei suoi tratti, per dir così, generici, vale a dire comprende perfettamente che è un realismo dialettico, e la identificazione che  ejzli fa delle cose fisse ed eterno con le Ideo di Phitone non è che l'esagerazione di una verità evidente, cioè l'affinità strettissima tra i sistemi dei due filosofi. Il realista dialettico non pretende di dedurre tutto l'universo reale, con tutte le circostanze particolari che sono proprie agli individui che lo costituiscono, ma solamente ciò che vi ha di costante nella natura, le leggi e le forme  generali delle cose. L'esistenza di questo o quell'individuo determinato e le proprietà peculiari che li caratterizzano, sono, secondo il realista dialettico, indeducibilì in altri termini, non sono necessarie, ma contingenti; ciò che è necessario, ciò che deve dedursi, è che esiste il tipo generale secondo cui gì'individui sono costituiti, ma non che questo tipo si realizza in tali o tali altri  individui.  Ora l'idea che è il germe del realismo dialettico, è che l'incatenamento deduttivo dei concetti rappresenta l'incatenamento causale delle cose. Dunque, la serie dei principii e delle conseguenze, in quest'incatenamento deduttivo, non essendo che concetti delle forme generali delle cose. la serie delle cause e degli effetti, nell'incatenamento causale corrispondente, non possono essere che  le stesse forme generali delle cose, che sono gli oggetti di questi concet^ ti. Supponiamo che queste forme generali delle cose, che il realista dialettico deduce, si concepiscano, non astrazion facendo dalle circostanze degli oggetti individuali con cui sono congiunte nella realtà, ma unitamente a quesie circostanze: in questo caso esse non sarebbero più delle conseguenze necessarie dei  principii da cui si deducono perchè queste circostanze non seguono da questi principii ciò che torna a dire che non né sarebbero atfatt<' delle conseguenze. Ma, secondo il realismo dialettico, la conseguenza è lo stesso che l'efletto, e il principio lo stesso che la causa. Così, se queste forme generali delle cose si concepiscono unitumeute alle circostanze degli oggetli individuali con cui  sono unite nella realtà, e non astrazion facendo da queste circostanze, esse non sono più gli effetti necessari delle cause da cui derivano, ciò che torna a dire che non ne sono affatto degli effetti, perchè la causa è una causa e l'effetto è un effetto per il legame necessario che vi ha o piuttosto che il realista dialettico e, in generale, il metafisico A TYPE OF PIROT, ammette che vi sia tra la causa e l'effetto. Per conseguenza, affinchè la sua deduzione rappresenti il movimento stesso, lo sviluppo, dell'essere -in altri termini affinchè il principio logico sia identico alla causa e la conseguenza all'effetto il realista dialettico deve concepire queste forme generali delle cose, che egli deduce, astrazion facendo dalle circostanze degli oggetti individuali con cui sono unite nella  realtà  cioè in quella che noi chiamiamo così, nella realtà empirica: ciò vuol dire che deve considerarle come sussistenti per se stesse, come aventi un'esistenza propria e distinta da quella degli oggetti individuali in cui si trovano, in una parola che di queste astrazioni deve fare delle realtà. A<»giungiamo che deve farne, non solamente delle realtà, ma le sole realtà vere, perchè lo sviluppo del  pensiero che deduce essendo identico allo sviluppo reale delle cose, non può esservi altro di veramente reale òhe ciò che si deduce, e il resto non può essere che fenomeno. Spinoza si accorda con Platone in ciò, che l'uno e 1'altro concepiscono queste forme generali delle cose, vale a dire ciò che vi ha di eterno e di costante nella natura, ciò che è necessario e deducibile, come esistenti  per se stesse, indipendentemente dagli oggetti dell'esperienza in cui si trovano, e come costituenti la sola vera realtà: ma essi differiscono in ciò, che, come abbiamo detto, il secofido, nel concetto ch'egli si forma di quest^elemento eterno, necessario e veramente reale delle cose, conserva certe determinazioni della realtà empirica, che il primo ha pure soppresse. Per dare un'esistenza  per sé a quest'elemento eterno e necessario delle cose, e separarlo dall'elemento variabile e contingente, Platone fa l'ipotesi àeWuno nei molti. Quest'elemento eterno e necessario delle cose non è che le concordanze delle esistenze individuali successive, i punti di somiglianza che vi hanno fra di esse: Platone suppone che queste somiglianze siano delle identità parziali, che gl'individui  di una specie o di un genere si somigliano perchè contengono alcun che di identico, qualche cosa che, una in se stessa, sia presente al tempo medesimo, pur restando una stessa e identica cosa, in tutti gl'individui della specie o del genere. Ciò è, come sappiamo, l'Idea platonica. Ora è evidente che vi ha nella realtà empirica una determinazione anch'essa eterna e necessaria, ma che  tuttavia non è rappresentata nel mondo delle Idee platoniche: è la moltiplicità degli esseri GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING in cui si realizza il tipo generico e specifico. Perchè l'Idea GRICE CODE PLATONISM ARISTOTELIANISM, cioè il tipo generico o specifico, si realizza in una moltitudine d'individui? È questo, secondo Platone, un fatto contingente, o non deducibile, e che, per conseguenza, non ha alcuna ragione di essere; perchè tutto ciò che è necessario, a deducibile, deve essere rappresentato nel mondo delle Idee. Ora l'Idea è come un individuo unico, presente al temiM) stesso nella moltiplicità degl'individui empirici» ma in se stessa senza alcuna moltiplicità individuale. La moltiplicità individuale è esteriore all'Idea, e non è che un fenomeno ciascuna Idea è unica, ma apparisce come molti, perchè la vera realtti è l'Idea, ciò che è necessario e deducibile, e tutto il resto non è che fenomeno. Ma è evidente che, se è un fatto contin/jente che esista tale o tal altro invividuo, se è ancora un fatto contm^ew /e che esista un tal numero determinato d'individui, l'esistenza di una moltitudine d'individui è, secondo i  preli) Rep. supposti del realismo dialettico, un fatto necessario altrettanto che l'esistenza della forma generale che essi rappresentano, perchè, come è un fatto costante della natura che esiste, nelle cose, questa forma generale, così è un fatto costante della natura che essa è rappresentata da una moltitudine d'individui. Ora è in ciò che le «cose considerate sub specie aeternitatis o le cose  fìsse ed eterne di Spinoza difteriscono dalle Idee platoniche: esse non sono, come queste, delle unità senza moltiplicità^ ma accolgono in se stesse la moltiplicità che noi osserviamo nei fenomeni, vale a dire rappresentano, insieme agli altri fatti costanti e necessari della natura, questo fatto altrettanto costante e necessario che le forme generali delle cose si realizzano in una moltitudine  d'individui, e sono realmente delle specie e dei generi^e non degl'individui eterni come le Idee platoniche. E infatti Spinoza non fa consistere, come Platone, il processo per cui l'iutelligibile si astrae dalla realtà empirica, in una riduzione del multiplo all'uno, cioè nella soppressione della moltiplicità, ma in una eternizzazione del temporaneo, nella soppressione del tempo e della durata. Ciò implica che l'intelligibile, per lui, deve comprendere in sé tutto ciò che vi ha di eterno nella natura, per conseguenza anche la moltiplicità degl'individui. Semplicemente questi devono essere concepiti, non come temporanei e successivi, ma come eterni perchè le astrazioni realizzate di Spinoza sono in se stesse fuori del tempo e della durata, ma presenti in ciò che occupa tutto il  tempo e tutta la dur.ita e senza  le circostanze particolari che fanno degl'individui dell'esperienza tali individui determinati perchè queste circostanze non fanno parte dell'elemento eterno e necessario della natura, ma costituiscono 1'elemento variabile e contingente. Noi possiamo dire, in breve, che le cose fisse ed eterne di Spinoza sono le Idee platoniche cadute nella raoltiplicità, cioè  concepite ciascuna non come una, come le concepiva Piatone, ma come molte. Ciò è confermato dal luo^o del  J>e  in teilectìis emendatione, in cui enumera le proprietà dell'intelletto. Una di queste proprietà è: Res non tara sub duratione, quam sub quadam specie aeternitatis percipit et numero infinito; vel potius ad res percipieu«, das nec ad numerum, nec ad durationem attendi t. €  Quum antem res imaginatur, eas sub certo numero, «  eterminata duratione et quantitate percipit . Quando soggiunge vel potius nec ad numerum attendit, egli non intende dire che l'intelletto non si rappresenta le cose come multiple perchè in questo caso non si comprenderebbe come prima abbia potuto dire che le percepisce in numero infinito ma che non se le rappresenta di {%n  numero determinato, come si vede dal contrapposto con Pimmaginazione che le percepisce invece sub certo numero. Infatti come abbiamo notato, che il tipo generico o specifico sia rappresentato da tale o tal altro numero determinato d'individui non è nn fatto costante della natura, ma appartiene all'elemento mutabile e contingente delle cose. Noi spiegheremo in seguito in qual senso  l' intelletto percepisca le cose in numero infinito, e in qual senso le percepisca senza un numero determinato. Che il realismo di Spinoza non sia precisamente quello di Platone e del medio evo, cioè l'obbiettivazione delle idee generali del concettualismo, si vede anche da certe sue proposizioni, che parrebbero dare ragione a (piegli espositori, che, come Ritter, fanno di lui un nominalista. Spinoza rigetta, della maniera più esplicita, la realtà degli universali nel senso tradizionale cioè, come abbiamo detto, dei concetti generali realizzati. È ciò che egli fa più volte a proposito della quistione del libero arbitrio. La dottrina del libero arbitrio, secondo lui, suppone che le volizioni abbiano per causa, non altri fatti precedenti, ma la volontà, e riguarda per conseguenza quest'astrazione, la volontà, come avente una esistenza per sé, distinta da quella delle volizioni stesse. Ora la volontà, dice Spinoza, non è che un essere di ragione. Essa dirterisce da questa e quella volizione allo stesso modo che la bianchezza da questo  e quel bianco, o 1'umanità da questo e quell'uomo; sicché è altrettanto impossibile a concepire che la volontà sia causa di questa e quella volizione, quanto che Vumanità sia causa di Pietro STRAWSON e di Paolo GRICE PAYING PETER TO PAY PAUL ciò che intanto accadrebbe nel sistema di Spinoza, se l'essenza dell'uomo considerata sub specie aeternitatis fosse 1'umanità così intesa, cioè in termini platonici, l'Idea dell'uomo. Alcuni più abituati a occupare il loro spirito con degli esseri di ragione che con le cose particolari, che sole esistono realmente nella natura, trattano questi esseri di ragione, non come tali, ma come esseri reali. Poiché l'uomo, avendo tale o tal volizione GRICE KENNY VOLITING, ne fa un modo generale di pensare, che chiama volontà,  come dall'idea di tale o tal uomo particolare si fa un'idea generale dell' uomoj e siccome non sa separare gli esseri reali dagìi esseri di ragione, ne segue che considera questi come delle cose reali. La volontà, come abbiamo detto, non essendo che l'idea generalizzata di tale o tal volizione particolare, non è per conseguenza che un modo del pensiero, un ens rationis e non un ens reale;  niente per conseguenza  Epist.. può essere causato da ee^sa, perchè niente può venire da niente. Non vi ha alcuna facoltà assoluta di volere, come non vi ha alcuna facoltà assoluta d'intendere, di desiderare, di amare, ecc. Queste e simili facoltà o sono affatto fittizie o non sono niente di più che esseri metaiìsici, cioè universali, che sogliamo formare dai particolari vale a dire, come dice  in seguito, sono delle nozioni univc^rsali, che non si distinguono dai singolari da cui le forniamo; sicché l'intelletto e la volontà sono a questa e quell'idea o a questa e quella volizione, come la lapideità è a questa e quella pietra, o l'uomo a Pietro STRAWSON e a Paolo GRICE ROBBING PETER TO PAY PAUL. Delle proposizioni simili troviamo nello Schol. alla  prop., combattendo,  non il concetto che le volizioni abbiamo per causa la volontà PEARS FREEDOM OF THE WILL GRICE ILL-WILL, ma quello che la volontà si distingua dall'intelligenza, e sia qualche cosa di altro che l'affermazione con cui l'autore la identifica. La volontà è un essere universale c/oéu?t'tdea, con cui spieghiamo tutte le volizioni singolari, vale a dire ciò che vi ha in queste di comune GRICE’S DEFINITION OF WILLING THAT AND JUDGING THAT IN TERMS OF WILLING THAT. E poi, dopo aver detto che 1'affermazione, in cui consiste la volontà, non è in tutte le idee che in quanto si concepisce astrattamente: Per cui viene sovratutto da notare quanto facilmente e' inijanniamo, (juando confondiamo gli universali coi singolari, e gli esseri di mgioue e gli astratti con le cose reali. La realtà degli universali, nel senso platonico e del realismo del medio evo, è pure esplicitamente negata a proposito della dottrina che Dio Dio, Vtimio e la beat, trad.  frane. Eth. Schol. prop. Per universale intende i concetti generali del concettualismo, come si vede dalle parole che vengono in seguito; L'universale si dice egualmente di uno, di molti e d'infiniti  individui. non conosce le cose particolari, ma solamente i generi. Quantunque gli aristotelici dicano che le idee platoniche non esistono e non sono che degli esseri di ragione, tuttavia anch'essi sembrano spesso considerarle come cose reali, poiché dicono espressamente che la Provvidenza non ha riguardo agl'individui, ma solamente ai generi; che p. e. Dio non ha mai applicato la sua  provvidenza a Bucefalo, ma al genere cavallo in generale. Essi dicono ancora che Dio non ha la scienza delle cose particolari, ma solo delle cose generali, che, nella loro opinione, sono immutabili; ciò che attesta la loro ignoranza, perchè sono precisamente le cose particolari che hanno una causa, e non le generali, poiché queste non sono niente. E altrove: Intanto non bisogna trasandare l'errore di alcuni che stabiliscono che Dio non conosce che le cose eterne, quali gli angeli e i cieli, che fìnsero ingenerabili e incorruttibili per la loro natura; e che di  questo mondo non conosce che le specie, che sarebbero anch'esse ingenerabili e incorruttibili. Questi sembra che vogliano errare a bello studio ed escogitare le cose pili assurde. Stabiliscono che Dio ignora le cose realmente  esistenti e gli attribuiscono la conoscenza degli universali, che non sono, né hanno alcun'essenza oltre i singolari. Ma ciò che mostra della maniera più evidente che le cose fìsse ed eterne di Spinoza non sono Vuno nei molti come le Idee platoniche, ma contengono in sé la moltiplicità individuale, è il modo in cui egli concepisce Dio e i suoi attributi e modi  necessari. Le cose fìsse ed  eterne sono Dio stesso nei gradi differenti della sua Dio, Vuomo e la beat., trad. fr. Cogitatorum metaphysicorum. determinazione progressiva meno l'ultimo in cui diviene un complessi di esistenze temporanee e contingenti: cioè Dio come essere assolutamente indeterminato, come cosa estesa e come cosa pensante assolutamente considerate cioè astrazion facendo dalle loro  moditìcazioni  e come cosa estesa e cosa pensante modificate con modificazioni che seguono necessariamente dalla loro essenza. Ora ciascuna di queste cose è concepita da Spinoza, non come alcun che di comune a una moltitudine di oggetti particolari simultaneamente esistenti, ma come una cosa infinita che abbraccia la totalità di questi oggetti particolari. L'origine della natura vale a dire Dio come  la cosa fissa ed eterna dalla quale derivano tutte le altre non è, dice Spinoza, un'entità astratta, cioè universale; è un ente infinito, cioè che è tutto l'essere, e al di fuori del quale non vi ha alcun essere. Come Dio, quale essere assolutamente indeterminato, è l'essere assolutamente infinito che comprende tutto l'essere delle cose, cosi Dio considerato sotto 1'uno o sotto l'altro dei suoi  attributi  è un essere infinito nel suo genere, che comprende tutti gli esseri che partecipano a quest'attributo. Limitandoci agli attributi che conosciamo. Dio è un corpo infinito, di cui tutti i corpi sono delle parti, animato da per tutto da una mente infinitii, di cui tutte le menti sono delle parti: la sua essenza, da oii il 3® genere De ini, emend. iL'pist, Dio, rnomo, ecc. trad. frano, M:th. p. dim. pr.   Elh,  p. Def. , Pr., Dim. pr.,  p. Pr. e 8ohol., ecc. Mh,  p., Pr. e Corollarii,  Pr. e  Schol., Dim. pr., Cor. pr., Pr. Schol. pr., Pr.,  p., Def., Pr., Schol. pr.,  Pr.,  e Cor. e Schol., Pr., Cor. pr. di conoscenza deduce tutte le cose, contemplate sub specie aeternitatis, è questo <-.orpo e questa mente infiniti, considerati come sostanze pure, cioè astrazion facendo dai loro modi o affezioni. L'estensione  come cosa fissa ed eterna, Véstensione in sé, non è l'Idea dell'estensione, vale a dire ciò che vi, ha di comune in tutte le estensioni determinata, ma l'estensione infinita, la cosa estesa unica che è la totalità delle cose estese particolari j e così pure il pensiero in sé, il pensiero assoluto, come cosa fissa ed eterna, non è ciò che vi ha di comune in tutti i pensieri o in tutti i pensanti detcrminati,  ma un pensiero infinito diffuso ia tutte le parti di questa estensione infinita, la cosa pensante unica che è la totalità degli esperi pensanti particolari, la  solo, Pr. e  Cor., Schol. pr., Pr., Pr.,  Pr., Pr., Pr., Pr., Pr., Pr.,  p.,  Pr., Pr..  Schol. pr., eco. V  £th, p., Def..  Pr., Dim. pr., Pr. e Schol., Schol. pr., Pr., Pr. e Schol., Corollari  pr.,  Pr., Pr. e  Schol.,  Schol.  pr..  Pr.,  Pr.,  p.  pr., Pp., Pr. e  Cor., Pr.. e  Cor., Scolii e Cor. Pr., Schol. pr., Schol. pr.,  p. Prop., Pr., Schol. pr.,  Pr.,  Pr., Schol. pr., ecc. Quantunque Spinoza non ammetta che una sostanza unica, egli chiama auche sostanze gli attributi dell'estensione e del pensiero, perchè il primo è il substratum di tutto ciò che vi ha di fisico, e il secondo di tutto ciò che vi ha di psichico. Dio, Vuomo e la beat, trad.  frane,  AVA.  p. Sohol. pr.,  p. Schol. pr., ecc. per quest'espressione Dio, Vuomo e la beai., trad. frano, Dio, Vuomo e la beai., trad. frane, Eih.  p. Schol. pr., p. Def.,  Pr., Schol. pr., ecc. per quest'espressione  Eih.  p., Dim. pr. stanza psìchica luoudìale infine, di cui ogni anima è una parte e ogni fenomeno psichico una modificazione. Le altre cose fisse ed eterne, cioè i modi necessari clie seguono  dagli attributi divini, sono infinite come questi attributi stessi e l'essere assolutamente indeterminato che è il loro substratum. Le cose considerate sub specie aeternitatis «ono, oltre agli attribuii di Dio, le sue proprietà perchè Spinoza assimila il modo in cui le cose procedono dal primo principio a quello in cui le proprietà derivano dall'essenza: questa altre cose fisse ed eterne sono  ancli'esse degli attributi di Dio, che si distinguono dagli attributi propriamente detti, perchè questi sono primitivi e costituiscono 1'essenza divina, essi sono derivati e si deducono da quest'essenza. Ne segue che Episl., Dio, Vuomo e la beat. trad. frane, Eth,  p  Pr. e Schol., Pr., Schol.  pr., Pr, e Dim. e Cor, Dim. pr., ecc. Elh. p.e  Prop.  e Dim. Il vero primitivo, la vera origine della natura,  secondo Spinoza, l'essere assolutamente indeterminato. Ma nell'Etica considera come il primitivo la sostanza quale complesso degli attributi, facendo consistere il 3o genere di conoscenza nella deduzione delle coso, non da Dio come essere assolutamente indeterminato, ma dagli attributi divini p. e. Schol. pr. p. Sembra che questo latto sia una conseguenza della sua d.)ttrina che Dio  ha un numero infinito di attributi, di cui non ne conosciamo che due, mentre tutti gli altri ci sono sconosciuti. Ciò importa che il primitivo per noi, cioè il punto di partenza della nostra deduzione, non può essere il primitivo in se siessOf ma (gualche cosa di posteriore. Se fosse il primitivo in se stesso, vale a dire l^ens absolute indeterminatum, noi dovremmo poter dedurne tutti gli  attributi perchè questi ne derivano, e ohe una cosa deriva da un'altra cosa significa per Spinoza che se ne può dedurre: ma allora la più parte di questi attributi queste altre cose fisse ed eterne sono infinite come Dio stesso di cui sono le proprietà: ne segue inoltre che sono qualche cosa d'individuale e non dei concetti generali realizzati, perchè Dio, di cui sono i modi o le affezioni, non  è  un concetto generale realizzato, ma un individuo infinito, di cui tutti gli altri individui sono delle parti. Così il movimento, come cosa fissa ed eterna, è il movimento infinit»,  diffuso nell'estensione infinita di cui è un modo immediato: è la collettività dei movimenti che si producono simultaneamente nell'universo, che non si distingue dalla totalità dei movimenti particolari, se non in  quanto, per concepirlo, bisogna fare astrazione dal tempo e dalla durata. Così pure l'intendimento, come non dovrebbero esserci, come sono, sconosciuti e inconoscibili. Spinoza deve ammettere dunque che nella nostra deduzione noi non possiamo partire dal principio assoluto probabilmente perchè non ne abbiamo un'idea adequata ma da principii relativi. L'essere assolutamente  indeterminato è, come dice Schelling, l'arcano nascosto nell'Assoluto che è la sorgente d'ogni realtà: quest'arcano per noi è impenetrabile, e noi dobbiamo derivare le nostre idee, non dalla sorgente, ma da ciò che ne deriva immediatamente, cioè gli attributi che conosciamo. Dio Vuomo e la beat. n. 5f>  e >  e.  Il movimento come cosa fissa cioè immutabile ed eterna sembra una  contraddizione nei termini, perchè il movimento è la negazione stessa dell'immutabililà. Ma questa contraddizione, reale o apparente, è inevitabile in tutti i sistemi di realismo dialettico, e si trova in Platone e in Hegel altrettanto che in Spinoza. Per Platone rimandiamo al Supplem.; per Hegel basterà di citare le parole seguenti di VERA (vedasi): le Idee sono tutte immutabili ed eterne.    Non vi ha, in effetto, né avanti né dopo né generazione né alterazione nella sfera delle Idee E le Idee di tempo e di movimento  esse stesse, che per la cosa fissa ed eterna, che è un modo immediato del pensiero come il movimento dell' estensione, è l'intendi loro natura sembrauo dover essere sottoposte ulla nascita e ali» morte, sono, esse pure, inperibili ed eterne. Perchè ciò clie nasce e ciò che perisce ò tal tempo e tal movimento, ma non la loro essenza VERA hìlrodvz. alla  filos. di Hetjel o. Il movimento in sé vale a dii-e 1'Idea del movimento secondo Platone e secondo Hegel, e secondo Spinoza il movimento considerato sub specie aetrmitatis è dunque immutabile in quanta l'essenza e le leggi del movimento sono immutabili. Quando Spinoza o gli altri realisti  diallettici dicono di una cosa che implica la successione e il cangiamento, qual è il movimento, che essa è al di fuori del tempo e della durata, intendono i)arlare di un tempo e di una durata determinati, in altri termini della posizione di questa cosa in un certo tempo e in una certa durata; ma anche il tempo e la durata hanno per questi filosotì, la loro essenza eterna ed imumtabile, e questa    deve trovarsi necessariamente nelle cose fisse ed eterne che noi non possiamo concepire che come implicanti il tempo e la durata. Supplemento il  luogo ci taito. Per comprendere sufficientemente ohe cosa sia, secondo Spinoza, questo  movimento eterno ed immutabile, bisogna farci prima un'idea completa delle sue cose fisse ed eterne, in altri termini, delle sue astrazioni realizzate. Per  ora ]M)ssiamo diro, senza pretendere ad una precisione rigorosa, che il movimento in sé, il movimento come cosa fissa ed eterna, secondo Spinoza, è l'insieme di tutti i movimenti che avvengono nell'universo in un momento qualsiasi della sua durata, concepito facendo astrazione da tutto le circostanze che sono particolari a questo momento e non sono comuni a tutti gli altri.  Quest'insieme di movimenti, astratto da queste circostanze, si concepisce come esistente in sé stesso al di fuori del tempo e della durata, ma come presente in tutti gl'insiemi di movimenti fenomenali che si producono nell'universo nei diversi momenti del tempo e della durata Esso ò eterno perchè tutti questi insiemi di movimenti fenomenali, in cui è presente, riemmento infinito, che  comprende tutte cose in ogni tempo, infinito, eterno ed immutabile, come il pensiero sostanziale, di cui è una modificazione necessaria. È l'intendimento unico che esiste nella cosa pensante, lo specchio unico ili cui si riflette l'universo unico; ogn^idea e ogni mente considerata sub specie aeterniiaiis è contenuta in esso; ogni essere pensante è una parte di quest'essere pensante unico; la  nostra mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare, limitato da un altro modo eterno di pensare, questo da un altro ancora, e così di seguito alPinfinito, sicché tutti insieme costituiscono l'intendimento eterno ed infinito di Dio. Il solo esempio che ci dà Spinoza dei modi necessari mcdiati è l'aspetto di tutto l'universo, immutabile attraverso i suoi infiniti cangiamenti: come le  cose fisse «d eterne di cui abbiamo parlato precedentemente, è una «osa individuale, infinita, e che rappresenta, non ciò che vi ha di comune in una moltitudine di esistenze particolari, ma la collettività di queste stesse esistenze particolari, concepite senza la successione e il cangiamento. Il carattere comune delle cose fisse ed eterne di Spinoza è di essere infinite, e di realizzare, non dei  concetti piouo tutto il tempo e tutta la durata; ed è immutabile perchè é presenta in essi sempre lo stesso e senza partecipare al loro cangiamento. Dio Vuomo e la beat, Epis,  S,  Eth. p  V Sch(d. pr,  ecc. Dio l'uomo e la beat. ecc.; e parag. Eth, p. Pr., Pr.  Pr., ecc. Gir. $.  Eth. p Schol. pr. Episl.. (; Le idee assolute, secondo il Ife intellectvs cmend. geoerali come le Idee platoniche, ma dei  concetti collettivi: l'estensione è l'insieme di tutte le estensioni, la cosa pensante di tutte le cose pensanti, il movimento di tutti i movimenti, ecc. Non sono, ripetiamolo, l'uno nei molti come le Idee platoniche, ma i molti stessi ed infiniti, concepiti come eterni ed immutabili. Raccogliendo i risultati dell'esposizione precedente, noi vediamo che le astrazioni realizzate di Spinoza hanno  tutti i caratteri delle Idee platoniche, meno uno, cioè 1'unità dell'Idea, in modo che si trova giustificata, almeno d'una maniera approssimativa, la nostra proposizione che esse sono le Idee platoniche stesse, concepite ciascuna, non come una, ma come molte. Noi abbiamo visto infatti che le cose che seguono necessariamente da Dio sono eterne ed immutabili, ehe hanno un'esistenza  distinta da quella delle cose singolari, cioè empiriche, ma sono presenti in queste e ne sono le cause immanenti, e die costituiscono le loro essenze e corrispondono alle loro definizioni generali. Noi abbiamo visto inoltre che ogni cosa deve essere concepita svh specie aeternitatis y cioè come eterna; che le cose concepita sub specie aeternitatis sono, secondo Spinoza, eterne come si  pensano (e quindi, anche immutabili, perchè sub specie aeternitatis devono devono CRprimere rinfinitA. Le idee assolute sono quelle che formano il punto di partenza della deduzione, quelle che rappresentano le cause prime delle cose e ohe sono esse stesse, per conseguenza, le cause prime di tutte le nostre idee. Nell'Etica, come sappiamo, l'infinità è affermata, non solo deirli oggetti delle idee assohite, cioè della sostanza e dei suoi attributi, ma anche delle cose ohe ne derivano, cioè dei modi, immediati o mediati, che seguono necessariamente dagli attributi p. prop.: cencepirsì non solo le cose, ma anche gli avvenimenti; e che ogni cosa i>cr conseguenza, la nostra mente come il nostro corpo e tutto ciò che può essere oggetto della nostra mente, ha una doppia  esistenza, 1'una il fenomeno, temporanea e mutabile, e l'altra, l'essenza, eterna ed immutabile. Ma noi abbiamo visto [)ureche le cose che seguono necessariamente da Dio, o, ciò che vale lo stesso, le cose considerate sub specie aeternitatis, non sono la realizzazione dei concetti (jenerali, ma dei concetti collettivi, delle cose: che l'estensione, come cosa fijssa ed eterna, è la collettività di  tutte le cose estese simultaneamente esistenti, l'intelligenza di tutte le intelligenze, il movimento di tutti i movimenti, ecc. Conformemente a questo principio, l'umanità, come cosa fìssa ed eterna o considerata sub specie aeternitatis non è, come per Platone, un individuo umano concepito come eterno ed immutabile, ma la collettività degl'individui umani, simultaneamente esistenti a un  momento qualsiasi della durata del genere umano, concepita come eterna ed immutabile. E lo stesso che dell'umanità dobbiamo dire di tutte le specie e di tutti i generi delle cose, cioè di quelli che possiamo concepire sub specie aeternitatis, vale a dire di cui possiamo ammettere che sono sempre esistiti, ed esisteranno sempre nella natura naturalmente Spinoza ignora la dottrina dell'evoluzione e i fatti su cui essa è fondata, e ammette la stabilità e l'eternità delle specie. Quest'umanità, cosa fissa ed eterna, è in se stessa fuori del tempo e della durata, ma è presente nell'umanità fenomena^le esistente nei momenti successivi del tempo e della durata: è l'umanità tipica che persiste sempre la stessa in tutte le generazioni umane successive, il substratum immobile e  veramente reale di cui queste generazioni successive sono le forme o le apparenze cangianti, in una panda ciò che vi ha d'identico in tutti i momenti successivi della durata del genere umano, astratto da ciò che vi ha di variabile, e concepito come esistente per se stesso. Ciò che infatti è necessario di avvertire è che, per concepire gli uomini sub specie aeternitatis, non basta di farci una  sappresentazione della totalità degli uomini attuali, e concepirli al di fuori del tempo e della durata, cioè come eterni ed immutabili, ma bisogna fare anche astrazione da tutte le circostanze che sono particolari agl'individui attuali, e non sono comuni a tutti i momenti successivi della durata del genere umano. Infatti le cose considerate sub r^pecie aeternitatis, cioè come eterne ed  immutabili le cose fisse ed et<?rne non possono essere delle finzioni senza scopo, ma devono rappresentare ciò che vi ha di costante e di perpetuo nella natura. Per conseguenza un'altra circostanza di cui bisogna fare astrazione per concepire il genere umano sub specie aeternitatis, è il numero determinato d'individui che esiste a tale o tal momento della sua durata: esso, come gli altri  generi, deve concepirsi come costituito da una moltitudine d'individui, ma non da un numero determinato, perchè se è un fatto costante e necessario che il tipo umano o un'altra forma qualsiasi della natura è rappresentato da una moltitudine d'individui, è variabile e contiqgente che questa ipoltitudine d'individui sia uno o un altro numero determinato. Questa inconcepibilità delle cose  fisse ed eterne di Spinoza, di essere uua moltitudine d'individui senza un numero determinato, è «evitata n(^l sistema platonico, in cui ciascuna specie è concepita come un essere unico (l'uno nei molti; ma questa inconcepibilità non è maggiore che le altre inerenti a qualsiasi sistema di realismo dialettico: una moltitudine che non è una moltitudine determinata, non è né più né meno  irrappresentabile che l'uomo in  s: di Platone HORSENESS, che non è né biaikco né nero, né alto né basso, né dt>tto né ignorante, ecc., o 1'animale in sé, che non è né uomo né cavallo né qualsiasi altro animale determinato. Non è che un'altra forma della difficoltà di rappresentarsi un'astrazione realizzata. Ecco dunque il processo di cui bisogna servirsi per concepire le cose fisse ed  eterne di Spinoza, cioè per con<5epire sub specie aeternitatis le specie o i generi delle <M)se  o dei fenomeni p. e. l'umanità, l'intelligenza, il movimento, ecc.. Bisogna immaginare le totalità delle <jose o dei fenomeni appartenenti alla specie o al genere dato, che esistono nei diversi momenti della duratji della specie o del genere; confrontare fra di loro queste totalità successive di cose  o di fenomeni; e separare ciò che vi ha d'identico in tutte da tutto ciò che vi ha di particolare ad alcuna o ad alcune: ciò che vi ha d'identico in tutte è la specie o il genere concepito sub specie aeternitatis, cioè come esistente in se stesso fuori del t^mpo e della durata, ma presente in queste totali tii successive la cui serie riempie tutto il tempo e tutta la durata. L'ipotesi di Spinoza ha lo  stesso scopo <ihe (|uella di Platone: astrarre l'elemento costante e necessario delle cose dall'elenjento mutabile e contingente, e considerare il primo, nella sua astrattezza, come sussistente per se stesso. Questo astratto, sussistente per se slesso, Platone lo fa consistere in ciò che vi ha di comune a tutti gl'individui di una specie o di un genere, considerato come qualche cosa d'identico che  è presente in tutti questi individui; Spinoza lo fa consistere invece in ciò che vi ha di comune a tutti i momenti successivi della durata della specie o del genere, <?onsiderato come qual(*.lie cosa di identico che è presente in tutti questi momenti successivi. Il risultato a cui mira l'una e l'altra ipotesi è di separare ciò che nelle cose è deducibile da ciò che non lo è, in modo ohe ciò che si  deduce esista con la indeterminazione stessa con cui si deduce, e il pro'^resso della deduzione rappresenti Io sviluppo stesso delle cose, cioè il Ioni incatenamento causale nel senso trascendente del realismo dialettico. Ci resta a chiarire come tutte le cose che seguono necessariamente da Dio siano, non solo eterne e, por conseguenza, immutabili, ma anche infinite. Le specie o i generi  delle cose, considerati sub specie aeternitatis, non possono essere infiniti che in quanto, considerati nella loro esistenza empirica, comprendono un numero infinito d'individui simultaneamente esistenti. Ora  in certe specie o generi, p. e. quelli delle piante e degli animali, il numero degl'individui  simultaneamente esistenti che li costituiscono a ciascun momento della durata della specie  o del genere, non è mai che un numero finito. Come conciliare ciò con la dottrina che tutto ciò che segue necessariamente dall'essenza di Dio, e per conseguenza tutte le cose contemplate sub specie aeternitatis, non sono che i modi eterni ed infiniti di Dio t Evidentemente una specie o un genere di piante o di animali non può essere per Spinoza uno dei modi eterni ed infiniti di Dio,  perchè egli non può ammetterne l'innità come ne ammette l'eternità e la stabilità; non può essere che una parte di uno di questi modi. Spinoza ammette che tutte le cose contemplate sub specie aeternitatis sono i modi eterni ed infiniti di Dio, perchè egli fa dell'essenza di Dio il primo principio, e assimila il modo in cui le cose derivano  dal primo principio a quello in cui le proprietà  derivano dall'essenza. Ma egli non pretende perciò che un modo eterno ed infinito di Dio deve essere necessariamente costituito da parti fra fra di loro omogenee p. e. come l'estensione o il pensiero sostanziale. Un esempio di un modo eterno ed infinito costituito da parti eterogenee, è il solo modo mediato di cui si parli negli scritti di Spinoza, cioè l'aspetto di tutto l'universo facies   totius universi, che persiste immutabile attraverso i suoi infìniti cangiamenti. Noi non oseremo di affermare se sia in questo modo eterno ed infinito, ovvero in un altro o in più altri analoghi, che sono compresi, come delle parti, le specie e i generi degli esseri viventi, e in generale, tutte, le specie e tutti i generi propriamente detti vale a dire tutta la natura in quanto è l'oggetto delle scienze di classificazione. La sola affermazione che autorizzino le proposizioni dell'autore è che i modi eterni ed infiniti di Dio devono  comprendere tutto il reale, e che per conseguenza tutto ciò che esiste, contemplato sub specie aeternitatis, deve essere contenuto, come una parte, in qualche modo eterno ed infinito di Dio. Un'altra osservazione che dobbiamo aggiungere è che lo stesso insieme di esseri, che considerati come specie, cioè concepiti nei loro attributi specifici, costituiscono un certo modo eterno ed infinito  di Dio, se si considerano più astrattamente, vale a dire se non si concepiscono che nei loro attributi generici, possono costituire altri modi anteriori, cioè meno mediati  Noi sappiamo infatti che lo sviluppo di Dio o della Natura è una determinazione progressiva, una successione di stati di un solo e stesso essere, che da uno stato più astratto o più indeterminato va semprn a uno stato più  concreto o più determinato. Ai diversi gradi delH classificazione p. e. negli esseri viventi, classi, ordini, famiglie, generi, ecc. possono dunque corrispondere dei modi eterni ed infiniti di Dio, più o meno astratti, in cui gli stessi esseri sono contenuti, ma concepiti d'una maniera più o meno astratta. P. e. in uno di questi modi l'uomo sarà contenuto concepito come uomo, in un altro  anteriore concepito semplicemente come mammifero, in un altro come vertebrato, ecc. È la scala delle Idee platoniche, ma in cui ogni gradino contiene una moltitudine d'Idee, e ciascuna di queste Idee stesse è concepita, non come una, ma come multipla. La dottrioa che le cose contemplate sub specie aeternitatis sono delle pirti dei modi eterni ed infiniti di Dio, fa cLe una cosa  contemplata sub specie aeternitatis può, secondo Spinoza, considerarsi a due punti di vista: cioè come una delle unità il cui insieme costituisce una specie o un genere determinato, e come una delle unità il cui insieme costituisce un modo eterno ed infinito di Dio. Di là la proposizione di Spinoza cbe sopra abbiamo citato, cioè che la ragione, contemplando le cose sub specie aeternitatis,  le concepisce Jn numero infinito, o piuttosto senza attendere al numero vale a dire, come abbiamo spiegato, a un numero determinato Le concepisce senza attendere a un numero determinato, in quanto sono delle unità che costituiscono una specie o un genere dati; le concepisce in nnmero infinito, in quanto sono delle unità che costituiscono un modo eterno ed infinito di Dio. Si vede  da ciò ohe abbiamo detto a e in tutto il paragr. che nella dottrina di Spinoza dell'eternità della mente umana non si tratta di un'eternità personale, ma la credenza comune nell'immortalità dell'anima non potrebbe essere al più per lui cbe un simbolo del concetto della sua metafisica dell'eternità deìVeasema dell'anima. Non vi ha altro d'incorrutibile, dice Spinoza, che Dio e i suoi modi  universali cioè i modi eterni ed infiniti che seguono necessariamente dagli attributi olivini Dio Vuomo e la beat., e questi, lo abbiamo visto, hanno un'esistenza distinta da quella degli esseri individuali, e sono costituiti, non dalle cose ste-se. ma dallo loro essenze. L'eternità o immortalità dell'anima, come eternità o immortalità inuividuale, sarebbe in contraddizione, come abbiamo osservato, con uno dei principii fondamentali del sistema di Spinoza, cioè col parallelismo psico fisico e la dottrina su cui esso è basato, che il fisico e lo psichico sono due aspetti diversi di una sola o stessa realtà. Spinoza  afìerma esplicitamente Le astrazioni realizzate del realismo dialettico risultano da un doppio processo di astrazione. L'uno le conseguenze inevitabili di queste  premesse, cioè che V idea vale a dire la mente o l'anima e il suo oggetto il corpo di quesra mente o di questa anima non possono esistere l'una senza l'altro né reciprocamente Dio Vuomo e la beat.; che Puna di queste due cose non dura, cioè non  cs'ste nel tempo, che quando dura anche 1'altra Eth. p.  Cor. e Schol.  prop., Dio Vuomo e la beat.,  ecc.; ohe l'anima non è stata mai senza il  corpo, come il corpo non è stato mai senza l'anima Dio Vuomo e la beat,; e che quando il corpo è distrutto, anche l'anima è distrutta Dio V uomo e la beat.,  Ethy. Schol. prop., p. Schol. prop. Un'altra considerazione che non bisogna negligere è che l'immortalità individuale suppone delle concezioni sul destino dell'anima dopo la morte paradiso, inferno, ecc., che non sarebbero possibili  in un sistema naturalistico come quello di Spinoza. Secondo Spinoza, vi hanno per 1*anima, come per tutti gli altri oggetti, due stati o due forme di esistenza: l'esistenza pre»sente ohe si definisce per il tempo, e la durata, e questa appartiene all'anima individuale; e l'esistenza eterna cioè fuori del tempo e della durata, che apx)artiene, non all'auiniii individuale, ma all'anima considerata  sub specie aeternitatis, cioè all'essenza dell'anima. Questa essenza dell'anima, quest'anima <c cosa fissa ed eterna, non è l'anima dell'uomo individuale, cioè quello che ha un'esistenza determinata, ma l'anima dell'uomo eterno, che fa parte dell'umanità eterna, cioè di quest'umanità astratta, che è, come abbiamo detto, il substratum immutabile, di cui tutte le generazioni umane successive  sono le forme o le apparenze cangianti. La prima esistenza, quella che si definifjce per il tempo e la durata, appartiene all'anima in quanto è l'idea di un corpo individuale, determinato; ma essa è limitata come quella di questo corpo stesso: come si vede dai luoghi precedentemente citati, l'anima come idea di un corpo individuale^ cioè come anima individuale, non comincia ad esistere consiste a separare l'elemento eterno e necessario delle cose dall'elemento mutabile e contingente è quello che, ^'1 nel sistema di Spinoza, abbiamo studiato nel precedente paragrafo; l'altro consiste a separare, in questo stesso che cominciando l'esistenza del corpo, e cessa d'esistere quando cessa l'esistenza del corpo. L'esistenza eterna appartiene all'animu in quanto è l'idea dell'essenza  del corpo considerata sub specie aetern'tatis Eth. p. V prop.; essa oon le appartiene dunque che in quanto la sua essenza stessa si considera sub specie aeternitatis, vale a dire, non come anima individuale, determinata, ma come anima astratta, di cui l'anima individuale è una delle forme o apparenze cangianti. K in eiletto: Spinoza dice espressamente che l'esistenza eterna della mente non    può detinirsi per il tempo e la durata  p. dim. prop. e  schol. e  dim. prop., o in una parola, che non dobbiamo confonderla con la durata, come fa la credenza volgare dell'immortalità dell'anima Schol. prop. La mente non è eterna che in quanto segue necessariamente dall'essenza di Dio  Eth. p. Dim. prop., Dim. prop., Dim. prop. Schol  pr.: ora, come sappiamo, dall'essenza di Dio non  seguono che i modi eterni ed infiniti, e questi hanno un'esistenza distinta da quella degli oggetti individuali. L'amore intellettuale di Dio, che è eterno nel senso stesso in cui è eterna la mente, è opposto alle cose che si considerano con relazione a un tempo e a un luogo determinati, cioè alle cose individuali Schol. prop. L'esistenza eterna, del corpo come della mente, è opposta alla loro esistenza presente, che si detluisce per il tempo e la durata, ciò che importa che la mente è eterna nel senso stesso in cui è eterno il corpo. La mente in quanto è eterna e la mente in quanto è considerata sub specie aeternitalis sono per Spinoza due espressioni equivalenti. ^ intine, la mente, in quanto intende che, come vedremo, è la sola parte eterna dell'anima e il suo amore intellettuale di Dio sono parti di un modo eterno ed infinito di Dio, cioè dell'intendimento eterno ed infinito e dell'amore intellettuale infinito con cui Dio ama se stesso p. Schol  pr. Pr. l'osservazione che abbiamo fatta al  n.. Conformemente al principio del parallelismo psico-fisico, al corpo cosa fissa ed eterna corrisponde un'anima cosa fissa ed eterna, come un'anima fenomenale e peribile  corrisponde al corpo fenomenale e peribile. Sono i due aspetti inseparabili di una sola e stessa realtà «onsiderata ora come astrazione realizzata, e ora come esistenza concreta e individuale. Ma 1'eternità della mente ha anche, e sovratutto per Spinoza, un altro significato. In questo secondo significato è una teoria della conoscenza, ed ha la più stretta analogia con l'immortalità dell'anima  nel senso hegeliano. Questa teoria della conoscenza, come le altre analoghe del realismo dialettico, ha per isoopo di spiegare la corrispondenza fra il pensiero e la realtà. Il problema di spiegare la corrispondenza tra il pensiero e la realtà è più incalzante nel realismo dialettico, perchè al punto di vista di questo sistema la corrispondenza è maggiore che al punto di vista ordinario. Infatti:  il realismo dialettico fa consiatere il vero reale in astrazioni realizzate, e noi non siamo abituati ad ammettere come astratte le cose, ma le idee: esso pretende di sviluppare la conoscenza dal fondo stesso dello spirito, per la forza interna del pensiero e indipendentemente dall'azione delle cose, cioè dall'esperienza; infine, in questo sviluppo della conoscenza il progresso del pensiero, cioè  V incatenamento dei principi! e delle conseguenze, rappresenta lo sviluppo stesso delle cose, cioè l'incatenamento delle cause e degli effetti. Per quanto riguarda Spinoza, vedremo meglio il lo e il 30 punto nel paragrafo seguente. Nei realisti dialettici troviamo tre soluzioni differenti del problema, corrispondenti alle relazioni diverse stabilite fra il pensiero e le cose. Platone ammette l'opinione ordinaria, secondo cui il soggetto e l'oggetto sono due realeà distinte ohe agiscono Tuua su11' altra. A questo punto di vista il pensiero, come conoscenza, è subordinato all'oggetto conosciuto, e considerato come il prodotto dell'impressione delle cose. Così Platone spiega la corrispondenza fra il pensiero e la -1 * ti elemento eterDo e necessario delle cose, certi elementi concettuali dagli altri, considerandoJi come esistenti per realtà per l'intuizione delle Idee che l'anima ba avuto nella su» esistenza passata. Hegel è un idealista, cioè riguarda le cose come rappresentazioni, che sono prodotte dall'attività del pensiero. Così egli può spiegare la corrispondenza fra 1*essere e il pensiero per la loro identità, ammettendo  ohe il pensiero filosofico è il pensiero assoluto, che comprende tutti i gradi precedenti dello sviluppo del pensiero, e per conseguenza tutta la realtà. Spinoza non subordina il pensiero alle cose come Platone, né le cose al pensiero come Hegel, ma riguarda il fisico e lo psichico come due serie parallele, ohe si corrispondono perfettamente, senza che l'una abbia azione suU'altra: il  parallelismo, cioè la corrispondenza, fra le due serie è spiegata per la loro identità radicale, cioè per l'unità del suhstrntum, di cui sono due forme o due aspetti differenti. A questo punto di vista è ovvio che Spinoza riguardi la corrispondenza tra il pensiero filosofico e il suo oggetto corno un caso del parallelismo psicofisico, cioè di questa corrispondenza generale ch'egli suppone tra il  fisico e lo psichico, e che applichi ad essa la stessa spiegazione: egli ammette dunque che il pensiero filosofico e il suo oggetto sono due serie parallele, che si corrispondono perfettamente perchè sono due forme o due aspetti difterenti di una sola e stessa essenza. Eth,  p.  Prop. col suo Cor. e  Schol. Spinoza ammette dunque anch'egli V identità dell'essere e del pensiero, ma in un altro senso ohe Hegel: per Hegel le cose sono presenti nel pensiero, e non sono esse stesse che pensieri; per Spinoza 1'identità  dell'essere e del pensiero consiste nell'unità del loro subatralum dell'essenza comune di coi sono le manifestazioni. In Platone la corrispondenza tra il pensiero e la realtà è qualche cosa di accidentale: essa non è spiegata per i principii del sistema, ma per un semplice fatto, l'intuizione delle Idee in un'altra vita. Ma in Spinoza e in Hegel la spiegazione è basata sui principii fondamentali dei loro sistemi, anzi in generale del se stessi, indipendentemente da questi altri, eonie esso si è considerato esistente per se stesso, indipendente realismo dialettico. Uno di questi principii è che l'essere si svilui>pa arricchendosi progressivamente di nuove determinazitmi, andando continuamente da uno stato più astratto ji, uno stato più concreto: ne segue ohe i gradi posteriori dello sviluppo deiTessere comprendono i gradi anteriori, che questi devono ritrovarsi in quelli. La spiegazione di Hegel è basata su questo principio: le cose si ritrovano nel pensiero filosofico, perchè questo è l'ultimo momento dell'evoluzione dell'idea, che comprende in se stesso tutti i momenti precedenti. Un altro principio fondamentale del realismo dialettico è che l'astratto è un essere unico che esiste per se stesso, e si ritrova, restando uno e identico a se stesso, negli esseri più concreti che ne sono le determinazi<mi. È su di esso che è basata la spiegazione di Spinoza: ciò die vi ha di comune aH'es.sere e al pensiero, egli lo considera come un essere unico ed esistente per sé, ohe si ritrova simultaneamente «eir uno e nell'altro, e di cui l'uno e l'altro sono due modi di essere distinti. Ciò diverrà più chiaro nel paragrafo seguente. L'essere che si rivela sotto questi due aspetti difterenti, cioè il fisico e lo psichico. 1'estensione e il pensiero, esiste per Spinoza, come sappiamo, a un doppio stato: come cose temporanee, € che hanno un'esistenza determinata, e come cose c<msiderate sub specie aeternitatis, cioè come astrazioni realizzate. Il pensiero, ohe è il parallelo delle cose temporanee e mutàbili, è esso stesso nn pensiero temporaneo e mutabile: è il pensiero che costituisce le anime degli oggetti individuali, cioè concreti, e tutti i loro fenomeni. Il pensiero che è il parallelo delle cose fisse ed eterne, è un pensiero esso stesso fisso ed eterno perchè è l'altro aspetto sotto cui si rivela 1'essere come cosa fissa ed eterna: questo pensiero è un  pensiero astratto, come le cose fisse ed eterne sono delle cose astratte e costituisce il lato mentale di queste astrazioni realizzate. Il pensiero temporaneo e mutabile ha per oggetto le cose temporanee e mutabili, cioè concrete; meote dairelemcDto contingente e mutabile da cui si è separato. Col primo processo di astrazione il vero reale il peusiero fisno ed eterno ha per oggetto le cose fisse ed eterne, oÌ4»è le distrazioni realizzate. Ora il pensiero filosofico non ha per oggetto le cose temporanee e mutabili, ma le cose fisse ed eterne le cose considerate sub specie aeternitatig; in altri termini, non le cose concrete,  ma le astrazioni realizzate. Di più l'ordine e la connessione del pensiero filosofico non sono identici all'ordine e alla coniìessione delle cose temporanee e mutabili, ma a quelli delle cose fisse ed eterne, delle astrazioni realizzate: infatti r  inoatenamento dei principii e delle conseguenze, che costituisce il 3® genere di conoscenza, non rappresenta l'incatenamento delle cause e degli efl:'etti fenomeni, ma l'incatenamento delle cause e <legli ett'etti astrazioni realizzate, vale a dire i gradi successivi di questo sviluppo estratemporaneo dell'essere che va progressivamente da uno stato piìl astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Da ciò Spinoza conclude che il pensiero filosofico non è il parallelo delle cose temporanee e mutabili, ma delle cowe fisse ed eterne, delle astrazioni realizzate. Ciò vuol dire che esso è una parte del pensiero fisso ed eterno, ohe. come abbiamo detto, costituisce il lato mentale di queste astrazioni realizzate, e ohe la nostra mente quando pensa le cose aiib specie aeternitatis, partecipa a questo pensiero fisso ed eterno, e sì identifica con esso. Un pensiero fisso ed eterno significa un pensiero ohe esiste fuori del tempo e della durata: la nostra mente, quando pensa le cose sub specie aetemiiatis, esiste dunque fuori del tempo e della durata, ed è eterna ed immutabile come le cose che essa pensa. È questa la teoria della conoscenza, che costituisce sovratutto il signi.^cato deircternità della mente umana. Questa teoria della conoscenza consiste in sostanza in due proposizioni: Che le nostre idee, che hanno per oggetto le cose considerate  stib specie aeternitatis, sono eterne, cioè esistono fuori del tempo e della durata. Questa dottrina forma il soggetto principale dell’Etica, e siccome non po. si astrae dal fenomeno, e l'essere si risolve in Idee Platone o in cose considerate sub specie aeternifa.ti8 Spitrebbe dar luogo a difficoltà d'interpretazione, ci limiteremo ad indicare i luoghi relativi, cioè  Pr. e Schol., Pr., Pr. e Sohol. e Sohol. e Sohol. e Schol., Schol. pr. iO, Schol. pr. per questa dottrina Dio, l*uomo e la beat^.  Che queste nostre idee eterne che hanno per oggetto le cose considerate sub specie aeternitatis, sono una partecipazione delle idee eterne di Dio, cioè dell'intendimento unico che Spinoza attribuisce al tutto come tale. Questa è un'applicazione di una dottrina che noi abbiamo esposta Noi  abbiamo visto in questo paragr.: che vi ha nel tutto, considerato come un essere unico, un sistema unico d'idee, in cui ad ogni oggetto reale corrisponde un'idea unica come ad ognuna di queste idee corrisponde un oggetto unico nella realtà; che questo sistema unico d'idee costituisce l'intendimento unico che vi ha nella cosa pensante, l'essere pensante unico di cui tutti i pensanti particolari  sono delle parti; e che le idee di questi esseri pensanti particolari sono una partecipazione delle idee di quest'essere pensante unico, una partecipazione ex loto quando sono adequate, ex par<e quando sono inadequate. Ne segue che le nostre idee delle cose considerate sub specie aeternitatis e sono le sole idee adequate che Spinoza ci attribuisce sono una partecipazione delle idee delle cose considerate sub specie aeternitatis che si trovano in questo sistema unico d' idee che costituisce l' intendimento dell'essere pensante unico. Non vi ha dubbio infatti che uell'intendimento unico di Dio vi siano le idee delle cose considerate sub gpeeie aeternitatis: in Dio, dice Spinoza, vi ha l'idea della sua essenza e di tutte le cose che seguono necessariamente da essa dall'essenza di  Dio non seguono necessariamente che le cose considerate sub specie aeternitatis, e questa idea è unica come è unico il suo oggetto Mh. p. prop. Inoltre queste idee di Dio che hanno per oggetto le cose eterne, cioè la sua essenza e le cose ohe ne seguono necessariamente, devono essere noza); col secondo, dalle Idee o cose considerate sub specie aeternitatis più concrete si astraggono   altre Idee o delle idee esse stesse eterne, perchè 1'ordine e la connessione delle idee sono identici all'ordine e alla connessione delle cose p. Prop. e  Cor., e le idee devono seguire dall'attributo del pensiero della stessa maniera e con la stessa necessità in cui le cose ideate seguono dagli altri attributi Cor. prop. Così è per un'eterna necessità che vi ha in Dio l'idea del corpo umano considerato  sub specie aeternitatis, come il corpo umano considerato sub specie aeternitatis segue per un'eterna necessità dall'essenza di Dio. p., Dim. prop.  Che le nostre idee delle cose considerate stib specie aeternitatis siano una partecipazione di queste idee divine, Spinoza lo afi'erma esplicitamente nello Schol. alla  prop. la nostra mente, in quanto intende, è un modo eterno di pensare, limitato  da un altro modo eterno di pensare, e questo da un altro ancora e così all'infinito, e tutti insieme costituiscono 1'intelletto eterno ed infinito di Dio, col quale si devo confrontare la prop. il nostro amore intellettuale di Dio che accompagna il 3« genere di conoscenza ed è eterno come essa, Cor. prop. e  Prop. è una parte dell'amore intellettuale infinito con cui Dio ama se stesso. Questa dottrina è anche contenuta nello Schol. alla prop.iu cui identifica la nostra idea di Dio con Dio stesso cioè, evidentemente, con r idea che Dio ha di se stesso; perchè deduco la proposizione che la nostra mente dipende e deriva da Dio, da quella che l'idea di Dio è il fondamento del 3» genere di conoscenza. lutine essa si ritrova in Dio,  /'uomo e la heat^ dove riguarda il nostro intendimento,  in quanto è eterno, come identico all'iutendimento eterno ed infinito di Dio, cioè all'intendimento eterno unico che esiste nella cosa pensante. Spinoza C(msidera il sistema d'idee eterne, che hanno per oggetto le cose eterne, e di cui le nostre idee di queste cose sono una partecipazione, come lintendimento infinito di Dio, ohe è il modo necessario e immediato dell'attributo del pensiero Schol. cose considerate sub specie aeternitatis di più in più astratte p. e., nel sistema platonico, dall'Idea dell'uomo pr. e Dio, Vtiomo e la beat,  n. quantunque r intendimento infinito di Dio debba anche comprendere le idee delle cose individuali, cioè temporanee Ciò egli fa evidentemente perchè questo sistema d'idee eterne costituisce per lui ciò che vi ha di essenziale e di veramente reale nell'intendimento infinito, conformemente al suo principio che le cose fisse ed eterne costituiscono l'essenza e la vera realtà delle cose temporanee e mutabili. Siccome le idee divine temporanee e mutabili e ohe hanno per oggetto le cose temporanee e mutabili, costituiscono alla loro volta la realtà di tutto ciò che vi h.i  nel mondo psichico nella sua esistenza temporanea e mutabile perchè i fenomeni psichici distinti dalle idee non sono per Spinoza che idee confuse, e tutte le idee sono una partecipazione, perfetta o imperfetta, delle idee dell'intendimento divino ne segue che questo sistema d*idee eterne costituisce l'essenza e la vera realtà del mondo psichico,  di cui tutti i fatti psichici sono la manifestazione fenomenale, come tutti i fatti fisici sono la manifestazione feujmienale delle cose eterne corrispondenti a queste idee. È un'applicazione del principio del parallelismo: alle cose fisse ed eterne devono corrispondere dei pensieri fissi ed eterni, che sono il suhsfrnlum dei pensieri temporanei e mutabili, come le cose fisse ed eterne sono il snhstratum delle cose temporanee e mutabili. Così il sistema d'idee eterne, di cui le nostre idee delle coso considerate sub specie aeternitatis sono una partecipazione, costituisce il lato mentale e,  per così dire, l'anima, delle cose fisse ed eterne, e il principio dell'identità tra l'aninm e il corpo, l'idea e il suo oggetto, spiega il parallelismo tra la conoscenza filosofica e il vero reale che ne è l'oggetto, come spiega il parallelismo tra i fenomeni psichici e i fenomeni fisici. In quanto al pernio su cui volge questa spiegazione della conoscenza filosofica, cioè il principio dell'identità tra il fisico e lo psichico, a ciò ohe abbiamo detto in questa nota stessa, non aggiungeremo che un'osservaI quella del bipede, dall'aiiimale^dall'essere vivente, eec, che si considerano conae aventi una realtà distinta da esse, zìoDe: è che questo principio apparisce per la prima volta nello Scolio alla prop., parte, in cui 8tabilit*ce la celebre tesi: orda et connexio idenrnm idem est ac ordo et connexio rerum ^e ohe questa tesi, in questa proposizione, è presa nel senso del realismo dialettico, cioè come 1'equivalente della dottrina hegeliana dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo ontologico. Ma un'altra osservazione che non dobbiamo negligere è, che per essere giiisti verso li  spiegazione di Spinoza, bisogna anche tener conto della sua dottrina dell'idea dell'idea. Come ad ogni oggetto corrisponde la sua idea, cosi a quest'idea corrisponde l'idea di quest'idea; fra le idee e le iaee delle idee vi ha lo stesso paralleli smo che fra gli oggetti e le idee, e questo parallelismo è spiegato della maniera medesima, cioè per l'identità fondamentale tra l'idea e l'idea dell'idea.  Eth. parta,  Prop.,  e  Schol. prop. Di questa maniera si comprende come noi possinmo avere una conoscenza filosofica, non solo delle cose fisse ed eterne che costituiscono il lato fisico del vero reale, ma anche di quelle che ne costituiscono il lato psichico. Questa teoria d*Ila conoscenza forma talmente il significato principale della dottrina dell'eternità della mente umana, che Spinoza parla il più spesso come se essa ne formasse tutto il significato La mente si rappresenta le cose nel tempo e nella durata in quanto è peribile Eth. p. Schol. p.,  Prop.,  ecc.; inquanto è eterna non si rappresenta che le cose considerate sub specie aeternitatis. Essa n(m è dunque eterna, che in quanto concepisce le cose sub specie aeternitatis Schol. prop.: anche la parte che conosce le cose  col secondo genere di conoscenza è eterna  Dim. prop., ma per istabilire questa proposizione Spinoza si fonda su quella precedentemente stabilita, che la mente concepisce le cose sub specie aeternitatis in quanto è eterna. Egli pensa evidentemente che, quantunque il 20 genere di conoscenza non abbia per oggetto, come il 30, le astrazioni realizzate cioè le cose considerate sub specie  4 ma come presenti in esse, della stessa maniera che le Idee o le cose considerate sub specie aeternitatis in geaeterutiatis nel i-euso pr<»prio del termine, tuttavia esso si liferiscc all'universale benché non astratta» dai particolari e sostantificato e la possibilità di questo pensiero dell*universale si spiega per la presenza nell'anima delle idee  eterne che hanno per oirgetto le cose eterne. Il  2«>  e il  3t' genere di conoscenza cos^itnendo l'intelletto, e l'insieme degli altri fatti ntentali l'immaginazione perchè i fatti distinti dal pensiero consistono, secondo r autore, in idee coi.fuse. la proposizione che riassume la dottrina di Spinoza è che la parte eterna della mente è l'intelletto, la parte peribile l'immaginazione Cor prop.. a. Prop.  Prop. e  Scholi  e Schol pr.. Ciò vuol dire  non che la mente in quanto è eterna non ha che la facoltà dell'intelligenza, ma che eiò che vi  ha di eterno nella mente sono gli atti stessi dell'iutelligeuza, le idee e le conoscenze intellettuali, che, come sappiamo, sono eterne, cioè esistenti fuori del tempo e della durata. E infatti quando Spinoza dice che la mente, in quanto conosce le cose sub specie aeternitatis, non ha mai cominciato,  non solo ad esistere, ma nemmeno a conoscere  le  c<»se sub specie aeternitatis Schol. prop. Schol.  prop. egli non i.uò voler dire, evidentemente, che la niente individuale non hamai cominciato, non solo ad esistere, ma nemmeno a conoscere le cose sub specie aeternitatis, ma che la mente che conosce le cose sul» specie ueternitatis non è la mente individuale, ma la mente che non è  altro che le conoscenze sub specie aeternitatis. e quest» è sempre esistita, come sono esistite sempre le sue conoscenze. Questa equivalenza tra l'eternità della mente e l'eternità delle eouoscenzc sub specie aeternitatis non è uicno evidente quanto dice che piìi numerose sono le conoscenze del  2» e del  3o genere, o più grande l'amore intellettuale di Dio che accompagna queste conoscenze,  e maggiore è la parte delia mente che rimano o che è eterna  Pr. e Schol. e Schol. Conformemente a questo principio, egli va sino a non considerare come eterna che la mente del sapiente eioè la parte della mente del sapiente che conoI*  I nèrale si considerano come presentì nelle cose fenomenali, cioè individuali e temporanee. 8ce le cose  ««/>  specie aeternisatis mentre quella dell*ignorante sarebbe tutta peribile Sohol. prop., infine dell'opera; concetto che ritroviMmo neirEpist. in cui si attribuisce a Spinoza r a iter m azione che V anima dell'empio muore  assolutamente l'empio sarebbe l'uomo che non conosce che i fenomeni. e non ha alcuna conoscenza di Dio, cioè delle cose fìsse ed eterne. Nel trattato su Dio, Tuomo e la beatitudine è più volte ripetuta l'idea che l'anima si rende eterna per la sua unione con Dio o con le sostanze eterne, e questa unione consiste nel 3» genere di conoscenza che in questo trattato è il 4», perchè il lo è suddiviso in due e l'amore intellettuale di Dio che ne deriva, Alla conoscenza delle cose considerate sub specie aeternìtatis partecipando, almeno in potenza, tutti gl'individui della specie umana, questa  conoscenza deve trovarsi nell'essenza dell'uomo, cioè nell'uomo tisso ed eterno, che fa parte dell'umanità  fìssa ed eterna. In realtà essa non appartiene alla mente individuale, cioè all'anima come idea del corpo temporaneo e mutabile, ma alla mente considerata sub specie aeternìtatis, cioè come idea del corpo considerato sub specie aeternìtatis prop., ecc., e l'individuo non vi partecipa  che in quanto partecipa alla sua essenza eterna, di cui è la realizzazione nel tempo e nella durata. Infatti le idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis sono al di fuori delle condizioni dell'individualità, e non esìstono ehe nel mondo delle astrazioni realizzate: la mi>nte non può dunque possederle che inquanto essa stessa è un'astrazione realizzata. L'indivìduo, che conosce lo cose  sub specie aeternìtatis, sopprime le condizioni della propria individualità, e si identihca con la essenza eterna che è presente in esso e che è il suo substratuni; egli si ritira, per cosi dire, nel pììi ìntimo di se stesso, spogliandosi della temporanietà e di tutte le altre determinazioni dell'esistenza fenomenale. In verità l'essenza della mente umana non consiste nelle sole idee delle cose  considerate Che in Spinoza si trovi anche questo secondò processo dì astrazione, noi potremmo inferirlo, almeno come prosub specie aeternìtatis, perchè tutto ciò che esiste nell'uomo temporaneo deve essere rappresentato nell'uomo eterno, quantunque astrazion facendo dalla temporauietà e da tutte le circostanze che vi sono legate. Ma ciò che vi ha di più intimo nell'essenza della  mente  umana, l'essenza, per dir così, di questa essenza, consiste nelle idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis, perchè l'essenza della niente consiste nella conoscenza mentis essentìa in cognitiuue cousìstìt. Dim. prop. e  Seh. prop. f e per conseguenza la conoscenza sub specie aeternìtatis è l'essenza della mente eterna, come la mente eterna è l'essenza della mente temporanea e  mutabile. È perciò che Spinoza può ehiamare eternità della mente nmana l'eternità  delle idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis, benché queste non costituiscono che una piccola parte dei fenomeni della psiche umana. La teoria <lella conoscenza di Spinoza che abbiamo esposta in questa nota, importa un'eccezione apparente al ])rincipio del parellelismo j)sicotisico. Spinozii  ammette che per ogni fenomeno psichico vi ha un fenomeno fisico che gli corrisponde, e viceversa; ma le idee delle cose considerate sub specie aeternìtatis non hanno, secondo luì, alcun concomitante fisico. Le idee che ci vengono medianto leafi'ezìoni del corpo, cioè i suoi movimenti, sono iuadequate. e rinsieme di queste idee si chiama immaginazione.Eth. p. Schol. pr.,  Pr. e Cor,,  Cor. pr.  Schol. pr., De iut. eménd., ecc. come abbiamo detto, è in esse che si risolvono tutti i fenomeni della psiche che sogliamo distinguere dal pensiero. Ma la concatenazione delle idee che si fa secondo 1'ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo, deve distinguersi da quella che si fa secondo l'ordine dell'intelletto, per cui la mente percepisce le cose per le loro cause prime  Elh.  p  Schol. pr. Le idee dell'intelletto nascono dalla forza intima dell'intelletto stesso, che si spiega per le sue leggi proprie, e non dalle cause esterne: esse sono ])rodotte dulia niente pura, e  mm dai fortuiti movimenti del corpo. Eth.  p. -i;V^^pé<MÌM^  babile, dalla sua dottrina delle cose considerata sub specie aeternitatis. Le cose considerate sub specie aeternitatis sono delle  astrazioni realizzate: l'astratto è dunque per Spinoza una realtà, ed egli ha potuto dare un'esistenza per sé, come a queste astrazioni, così alle astrazioni superiori a cui esse sono \subordinate. Ma la prova più importante e che ne rende ogni altra superflua, è Tidentifìcazione del rapporto tra il principio e la conseguenza col rapporto tra la causa e l'effetto. La realizzazione delle aBtrazioni-di quelle formate pel secondo dei due processi che abbiamo distinti non è una conseguenza di questa identificazione, ma è questa identificazione stessa espressa in altri termini. Così nel parag. noi non abbiamo potuto fare a meno di anticipare sul paragrafo presente, essendo impossibile di esporre la dottrina che il rapporto tra il principio e la conseguenza è identico al rapporto tra la  causa e l'etfetto, senza attribuire a Spinoza, più o meno esplicitamente, anche la dottrina che i principii hanno una realtà distinta da quella delle conseguenze, in altre parole, che non sono delle semplici astrazioni mentali, ma delle cose esistenti per se stesse, delle astrazioni reaSchol. pr. p. Soboi. pr. De ini, emend., Questa eccezione al principio del paraUeli srao non è. come abbiamo detto, ohe apparente. Il parallelo dei pensieri fi»RÌ ed eterni non possono essere dei fenomeni, ma delle cose egualmente fisse ed eterno. Prima di finire questa nota dobbiamo avvertire che per comprendere bene questa teoria della conoscenza di Spinoza e i motivi su cui essa è fondata, bisogna formarsi un'idea esatta della corrispondenza perfetta ch'egli suppone, tra lo sviluppo del  pensiero, cioè del pensiero filosofico, e lo sviluppo d.ll'essere. Perciò bisogna aggiungere a ciò che abbiamo detto nel paragrafo ciò che diremo nel paragrafo seguente. lizzate. Spinoza non poti*ebbe riguardare il principio e la conseguenza come causa ed effetto, se non li riguardasse come due realtà distinta: è per questa realizzazione che il rapporto semplicemente logico tra principio  e conseguenza diviene un rapporto onfologivo tra causa ed effetto. Il sistema delle conoscenze, nel realismo dialettico, è una catena di nozioni astratte, in cui l'astrazione è decrescente, e che sono logicamente legate fra di loro, in modo che la nozione precedente cioè la più astratta sia il principio di quella che immediatamente la segue, e la susseguente cioè la meno astratta  la conseguenza di (luella che immediatamente la prece<le. Queste nozioni più o meno astrìitte rappresentano le stesse cose, ma concepite d'una  maniera più o meno astratta perchè la conseguenza non fa che porre esplicitamente ciò era posto implicitamente dal principio, e non è che il principio stesso in una forma più sviluppata: per conseguenza, se l'astrazioni! non fosse che mentale, il progresso nella deduzione non sarebbe che un progresso nella determinazione con cui il pensiero concepirebbe le cose, mentre le cose stesse resterebbero immobili. Se invece l'astrazione non è semplicemente mentale, ma anche reale, in altri termini se a queste nozioni astratte corrispondono delle realtà astratte, il progresso nella deduzione è un progresso nella determinazione delle cose stesse in altre parole il passaggio dall'indeterminato al determinato non avviene nella sola conoscenza, ma neir oggetto conosciuto: allora ogni nuovo passo nel ragionamento segua un nuovo passo nello sviluppo dell' essere, e il movimento del pensiero corrisponde al movimento    stesso della realtà. Ora in questo sviluppo progressivo dell'essere, in questo passaggio continuo delle cose da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato, gli stati successivi sono fra di loro nel rapporto logico di principio e conseguenza: ciò vuol dire che dato il precedente è dato pure il couseguente, che la esistenza dell'uno trascina necessariamente 1'esistenza dall'altro. Ma  dire che l'esistenza dell'uno trascina necessariamente l'esistenza dell'altro, è dire che 1'uno è la causa e l'altro l'effetto: così, per la realizzazione delle astrazioni, il rapporto puramente logico di principio e conseguenza diviene un rapporto di causa e di effetto, e. questa causa è efficiente, perchè il legame tra il principio e la conseguenza è un legame visibile a priori e n«ecessario.  Applichiamo ciò che abbiamo detto al sistema di l^piuoza.  Il 3° genere di conoscenza parte da una nozione astratta, 1'essere assolutamente indeterminato, e ne deduce progressivamente altre nozioni astratte, ma di cui ciascuna è sempre meno astratta dì quella da cui si deduce immediatamente: dall'essere assolutamente indeterminatosi deducono immediatamente gli attributi, dagli attributi i modi immediati, da questi altri modi, e così di seguito. Queste nozioni astratte su cui volge la deduzione di Spinoza^dell'essi re assolutamente indeterminato, degli attributi, dei modi immediati, e dei modi mediati che da essi progressivamente si deducono, rappresentano le stesse cose, cioè l'insieme degli esseri, che Spinoza chiama Dio o la uàtura; ma le rappresentano d'una  maniera sempre meno astratta, l'estensione e il pensiero d'una maniera meno astratta che l'essere assolutamente indeterminato, il riposo e il movimento e i modi immediati del pensiero di una maniera meno astratta che l'estensione e il  pensiero, e così ili seguito. Nel progresso della deduzione, nel passaggio dall'essere indeterminato agli attributi, ai modi immediati, ai modi immediati  di questi modi ecc.^è sempre l'insieme degli esseri l'oggetto reale a cui si riferisce il nostro pensiero, ma quest'insieme degli esseri noi lo pensiamo d'una maniera di meno in meno astratta. Per conseguenza, se l'astrazione non fosse che mentale, vale a dire se l'essere assolutamente indeterminato, l'estensione e il pensiero assolutamente considerati, ecc., non esistessero, in questo stato di  astrazione, che unicamente nel nostro pensiero, il progresso della deduzione non sarebbe che un progresso nella nostra conoscenza, che andrebbe progressivamente determinando ciò che in principio non le era stato dato che d'una maniera assolutamente indeterminata; questo progresso, questo passaggio dall'indeterminato al determinato, non avrebl)e luogo che nel nostro pensiero, perchè di leale non vi sarebbe che il concreto, e questo è assolutamente determinato. In questo caso il rapporto tra il principio e la conseguenza non sarebbe che logico: r incatenamento deduttivo non potrebbe assimilarsi all'incat^mamento causale, perchè al progresso del pensiero non corrisponderebbe un progresso nella realtà, alle nozioni successive che Spinoza deduce le une dalle  altre, non corrisponderebbero, nella realtà, dei momenti successivi che deriverebbero gli uni dagli altri. Ma ammettiamo che l'essere assolutamente indeterminato, l'estensione e il pensiero indeterminati, ecc. non siano delle semplici nozioni astratte, mi delle astrazioni realizzate, in altre parole che esistano delle cose reali che non siano che essere assolutamente indeterminato, estensione  e pensiero indeterminati, ecc.: allora alla serie delle nozioni che si deducono le une dalle altre corrisponde una serie di cose che ilerivano le une dalle altre, i momenti successivi nello sviluppo del pensiero rappresentano dei momenti successivi nello sviluppo dell'essere stesso, e le premesse diventano delle cause come le conseguenze diventano degli eftetti. L'identificazione del rapporto  tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e l'effetto è dunque il risultato della realizzazione delle astrazioni: senza di essa questa identificazione sarebbe impossibile, perchè la deduzione non sarebbe che un processo logico e non una derivazione reale, in una parola perchè lo sviluppo logico non sarebbe al tempo stesso uno sviluppo ontologico. Questo sviluppo logico che è  al tempo stesso uno sviluppo ontologico, è indicato nel realismo dialettico dall'espressione anteriorità  e posteriorità di natura. È il termine che usa Platone, e che in Hegel è sostituito dalla parola momenti. La successione puramente logica e metafisica è simboleggiata dalla successione cronologica. Questi termini esprimono lo stesso concetto che il realista dialettico esprime chiamando cama il principio logico ed effetto la conseguenza, cioè che la deduzione non è un semplice processo logico, ma una derivazione reale semplicemente il rapporto tra il principio e la conseguenza viene assimilato meno apertamente al rapporto tra la causa e l'effetto. Noi troviamo dunque un'altra prova della realizzazione delle astrazioni di. quelle ottenute col secondo dei due pròcessi  indicati nell'uso che fa Spinoza della espressione platonica. Anteriore e posteriore di natura significa in Spinoza, come in Platone, quella sequenza metafisica nelle cose stesse, che è il correlativo della sequenza logica nel nostro pensiero. Altre volte questi termini sono usati in un senso che non implica la realizzazione delle astrazioni, ma significano anche allora la relazione tra ciò da  cui una cosa deriva e la cosa stessa derivata. Che anteriore di natura, quando l'applica a delle Antenore di natura pnor natura è uaato in questo senso neir  Mh. Prop., Dini. prop. App. alla  p.  p. II. Sohol. prop. {tam eognitione quam natura prior. vale a dire tanto logUamente quanto ontologicamente; in Dio, V uomo e la bi'.at,  I.  eoe. Posteriore di natura nello stesso luogo dell'App. alla  p, Simnl natura in  />e Intell. emend. Mh.  p.  Schol. prop.  p.  Dim. prop., Dira, prop., Dim. prop. Dio, V uomo e la beat. astrazioni^implica per Spinoza la loro esistenza per sé, si vede nella dimostrazione della proposizione. Nella natura delle cose non possono darsi due o più sostanze della stessa natura o attributo. DIMOSTR. Se se ne dessero più distinte, dovrebbero distinguersi o  per la diversità degli attributi o per la diversità delle affezioni. Se solo per la diversità degli attribuii, si concederebbe dunque non darsene che una sola dello stesso attributo. Ma se per la diversità delle affezioni, siccome la sostanza è anteriore di natura alle sue affezioni, deposte dunque le affezioni e considerata in se stessa, cioè veramente considerata, non potrà distinguersi da un'altra,  cic»è non potranno darsene più, ma solamente una. In una notii del trattato su Dio, l'uomo e la beatitudine si dimostra che non vi ha parti nell'estensione avanti ogni modificazione cioè nell'estensione come anteriore ai suoi modi proposizione di cui parleremo in seguito fondandosi sul principio che € l'estensione come estensione o come si è detto un po'prima nella stessa nota, l'estensione  in sé y^ esiste senza i suoi modi e avanti i suoi modi. La realizzazione delle astrazioni nel senso indicato 'NeìVMh.  p. Sohol. prop. e p. Sohol prop. simul natu^-af  applicato alle cose e ai pensieri per signidoare la loro indipendenza reciproca cioè che uè i pensieri sono prodotti dalle coso, uè le cose dai pensieri, ed anche, senza dubbio, la loro derivazione simultanea dal loro substratum  comune. La sostanza si considera dunque veramente, cioè si pensa quale è in realtà, quando si pensa separata dai suoi modi, depositis affectionibus. Inoltre dalla indifierenziabilità di due sostanze dopo ohe si è fatta astrazione dai loro modi, Spinoza non potrebbe concludere la loro reale identità, se esse non esistessero realmente come si concepiscono dopo quest'astrazione, cioè a parte  dei loro modi. I è supposta pure da due altre dottrine di Spinoza che non sono anch'esse che delle espressioni differenti del principio delPidentità tra lo sviluppo logico e lo sviloppo ontalogico. L'nna è il y)arallelisnio tra il pensiero e le cose, in quanto per pensiero sMntende il pensiero filosofico, cioè quello che conosce le cose col terzo genere di conoscenza. Siccome il 3<>genere di  conoscenza consiste a passare gradatamente da una nazione astratta ad un'altra nozione pure astratta, ma meno astratta della precedente, la dottrina del parallelismo implica che a questa serie di pensieri astratti conisponda una serie di cose egualmente astratte, tanto più che il pensiero e V oggetto pensato non sono due cose differenti, ma due aspetti differenti di una sola e stessa cosa,  che da una parte apparisce come pensiero e dall'altra come realtà. L'altra dottrina è che il S*^genere di conoscenza è intuitivo. È il carattere più essenziale, per cui Spinoza lo distingue dal secondo genere. La conoscenza del 3^genere è una scienza intuitiva, in cui lo spirito non fa alcuna operazione intellettuale,  ma vede; non è una convinzione fondata sul ragionamento, ma è il  sentimento e il godimento della cosa stessa; questa è perc(^pita immediatnmente ed in se stessa, come r oggetto sensibile è percepito immediatamente ed in se stesso dall'intuizione sensibile. Per questa intuitività della conoscenza filosofica Spinoza non intende, Dio ruomo e la beat,,  Eth.  p. Scbol. 2o pr., De ini, emend. Mh,  p.  Schol. pr.  p. Schol.  pr.,  eoe.  De  int. emend. Dio,  l'uomo  e  la beat. Dio, Vnomo e la beat.  pa«;.. come potrebbe credersi, che l'oggetto pensato è presente nel pensiero e s'identifica con esso, come, secondo la credenza del volgjire sulla percezione sensibile, l'oggetto sentito è presente nella sensazione e s'identifica con essa perchè ciò sarebbe contrario al principio del parallelismo fra il pensiero e le cose: il senso di questa dottrina di Spinoza è  che nella conoscenza filosofica lo spirito non è che uno spettatore, che l'intelligenza si limita a ricevere Tini pressione degli oggetti intelligibili, come la vista degli oggetti visibili, riproducendoli in se stessa e riflett,endoli come uno specchio, in modo che il pensiero non sia che, l'immagine della realtii e l'ordine e la connessione delle idee siano identici all'ordine e alla connessione delle  cose stesse. Dato (jiiesto concetto sulla natura della conoscenza filosofica, alcuu'astrazione puramente mentale non può aver luogo in questa conoscenza, come non può avervi luogo alcun'altra operazione intellettuale che non abbia il suo riscontro nella realtà;  delle nozioni astratte non potranno che rappresentai^e degli oggetti astratti, ai principii e alle conseguenze nel nostro pensiero  corri spon desanno dei principii e delle conseguenze nella natura, e la nostra deduzione non saì^che un'immagine della derivazione reale delle cose stesseo Perciò Spinoza raccomanda di non concepire le cose nella conoscenza filosofica astrattamente o, ciò che per lui vale lo stesso, uni versai niente, di non passare mai, nel progresso della deduzione, agli astratti ed universali, e non  mescolare ciò che è sol De int. emend., eoo. De int. emend., luoghi che riporteremo in seguito. tanto nell'intelletto con ciò che è nella realtà; e distingue la conoscenza del 3® genere da  quella del 2^ per ciò che questa ha per oggetto l'universale, mentre quella ha per oggetto il singolare. Per astratto intende evidentemente un'astrazione puramente mentale, vale a dire una nozione per cui  il reale che può essere anche un'astrazione realizzata non è concepito in tutta la sua determinatezza, e in cui la mente separa ciò che non è separato ^(OQiaióy nella realtà: la conoscenza del 2^genere ha per ogetto l'universale, perchè essa non concepisce che astrattamente ciò che è comune a tutta una classe; quella del 3» genere ha per ogetto il singolare THE ONE AT A TIME NICE GIRL THE ONE AT A TIME SAILOR GRICE, perchè concepisce la classe stessa, non astrattamente, ma qua! è in se stessa considerata «mò specie aeternitatis. Tanto è vero che Spinoza dà un'esistenza per sé all'essere assolutamente indeterminato, 1'estensione e il pensiero indeterminati, e le altre astrazioni che si deducono da queste, ch'egli attribuisce loro, in questo stato astratto,  delle proprietà contrarie a quelle che esse hanno in qnanto si trovano negli oggetti concreti o nelle altre astrazioni meno astratte ad esse subordinate. È ciò ch'egli fa della maniera più esplicita per l'estensione. L'estensione come estensione, cioè 1'estensione in sé, l'estensione come sostanza, è indivisibile: la divisibilità appartiene ai modi dell'estensione, non all'estensione stessa. Dividendo  una cosa estesa, p. e. l'acqua, si divide il modo della sostanza, e non la sostanza stessa, la quale resta sempre la stessa WATER TWATER, che essa sia moli) De ini. emend. Eth,  p. Schol. prop. e  Schol. prop., De  ini. emend., eoo. dificata in acqua o in altra cosa; in altri termini, essa si divide in quanto è acqua WATER TWATER, non in quanto è sostanza corporea cioè estensione.  Spinoza nega che l'estensione in sé sia divisibile, perchè la divisione suppone l'esistenza dei corpi e del movimento, e questi sono dei modi dell'estensione, posteriori all'estensione stessa. Egli avrebbe espresso il suo pensiero in una forma più rigorosa, se avesse detto che l'estensione in sé non è né divisibile né indivisibile perchè è evidente che, se l'astratto manca di alcune delle  determinazioni del concreto, esso non può avere però altre determinazioni positive che siano incompatibili con esse. Anche in questa forma più rigorosa si affermerebbe dell'estensione in sé un attributo che è in contraddizione con un attributo delFestensione concreta; ma la forma di Spinoza, mettendo più in antitesi l'attributo dell'una con quello dell'altra, mette più in rilievo la loro  distinzione, e mostra più chiaramente che la prima non è secondo lui una semplice astrazione, ma ha un'esistenza per sé, indipendentemente dalla seconda. Ma dove il realismo di Spinoza apparisce della maniera più evidente, è in un luogo del trattato De intellectus emendatione, che riporterò per disteso, perchè lo cansidero come l'espressione più netta e più completa del pensiero  dell'autore: In quanto all'ordine poi, e € aftinché tutte le nostre percezioni vengano ordinate ed unite, si richiede che, quando prima può farsi e lo domanda la ragione, ricerchiamo se si dia qualche essere, e al tempo stesso quale, che sia la causa di Dio Vnomo e la beai., Eih.  p.  Prop., Prop. , Cor. e  Sohol., Sohol.  prop., De  ini. emend.,  Spisi, ecc. I tutte le cose, in modo che la sua  essenza obbiettiva cioè la sua idea sia pure la causa di tutte le nostre idee, e così la nostra mente,  come abbiamo detto, rappresenti, quanto più è possibile, la natura. Infatti avrà obbiettivamente la essenza stessa di essa e lo stesso ordine e la stessa unione. Donde possiamo vedere come in primo luogo ci sia necessario di dedurre sempre tutte le nostre idee dalle cose fisiche, cioè da« gli  essevi reali, progredendo, per quanto è possibile, secondo la serie delle cause, da un essere reale ad un altro essere reale, e in modo da non passare agli a€stratti ed universali, né concludendo da essi qualche 4( reale né concludendo essi da qualche reale. L'una e l'altra cosa infatti interrompe il vero progresso dell'in«teletto. Ma bisogna notare che per la serie delle cause e degli erseri reali  io non intendo la serie delle cose singolari mutabili, ma soltanto la serie delle cose fisse ed eterne. lafatti sarebbe impossibile alla umana debolezza di tener dietro alla serie delle cose siniro«lari mutabili, tanto per il loro numero che supera ogni moltitudine, (juanto per le infinite circostanze in una sola e stessa cosa di cui ciascuna può essere CUBISMO prima ba detto ohe si deve  conoscere l'effetto per la causa: Quindi non ci sarà mai lecito, quando si tratta della ricerca delle cose, di concludere alcun che dagli astratti, e ci guarderemo bene di mescolare le cose ohe sono <i soltanto nell'intelletto con quelle che sono nella realtà: Ma l'ottima conclusione sarà ricavata da qualche essenza partico«lari affermativa, cioè da una vera e legittima detinizione. In«fatti dai  soli assiomi universali rintelletto non può scendere ai singolari, poiché gli assiomi si estendono a un'intinità di cose, e non determinano l'intelletto a contemplare uno piutto«sto che un altro singolare. causa che la cosa esista o non esista. Poiché la loro esistenza non ha alcuna connessione con la loro essenza, ossia, come già abbiamo detto, non è un'eterna verità. Ma del resto non abbiamo  bisogno di comprendere la loro serie: in effetto le essenze delle cose singolari mutabili non si devono ricavare dalla loro € serie o ordine di esistere, poiché questo non può darci altro che delle determinazioni estrinseche, delle relazioni, o al più delle circostanze, e tutto ciò è ben lontano dall'intima essenza delle cose. Questa deve cercarsi soltanto nelle cose fisse ed eterne, e insieme  nelle € leggi, scritte in queste cose, come nei loro veri codici, secondo le quali tutte le cose singolari si producono e sono ordinate; anzi queste cose singolari mutabili così intimamente e, per di così, essenzialmente dipendono dajle fisse, che senza di esse non possono essere né concepirsi. Quindi queste cose fisse ed eterne, quantunque siano singolari, pure per la loro presenza do€  vunque e la loro latissima potenz«a f^aranno per noi come degli universali o dei generi delle definizioni delle cose singolari mutabili, e le cause prossime di tutte le cose. Questo luogo, dopo ciò che abbiamo detto nei due paragrafi anteriori, non ha bisogno di molli commenti. Ci limiteremo a notare: che le cose fisiche o gli esseri reali di cui si tratta in questo luogo, sono delle cose fisse  ed eterne, che si distinguono dalle cose singolari mutabili, in cui sono presenti, e di cui sono le essenze e le cause immanenti; che la serie di (jucsti esseri reali é una serie di cause, cioè che essi costituiscono una catena di cause di cui 1'una procede dall'altra, e ciò nel senso trascendente che la parola causa ha nel realismo dialettico, perché (piesta serie di cause si distingue dalla serie delle cose singolari mutabili; e infine che il progresso ininterrotto dell'intelletto da un essere reale ad un altro, percorrendoli secondo la serie delle cause, cioè secondo il loro iucatenamento eausale, è nna deduzione continua, in cui si conclude sempre un essere reale da un altro essere reale. Ma la serie delle cose che si deducono runa dall'altra, e di cui quella da cui si deduce è considerata  come la causa di quella che se ne deduce, sono, nel sistema di Spinoza, l'essere assolutamente indeterminato, gli attributi divini, cioè il pensiero e l'estensione indeterminati, e i modi eterni ed infiniti che derivano, immediatamente e mediatamente, dagli attributi nei quali modi eterni ed infiniti sono contenute tutte le cose considerato sub specie aeternitatis, concepite a gradi differenti di  astrazione secondo i gradi di prossimità dei modi agli attril>uti. Sono ciueste cose dunque gli esseri reali di cui si tratta nel luogo citato, e l'essere assolutamente indeterminato, gli attributi divini e le altre astrazioni che se ne deducono, non sono dtlle semplici astrazioni, ma delle astrazioni realizzate, di cui la più astratta esiste indipendentemente dalla  meno astratta, in cui è contenuta  e di cui è la causa immanente, come tutte esistono indipendentemente dalle cose concrete, in cui sono contenute e di cui sono le cause immanenti. Si vede anche dal che abbiamo riportato in nota, non solo che il 3« genere di conoscenza consiste a dedurre gradatamente da un essere reale un altro essere reale, ma che tutte le premesse e tutte le conseguenze  non sono in questa deduzione    che esseri reali Ciò vale a dire che questa deduzione è immediata, cioè che essa passa immediatamente dalla posizione di un essere reale alla posizione di un altro essere reale, senza l'intervento di assioni o altre proposizioni intermediarie, e in una porola senza una dimostrazione propriamente detta. È perciò che Spinoza chiama la conoscenza del 3"genere una scienza intuitiva: essa è  intuitiva sì perchè i suoi oggetti non sono delle astrazioni, ma degli esseri reali, si perchè la connessione tra questi esseri reali non è conosciuta per ragionamento, ma immediatamente. Questa immediatezza delle deduzione è, come abbiamo notato, un carattere generale del realismo dialettico, che Spinoza ha comune con Platone, con GRICE JACKS BROAD GRICEIANISM e gli altri  rappresentanti di questo tipo di metafisica. Così il rapporto tra il principio e la conseguenza è assimilati di più a quello tra la causa e l'effetto, i»erchè nelle causazioni familiari da cui è venuta l'idea di causazione efficiente, il legame tra la causa e l'effetto non si vede per ragionameato, ma immediatamente. Inoltre l'identificazione del principio logico alla causa e della conseguenza  all'effetto implica che l'astrazione realizzata che si riguarda come la causa di un'altra astrazione realizzata sia la premessa unica da cui questa si deduce: se occorressero altre premesse, ne sarebbe una delle cause, ma non la causa completa. Questi due principii del metodo di Spinoza, che le cose che si deducono sono degli esseri reali, e che la deduzione è immediata, costituiscono, presi  insieme, il significato della sua proposizione che l'ordine e la connessione delle idee sono identici all'ordine e alla connessione delle cose a parte il parallelismo psico  fili) L'immanenza della causa uell'effetto è si chiara in Spinoza, che il rapporto delle cose fìsse ed eterne fra di loro e con le cose non potrebbe dar luogo, nel suo sistema, alle stesse quistioni a cui ha dato luogo nel sistema  platonico. sico come dottriua psicologica e cosmologica. Questa proposizioue, in questo suo significato trascendente, equivale, al fondo, al principio hegeliano dell'identità tra lo sviluppo logico e lo sviluppo ontologico. Ma Hegel non presentando la serie delle astrazioni realizzate che egli deduce, che come i gradi uecessivi di uno sviluppo, noi non possiamo che per induzione altribuirgli  come scopo ultimo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza al rapporro tra la causa e l'ett'etto. Spinoza li identifica esplicitamente, e ci mostra così nella luce più completa il vero scopo e 1'essenza intima del realismo dialettico. Prima di finire «u Spinoza dobbiamo giustitìcare unartermazione che al>biamo ripetuto più volte, sia esplieitameute 8ia implicitamente, cioè  che al di là degli attributi Spinoza suppone qualche cosa di più indeterminato, ohe è agli attributi ciò che questi sono ai modi, vale a dire ohe esiste per se stessa, quantunque presente negli attril>uti, come gli attributi esisttmo per se stessi, quantunque presenti nei modi. Noi nim lo fju^ciamo ohe alla fine di questo paragrafo, perchè la prova potissima di questo punto della metatìsioa di  Spinoza si ha dal confronto della dottriua di cui abbiamo parlato, che la cosa estesa e la iosa pensante sono due aspetti o due espressioni ditì'erenti di una sola e stessa cosa, con la dottrina che ha formato l'argomento del paragrafo precedente e di questo pariigrafo. che il reale risulta da astrazioni realizzata, e che per conseguenza ciò che è comune a molte cose è riguardato come una  realtà distinta, unica in se stessa, ma presente al tempo stosso in ciascuna di queste cose. La sola maniera possibile d'intendere la prima dottrina è che vi ha nelhi cosa estesa e nella cosa pensamte, oltre agli attributi propri in cui differiscono, una essenza comune in cui sono identiche, e che questa essenza comune della cosa estesa e della cosa pensante è un'entità unica, esistente per se  stessa e <4ie, senza  perdere la sua Noi abbiamo incontrato nel corso di questo capìtolo diverse forme del realismo dialettico, caratterizunità e senza dividersi, è presente al tempo stesso nell'una e nell'altra come l'estensione è un'entità unica, presente al tempo «tesso nei suoi due modi immediati, cioè la quiete e il movimento, o l'umanità SHAGGINESS, come cosa fissa ed eterna, è un'entità anica, presente al tempo stesso in tutte le generazioni successive dell'umanità fenomenale. Questa dottrina di Spinoza non sembra suscettibile di alcun altro senso: ma noi non siamo fondati ad attribuirle questo, che perchè sappiamo che egli riguarda 1'astratto come reale, e il comune come separabile /woKTTÓt^, cioè come un'entità unica esistente per sé e presente al tempo Btesso in ciascuna delle cose a cui si dice comune. Questa interpretazione è tanto più giustificata ohe, per indicare la relazione della cosa estosa e della cosa pensante con la cosa unica di cui esse sono i due aspetti, Spinoza si serve degli stessi termini che usa per indicare la relazione dei modi degli attributi con gli attributi stessi. Così egli dice, da una parte, che ogni cosa, cioè ogni  modo degli attributi divini, certo et determinato modo exprimit l'essenza di Dio o alcuno dei suoi attributi Eth. p  Cor. pr.  Dim. pr.,  p. Def., I)im. pr., Dim,  pr., Cor. pr.,  p  HI  Dim.  pr.  H,  ecc.  e dall'altra parte, che l'estensione aliquo modo Dei natnram exprimit Epist. neXV Etieri si dice più volte degli aitributi che esprimono l'essenza di Dio,  p. e. nelle P Dim.  pr. e nella  P Dim.  pr. I;  ma in questi luoghi  l'essenza di Dio significa forse il complesso degli attributi stessi, non il loro substratum e ohe un modo dell'estensione e l'idea di questo modo sono una sola e «tessa cosa, duohus modis expressa GRICE EXPRESS Eth.  p Schol.  pr. Così pure noi troviamo da una parte: Deus qnatenus per naturum humanae mentis explicatur Eth. p   Cor. pr. Dim.  pr. , p  V  Pr.  e  Dim. per significare: Dio in quanto è modificato di questo modo particolare che è la mente umann; e dall'altra parte: Dio come e«)sa pensante et non quatenus alio atlrihuto explicatur Eth.  p. Pr.,,  p. Dim.  pr.;  e  ancora:  ilcir zata ciascuna dal modo differente di concepire le astrazioni realizzate. Questo modo è legato evidentemente alla concezione particolare del mondo propria a  ciascun autore. Platone si rappresenta le astrazioni realizzate colo esistente nella natura e l'idea divina di questo circolo GRICE CIRCLE sono una sola e stessa cosa quae per diversa atirihuta explieatur Etli. p. Schol.  pr. nello S<jhol. prop.  p. Ili: la volizione e il naovimento corporeo corrispondente sono una sola e stessa cosa, che chiamiamo volizione quando si considera sotto l'attributo del pensiero e per esso explieatur; nello stesso Schol.  pr. p : la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e stessa sostanza, quae iam sub hoc iam sub ilio attributo eomprehenditur compre htndi tur ha evidentemente lo stesso senso che explieatur. Questi termini exprimit explieatur e loro sinonimi, sia che indichino il rapporto frH gli attributi e 1'essere unico che essi manifestano,  sia che indichino quello tra i modi e gli attributi, devono significare, nell'un caso e nell'altro, uno stesso concetto: la relazione fra le determinazioni e l'indeterminato di cui sono le determinazioni quest'indeterminato essendo considerato come una realtà, e non come una semplice astrazione. Naturalmente noi dobbiamo attribuire a Spinoza, non solo il concetto che l'estensione e il pensiero sono due determinazioni di un essere unico l'essere assolutamente indeterminato esistente per sé e presente nell'una e nell'altro, ma anche quello che o<;ni  modo dell'estensione e il modo corrispondente del pensiero nono due determinazioni di una cosa unica una  modificazione dell'essere assolutamente indeterminato, pure esistente per se e presente nell'uno e nell'altro. Dal primo al secondo dei due concetti la conclusione non è forzata, e Spinoza la fa perchè vi trova una spiegazione della corrispondenza fra il pensiero e la realtà, e in generale tra l'ordine fisico e l'ordine psichico. L'esistenza per sé d'un'entità astratta, che è il substratum comune  dell'estensione, del pensiero e degli altri attributi e che Spinoza chiama l'ens absolute indeterminatum,  Epist. oltre che nei luoghi in cui è quistione della dottrina dell'identità tra il pensiero e le cose, è indicata chiaramente anche altrove, e sovrattutto in un luogo del trattato su Dio Vaomo e In beat, in cui afferma che gli attributi sono alla sostanza ciò che i modi sono agli attributi trad.  frane.: se tu voi chiamare sostanze il corporale e l'intelletluale rapporto ai modi che ne dipendono, bisogna pure che li chiami modi rapporto alla sostanza da cui dipendono; perchè essi sono concepiti da te, non come esistenti per se stessi, ma della stessa maniera che tu concepisci volere^ sentire, intendere, amare come i modi di ciò che tu chiami sostanza ])ensante, a cui tu li riferisci  come non facenti che uno con essa: donde io concludo che l'estensione infinita, il pensiero infinito e gli altri attributi infiniti non sono niente altro che i modi di quest'essere uno, eterno, infinito, esistente per sé, in cui tutto è uno, e al di fuori del quale alcuna unità non può essere concepita. In questo luogo per sostanza s'intende il substratum degli attril)uti, che esiste per so,  tndipendentemente dagli attributi stessi, mentre nell'Etica la sostanza significa ordinariamente il complesso degil attributi. Tuttavia nella Dim. pr. I per sostanza s'intende, come nel luogo citato di Dio.Vuomo e la beat., qualche cosa di anteriore agli attributi, da cui questi derivano, come i modi derivano da essi Che se si suppone una volontà infinita, deve pure ad esistere e ad operare    essere determinata! da Dio, non in quanto è sostanza assolutamente infinita, ma in quanto ha un attributo che esprime 1'essenza infinita ed eterna del pensiero; e per conseguenza, la volontà, anche infinita, non più dirsi causa libera, ma solo necessaria o coatta. Nello Schol. alla  prop. ha detto che Dio h causa libera in quanto è natura niturans, cioè in quanto è il complessso degli attributi    considerati d'una maniera indeterminata. Qui vuol dire dunque che se la volontà infinita deriva immediatamente dalla sostanza assolutamente infinita, sarebbe un attributo e farebbe parte della natura nnturans, cioè di Dio come causa Ubera; ma derivando invece da un attributo, fa parte della natura naturata, e quindi non di Dio come causa libera. L'esistenza di uu'entità unica, anteriore  al pensiero e alVesten  Del modo più ordinario del realismo se non del realismo dialettico, cioè come dei concetti obbietti vati, in altri  termini come degli oggetti aventi, nella forma della realtà, il contenuto stesso che i concetti nella forma della rappresentazione. Questi concetti obbiettiv^ti di Platone sono dei puri oggetti, tra cui e i cousione, e che sia la radice comune dell'uno e  deirultra, è del resto indispensabile in Spinoza, affinchè il suo sistema sia realmente un monimo e non un dualismo: se non vi fosse qualche cosa di anteriore, da cui l'estensione e il pensiero derivano, tutte le nostre idee non si ridurrebbero ad un'idea unica come vuole l'autore De intellemend. ece. vale a dire, nou si dedurrebbero da un'idea uuioa. ma vi sarrebbero due principii. e non un principio unico. Quest'argomento è tanto più forte, che l'unità di principio, cioè la sistematizzazione completa di tutti i concetti obbiettivati, è un carattere comune del realismo dialettico, che abbiamo incontrato in tutti gli altri rappresentanti di questa forma di metafìsica. Quest'unità di principio noi non possiamo attribuirla a Spinoza che nell'ipotesi che egli ha ammesso qualche cosa di assolutamente indeterminato di cui il pensiero e l'estensione sono le determinazioni primitive; e viceversa, in quest'ipotesi, noi dobbiamo attribuirgliela necessariamente. Se Spinoza ha ammesso questa qualche cosa di assolutamente indeterminato, egli non ha potuto non vedervi il principio nel senso logico ed ontologico che questo lerniine ha nel realismo dialettico dell'estensione e del  pensiero e di tutti gli altri attributi divini benché nell'Etica ammetta, per il motivo indicato nella nota, che la deduzione non deve partire che dagli attributi. Nel suo sistema, e nel realismo dialettico in generale, il più concreto deriva, cioè si deduce, dal più astratto di cui è una determinazione: la causa prima e il principio logico primo deve essere dunque 1'essere assolutamente  indeterminato, da cui il pensiero e 1'estensione indeterminati devono dedursi. come tutte le altre cose si deducono dal pensiero e l'estensione indeterminati. cetti stessi non vi ha altro rapporto che quello che la cosa rappresentata ha con la sua rappresentazione: inoltre essi non hanno gli uni con gli altri altro legame necessario che quello derivante dai rapporti di contenenza tra i concetti,  per cui le Idee generiche accompagnano necessariamente le Idee specitìche, che le contengono come loro parti. Le astrazioni realizzate del Taine sono dei concetti obbiettivati e dei puri oggetti, cioè distinti dal pensiero, come quelle di Platone; ma esse non esistono ciascuna per sé come queste, ma formano delle coppie, ognuna delle quali costituisce una legge della natura. La difterenza  tra queste due forme, la più antica e la più moderna, del realismo, corrisponde evidentemente alla dirtereuza tra la concezione onjamcista del mondo, così naturale al punto di vista della scienza antica, e la concezione, che si può chiamare in un senso lato meccanica, della scienza moderna, che vede nei fenomeni, non la manifestazione dell'essenza o natura particolare a ciascuna specie  di esseri, ma il risultato di un rigoroso determinismo causale, governato da leggi costanti e universali. Le astrazioni realizzate di Hegel non sono solamente l'obbiettivazione dei concetti, ma sono identiche ai concetti stessi, e non dei puri oggetti come quelle di Platone. È che Platone, come tutti i filosofi antichi, divide ingenuamente la credenza  naturale, che dà agli oggetti un'esistenza  assoluta, indipendente dal soggetto percepente; mentre Hegel identifica la realtà col pensiero con un pensiero permanente e assoluto, cioè indipendente da un soggetto pensante particolare, per conciliare la credenza naturale dell'esistenza assoluta degli oggetti col risultato della moderna teoria della conoscenza che gli oggetti  non esistono che in quanto sono conosciuti. Le astrazioni   realizzate di Spinoza differiscono da quelle dei filosofi precedenti, perchè non sono, come esse, dei concetti obbiettivati. Questa differenza è legata alla dottrina spinozista dell'unità di sostanza, cioè al suo panteismo, che è una conseguenza del parallelismo psico-fisico, quale lo comprende questo filosofo. I concetti obbiettivati suppongono l'uno nei molti, cioè che ciascuno si realizzi  in una moltitudine di oggetti particolari: ciò che implica una moltiplicità di esseri, e non un essere unico come vuole Spinoza. Oltre che nelle forme differenti con cui si nappresentano le astrazioni realizzate, le diverse concezioni del mondo dì questi filosofi si riflettono pure nelle forme differenti del loro metodo, cioè della dialettica. Alla concezione organicista di Platone corrisponde  la sua dieresi, (juesta olassazione a gradi multipli, di cui egli fa la legge universale delle Idee, avendo la sua applicazì(me più evidente nel mondo degli esseri viventi. La gerarchia di leggi del Taine somiglia alla gerarchia di tipi di Fiatone, ma si oppone a questa come alla concezione organicista antica si oppone la concezione meccanica moderna, che sostituisce alla essenza o forma la  legge cioè il rapporto  uniforme di sequenza o coesistenza tra fenomeni, e vede nelle leggi particolari dei fenomeni dei casi di leggi più universali. Il concetto cardinale della dialettica hegeliana che gli opposti si chiamano e si danno l'uno con l'altro, dipende evidentemente dalla sua dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, perchè esso trasforma in legge ontologica delle cose una  legge psicologica dei pensieri. Spinoza, conformemente alla sua dottrina dell'unità di sostanza, per cui egli vede in tutti i generi di esistenza degli attributi o proprietà di un essere unico, ammette che le cose si deducono dal primo principio cioè dalla essenza o definizione della sostanza come le proprietà di un oggetto  p. e. di una forma geometrica si deducono dalla essenza o definizione  di queflt'oggetto. Ma malgrado le differenze fra i diversi sistemi, si rivela in tutti una nniià di piano, una vera omologia, tanto più colpente, che essa non si spiega per un legame storico, per una filiazione degli uni dagli altri o da uno stipite comune ed in ciò questa omologia differisce da quella dei naturalisti, ciascun sistema essendosi prodotto indipendentemente dai sistemi precedenti  salvo un certo rapporto del Taine con Hegel, e senza anche che l'autore salva ancora l'eccezione di cui sopra avesse una conoscenza sufficiente dei sistemi precedenti. Spinoza e Taine interpretano Platone alla maniera trasceudentalista cioè riguardano le Idee come poste fuori delle cose, e non mostrano di avere alcun sospetto del vero significato della sua dialettica; Hegel non comprende  né la dialettica di Platone né quella di Spinoza, perchè fa consistere quella del primo nella sua propria dottrina dell'identità degli opposti, e rimprovera al secondo che egli  non applica alla filosofia che il metodo matematico che per Spinoza non conviene che alla conoscenza del secondo genere, e che nel suo sistema tutto è inghiottito dalla sostanza come in un abisso, senza che essa  produca niente di reale e di positivo ciò che mostra che Hegel non comprende che Spinoza fa derivare le altre cose dalla sostanza, per una filiazione al tempo stesso logica ed ontologica come Logica quella del metodo dello stesso Hegel. Questa omologia^questa unità dj piauo, dimostra che la spiegazione delle cose in cui consiste il realismo dialettico, è una di quelle predeterminate,  per così dire, dalla struttura stessa dell'intelligenza umana: essa infatti è il prodotto del concetto inevitabile, per quanto illegittimo, di causazione efficiente coi caratteri, tiinte volte indicati, di necessità, di evidenza intrinseca e di esplicabilità radicale degli effetti per le cause e dell'analogia tra una connessione d'idee, ohe rappresenta un rapporto tra fenormeni realmente o apparentemente  razionale e necessario^ e la connessione tra il principio e la conseguenza nella deduzione; analogia che, oltre alla teoria della causalità che è l'idea madre del realismo dialettico, dà luogo a quella che nel  Saggio 1"abbiamo chiamato dottrina analitica dei (fiudizi a priori, perchè anche questa è fondata nella confusione e l'identificazione di ({ueste due connessioni mentali analoghe. È  notevole che in tutti i sistemi alla spiegazione del realismo dialettico è congiunta una o un'altra forma dell'antropomorfismo. Queste forme variano secondo le diverse concezioni del mondo a cui sopra abbiamo accennato. Alla concezione organicista di Platone corrisponde ripotesi teologica dell'anima del mondo, perchè il concetto delle cause finali nasce naturalmente dalla considerazione degli esseri organizzati. Nel Taine troviamo invece il panpsichismo, questo e 1'ilozoismo essendo le sole forme dell'antropomorfismo che possano accordarsi con la concezione meccanica. Hegel è un idealista^ cioè vede nelle cose il prodotto dell'attività del pensiero, questa spiegazione  essendo la più ovvia quando Saggio delle cose non si fìinno che delle rappresentazioni. In quanto a Spinoza, la sola concezione antropomorfìstica che possa permettergli il suo [uincipio del parallelismo psicofisico, è, non una spiegazione propriamente detta fondata sull'antropomorfismo, cioè che spiega le cose considerandole come prodotte da un'attività analoga all'attività umana, ma  la presenza in tutte le cose dell'anima (^ del pensiero, il fatto fisico non essendo l'effetto HEAD SCRATCHING GRICE del fatto psichico, ma essendone semplicemente accompagnato. Questa unione del realismo dialettico con altre forine di spiegazione metafisica all'antropomorfismo, nei sistemi di Spinoza e di Taine, sì aggiunge anche l'/mpw^ sionismo si comprende facilmente per  il carattere particolare di questa filosofìa. Piuttosto che una spiegazione delle cose, essa dà un sembiante di spiegazione intendendo per spiegazione un'ipotesi che, quantuncpie insussistente, dà una soddisfazione al bisogno di conoscere le cause elidenti; si potrebbe paragonarla ad Issione, che stringe la nuvola invece della dea. La causazione efficiente, secondo il concetto immediato ed  istintivo, non è che una specie di sequenza invariabile; la produzione delle cose, di cui si tratta nel realismo dialettico, imita i caratteri per cui una causazione efficiente si distingue dalle altre causazioni, ma non è più una sequenza tia fenomeni; ai fenomeni sono sostituite delle entità, e alla successione nel temi)o una successione puramente logica. Come queste entità sono le immagini  dei fenomeni a cui si sostituiscono, così la loro produzione è un'immagine della causazione: il realismo dialettico mette i simulacri al posto delle cose stesse; a ciò che darebbe una soddisfazione al bisogno di conoscere le cause efficienti sostituisce un succedaneo, e gode dell'immagine, n<m potendo possedere la realtà. Evidentemente se il realista dialettico ricorre a uu sistema sì poco  naturale, è perchè egli non può immaginare un'applicazione completa tlel concetto di causalità efficiente in un mondo di realtà concrete e particolari: non potendo concepire le cose nel modo conforme alle tendenze spontanee del nostro spirito GRICE TEORIA CAUSALE DELLA PERCEZIONE NECESSARIA IMPLICATURA DI CAUSA PER FENOMENI ANNORMALI, cerca di concepirle in un modo quanto più è possibile, somigliante, costruendo una nuova forma di causalità efficiente ad imitazione della forma immediata ed istintiva. Il realismo dialettico e la teoria della causalità su cui esso è fondato, sono degli effetti della tendenza naturale dello vspirito umano ad assimilare, più che può, le sue nozioni ulteriori e riflesse sulle cose alle sue nozioni spontanee  e immediate. Questa è un caso di una tendenza più generale, che è, secondo me, l'origine di tutti i concetti metafisici, cioè ad assimilare tutte le nostre rappresentazioni a quelle che ci sono le più abituali. La tendenza ad assimilare tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari per cui abbiamo spiegato 1'origine del concetto di causalità efficiente non è che un  altro caso della stessa  tendenza generale GRICE PARADIGM CASE ARGUMENT URMSON STRAWSON FLEW.  Un altro caso ancora è la ripugnanza ad ammettere certe verità scientifiche che ci forzano a formarci dei fatti delle rappresentazioni contrarie alle abituali p. e. il movimento della terra o V azione fisica a distanza, e lo sforzo a trovare dei compromessi tra queste verità e le nozioni abituali  che esse contrariano p. e. l'ipotesi di Tico-Brahe che i pianeti volgono attorno al sole,  ma il sole con tutti i pianeti attorno alla terra, o, in un altro ordine d'idee, la dottrina di Kant della libertà noumenale, mentre gli atti del me DI GRICE fenomenale sarebbero soggetti a un determinismo rigoroso. Un effetto inevitabile di questa tendenza generale dello spirito umano è che, quando non si può ammettere, nella sua integrità, qualcuno di quei concetti che sono i risultati di certi processi spontanei e istintivi della nostra intelligenza, s'immaginano delle dottrine filosofiche che, quantunque non riproducano perfettiimente questo concetto, permettono di concepire le cose nel modo, più che è possibile, analogo. È ciò che io ho detto: assimilare le nozioni ulteriori e riflesse  sulle cose alle nozioni spontanee e immediate. Il miglior esempio di quest'assimilazione, come fondamento di concetti metafisici, sono tutte le dottrine dei metafisici sugli oggetti est^eriori. La dottrina delle monadi, della volontà di Schopenhauer, dell'inconoscibile, e in una parola tutte le ipotesi IPOSTASI trascendenti sulla natura delle cose non liaono altro motivo che di fare risorgere, sotto una nuova forma, il concetto naturale ed istintivo della cosa in sé che non è, in questa sua forma immediata, che la pura e semplice obbiettivazione delle nostre sensazioni. Il realismo trasfigurato del metafisico noi intendiamo per questo termine tutte le forme trascendenti ESCHATOLOGICAL GRICE del realismo non è che un succedaneo del realismo naturale. Discutere il valore  di (jnesta forma riflesso, del realismo non appartiene all'argomento della prima parte di questo Saggio, ma a quello della seconda: noi possiamo tuttavia affermare, come un fatto psicologico evidente, che la forza con cui s'impone al nostro spirito non sta tanto negli argomenti su cui si appoggia, quauto nella sua analogia col realismo istintivo. La è la ripugnanza nat»irale ad ammettere  la dottrina di MORE GRICE TO THE Mill che tuttavia è il risultato inevitabile della filosofia dell'esperienza che la materia si riduce a sensazioni e possibilità di sensazioni: questa tlottrina si respinge senza esame, perchè troppo contraria alle nostre credenze istintive OF OBBLES. Dopo che la riflessione scienha distrutto la credenza naturale che esistono DI UNA MANO DI GRICE, fuori del nostro spirito, degli oggetti OBBLE estesi, c<dorati,, ecc., e che sono (juegli stessi che costituiscono l'oggetto immediato delle nostre sensazioni URMSON THE OBJECT OF THE FIVE SENSES,  noi sentiamo il bisogno di sostituire a questi oggetti qualche cosa di analogo IL VISUM: di là tutte queste teorie dimamismo, paupsichÌ8ino, teoria dell'inconoscibile, ecc. più o  meno difformi dalla credenza naturale, ma die, quantunque non la riproducano né in tutto né in parte, le sono, quanto più é possibile, somiglianti. È un effetto della tendenza indicata del nostro spirito, ad assimilare le concezioni ulteriori e riflesse sulle cose alle concezioni spontanee e immediate. Come altri esempi di questa tendenzii possiamo citare la dottrina della percezione immediata in tutte le sue forme filosofiche perchè nessuna di queste si conforma alla credenza naturale che i nostri sensi colgono immediatamente gli oggetti esteriori, ma non fa che assimilarvisi, e le dottrine degl'irfo/f,  emanati dagli oggetti, di Democrito e del GIARDINO,  delle specie intenzionali di alcuni scolastici, delle immagini nel cervello GRICE FROM THE BANAL TO THE BIZARRE SCIENTISM THE DEVIL di molti fra i primi filosofi moderni, alle quali si può anche aggiungere quella seconrio cui le idee sono degli oggetti esistenti nel nostro spirito, ma distinti dalla percezione che se ne ha, perchè anche questa non è, come le precedenti, che un'assimilazione al modo istintivo di rappresentarci il fatto della percezione e del pensiero, cioè come una fissazione, uno  sguardo, della coscienza DI GRICE su un soggetto esteriore alla coscienza stessa. Io mostrerò nella  3* parte un altro esempio della stessa tendenza nelle dottrine filosofiche sul bene assoluto che e l'idea fondamentale di quasi tutti i sistemi di etica:  Vi'v. SiijiKio e  pajr.  5f»8-;ìfi9.  Lirclerc, Bnicker, GENOVESI, ecc. A questi potremuio uuire i tilosoH scozzesi, Koyer-Collard. ecc.,  che fauno della cosoieuza stessa uu che <li distinto dai fenoiueui psichici di cui si ha la iCoscieu/a. .Sa^jiio queste non sono che un'assimilazione alla credenza istintiva della morale assoluta la quale, per un efietto dell' altra tendenza ad assimilare tutti i fatti a quelli che ci sono i più familiari, considera le nostre nozioni morali come comuni a tutti gli uomini e a tutti gli esseri che  immaginiamo sul tipo umano PIROT,  e come evidenti per se stesse dopo che questa credenza, in questa sua forma immediata, è stata distrutta dalla riflessione scientifica. Il realismo dialettico nasce dunque dal concorso di queste due tendenze naturali del nostro spirito: quella per cui assimiliamo tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari, e quella per cui assimiliamo le  concezioni ulteriori e riflesse sulle cose alle concezioni spontanee e primitive. Per un effetto della prima tendenza noi ammettiamo che ogni fenomeno ha una causa PEARS THOMSON EVERY EVENT HAS A CAUSE  e^ciente, cioè che spieghi l'effetto d'una maniera esauriente nel senso popolare e metìifisico della parola spiegazione – NOT REICHEMANN’S! ed abbia con esso  un legame necessario ed evidente intrinsecamente. Per un effetto della seconda, quando non si può immaginare, nel mondo delle realtà concrete, un'applicazione sufficiente di questo concetto istintivo della causalità, si realizzano le astrazioni e s'introduce fra queste astrazioni realizzate un incatenamento logico continuo PSICOPATICO, considerando il principio logico come causa e la  conseguenza come effetto. Ciò si fa perchè il principio logico, quando i principii e le conseguenze sono delle entità, diviene anche un principio ontologico AND JUST LIKE THAT, e nel rapporto tra questo principio e le conseguenze che se ne fanno derivare, si trovano i caratteri che distinguono una causazione efficiente da una semplice causazione empirica o sequenza invariabile SPOTS ARE MEASLES. Piuttosto che un'assimilazione alle causazioni familiari da cui ci è venuto il concetto istintivo di causazione efficiente DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE, la teoria della causalità del realismo dialettico è, se mi è lecito di dir così, un'assimilazione a quest'assimilazione. Tuttavia sono queste causazioni familiari il tipo primitivo su cui  sono modellate le causazioni del realista dialettico; tipo con cui non hanno necessariamente che una vaga somiglianza, quale le ombre della caverna, nell'allegoria del padre del realismo dialettico che noi dobbiamo prendere a controsenso potevano avere con le cose, dei cui simulacri erano le ombre. Nihil oritup, nihil interit. La nozione di causa efficiente con le sue applicazioni è la  manifestazione incomparabilniento più importante della tendenza naturale del nostro spirito ad assimilare tutti i fenomeni  a quelli che ci sono i più familiari: ma la metafisica ci presenta altre manifestazioni di questa tendenza, di cui una non può non formare un oggetto speciale del nostro studio, per il gran posto che essa non ha mai cessato di tenere nella storia del pensiero. Se noi  div^idiamo tutti i fenomeni della nostra esperienza, vale a dire tutta la massa delle percezioni che noi abbiamo avute sin dal  primo momento della nostra esistenza, in due grandi categorie PAPA e MAMA,  mettendo nell'una tutte le esperienze che ci hanno mostrato un cangiamento nelle proprietà delle cose, vale a dire nei caratteri per cui noi distinguiamo le cose particolari e il cui  complesso si chiama V essenza d'una cosa, e mettendo nell'altra le esperienze che €i hanno presentato le cose con le stesse proprietà IV f 1 / I che essi ci avevano prima mostrato, è evidente che quelle della seconda categoria MAMA sono, senza comparazione, le più frequenti, le più familiari. Inoltre, se noi facciamo un'altra divisione in questa massa totale delle nostre esperienze,  riunendo in una classe tutte quelle che ci hanno presentato un cangiamento in qualsiasi qualità delle cose e non semplicemente nei loro caratteri distintivi, essenziali, e in un'altra tutte quelle che ci hanno presentato un non cangiamento qualitativo e niun altro cangiamento che nelle posizioni reciproche delle cose, è evidente ancora che, quantunque la differenza numerica tra le due classsi  non sia in questo caso così grande come nel caso precedente, la seconda MAMA classe sorpassa di gran lunga la prima per la frequenza o familiarità dei fenomeni si devono anche comprendere sotto la parola  fenomeno le esperienze di un assoluto non cangiamento. Perchè la verità di queste osservazioni venga pienamente compresa, non sarà forse inutile di far notare, primo, che di  una gran parte dei cangiamenti che noi osserviamo nella natura gli antecedenti sfuggono alla nostra percezione attuale p. e. noi vediamo cadere la pioggia ma non vediamo la trasformazione del vapore in acqua; noi vediamo il lilo d'erba sorgere dal suolo, ma non vediamo la trasformazione del germe in filo dYn'ba e che in questi casi perciò il cangiamento delle proprietà non deve  contarsi fra le nostre esperienze EDDINGTON’S TWO TABLES GRICE; e secondo, che la più parte dei cangiamenti qualitativi delle cose non si producono che mediante una gradazione continua, impercettibile p. e. il fanciullo cresce, il giovane invecchia, ma senza che noi abbiamo mai attualmente la percezione del cangiamento, il quale non è conosciuto che dalla riflessione che <5onipara degli stati separati da lunghi intervalli sicché, in questi casi,  BIRD OUT OF THE EGG le percezioni stesse che ci vengono dagli esseri sottoposti ad un continuo cangiamento, vanno ad accrescere nel fatto la massa delle esperienze del non cangiamento, e, per conseguenza la forza che questa massa esercita sulle associazioni tra le nostre idee. La conseguenza di ciò che  abbiamo detto è che, conformemente alla tendenza generale ad assimilare ciò che ci è meno familiare a ciò che ci è più familiare, noi siamo naturalmente inclinati ad ammettere che il fondo dell'essere è permanente, immutabile, e che il cangiamento non è che superficiale o anche apparente, e a spiegare la natura, partendo dalla ipotesi che non vi ha mai in realtà un cangiamento nella  essenza del reale, in altri termini che niente, al fondo, nasce né muore, o anche dalla ipotesi più radicale che non vi ha mai nelle cose un cangiamento qualitativo, intrinseco, ma il cangiamento si riduce al mutamento dei rapporti reciproci di posizione e non attinge mai le cose in se stesse. La tendenza a concepire le cose di questa maniera è cosi naturale al nostro spirito, che essa si  mostra anche nelle nostre metafore più ordinarie il piacere che dà una metafora è forse dovuto in a una soddisfazione del profondo bisogno della nostra intelligenza di identificare, di assimilare e nelle forme più abituali della lingua:  p. e. si dice che la scintilla si sprigiona dalla selce, e la parola sviluppo o evoluzione serve ad indicare i cangiamenti ordinati che si producono in un tutto,  come se ciò che viene in seguito fosse già contenuto in ciò che era prima, d'una certa maniera latente, inviluppata. L'esempio forse più notevole del sofisma a priori dì cui parliamo, lo troviamo nel primo periodo della filosofia, cioè nei fisici ionici e nei VELINI. Ciò che questi filosofi si propongono in primo luogo, è la ricerca dell'essenza immutabile delle cose, del fondo permanente  dell'essere che non attinge il cangiamento. Siccome la tendenza filosofica che carattorizza questo periodo del pensiero non è messa sufficientemente in luce dagli espositori più desiderosi di trovare una connessione logica nella successione dei concetti filosofici che di comprendere la loro derivazione dalle disposizioni naturali dello spirito umano noi dobbiamo darne un'esposizione al  nostro punto di vista, esposizione che sembrerà forse troppo diffusa per il soggetto di questo scritto, ma noi saremo nella necessità di giustificare le affermazioni che avanzeremo. Noi sappiamo da Aristotile che il principio comune di tutti i fisici, ammesso da loro come una ptuposizione assiomatica, è che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere. 11 senso di questa  proposizione non è semplicemente che la materia non può crearsi dal niente ne diventare niente, ma anche, come ci spiega lo stesso Aristotile, che le cose non possono cangiare di natura, cioè che delle cose aventi una natura determinata non possono cangiarsi in altre di una natura differente, o, per parlare la lingua di questo e di quelli di cui egli espone le opinioni» I I che gli esseri non  possono né nascere né perire, che non vi ha in realtà né generazione né corruzione. I diversi sistemi dei fisici non sono, anzitutto, che delle realizzazioni differenti di questo principio generale, a tutti comune. La maniera più chiara e più coerente di realizzare questo principio è quella seguita dai fisici che Bitter chiama iììeccanisù\ cioè di ammettere una pluralità  di sostanze qualitativamente  immutabili, e di cui non cangiano che i reciproci rapporti nello spazio. Dal principio che l'essere non può cominciare né finire questi fisici ne concludono così, non solo l'immutabilità della natura  o essenza IZZ HAZZ delle cose, ma la loro assoluta immutabilità qualitativa: e in verità non vi ha tra le due specie di mutazioni una distinzione precisa, le qualità non potrebbero nettamente separarsi in due categorie, le une essenziali IZZ, le altre non essenziali HAZZ. Per altro Timmutabitità delle qualità, così bene che T immutabilità dell'essenza IZZES HAZZES, era anch'essa compresa nel senso, necessariamente vago ed ondeggiante, dell'assioma dei fisici^ questa proposizione a parte l'enunciazione che essa racchiude della persistenza della materia essendo l'espressione di questa oscura tendenza del nostro spirito che ci spinge a ricondurre più che possiamo il fenomeno meno familiare, che è il cangiamento nello stato delle cose, al fenomeno più familiare^ Arlst.  Phys  VIU;  i^et.  m.  V.,  ecc. vili che è la loro persistenza nello stesso stato. La fisica meccanista si presenta in una forma più primitiva  perchè conforme alla credenza spontanea della  obbiettività di tutti i dati della percezione sensibile e al tempo stesso più metafisica per le ipotesi trascendenti sulle forze motrici in Anassagora e GIRGENTI; negli atomisti, in una forma più sciene rigorosamente naturalista, che l'ha resa suscettibile di sopravvivere a tutti gli antichi concetti filosofici, e di ritrovarsi, la stessa per il fondo, nella scienza. GIRGENTI ammette, come tutti  sanao, quattro sostanze materiali: la terra, l'acqua, l'aria e il  fuoco^<5he sono le forme più comuni e al tempo stesso più inarcatamente differenti con cui la materia si presenta ai nostri sensi. Le particole di queste sostanze elementari, cangiando la loro posizione rispettiva, congiungendosi e separandosi, danno luogo a tutto «ciò che vi ha di variabile nell'universo; ma ciascuna sostanza  in sé è sempre la stessa, sempre simile a se stessa. GIRGENTI nel suo poema sgrida gli stolti che credono che qualche essere possa nuovamente prodursi e poi cessare di esistere; che ciò che non esiste prima della nascita e non esisterà  più è nato dopo la morte. Ciò è un'illusione; non vi ha, a parlar propriamente, né nascita né morte; non vi ha che congiunzione e separazione di sostanze  che persistono sempre le stesse, poiché Tessere non può Versi  Mullach. venire dal niente nò diventare niente. Ciò che gli antichi chiamano alterazione cioè il cangiamento nelle proprietà sensibili, p. e. da bianco in nero, da caldo in freddo, da secco ad umido, da molle in duro, e viceversa non è al punto di vista di GIRGENTI e di tutti i fisici che ammettevano più sostanze primordiali    meno impossibile che ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione; ciascuna sostanza conserva sempre le sue proprietà sensibili particolari; come un pittore, con un numero limitato di colori, convenientemente mescolati.  Versi Mullach: AUud vero tibi dlcaiii: nec ortus est ullius rerum mortali uni, neo funestae mortis interltus, sed ftola mlxtio mixtorum(iue secretlo, generati©  vero in his rel)us ab hominlbun vocatur. eo enim. quod non est, fieri neqult ut quidquam orlatur, ens vero Interire nullo pacto potest; semper enim superabit, nuocumque quls illud propulerlt. Sed malls utique mos est diffiderò veris ac legltlmis: tu vero, quemadmodum certa Musae nostrae argumenta jubent, tenete, mente In praecordlis divisa. At  UH,  quldciuid ad houiluls slmilitudlnem  mixtum In aetheris lucem [pervaserit vel ex agrestlum anlmantium genere vel fruticum vel volucrium, Id quldem natum putant; quum vero Illa secernuntur, hoc infaustum fatum Inepte appellant, sed ad consuetudinem ii>se me accomodo. 8tultl: neque enim pei-splcax tpsls mentis acìes est, ut qui quod prius non erat  Id gignl existiment aut emorl aliquld et penltus  Intercidere. Neque  vlr sapiens tal la oplnetur, quamdlu vivant mortales, quam  IllI certe vltam vocant, tamdiu Ipsos esse et bona lls malaque evenire, antequam vero concreti et postquam dissoluti siut, nlhil esse. Arist,  Qen et corr., Met., ecc. anche Plut Plac, Stof. X può riprodurre tutta la varietà che noi osserviamo nella natura, così questa può produrre tutta questa varietà mescolando convenientemente  le quattro forme elementari. Ma nella mescolanza ciascuno degli elementi si conserva inalterato; non vi ha fusione tra un elemento e un altro, ma semplicemente juxta posizione. Secondo questo punto di vista le proprietà sensibili del composto risultano dalle proprietà sensibili degli elementi della stessa maniera in cui il grigio risulta dal bianco e dal nero. Una quistione che s'impone  necessariamente ai fisici meccanisti è quella dell'origine del movimento. Essi non possono contentarsi di quest'idea vaga dei fisici unizzanti, loro predecessori, secondo cui il tutto, cioè il mondo considerato nel suo insieme, avrebbe la proprietà di produrre spontaneamente movimento, proprietà che noi non osserviamo nelle sue parti, cioè negli elementi materiali che lo costituiscono. In  queste noi non vediamo che Vinersia, l'incapacità di passare da se stesse dalla quiete al movimento; e sarebbe contrario al prin. Veisi  M.  Ai-lst. De Geu, et Corr,; Galeno In Hlppoor. De fiat, hojfi. Comment.  prlin. al  tento.  In verità GIRGENTI ammette un movimento naturale dei corpi pesanti, come la terra, verso Jl basso, e del fuoco verso l'alto Arlst. De  An., Gen, et  corr.:  movimento In cui egli sembra vedere un caso della  tendenza che ha secondo lui il simile MACCHIO ad unirsi al suo simile MACCHIO,  Versi  M. Ma quand'anche egli avesse ammesso che (jnesto movimento fosse dovuto a una tendenza inerente agli elementi stessi e non alle forze motrici di cui diremo, questa opinione isolata di GIRGENTI, come quelle analoghe che gli altri fisici  meccanisti hanno avuto o hanno potuto avere, non può impedirci di attribuir loro la dottrina dell'Inerzia della materia, che risulta  dairimpresslone generale del loro sistema. XI cipio dell'immutabilità qualitativa della sostanza l'ammettere che una sostanza, ordinariamente inerte, possa acquistare in certi casi la proprietà di mettersi spontaneamente in movimento. Supporre d'altronde che  il mondo, considerato come un tutto^abbia una spontaneità di movimento che manca alle sue parti costitutive, sarebbe sempre ammettere un cangiamento qualitativo in queste parti, poiché è in esse, al postutto, che dovrebbe prodursi questo movimento spontaneo della cui facoltà il tutto vorrebbe supporsi dotato. Ne segue che la produzione del movimento non può essere attribuita agli  elementi materiali: perchè essi fossero in certi casi capaci di mettersi spontaneamente in movimento, bisognerebbe, essendo essi qualitativamente immutabili, che il movimento, e la stessa specie di movimento, si produce in essi costantemente, cioè d'una maniera continua. Ora, supposta l'inerzia degli elementi materiali, bisognerà ammettere ovvero che non vi ha mai produzione di  nuovo movimento, e che il movimento di un corpo è sempre dovuto alla spinta o alla trazione di qualche altro corpo, ovvero^ se vi ha produzione di nuovo movimento, ch'essa è dovuta a delle forze motrici distinte e separate dagli elementi materiali. GIRGENTI ammette la seconda di queste due ipotesi: così egli aggiunge ai quattro elementi materiali due forze motrici del resto concepite  anch'esse come estese nello spazio secondo le concezioni semi-materialiste antico spiritualismo, cioè 1'amore e l'odio, di cui il primo è la causa della riunione O COPULA delle sostanze e quindi della produzione delle cose, e il secondo della separazione THANATOS I LOVE TO HATE YOU delle sostanze, e quindi della dissoluzione delle cose. La dualità delle forze motrici TWO DIRECTIONS OF FIT è data a GIRGENTI dal principio stesso dell'immutabilità qualitativa della sostanza: egli non comprende che una stessa forza produce alternativamente i due movimenti contrari di attrazione e di repulsione, di riunione e di separazione, delle particole elementari. Un'altra quistione, che si presenta naturalmente al punto di vista dei fisici meccanisti, è quella dell'origine della sensibilità GRICE BANAL TO BIZARRE e del pensiero. Che la stessa materia da incosciente diventi cosciente e viceversa è contrario al principio dell'immutabilità qualitativa della sostanza. Per conseguenza bisogna ammettere o che la materia è sempre e in tutte le sue parti dotata di sensibilità e di pensiero; ovvero che queste sono delle proprietà inerenti sia a qualche sostanza materiale particolare, sia ad una sostanza diversa dalla materia. Noi ritroviamo le tre differenti ipotesi nei tre diversi sistemi della fisica meccanista. L'ipotesi di GIRGENTI è la prima, cioè egli ammette che ogni elemento senta e pensi; e il principio dell'immutabilità della sostanza è da lui spinto sino al punto di non attribuire a ciascun elemento che una funzione sened  intellettuale sempre invariabile ed  identica: ciascun elemento non conosce che il suo  simile secondo il principio di alcuni antichi filosofi  Versi  M.; Atlst.  Met., Oeìi. et corr., ecc. M. Versi che il simile si conosce dal simile, e cosi anche noi con la terra conosciamo la terra, col fuoco il fuoco, con l'amore 1'amore, ecc., la sensibilità ed intelligenza di un tutto essendo la somma delle sensibilità ed intelligenze elementari. L'ilozoismo di GIRGENTI è una conferma della esattezza della deduzione, da noi data, della dottrina sulle forze motrici.  Potrebbe sembrare infatti che l'ipotesi dell'animazione degli elementi materiali avrebbe dovuto dispensare GIRGENTI dal ricorrere a delle forze motrici distinte dalla materia stessa. Ma il problema della causa del movimento è per GIRGENTI subordinato al problema di conciliare la produzione del movimento col principio dell'immutabilità qualitativa della sostanza: l'ipotesi dell'animazione della materia non modifica per niente questo fatto dato dall'osservazione che la materia è ordinariamente inerte, e GIRGENTI non poteva attribuire, in certe condizioni particolari, a questa materia, quantunque senziente e pensante, la proprietà di mettersi spontaneamente in movimento, senza contraddire al suo principio fondamentale, cioè quello della immutabilità della  sostanza. La dottrina di Anassagora sugli elementi materiali è più radicale che quella di GIRGENTI. Egli non crede che un numero limitato di elementi possano spiegare, per la loro aggregazione e disgregazione, rinfiuita varietà che si osserva nella na Per cui Arist. dice che GIRGENTI fa constare rjiìiliiia dagli elemeutl. De An. ecc. 1 ti  tura. Secondo lui devono esservi tante sostanze  elementari quante specie vi hanno di corpi che possono distinguersi per le loro proprietà sensibili: il ferro, 1'oro, la carne, 1'osso, il sangue, ecc.,  e in una parola tutti i corpi che Aristotile chiama omeomeri, cioè tali che la natura delle parti in cui possono dividersi è identica a quella del tutto, sono per lui delle sostanze tutte primordiali ed eterne, che nou possono provenire da altre  sostanze ne cangiarsi in altre sostanze. Di più siccome ciascuna delle specie di sostanze che noi possiamo distinguere contiene in se stessa delle differenze individuali, Anassagora ammette che vi ha un numero infinito di elementi di germi, di cui è esattamente simile ad un altro, ma che tutti differiscono sia per la forma, sia pel colore, sia pel gusto, sia per qualsivoglia altra proprietà sensibile. Questi elementi, ora congiungendosi ora separandosi, producono tutti i cangiamenti che noi osserviamo nelle cose, ma ciascuno si conserva sempre identico a se stesso. Se delle sostanze differenti sembrano procedere le une dalle altre, è questa un'illusione, la quale si spiega per il fatto che nessuna sostanza è pura, ma ciascuna Donde 11 nome di omeomerie con cui vengono  designati 1 prlnclpll materiali di Anassagora Zeller. Arlst. De gen. et corr.; De Coelo,  Met,;  Lucrezio;  ecc. Fr. Mullach, Arlst. Phys  m., Gen. ^t  corr., De Coelo, Met. Fr, 3  M. è mescolata a particole di tutte le altre sostanze. Così Tassimilazione degli alimenti nella nutrizione non avviene perchè questi si trasformano in ossa, in sangue, in carne, ecc.: queste sostanze  esistevano già preformate negli alimenti stessi – il calcio del latte; esse non fanno che separarsi dalle altre sostanze con cui erano mescolate, e riunirsi alle sostanze omologhe del corpo dell'animale Anassagora non nega meno energicamente di GIRGENTI che qualche cosa possa cominciare ad esistere o finire di esistere. Quando gli Elioni, egli dice, parlano di nascere e di morire, essi  fanno uso di termini di cui non dovrebbero servirsi, in realtà niente nasce e niente muore, ma delle cose già esistenti si riuniscono, e poi si separano. A parlar propriamente, bisognerebbe dunque chiamare il cominciamento delle cose una composizione, e la fine una disgregazione. Ciò che è stato detto della inalterabilità degli elementi di GIRGENTI si applica pure agli elementi di  Anassagora; e a più forte ragione, poiché a ogni minima differenza qualitativa corrispondendo per quest'ultimo una sostanza elementare differente, il minimo cangiamento di qualità equivarrebbe per lui a un cangiamento di essenza. Gli antichi, a cominciare da Aristotile, fanno derivare la dottrina delle omeomerie dal principio che l'es Fr.; Arlst  iVi//.  rv\   Placita  Fr.  M.3, sere non  può venire dal non essere né ridursi al non essere. Il problema dell'origine del movimento e quello origine della coscienza di GRICE sono risoluti da Anassagora, ammettendo che tra le altre sostanze eterne immutabili ve ne sia una che abbia la proprietà di pensare e di sentire, cioè la Mente, il Nous. Il concetto dell'inerzia della materia è espresso in lui della maniera più energica, poiché  egli ammette che all'origine il tutto era in un'immobilità assoluta, che il movimento non cominciò che per l'azione del Nous sulla materia. TI Nous eh'egli concepisce come esteso nello spazio, e costituito, come tutte le omeomerie, di parti omogenee fra di loro e col tutto è partecipato dai diversi esseri animati, in maggiore o minor quantità, ma da per tutto identico nella qualità, e produce  in essi la sensazione e il pensiero. Il Nous non cessa mai di agire nella maniera che gli è propria: il corpo dorme, ma l'anima veglia sempre. Il principio che l'essere non può cominciare né finire condusse Leucippo e Democrito a un'ia  AriHU  PhffS  l.I.V^I.2-:^,  3Iet.,  P/acita  e,  Fr.  MuHach;  Arist.  Fliys  Fr.  M.  Arlst.  De  nti.  Aristotile  De  an,  l. «lice che Anassa^^ora non fa  differenza fra II nous e Tanlma, porche, mentre per lo stesso Aristotile alla sostanza nous non appartiene che la fnnzlone superiore tleiraninia, cioè 1'Intel llj?enza, essa Invece per Anassagora è anche Il principio delle funzioni Inferiori. Placita  Diog.,  Alex.  ad.  Met.  Stab.  Ed., Plutarco adv.  Col,  S. . terpretazione dei fenomeni fisici, in cui l'inalterabilità assoluta della sostanza  deriva  dal concetto stesso della  materia. Concepita infatti la materia come destituita di qualità sensibili e perfettamente solida cioè di una densità e durezza assoluta non è possibile d'immaginare in essa altro cangiamento che nella posizione reciproca delle sue parti, e noi abbiamo così le condizioni generali di una fisica costruita sullo stesso tipo che quelle di GIRGENTI e di Anassagora. Ciò  che caratterizza in primo luogo il sistema degli atomisti è la dottrina della subbiettività del colore e delle altre qualità sensibili le qualità seconciarie dei moderni. Democrito prova questa dottrina per la relatività della percezione sensibile; ma essa può direttamente dedursi dal principio, che è la presupposizione GRICE COLLINGWOOD dei fisici meccanisti, della immutabilità  qualitativa  della sostanza. Se in effetto queste qualità dei corpi fossero reali, esse sarebbero invariabili; ma ciò è contrario all'esperienza. Noi vediamo infatti che una cosa, conservando la sua identità materiale, può nondimeno cangiare di colore, e dei corpi, composti di elementi eterogenei, presentano all'occhio una massa perfettamente omogenea, ciò che non avverrebbe, se ciascuno di questi  elementi diversi avesse il suo colore proprio ed invariabile. Anassagora e GIRGENTI, dotando ciascuno dei loro elementi di Teofrasto De scnsn ecc.. Arlst. Geiicrat, et  corr,  LUCREZIO proprietà sensibili determinate, si trovavano ad ogni momento in contraddizione con la testimonianza dei sensi: di là la loro diffidenza verso la percezione sensibile; di là ancora delle proposizioni paradossastiche come quella di Anassagora, così celebre presso gli antichi, che la neve è oscura poiché l'acqua di cui è formata è oscura). L'ipotesi della solidità assoluta della materia nei suoi elementi ultimi, insieme all'ipotesi del vuoto, sono destinate a conciliare col principio dell'immutabilità della sostanza i fenomeni del cangiamento nella densità dei corpi, e so\a-atutto nel loro  stato fisico cioè il cangiamento da solido in liquido, da liquido in gazoso, e viceversa. È il secondo di questi fenomeni che è particolarmente in contraddizione col principio della immutabilità della sostanza il qual priniàpio non è, come abbiamo detto, che una suo-ffestione delle nostre esperienze più familiari. Il caniriamento nello stato fisico dei corpi è un fénomeno relativamente  straordinario; il fenomeno ordinario, familiare, è la persistenza in quello stato in cui si trovano. Così Leucippo e Democrito ammettono la solidità come lo stato invariabile della materia in se stessa, e il vuoto interposto tra le particole solide come la causa della diminuzione di densità che accompagna la trasformazione dei corpi solidi in liquidi e di questi in gazosi.  Ma  am. Y. Empod.  V.  Miinach, Sesto  lìfath. Sesto Pyrrh., CICERONE Acad, ai, Galeno De simpìic, medicamente, ecc. I fisici anteriori aveano jxlfi  ricondotto 11 cangiamento di stato fisico alla rarefazione e condensazione. messa una volta la solidità, come carattere comune di tutti gli elementi della materia, e il vuoto, si troA^ava più coerente di attribuire a questi elementi, non un certo grado di densità,  ma una densità assoluta cioè di concepirli come resistenti a qualsiasi compressione, e di spiegare per il vuoto tutte le differenze di densità che si osservano nei corpi, tanto più che il cangiamento di densità della materia è al postutto un fenomeno meno familiare, e quindi meno intelligibile, che la sua persistenza nello stesso grado di densità. Alla densità assoluta degli elementi si aggiunge la durezza assoluta, cioè la resistenza a qualsiasi sforzo tendente a cangiarne la figura; e ciò sia perchè la durezza sembra legata alla densità, Arlst. Pliys. espone gli argomenti degli Atomisti per provare li vuoto, 1 quali si riducono in sostanza a questi tre: il movimento non sarebbe possibile senza il vuoto, perchè uno spazio pieno non potrebbe dar posto al corpo clie si muove. la  compressione, la condensazione dei oorpi, per cui uno stesso corpo può occupare uno spazio minoro di prima, suppone il vuoto. un corpo può introdursi nello spazio occupato da un altro corpo, in modo che i due corpi insieme occupino lo stesso spazio cne prima era occupato da un solo di essi. Di questi argomenti 11 2. corrisponde al motivo che noi abbiamo assegnato all'origine della dottrina: gli altri due per essere probanti devono presupporre l'Impossibilità che una materia continua occupi uno spazio ora maggiore e ora minore, dilatandosi e condensandosi, vale a diro prendere come concesso ciò che era appunto in quistlono tra i partigiani della continultii della materia e quelli del vuoto. Il primo argomento deve presupporre anche che tutta la materia sia solida,  ipotesi la quale alla sua volta presuppone il vuoto. Sicché noi dobbiamo ammettere, come vero scopo della dottrina, quello di spiegare la rarefazione e la condensazione. Teofrasto De sensn sia per una ragione di coerenza nella spiegazione dei fenomeni. Infatti la facilità a cangiare di figura dei corpi non solidi spiegandosi per la mobilità degli elementi solidi separati che li costituiscono,  il cangiamento di figura di un corpo solido p. e. di di un corpo elastico deve spiegarsi pure, se si vuol essere coerenti, per il movimento di particole divise e separate fra di loro, e quindi i corpuscoli solidi, le particole ultime in cui la materia è divisa, ciascuna delle quali è necessariamente continua ed indivisa indivisa, non indivisibile, perchè non abbiamo ancora dedotto il concetto deir  atomo non possono concepirsi come suscettibili di un cangiamento di figura. Un'altra conseguenza che Leucippo e Democrito tirano dal principio dell'immutabilità della sostanza è il rigetto della dottrina delFunità della materia, della convertibilità reciproca di tutte le sostanze ammessa dai più antichi fisici. Questa dottrina, come lo prova il fatto ch'essa fu universalmente abbracciata  dai primi fisici, e che essa prevalse in ogni tempo nella filosofia, era l'interpretazione più ovvia dei dati deirosservazione, la quale mostra che le sostanze più marcatamente differenti i quattro elementi degli antichi erano convertibili T una nell'altra: ma la dottrina ammessa invece da Leucippo e Democrito, d'una pluralità di sostanze primordiali, di cui ciascuna conserva eternamente la  sua propria natura e le proprietà particolari che la distinguono, era più conforme al principio a priori che gli esseri non possono ne nascere nò perire. Ora una materia di una solidità assoluta cioè di una densità e di una durezza assolute, in tutte le sue parti, e destituita di colore e di tutte le altre proprietà che non siano tangibili, è una materia assolutamente omogenea: tra le sue parti non  potrebbero concepirsi altre differenze che di figura o di grandezza. Così è per la figura e per la grandezza che secondo Leucippo e Democrito gli elementi materiali si distinguono fra di loro. Si potrebbe forse supporre ch'essi avrebbero potuto distinguere gli elementi di diversa natura per delle energie o attività differenti: ma anzitutto per Leucippo e Democrito, come per gli altri fisici  meccanisti, la materia è, come diremo, inerte, non è attiva; e poi non si comprenderebbe come un sustrato perfettamente omogeneo in tutte le parti potesse manifestare nelle sue parti distinte delle attività insite differenti. Così, le sostanze differenti distinguendosi per la grandezza e la figura degli elementi costitutivi, la inalterabilità di queste sostanze, la inconvertibilità delle une nelle  altre, suppone che gli elementi costitutivi conservino sempre la stessa grandezza e la stessa figura, cioè ch'essi siano indivisibili. Allora il concetto A^Waionio si trova costituito. Il concetto dell'inerzia della materia a Leucippo e Democrito risulta d'una maniera più necessa Arist.  Met ;  Gen.  et  corr,;  Vili. De Coelo  Phi/s.  ecc.   Arlst.  De  Coelo  ria ancora che ad Anassagora e a GIRGENTI; poiché la materia allo stato solido sembra manifestarci la sua inerzia d'una maniera più evidente che ad un altro stato fisico. Ma gli atomisti intendono mantenersi in un terreno rigorosamente naturalista, e non ricorrono a delle ipotesi trascendenti per ispiegare 1'origine del movimento: essi ammettono perciò che il movimento non ha origine, che non vi ha movimento che  sia spontaneo, e che il movimento dei corpi è sempre prodotto dall'urto di altri corpi. Come essi si rappresentano la materia universale sul tipo dei corpi solidi, così essi elevano a tipo universale del modo di produzione del movimento l'azione meccanica che noi osserviamo tra i corpi solidi. Arisi. De Gen. et  corr,  VITI,  Fìac,  Stob. Ed,;  SIiiipl.  De  Coelo;  Alex,  ad  Met., CICERONE  De fato. Noi nou possiamo ammettere con Zeller, Lnnge ad altri espo che Leuclppo e Democrito abbiano spiegato l'origine del movimento attribuendo agli  atomi 11 peso alla  maniera del GIARDINO, cioè una tendenza naturale al movimento verso 11 basso. Ciò è esplicitamente contraddetto da molti autori antichi, quali Alessandro, Ps. Plu-, Stobeo, CICERONE nel luoghi citati  nell'ultima nota, che mettono In opposizione sotto questo rapporto la dottrina di Democrito e quella del GIARDINO, e queste testimonianze sono tanto più attendibili, che vi era più motivo d'ingannarsi, confondendo a torto le due dottrine anziché distinguendole a torto. Inoltre questa interpretazione è implicitamente contraddetta dallo stesso Aristotile, il quale dice che Leucippo e  Democrito non hanno cercato la causa del movimento Met., e non hanno accordato agli atomi alcun movimento naturale De Coelo. Se malgrado ciò  Zeller attribuisce agli antichi atomisti la dottrina degli atomisti posteriori, è perchè egli assegna, come scopo precipuo, alla fisica nieccanista quello di spiegare il divenire, e perciò ritiene che una causa prima del movimento sia un elemento  essenziale di una tale fìsica. Ma l'oggetto principale del meccanisti, come degli altri fisici, era la ricerca della essenza Immutabile delle cose, noi dobbiamo perciò considerare Iil In quanto al problema dell'origine della coscienza DI GRICE, si crederà forse che gli atomisti Thanno abbandonato come affatto insolubile secondo i loro principii; o almeno che essi non hanno potuto, in ogni caso, darne una soluzione che si avvicinasse a quella della dottrina animista. Tuttavia questo che sembra naturale e necessario al punto di vista del materialismo moderno, non era tale al punto di vista del materialismo antico: gli atomisti, come quasi tutti gli altri materialisti antichi, accettavano la distinzione comune tra anima e corpo quantunque, conformemente per altro alle concezioni  dell'animismo primitivo,  r anima  fosse per loro anch'essa materiale. Così basta di dare all'anima un sustrato materiale specificamente distinto da quello delle altre sostanze ciò che era assai conforme ai principii della fisica ineccanista ^v avvicinarsi al punto di vista del dualismo spiritualista. Noi abbiamo visto che la distinzione del Nous dalle sostanze materiati come essenziale alla  loro fisica la dottrina dell'inerzia della materia, ma non quella di una causa prima del movimento. Dall'altra parte, noi non possiamo nemmeno, a difetto di testimonianze precise, affermare col Lewes che Democrito abbia spiegato 11 peso stesso per l'impulsione quantunque Aristotile, /?e  Coelo  . Vin. , sembri alludere a questa dottrina, la quale potrebbe convenire agli atomisti meglio  che a qualsiasi altro degli antichi filosofi. Sembra più verisimile che Leuclppo e Democrito, con tutti gli altri fisici, considerassero la caduta dei gravi cioè dei corpi aventi un certo grado di densità, perché pare che gli antichi atomisti attribuissero al corpi meno densi, non una tendenza a cadere, ma una tendenza a portarsi in alto. Aristotile De Coelo come un fatto abbastanza naturale ed  intelligibile, in ragione della sua famUiarità, del quale non occorreva di dare una spiegazione IMPLICATURA. era anzitutto in Assagora una conseguenza della dottrina delle omeomerie. Democrito non distingue l'anima da tutte le sostanze corporee; egli la identifica ad una sostanza particolare, il calore, in modo che il calore e l'anima sembrano per lui due concetti assolutamente  coestensivi, due termini perfettamente sinonimi, il calore essendo per se 8teg;so anima, come l'anima calore. Cosi egli sembra fare della coscienza un attributo inseparabilmente congiunto al calore, e perciò dÌLfonde l'anima in tutto l'universo, dal quale gli esseri animati l'assorbono, assor})endo il calore. Questa dottrina di Democrito, data la sua spiegazione perfettamente naturalista  del mondo, non si comprende che come uno sforzo por rendere conto dell'origine della coscienza DI GRICE, conformemente al principio della fisica meccanista cho TesscTO non può né nascere ne perire. Potrebbe sembrare che la concezione meccanista essendo, come abbiamo notato, l'applicazione più chiara e più coerente del principio comune dei fisici che l'essere nou può A^enire  dal non essere né ridursi al non essere, noi dovremmo trovare questa concezione al punto di partenza della fisica, e non quella che vi troviamo in effetto, di una so  Arlst.  De  An,,  De respirar,  oUr© I  .  citati  nen'ultlma nota, Plut.  P/ac,  \. I.  vn., Stob. Ed,  (fililo cantra Jnlianttm, CICERONE  Nat. Deor., ecc. E a questa dottrina suiranima dearll antichi atomisti che si riattacca l'Indicazione del Ps. Plut. Plac. che, secondo Lencippo, la morte convlen? al corpo, nou alTanlma. stanza primordiale unica, e della oonvertibilità reciproca di tutti i corpi. Ma noi abbiamo osservato che una fisica meci^anista si trova necessariamente in contraddizione con la testimonianza dei sensi, e che, nella sua forma più sviluppata, questa fisica arriva a un sistema che nega la realtà  dei dati immediati della percezione sensibile. Inoltre una pluralità di sostanzo primordiali inconvertibili l'una nell'altra è un'idea contraria alle prime apparenze, ISl potrebbe tuttavia ammetterò col llltter che la fisica ììieccanista abbia avuto anche tra i più antichi fisici 11 suo rappresentante, cioè Anassimandro. E ciò che sembra risultare da due testi di Aristotile in cui la dottrini  d'Anassimandro è assimilata a (juella del fisici meccanlsti. Nell'uno di <iuestl  testi Phys Aristotile divide tutti i fisici in due catej^orie, di cui f?ll uni ammettono una sostanza primordiale unica facendone derivare le altre cose per via di condensazione e di rarefazione, e gli altri fanno separare le contrarietà contenute nell'uno, cioè nell'indistinto primitivo, ed è in questa seconda categoria ch'egli compi'ende Anassimandro, insieme a GIRGENTI e ad Anassag«»ra. Nell'altro testo Met. attribuisce ad Anassimandro, al tempo stesso che a GIRGENTI e ad Anassaj^ora, l'Idea di una mescolanza primitiva, e assimila la sua dottrina a (juclla dello stesso AnassajJTora e di Democrito di uno stato originarlo del  mondo in cui tutte cose erano insieme cioè in cui tutto il reale  preesisteva allo stato di attualità, e non semplicemente di potenza come nella materia dello  stosso Aristotile. Se, seguendo questo indicazioni a cui si potrebbe agglun'^ere quella di Teofrasto ap, Simpi. in Plnjs. fot., che assimila la dottrina di Anassagora sugli elementi materiali a (luella di Anassimandro, per non parlare di Simplicio stesso In Phi/s  fol., e di altri testimoni posteriori, si  fa di Anassimandro un meccanista, bisognerebbe attribuirgli una fìsica analoga a (luella che Parmenide di VELIA espone nel suo poema, cioè la dottrina di due elementi, l'uno caldo e al tempo stesso tenue, luminoso, mobile, l'altro freddo e al tempo stesso denso, oscuro, inerte. È ciò che risulterebbe combinando l'indicazione di Aristotile di una separazione delle contrarietà, con un'altra  indicazione di Plutarco ap. Eus. Praep.  evang., che dice che alla formazione alle inferenze risultanti dalle osservazioni più ovvie: queste mostravano che le forme più marcatamente differenti della materia, cioè i tre stati fisici dei corpi, a cui si aggiunge il fuoco come una quarta forma non meno spiccatamente distinta, potevano procedere le une dalle altre; se ne conclude che le forme  meno differenti erano anch'esse convertibili, e che vi era una materia unica che poteva del mondo avvenne una separazione del grerrae, YÓ^VXO'^, del caldo e del freddo, e un] altra di Stobeo Ec/. , secondò cui il cielo è formato dalla  mescolanza del caldo e del freddo. Una tale Interpretazione spiejjherebbe anche 11 fatto altrimenti difficile a coraprendere, che Parmenede di VELIA dà questa dottrina, che egli non ammette, come Vopinione degli nomini. Ma questa interpretazione, e in generale qualsiasi interpretazione wcccauisti della fisica di Anassimandro, ha contro di so le testimonianze della più parte degli autori posteriori, 1 quali gli attribuiscono invece la dottrina di una sostanza primordiale unica diversa dai quattro elementi. Sicché noi non possiamo niente  affermare di sicuro sulla vera dottrina di Anassimandro, tanto più che queste testimonianze, quand'anche dovessimo seguirle, non c'insegnano niente sullo spirito della fìsica di Anassimandro, poiché esse non eindicano per qual processo, secondo questo filosofo, 11 multiplo sarebbe uscito dall'uno l'indicazione che le diverse sostanze derivano dalla sostanza primordiale per rarefazione  e condensazione essendo esplicitamente contradetta da Aristotile. L'interpretazIoMe del Zeller secondo cui Anassimandro si sarebbe contentato dell'idea vaga che la sostanza omogenea primitiva si divise in una moltlplicltà di sostanze differenti, oltre che fa discendere a un livello troppo basso 11 valore filosofico di Anassimandro, è obbligata a torturare i testi indicati di Aristotile, e  non rende conto dell*lncontestabIle analogia che,  secondo ciuesti testi, deve ammettersi tra la fisica di Anassimandro e quella meccanisti. Si potrebbe forse immaginare un'interpretazione che mettesse di accordo le indicazioni che assimilano Anassimandro ai fisici meccanisti con quelle secondo cui egli avrebbe ammesso una sostanza unica indeterminata Diog.  Laert.  P/ac, e  principalmente Teofrasto e, che sembra attribuirgli la dottrina di una sostanza ///prendere tutte le ferme. Ma ammettendo V unità della materia e la convertibilità reciproca di tutte sostanze immediamente date dall'osservazione^ i primi fisici non rinunzia^ano perciò al principio, considerato come evidente perse stesso, che l'essere non può nascere ne perire, e, quindi, che delle cose aventi  una natura determinata non possono cangiarsi in altre cose di una natura differente. Quando essi dicono che tutto è aria o fuoco o acqua, il loro pensiero non è semplicemente che vi ha una materia unica, e che perciò la sostanza che costituisce le cose diverse dall'aria o dal fuoco o dall'acqua, nell'eterna circolazione dei suoi stati ha già attraversato quello di aria o di fuoco o di acqua. definita secondo la specie e secondo la grandezza: si potrebbe, cioè, attribuirgli l'idea di TELESIO Teleslo della materia indeterminata, e del caldo e del freddo, concepiti come due entità sussistenti per se stesse, che si dividono il dominio di questa materia. Infatti Aristotile Phys. parla dell'opinione secondo la quale Vinflnito non può avere alcuna delle proprietà contrarie per cui 1  differenti corpi si distinguono fra di loro, perché una sostanza infinita avente certe proprietà determinate renderebbe impossibile l'esistenza di altre sostanze aventi delle proprietà opposte. Se riferiamo quest'Indicazione ad Anassimandro, come fanno i commentatori d'Aristotile, sembrerebbe risultarne che l'infinito di Anassimandro supposto ch'egH abbia ammesso un principio materiale unico resta nel suo stato d'indeterminazione, anche dopo che le sostanze particolari ne sono state formate. La materia di Anassimandro sarebbe dunque, per usare una espressione di Rosmini, un'indeterminato reale, o, in altri termini un'astrazione realizzata e in effetto Aristotile, De  gen. et  corr., per distinguere questa materia  senza alcuna delle proprietà contrarle dalla materia qual essa è nella sua propria dottrina, dice che la seconda non é separabile come la prima, assegnando così tra le due dottrine lo stesso carattere differenziale per cui egli suole distinguere 1 suoi propri concetti da quelli di Platone. Ora la realizzazione dell'astratto materia supporrebbe necessariamente la  realiz Ciò che permane nelle  trasformazioni continue della materia non è soltanto, per essi, il sustrato comune indeterminato delle diverse sostanze materiali: in questo caso, non si avrebbe ragione di  elcA^are una qualunque delle forme che prende alternativamente la materia a base ed elemento di tutte le altre: non vi sarebbe, in ultima analisi, vera differenza tra le varie opinioni dei fisici unizzanti: ben più tra  queste opinioni e quella di Aristotile non vi sarebbe alcuna opposizione reale, e la polemica di questo filosofo contro i fisici che, come lui, ammettevano l'unità della materia, si ridurrebbe a una semplice logomachia. Xoi non dobbiamo dunque interpretare la dottrina dei fisici unizzanti semplicemente nel senso che, al punto di partenza e al punto di arrivo della evoluzioije del mondo,  tutto ///,  e nuovamente sarà^aria o fuoco o acqua: noi dobbiamo intendere inA^ece che tutto attualmente è aria o fuoco o acqua. znzione di altri astratti. cioè delle forme che differenziano la materia; e noi dovremmo ({ulndl comprendere le contrarietà della cui separazione è qnlstlone nel luo^o Indicato della Fisica, nel senso più rigoroso della parola contrarietà, che indica, non le cose  aventi le proprietà contrarle, ma le stesse proprietà contrarle. Queste contrarietà si ridurrebbero, per Anasslraando. alla contrarietà fondamentale del caldo e del freddo, che Anassimandro avrebbe trattato come defrli esseri reali separabili, per usare l'espressione abituale di Aristotile, rappresentandoseli come iugenerabill e imperiblll. e sempre gli stessi e nella stessa quantità, e determinanti  per il semplice passaggio da un luogo ad un altro tutti 1 cangiamenti del mondo materiale. Di là la proposizione, attribuitagli da Diogene Laort., che l'universo cangia continuamente nelle sue parti, ma 11 tutto resta immutabile. Sarebbe senza profitto per il nostro argomento sviluppare più largamente un'ipotesi dalla «luale, non potendo venire appoggiata su dati storici precisi, non si  potrebbe tirare alcuna conseguenza.che la sostanza primitiva, di cui tutte le cose sono state fatte, persiste ancora, al di sotto delle sue nuove parvenze, nelle cose derivate. Questo mondo dice Eraclito, è stato, è e sarà sempre un fuoco immortale; egli non dice soltanto: questo mondo è stato fuoco, e tornerà ad essere fuoco. Similmente Diogene d'\pollonia non dice semplicemente che tutto  viene dallo stesso Paria e si risolve nello stesso, ma ancora che tutto è lo stesso. E i testimoni più autorevoli, come Aristotile, attribuiscono a tutti i fisici che ammettono un principio materiale unico la dottrina che una sostanza determinata Taria o il fuoco o Tacqua, ecc. è la materia universale, la sostanza o la natura di tutte le cose, il sustrato di tutti i fenomeni, Tessere unico che Fr..  Mullach.  /'/. Mullacli: la prova che tutto è lo stesso è che altrimenti le cose non potrebbero venire l'ima dall'altra Fr, né mescolarsi nò agire l'una sull'altra secondo il principio che solo il simile può agire sul simile. Met  Gcn,  et  corni. Met, Vili De Coe/o  Phys.  (Jeii,  et  corr.  Arist.  Met.: Plurimi eorum qui primo pliilosopbati sunt, solas illas caiisas existimarunt esse principia . «juae  in materiae specie sunt. Ex quo enim omnia entia sunt. et ex (ino primo fiunt. et ad (^uod ultimum corrumpuntur, substantia qui<Iem permanente, mutata vero passionibus, hoc elementum et hoc omnium entium osse principium aiunt: et oh  hoc nihil fieri ne«iue corrumpi opinantur. tanquam huiuscemodi natura somper conservata Oportet enim aliquam naturam aut unam aut plures  esse, e quibus caetera fiunt, illa conservata. Pluralitatem tamen et speciem huius principii non eandem omnes dicunt, sed Thales aquam ait esse etc. V. a. Mef.,  Phfjs. ecc.. Mrf. Phijs, Vf'f. S,  Phys. è al fondo di tutti gli esseri. Questi fisici pensano adunque che l'elemento primitivo di cui tutte le cose sono fatte, si mantiene identico a se stesso, attraverso tutti i mutamenti del mondo  materiale; che gli esseri derivati passano, ma la sostanza primordiale resta, ed è incorruttibile ed eterna; e che perciò, a parlar propriamente, niente nasce e niente perisce, il fuoco o l'acqua o l'aria che costituisce l'essenza di tutte le cose, non cessando mai di essere quello che è. Di là sembrerebbe seguirne che di tutti gli stati  Met. Gen. et corr. Diog. Fì\  , Atqne hoc ipsum est corpus  aeternum et immortale: caetera partim fmnt, partim deficiunt Arist. De Coelo: Quidam autem, caetera quidem omnia fieri, fluireque dicunt, ac niliil prorsus stabile esse; unum autem quid solum permanere, ex quo haec universa transfigurari sint apta: quod quidem et alii complures et Heraclitus Ephesins dicero velie videntur. Arist. 3Iet,  e.  Arist.  Met.: Item natura dicitur, ex quo primo  inordinato exsistente et immobile ex sua potontia est aut fitaliquid eorum (juae natura sunt, ut statuae vasorumque aeneorum aes natura dicitur, ligneorum vero lignum: similiter autem et de ceteris. Ex bis enim unumquodque est, prima materia salva. Hoc enim modo etiam eorum quae natura sunt elementa dicunt esse naturami quidam ignem, quidam terram, quidam aerem, quidam aquam, quidam aliud tale dicentes, et quidam aliiiua horum, quidam vero baco omnia. Arist  Bhijs.: Jam vero quibus dam videtur natura et essentia eorum quae natura Constant, esse id quod primum cuique rei inest, informe per se: ut lectirae natura est lignum, statuae vero aes. Idcirco alii terram, alii ignem, alii aèrem, alii aquam, alii nonnulla ex bis, alii baec bomnia, inquiunt esse rerum naturam. Quod enim quisque existimavit esse tale, sive unum sive multa, boc et tot inquiunt esse universam essentiam, reliqua autem omnia esse borum affectiones et habitus et dispositiones. Et borum quidem quodvis esse sempiternum non enim esse ipsis mutationem ex se ipsis; cetera vero fieri et interire infinities. Met,  Pys,  Gen. et. corr. i.hI.2S, che noi vediamo attraversare  successivamente alla materia, secondo questi fisici, uno solo è reale, e gli altri non sono che apparenti; che le sostanze materiali non sono da noi percepite. secondo la loro realtà, all'infuori dell'elemento primitivo; che quando p. e. l'aria di Anassimene si è cangiata in acqua o in terra, è a noi che pare acqua o terra, mentre in realtà non xi ha ancora che l'aria primitiva. Tale è il senso in  cui LUCREZIO comprende queste dottrine; così egli dice contro Eraclito: Dicere porro ignem res omneis esse, neque ni lavi Rem veram in numero rerum constare nisi ignem, Quod facit Ilice' idem, perdei ir iim esse videtur. Nam contra sensiis ab sensibiis ipse repugnat, Et lahefactai eos, linde omnia eredita pendent; Unde ìiic cognitus est ipsi, qiiem nominai ignem. Credit enim sensiis  ignem cognoscere vere; Caetera non credit, quae nilo darà miniis sunt. Ma in verità né Eraclito nò gli altri fisici unizzanti pensavano ridurre a semplici apparenze illusorie le forme in cui l'elemento primitivo si trasmuta, quantunque sia questo il risultato a cui essi sarebbero stati condotti se avessero sviluppato rigorosamente le conseguenze contenute nelle loro affermazioni. Dal  princij3Ìo  a priori a priori in quanto era non una conclusione, ma un'anticipazione  dell'e  I.  V. 1  Hqq. y  I  I sperienza che Tessere non può nascere né perire, e che una cosa perciò non può cangiarsi in un'altra di una natura differente, essi concludevano che il fuoco o l'aria primitiva non poteva cessare di essere lo stesso fuoco o la stessa aria; l'esperienza quale essi l'interpretavano mostra, al  contrario, che T elemento primitivo si trasforma in altre sostanze di cui tutte le proprietà erano essenzialmente differenti dalle sue: essi non sacrificavano il fatto al principio, ma nemmeno il principio al fatto; e ciò che vi ha di caratteristico nelle loro vaghe e oscure concezioni è la coesistenza nel loro spirito di queste due idee incompatibili, la forza con cui l'una e l'altra s'imponevano  non permettendo loro di rinunziare all'una o alFaltra, ne di vedere (;he vi era tra di esse una contraddizione insolubile. L'idea che nelle trasformazioni della materia la sostanza si conservava nondimeno identica a se stessa, dove condurre i fisici unizzanti a una maniera di vedere analoga a quella dei fisici meccanìstì\  che non ammettevano altro cangiamento nelle cose che nei rapporti  di spazio. Essi credevano che gli stati differenti della sostanza unica erano dovuti ai irradi differenti della sua condensazione, Naturai monto Arlstotllo non ha manoato di notare II carattere eontradittorio (lolla dottrina di iiuosti flsiol De Oeiì, et  COrvA.ll, V.  Per Anasslmene: Plut. ap. Kum. Vraep. Erang. I. H, Plut./)e Prim. Friy,; Slmpllo. ///  /V//A9. fol., Ippol. Ref, haeres.,.(OrlgenlH  Phllosophoumona. Per Dioj?ene  d'Apollonia: Dloj?. Laert. Per Erael.: Diog. Laert.  H e «ejfjr.. Plut. Placita «, Siuipl. ///  Phìjs 0 a,:nO  a. Per tutti: Arist. Mct,,  P////S, e siccome la condensazione e la rarefazione non sono che un avvicinamento e un allontanamento dello particole fra di loro, il movimento della materia spiegava  secondo essi tutti i cangiamenti che si osservano nella  natura. Così è alla congiunzione e alla disgiunzione delle parti della sostanza elementare che essi riconducono, come i fisici meccanisti, tutti i mutamenti apparenti di sostanza rv,, De Gerì, et corr. Gal. in Hippocr. De nat»  hom,,  ecc. Avvertiamo che per la esatta comprensione del concetti dei fisici unizzanti bisogna tener presente che essi non ammettevano il vuoto, e perciò nemmeno  ciò che noi diclamo la costituzione molecolare della materia, cioè la sua divisione In particelo ultime separate le une dalle altre e conservanti sempre In se stesse la stessa densità. Ippol. Ref, haeres e; Simplic. in  Phi/s,  fol. a  per Anassimene; Plut. ap. Eus. Praep. erang. per  Dlog. d'Apoli.; per tutti: Arlst. De gen. et corr, Phys,  VUI. Arlst. De  Coelo: quelli che ammettono 11 fuoco  come corpo primitivo, e lo distinguono per la tenuità delle particole cioè Eracllte e 1 fisici che professano una dottrina analoga, in opposizione ai platonici che lo distinguono per la figura, da esso compostosi C  TOtJTOD  aUVTlOsaévO'J, cioè dalla integrazione, dalla confluenza delle sue particole dicono prodursi le altre cose come per l'ammassamento di un pulviscolo xaOòCTUSp  àv  £1  OL>[XCpUaa)[X£V0D (};y)YlXaTO(;)  anche Met  Phgs,, ecc: È questo processo meccanico nella produzione delle sostanze che fa dire a LUCREZIO contro Eraclito: Versi Nam cur tam variae res possent esse, requiro. Ex uno si sunt Igni puroque creatae. Nihil prodesset enim calidum denserier ignem, Nec rarefìeri, si partes ignis eandem Naturam, i^uam totus liabet super  Ignis, haberent. Acrior ardor enim conductis partibus esset: Languidior porro disjectis disque supatls. Amplius hoc fieri nihil est quod posse rearis Tallbus in causis; nedum varlantia rerum Tanta queat densis rarlsqne ex ignibus esse. f  i i r 1 (apparenti perchè, come abbiamo detto, niente nasce al fondo e niente perisce; e Aristotile fa consistere la differenza fra di essi e gli Eleati, i quali negano qualsiasi specie di cangiamento, in ciò che i primi, d'accordo coi secondi per ogni altro cangiamento, non negano però il movimento, il cangiamento nello «pazio. Le forme e le differenze del multiplo non sono, secondo i fisici unizzanti, che gradì differenti di densità e di rarità, di concentrazione e di dilatazione della materia universale: divenuta più densa o più rara essa pare differente; ogni differenza tra le cose non è al fondo che quantitativa, ridiicendosi alla maggiore o minor quantità di materia che occupa uno spazio dato. Da queste indicazioni degli antichi testimoni noi possiamo concluderne che, secondo questa scuola di fisici,la  rarefazione e la condensazione della sostanza universale non è semplicemente la causa dei suoi cangiamenti di stato e delle differenze qualitative che si manifestano in questi stati differenti; ma ancora che questi stati differenti e le qualità differenti che li caratterizzano non consistono, in se stessi, che nei diversi gradi di densità e di rarità, di concentramento e di diffusione di una sostanza qualitativamente immutabile, o piuttosto i cui cangiamenti qualitativi non sono nella loro essenza Met, Arlst. Fhus* Ippol. TUDXVO'JjJLSVOV  (rarla, secondo Anasslineue  yÒ(.Q  De Coelo   UI.V.. che cangiamenti quantitativi e puramente spaziali, qualche cosa come una concentrazione e una diffusione di certe qualità fondamentali che la sostanza non perde mai. Per quanto tali  idee siano oscure, anzi affatto inconcepibili, esse si presentavano naturalmente al punto di vista dei fisici unizzanti, i quali per conciliare il principio preteso assiomatico deirimmiitabilità della sostanza con le trasmutazioni che presenta l'esperienza, non avevano altro mezzo che di ridurre tutti i cangiamenti della natura al cangiamento di posizione nello spazio, come poi fecero, con ideo  più chiare e coerenti, i fisici meccanisti. ^-i Ciò che precede è negato recisamente da Zeller, almeno per Eraclito. Non  sC deve, egli dice, avanzare con alcuni autori tra i quali egli ha il torto di non comprendere Aristotile: De Coelo., in cui estende a quelli che ammettono il fuoco come elemento, il rimprovero che per i fisici nnizzanti la diiferenzn tra le sostanze è soltanto quantitativa  e quindi un che di puramente relativo che secondo Eraclito, le sostanze secondarie procedono dal fuoco e si risolvono in fuoco per via di condensazione e di dilatazione. Senza dubbio quando il fuoco si cangia in umidità e l'umidità in terra, vi ha condensazione, come, nel caso contrario, vi ha dilatazione. Nondimeno, nel pensiero di Eraclito, questa condensazione e questa dilatazione  non sono la causa, ma la conseguenza del cangiamento di sostanza. In etfetto, secondo lui, non è il ravvicinamento delle particole del fuoco che fa passare l'elemento igneo allo stato umido, e l'elemento umido allo stato solido o terroso; ma se un elemento meno denso diviene un elemento più denso, è perchè il fuoco si è tiasformato in umidità, e l'umidità in terra. Così pure perchè il  fuoco rinasca dalle altre sostanze, non basta che gli elementi primitivi di queste sostanze s'allontanino gli uni dagli altri: bisogna una nuova trasformazione, un cangiamento qualitativo tanto delle parti quanto dei tutto. Certamente un cangiamento qualitativo è necessario, ma esso non é per Eraclito, come per gì altri fisici della stessa scuola, che una conaeguenza, nel senso  lo Il principio  deli-unità e immutabilità della sostanza è sostenuto della maniera più radicale da Eraclito, il quale spinge questo principio sino alla conseguenza estrema della identUà dei contrari. Eraclito riconduce tutte le differenze dell'essere, che costituiscono la moltiplicità e il divenire, alla opposizione per contrarietà. La legge delle cose è, secondo lui^ la loro opposizione mutua: tutte le cose sono  per coppie di contrarli; ogni cangiamento è il passaggio da uno stato al suo stato opposto. Tutto nasce dalla discordia, dice Eraclito nella sua lingua figurata; la guerra è la madre e la sovrana di tutte le cose; Tarmonia del tutto è cogico, non semplicemente un effetto del cangiamento «li densità o di posizione reciproca delle parti. La ragione decisiva por cui si deve ammettere questa  interpretazione è, secondo Zeller, che ogni altra sarebbe incompatibile con la dottrina fondamentale di Eraclito del flusso di tutte le cose. Una sostanza  immutabile non sarebbe compatibile con questa dottrina. Per la stessa ragione, nella dottrina che tutto è fuoco t^gli non vede che un simbolo della legge del divenire, quantunque Eraclito nella sua propria coscienza non sappia ancora  distinguere, egli dice, tra l'idea generale e la forma sensibile sotto cui quest'idea è espressa. In altri termini quantunque Eraclito prenda questa dottrina nel senso letterale, e non come un semplice simbolo. Molti saranno, come me, incapaci di rappresentarsi un simile processo mentale in un pensatore qualunque: se Eraclito prende in un senso letterale la proposizione che tutto è fuoco,  essa può essere uu  simbolo per un altro che filosofa sulla dottrina di Eraclito, ma non per Eraclito stesso. È come quando Hegel dicj che i domini religiosi sono dei simboli della sua propria tìlosofia: il ciedente ammette questi domini come dottrine positive e non come simboli: per Hegel sono simboli, precisamente perchè per lui non sono più veli) Diog.  Laort. Stab.  EcL , Filone quis  divinarum rerum heres sii., Quaest in Gen,. Muli. Fr. bT,, Eth. End,  Plut  De Jsid. et Osir^ e  Simpl. in Arist. Cut,  f.. in  Muli,  illustr.  a  Fr.. stituita dall'opposizione reciproca delle parti. Questa proposizione che l'opposizione è una legge universale delle cose si spiega sufficientemente per una generalizzazione dell'osservazione: questa in verità non la giustifica che sino ad un certo  punto non essendo vero che tutte le nostre nozioni possano distribuirsi per coppie di termini contrari, come luce e tenebre, maschio e femmina, salute e malattia, ecc. a meno che alcuni dei termini non siano puramente negativi,  come non uomo, non bianco, ecc., nel qual caso la pretesa legge delle cose diverrebbe una semplice proposizione verbale; ma non deve sorprenderci che, in  un'epoca scientifica sì primitiva, Eraclito, come già prima di lui altri filosofi, quali Alcmeone e i Pitagorici, sia stato così profondamente colpito dall'osservazione delle opposizioni rità. Ma noi non abbiamo alcun motivo per prendere la proposizione di Eraclito che tutto è fuoco in un senso differente delle proposizioni analoghe degli altri fisici, p. e. di quella  d'Anassimene o di Diogene  d'Apollonia che tutto è aria. Sia detto di passaggio, la differenza tra le due proposizioni non è tanto grande quanto sembra a prima vista; perchè Eraclito non sembra rappresentarsi il fuoco primitivo da cui tutto è stato fatto, come una fiamma, ma piuttosto come una sostanza calda e aeriforme. Zeller stesso.  Se Zeller fosse stato conseguente, avrebbe dovuto dare un'interpretazione simbolica, non della sola dottrina di Eraclito, ma delle dottrine corrispondenti di tutti i fisici che ammettono un solo elemento. La dottrina del divenire di cui d'altronde Zeller dà un'interpretazione  iperbolica e puramente  fantastica, intentendo che le cose sono ad ogn'istante distrutte e nuovamente create come per incanto, ogni cosa cambiando ad ogni momento le particole materiali che la costituiscono non è una prova che Eraclito nega l'immutabilità della sostanza nel senso che ho spiegato perle dottrine dei fisici unizzanti in generale  j Eht. Eud.,  Muli.  Fr.  . mmm t  delle cose, da vedervi una legge importante della natura. Noi non dobbiamo per altro lungamente fermarci su questa dottrina di Eraclito: essa non c'importa per se stessa, ma solo per il suo rapporto con laltra legge dei contrari, stabilita da questo filosofo. Come l'essere si è scisso in una moltiplicità di esistenze reciprocamente opposte e come passa incessantemente da uno stato ad un altro stato opposto, cosi esso, secondo Eraclito, mantiene la sua identità a traverso di tutte le opposizioni. Tutti i contrari sono identici: la stessa cosa sono il giorno e la notte, il bene e il male, il puro e Timperchè appunto egli vuole eccettuato dalla legge del cangiamento universale l'uno che è il sustrato permanente di tutti i cangiamenti e di cui ogni cangiamento non è che una diversa configurazione Arist. De  Coelo Per un'illusione di prospettiva assai naturale, nella tesi del continuo flusso delle cose, perchè è la più decantata dagli antichi, per il suo carattere paradossastico Arist. Top,, si vede il pensiero fondamentale di Eraclito; e poi, per l'esagerazione^di un concetto giusto in se stesso, che è quello della connessione intima tra tutte le parti di un sistema filosofico e la subordinazione necessaria di certe parti ad altro più dominanti come in ogni tutto organico esagerazione che discende direttamente dal preconcetto hegeliano di vedere in ogni sistema della storia la realizzazione di una categoria logica, o, in generale, di un momento del sistema vero e universale il quale,.del  resto» per gli storici hegeliajio eclettici, alla maniera di Zeller, è ancora, e sarà sempre in incubazione si pretende che tutte le idee del sistema devono logicamente derivarsi dal preteso pensiero fondamentale. Ma se vi ha in Eraclito un pensiero che merita  di esser considerato come fondamentale, è quello ch'egli ha in comune con tutti i filosofi dell'epoca: l'assioma che l'essere non può venire dal non essere, e che perciò niente nasce al fondo e niente perisce. E   Fr.  Fr.;  Arist. Top,, Ph!jH. . i puro, l'alto e il basso, l'ascensione e la discesa, il retto e il tortuoso. La nascita è morte e la morte nascita; il mortale è immortale, e l'immortale mortale. La stessa cosa è il vivente e il morto, il vegliante e il dormente,  il giovane e il vecchio. Tutte è uno; Dio è giorno e notte,, està ed inverno, guerra e pace, fame e sazietà, e tutti i contrari; come tutti gli opposti procedono dall'uno, così da tutti risulta Tuno. Questo discordando sempre da se stesso, concorda sempre con se le altre proposizioni di Eraclito devono derivarsi dal suo pensiero fondamentale, la legge stessa del divenire, cioè la dottrina che tutto è in movimento e niente in quiete, perchè, come abbiamo visto, i fisici unizzanti, ugualmente che i meccanisti, riducono tutti i cangiamenti al movimento deve derivarsi anch'essa dall'assioma dei fisici. Il che noQ è difficile, perchè, se le proprietà essenziali del reale sono sempre le stesse ciò che è il senso di quest'assioma, comela sostanza primitiva, che è vivente ed  in un'agitazione perpetua,, potrebbe trasmutarsi in una massa affatto morta ed inerte? Plut. Piaci.: 'HpàxXlTO; Y]p£[Xiav TioCl aTÒCOlV £x Tciv 6X(ùV àvY)Cei* SOTl  vàp TOOtO  'CWV VSXCWv. Con la stessa conseguenza con cui gli Eleati concludono dall'assioma della fisica che tutto è immobile più giù su questi filosofi, Eroclito ne conclude invece che tutto é in movimento; ciò che è dotato di un movimento spontaneo ed incessante non potendo diventare una materia inerte.. KaOapóv e [xiapóv.  Fr.  Fr.  ;. Fr. Clem. Sfroin.  iM. Ippol. nefuL  Haere^.. in Muli, illustr.a  Fr. Fr.. Fr. ; Filone Lei/  (illeg. Fr. Le due ultime antitesi, guerra e pace faine e sazietà^indicano i due stati fra cui alterna il mondo: quello della divisioneo del cosmos, e quello dell'unità e omogeneità, in cui tutto è fuoco. Fr. . se stesso; la costituzione dell'essere è come quella dell'arco e della  lira di cui le due metà sono al tempo stesso identiche ed opposte. Ora in qual senso dobbiamo noi comprendere le proposizioni di Eraclito affermanti l'identità dei contrari? Siccome queste proposizioni, prese alla lettera, sono inintelligibili  e implicitamente contraddittorie, perciò potrà credersi necessario di sforzarsi a darne un'interpretazione che le adatti al senso comune, e tolga ciò che vi ha in esse di ripugnante ERACLITO L’OSCURO GRICE CHIARITA. Così p. e. quando Eraclito dice che il giorno e la notte sono la stessa cosa, s'intende, come fa Zeller, che lo stesso essere ora è chiaro e ora oscuro, ovvero, come fa Schuster, che essi sono la stessa cosa in quanto l'uno e l'altra sono egualmente delle divisioni del tempo. Cosi ancora, quando Eraclito dice che la stessa cosa è il vivente e il morto s'intende che la stessa materia attraversa a vicenda i due stati della vita e della morte. Ma tali interpretazioni non solo sono lontane dal significato naturale delle parole di Eraclito, ma hanno anche contrarie le più gravi testimonfanze degli autori antichi. Cosi è nel senso più letterale Plato Conv,;  Soph,  e. Fr. e  . Ippolito Refut Haeres che ha conservato le parole di Eraclito, intendo che la luce è identica airoscurità, il bene al male, ecc. Questa sembra essere l'interpretazione di Plutarco ConsoUit, ad  ApolL,. Il  Fr,  Muli, la vita e la mort« è tanto nella nostra vita quanto nella morte è una prova ohe Tidontità non è solo del sustrato materiale della vita e della morte, ma della vita e della morte medesime. possibile che Aristotile comprende le proposizioni di Eraclito: egli attribuisce a questo filosofo l'opinione che l'esser bene e l'esser male è la stessa cosa, e che i contrari sono identici per Vessenza o per la definizione e non semplicemente per la materia, come nella precedente interpretazione della proposizione: lo stesso è il vivente e il morto. Secondo lo stesso Aristotile ed altri autori antichi, Eraclito nega il principio di contraddizione, ammette €he allo stesso soggetto appartengono degli attributi opposti, e che le due proposizioni contraddittorie sono vere 1' una e l'altra. In effetto, se i contrari sono identici, tanto varrà predicare d'un soggetto un attributo quanto l'attributo contrario SHAGGY NON SHAGGY. È probabile che questa conseguenza del principio dell'identità dei contrari che verisimilmente Eraclito avrebbe respinta sia stata dedotta da quegli eraclitizzanti che, come Cratilo, esageravano grottescamente le dottrine di questo filosofo, e ne deducevano delle proposizioni scettiche: ma siccome la conseguenza deriva effettivamente dalla premessa, essa poteva venire attribuita, non senza fondamento, ad Eraclito stesso. Phy8, Mef, Vili. Top, Vili. Specialm.  Sesto  Emp.  Pjrrh. Tanto più che questo filosofo, per arrivare alla tesi della identità dei contrari in astratto, comincia mostrando che lo stesso fatto o la stessa cosa concreta presenta degli aspetti contrari: p. e. per provare l'identità del bene e del male mostra come i rimedi dei medici possono essere riguardati al tempo stesso come beni e come mali Fr, Aristotile non vuole assicurare che la tesi della verità Noi dobbiamo dunque rigettare come inutile qualsiasi tentativo di rendere più intelligibile la tesi di Eraclito della identità degli opposti: per dare a questa tesi un senso concepibile, bisognerebbe liberarla dalla contraddizione che è in essa implicata; ma allora non sarebbe più la tesi della identità degli opposti, la dottrina di Eraclito non sarebbe spiegata, ma sostituita da un'altra dottrina. 11 caso è lo stesso che per la tesi corrispondente di Hegel: non vi ha alcun mezzo per renderla intelligibile, non è possibile di dare un senso a ciò che è un controsenso. Comprendere una dottrina metafisica in questi casi non è altra cosa (U  tutte e due le proposizioni contradittoric debba attribuirsi aUo stesso Eraclito. In  Mei. dice È impossibile di pensare che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono che dica Eradito; poiché non é necessario che si creda tutto ciò che si dice. Queste ultime parole non significano, come crede Zeller :M, che se Aristotile non vuole attribuire categoricamente ad Eraclito l'opinione in  quistione, è perchè questi V ha effettivamente enunziata, ma senza credervi o senza comprenderne il senso, ma spiegano in generale come il fatto che vi hanno delle persone che a parole ammettono la realtà della contraddizione, non sia contrarlo al principio che è impossibile di pensare che la contradpizione si realizzi. Zeller attribuisce ad Eraclito la dottrina della coesistenza dei contrari  nello stesso sogetto invece di quella della identità dei contrarli, e la deduce dalla dottrina del divenire continuo di tutte le cose FHo8,dei G'r^ci  p. rj;. Questa deduzione non è secondo me ammissibile, quantumiue possa sembrare che abbia l'appoggio dell'autorità d'Aristotile. Per comprendere il valore di questa deduzione, bisogna farsi una giusta idea della conseguenza scettica che gli  eraclitizzanti come Cratilo tiravano dalla dottrina di Eraclito del divenire, cioè che di ciò che diviene niente può con verità affermarsi, e non vi ha perciò alcuna scienza possibile né alcuna proposizione che sia vera Arist. Met.. Aristotile assegna (luesta dottrina a  qiielli che dicono di eraclitizzare; che indicarne il motivo e Torigine. Per Hegel il motivo è, come abbiamo detto altrove, la  necessità della identità delle idee, perchè possano dedursi le une dalle altre: naturalmente Eraclito non potè esser condotto alla sua dottrina, come Hegel, da considerazioni dialettiche; l'assioma comune dei fisici spiega questa dottrina di Eraclito come la maggior parte delle altre dottrine di questi filosofi. negli altri due la chiama semplicemente, eraclitica. Noi non dobbiamo perciò  attribuirla allo stesso Eraclito, perchè essa è uno scetticismo e un agnosticismo assoluto, ed è incompatibile con la filosofia di Eraclito come con qualsiasi filosofia dogmatica H. P. GRICE ON BROAD GRICEIANISM. Per intendere la proposizione di Cratilo, si consideri un punto in movimento neir atto che esso passa da un punto determinato dello spazio, A, ad altro punto qualunque.  B, concepito il più vicino ohe sia possibile ad A. Per quanto il punto B si concepisca prossimo al punto A, vi saranno sempre delle posizioni tra A e B, che il punto in movimento deve occupare dopo di aver lasciato la posizione A e prima di passare nella posizione B: ma ciascuna di queste posizioni interposte, essendo un  punto distinto da A. sarà separata da A da (jualche intervallo,  ed è necessario perciò che tra essa ed A s'interpongano altre posizioni. Qual è dunque la posizione che il punto in movimento occupa immediatamente dopo la posizione A? E impossibile di dirlo, percliè qualsiasi punto si assegni prossimo ad A, esso, essendo distinto da A, ne sarà separato da qualche intervallo, che il punto in movimento deve aver per corso prima di passare nel punto  assegnato, e perciò questo non può essere la posizione immediatamente successiva alla posizione A. La posizione immediatamente successiva ad A è dunque un che d'indeterminabile e d'indeterminato, di cui può dirsi soltanto che essa deve essere distinta da A e da tutti i punti distinti da A, ma senza poterla in so stessa indicare; di essa saranno vere delle proposizioni negative: non è  A, non è B, non é C, ma non sarà vera alcuna proposizione affermativa: è D GRICE NEGATION AND PRIVATION. Che si generalizzi questa difficoltà implicata nella idea della continuità del movimento Le antinomie della ragione, si avrà il concetto di un cangiamento universale continuo in cui ciascuno degli stati successivi è fi: V  Per l'identità degli opposti ciò che Eraclito vuole stabilire è V unità e l'identità del tutto; la eterna perminenza nella sua propria identità di quest'essere unico che diviene tutte cose. Il cangiamento essendo da uno stato ad un altro stato opposto, perchè r essere resti identico a se stesso nel cangiamento, bisogna che gli opposti siano identici. L'uno essendo divenuto multiplo, e la varietà essendo costituita dair opposizione, perchè i molti  siano uno, un uno che nelle A^arietà si ritrova dapertutto identico a se stesso, bisogna che gli opposti siano idensempre un punto di transizione, e perciò un che d'indeterminabile, posto tra due stati determinati qualunque: questo è il fondamento della i)roposizione di Cratilo che, ciò che continuamente diviene non essendo mai in uno stato determinato, non vi ha alcuna determinazione che possa con verità attribuirsi alle cose, le quali sono tutte in un continuo divenire. Ora è evidente che la conseguenza della dottrina del divenire assoluto non è secondo Eraclito e secondo la logica la proposizione che tutto è vero, cioè che raflfermativa e la negativa sono entrambe vene e che i contrari coesistono allo stesso tempo nello stesso soggetto; ma piuttosto la proposizione che  niente è vero, che nessuno dei due attributi contrari appartiene in realtà al soggetto che diviene, che passa dall'uno all'altro dei due stati contrari, e che ogni aifermazione è falsa H. P. GRICE TRANSCENDENTAL JUSTIFICATION MEANING REVISITED  e quindi anche, può dirsi, ogni negazione, in quanto la proposizione negativa si consideri come implicante l'affermazione di  uno o un altro degli attributi positivi compresi nel giro del termine negativo, che è l'attributo della proposiziono negativa, se si dà a questa la forma infinitiva p. e è non bianco implica l'affermazione di uno o un altro dei colori DISTINTI DAL bianco GRICE NEGATION AND PRIVATION. Perciò quando Aristotile parla della dottrina eiaclitica che tutto è vero, non può essere quistione  di una deduzione dalla dottrina del divenire, ma noi dobbiamo i)ensare piuttosto a una dcauzione dalla dottrina della identità dei contrari. Lo stesso Aristotile parla, è vero, come di una conseguenza della dottrina del divenire, dell'opinione che le due proposizioni contraddittorie possono emettersi egualmente sullo stesso soggetto HE IS NOT SHAGGY Mei,: tici. In una parola il principio  di Eraclito è che l'essere non può cangiare di natura e di proprietà; perciò tutti gli stati differenti che esso successivamente attraversa devono essere, al fondo, identici. Eraclito spinge assai più in là che gli altri Usici unizzanti il concetto dell'immutabilità della sostanza: per questi l'identità dell'essere non è che una identità materiale; ma per Eraclito l'unità e l'identità del tutto non consiste  semplicemente in ciò che un sustrato materiale uno e sempre identico a se stesso soggiace a tutte le forme che costituiscono gli esseri differenti dando anche alla identità materiale il senso, che noi abbiamo attribuito alle dottrine di ma, come risulta dal contesto, quest'opinione non consiste a pretendere che le due proposizioni sono vere l'una e l'altra, ma che, l'una non essendo vera più  dell'altra, si ha tanta ragione di affermare runa <iuanta se ne ha di affermare l'altra ASSERTABILITY Plat. TeetA^  d-lK3 D'altronde Aristotile riconosce che la dottrina del divenire è in contraddizione con la proposizione che tutto è vero o che i contrari coesistono nello stesso soggetto 3fet., e che, mentre Eraclito fa tutto vero, la consegifenza della dottrina del divenire è invece che   tutto è falso  specialmen  Mei. con Met. Ao'<'iun<»^eremo infine sull'interpretazione di Zeller della teoria dei contrari di Eraclito, che, quand'ancte la coesistenza dei contrari potesse riguardarsi come una conseguenza della dottrina del continuo divenire, nessuna forse delle proposizioni particolari di Eraclito che noi conosciamo lo stesso è il giorno e la notte, il vivente e il morto, ecc.  si presterebbe al una tale deduzione dato e non concesso che tali proposizioni affermino la coesistenza dei contrari, e non la loro identità; perciò bisognerebbe che ciascun momento del tempo fosse il punto di transizione tra il giorno e la notte, che ciascun istante della nostra esistenza fosse il confine tra la vita e la morte VITTERS,  ecc. Cosi pure quando Sesto Empirico attribuisce ad  Eraclito l'opinione che il miele è al tempo stesso dolce ed amaro, noi possiamo pensare ad una deduzione dalla teoria dell'i-^ denti tà dei contrari, ma non da quella del continuo divenire. questi fisici, di una sostanza materiale sempre identica a se stessa di cui non cangia che la posizione nello spazio; le forme stesse che riveste successivamente il sustrato materiale, cioè le qualità  differenziali e le energie specifiche per cui i vari esseri, costituiti dalla stessa materia, si distinguono, si risolvono, per Eraclito, nell'uno e nell'identico. Ma alla quistione: come queste forme differenti siano identiche, cioè come la loro differenza possa conciliarsi con la loro identità, sarebbe inutile di attendersi da Eraclito una risposta precisa o semplicemente intelligibile. Perciò egli  dovrebbe fare le parti tra ciò che \\ ha nelle cose d'identico e ciò che vi ha in esse di differente o di opposto; invece non troviamo in lui che quest'asserzione contraddittoria se la prendiamo alla lettera, vaga se vi cerchiamo un senso qualunque che gli opposti sono identici. La proposizione di Eraclito che gli opposti sono identici non è per altro né più né meno contraddittoria delle  proposizioni dei fisici unizzanti in generale che tutto è aria o che tutto è fuoco proposizioni incompatibili con resistenza di altre sostanze distinte dall'aria o dal fuoco. Noi abbiamo osservato che in quest'ultimo caso la conci) Arist.  Phìj»:  Se gli Eleati dicono che tutto è uno secondo la definizione, ciò tornerà a sostenere la tesi di Eraclito. Lo stesso sarà il bene e il male, lo stesso 1'uomo e il cavallo Asclepio! Schol ia Arist. dice che per Eraclito vi ha una definizione unica per tutte le cose,  proposizione che certamente non può attribuirsi ad Eraclito, ma che esprime, quantunque in una éorma troppo rigida, il pensiero di questo fìlosoto dell'unità eè»fn•zialey e non semplicemente materiale^di tutte le cose. traddizione nasce, perchè il principio ammesso a priori, in forza di un sofisma naturale, dell'immutabilità della sostanza, coesiste nello spirito di questi filosofi col fatto, dato dairosservazione, del cangiamento di una sostanza in un'altra sostanza; cosi nel caso di Eraclito, il principio, ammesso a priori in virtù dello stesso sofisma, che tutte le cose sono identiche di natura, perchè la natura delle cose le quali tutte sono costituite della stessa materia e perciò reciprocamente convertibili non può cangiare, coesiste, noi pensiero di questo filosofo, col fatto, dato dall'osservazione, dell'esistenza di cose aventi delle nature differenti e reciprocamente opposte. 11 principio e il fatto, l'identità e l'opposizione, non si escludono per Eraclito, quantunque siano esclusive Tuna dell'altra; esse si consiunsono, ma non si conciliano, nella formula contraddittoria della identità degli opposti. Aristotile dà come motivo di una delle opinioni che negano il  i)rincipio di contraddizione, l'assioma dei fisici ehe V essere non può venire dal non essere {il qual motivo prova l'origine fisica della dottrina fondata su di esso, dottrina perciò che,  tra le diverse opinioni sovversive del i)rincipio di contraddizione, noi dobbiamo riconoscere per quella della scuola di Eraclito. Quando una cosa passa da uno stato ad un altro, il secondo stato verrel)be dal non essere, se i due stati fossero semplicemente contrari, e non al tempo stesso identici, di guisa che il secondo stato preesistesse in certo modo nel primo: questo non deve essere perciò uno solo dei due contrari, ad esclusione assoluta dell'altro, ma in certo modo anche l'altro Mei, Il motivo addotto da Aristotile coincide al fondo con quello che noi abbiamo assegnato alla dottrina di Eraclito: non si deve che applicare alla dottrina dell'identità dei contrari l'argomento che Aristotile applica invece alla sua conseguenza, cioè a quella della coesistenza dei contrari nello stesso sogl^etto. 'A ' li -<  /•,. Gli Eleati sì accorsero che il principio dell'unità e immutabilità  della sostanza è incompatibile col fatto della pluralità e del cangiamento: così, per salvare il principio, essi  rigettarono il fatto, dichiarandolo una semplice apparenza senza realtà. La proposizione fondamentale degli Eleati, come di Eraclito, e in generale dei fisici unizzanti, è che tutto è uno. Quest'uno è per gli Eleati, come pei fisici ionici, il sustrato unico e permanente di tutto ciò che i sensi ci presentano, la sostanza comune di tutti i corpi. Gli Eleati descrivono l'Essere come una massa continua, senza lacune prodotte dal non essere cioè dal vuoto, omogenea, senza differenza di densità, immobile tanto nella totalità quanto nelle parti. Esso è infinito di grandezza, secondo Melisso; finito e di forma sferica, secondo Parmenede. La differenza tra Fune de Proposizione che noi dobbiamo distinguere da quosf altra: Tessere è uno; perchè mentre questa non indica che la  soppressione della moltiplicità. la prima indie, pure la riduzione deUamoltìph. cita all'unità. Cosi Timone la dire a Xenofane che dapertutto ove rivolge il suo pensiero, tutto si risolve per lui in un'essenza xmica sempre identica a se stessa Versi Mullach    ' /^j/^J fané, Teofrasto ap. Simpl. Phljs,, Sesto Empir.  PijTrh. , ecc. Pe^gli  Eleati  posteriori, oltre il luogo di Parmenide che tra  poco riporterò nel testo, Plato. Teet. IHO e, Soph., Anst^Phys , ITI. , Gen. et Corr., Met., ecc. Parmen., Mei. Fr.,;  Arist. De Gen. et Corr. Parmen. Mei. Fr.; Parmen 1. e. Parmen.;  Mei.  Fr. Mei. Fr.; Arist. Do Gen. et Corr., Phys, Met. r  t Parmen.; Teofrasto ap. Alex, ad Met. d. gli  Eleati  e 1'uno dei fisici ionici è, come osserva Aristotile, che i primi non negano soltanto, come i secondi, la generazione e la corruzione, ma anche il movimento e ogni specie di cangiamento in generale; per conseguenza anche ogni moltiplicità, questa, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, non essendo che un risultato del cangiamento. Quest'universo, dice Parmenide, tutte queste cose che gli uomini, ritenendole come reali, dicono essere e non essere, nascere e perire, mutar di  luogo e cambiar di colore  tutto ciò non è in realtà che un solo essere, unico, immobile, senza principio e senza fine, permanente sempre nello stesso stato. Il pensiero rientra anch'esso in quest'unità; esso non è distinto dall'essere, perchè non yì ha niente all'infuori dell'essere, e questo è unico e sempre identico a se stesso. Alcuni espositori, come Zeller, trovano il fondamento del sistema  eleatico in un argomento capzioso, per cui Parmenide cerca di provare 1'unità assoluta dell'essere. All'infuori dell'essere, egli dice, non potrebbe esservi che il non essere; ma il non essere è niente; dunque l'essere è unico. Noi non possiamo ammettere, come abbiamo altre volte osservato, che un sistema metafisico si  Met. Parmen. Io ho esposto l'argomento sotto la forma in cui lo dà  Teofrasto ap. Simplic. in Phf/a.  anche per questo argomento che non potrebbe ricavarsi dai soli frammenti di Parmenede Arist..Phfjs , Met,  ^1 fondi sovra un sofisma puraimente perchè allora la metafisica non sarebbe che una volgare sofistica. Tra il processo del metafìsico e quello del sofista non vi sarebbe, in questo caso, altra differenza che neirintenzione: ma questa differenza  renderebbe anche più incomprensibile l'origine della metafìsica; ciò che è inconcepibile è che delle convinzioni così contrarie al senso comune siano prodotte da motivi così poco idonei. Parmenide ha potuto credere alla forza probante del suo sofisma. ma dopo che già era convinto della sua tesi per altri motivi, e questi motivi non possiamo cercarli che in qualcuno dei soHsmi naturali  à^Wo spirito umano. Per ricondurre il sistema degli Eleati ai sofismi a priori del nostro spirito, e metterlo al tempo stesso in connessione con le idee dominanti dell'epoca, noi non possiamo che dedurle, con Aristotile, dall'assioma della fisica che l'essere non può né cominciare né finire, deduzione che in effetto noi troviamo nei frammenti stessi di questi filosofi.Grli Eleati non  concepiscono, non solo che la materia possa cominciare e finire, ma anche che le cose possano cangiare di natura e di qualità ciò che, non bisogna dimenticarlo, è il senso dell'assioma dei fisici. Così secondo loro la moltiplicità non sarebbe possibile che ad una sola condizione: che vi fossero molte sostanze inconvertibili 1'una  Phys. Parmen e  Mei  Fr.. Per Xenofane De Melisso ecc.  Simplicio  P/iy«  f. , Plittarco ap. Euseb. Pr.  ev . LI neir altra e qualitativamente immutabili. Se vi fossero molte cose,  dice Melisso, esse dovrebbero essere tali quale io suppongo Tuno. Se é in realtà la terra e l'acqua e l'aria e il ferro e l'oro e il fuoco, e questo vivente e quello morto, e il bianco e il nero, e tutte le altre cose che gli uomini credono reali; se queste cose sono, e noi  rettamente vediamo e udiamo; ciascuna cosa deve continuare ad esser tale quale ci é sembrata la prima volta, e non mutarsi né divenire altra, ma essere sempre tale quale essa è. Ora noi diciamo che rettamente vediamo e udiamo e intendiamo; intanto ciò che è caldo ci sembra diventare freddo e ciò che è freddo caldo, ciò che è molle duro e ciò che è duro molle, e il vivente morire e  risultare dal non vivente, e tutte queste cose mutarsi, e ciò che é stato ed è non essere mai simile a se stesso. Sicché é chiaro che non rettamente noi vediamo né rettanif^nte queste cose sembrano esser molte. Non si muterebbero infatti, se fossero vere; ma ciascuna cosa sarebbe sempre tale qual essa ci é apparsa. Se ciò che é si mutasse, V essere perirebbe, e il non essere verrebbe all'esistenza. Parmenide, nella seconda parte del sno poema, in cui egli vuol mostrare come le cose dovrebbero concepirsi nelcepirsi nell'ipotesi che l'opinione comune che ammette la realtà del multiplo e del cangiamento fosse vera, espone una fisica meccanista, in cui le cose si producono per la mescolanza di due sostanze primordiali, contrarie l'una all'altra e ciascuna sem  Fr. -r~T ( pre identica a se stessa. Questa fìsica non sembra a Parmenede soddisfacente, essendo per lui un errore di ammettere più sostanze primordiali non bisogna ammetterne, egli dice, che una sola; e se si domanda perchè gli Eleati, dopo avere intravista la possibilità di una tal fisica, le avessero non pertanto preferito la dottrina per noi meno soddisfacente dell'Uno immobile, noa si può dare  alrisposta se non che la supposizione di una pluralità di principii materiali, con tutte le altre ipotesi accessorie della fìsica meccani sta, sembrava loro in contraddizione coll'esperienza; dalPosservazione che le forme più differenti della materia corrispondenti a ciò che gli antichi chiamano i quattro elementi sono convertibili Funa nell'altra, essi ne concludevano, come tutti i fisici che li  avevano preceduti, che vi ha una sostanza materiale unica, la quale prende a vicenda tutte le forme. Noi non abbiamo alcuna difficoltà a comprendere come 1'assioma dei fisici conducesse a negare la realtà di ciò che gli antichi chiamano generazione e corruzione  p. e. la trasformazione degli elementi materiali l'uno nell'altro, o la produzione di un essere vivente e il suo ritorno allo stato  di materia bruta; in effetto questi fatti sono direttamente in contraddizione col principio che V essere non può avere coniinciamento né fine. Noi riattacchiamo pure facilmente allo stesso principio la negazione della realtà di'ciò che gli antichi chiamano altera-| t ìsione p. e. il cangiamento di colore o delle altre proprietà sensibili: noi abbiamo visto infatti che i fisici meccanisti tiravano  da questo principio la stessa conseguenza. Ciò che sembra diffìcile è di derivare dall'assioma dei fisici la negazione della realtà del movimento. Infatti se i fisici concepiscono più facilmente che le cose conservino le loro qualità anziché il cangiamento di queste qualità, e pretendono per conseguenza o di ricondurre al primo il secondo di questi fatti i meccanisti o di ridurlo a un semplice  fenomeno senza realtà gli eleati, è perchè il primo fatto è per noi assai più familiare ehe il secondo: ma il cangiamento di luogo non essendo per noi un fatto meno familiare che la persistenza nello stesso luogo, non si vede quale difficoltà gli Eleati potessero trovarvi. Tuttavia, quantunque la negazione della realtà del movimento non derivi immediatamente dall'assioma dei Usici, ne  può essere dedotta indirettamente: si vedrà in effetto, considerando la quistione dell'origine del movimento, che vi ha connessione tra questa negazione e la conseguenza immediata dell'assioma, che è la non realtà del cangiamento di essenza e di proprietà; connessione la quale parrà più evidente, se si rifletterà che per gli antichi, ignorando essi la dottrina della conservazione dell'energia,  e credendo che vi ha ad ogni istante annichilazione di movimento, la perdurazione del movimento nell'universo suppone necessariamente che r annientamento del movimento in una parte venisse compensato dalla produzione di movimento in un'altra parte. Perciò bisogna o che la materia avesse in qualcuna delle sue forme il potere di produrre spontaneamente il movimento p. e. l'aria,  secondo Anassimene e Diogene, il fuoco, secondo Eraclito, o che questo potere appartenesse ad un essere diverso dalla materia come nei sistemi degli spiritualisti, Anassagora, Platone, Aristotile, ai quali Parmenide stesso sembra accostarsi per le figure mitiche di Afrodite e di Eros. Neil'ipotesi d'una  sostanza unica, la possibilità di qualche cosa capace di produrre spontaneamente il  movimento, era legata alla possibilità del cangiamento nelle proprietà e l'essenza delle cose, cioè a quella che la stessa sostanza da materia inerte che è la forma più abituale sotto cui essa ci apparisce si mutasse in un essere attivo e vivente. Non ammettendo questa possibilità, gli Eleati rendevano impossibile l'origine del movimento, e quindi il movimento stesso. Essi non potrebbero   nemmeno cercare 1'origine del movimento nei mutamenti di luogo che accompagnano l'alterazione delle sostanze p. e. quando l'acqua si cangia in vapore o il vapore in acqua. perchè quest'alterazione non essendo secondo essi reale j il movimento che l'accompagna non può essere nemmeno reale. Un movimento originario cioè che non fosse l'effetto di un movimento anteriore, .iella supposizione della unità e immutabilità assoluta della sostanza, non sarebbe possibile che ad una condizione: cioè che la facoltà di produrre questo movimento potesse considerarsi come una qualità Plato Tim. immutabile della sostanza, e quindi che esso si producesse continuamente in tutta la materia in tutte le sue p;irti e a ciascun istante della durata  con la stessa energia e la stessa  direzione. Sarebbe un'ipotesi simile a quella di Herbart del divenire assoluto o movimento senza causa nel suo trilemma del movimento. Una tale ipotesi essendo in contradizione con l'esperienza, gli Eleati ne concludono che il movimento, impossibile nella sua origine, non è che un'apparenza senza realtà. Applicando M.'uno dei lìsici ionici il principio della non realtà di qualsiasi specie  di cangiamento, noi avremo Vuno degli Eleati, coi caratteri astratti e negativi con cui questi filosofi lo concepiscono. L'idea dirigente è che bisogna eliminare dal reale ciò che è variabile, e non ritenere per vero se non ciò che resta invariabile a traverso tutti i cangiamenti. Di là l'omogeneità assoluta dell'Essere in tutte le sue parti. Tutte le differenze che noi percepiamo nelle diverse  parti della materia essendo delle forme che una stessa materia può successivamente prendere e lasciare poiché, secondo la dottrina dei fisici unizzanti, una stessa materia soggiace a tutte le forme, ne segue che alcuna di esse non è reale, secondo gli Eleati, poiché il reale non è, secondo essi, che l'invariabile. Per conseguenza  Introduzione alla  filosofìa Aristotile MeU, dopo aver parlato  della quistione del principio del movimento, dice: Alcuni di <iuesti che ammisero ruuo gli Ebati, co«J€  vinti da questa difficoltà, dicono immobile l'uno e tutta la natura. le parti dell'Uno non possono differire per il colore o per la densità o per qualsiasi altra qualità sensibile, tutte questt? determinazioni non essendo che semplici fenomeni, apparenze senza realtà. L'Essere degli Eleati  è, al fondo, un essere astratto, il cui concetto si ottiene per la soppressione di tutte le determinazioni che differenziano i diversi esseri particolari; esso non può che essere assolutamente omogeneo, una volta che si è fatta astrazione di tutte le differenze del reale dato dai sensi. Secondo questo processo di eliminazione gli Eleati avrebbero dovuto negare dell'Uno tanto il riposo quanto il  movimento, poiché l'inerzia e l'attività ci sono date l'una e l'altra come due stati variabili dello stesso essere di una stessa materia. Ma non era possibile di concepire che un essere esteso nello spazio come gli Eleati si rappresentavano l'Uno e come doveano necessariamente rappresentarselo, non essendo esso altra cosa che il sustrato comune e immutabile di tutti gli esseri sensibili non  fosse né in riposo né in movimento. Tuttavia visto che un essere esteso senza colore, senza densità determinata, ecc. non é, al postutto, meno inconcepibile noi potremmo forse ammettere Melisso  Fr.  e.  Fr. E notevole che Aristotile chiama V Essere degli  Elati  aÒTÒ TO  OV Phys. applicandogli una denominazione ch'egli non snoie applicare che alle Idee platoniche del resto,  conformemente allo stesso Platone GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING, e talvolta anche ai principii dei Pitagorici, ehe non sono anch'essi che delle entità astratte. che ^li Eleati, negando dell'Essere il movimento, non intendevano perciò affermarne la quiete: il loro vero pensiero potrebbe essere quello che Teofrasto sembra attribuire a Xenofane, cioè che  l'Essere non è né in movimento né in riposo, e che la sua eterna permanenza nello stesso stato deve intendersi di uno stato che esclude tanto il riposo quanto il movimento. Al processo di eliminazione di cui abbiamo parlato aggiungiamo la negazione del vuoto dottrina comune a tutti i fisici eccetto gli atomisti, e avremo tutti i caratteri distintivi dell'Essere eleatico. Non essendovi alcun  vuoto che possa separarne le parti, e queste non potendo nemmeno staccarsi le une dalle altre per il movimento, l'Essere è necessaria V.  Sim[)licio in  Phfjs commento  a Aristotile; tr. De  MelHHo  ecc. e. b.. TootVasto dice, secondo Simplicio: jxiav Ss TfjV àfyY)v  r^Toi  sv tò ov  xai  ;rav,  >ta\  o'jts :re7U£pao[j.£vov  oSts  aTusioov,  oSts  %tvou[j.svov outs  Y]ceaoiiv l]sV0CpàvYjV...  ÙTUOTLOscOai  l'essere e il tutto non è né finito né infinito, sia pere h^, come e indicato nel De MhIìhho ecc. 1. e, quantunque esso non sia infinito, la limitazione non potrebbe nemmeno attribuirglisi, perchè in «lucsto caso dovrebV>e essere limitato da <iualche altra cosa; sia perché Xenotane si é contraddett.>, ora attribuendo al mondo la forma sferica, con che egli veniva a negare  la sua infinità, e ora ammettendo che la profondità della terra e l'alt^iz/.a dell'aria si estendono all'infinito, con che veniva a negare la finità del mondo. Zeller crede che Simplicio ha mal compreso le parole riferite di Teolrtiato, spiegandole egli stesso, senza appoggiarsi più su questo autore, nel modo che é stato esposto nel testo, e che il vero senso di queste parole é che Xenofane non  dice se l'essere primitivo ó in riposo o In movimento. Ma quest'interpretazione mi sembra inammissibile, non fosse altro per la ragione che, se Xenofane non si fosse pronunziato, e:me crede Zeller, mila quistione del movimento dell'essere, Teofrasto non potrebbe concluderne eh'egli non ha stabilito niente su questa quistione: ciò che dovrebbe concludersi invece dal silenzio di Xenofane  é che epjli ha mantenuto, al contrario mente unico e indivisibile, e noi comprendiamo come la realtà del multiplo sia negata dagli Eleati d'una maniera tanto recisa quanto quella del cangiamento. Ora  qual è il senso che gli Eleati attaccavano a queste negazioni? Annientavano essi d'una maniera assoluta la pluralità e il cangiamento, per conseguenza tutta la natura sensibile, o conservavano  ai fenomeni un resto di realtà? È una quistione dibattuta fra gli espositori: la prima interpretazione sembra la più conforme al senso più ovvio delle proposizioni degli Eleati, ma la seconda ha una verosimiglianza intrinseca assai più grande, e può anche invocare in suo appoggio Tautorità di molti autori antichi, tra cui alcuni conoscevano certamente nella loro integrità gli scritti di questi  filosofi. Il concetto di  fenomeno di apparenza, e quello correlativo di essere, di realtà, che netti e recisi come sono per il senso comune, sembrerebbero non poter dar luogo ilei suoi snnccssori, la realtà del niovirnento, poiché «luando un filosofo non ne^a un daU del senso comune, si devo intendere ch'egli lo ammette: e nel fatto lo «tesso Zeller, inferendo dal presunto silenzio di  Xenofane, é quest'opinione che gli attribuisce. In verità noi potremmo intendere le parole riferite di Teofrast.» ammettendo col Zeller che nell'esposizione di Simplicio non vi sia niente altro che si debba a quest'autore nel senso che Xenofane non ha stabilito né la realtà del movimento né la sua non realtà, ma nell'ipotesi che in questa quistione vi fosse in questo filosofo <iualche  contraddizione come in quella della limitazione del mondo. Più giù avremo occasione di tornare su questa indicazione di Teofrasto. Parmenide versi, Melisso  Fr., Arist. l)t (fenerat et cornipt, Come di Plutarco Adi\  Col.  e  Simplicio in  Phgn, conimento  a Aristotile ad alcuna incertezza od equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocallity thesis], non hanno, per alcuni metafìsici, che un senso vago, il quale non potrebbe indicarsi  senza riunire dei termini contraddittori. Per Platone, per Hegel e per altri filosofi, i quali, come gli  Eleati, non riconoscono per veramente reale che l'essenza eterna ed immutabile delle cose, la natura sensibile non è che un fenomeno senza realtà, un'apparenza; ma per ciò essi non intendono che essa non sia altra cosa che un fenomeno subbiettivo, il quale non esiste che nella sensazione.   Vi  n'apparenta obbiettiva è per noi una contraddizione nei termini, il concetto di apparenza essendo per noi identico a quello di fenomeno subbiettivo: tuttavia tale è secondo Hegel la natura sensibile un'apparenza obbiettiva, e quantunque questa espressione non sia propria che di lui, essa potrebbe convenire egualmente, per designare il valore della natura fenomenale, in tanti altri    sistemi in cui, come nel suo, il  fenomeno, cioè r individuale, il cangiante, è Un che di medio, come dice Platone, tra l'essere e il non essere. Si potrebbe d'altronde dubitare se,  in tutti i momenti dello sviluppo intellettuale dell'uomo, il concetto di apparenza sia costantemente legato a quello della subbiettività, come lo è certamente nella sua forma più chiara e sviluppata: un'ombra, un'immagine nell'acqua o nello specchio, quella proiettata da una lanterna magica, sono delle apparenze per il fanciullo e per l'uomo privo di qualsiasi coltura; ma sono anche per essi necessariamente subbiettivo? Quando più fanciulli guardano rimmagine della lanterna magica, non pensano essi piuttosto che vedono tutti la stessa cosa, come Reid CITATO DA GRICE dice che gii  uomini vedono tutti lo stesso sole? Queste considerazioni possono far ammettere la possibilità che il fenomeno, cioè il diverso e il cangiante, sia per gli Eleati ww' apparenza obbiettiva, e non un semplice fenomeno suhbiettivo che non esiste se non in quanto è sentito. Certamente di questa maniera si attribuirebbe agli Eleati una contraddizione: quella che il loro sistema era destinato a  risolvere, tra il principio dell'immutabilità della sostanza e il cangiamento dato dall'esperienza, verrebbe a riapparire sotto un'altra forma. Ma una tale contraddizione è inevitabile nel sistema eleatico: ammettiamo pure che i canariamenti e la varietà della natura non siano per loro che dei fenomeni subbiettivi; essi  esisteranno nondimeno a titolo di fatti dello spirito, e quest'^5/^teiiza  sarà sempre incompatibile col principio dell'unità e dell'immutabilità assoluta dell'essere. Una conseguenza  di quest'osservazione è che ci è impossibile di prendere alla lettera e in tutto il loro rigore le affermazioni degli Eleati sull'unità e l'immutabilità di ciò che esiste; come queste affermazioni non possono essere una prova che essi negavano l'esistenza dei fatti subbiettivi, quantunque  compresi nella pluralità e il cangiamento di cui essi non volevano ammettere la realtà, cosi non provano d'una maniera decisiva che la pluralità e il cangiamento del mondo esteriore fossero privi per essi di qualsiasi esistenza obbiettiva. Noi non comprendiamo una dottrina che riduce la natura visibile a puri fenomeni subbiettivi, a semplici sensazioni, che come il risultato di una profonda  critica della conoscenza, di una riflessione, almeno, sul carattere relativo delle nostre percezioni: ma tutto ciò manca negli Eleati; manca ancora nei loro continuatori, ì Megarici; e sarebbe certamente molto inverosimile che questi ultimi, in un'epoca in cui il pensiero si era già rivolto verso le ricerche di quest'ordine a cominciare almeno da Protagora, non si fossero dati anch'essi a  speculazioni cosi in armonia coi loro principii, se fosse vero che la natura sensibile non consiste per loro che in fenomeni subbiettivi. Qualunque sia il motivo del sistema eleatico, esso non può avere infine che lo scopo di rendere il reale più comprensibile: ma sopprimere il reale c:ó  che è semplicemente quello che gli Eleati avrebbero fatto nell'ipotesi della subbiettività del fenomeno    non è comprenderlo. Secondo noi questo sistema non si spiega che per uno sforzo di conciliare l'esperienza, la natura varia e cangiante, col principio dell'unità e dell'immutabilità della sostanza, concepito in tutto il suo rigore: nelT ipotesi dell'obbiettività del fenomeno, Tesperienza, la natura, non viene immolata a questo principio nel qual caso l'esistenza dell'Uno stesso non avrebbe  più fondamento, ma si cerca di acicordarla con esso per mezzo dell'idea vaga di apparenza obbiettiva, distinguendo il fenomeno cangiante e Vessenza immutabile. L'obbiezione più forte contro quest'Interpretazione sono le proposizioni degli Eleati sul valore deilla conoscenza sensibile e  le 4 I À ' ir fi .1 t ì --r  Su  tutto  il  periodo  della  filosofìa  greca  rappresentato dai  fisici  dobbiamo  fare  unosservazione generale,  che  si  riattacca  pure  all'argomento  di  questo capitolo»  Se  questo  periodo  si  mette  in  rapporto col  susseguente,  rappresentato  da Platone e da Aristotile, si vede immediatamente fra le due tendenze filosofiche un'opposizione SANZIO, che Aristotile esprime di<jendo che i fisici non hanno ricercato che il principio materiale, trascurando e anche sopprimendo l'altro elemento costitutivo della natura degli esseri, cioè il principio formaìe o essenziale. Ciascun essere, nella filosofia di Platone e di Aristotile, ha in  se stesso, considerato come un tutto individuale, un principio interno di attività, che è irruduttibile alle energie proprie agli elementi materiali da cui esso è costituito. Questo principio è riposto nella essenza o nella forma speciale di ciascun essere, vale a dire esso è differente negli esseri specificamente differenti: ciascuna specie di esseri è governata da leggi proprie ed è, per dir così,  autonoma, queste leggi non essendo dei semplici casi delle leggi universali della materia. dei risultati necessari del concorso delle forze generali della natura. I fisici invece tendono a sj^iegare le forme, cioè le Indicazioni corrispondenti degli antichi testimoni, proposizioni e Indicazioni che possono riassumersi cosi: bisogna rigettare la testimonianza del sensi che ci mostrano 11 reale  come multiplo e cangiante, e non credere che alla ragione. la quale ci prova che esso è uno e Immutabile Parmenide di VELIA versi, Melisso di VELIA Fr., Arlst. GèneranU et corrent, Met,, De Melisso di VELIA ecc., Arlstocle ap. Euseb. Praep, evang., Plutarco ap. Euseb. Pr, ev., Sesto Math, Arlstot. De Coelo, Timone ap. DJog.. Ma quest'obbiezione non potrebbe essere decisiva.  Platons si esprime slmilmente al soggetto della conoscenza del seasl e della realtà del sensibile p. e. Phaedo: quam fallax oculornm, qnam fallax  anriam caeterornmque sensnnm sit considerano neqne nlli credat praeterqnam sibi, qnatenus ipse per se cogitet qmdlihet eornm quae snnt per se, quod vero per alia consideret exsistens in aliis alind ut nihil existimet vernm; esse vero talia  qnidem visibilia  ac sensibilia, ecc.: tuttavia Platone non Intende certamente negare l'obbiettività della percezione sensibile. Né ci sembra sicuro, come crede Zellei, che Aristotile abbia compreso la dottrina dei VELINI nel senso della subblettlvltà del fenomeni. Non mancano In Aristotile del luoghi che sembrano Invece suppone 11 contrarlo. Tale è notevolmente quello che è già stato  citato  Met., De an, De pari, animal., De gen. et corr, Phyès,, De Coelo, ecc. ì H\ a proposito di Eraclito, contenente un ravvicinamento tra qnesto filosofo e iVELINI. C/ome si deve Intendere, domanda Aristotile iPhys., la proposizione che tutto è uno V forse nel senso che vi ha per tutte cose una stessa definizione? ma allora pei VELINI, come per Eraclito, sarà la stessa cosa 11 bene  e II male, l'uomo e 11 cavallo; ecc. Physs,: è Impossibile che tutto sia uno per la forma, ma è solo possibile per la materia; è per la forma che le cose differiscono jiure contro i VELINI. Qui Aristotile sembra attribuire ai VELINI un monismo che non sopprime la moltlplicltà fenomenale, ma la riconduce all'unità della sostanza. GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING Del più antichi testimoni l'altro che noi possiamo consultare sui VELINI più che in semplici frammenti, cioè Platone, è incontestabilmente più favorevole alla Ipotesi della obbiettività che a quella della subblettlvltà del fenomeno. Infatti Platone stabilisce un rapporto sì Intimo tra la sua propria metafisica e quella dei VELINI. che va sino ad attribuire a Parmenide di VELIA la  dottrina delle Idee-finzione che naturalmente non si può riguardare come un'immaginazione puramente capricciosa, ma in cui deve vedersi l'espressione in forma fantastica della proposizione astratta che vi ha una stretta connessione tra la dottrina delle Idee e la filosofia VELINA, L'analogia fra V idealismo platonico e la metafisica dei VELINI sarebbe in effetto assai colpente, se  questi  considerassero, al pari di Platone, il particolare e 11 cangiante come 1'apparenza obbiettiva dell'Essere immutabile. Ma se i VELINI sopprimevano d'una maniera assoluta il multiplo e 11 cangiante, cioè tutta la natura, la dottrina VELINA sarebbe la più ^nature particolari degli esseri, per le proprietà degli elementi materiali e per le forze generali da cui questi sono animati. Essi non  concepiscono che un tutto abbia delle energìe che non siano il risultato delle energie dei suoi elementi costitutivi, e perciò gli esseri particolari, p. e. gli esseri viventi, non potrebbero, secondo essi, essere governati da leggi particoiari; da per tutto essi non possono vedere che l'azione delle leggi generali che governano la materia. In una parola noi troviamo nei fisici i primi rudimenti di  una concezione della natura prevalente nella scienza moderna, cioè della spiegazione fisico-chimica o semplicemente meccanica opposta al sistema deUe Idee più opposta che qualsiasi altra fra le dottrine dei fisici, poiché le Idee non sono altra cosa che lo stesso multiplo e cangiante considerati nelle loro leggi, nelle loro forme generali. Grli argomenti di Zenone di VELIA e di Melisso di VELIA contro 11 movimento, siccome negano slnanche la possibilità di questo il primo facendo risultare dal concetto del movimento delle conseguenze contraddittorie, il secondo negando il vuoto e sostenendo che esso è la condizione del movimento possono sembrare una prova decisiva contro l'interpretazione che farebbe del movimento un fenomeno obbiettivo» Ma del filosofi  hanno ritenute le obbiezioni di Zenone di VELIA VELINO contro il movimento insolubili, e tuttavia non ne hanno negato l'obbiettività. Hamilton, p. e., dice: Gli argomenti di Zenone VELINO provano che il movimento^(iuantunque certo come fatto, non può essere concepito come possibile, perchè esso implica contraddizione MORE GRICE TO THE Mill. Fitos. di Hamilione. In  queste difficoltà del movimento Hamilton vede un caso della legge che condanna lo spirito umano a delle antinomie Insolubili, tutte le volte che tenta di oltiepassare la conoscenza del fenomeno, in cui esso è necessariamente circoscritto: queste antinomie provano, secondo lui, che noi non conosciamo l'assoluto, ma solo il condizionato, cioè solo le manifestazioni relative d'un'esistenza in se stessa incomprensibile. La filos» dell'assolato nei Frammenti della fllos. di Hamilton tradotti da Peisse Cosi gU argomenti di  Zenone VELINO dimostrerebbero, secondo Hamilion, che il monda\ di tutti i fenomeni del mondo fisico. Ma ascoltiamo Aristotile: I fisici, i quali dicono che è la materia che produce gli esseri per il suo movimento, distruggono l'essenza e la forma. Essi  attribuiscono certe forze ai corpi, e ne fanno produrre le cose d'una maniera puramente meccanica, sopprimendo la causa secondo la specie cioè il principio formale o l'essenza. Dopo avere supposto che la natura del freddo è di concentrare le parti della materia e quella del caldo di disgregarle, e che ciascuno degli altri principii di quest'ordine agisce naturalmente o patisce d'una certa  maniera, è da tali principii e per sensibile non è la realtà assoluta, ma non che è un semplice fenomeno subbiettlvo. Ma ciò che prova d'una maniera più diretta che Zenone VELINO poteva conservare al movimento un resto di realtà obbiettiva, anzi ciò che può riguardarsi come un indizio importante che tale effettivamente sia stata la sua opinione, è la forma in cui  1 Megarici presentano  gli argomenti del loro predecessore. Il megarlco Diodoro Crono, dopo aver provato, secondo Zenone VELINO, l'impossibilità del movimento, aggiungeva che, se non è vero dire del mobile che si muove, si può tuttavia dire che è mosso HE MEANS HE MEANT. Sesto  Empir. iI/flr///.X. , Pyrrh,, ecc.. Per comprendere questa distinzione, bisogna tener presente che gli argomenti di  Zenone VELINO erano fondati sulle difficoltà derivanti dal concetto della continuità del movimento cioò del passaggio successivo del mobile per tutti I punti intermediari fra due posizioni distinte Saggio Le antinomie della ragione. Secondo Diodoro Crono, si può dire si è mosso, perchè effettivamente il mobile occupa successivamente delle posizioni distinte; ma non si può dire si  muove, perchè il movimento non è continuo. Non essendovi continuità nel movimento, il corpo sta successivamente in ciascuna delle posizioni successive che esso occupa, e non si muove mai; per indicare che il corpo occupa una nuova posizione, si può usare il perfetto HE HAS MEANT, che indica 11 termine dell'azione, l'azione compiuta, ma non mal 11 presente, che indica l'azione stessa, l'azione che si compie. FOR HOW LONG HAVE YOU MEANING THATper il senso della distinzione tra si muove HE IS MEANING HE MEANS e si è  mosso UTTERER MEANT THAT IFF HE INTENDED,  Arist. Pìujs.. La  distinzione di 4ali cause eh'essi dicono tutte le cose esser prodotte ^perire. Essi fanno come qualcuno che attribuisse alla sega e agli altri strumenti  la causa della produzione degli oggetti fabbricati da un artigiano. E altrove: Non bisogna imitare gli autori antichi, i quali dicevano piuttosto come gli esseri si generassero che come fossero; poiché gli esseri non sono così perchè così sono prodotti, ma piuttosto sono prodotti così perchè così sono, cioè perchè tale è la loro forma, come avviene per un edilizio, la genesi di ciascuna cosa  essendo in grazia della sua essenza, e non viceversa. Non bisogna dunque fare Dlodoro €rono, per la stessa forma eonti*addittorla con cui è espressa, ci indica che essa non era destinata, nell'intenzione di questo fili»«jofo, a salvare il movimento, rettificandone il concetto per la eliminazione di un elemento falso, cioè della continuità. Dlodoro Intende dimostrare, come Zenone VELINO,  la natura contraddittoria e l'impossibilità del movimento, quantunque esso fosse un fatto attestato dall'esperienza; r essersi mosso senza muoversi mal HAVING MEANT WITHOUT MEANING, 1'esistenza d'un fatto impossibile, prova che questo fatto non era veramente reale, che esso non era che un semplice fenomeno, quantunque obbiettivo dai luojj^hi citati di Sesto risulta  chiaramente che Dlodoro ammette la non realtà del movimento e al tempo stesso la sua obbiettività. In ogni caso II movimento, per i Megarici come pei VELINI, non poteva consistere in altra cosa che nell'apparizione successiva di fenomeni perfettamente  simili  p. e. una certa forma con un certocolore in posti differenti, non n?! trasporto, a traverso lo spazio, della sostanza stessa, del  sustrato di questi fenomeni; polche tutte le differenze del reale, che costituiscono una moltlpUcltà di cose, non sono per loro che delle apparenze che si mostrano in diversi punti del sustrato comun3,  p9r se stesso omogeneo e ciò tanto nell'ipotesi della obbiettività di queste apparenze, quanto in quella della subblettlvità. Data questa concezione del movimento, la sua obbiettività  fenomenaie è conciliabile con l'Immobilità dell'essere vero La dottrina di Dlodoro Crono sul movimento è, per la nostra qulstlone, un dato tanto più importante, che da questa dottrina si può De Geru ti corr, . k €onie  GIRGENTI, il quale spiega molti caratteri degli animali per qualche accidente loro avvenuto quando furono prodotti; attribuendo p. e. tal conformazione della spina all'essersi spezzata per oontorsione. Se l'uomo consta di tali membra, è perchè tale è l'essenza METIER dell'uomo: senza di queste membra non sarebbe uomo, ed è così perchè non potrebbe essere altrimenti, o perchè così è il meglio. Ma gli antichi non cercarono che il principio materiale e la causa analoga: quale fosse, e come il tutto ne nascesse, e per qual causa motrice, p. e. la  concordia e la discordia, o la mente, o anche «rgomeutare che la scuola megarlca in generale non rigettava d'una maniera assoluta la pluralità e il divenire. Ora questa scuola non faceva che continuare la filosofìa dei VELINI l'opinione che i Megarici hanao ammes-^o  le Idee prima di Platone, non che è una congettura arbitrarla di alcuni critici moderni, ch'ò impossibile di ammettere quando si è compreso lo scopo e l'origine dell'ipotesi delle Idee. La stessa conclusione, cioè che 1 MogarlcI e quindi probabilmente anche i VELINI non rigettavano assolutamente  11 cangiamento, sembra risultare dalla confutazione della dottrina megarlca sulla possibilità, che troviamo In Aristotile Mei.. I Magarlcl negano ciò che In lingua aristotelica si chiama la distinzione iva potenza ed atto: essi non ammettono che Vatto, ma non Aa potenza; per loro, in altri termini, non è possibile se non ciò che e reale, dò che è avvenuto o che avverrà; ciò che non è  avvenuto e non avverrà, secondo loro, non poteva avvenire e non potrà avvenire, CICERONE De fato, Plutarco De Stoicor. repugnant, ecc. su Dlodoro Crono non abbiamo alcun motivo per ammettere che la tesi di Diodoro Crono fosse differente da quella del primi Megarici. Aristotile obbietta che questa tesi rende Impossibile il divenire o, com'egli dice, 11 movimento e la generazione,  perchè so ciò che non è /;/ atto non è nemmeno /// pòtema, ne segue che ciò che presentemente non è, non è possibile che divenga In avvenire. È evidente che nessuno dimostrerebbe per l'assuiMlo la falsittà d'una tesi, mostrando che essa condurrebbe logicamente ad una proposizione, che per lui è evidentemente falsa, ma che per 1 sostenitori della tesi confutata è la verità fondamentale  del una causa puramente meccanica; la materia soggiacente avendo insita una certa natura necessaria, come fervida il fuoco, fredda la terra, e l'uno leggiera, l'altra grave; ed è così che essi generano Tuniverso. E così anche dicono della produzione delle piante e degli animali; p. e. che scorrendo Tacqua nel corpo, si sia prodotto il ventre e ogni ricettacolo del cibo e dell'escremento, e le  narici si siano aperte per il passaggio dell'aria. I fisici espongono l'origine e la causa delle forme degli esseri viventi come un fabbro che parlasse d'una mano di legno: dicono da quali forze siano state fabbricate; il fabbro parla foro sistemi. ZeUer crede che la uef^nzlone della potenza è le3:at!i, nel contatto dei Megarlci, a quella del divenire: ma la di^duzlone di Aristotile è forzata; fra le due dottrine non può ei^servl In realtri alcuna eonuesslone, tanto più che non vi ha ragione, come abbiamo osservato, di distin«jruere la tesi dei primi Megarlcl da (luella di Dlodoro Crono. La stessa osservazione vale, e a più forte ragione, pei* l'obbiezione immediatamente precedente. In conseguenza della tesi del Megaricl, dice Aristotile, non vi sarà ne Gildo nèireddo né dolce nò assolutamente alcun sensibile  all'infuorl della sensazione; pev cui avverrà loro di dire la proposizione di Protagora Qui la forma stessa In cui è espressa l'obbiezione esclude indubbiamente che i Mega -lei  ammettano giù la dottrina di Protagora cioè che 11 sensibile non esiste se non In quanto è sentito Intanto, se secondo l Megarlcl e i VELINI il multiplo e il cangiante non consistesse che in fenomeni subblettlvl, la loro dottrina sarebbe giù quella di Protagora, cioè essi ammetterebbero della m.^niera più esplicita l'assurdltù a cui vuole forzarli Aristotile. che non vi ha né caldo né freddo né dolce ne assolutamente alcin sensibile alPinfuorl della sensazione. Ma il più forte argomento contro l'interpretazione del sistema eleatlco nel senso della subbiettlvitù del fenomeno ci sembra 11 rapporto tra Xenofane e gli oleati posteriori. Pare certo, sia per certe proposizioni di questo filosofo sulla dlvinltù Fr. Muli.: Dio muove o governa 11 tutto che cosa governerebbe Dio, se non esistesse una natura?, sia per le sue opinioni cosmologiche, ch'egli diseure e di trapano, essi di terra e d'aria. Ma meglio il fabbro, il quale sa che non basta il dire come mediante lo strumento si sia formato il cavo e il piano, ma aggiunge che ciò avvenne, perchè egli aggiustò i colpi d'una tale maniera e a tal oggetto, cioè affinchè l'opera ricevesse una forma tale. Altrove Aristotile paragona i fisici a qualcuno che pretendesse di spiegare la forma di un edilìzio, dicendo che i gravi si ]jortano naturalmente in basso e i leggieri in alto, e che è perciò che le pietre e le  fondamenta si trovano nella parte inferiore dell'edifizio, al di sopra la terra perchè non rigettava assolutamente li cangiamento e la natura sensibile pure nel De Melisso ecc. e. sul. princ. un'obbiezione contro Xenofane dalla quale risulta ch'egli manteneva l'esistenza del multiplo. Intanto le testimonianze più autorevoli attribuiscono allo stesso Xenofane la dottrina dell'Immutabilità assoluta dell'essere e della non realtà del cangiamento Aristotile Mei., Arlstocle ap. Euseb. Pr. ei\  , Plutarco, Sesto Empir. PijrrJi,, ecc. Quand'anche l'indica'/lone già citata di Teofi-asto sul riposo e il movimento dell'uno tutto dovesse intendersi, non nel senso che Xenofane escilude da esso tanto l'uno quanto l'altro, ma in quello che Teofrasto non può attribuirgli la dottrina nò della  realtà né della non realtà del movimento, questa indicazione non potrebbe farci rigettare le altre testimonianze, che identificano la dottrina di Xenofane con quella dei VELINI posteriori: essa proverebbe soltanto cha nella prima vi era qualche incoerenza, che si spiegherebbe supponendo che, per i VELINI, la realtà del movimento e, in generale, del sensibile era qualche cosa di equivoco  EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis]. Ma se si suppone col Zeller che Xenofane ammette assolutamente la realtà del cangiamento e del sensibile, e che i VELINI posteriori la rigettavano assolutamente, non si comprende più il rapporto tra l'uno e gli altri, e non si vede come gii antichi potessero identificare le due dottrine. La quistlone: 1 fenomeni hanno per i VELINI un'esistenza obbiettiva o subbiettiva? non deve  confondersi con quest'altra: la fisica che Parmenide di VELIA espone nel suo poema ha o no un  De pari, anim,  meno pesante, e alla sommità il legno perchè più leggiero di tutti gli altri materiali. Non è semplicemente la teleologia e il carattere dialettico della filosofia di Platone e di Aristotile che mettono questa filosofìa in opposizione a quella dei fisici. Vi ha fra di èsse un'antitesi  fondata su due concezioni della natura, di cui la meno metafìsica non è, in tutti i punti, quella dei fisici. Senza dubbio le speculazioni sul principio formale o essenziale sono strettamente legate in Aristotile con la sua teoria della definizione che, come abbiamo visto, è un'applicaziono di quella forma di valore reale? La risposta a (questa seconda (lulstlone. Io credo, non pòtrebbe essere  In o«;nI caso che negativa: Parmenide di VELIA dichiara categorieimeute che nel suo poema ej?II non esprime le sue proprie opinioni, ma dello opinioni che gli sembrano erronee. Cereamente Parmenide di VELIA (luallfica pure come una semplice opinione del volgo la realtà d^lla  nioltlpllcità e del cangiamento Versi, luogo; Teofrasto ap.Alex. In Phil. pr. Aristotells, e perciò potrebbe  credersi che la realt{\ ch'egli attribuisce alla fisica del suo poema sia necessariamente eguale a quella ch'egli attribuisce al multiplo e al cangiante. Ma non è cosi. Se Parmenide di VELIA ha ammesso, come ci sembra più  A-erlsImile, l'obbiettività del fenomeno, la realtà del multiplo e del cangiante è secondo lui Un'opinione falsa. In quanto Vapparensa dell'essere veramente reale viene presa per l'essere reale stesso; ed egli crede che, se ([uest'oplnlone fosse vera, sarebbe  Indispensabile una fìsica qual è quella del suo poema, fondata sul principio di una pluralità di sostanze primordiali qualitativamente Immutabili Arlst. Met. e Teofrasto. Ma egli non chiamerebbe la sua fisica un discorso fallace, un'opinione che non merita alcuna fede, per la semplice ragione che l fenomeni di cui essa tratta non sono degli esseri reali, come credono gli uomini, ma del semplici fenomeni: se questa fisica contiene un'esposizione esatta del fenomeni, essa è vera, quantunque non abbia per oggetto che del fenomeni privi di vera realtà. Gli antichi autori Plutarco, Simplicio, ecc. che confondono la qulstlone del valore della Phys, Plato. Leggi spiegazione metafisica che abbiamo chiamato filosofia apriorista e con la sua concezione teleologica del mondo che è un'applicazione dell'altra forma, la più spontanea, di spiegazione metafisica, implicando, anche in quanto questa teleologia è immanente, una certa assimilazione delle operazioni della natura a quelle dell'uomo: a questi concetti Platone ne aggiunge degli altri più spiccatamente metafisici, cioè la realizzazione delle astrazioni e le altre dottrine connesse. Ma se noi sbarazziamo dai concetti metafisici con cui è legata, questa introduzione del principio formale o essenziale come principio cosi primitivo e irriduttibile nella costituzione degli esseri che quello della materia, e avente delle leggi proprie così primordiali che quelle della materia stessa; in altri termini se noi la riduciamo alla proposizione che gli esseri manifestano delle proprietà che non sono la risultante o la somma delle proprietà degli elementi materiali che li costituiscono; noi dobbiamo vedere in questa proposizione il risultato di una semplice osservazione dei fatti scevra da anticipazioni dell'esperienza e da qualsiasi ipotesi. L'ipotesi dei fisici che non lascia negli esseri alcun principio di di«i fìsica del poema di Parmenide di VELIA con quella della obbiettività del sensibile secondo Parmenide di VELIA, non considerano il vero motivo e 1'origine del sistema VELINO:  questo sistema sarebbe Incompatibile col concetto di una pluralità di sostanze materiali tutte egualmente primordiali, perchè l'uno dei VELINI, come l'uno degli altri fisici, non ò che 11 sustrato comune di tutti 1 corpi l'essere, per l fisici e, al fondo, anche pei VELINI, non è che il corpo, e suppone la convertibilità reciproci^ di tutte le sostanze materiali. • stinzione, non vedendo nelle loro proprietà specifiche che il risultato delle proprietà degli elementi materiali e delle forze che agitano tutta la materia, non è meno metaempirica nella sua origine che le concezioni teleologiche e dialettiche di Platone e di Aristotile. Questa ipotesi non è semplicemente legata alla fisica meccanista: certamente il rimprovero di Aristotile, di distruggere il principio della forma o della specie j s'indirizza particolarmente ai rappresentanti di questa fisica, a Democrito e sovratutto a GIRGENTI; ma Aristotile lo estende a tutti i fisici in generale. I meccanisti^ sia perchè la loro fisica era più moderna e più sviluppata, sia perchè essi applicavano d'una maniera più netta e rigorosa il principio, che l'essere non può né nascere né perire, davano più occasione al rimprovero di Aristotile: ma la concezione della natura a cui esso viene diretto era una conseguenza del principio stesso che era l'assioma di tutti i fisici, questo implicando l'impossibilità che l'essenza di un tutto differisca dalV essenza degli elementi da cui è stato costituito •e in cui si risolve, e per conseguenza una spiegazione meccanica della vita e della natura in generale. Quantunque la filosofia posteriore ai fisici potrebbe mostrarci altri esempi della tendenza filosofica che noi studiamo in quest'appendice, tuttavia siccome non vi troveremmo dei si L'influenza del principio che Tessere non pnó né nascere né perire potrebbe ritrovarsi nel concotto della materia dello stesso Aristotile. Secondo Renan, Aristotile ha ammesso, per la sua teoria stemi in cui l'impronta di questa tendenza sìa cosi marcata come in quelli di cui abbiamo parlato ad eccezione, s'intende, delle dottrine che, come quella del GIARDINO, non fanno che continuare delle dottrine più antiche: così sarà per noi più interessante  di osservare l'influenza dello stesso sofisma a priori che ha inspirato i fisici nella filosofia di un altro popolo, cioè degl'Indiani. Le tre principali dottrine ontologiche della filosofia Indiana, la sanki/a, la vaiseschika e la vedantina,  corrispondono in un certo modo alle tre scuole in cui possono dividersi i filosofi di cui abbiamo parlato, cioè fisici unizzanti, fisici meccanisti e VELINI. Secondo Colebrooke, la sankya la scuola di Kapila ha in comune coi fisici il principio ex nihilo nihil fit Ciò che non esiste, dicono i filosofi di questa scuola, non può per alcuna operazione possibile d'una causa ricevere l'esistenza. Così l'olio è nella semenza del sesamo prima che ne sia estratto. La natura della causa e dell'effetto è la stessa: un drappo non può differire essenzial della  materia, questa psofonda verità: l'Identità del fondo permanente dello cose, l'eternità dell'oceano di essere, alla saperficie del quale si svolgono le linee sempre oscillanti e variabili dell'individualità. Renan Aoerroe e l'averroismo.  Ricorderemo pure la singolare dottrina del Timeo di PIitone, secondo la quale i <jorpi elementari i quali sono dei poliedri regolari e consistono nelle superficie  da cui sono terminati si trasformano gli uni negli altri per la l»ro decomposizione nei piani che li costituiscono cuna nuova composizione degli stessi piani in altri solidi di una forma differente Plato Timeo, Arist. De Coelo, ecc. È una specie di atDmismo, in cui gli atomi sono non dei corpi ma delle superficie. mente dalla lana con cui è stato tessuto. Conformemente a queste premesse, i sanki/as ammettono che il primo principio, da cui le altre cose derivano, la Prakriti o Pradhana, che è la causa materiale del tutto, contiene tutto in uno stato indistinto o inviluppato. Tutto esce dal primo principio, e tutto vi rientra alla fine del mondo, senza che perciò niente di assolutamente nuovo si produca e niente assolutamente perisca. La uscita o emissione degli effetti dalla causa  e la riunifìcaziòne del tutto, cioè il ritorno dell'universo al primo principio, ha per tipo la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa rientrare di nuovo. Nella vaiseschika scuola di Kanada si trova qualche cosa come una combinazione della dottrina degli Atomisti e di quella di GIRGENTI. Come elementi materiali questa scuola ammette cinque generi di atomi,  corrispondenti ai quattro elementi dei Greci, a cui, come alcuni dei Greci stessi, ne aggiunge un quinto, l'etere. Questi atomi non sono tutti solidi ne destituiti di qualità sensibili, come quelli di Democrito; ma, come gli elementi di GIRGENTI, ciascuno è dotato delle qualità che noi osserviamo nella sostanza corrispondente. Secondo l'esposizione di Colebrooke si può ammettere che  questi atomi sono inalterabili, e che le proprietà dei composti sono la risultante di quelle degli elementi. L'anima è una sostanza distinta dagli elementi materiali, come U) Colebrooke Sa(j(jio  sulla flloft. deqV Indiani  trad. Frane Saggio sulla ftlos, deyVImh. lo provano le sue proprietà differenti; ed è, come essi, imperibile ed eterna. La materia è per se stessa inerte, e il movimento le  viene impresso dallo spirito La proposizione che condensa la vedanta è: L'essere supremo Brahma è la causa materiale cosi bene che la causa efficiente dell'universo. Brahma è l'elemento etereo dal quale tutte le cose procedono e al quale ritornano tutte. Ma trasformandosi negli esseri finiti, Brahma non perde la sua identità, perchè i Vedantini non comprendono che l'essere reale possa  nascere o perire. Nel Bhagavad-gìtà un episodio filosofico del Mahà-Bhàrata, che è una delle grandi autorità della filosofìa vedantina, vi ha questa proposizione: Qiiod vere non est id fieri neqiiit ut existat, nec ut esse desinat quod vere est. La conseguenza di questo principio è che Brama è l'essenza unica in cui tutte le cose si risolvono. Già il Veda dice: Tutto ciò che esiste è Brahma;  tutto ciò che Colebrooke nota di Pautliier, nota di Pauthier, ecc. Questo panteismo è fondato, come notammo altrove, sul concetto della materialità doli'anima e di Dio, e della convertibilità reciproca di tutte le sostanze materiali FiL teoloy. Le ideedegl'Indiani sugli elementi e sull'ordine della loro conversione reciproca sono analoghe a quelle dei Greci. Secondo il codice di Manu Schlegel Saggio sulla lingua e la fllos. degl'Indiani, e secondo i Vedantini Calebrooke, gli elementi, nell'ordine con cui procedono gli uni dagli altri, sono: l'etere, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra. I Vedantini ora identificano Dio con. l'etere Colebr., ora ne lo distinguono Regnaud in Rev, phil, e in questo caso fanno dell'etere 1'elemento che procede immediatamente da Dio o dallo Spirito  sempre concepito nel senso del semi-materialismo dell'animismo primitivo. 'I noi sentiamo per l'odorato o tocchiamo per il tatto è Brahma. Dio è sotto forma di schiavi e sotto quella di fuggitivi; egli è l'animale quadrupede in un luogo, e in un altro è pieno di gloria. La differenza tra la causa e l'effetto non invalida^ dicono i Vedantini, la identità di Brahma come causa e come effetto.  Un effetto non è altro che la sua causa; Brahma è unico e senza secondo, egli non separato da se stesso esistente nel mondo dei corpi. Brahma è come il mare, il quale non è che acqua, ma in cui si osservano modificazioni distinte, quali la spuma, i flutti, ecc.; in realtà da una parte niente nel mare differisce dall'acqua di cui esso è formato, come, dall'altra parte, niente differisce dall'anima universale, di cui il mondo intero non è che una modificazione. Come causa dell'universo Brahma  è simile ad una pezza di stoffa inviluppata, ed il mondo è simile a questa stessa stoffa  sviluppata, di cui si riconosce la identità con la stoffa già inviluppata. Ma tali comparazioni le quali suppongono che nell'essere assoluto vi siano delle modificazioni reali non esprimono d'una maniera  adequata il pensiero definitivo dei Vedantini: questo è che l'Essere assoluto in se stesso resta immutabile attraverso tutti i cangiamenti a cui l'universo è sottoposto. Brahma è impassibile, inaffettato dalle modificazioni del mondo, come il puro cristallo che pare colorato per il fiore rosso d'un ibisco, ma che in realtà noti cessa di essere trasparente. En:li  è lo stesso in tutte cose: non vi ha  in lui diversità né variabilità; nev suna moltiplicità. La contraddizione tra quest'unità e immutabilità dell'Essere che è la sostanza universale, e i cangiamenti e la pluralità delle cose è risoluta dai Vedantini, cjme dai VELINI, distinguendo il fenomeno e la realtà: questa distinzione corrisponde a quella del costante e del transitorio. Brahma, il solo oggetto costante, è distinto da tutto il  resto che è transitorio; Brahma solo è reale, il resto non è che apparenza. Diverse forme illusorie e diversi svisamenti sono rivestiti dallo stesso spirito. Il sole luminoso, quantunque unico, tuttavia, riflettuto nell'acqua, diviene multiplo: tale è pure l'anima divina increata, per uno svisamento sotto diversi modi. Il mondo sembra reale, sinché Brahma non è compreso; ma Vyogi, di cui  l'intelletto è perfetto, con l'occhio della conoscenza percepisce che ogni cosa è Spirito; egli conosce che queste forme corporali delle cose sono Spirito, e che fuori dello Spirito non esiste niente. Di tutto ciò che è visto, di tutto ciò che è inteso, non esiste che Brahma: tutto ciò che sembra esistere fuori di lui non è che un'illusione, come l'apparenza dell'acqua il miraggio nel deserto.  Brahma non si trasforma dunque che in apparenza: le forme cangianti degli esseri finiti non sono che vane immagini a cui non corrisponde altro Colebr. Colebrooke, Regnaud Studi di fllosopa indiana in Rev, phil. Colebrooke Atma-Bodha. Regnaud. Stuli di filosofia indiana in Rev. phil. Colebrooke. Attna-Bodha ^onosc. dello spirito di S'ankara, N IT r i^ di reale che Brahma, Tessere  immutabile che apparisce sotto queste forme diverse. Qui si presenta la stessa quistione che pei VELINI. Quando i Yedantini chiamano il multiplo e cangiante. una semplice apparenza, intendono perciò ridurre la natura a dei fenomeni puramente subbiettivi, o quest'apparenza è per loro un'apparenza obbiet» Uva? Il carattere fenomenale delle cose, per i Vedantini come pei VELINI,  non è il risultato di ricerche sulla natura della nostra conoscenza, dimostranti il valore relativo e puramente subbiettivo della percezione, ma è la conseguenza di questa premessa, che l'essere non può cominciare né finire, che le cose non possono cangiare di natura e di proprietà, unita a quest'altra, che non vi ha una pluralità di sostanze primordiali inconvertibili l'una nell'altra, ma una  sostanza unica che prende forme differenti. Dato questo motivo della dottrina, noi dobbiamo preferire d'interpretarla nel senso della obbiettività piuttosto che in quello della subbiettività del fenomeno. Quest'ultimo senso sarebbe d'altronde incompatibile con altre proposizioni dei Vedantini, notevolmente con le altre rappresentazioni del rapporto tra Dio e il mondo. Quando paragonano  Brahma a una stoffa inviluppata e il mondo a questa stoffa sviluppata; quando dicono che Brahma si trasforma nelle sostanze corporali come l'acqua in ghiaccio, e che queste sostanze saranno da lui riassorbite alla consumazione di tutte le cose; quando tra Brahma e le cose particolari stabiliscono lo stesso rapporto che tra la terra e i vasi fatti di questa terra o tra l'oro e gli ornamenti d'oro; ecc.; i Vedantini affermano chiaramente l'obbiettività delle forme finite. Questi concetti potrebbero difficilmente coesistere con quello di Maga, cioè della fenomenalità degli esseri finiti, non vi sarebbe tra gli uni e l'altro alcuna gradazione possibile, se i Yedantini riguardassero il multiplo e cangiante come dei fenomeni subbiettivi, e non come r apparenza obbiettiva dell'Essere  immutabile. Nella filosofia il principio della immutabilità della sostanza si afferma sin dal risorgimento del pensiero filosofico. La più parte dei primi filosofi o inaugurano la spiegazione meccanica della natura o proclamano un panteismo, in cui Dio è concepito come 1'essenza sempe identica a se stessa dogli esseri transitori e variabili. Sotto la forma unitaria e panteistica, il principio dell'immutabilità della sostanza si trova, nel modo più accentuato, in Bruno. Nelle esistenze finite egli non vede che le manifestazioni diverse e cangianti di un essere in se stesso unico ed immutabile. Quel tutto che si vede di differenza ne li Negli Vpanichad sezioni finali dei Veda vi ha già il concetto deirimmutabilità di Brahma, non che quello di Brahma sostanza comune di tutti gli  esseri; ma non ancora quello di maya o del carattere illusorio delle cose sensibili Regnaud Rev. phil. La successione cronologica dei concetti corrisponde cosi alla loro successione logica Regnaud mostra che in S'ankara il più celebre commentatore dei vedanta-soutra, che sono il testo dei filosofi vedantini o negli stessi soutra si trova già il concetto di mai/ a Rev. hiU, ciò che Colebrooke  avoa negato Colebr Per S'ankara del resta ciò risulta abbastanza dalla citazione precedente. Manca perciò di fondamento la supposiziono di Colebrooke che questo concetto sia un impiestito degli ultimi scrittori vedantini a qualche aUra scuola. H i: i J' N i>  t 5 corpi, quanto alle formazioni, complessioni, ligure, colori ed altre proprietadi e comunitadi non è altro che un diverso volto di  medesima sustanza, volto labile, mobile, corrottibile di un immobile, perseverante et eterno essere, in cui son tutte forme, figure e membri, ma indistinti e come agglomerati, non altrimenti che nel seme, ecc. L'essere primordiale none dunque soltanto secondo Bruno il sustrato permanente di tutte le cose, di cui tutto ciò che vi ha in queste di vario e di cangiante non è che un modo di  essere; esso è ancora il seno fecondo di tutto ciò che nasce, in cni ogni cosa preesiste, per dir così, allo stato latente, in modo che tutto ciò che viene all'esistenza non viene dal niente, non comincia d'una maniera assoluta, ma si spicca dal fondo permanente dell'essere, diventa manifesto, mentre prima era occulto. Bicordiamo la stoffa inviluppata che si sviluppa dei filosofi indiani, e la tartaruga che fa uscire le sue membra dal guscio e ve le fa rientrare. Ogni potenza et atto, che nel principio è come complicato, unito et uno, ne le altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato. ciò che vi ha di vario negli esseri si trova nell'essere primordiale, ma fuso insieme, in modo da formare un'essenza assolutamente semplice e, per cosi, una massa perfettamente omogenea.   L'universo è tutto quel che può essere, secondo un esplicito, disperso, distinto: il principio suo è  De la causa, principio et uno, ed. Wagner. unitamente et indifferendemente, perchè tutto è tutto et il medesimo semplicissimamente, senza differenza e distinzione. La potestà si assoluta non è semplicemente quel che può essere il sole, ma quel ch'è ogni cosa, e quel che può essere ogni  cosa, potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutti gli esseri. Onde altamente è detto dal rivelatore: Quel ch'è me invia, colui ch'è dice così. Però quel che altrove è contrario et opposìto, in  lui  è uno e medesimo, et ogni cosa in lui è medesima. Noi vediamo qui come Bruno, per conciliare l'unità dell'essere primordiale con la  varietà degli esseri derivati, è condotto a delle idee analoghe a quelle di Eraclito. Il principio dell'identità dei contrari, in Bruno, come in Eraclito, non deriva da considerazioni dialettiche, come nell'idealismo tedesco, ma.dal }frincipio che l'essere non può venire dal niente. La differenza tra Eraclito e Bruno è  che, mentre da questo principio il primo ne conclude immediatamente che gli opposti sono identici nelle cose stesse, il secondo immediatamente non ne conclude se non che tutti gli attributi delle cose devono trovarsi nell'Essere primordiale, e solo mediatamente che in quest'Essere  per conseguenza gli opposti devono essere identici, senza di che gli attributi reciprocamente incompatibili delle cose non potrebbero coesistere in un essere unico e semplice. Questo rapporto con Eraclito è stabilito dallo stesso autore. filosofia con cui il sistema di Bruno ha uno stretto rapporto è quella dei VELINI, di cui egli loda e difende le dottrine. Tutto quello, egli dice, che fa  diversità di geni, di specie, differenze, proprietadi, tutto che consiste ne la generazione, corruzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza d'ente e d'essere, il quale è uno, infinito, immobile, soggetto, materia, vita, anima, vero e buono. Quello che fa la moltitudine ne le cose non è lo ente, non è la cosa, ma quel che appare^che si rappresenta al  senso ^et è ne la superficie de la cosa. In un altro luogo della stessa opera 1'universo è chiamato uji simulacro^un'immagine^un'ombra del suo principio. Ricordiamo che quel tutto che si A'ede di differenza ne li corpi non è che nn diverso volto di un immobile, perseverante et eterno essere. Noi vediamo qui quanto Bruno è vicino al concetto della fenomenalità del mondo dei VELINI e  dei Vedantini ammesso che per questi filosofi questa fenomenalità debba intendersi nel senso obbiettivo, concetto che solo potrebbe dare un sembiante di soluzione alla contraddizione che vi ha tra l'immutabilità dell'Uno tutto e i cangiamenti dell'universo. Potrebbe forse credersi che per Bruno questa contraddizione non esiste, perchè egli non attribuisce l'immutabilità che all'Uno in se  stesso,. nel suo stato implicito. Ma tale osservazione non toglie la contraddizione, indica soltanto il punto preciso in cui questa si trova. L'uno e il mondo non sono, nel sistema di Bruno, che è un panteismo rigoroso, due esseri distinti -e separati: l'Uno vive nel mondo, vi è contenuto, perchè esso è la stessa del mondo. Ma Bruno astrae questa sostanza del mondo dai suoi modi di essere  parti<?iolari, e ne fa un essere sussistente per se stesso, «enza però staccarlo dal mondo, di cui, anche in questo stato di astrazione, esso continua ad essere la sostanza. L' Uno esiste dunque simultanea  Per questa facilità a realizzare delle astrazioni Bruno ci rivela la sua posizione storica: come quasi tutti gli altri pensatori della Rinascenza, egli non é ancora un filosofo moderno, egli  non é che a metl emancipato dalla scolastica. Molti concetti fondamentali della metafisica di Bruno portano l'impronta di questa tendenza ad elevare a realt.i sussistente per se stessa l'indeterminato, ciò che non è che un prodotto dell'astrazione. Ciò non è vero soltanto del concetto dell'Uno che è una sostanza senza gli accidenti, quindi un'astrazione, e al tempo stesso una realtà, a cui  competono degli attributi opposti a quelli del mondo, di cui nondimeno è la sostanza. Bruno considera le anime degli esseri particolari come le individuazioni di un'anima universale unica, la quale non è già l'insieme delle anime o delle vite particolari, ma il loro principio, che esiste per sé slesso prima di particolarizzarsi e moltiplicarsi s'intende d'una priorità logica e metafisica, press'a  poco <'.ome un'idea di Platone. La stossa materia in astratto sembra talvolta vagamente realizzata. Cosi quando egli dice in un luogo che cita  Lange per provare la tendenza materialista di questo filosofo che la materia contiene nel suo seno tutte le forme, e che queste escono dall'interiore della materia per l'attività della materia stessa, la quale le fa uscire da sé, simile alla parturiente,  che per i suoi sforzi convulsivi spinge il figlio fuori del suo seno; allora, accordando alla materia un'anteriorità metafisic .sulla forma, egli sembra considerarla come esistente per se stessa mente in due stati contrari: in se stesso, cioè nel suo stato astratto, egli è il tutto, ma allo stato implicito; nel mondo, egli è ancora lo stesso Uno, ma allo stato esplicito, disperso, moltiplicato. Ora è  e^ vidente che questi due stati opposti non potrebbero appartenere simultaneamente allo stesso essere, a meno che Bruno non dica con Platone e con Hegel i quali tra le Idee e le cose stabiliscono lo stesso rapporto che Bruno tra l'Uno e il mondo che di questi due stati  l'uno solo è reale, e l'altro non è che apparente. In TELESIO il principio dell'immutabilità della sostanza arriva ad una  concezione della natura che è assai vicina alla spiegazione meccanica, ma che al tempo stesso tiene strettamente ancora, come i concetti di Bruno, all'ambiente intellettuale di un'epoca, in cui i prodotti dell'astrazione vengono trattati come degli esseri concreti. Gli elementi delle cose sono secondo TELESIO una materia indeterminata, senza qualità, e il caldo e il freddo che determinano  e qualificano questa materia. Il caldo e il freddo sono delle nature sussistenti per se stesse^che si contendono il dominio della materia: la materia esiste dunque per se stessa indipendentemente indipendentemente dalla forma Il principio generale applicato in questi concetti di Bruno é che il reale, considerato nella sua essenza, la quale si risolve in principii astratti o indeterminati, é  immutabile, e che il cangiamento non attinge che la superficie dell'essere; di più queste stesse determinazioni particolari e cangianti, che si producono alla superficie dell'essere, sono considerate non come prodotte dal niente, ma come tirate dal suo fondo permanente, che^le contiene in se stesso a^uno stato implicito • involuto. dalle sue qualità, e queste indipendentemente dalla materia.  Le altre proprietà contrarie che differenziano la materia sono ricondotte alla contrarietà fondamentale del caldo e del freddo: col caldo sono congiunte la tenuità, la luce, la mobilità; col freddo la spessezza, l'oscurità, l'inerzia. Le proprietà differenti dei cori3Ì provengono dunque dalla presenza nella materia dell'uno o l'altro dei due principi! contrari, o dalla proporzione in cui l'uno e  l'altro vi coesistono. Le proprietà medie sono la risultante del concorso delle proprietà opposte, che abbiamo indicato: cosi i colori provengono dalla mescolanza del bianco e del nero, cioè della luce e dell'oscurità. Ogni cangiamento si riduce perciò alla diversa distribuzione nello spazio del caldo e del freddo esistenti nell'universo: questi, della stessa maniera che il loro sustrato materiale,  non nascono ne periscono, sono sempre gli stessi e nella stessa quantità, e soltanto passano da un luogo ad un altro. Così niente si produce di assolutamente nuovo e niente assolutamente si distrugge: ogni cangiamento qualitativo si riduce al cangiamento nei rapporti degli stessi elementi, sempre identici a se stessi. Anche nel suo insieme 1'unÌA^erso resta immutabile, perchè i cangiamenti  che si producono in un punto sono compensati da cangiamenti contrari che devono prodursi in qualche altro punto. Il caldo e il freddo sono forniti di senso: infatti, dice TELESIO, questo non potrebbe trovarsi negli animali, nei composti, se esso non esistesse negli elementi. Fiorentino, Telesio, Telesio ci fornisce un esempio molto evidente del fatto che, tutte le volte che lo spirito umano  cerca di formarsi una concezione delle cose in conformità del principio dell'immutabilità della sostanza, egli è obbligato a girare, quando non arriva sino ad essi, attorno ai concetti del meccanismo, che soli permettono di realizzare questo principio d'una maniera intelligibile. Noi abbiamo già osservata come gli stessi fisici che ammettevano una sostanza unica cercavano, come i  meccanisti, di ridurre al movimento tutti i cangiamenti della natura. Le stesse immagini impiegate dai filosofi monisti i cui concetti sembrano i più lontani da quelli del meccanismo la stoffa inviluppata che si sviluppa, la tartaruga che spinge fuori le sue membra e poi le ritira, l'unione e complicazione delle cose nell'Uno e la loro dispersione ed esplicazione nel mondo, ecc. ci mostrano  che tutto ciò che vi ha di rappresentabile nelle loro oscure concezioni, perchè è la sola base sensoriale o empirica su cui esse si sono sviluppate, si riduce a quelle stesse esperienze che, generalizzate d'una maniera coerente, danno origine alla concezione meccanista, cioè a quelle esperienze che ci offrono come fenomeno il più familiare la persistenza delle cose nelle loro proprietà e il  movimento per cangiamento unico. Cosi niente di più naturale che il ritorno della concezione meccanica insieme a quello della chiarezza del pensiero, e la pronta prevalenza di questa concefi) Per Tìuccanica noi qui intendiamo una concezione deUii natura che consiste ad ammettere che tutti i fenomeni del mondo ob zione nella  filosofia. Già BUONAIUTO Gralileo dice contro il  concetto peripatetico della generazione e corruzione: Io non son mai restato ben capace di questa trasmutazione sustanziale, per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per necessità dire quella essersi del tutto destrutta, sì che nulla del suo primo essere vi rimanga, e che un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto  un aspetto, e di lì a poco sotto un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una semplice trasposizione di parti, senza corrompere o generar di nuovo. Ma è a dei filosofi un poco posteriori, a Cartesio GRICE DESCARTES ON CLEAR AND DISTINCT PERCEPTION e agli altri celebri pensatori suoi contemporanei, fra cui bisogna mettere in prima linea  Gassendi, il rinnovatore dell'atomistica, che si deve l'espressione rigorosa di questo principio, divenuto quasi un assioma nella scienza, che tutti i cangiamenti del mondo fisico si riducono allo spostamento di parti materiali in se stesse inalterabili. Fra le due dottrine sull'essenza della materia che possono servire di base a una concezione mecbiettivo sono dei fenomeni meccanici. Per  conseguenza il significata in cui usiamo questo ternvine in questo paragrafo e nei due seguenti deve essere distinto da quello in cui l'abbiamo usato nel capitolo, in cui filosofìa meccanica è stato por noi l'equivalente di fllonofla impuhionisfa cioè di una spiegazione della natura in cui non solo tutti i fenomeni del mondo fisico si riducono a processi meccanici, ma anche tutti i fenomeni  meccanici al movimento prodotto per impulsione. Allora, conlormandoci aU'uso di molti sostenitori di questo sistema, conia parola meccanica abbiamo designato una  npeciCr di cui ora con la stessa parola designiamo il genere, Dialoghi dei massimi sistemi Giornata l*. liXxxYiir canica soddisfacente alle esigenze della scienza quella di una materia continua e perfettamente omogenea  in tutte le sue parti, e quella di molecole separate dal vuoto, omogenee qualitativamente e inalterabili, e solo suscettibili di differire per la forma o per la grandezza è l'ultima senza dubbio che noi possiamo rappresentarci d'una maniera più netta. Quantunque, al punto di vista della possibilità di formarsene una rappresentazione, il concetto di molecole non aventi altra qualità che restensione e l'impenetrabilità non manchi anche esso di gravi difficoltà che noi svilupperemo nella 2. parte di questo Saggio, tuttavia queste non sono €0si evidenti come quelle inerenti al concetto di una materia continua ed omogenea, quella sovratutto a cui si va incontro quando si cerca di rappresentarsi il movimento e delle forme distinte al seno d'una massa continua ed assolutamente  indifferente. Sarebbe interessante, ma molto al di sopra della nostra competenza, di cercare se sia stato questo vantaggio della dottrina della discontinuità, cioè, nel fatto, dell'atomistica, che ha determinato la sua vittoria definitiva sulla dottrina della continuità, procedente da Cartesio. Ma, comunque sia di ciò, non vi ha dubbio che l'atomistica non sia stata all'origine, come la dottrina  rivale di Cartesio, una speculazione a priori, cioè derivata dalle tendenze spontanee dello spirito, e non un'induzione logica tirata dai fatti. Gassendi, a cui si deve l' introduci) il studio di G. sulla dottrina della materia in Rosmini. zione degli atomi nella scienza, non intende che risuscitare la dottrina del GIARDINO: così l'atomistica di Gassendi e dei fisici che lo seguirono, non è ancora  essenzialmente  che quella del GIARDINO e di Democrito. Gli atomi di Bojle che introdusse l'atomistica nella chimica sono quasi gli stessi, dice Lange, che quelli del GIARDINO, quali Gassendi li ha fatto rientrare nella scienza. Essi hanno ancora delle forme differenti, che influiscono sulla stabilità e l'inconsistenza delle combinazioni. Un movimento violento ora rompe la coesione  di certi atomi, ora ne riunisce altri, i quali, come nell'atomistica antica, si appiccano gli uni agli altri con le loro facce piene di scabrosità, per mezzo di sporgenze, di dentelli, ecc. Quando avviene un cangiamento nella combinazione chimica, le più piccole molecole d'un terzo corpo s' introducono nei pori separano due corpi combinati. Esse possono allora combinarsi con l'uno di loro,  grazie alla condelle loro facce, meglio che questo non era combinato prima col secondo corpo; e il movimento precipitato degli atomi porterà via le molecole di quest'ultimo. Naturalmente, come osserva Lange, questa forma dell'atomistica che assimila l'azione reciproca tra le molecole alle più familiari tra quelle che noi vediamo fra le masse sensibili dove soccombere allorché fu  accettata la legge di Newton sull'attrazione: allora s'introdussero le attrazioni e le repulsioni tra le molecole, e le forme svariate di prima non furono più necessarie per Stor, liei water. IP  e. 2". xc ispiegare la loro unione. Ma questa modificazione non sposta la base logica dell'atomismo: non si potrebbe vedere, sotto il apporto del loro valore scientifico, una differenza essenziale tra  l'atomistica del secolo 17^ e 18^ e quella di Democrito e del GIARDINO, perchè nessuna delle prove, in cui la scienza riconosce il fondamento della teoria atomica, era conosciuta prima di Dalton. Dalton mostrando che nell'ipotesi, generalmente ammessa, degli atomi si poteva spiegare la regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni delle sostanze la legge delle proporzioni fisse  e quella delle proporzioni multiple supponendo che gli atomi di ciascuna sostanza hanno un peso definito, e che ciascun atomo di una sostanza si combina con uno o con due, ecc., atomi di un'altra sostanza, diede alla teoria atomica la base che essa ha nella chimica. Così gli atomisti ammettono che è Dalton che fece entrare la teoria atomica nella sua fase sperimentale: nessuno, dice  Naumann, ha dimostrato coi fatti, prima di Dalton, i dritti e l'utilità dell'atomistica. Noi possiamo dunque, senza esitazione, classare Tatomistica, prima di Dalton, non meno che quella di Democrito e del GIARDINO, tra i prodotti di questa tendenza spontanea che ha il nostro spirito ad ammettere che 1'universo è sostanzialmente immutabile^o, come dicevano i fisici, che l'essere non  può venire dal non essere, ne ridursi al non essere. Così 1'assioma dei fisici Elem, di termo chimica, citato da Lange  SL del  mai. noi lo ritroviamo negli atomisti, in termini che ricordano, della maniera più  precisa, Anassagora,.GIRGENTI e  Democrito. D'Holbach,  p. e., dice: A parlar esattamente, niente nasce e muore nella natura; vi ha solamente una combinazione ed una separazione di ciò che era combinato. Sembrerà una coincidenza singolare che la scienza sia venuta a confermare ciò che non era che una semplice veduta a priori dello spirito, là quale, come tutte le altre ipotesi che si sono immaginate sui così detti principi i ultimi delle cose, non aveva la sua sorgente che nella sofìstica naturale dello spirito umano. Potrà anche sembrare più sorprendente che la  conferma del principio degli antichi fisici che non vi ha né generazione ne corruzione, cioè che le cose non possono cangiare di natura e di proprietà, sia venuta appunto dalla chimica, la quale, se dobbiamo stare ai risultati immediati dell'osservazione, ci mostra invece che tutto cangia continuamente e della maniera più radicale di natura e di proprietà COMBUSTIONE, poiché il  carattere proprio della combinazione chimica, che la distingue da una semplice mescolanza^è di far disparire completamente le qualità fisiche delle sostanze che si combinano, dando luogo ad una nuova sostanza USUALLY ASHES AT CLIFTON, le cui proprietà, ad eccezione del peso, non po/^sono dedursi dalle proprietà degli elementi da cui essa risulta. Qui il progresso delle  acquisizioni positive della scienza si fa in una direzione opposta a quella seguita dalle Sist. della nai,  p. e. V. xeni sue ipotesi. Mentre i primi chimici supponevano, conformemente alle tendenze spontanee della credenza, che il composto dove avere delle proprietà identiche o simili a quelle degli elementi a priori, noi ci attenderemmo infatti che le proprietà del composto dovrebbero  essere la somma o la media di quelle dei componenti, ciò che è la suggestione – WHAT IT SUGGESTS THOSE SPOTS SUGGEST MEASLES delle nostre esperienze più familiari, la chimica moderna invece, mostrando il contrario, si è formata in opposizione a queste tendenze spontanee  è perciò che il risultato di una combinazione chimica sembra un fenomeno sorprendente e  misterioso: ma la teoria atomica procede assolutamente nel senso di queste tendenze stesse, riducendo ad una semplice congiunzione e separazione di elementi, senza cangiamento qualitativo, ciò che la semplice osservazione immediatamente dà come una conversione di più sostanze PHILOSOPHER’S STONE in una nuova sostanza unica, e una riconversione di questa sostanza nelle sostanze primitive. Ciò che si deve osservare è questo carattere comune che la teoria atomica ha con le dottrine metafisiche, cioè di ricondurre dei fatti che ci sembrano sorprendenti BIZARRO, perchè relativamente poco familiari BANALE e si noti, dei fatti generali, delle uniformità della natura, che potrebbero ben essere dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione  ad altri fatti  che ci sembrano naturali ed evidenti per se stessi, perchè estremamente familiari. Noi abbiamo osservato che, quando Democrito riconduce i fenomeni del cangiamento nello stato fisico dei corpi ai diversi rapporti di elementi costitutivi invariabilmente solidi, egli da una spiegazione di questi fenomeni, nel senso popolare o metafisico della parola spiegazione, cioè riducendo ciò che è  meno famliare a ciò che è più familiare BANALE NON BIZARRO: questa osservazione si applica pure naturalmente alla odierna ipotesi della costituzione molecolare della materia, poiché, qualunque sia la differenza del modo in cui Democrito e di quello in cui il fisico si rappresentano i rapporti tra le molecole per costituire i differenti stati fisici della materia, e quali si siano i motivi  che il fisico moderno può avere, in più di Democrito, per ammettere che ww. fluido non è fluido in tutte le sue minime parti, come si presenta alFosservazione GRICE EDDINGTON’S TWO TABLES, ma è un aggregato di particole solide; malgrado queste differenze, vi ha Tuguale risultato di ricondurre dei fenomeni relativamente poco familiari BIZARRO a un fenomeno estremamente   familiare BANALE, qual è quello, che noi vediamo a ciascun istante, di corpi che, restando gli stessi, cangiano unicamente le loro posizioni reciproche. Questa riduzione di ciò che è relativamente strano e non familiare a ciò che per la sua familiarità sembra assolutamente naturale e non avente bisogno di alcuna spiegazione, è più evidente ancora nella spiegazione del chimico che  riconduce ciò che per la semplice osservazione non è che una conversione reciproca di sostanze le combinazioni e decomposizioni chimiche alla congiunzione e separazione di particole inalterabili. Non è meno evidente infine che quando il fatto della regolarità dei pesi secondo cui si combinano le sostanze, viene spiegato, supponendo che ciascuna sostaiza semplice è costituita di   particole eguali indivisibili, e che le particole pure eguali in  cui si divide la sostanza composta si formano per l'unione di questo particole ultime delle sostanze elementari, di cui ciascuna conserva la propria integrità; allora il fenomeno che serve di intermediario esplicativo è,  come nelle spiegazioni metafisiche, un fatto che sembra più comprensibile in se stesso, perchè  è più familiare,  del fatto che si tratta di spiegare. La regolarità dei rapporti di peso nelle combinazioni chimiche sembra, per una necessità psicologica, al chimico stesso, un fenomeno sorprendente e misterioso, perchè non è un dato della sua esperienza di tutti gl'istanti come, p. e. l'urto o il movimento volontario),  ma non si rivela a lui che nelle ricerche ch'egli fa nel suo laboratorio; al contrario, noi siamo perfettamente abituati non meno che alle esperienze dell'urto o del movimento volontario RYLE HEAD SCRATCHING a vedere gli oggetti più familiari che ci circondano conservare la loro integrità, e non cangiare che di posto; e un'esperienza egualmente familiare mostrandoci che questa facoltà che hanno gli oggetti materiali di conservare la propria integrità è in rapporto con  la loro durezza, noi troviamo affatto naturale che dei corpi infinitamente duri, come si suppongono gli atomi, siano anche assolutamente indivisibili. A questo tratto comune che l'ipotesi L'ipotesi di alcuni fisici della elastlcltfi degli atomi è evidentemente una deviazione dal tipo, per dir cosi, naturale dei concetto dell'atomo. L'elasticità degli atomi si ritiene indispensabile per la teoria  CINETICA dei gas, secondo la quale un gaz è costituito da dartlcole solide che si muovuono continuamente in tutte le direzioni xcv della costituzione molecolare e atomica della materia ha con le ipotesi metafìsiche bisogna aggiungerne un altro: è che le molecole intendendo per questa parola i corpuscoli distinti e separati in cui la materia si suppone in atto divisa, ma senza includervi possibili. Affinchè dopo gli urti delle particole 11 movimento non sia perduto, ed esso possa essere perpetuo, le particole devono essere perfettamente elastiche; se fossero Ine^astlche o Imperfettamente elastiche, vi sarebbe perdita di movimento ad ogni Incontro. SI ritiene puro che l'elasticità assoluta dogM atomi sia reclamata dal principio della conservazione dell'energia; polche la  perdita di movimento nell'urto del corpi duri e iuolastlcl si concilia con «[uesto principio ammettendo che il movimento della masse diviene un movimento interiore delle loro molecole; spiegazione natur.almente inapplicabile nell'urto delle particole ultime della materia, che non sono esse stesse costituite di particole più piccole HARE SUB-ATOMIC PARTICLES. Ma è evidente che Tatomlstica non può ammettere il concetto dell'elasticità degli elementi ultimi della matei-Ia GRICE QUARK, che facendo violenza alle sue esigente più naturali: sia perchè 1'Indivisibilità dell'atomo INDIVIDVVM non si spiega e non si concepisce che nell'ipotesi della sua durezza e rigidità assoluta; sia INDIVIDVVM MOLECVLA perchè la contrazione e la dilatazione del corpi è,  nalla teoria atomica, l'effetto della diminuzione o dell'aumento del vuoto comproso tra le parti materiali. Un'idea notevole, jìerchò mostra di una maniera palpabile la contradlzlonl tra il concetto dell'el.astlcltà dell'atomo e 1 presupposti generali dell'atomismo, è quella emessa da Lange St. del  mater secondo la quale l'atomo elastico si comporrebbe di sotto atonU, e questi ancora di  sottoatoml inferiori – PROTONE ELETTRONE NEUTRONE, e co^i all'infinito. È evidente che di questa maniera il concetto stesso dell'atomo sparirebbe, perchè ogni minima porzione di materia sarebbe, non solo divisibile EINSTEIN HIROSHIMA NUCULAR, ma divisa già in atto. Di più noi abbiamo in quest'Idea di Lange la inconcepibilità latente della divisibilità della materia  all'Infinito resa evidente, e, per dir così, sensibile, per questa sostituzione al concetto della divisibilità tlel concetto di una divisione attuale, e in parti separate dal vuoto. Un'altra deviazione dall'atomismo naturale, destinata a risolvere le accennate ed altre difficoltà della teoria, è l'Ipotesi di Thomson – NON L’AMICO DI GRICE, secondo cui gli atomi sarebbero del turbini formati da  movimenti rotatori in un fluido continuo e assolutamente omogeneo. In un tal fluido questi turbini sarebbero permanenti. É una ipotesi fondata sulle ricerche che Helmholtz avea fatte sugli anelli l'idea dell'indivisibilità di questi corpuscoli e tanto più gli atomi, non sono, come gli esseri tra-scendenti della  metafisica, delle vere cause GRICE REBEL WITHOUT A CAUSE DECAPITATION WILLED, nel senso che questi termini hanno nella celebre regola di Newton; vale a dire  si tratta di esseri ipotetici di una natura affatto particolare, tale che l'esperienza turbini un cottile anello di Ilciuldo di cui cltìscuna molecola è animata da un movimento di rotazione attorno dell'anello in un piano perpendicolari» a (jnelio di (luest'anello .|Ielmoltz mostrò che, se non esistono attriti  esteriori, un tale sistema si manterrà Indefìnitamente in equiUbrlo Heni loi Ipotesi attuali sulla costituìione della  materia. I/lpotcsi di Thomson è, come si vede una fusione dell'atomistica con la dottrina ca"teslana d'una materia continua e assolutamente omo^^^ea, ed essa si conforma alla condizione jjenerale della teoria meccanica, di ammettere cioè 1'inalterabilità della materia e di  ridurre tutti i cangiamenti al movimento. Se non che ciò che nella concezione di Thomson fa la funzione di materia è una materia, per dir così, trascendentale, non è la nostra materia: la nostra materia consiste, nell'Ipotesi di Thomson – NOT J. F. THOMSON – GRICE THOMSON --, nei turbini, cioè In certi movimenti, che hanno luogo in (luesta materia trascendentale. Ciò sujrprerlsce una riflessione sulla natura di (|uesta ipotesi, la quale dimostrerebbe forse che ossa non ha che /// apparenza una base sperimentale. Thomson dota di certe  proprietà II suo fluido ipotetico per anaioj?la ai nostri fluidi, ai fluidi dell'esparienza, e da questa proprietà deduce la sua Ipotesi. Ma la inferenza dal nostri fluidi al suo fluido ipotetico è leggittima? Io credo che Thomsou non sia autorizzato a trasportare al suo fluido Ipotetico né le proprietà dei nostri fluidi ne ({ualslasi altra leg^e del mondo materiale. Le legsji della natura fìsica, cioè  della materia, non possono essere, secondo Tomson, che l'espressione generale del modo di comportarsi dei suoi atomi turbini nei loro reciproci rapporti in condizioni determinate. Un'inferenza sperimentale è dunque un'inferenza dal modo in cui questi turbini si sono comportati in date condizioni al modo in cui gli stessi turbini o altri turbini analoghi si comporteranno nelle Identiche  condizioni. Dalle proprietà Avendo bisogno di un termine por indicare il concetto generale che tutti i corpi, qualunque sia il loro stato fisico, sono costituiti di particole solide WAVICLE,  facendo astrazione della forma particolai e di questo concotto che vede nelle particole costitutive degli atomi, cioè delle piccole masse indivisibili, ci serviamo a quest'oggetto della parola molecola,  impiegandola non nel senso che essa ha nella scien« za, ma in un senso più confórme alln sua etimologia. non ci fornisce alcun esempio degli attributi di cui questi esseri si suppongono dotati. La solidità assoluta che si suppone nelle molecole, questa potenza inlìnita, come dice Bernouilli, di resistenza alla compressione e alla  deformazione, ò un'attributo sconosciuto airesperienza. Lo  stesso deve dirsi naturalmente di questa potenza infinita che si suppone nell'atomo, di resistenza a qualsiasi forza tendente a dividerlo. Tra le parti della molecola o dell'atomo si suppone una forza di coesione di una natura affatto speciale, una forza la cui esistenza non è stata mai costatata nel mondo dell'esperienza. della nostra materia fluida o altra che è un aggregato di turbini, non  può niente inferirsi sulle proprietà  di un'altra materia ipotetica, elle sarebbe altra cosa che un aggregato di turbini. Tra la nostra materia e la materia trascendentale, che, secondo Thomson, serve ad essa di sustrato come la nostra materia serve di sustrato al suo proprio movimento, non vi ha identità e perciò, mi sembra, nessuna inferenza legittima. Le deviazioni dal tipo normale  dell'atomistica di un carattere assolutamente metafìsico, quale la dottrina che riduce gli atomi a punti matematici, o, come si dice per li solito, a centri di forze, si rapportano alla qulstlone del mondo esteriore e noi ne parleremo nella 2*parte. Notiamo per ora che 11 nome di dinamiche date a queste dottrine non toglie che anch'esse particolarmente quella sunnominata degli atomi punti  o centri di forze siano. In un senso, meccaniche, conformaìidosi anch'esse al principio generale della concezione meccanica, cioè la spiegazione del cangiamenti dei mondo fisico per il cangiamento dei rapporti di elementi in se stessi inalterabili. Naturalmente ó qui che si è sempre vista la grande difficoltà della teoria. Cosi Thomson chiama s apposizioni mostruose quelle di frammenti  di materia infinitamente duri e infinitamente rigidi, frammenti di materia di cui alcuni dei chimici più eminenti non temono d'aff'ermare temerariamente l'esistenza come un'ipotesi probabile citato da Henriot Ipot, alt, sulla co^itit, della inai, Secondo Du Bois-Reymond 1'atomo indivisibiley inattivo e, sede di li Un'ipotesi che ricorre a cause non vere, cioè a forze di cui non si è costatata  l'esistenza nella natura, è necessariamente un'ipotesi illegittima, come vuole la regola di Newton, o questa circostanza costituisce semplicemente un grado d'improbabilità intrinseca dell'ipotesi che, per compenso, deve rendere più esigenti sul numero e la qualità delle sue prove? È una delle più ardue quistioni della logica, a cui non ci attenteremo di dare una  risposta: ma la somiglianza che abbiamo notata tra la dottrina molecolare o atomica e le dottrine dei metafisici suggerisce inevitabilmente una riflessione, che io sottometterò al lettore non senza un'esitazione assai naturale in chi non ha alcuna competenza ne in fisica jiè in chimica. La teoria molecolare e atomica è, come si conviene dai suoi stessi fautori, una semplice ipotesi, e un'ipotesi che non sembra suscettibile  di essere moi provata. Misurare il grado di probabilità forze che agiscono attraverso il vuoto, ó un controsenso e una  chimera (/ limiii della fllos, naturale in Rev, scient,. Un'idea che meriterebbe forse d'essere sviluppata, ò che ordinariamente le cause non vere supposte dai fisici, quali gli atomi, le molecole, 1'etere, i fluidi imponderabili che si ammettevano prima, ecc. hanno la funzione  di spiegare i fenomeni nel senso metafisico della parola spiegazione, cioè assimilandoli ai fenomeni più familiari, p. e. a quelli della trasmissione del movimento por l'impulsione come l'etere, o a quelli, più generali, del mutamento dei rapporti di spazio senza cangiamento qualitativo ciò che diremo più giù sui fluidi imponderabili. Nessuno, dice Bain, vede più in questa teoria  l'atomica che una finzione rappresentativa, che non é suscettibile di alcuna prova, e che non ha altro valore che di esprimere facilmente i fatti  j(Log. e  ìL, Bain chiama finzioni rappresentative le ipotesi di un'ipotesi quando si conviene d'altronde sul punto più importante, cioè che quest'ipotesi non è rigorosamente provata è un'operazione estremamente ardua e delicata del giudizio, che, per essere ben compiuta, esigerebbe il concorso delle più profonde conoscenze nelle scienze speciali relative, e dell'abitudine, unita a una preparazione conveniente, di considerare le quistioni al punto di vista della logica e della teoria della conoscenza; concorso che è sventuratamente molto raro a trovarsi in un fisico o in un chimico^ e più ancora in un filosofo. Nel caso dell'ipotesi molecotare o  atomica, la quistione che non possono essere stabilite come fatti reali, cioè provate, e la cui importanza òche servono a rappresentarsi i fenomeni d'una maniera sistematica: fra queste finzioni rappresentative egli enumera oltre la teoria degli atomi, quella della costituzione molecolare della materia, (luella delle ondulazioni eteree per ispiegare i fenomoni della luce, la spiegazione dello  stato solido, liquido e gazoso per le attrazioni molecolari e la repulsione dovuta al calore, ecc. Log. Per dimostrare la proposizioae di Bain che 1'ipotesi degli atomi e tutte le ^Mre flnzioiii rappretfeìitative non sono suscettibildi diventare delle verità provate, basta torse la considerazione seiguente. Per provare la realtà d'un ii^otesi sarebbe necessario di soddisfare a queste due condizioni:  di stabilire, in jirimo luogo, che un'ipotesi è indispensabile, cioti che il fatto che si tratta di spiegare reclama assolutamente una spiegazione; e in secondo luogo che l'ipotesi che si ammette è la sola ammissibile, cioè la sola che possa spiegare il fatto. Ma sembra che le ipotesi scientifiche che Bain chiama finzioni rapprenentative e che sono, su i)er giù, quelle che suppongono delle cause  non vere, quand'anche potessero soddisfare alla seconda condizione, non potrebbero mai soddisfare alla prima. Ciò è perchè esse non hanno per iscopo di spiegare dei fatti isolati e particolari, ma dei fatti costanti e generali, delle uniformità della natura. Nel primo caso un'ipotesi è indispensabile, perché è necessario che il fatto sia spiegato, nel senso scientifico, cioè che sia sott oposto  alle leggi generali dei fenomeni: nel secondo caso (se si ha i ! c della misura del suo grado di probabilità si complica per questa sua conformità, che noi abbiamo notata, alle tendenze spontanee del nostjo pensiero, conformità che per se stessa non costituisce la minima prova in favore di una teoria. Allora si renderebbe indispensabile una specie di equazione personale, per la quale nella  forza con cui Tipotesi ci s'impone, bisognerebbe fare la parte di ciò che vi ha in essa di obbiettivo, cioè di dipendente dal valore delle prove sperimentali, e di ciò che vi ha di subbiettivo, cioè di derivante dalla tendenza spontànea del nostro pensiero, che, in virtù della conformazione stessa del nostro spirito e delle sue abitudini prescientifiche, ci spinge ad accettare Pipotesi,  indipendentemente dal valore delle suo prove, n questo stato della questione sembra naturale di demandarsi: il credito di cui l'ipotesi molecolare e atomica gode nella scienza è assolutamente commisurato alla forza delle sue prove, o non vi ha un eccesso, di cui bisogna  rendersi conto per la forza addizionale di questo sofisma naturale del nostro spirito, che gli rappresenta il fondo  dell'essere come immutabile, e il cangiamento come superficiale e limitato ai rapporti delle cose, senza toccare le cose stesse? Tra queste due supposizioni, il fatto ragione di riguardare il fatto come una vera uniformità, una leggo rigorosamente generale, dei fenomeni l'esigenza di una spiegazione potrebbe essere illusoria e fondata sul concetto metafisico corrispondente a t^uesto  termine, poiché la supposizione che il fatto è senza spiegazione cioè che si tratta di una leggo primitiva della natura non è in contraddizione con l'assioma dell'uniformità di legge che è queUo ehe nel primo caso ci obbliga a cercare una spiegazione. CI incontestabile che la teoria era generalmente ammessa prima che si trovassero le prove che attualmente costituiscono la sua base logica;  la continuità tra la forma più antica e la forma più moderna dell'atomistica; non è un'indizio che la verità sta nella seconda? Qaeste domande non sembreranno troppp audaci a quelli che sono abituati a considerare i concetti dal punto di vista storico. Quegli, dice Lange, che vede nella storia Findissolubile mescolanza di errore e di verità; quegli ehe comprende che per avvicinarsi di più  in più allo scopo infinilamente lontano, cioè la conoscenza perfetta, bisogna oltrepassare innumerevoli gradi intermediari; quegli che vede come l'errore stesso POPPER diviene un agente di progresso variato e durevole; quegli non concluderà facilmente, dall'incontestabile progresso del presente, al valore definitivo delle nostre ipotesi. Noi aggiungeremo infine un'altra osservazione sul  principio generale della concezione meccanico, <5Ìoè che tutti i cangiamenti della materia si  ridu<?ono al movimento delle sue parti. Il presupposto GRICE COLLINGWOOD su.  cui questo principio è fondato è la distinzione, comunemente ammessa, tra le proprietà primarie e le proprietà secondarie dei corpi: le prime, che, secondo Cartesio, si riducono alla semplice estensione, e,  secondo l'opinione più accettata, all'estensione e alla resistenza o impenetrabilità, sono obli) Lange Storia del materialismo,  e. P. '\ cu CHI > .? it  : ti biettive; le seconde, cioè il colore e tutte le altre, non sono che subbiettive. Ma questa distinzione solleva delle difficoltà insolubili, che hanno dato luogo a tutte le dottrine trascendenti sulla cosa in sé: qui dobbiamo limitarci ad indicarne sommariamente alcune, riserbandoci di svilupparle nella 2*parte. Se il solo attributo obbiettivo della  materia è la estensione, come pretende Cartesio, allora è impossibile di distinguere la materia dallo spazio vuoto, e il mondo corporale si ridurrà a una massa continua e perfettamente omogenea. Ora non solo ò impossibile di concepire V estensione come esistente per se stessa non potendo noi pensarla che come un attributo del reale RES EXTENSA E RES COGITANS e non come lo stesso reale, come un astratto e non come un concreto ma è di di più impossibile di concepire, al seno di una massa continua e senza alcuna differenza fra le sue parti, delle forme distinte e del movimento, perchè queste cose suppongono delle differenze. Concepire il movimento in una massa continua sarebbe concepire, in questa massa, delle parti tra loro discernibili, che si scambiano il posto runa con V altra; se queste parti di cui si afferma che Tuna  ha preso il posto dell'altra non sono discernibili, questo cangiamento, che si afferma a parole, non è né percettibile né pensabile. In realtà alcun cangiamento non è possibile in una massa concepita alla maniera cartesiana, poiché tutti gli stati successivi, in cui essa si trova in tutti gl'istanti della durata, sono assolutamente  identici fra di loro. Queste difficoltà in apparenza spariscono nella dottrina della discontinuità della materia, perché allora il pieno e il a noto ci danno questa differenza indispensabile per concepire la distinzione delle cose e il movimento; di più, distinguendo la materia dal puro spazio, si ammette in questa dottrina che vi sia nella materia un attributo diverso dall'estensione, che si  aggiunge a questa, e fa della materia un concreto, e non un semplice astratto qual è la sola estensione. Ma la difficoltà é appunto di dire in che consista questo attributo, distinto dall'estensione e dai suoi modi, che concretista., s'è lecito dir così, la materia, e la differenzia dalla semplice estensione, cioè dal puro spazio. Quest'attributo è, si dice, la resistenza o la impenetrabilità: ma ciò  che non si dice né potrebbe dirsi è che cosa esprimano queste parole resistenza e IMPENETRABILITY impenetrabilità di più che dei semplici rapporti tra gli estesi se se ne toglie le sensazione che noi proviamo nelle dita quando tocchiamo, la quale naturalmente non possiamo trasportare nella materia e farne una qualità obbiettiva delle cose stesse. La resistenza della materia non è  altra cosa che la difficoltà che vi ha  a spostare le sue parti: essa indica dunque semplicemente che certi cangiamenti nei rapporti spaziali tra gli estesi non sono possibili. L'impenetrabilità è l'impossibilità che un esteso occupi la posizione d'un altro, in altri termini che due estesi si confondano in un'estensione unica, che cessino di essere due estesi e diventino uno solo Ma ciò non indica altra cosa che la persistenza di ciascun esteso a conservare la sua propria estensione; non ci dice qual'è l'attributo che quest'esteso ha in più dell'estensione stessa. Tutti gli attributi  \fr. =P=s= CIY della materia nella supposizione della non realtà del colore e delle altre proprietà secondarie non indicano che l'estensione, i suoi modi forma, grandezza, ecc., i rapporti di posizione, e il  cangiamento di questi rapporti; ma noi non possiamo dire che cosa sia ciò che si estende, ciò che è il soggetto a cui si attribuiscono questi rapporti di posizione. La materia, si dice, si distingue dal puro spazio, perchè essa è impenetrabile, divisibile, mobile, ecc., attributi che non possono convenire allo spazio: senza dubbio; ma siccome questi e tutti gli altri attributi che si predicano della materia, non si riducono inline che all'estensione e alla posizione, attributi che convengono pure allo spazio, o bisognerà rassegnarsi ad identificare la materia e lo spazio, come fu costretto a fare Cartesio o bisognerà ammettere, come carattere che differenzia la materia dallo spazio, non la mobilità, l'impenetrabilità, ecc., ma qualche cosa di più primitivo che, aggiungendosi  all'estensione, costituisce questo concreto materia, la quale, senza questa qualche cosa, non potrebbe essere né impenetrabile, ne mobile, ecc., perchè non sarebbe che un semplice esteso, in altri termini una pura estensione, che niente distinguerebbe dallo spazio vuoto. Questa qualche cosa che, diffusa, per dir così, qua e là nella pura estensione senza forme né limiti, ne differenzia le  parti, costituisce il concreto materia, e distingue il reale dallo spazio, cioè dal niente; non è che il colore, o, in  generale, le proprietà secondarie. Quando si è analizzato sufficientemente il concetto di materia, si vede che lo spirito umano, se vuole formarsi una concezione netta e coerente del mondo esteriore, e al tempo stesso restare sul terreno dell'esperienza e dell'intuizione sensibile condizione che è superfluo di aggiungere, perchè al di fuori di questo terreno non vi hanno concezioni nette né coerenti è costretto in quest'alternativa: o il fenominismo di MORE GRICE TO THE Mill e Bain, che riduce la realtà esteriore a sensazioni e possibilità di sensazioni; o il realismo naturale non quello di Eeid che non spoglia la materia delle sue proprietà sensibili, ma accorda  l'obbiettività al colore e alle altre, e non alla sola estensione, la quale senza le proprietà sensibili non è che il niente realizzato. Ora à evidente che chi accetterà l'una o l'altra di queste due soluzioni, non ammette la pretesa della filosofia corpuscolare o di qualsiasi altra forma possibile della concezione meccanica, di ridurre tutti i cangiamenti dell'universo al solo movimento. Ad una  concezione meccanica coerente, se essa vuol realizzare completamente il principio che niente nasce e muore nella natura, non basta di riddurre al movimeato tutti i cangiamenti del mondo materiale; bisogna ancora che la materia mantenga invariabilmente le stesse facoltà relativamente al movimento; cioè o che l'inerzia sia lo stato invariabile della materia, o, se essa è attiva, che quest'attività, e la forma sotto cui essa si manifesta, siano egualmente invariabili. Su questo punto Bacone può essere riguardato come il precursore. È evidente, egli dice, che ogni uomo che cono  il stulio di G. sulla dottrina di Rosmini sulla  materia 1.  e. e  il  Saggio. evi scesse le passioni, gli appetiti e i processi primitivi della materia, avrebbe per ciò solo una conoscenza generale e  sommaria dei fatti passati, presenti e futuri. Si deve affermare che la materia è munita, provvista e formata di tal maniera, che ogni virtù, ogni essenza, ogni atto e ogni movimento possono esserne delle conseguenze o delle emanazioni  naturali. L'idea di Bacone è che tutti i fenomeni possono dedursi da un fenomeno primordiale, che è il movimento naturale della materia. Così egli  paragona la scienza ad una piramide o ad un cono, alla cui sommità sta la legge sommaria della natura, 1'opera che Dio opera dal comineiameno sino alla  fine. Tutte le cose si elevano per una sorta dì scala all'unità. Questo fenomeno universale, collocato alla sommità della piramide scientifica, in cui la natura sembra riunirsi in un sol punto, questa causa di tutte le cause, è l'appetito o  lo stinnilns la tendenza primitiva o la forza primordiale della materia, o, per sviluppare un po'più il nostro pensiero, il movimento naturale dell'atomo. È questa forza unica, che agendo sulla materia, forma e costituisce tutti i composti. Ma il meccanismo di Bacone che d'altronde questo filosofo non sviluppa d'una maniera sistematica. Della saggezza degli antichi. De Princ, atque Orig, Dignìf, et aagm, acient,. Dd ilignit. et atigm acient, Saggezza degli antichi Cupidon. fondato sull'idea fantastica di una materia attiva e vivente, dove cedere il passo all'altro meccanismo, inaugurato da Cartesio, fondato sul concetto più positivo d'una materia inerte, che non fa che ricevere e comunicare il movimento per l'impulsione. Abbiamo considerato questa dottrina alla quale esclusivamente abbiamo dato allora il nome di meccanica  sotto un altro punto di vista, cioè come una realizznzione del principio delle cause efficienti: ma è evidente che essa è al tempo stesso una realizzazione del principio dell'immutabilità essenziale dell'essere almeno deiTessere materiale poiché non attribuisce ai corpi che la proprietà, sempre e da per tutto identica, di conservare il movimento ricevuto e di comunicarselo reciprocamente per 1'urto, riducendo ad una sola e sempre la stessa le forme apparentemente differenti e variabili dell'energia. Oltre questa forma del meccanismo, fondata sul concetto dell'inerzia o passività assoluta della materia, non ne è è possibile che un'altra, che realizzi il principio dell'immutabilità essenziale dell'essere, ma che al tempo stesso faccia della materia qualche cosa di sia che quest'attività si attribuisca alla materia per se stessa, sia che si faccia provenire dalle forze di cui si suppone che la materia è la sede: è la dottrina che spiega anch'essa tutti i fenomeni del mondo fisico per le leggi dell'equilibrio e del movimento, ma come cause motrici riconosce le forze, attrattive e repulsive, inseparabili dagli elementi della materia sia che si supponga che queste forze sono ad essi essenziali, sia che si supponga che sono con essi costantemente associate. Queste due forme della teoria meccanica, che sono le concezioni della natura prevalenti nella scienza, possono far pensare che questa ha completamente realizzato l'assioma dei fisici che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non essere ^che non vi ha generazione ne corruzione; poiché secondo la teoria meccanica, nell'una e l'altra delle due forme, il reale, considerato nei suoi elementi ultimi, si mantiene sempre identico a se stesso, e non vi ha mai nelle cose un cangiamento essenziale, questi elementi, in tutti gli aggregati che essi formano successivamente nei quali non si manifestano altre proprietà che quello degli  elementi stessi essendo invariabili tanto nella loro sostanza e qualità quanto nel loro modo di agire e di patire. Ma è evidente che la teoria meccanica, se essa vuol applicare rigorosamente il principio che la materia non può mai manifestare delle proprietà essenzialmente nuove, e che perciò le proprietà di un tutto non possono essere che la somma delle proprietà degli elementi materiali  che lo hanno costituito, deve estendersi anche ai fenomeni della coscienza, facendo dell'attività psichica una risultante delle attività proprie agli elementi della mì.teria. Senza dubbio il problemi di ricondurre i fenomeni della coscienza alle proprietà degli elementi della materia non nasce esclusivamente al punto di vista del meccanismo, essendo esso una conseguenza immediata del  principio generale che il meccanismo realizza sotto una forma speciale, cioè che l'essenza delle cose non può cangiare: ma al punto di vista del meccanismo il problema s'impone con una forza particolare, appunto perché il meccanismo è l'applicazione più coerente di questo principio. Applicando il principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose alla quistione della coscienza, lo spirito umano incontra naturalmente due soluzioni opposte, ma che sono non pertanto 1'una e l'altra delle conseguenze dello stesso principio. Dal fattD che i fenomeni della coscienza di GRICE, di cui certi asTSTregati degli elementi della materia sono temporaneamente la sede, differiscono essenzialmente dalle proprietà di questi elementi isolatamente considerati, in virtù del principio che le cose non possono cangiare nella loro natura, lo spiritualista conclude che è necessario che un altro elemento, differente essenzialmente dalla materia WHAT’S THE MATTER NEVER MIND, e di cui la coscienza di GRICE è la proprietà immutabile, si sovraggiunga all'aggregato materiale, e sia con questo temporaneamente associato. Dal fatto che ciò che è la sede dei fenomeni  della coscienza è un aggregato di elementi materiali, il materialista conclude invece, in virtù dello stesso principio, che queslii fenomeni non possono essenzialmente differire dai fenomeni che sono propri agli elementi materiali isolatamente considerati. Ma se la soluzione spiri filali sta è sem E evidente che il parodosso cartesiano che gli animali sono degli automi è nna conseguenza rigorosa dello stesso principio, nell'ipotesi spiritualista; un aggregato non potendo avere delle pròpi'ietà essenzialmente differenti da quelle degli elementi, la coscienza non può trovarsi negli animali, in cui non vi ha, come nell'uomo GRICE M-INTENTION, un elemento ess?nzialmente differente dagli elementi  jnateriali,. clic viene ad aggiungersi all'aggregato. ex plice, la soluzione  materinlìsta è doppia, potendo farsi due ipotesi: che i fiittti della coscienza non siano dei fenomeni assolutamente nuovi, che si producono la prima volta negli aggregati che noi chiamiamo esseri animati, ma dei fenomeni preesistenti negli elementi che hanno costituito questi aggregati e persistenti in essi dopo la dissoluzione degli aggregati stessi; e che questi fatti non siano assolutamente distinti dai fenomeni fisici, propri agli elementi che hanno costituito gli aggregati, ma sostanzialmente identici con essi. La prima delle due soluzioni materialiste le sole che siano in armonia con una concezione rigorosamente meccanica dell'universo si trova, oltre che nei sistemi ilozoisti in generalie, in quei sistemi panpsichisti, in cui, come in quelli di Clifford . Wundt, Taine, ecc., la  psiche dell'uomo e degli animali è riguardata come una risultante degli elementi psichici corrispondoiiti a ciò che noi chiamiamo elementi della materia, o in cui, come in quello di Leibnitz il quale, a parlar propriamente, è una conciliazione della soluzione materialista con la spiritualista, essa è riguardata come una delle unitìi psichiche, delle monadi, che costituiscono il composto che  noi percepiamo come materia. L'altra soluzione la quale consiste nell'afformare un'identità sostanziale tra i fenomeni fisici processi nervosi che sono le condizioni dei fenomeni della sensazione e del pensiero e questi fenomeni stessi è stata ammessa sotto due forme: estendendo ai fenomeni mentali la dottrina che vede nelle diverse forze fisiche gli aspetti differenti di una forza unica  che, identica al fondo, apparisce successivamente sotto forme diverse, si è ammesso che la sensazione e il pensiero è un altro aspetto o un'altra forma di questa forza medesima, il movimento che è l'antecedente della sensazione e del pensiero divenendo sensazione e pensiero, come il calore suono o l'elettricità luce. 2^ è la forma che ha incontrato più favore si è ammesso che il fenomeno  fisico che è la condizione del fenomeno mentale e lo stesso fenomeno mentale sono,  non due fatti distinti e 8u«»cessivi, ma un solo e stesso fatto, che presenta^ due facce differenti, l'interna e 1'esterna, la subbiettiva e 1'obbiettiva, la distinzione non essendo, come dice Lewes, che nel modo di apprensione, vale a dire, quello che i sensi apprendono come fisico, come movimento,  essendo appreso dalla coscienza come mentale^ come sensazione e pensiero. Questa identità del fisico e del mentale l'identità nel senso più stretto, cioè nella seconda forma  è stata affermata a tre punti di vista differenti: del materialismo, cioè subordinando e riconducendo lo spirito alla materia, come nelle dottrine di Hobbes, Darwin,  d' Hol  V.  De Carpare. La sensazione non è che  il movimento degli organi del senso, e precisamente quella parte di questo movimento immaginata da Hobbes, che sarebbe un ritorno dall'organo centrale verso l'esterno, cioè verso i punti della periferia da cui è partita l'eccitazione ipotesi destinata a spiegare la localizzazione alla periferia e la proiezione al di fuori delle sensazioni. NeUa sua Zaonamia definisce l'idea: una contrazione,  un movimento o una configurazione delle fibre – IT SOUNDS RATHER HARSH GRICE -- che costituiscono l'organo immediato del senso. Le nostre idee, dice RATHER HARSHLY SOUNDING -- egli ancora, sono bach, Moleschott,  Strauss,  Spencer, dei movimenti animali (lelForgano sensitivo. Questa confusione tra il fatto psichico e la sua condizione fisica AGITATED RYLE’S CATEGORY MISTAKE regna, dice MORE GRICE TO THE Mill, dal principio alla fine nei quattro voluQii della Zoouomia Mill. Lo(j, . Le sensazioni, le percezioni, le idee tutte le operazioni delTanima, sono dei movimenti degli organi dei sensi e del cervella V.  Sitit. della  natura 1. p. e. -D'Holbach ammetto pure la possibilità della soluzione ilozoista. Il pensiero è un movimento  della materia Circolaz, della vita, lettera  IH.  V. Vecchia e nuova fede,. ciò che, sotto l'aspetto obbiettivo o dal lalo estemo, è un cangiamento nervoso un movimento molecolare, è, sotto il suo aspetto subbiettivo o dal suo lato interno,  uno stato di coscienza Frinc. di  PhìcoL ; lo spirito e l'azione nervosa sono i due lati, subbiettivo e obbiettivo, d'una sola e stessa cosa. L'aver classato  la dottrina di Spencer fra (luelle che riconducono lo spirito alla  materia richiode una giustificazione. In effetto questo filosofo si difendo d'essere materialista e dichiara illusoria il tentativo di tradurre sia lo spirito in termini di materia sia la materia in termini di spirito I fenomeni dello spirito e quelli della materia sono le due facce, subbiettiva ed obbiettiva, sotto cui si manifesta una  sola e stessa realtà, ma questa realtà ultima non può essere chiamata né spirito né materia, lo spirito e la materia non essendo che le sue manifestazioni fenomenali ed essa stessa restando inconoscibile nella sua essenza Che ragione può aversi allora di chiamare la dottrina di Spencer una dottrina materialista, che riconduco lo spirito alla materia? Questa ragione è secondo me, che dei  due aspetti sotto cui si manifesta l'inconoscibile, l'uno, il fisico, è costante, e l'altro, il psichico, non è che transitorio: esso non apparisce che là dove esiste una struttura fisica appropriata (lo spirito non è diffuso da per tutto neir universo, come nelle dottrine panpsichiste o in quella dell'identità del reale e dell'ideale,.Ne segue che, l'essenza d'una cosa essendo per noi determinata dai suoi  attributi costanti e non dai suol attributi transitori, e qualsiasi nozione che noi  possiamo formarci dell'Inconoscibile dovendo tirarla dal conoscibile, quest’essenza sconosciuta che si manifesta come spirito e come materia noi dobbiama necessariamente rappresentarcela in termini di materia. Ma contro ciò potrà dirsi che questa distinzione tra i fenomeni della matoria» cxin che sarebbero  costanti, e quelli dello spirito, che sarebbero transitori, non ha al fondo niente di reale, le manifestazioni fenomenali dell'Inconoscibile essendo per Spencer tutte egualmente subbiettive e psichiche, poiché il conoscibile, il fenomeno, non consiste, in ultima analisi, che negli stati della nostra coscienza. Niente di più giusto che quest'osservazione; ma essa dimostra d'una maniera anche  più diretta che la dottrina di Spencer riconduce lo spirito alla materia. Se si va al fondo delle cose, la vera dottrina di Spencer è, non che vi sia una realtà a due facce, l'una subbiettiva e l'altra obbiettiva, ma che vi ha una realtà, l'Inconoscibile, e un fenomeno o un'apparenza di questa realtà, lo spirito o gli stati di coscienza. Lo spirito non è dunque che nnfenomeno; la realtà appartiene  all'opposto dello spirito, al fuori di me di GRICE, a ciò che non ha coscienza di GRICE. L'Inconoscibile non è per Spencer che la materia e la forza: l'affermazione d'una realtà assoluta inconoscibile equivale nei Primi principii all'affermazione della persistenza della forza, e quantunque l'Inconoscibile non abbia in realtà degli attributi spaziali, vi ha nondimeno in lui un nexus che noi dobbiamo rappresentarci come spazio o estensione, e Spencer sente così fortemente questa necessità di dare un fondamento obbiettivo, nell'Inconoscibile, ai rapporti di spazio, che talvolia sembra considerare ijnesti rapporti come reali, come obbiettivi p. e. nei Pr, Pritic.. La verità di questa proposizione, che Spencer riconduce lo spirito alla materia, si mostra della maniera più evidente   nelle sue affermazioni relative alla sostanza dello spirito. La nostanza dello spirito è naturalmente l'Inconoscibile: ma ciò che bisogna notare è il rapporto che Spencer stabilisce tra la spirito qual è da noi conosciuto, cioè  l' insieme dei nostri stati di coscienza, e la sostanza dello spirito. Qaesto rapporto è quello del fenomeno alla realtà. L'esistenza, nel vero  senso della parola, appartiene  nello spirito a ciò che persiste, alla sua sostanza; i fenomeni dello spirito, come quelli della materia, on sono che delle apparenze cangianti della realtà permanente inconoscibile, Princ, di Psic. Ora se noi domandiamo che cosa sia questa realtà persistente di cui i fenomeni dello spirito sono delle apparenze, la risposta è che la sostanza dello spirito, il me di GRICE traascendente non é  altra cosa che l'organismo Dire che il me di GRICE è  qualche cosa di più che la serie delle sensazioni o delle idee che sono date come presenti, è vero o falso secondo il grado di  comprensione che si dà alla parola. È vero se noi vi comprendiamo il corpo con tutte le sue strutture e le sue funzioni; ma è falso se noi limitiamo la nostra asserzione al me di GRICE cosciente. Il me di GRICE sostanziale, inconoscibile nella sua natura ultima, ci è fenomenalmente conosciuto, sotta la sua torma statica, come l'organismo; sotto la sua forma dinamica, come una forza che si diffonde nell'organismo. Il me che sopravvive continuamente come soggetto di questi stati oxv Lewes, Sergi, ecc.; del panpsichismo j cioè risolvendo la materia  in spirito, come nella dottrina di cangianti di quest'aggregato di stati subbiettivi che costituisceno il me di GRICE mentale è questa porzione deirinconoscibile, che è condizionata staticamente in certe strutture nervose, le quali sono penetrato <la questa porzione dell'Inconoscibile, dinamicamente condizionata, che noi chiamiama energia Princ, di PsicoL trad. frane. L'identificazione del mentale e del fisico, in un sistema  che non jiconos«e altri fatti mentali che quelli che accompagnano le funzioni del sistema nervosoGRICE I AM HEARING A NOISE I AM SEEING IT AS NOT RED,  e necessariamente una riduzione del mentale al fisico, perchè, ripetiamolo, l'essenza di una cosa è per noi determinata, non dai suoi attributi transitori, ma dai suoi attributi permanenti, e perciò questa realtà a due iacee,  che si manifesta come spirito e come materia, se lo spirito non è riguardato che coune un fenomeno transitorio, noi dobbiamo necessariamente rappresentarcela, nella sua essenza, come materia. Noi dobbiamo aggiungere che talvolta Spencer, invece della dottrina dell'identità dei fenomeni mentali e delle loro condizioni fisiche, sembra ammettere la dottrina affine della trasformazione  delle energie fisiche nelle energie mentali Primi  principi. Lo stato psichico e lo stato corporale, che ne è la condizione, nou sono due fatti, ma un sol fatto lo cui si distinguono i due aspetti, come si può distinguere In una stessa linea r^rva il lato convesso e 11 lato concavo. Per comprendere questa dottrina di Lewes nel suo vero significato, cioè come una riduzione del mentale al fisico,  bisogna notare che essa non è che un'applicftzlone del suo pt-lnelplo dell'identità della causa e dell'effetto THOSE SPOTS ARE MEASLES: un fatto è identico all'insieme delle sue condizioni, non è qualche cosa che si sovrag^iunge ad esse. Per  Lewe^ vale la stessa osservazione che abbiamo fatta per Spencer: il fisico è 11 costante, e 11 mentale non è ehe 11 transilorlo; perciò questa  realtà a due facce, che si mosti'a come spirito e come materia, non può essere al fondo, nella sua essenza, che materia. E vero che la dottrina di Lewes che le cose hanno sempre una doppia faccia, l'una obbiettiva e l'altra subblettlva, Il mondo materiale, per quanto ne conosciamo, risolvendosi In sensazioni nostre, non potrebbe essere conslslderata come una dottrina materialista. Ma se  noi non facciamo, sino ad un certo pnnto, astrazione dalle qulstionl gnoseologiche sul xnondo esteriore, diffìcilmente troveremo tra i filosofi un Materialista, per la semplice ragione che difficilmente vi troveremo un realista naturale, cioè questa fede ingenua nella realtà obbiettiva del dati del sensi che 11 materialismo classico accetta dalia credenza naturale. Il fatto psichico o cosciente  è composto di elementi fisici o incoscienti  negli Elementi di Psicologia e In altre opere; proposizione che evidentemente contiene ridentlfìcazlone del fatto della coscienza di GRICE con le sne coniizioni somatiche. Tuttavia Sergi afferma pure che il processo fisico è V antecedente àe\ fenomeno della coscienza ciò che è Impossibile se sono un solo e stesso fatto, e va anche sino a pirlare  di una trasformazione dei due fenomeni l'uno nell'altro, sembrando così passare dalla teoria dell'Identità del fisico e del mentale uel senso più stretto alla teoria vicina della trasformazione reciproca fra le energie fisiche e le mentali V. Origine dei fenomeni jisichici e loro significazione BIOLOGICA. É notevole nna coincidenza senza dubbio fortuita -tra la dottrina di Hobbes e quella  di Sergi, Il quale, slmilmente al primo, spiega la localizzazione delle sensazioni negli organi periferici MY EARS HEAR A SOUND MY EYES SEE IT AS NOT RED e nello «pazlo esteriore, per l'ipotesi di un'onda nervea ri/lessa, cioè ammettendo che le onde nervee che partono dalla periferia, giungendo al centri, si riflettono per la stessa via, e si fermano al luogo d'eccitazione. Sergi,  come Hobbes, chiama questa riflessione della corrente nervosa una tendenza alla causa esterna. É evidente che questa non è una spiegazione nel senso scientifico della parola; polche ammesso anche il fatto dell'onda riflessa, siccome la coscienza non sa niente dell'esistenza di questo fatto, esso uon potrebbe essere un motivo di localizzare la percezione al posto in cui arriva l'onda  riflessa, che l'esperienza non ha mal trovato in connessione con la sensazione. Ma ò si familiare questo fatto, che la sensazione viene Istintivamente localizzata al posto dove si osserva la causa materiale della sensazione THE PILLAR BOX IS MAKING A SOUND AND IT’S NOT GREEN, che non si vede, o si dimentica, che questo fatto, apparentemente Istintivo, sarebbe incomprensibile, se noi non sapessimo che è l'esperienza che ha formato nal nostro spirito le connessioni mentali corrispondenti. Il proprio del fenomeni molto familiari è, noi lo sappiamo, che essi sembrano uon aver bisogno di spiegazione, e poter servire anche di spiegazione agli altri fenomeni. Così l'identità del  luogo in cui si produce la causa fisica della sensazione GRICE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION, e di quello In cui la sensazione viene spontaneamente localizzata, sembra un fatto perfettamente naturale e che si spiega da se stesso: 1'onda nervea, partita da un certo punto, ritorna a questo stesso punto; è evidente dunque che è là che  dobbiamo localizzare la sensazione. Inoltre,  in una concezione materialista nel senso più stretto della parola in cui 11 fatto psichico è concepito come un fenomeno dinamico della materia nervosa, non è sorpreaidente che si applichino al fatti della coscienza 1 rapporti di spazio propri alle loro condizioni fisiche, e ehe si trovi quindi una connessslone naturale tra il trasporto del -j. >!'-^ ex  VI { k fi Taine e di altri panpsichisti è  sotto un altro aspetto la dottrina stessa che già abbiamo considerato come una forma della prima soluzione materialista; e infine del sistema della identità del reale e dell' ideale Pechner, che non subordina né lo spirito alla materia ne la materia allo spirito, ma fa del fisico e del mentale i due aspetti paralleli, e costantemente uniti, dell'essere assoluto. Ma, all'uno o all'altro di questi punti  di vista, il risultato della teoria è sempre lo stesso: identificare i due ordini di fenomeni, che sembrano i più essenzialmente differenti, quelli I I nervea dal centro nervoso all'orjjano perlfei'Ieo e il trasferimenta t'.eHa sensazione dal primo al secondo punto. Ma quando la sensazione st localizza, non ne11'or<;^anUnio stesso, mi al di fuori, come uella parcfzione visuale ciò che  ordinirlameato si chiama proiezion3 dell'Immagine sensoriale '|uale spiegazione del fatto può dare la teoria dell'onda riflessa? Ohi ha meditato abbastanza sulla storia del concetti metafisici, o sa che le analogie più vagli3 e Imprendibili spesso hanno tenuto il luogo di spiegazioni si forte a 11 bisogno che ha lo spirito umano di una spieffasionc dei fenomeni nel senso metafisico della  parola questi non troverai umoristica, «ih perfettamente seria, la riflessione che. nel pensiero degli autori della teoria, vi ha forse qualche cosa come l'idea vaga di uni continuazione ideale del movimento perceziouale. ((uasl che la percezione avesse qualche analogia con un proiettile. Il cui movimento, impressogli dalla mano, si continua nella stessa direzione, anche dopo clie la mano si è staccata da esso. Queste osservazioni, naturalmente, non tolgono niente al valore reale delle opere di Sergi, come non tolgono nU nte alla gloria del suo predecessore Hobbes. Un'Idea originale e Ingegnosamente espressa, anche ((uando è un'Idea metafisica, è sempre una prova di forza intellettuale: è ciò che alcuni positivisti sembrano non comprendere, perchè essi non comprendono  che la metafisica ò un fatto naturale dello spirito umano come lo prova anche un certo numero delle loro dottrine e non un fatto arbitrarlo o Inerente sol» tanto jf  un certo grado delia cultura. V. Ij'IntelUy.  cxvir della natura fisica e quelli della coscienza, in modo €he il più grande saltns della natura, il passaggio dall'inanimato all'animato, dall'incosciente al cosciente, e viceversa, si  concilii in qualche modo col principio evidente per se stesso che l'essenza delle cose resta sempre la stessa e che le proprietà di un tutto non possono essenzialmente differire dalle proprietà degli elementi. Non vi ha dubbio che, fra le diverse applicazioni di questo principio alla quistione dell'origine della coscienza, non sia questa la più conforme alle idee della concezione meccanica, fiovratutto quando si considera ciò che è certamente il pensiero intimo di molti sostenitori della teoria il fisico, cioè il movimento, come la realtà, e il mentale, cioè la sensazione e il pensiero, come una specie di apparenza di questa realtà. Qui ci troviamo in presenza della seconda delle due difficoltà insolubili delle teoria meccanica riguardando come la prima l'impossibilità indicata   Langwieser, in una polemica  contro la conferenza di Du-Bois-Reymond al congresso di Lipsia, che riconosceva rirriduttibilita dei fenomeni della coscienza ai fenomeni fisici, e quindi l'impossibilità di applicare ad essi la spiegazione meccanica, dice: La nostra coscienza non può farci conoscere l'anatomia del nostro corpo o almeno le fibre del nostro cervello: cosi essa non è una  coscienza nel senso obbiettivo della parola; perciò noi non possiamo riconoscere subbiettivamente le nostre sensazioni per quello che sono Lange che riferisce queste parole, le fa precedere <ia questo commento: LI materialismo si afferra si forte alla realtà € ai movimenti della sua materia, che un partigiano sincero di questa dottrina noa esita lungamente a sostenere che ii movimento  del cervello è il reale e l'obbiettivo, mentre la sensazione non è che una specie di ajìparenza o di riflesso ingannatore dell'obbiettività. Lange Stoi\ del niater, . ci.]di rappresentarci la materia destituita delle proprietà sensibili. La logica forza la teoria meccanica ad ammettere l'una o l'altra delle due soluzioni materialiste della quistione dell'origine della coscienza l'ilozoismo o l'identità  del fisico e del mentale: ma è impossibile di ammettere l'una o l'altra di queste soluzioni senza contraddire ad altre esigenze non meno imperiose della teoria. Sì ammetterrà la soluzione materialista propriamente detta, che identifica il pensiero al movimento? non lo si può, senz'abbandonare quella chiarezza delle idee,  quella, quella intelligibilità, che distingue la concezione meccanica  da tutte le altre concezioni che realizzano il principio comune della immutabilità dell'es»senza delle cose. Si ammetterà, invece, la soluzione ilozoista? ma allora la meccanica degli atomi diviene il romanzo degli atomi; la concezione meccanica perde quel carattere di rigore scientifico che costituisce la sua superiorità sulle concezioni  rivali del mondo. Sembrerà forse che la soluzione  ilozoista a differenza della soluzione materialista propriamente detta, cioè della identità del fisico o del mentale ci offra almeno delle nozioni perfettamente intellegibili: ma se uiò può ammettersi per l'ilozoismo, considerato in se stesso, non si può ammettere per l'ilozoismo applicato alla soluzione del problema deirorigine della coscienza. La nozione di un atomo animato e cosciente è  senza dubbia una rappresentazione perfettamente realizzabile; ma è impossibile di rappresentarsi che dalla riunione delle coscienze distinte degli atomi risulti la co»scienza unica che appartiene all'aggregato degli atomi; un nie^ una coscienza unica, non può essere concepito come la somma di una moltitudine di me di GRICE o  di coscienze distinte. L'una e Taltra delle due soluzioni materialiste della quistione dell'origine della coscienza mostrano così il tratto distintivo delle concezioni metafìsiche propriamente dette; cioè, oltre all'assenza completa di prove, l'impossibilità di essere rappresentate, il racchiudere delle impossibilità intrinseche, delle contraddizioni. Vi hanno dunque due punti in cui viene a mancare l'intellegibilità della teoria meccanica: l'uno è la  distinzione delle proprietà primarie e secondarie della materia, che è il fondamento della teoria, e l'altro l'applicazione della teoria ai fenomeni della coscienza. Le considerazioni precedenti spiegano perchè la maggior parte dei Jautori della teoria meccanica si sottraggano alla necessità, per quanto imperiosa, di sottomettere alla teoria i fenomeni delle coscienza. Il valore assoluto della  teoria meccanica non viene ordinariamente reclamato che nel dominio del mondo fisico; ma in questo dominio si ammette che l'applicazione della teoria è illimitata, e che non vi ha altra maniera possibile di comprendere i fenomeni. Noi possiamo considerare Du BoisReymond come il fedele rappresentante di questa tendenza filosofica, nella forma in cui essa ha l'adesione della maggior  parte dei pensatori che sono alla testa del movimento scientifico contemporaneo. La filosofia naturale, egli dice, ha per iscopo di comprendere il mondo materiale, e a questo fine tende a ricondurne i cangiamenti a dei movimenti d'atomi causati dalle loro forze centrali costanti» a in altri termini, a risolvere i fenomeni della natura in meccanica degli atomi. È un fatto d'esperienza psicologica che, tutte le volte, che una tale riduzione è effettuata con successo, il nostro bisogno di causalità è, per il momento, completamente soddisfatto. L'autore non ammette che un limite a questa spiegazione meccanica di tutti i fenomeni della natura: questo limite è il limite stesso, o più propriamente l'uno dei due limiti, della nostra conoscenza l'altro essendo l'incomprensibilità  della essenza della materia  e della forza, e consiste nell'impossibilità di ricondurre il pensiero o la sensazione al movimento degli atomi. Con la prima sensazione di piacere e di dolore che proA^ò l'essere più semplice^all'inizio della vista animale sulla terra, s'apri quest'abisso insuparabile; d'allora il mondo divenne doppiamente incomprensibile. Ma nella quistione dell'origine della  vita l'autore non trova un limite della nostra conoscenza, e perciò nemmeno della teoria meccanica: la quistione non è, egli dice, che un problema di meccamica estremamente arduo. Quantunque la meccanica molecolare che presiede alla costituzione degli esseri organizzati, come quella che presiede alla cristallizzazione e alle reazioni chimiche, non ci siano, almeno per ora, accessibili;  tuttavia la realizzazione del nostro ideale della conoscenza suppone che questi fenomeni siano spiegati meccanicamente. Non / Limiti della Filos, tiatnr. In Rev. sciente vi ha per noi altra conoscenza che quella dei fatti meccanici:  solo le leggi fisico matematiche sono delle vere leggi, che s'impongono per una necessità logica. Il lato particolarmente paradossastico della teorìa meccanica,  come concezione generale del mondo fisico, è la sua applicazione ai fenomeni della vita. Qualunque sia il successo della teoria meccanica nel dominio della natura inorganica, vi sarà sempre, per questa teoria, la grande difficoltà di identificare due ordini di fenomeni, la cui distinzione essenziale sembra cosi evidente, quelli della materia bruta e quelli della materia vivente. Senza  dubbio, la difficoltà che incontra la teoria meccanica nella quistione dell'essenza della vita, è dovuta in parte a dei pregiudizii tradizionali e naturali al nostro spirito, di cui la scienza moderna ha fatto giustizia. L'uno è questa spontaneità del movimento, questa attività caratteristica dell'essere vivente, per cui egli sembra aviere in se stesso la causa dei propri cangiamenti; e l'altro questa  teleologia, queste tracce di disegno, che si sono sempre viste specialmente nella struttura e nelle funzioni degli esseri organizzati. È conformemente a questi concetti che Aristotile definisce gli esseri che sono /?^r natura con una definizione che è evidentemente  una generalizzazione tirata dalla natura degli esseri viventi: le cose il cui movimento procede da un principio interno ed è  indirizzato ad un fine o METIER. Ma la dot Darwin contro Gaìianù Phifs. trina della conservazione dell'energia mostra che questa spontaneità del movimento è una pura illusione, tutte le forze che si manifestano negli esseri viventi non potendo essere che l'equivalente di altre forze fisiche disparse dando loro origine. In quanto alla finalità degli organismi, Darwin ha dato una spiegazione,  che la teoria meccanica può conside^ rare come un gran passo verso la sua completa realizzazione. Ma con tutto ciò, deduzione fatta di queste due difficoltà su cui i metafìsici hanno sovratutto insistito, resta sempre nei corpi viventi un carattere essenzialmente differenziale, col quale non si trova alcuna analogia nei fenomeni della materia bruta: è questa persistenza del tipo generico nella successione delle generazioni e del tipo individuale attraverso gli scambi incessanti della ma^ teria carattere per cui la scienza moderna definisce la vita, con Troviranus: la vita GRICE PHILOSOPHY OF LIFE è l'uniformità costante dei fenomeni nella diversità delle influenze esteriori; con Plourens: GRICE PHILOSOPHY OF LIFE la vita è una forma ser» vita dalla materia; e  meglio ancora con Cuvier GRICE PHILOSOPHY OF LIFE: l'essere vivente è un turbine a direzione costante, nel quale la materia è meno essenziale che la forma. Vi hanno nell'essere vivente, dice Bernard GRICE PHILOSOPHY OF LIFE, due ordini di fenomeni: 1. i  fenomeni di creazione vitale o di sintesi organizzatrice; 2. i fenomeni di morte o di distruzione organica. Se al punto  di vista della materia e della forza, nel mondo vivente come nel mondo bruto, niente si perde e niente si crea, non è così al punto di vista della forma. Nell'essere vivente tutto si crea, s'organizza  morfologicamente. Nell'uovo in isviluppo, i muscoli^ le ossa, i nervi appariscono, e prendono il loro posto, ripetendo una forma anteriore da cui l'uovo è uscito. Di questi due ordini di fenomeni,  il primo solo è senza analogo diretto, particolare, speciale all'essere vivente. È una sintesi evolutiva. È ciò che vi ha di veramente vitale. È la vita. L'altro al contrario è puramente fisico-chimico. Sono dei fenomeni di morte vera, quando si producono in un organismo. Ora, ed è ciò che vi ha di più rimarchevole, noi siamo vittime d'un'illusione abituale, e quando vogliamo caratterizzare  la vita^ noi indichiamo un fenomeno di morte. Noi non vediamo i fenomeni della vita. La sintesi organizzatrice resta interiore,  silenziosa, nascosta, raccogliendo senza rumore i materiali che saranno spesi nell'espressione fenomenale. Noi non vediamo dunque direttamente i fenomeni di creazione vitale. Solo lo istologo, l'embriogenista^ seguendo lo sviluppo dell'elemento o dell'essere  vivente, prende dei cangiamenti, delle fasi che gli rivelano questo lavoro sordo: qui un deposito di materia, là una formazione d'inviluppo o di nucleo, là una divisione o una moltiplicazione, una rinnovazione. Al contrario i fenomeni di distruzione vitale o di morte sono quelli che ci saltano agli occhi, e per i quali siamo tentati di caratterizzare la vita. I segni ne sono evidenti, eclatanti:  quando il movimento si produce, quando un muscolo si contrae, quando la sensibilità e la volontà si manifestano, quando il pensiero 8i esercita, quando la gianduia secerne,  la sostanza dei muscoli, dei nervi, del cervello, del tessuto glandulare si disorganizza, si distrugge e si consuma^ [Di sorta che ogni manifestazione di un fenomeno, nell'essere vivente, è necessariamente legata a  una distruzione organica, e sotto una forma paradossale si può enunciare questa verità che io ho espressa altrove: la vita è la morte. L'opposizione che la concezione meccanica della vita incontra nella scienza non è dunque dal punto di vista metafìsico della teleologia, né dal punto di vista prescientifìco che riguarda quest'attività esteriore dell'essere vivente in cui Bernard non vede che  dei fenomeni di morte e che egli riconduce ai fenomeni generali della materia come il carattere distintivo per cui i corpi viventi sono separati come da un abisso dalla materia bruta. La quistione tra i meccanisti e quelli che non ammettono la loro teoria è: il fenomeno dell'eredità o quest'altro fenomeno analogo della continua restaurazione che fa di se stesso l'individuo vivente se Le  definizioni della vito, nella  Ilev scieni.Oauthier Origine dell'en'^rgiu negli esseri viventi^ nella Uev scient,. Ivi l'autore, oltre alle opinioni analoghe di altri naturalisti, riferisce queste parole di Chevreul: Un corpo organizzato ha in sé la proprietà di svilupparsi con una costanza ammirabile nella forma della sua specie, e la facoltà di dar nascita ad individui che riproducono alla loro volta  questa stessa forma. È là che si trova per noi il mistero della vita e non nella natura delle forze a cui si possono rapportare immediatamente i fenomeni. Bicordo pure delle proposizioni simili di Matteucci: dopo aver detto che i fenomeni della vita devono ridursi a fatti fisico-chimici vi ha, nell'organismo vivente, qualche cosa che pare inviluppata dalla più grande oscurità, e che è senza  analogia coi fenomeni fisici e chimici. Io voglio parlare di questa grande incognita che si nasconde in un grano, producente sempre la stessa pianta dal cominciajEuento sino alla fine. Beo, scient» ]condo la forma determinata che gli è propria restaurazione che dal fatto più ordinario della reintegrazione degli elementi per la nutrizione va sino alla rigenerazione, in certi organismi, degli  organi più complessi questi fenomeni essenziali della vita sono riduttibill alle leggi generali della materia e del moto? La teoria della conservazione dell'energia non decide la quistione in favore del meccanismo; essa prova semplicemente che le forze vitali intendendo con questa parola non degli agenti misteriosi, delle ipostasi, ma un asemplice espressione iir stratta dei fenomeni della  vita non possono creare energia, ma solo trasformarla. La teoria dell'evoluzione fa intravedere la possibilità di ricondurre tutti i fenomeni svariati del mondo vivente a un piccolo numero di teggi comuni, ma i fenomeni essenziali della vita, cioè l'eredità e. generalmente, la persistenza della forma nella continua rinnovazione della materia, lungi di dedurli, essa li suppone come le premesse  ultime delle sue deduzioni. Questi fenomeni sin qui inesplicabili e che non \ i ha alcuna difficoltà intrinseca a considerare come dei fatti ultimi che non ammettono spiegazione ulteriore, ma solo un'espressione più rigorosa sotto forma di leggi precise avranno mai il loro Newton, che li riconduca alla meccanica degli elementi della  materia? Quello che serabrj, evidente tanto evidente che r autorità degli eminenti fisiologi che propugnano la teoria meccanica non è una ragione che deve impedire di dirlo è che sinché questo Newton non sarà venuto ciò che Kant trova assurdo di sperare -la teoria meccanica della vita non sarà che un'ipotesi, meno ancora che un'ipotesi, una semplice congettura sulla scienza avvenire, poiché essa si riduce all'affermazione che questo  Newton verrà o potrebbe venire cioè verrebbe, se l'ideale della conoscenza umana fosse conseguibile. L'autorità dei sommi maestri della scienza che emettono quest'affermazione dà certamente ad essa un gran peso: ma dei fisiologi non meno autorevoli dichiarano che quest'affermazione è affatto gratuita e senza fondamento nella scienza, e c4assano la teoria meccanica. Egli è in effetto  assolutamente oerlo che noi non possiamo a», prendere a -onoscere d'una manle.-a sufficiente, e a più  forte  ra-loZr'\7,rl'f  '-o possibilità Interrore per del prlnclpll puramente meccanici della natura; e si p„6  s„,te. nere «ratamente con un'eguale certsz.a ch'egli è assurdo per de^U yoTlt:  •^» "  =' «» ?-"-e qualche ufo. ^o Newton verrà un giorno a splejja.^ la produzione d'un filo d'erba per legg. na:arall a cui alcun disegno non ha presieduto Critica del  ff,ua.. Come si vede da queste parole W prezzamento dl Kant è sovratutto fondato su considerazioni d^rd^ne t^leolog  co. Del  .^sto, come si sa, lo stesso punto di vista teleoYogi! co n.„ ha per Kant alcun valore obbiettivo, ma non, foncu" che sopra una necessità subblettiva della nostra intelligenza. Ne»" .,u|!«Uone  della spiegazione degli esseri organizzati. 1. nostro Teli si avvolge necessariamente, secondo Kant, In un antinomia  ZS le; perche da una parte noi non concepiamo che alcuna pro.luzlonc  di n"he"m:T  ..''u «' PU-'-nte   ^ca nlche; ma dall'altra parte, la spiegazione meccanica applicata a clZ produzioni della natura (gli esseri organizzati, sar.. semi" Ins^! e  ente e d'un'estenslone limitata  (quantunque non possiamo ZZt su dove questa spiegazione possa estendersi,, e nol'^obbUmo  uT^! sanamente giudicare della natura e della possibilità di qn^sl It dazioni secondo 11 concetto delte cause finali, senza vederi aTcunn^ do possibile d. conciliare questi due punti di vista 1^, nat vn'n." bT":"«'-«o'"»'  "eo.-L'altern«  l'v^n^ vltablle che Kant suppone tra 11 meccanismo e la  teleologia  uZ tra le ipotesi relative alla ricerca delle cause prime, che la scienza non potrebbe attingere. qul<»tlone della vita, s'incontra pure negli autori contemporanei, p. «. in Wundt Trattato di Fisiologia umana. Introduzione, dove stabilisce che l'antico concetto della vita era fondato sul punto di vista delle cause finali, mentre la maniera di vedere oggi dominante e che "SJ  chiama  ordinariamente l'ipotesi fìsica o meccanica, ha la sua origine nella concezione causale della natura, In quale è da lungo tempo prevalsa nelle branche affini della scienza naturale, e secondo la tiuale la natura ò una  S9mplice citona di cinse e d'effetti, le leggi nUime dell'azione causale essendo le leggi della meccanica, Notiamo quest'affermazione di Wundt che la teoria fisica o meccanica  è la sola che realizzi l'incatenamenlo causale tra i fenomeni: la stessa affermazione si trova in altri fisiologi meccanlsti, p.e. in Du Bols Reymond parole citate e In Haeckel Libera scienza e libero insegnamento. Bernard Definiz. della vita. Sinché il Newton non sarìl venuto, noi non possiamo sapere se la dottrina meccanica o, in generale, fisico-chimica della vita ha effettivamente un  senso o è una di quello che Spencer chiama pseudo-idee  e quindi  nn concetto metafisico nel sen^o più stretto del termine. Innesta dottrina Infatti si riduce a questa proposizione: le leggi della vita sono deducii)ili dalle leggi generali del mondo fisico. Ora f*e questa deduzione, qualunque Ipotesi possa Immaginarsi, è imposi^lbile (non per 1 limiti della nostra conoscenza, ma per la   natura stessa delle cose; se le leggi della vita non possono essere una conteguenza dolle leggi generali del mondo fisico; affermare che lo sono, che la deduzione è possibile, è evldentametfte enunciare, non un semplice errore di fatto, ma un'Impossibilità  logica. Quesla Impossibilità logica o, ciò che è lo  stesso, (luest'assurdltà intrinseca, che potrebbe essere contenuta nella concezione  meccanica, attualmente deve per necessità sfuggirci, perchè la proposlztone astratta: le leggi delia vita sono deducibili dalle leggi generali della materia, è, come ognl proposizioni astratta, un puro simbolo,  li cui significato consiste nelle rappresentazioni concrete corrispondenti. Se una rappresentazione concreta corrispondente al simbolo al cosi detto concetto astratto è possibile. Il  simbolo ha un senso, è Intelligibile; se non vi ha una rappresentazione concreta possibile che gli corrisponda . i\ sìmbolo non ha senso, vi ha un non senso, un'impossibilità  logica. La rappresentazione concreta corrispondente alla proposizione astratta le leggi della vita sono deducibili dalle leggi generali della  ma[Il foiivlamento della concezione fisica o meccanica della vita è  semplicemente in un'induzione tirata dall'osservazione che i progressi della scienza si sono fatti nel senso della spiegazione fìsica dei fenomeni, o si deve ammettere l'influenza di qualche principio considerato come evidente per se stesso? Se si riflette all'influenza che il principio che l'essere non può venire dal non essere, cioè che il reale non può cangiare di natura e di proprietà, ha  sempre avuto nella storia del pensiero umano; alla forza con cui quest'altro principio, che ne è una conseguenza, cioè l'impossibilità che un tutto abbia delle proprietà essenzialmente distinte da quelle, riunite, degli elementi fuori del tutto, s'impone al nostro spirito; infine al carattere assiomatico delle affermazioni dei meccanisti che la spiegazione meccanica è la sola maniera possibile  di comprendere i fenomeni, eh'essa è la sola che possa realizzare tra questi l'incatenamento causale, che le leggi della meccanica sono le sole vere leggi, perchè s'impongono con una necessità logica si troverà verisimile che delle considerazioni a priori non siano estranee ai motivi che fanno abbracciare questa teoria. Ben feria, «irebbe la deduzione effettuata. Effettuata questa deduzione,  si vedrebbe al tempo stesso che la oontrezlone meccanica ò intelllglblte e che e^sa è vera o almeno verisimile, se questa deduzione si ottenessa Immaginando qualche agente Ipotetico, Il cui modo d'azione però fosse conforme alle leggi generali della materia e del moto FRANKENSTEIN. Ma sinché questa deduzione non sarà effettuata, o non sarfi provato che una tale deduzione è  Impossibile, noi nou possiamo sapere, non solo se la concezione meccanica è vera  o falsa, ma nemmeno se ossa ha un senso o è un non senso, se è uu'Idea vera, nel sen^o lelbuitziano, o una Idei falsa, cioè un'lmposslbllltìi logici.]più, noi troviamo nei suoi fautori delle affermazioni più esplicite e precise. Se nei corpi viventi, dice Preyr, la materia possede altre fotze fisiche o di qualsiasi  natura che nei corpi non viventi allora gli elementi costituenti la materia dovrebbero possedere ora tali forze, cioè a dire tali proprietà ora tali altre; perciò gli elementi non sarebbero più invariabili e immutabili, essi non sarebbero più delle sostanze elementari, ciò che implica contraddizione. Lo stesso pAsupposto, cioè che gli elementi devono essere invariabili, e che perciò un composto  non può avere delle proprietà che non siano la risultante di quelle dei suoi componenti, A^ediamo nel seguente ragionamento di Huxley. Dopo aver parlato delle proprietà fisiche e chimiche dell'acqua e del ghiaccio, tra le quali e quelle dell'idrogeno e dell'ossigeno non esiste la più leggiera rassomiglianza, egli continua: Questi fenomeni e Rev, scient. Le forze dei corpi viventi. In  verità Preyer crede che alPInfuori delle loro affinità, qualche cosa d'essenzialmente differente da tutte le forze fisiche e chimiche quali si considerano oggi, l'eredità, deve determinare il modo secondo cui reagiscono le une sulle altre le combinazioni chimiche esistenti nell'uovo, come anchd l'ordine e la disposizione delle loro molecole, In maniera che un embrione di un essere vivente che rassomiglia, al generatori dell'uovo, se ne sviluppi, e che, anche con una composizione degli uovi qualitativamente e quantitativamente slmile, degl'individui differenti possano risultarne. Ma l'eredità si spiega per la memoria inconsclente della  materia vivente, e per mettere d'accordo questa spiegazione col fatti  della  fisica e della chimica, bisogna attribuire la stessa facoltà a tutta la materia. Io non so se questa possa dirsi una spiegazione fisica della vita; ad ogni modo essa si conforma al principio generale della spiegazione fisica, cioè che le proprietà del corpi viventi non differiscono essenzialmente dalle proprietà della  materia In generale.] molti altri così curiosi costituiscono ciò che noi chiamiamo le proprietà deir acqua, e noi non esitiamo a credere che, d'una maniera o d'un'altra, queste proprietà risultano da quelle dei suoi elementi componenti. Noi non supponiamo una forza misteriosa, chiamata acquosità, che entra in scena e prende possesso dell'ossido d'idrogeno tosto ch'esso è formato, e guida  in seguito le particole acquose Terso i posti eh'esse devono occupare sulle faccette del cristallo o ilei mezzo delle foglioline della brina. Noi viviamo al contrario colla speranza e la confidenza che un giorno, grazie ai progressi della fisica molecolare, noi potremo passare dai costituenti dell'acqua alle preprietà dell'acqua stessa, così facilmente che oggi possiamo dedurre il movimento  di un orologio dalla forma delle sue parti e dalla maniera in cui esse sono disposte. Vi ha altra cosa allorché dell'acido carbonico, dell'acqua e dell'ammoniaca dispariscono, e al loro posto nasce, sotto l'influenza del protoplasma già esistente, un peso equivalente di materia vivente? Ciò che dobbiamo pure notare nelle parole citate di La confidenza di Huxley non è divisa dal due più  eminenti logi(5l suol connazionali. Nell'azione chimica, dice Baln, non si può predire 11 carattere del composto dal caratteri degli elementi La composizione delle cause è la legge, considerando la causa come un potere motore, una forza: ma nelle azioni chimiche non si tratta di una composizione di forze, ma di sostanze Logica MORE GRICE TO THE Mlll:  È Impossibile di dedurre  tutte le verità della chimica e della fisiologia dalle leggi o proprietà delle sostanze semplici o agenti elementari Logica È interessante di notare di l'attitudine dei rappresentanti della filosofia dell'esperienza verSD la teoria meccanica come concezione generale della natura. La base fisica della vita, nella Rev, seleni. »er. I Huxley è l'alternativa che esse propongono tra l'ipotesi dGÌVacqnosifn  e quella che le proprietà dell'acqua sono  deducibili dalle proprietà dei suoi componenti, cioè, facendo l'applicazione della similitudine, tra l'ipotesi della foi'^a rifa/e  e quella che le proprietà degli esseri viventi sono deducibili dalle proprietà degli elementi materiali. Abbiamo osservato che le ipotesi contrarie dello spiritualista e del materialista, per rendere conto dell'origine della  coscienza, partono egualmente dallo stesso principio, cioè che le cose non poscono cangiare nella loro natura: di là lo spiritualista conclude che la coscienza, non trovandosi negli elementi materiali, deve essere apportata da un'altro principio distinto da questi e di cui essa sia la proprietà immutabile; il materialista ne conclude invece che la coscienza che apparisce nel tutto non può  essere essenzialmente distinta dalle proprieià degli elementi costitutivi. Dalle <iiffìcoltà delle ipotesi materialiste lo spiritualista argomenta la necessità della sua propria ipotesi, e viceversa dalle difficoltà dell'ipotesi spiritualista il materialista la necessità della sua. Così ora possiamo osservare che l'ipotesi fisica o meccanica e l'ipotesi vitalista sono l'applicazione di un principio comune alla quistione dell'origine e dell'essenza della vita, cioè dello stesso principio che la natura delle cose non può cangiare. Dall'osservazione che i fenomeni dell'essere vivente sono essenzialmente distinti dai fenomeni degli elementi materiali che 1'hanno costituito, il vitalista conclude, in virtù di questo principio ammesso come evidente per sé stesso, che la vita è apportata da un'altro    elemento distinto dagli elementi materiali che viene ad aggiungersi al composto (diciamo: un elemento distinto dagli elementi materiali, quantunque il principio vitale sia stato spesso concepito come una specie di fluido, p. es. la matiera vifae diffusa di Hunter, di cui un autore quasi contemporaneo ha potuto dire che in Inghilterra essa è una parte della religio medici• ma è evidente che  in questo caso, come in quello dell'animismo primitivo, a una sostanza materiale particolare si attribuiscono delle proprietà essenzialmente differenti da quelle della materia comune. Dall'osservazione che i corpi che manifestano i fenomeni della vita non sono che. aggregati degli eie*menti della materia bruta, e finiscono per risolversi in questa materia bruta, il meccanista conclude  invece, in virtù dello stesso principio, che le proprietà degli esseri viventi non possono differire essenzialmente dalle proprietà della materia bruta. Dall'assurdità di un principio vitale sostantifìcato si argomenta da una parte la necessità della spiegazione fisico chimica o meccanica della vita, come pall'altra parte dairimpossibilità di questa spiegazione, che distrugge la differenza  essenziale tra  la materia A^ivente e la materia morta, si argomenta la necessità di una sostanza speciale, che si associ agli elementi materiali, e aggiunga ad essi, finché dura l'ossociazione, le nuove proprietà della vita. Dall'una e dall'altra parte la terza ipotesi che rompe la pretesa necessità dell'alternativa, ipotesi che non Bence Jones Materia e forza fn Rer. scifut* «er l"anno png.. suppone niente ma si limita a costatare il fatto, cioè che la stessa materia in condizioni differenti possiede delle proprietà essenzialmente differenti, viene respinta a priori\ ciò che è perfettamente naturale, perchè essa è contraria alla tendenza spontanea del nostro spirito a ricondurre il meno familiare BIZARRO al più familiare BANALE, e per conseguenza a spiegare i fatti per la  supposizione che il reale persiste nelle stesse proprietà, questa persistenza essendo per noi un fenomeno assai più familiare BANALE che il cangiamento delle proprietà. Evidentemente ciò ohe abbiamo detto in questo paragrafo e nel precedente, non si applica soltnnto alla coiicozlona meccanica del mondo, ma a tutte le forme dulia concezione fisico-chimica. Noi non ci slamo limitati  a parlare della prima che perchè ne è la forma più <»omunemeatc ammessa, e quella che sembra la conseguenza più naturale del principio della fisica che tutti 1 cangiamenti del mondo fisico si riducono al movimento degli elementi di una materia che non ha altre qualità che l'ostenslone e rimpeuetrabllitfi IMPENETRABILITA: ma è eridente che la identificazione del fenomeni della materia vivente e cosciente a quelli della materia bruta è una conseguenza del concetto generale che riduce tutti I fenomeni a (luelll fisico-chimici, e non <lella forma particolare di questo concetto che riduce inoltre tutti l fenomeni fisico-chimici a (luelli meccanici. Questo elemento specifico, differenziale, della concezione meccanica (la riduzione di tutti i fenomeni fisico-chimici al  feuomani meccanici) non ha avuto nel testo alcuna spiegazione. E In effetto esso non potrebbe riguardarsi come una semplice applicazione del principio che noi abbiamo formulato con 1© parole nichil oritnr^ nichil iuterit. Cosi, se vogliamo spiegare anch'esso per questo processo d'inferenza incosciente da cui derivano 1 concetti metafìsici, e quelli in generale che si ammettono d'una  maniera assiomatica ma che 1'osservazione non potrebbe giustificare, noi dobbiamo carcame l'origine pare In uni suggestione deli'esperienza più familiare, ma indipendente da quella a cui si devono i concetti di cui parliamo in quest'Appendice. E evidente che 11 principio su cui è fondata la teoria che tutti 1 fenomeni del mondo fisico, anche <iuelli della chimica, non possono essere [La metafisica dei metafisici non quella che i fisici fanno senza saperlo, come il borghese geutiluomo fa della prosa senza saperlo -- ci mostra altre applicazioni del principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose, che unite alle precedenti, ci possono far concludere che l'influenza di questo principio, nella storia del pensiero umano, non è stata quasi meno universale che quella del  principio di causalità efficiente. Noi indicheremo, d'una maniera generale, i seguenti gruppi di sistemi: I sistemi di atomismo metafisico, in cui agli atomi, cioè masse indivisibili ma estese, dei fisici, coche l'effetto dAlle lejrgl della meceanlca, almeno quando non si Muppoue che 11 movimento deve spiegarsi unicamente per 1'Impulsione è che tutta la materia, al fondo, deve avere un'esrnenza e delle pròprletfi Identiche. É facile di vedere In (lutsto principio una sujrprestlone delle esperienze plìi familiari, se si tlen conto di questo fatto die la scienza moderna, nej,'aiido l'obbiettività delle qualità sensibill le secondarle, e componendo tutti l corpi di elementi di una solidità e di ima durezza assolute, sopprime. In definitiva, ogni caratiere differenziale tra materia e   materia. Un elemento materiale nin potrebbe differire da un altro che per la grandezza e la figura. Noi possiamo supporre, è vero, che essi siano dotati <li energie partlcolarl, che l'uno abbia un modo d'agire e di patire che gli è assolutamente proprio e pe. cui si distingue essenzialmente dallaltro- ed è  m ciò che dovrebbe consistere la differenza fra gH elementi chimici, supponendo che  essa sia primordiale e Irrlduttlblle. Ma ciò che appunto è contrarlo alla suggestione delle nostre esperienze più familiari, òche del frammenti di una materia qualitativamente omogenea noi potremmo dire: della stessa materla-l quali non differiscono che per la grandezza e la figura In cui, per dir cosi, sono stati tagliati possano avere del modi di agire e di patire radicalmente differenti. Noi abbiamo osservato tante volte che le diverse porzioni di una stessa specie di stoffa o di legno o d'un'altra  materia (lualslasl, se differiscono per la grandezza e per la figura, non hanno perciò una natura e delle proprietà differenti, salvo quelle proprietà che sono una conseguenza della figura e della grandezza stesse. Se noi chiamiamo statiche 1^ me unità costanti o elementi del  reale,  vengono sohstituiti degli esseri semplici o inestesi monadi, sia nel senso panpsicliista sia nel senso dinamista, forze o centri di forze, atomi semplici o punti materiali, ecc. i cangiamenti del mondo fenomenale essendo spiegati, come nell'atomismo, pei cangiamenti dei rapporti tra le unità elementari. I sistemi di atomismo metafisico non sono al fondo che delle forme trascendenti della  concezione meccanica, tutti i cangiamenti del mondo materiale essendo ridotti, in questi sistemi, al cangiamento nelle relazioni di spazio, sia che in queste relazioni si veda un attributo reale degli esseri semplici ciò che è certamente una contraddizione nei termini, poiché un essere semplice, cioè inesteso, non occupando uno spazio, non potrebbe essere nello spazio sia che non si veda  in esse che delle manifestazioni fenomenali d'un ordine reale intelligibile. In questo gruppo è a segnalare il sottogruppo dei sistemi panpsichisti, nei quali, col dualismo dello spirito e della materia, viene soppresso il più profondo dei cangiaproprlelà per cui sogliamo distinguere le diverse sostanze secondo 11 giudizio Immediato del sansl, e dinamiche quelle che esse manifestano In  circostanze determinate, noi possiamo formulare il risultato delle nostre esperienze più familiari cosi: delie sostanze identiche nelle loro proprietà statiche non possono differire nelle proprietà dinamiche tranne In quelle che non potre')bero riguardarsi come caratteri differenziali nelle sostanze, quali sono quelle che sono una conseguenza della grandezza, della figura, della posizione  ecc.) Il concetto fondamentale della spiegazione meccanica, per cui essa si dlstlnijue dalla semplice sple^^azlone fisico-chimica, cioè l'identità essenziale di tutta la materia, sarebbe l'estensione di questa conclusione agli elementi della materia, dato li concetto moderno della materia, che sopprime tra le sostanze, materiali ogni differenza nelle qualità statiche. ]nienti della natura, e  perciò la più evidente contraddizione che il principio che l'essere non  può venire dal non essere incontra nell'esperienza. I sistemi monisti che risolvono tutte le cose in una sostanza unica, sempre identica a se stessa, sia che di questa sostanza facciano un che di spirituale, come Dio, l' Idea Hegel, la Volontà Schopenauer, l'Incosciente in cui sono associate la volontà e Fidea  Hartmann,  ecc.; sia che ne faccia-io un che di differente dallo spirito e dalla materia vale a dire da tutto ciò che conosciamo, come la Forza inconoscibile di Spencer, ehe egli si rappresenta come qualche cosa di cui le forme cangiano, mentre la sostanza resta sempre la stesa. Come si vede, noi impieghiamo qui il termine monismo in un senso più stretto di quello che esso ha il più abitualmente nella lingua filosofica, secondo il quale indica tutti quei sistemi che non ammettono la dualità dello spirito e della materia. In questo senso il monismo equiA^ale il più spesso sia all'ilozoismo sia alla dottrina dell'identità del fisico e del mentale: noi abbiamo già parlato di queste applicazioni del principio dell'immutabilità. La scienza obbiettiva non può spiegare ciò che noi chiamiamo il mondo esteriore senza riguardare i suoi cangiamenti di forma come delle manifestazioni di qualche cosa che rimane costante sotto tutte le forme Primi  principii. Qui Spencer non parla che dei cangiamenti del mondo esteriore: in quanto ai cangiamenti del mondo interiore, noi abbiamo visto che questi si distinguono fenomenalmente da quelli del mondo esteriore, ma realmente sono identici con essi cioè con quella parte di essi che costituiscono le condizioni fisiche dei fenomeni psichici. Il Realismo, che risolve le cose in un sistema di concetti realizzati, cioè di entità astratte e generali Platone, Spinoza, Schelling, Hegel, Taine, ^cc. Queste entità astratte e generali essendo ciò che vi ha di permanente e d'immutabile nella natura le leggi eterne e le forme eterne degli  esseri -e il cangiante, il particolare, essendo riguardato come Yapparenza obbiettiva di quest'Essere immutabile, la conseguenza del Eealismo è che l'essere non nasce né perisce e che non vi ha nel reale alcun cangiamento. Il Criticismo, Vi ha, secondo questo sistema, nella varietà delle nostre conoscenze, un elemento invariabile: è la forma stessa della  nostra conoscenza, che, nella sua  applicazione agli oggetti conosciuti, si manifesta come legge generale del mondo dei fenomeni. Quest'elemento invariabile della nostra conoscenza, che è ciò che vi ha di permanente nella scena perpetuamente cangiante delle apparizioni, è la forma inerente al soggetto stesso conoscente, la funzione invariabile per cui egli coordina la A^arietà delle impressioni sensibili. È evidente che,  secondo il criticismo, se la forma della nostra conoscenza fosse variabile, se le funzioni e la natura del soggetto conoscente cangiassero, Tordine della natura conosciuta sarebbe alterato, non vi sarebbe più in essa un corso uniforme. Così a questa quistione: perchè vi ha un ordine uniforme o delle le«roji costanti nei fenomeni? il criticismo risponde: perchè la forma di cui il soggetto  conoscente impronta gli oggetti conosciuti è sempre la stessa, perchè la natura di questo soggetto conoscente è costante. Facendo questa risposta, il criticismo applica non in verità il principio che l'essenza delle cose è immutabile ma un altro principio più fondamentale di cui  questo è la conseguenza, cioè che la persistenza degli oggetti nella stessa essenza o nelle stesse proprietà è una  cosa naturale e che si comprende da sé stessa, e che quindi può servire di base alla spiegazione dei fenomeni. Spiegando l'ordine uniforme o le leggi costanti dei fenomeni per la invariabilità della forma della conoscenza, e quindi per la costanza della natura del soggetto conoscente, esso suppone infatti che questa costanza, come, in generale, la persistenza di una cosa nella stessa natura  e nelle stesse proprietà, è un fatto che si comprende senza bisogno di spiegazione, e che perciò può servire d'intermediario esplicativo del fatto che ha bisogno di essere spiegato, cioè V esistenza di leggi costanti, di un ordine uniforme, nel mondo dei fenomeni, o delle apparizioni. A ciò che abbiamo detto potrebbe farsi un'obbiezione: il principio che la persistenza delle cose nelle stesse  proprietà è comprensibile mentre il cangiamento delle proprietà non lo è, non può applicarsi alle cose se non in quanto si concepiscono nel tempo questa persistenza non essendo che una permanenza nel tempo. Ma, nel criticismo, il tempo essendo una forma subbiettiva della nostra conoscenza, questo principio perciò non può applicarsi al soggetto conoscente, considerato come soggetto  e non come oggetto della conoscenza, cioè come semplice apparizione perchè questo soggetto, considerato in sé stesso, non è sottomesso alla condizione del tempo. La stessa obbiezione può farsi riguardo al gruppo antecedente cioè ai sistemi rea/isti] le Idee di Platone e di Hegel e le altre astrazioni realizzate congeneri essendo anch'esse al di fuori del tempo. La  risposta a quest'obbiezione  è che per la costituzione stessa della nostra intelligenza, è impossibile di formarci, come abbiamo spiegato nel Saggio, una rappresentazione rea/e del sovrasensibile, del non fenomenale. Ne segue che, mentre il metafìsico parla di cose non sottoposte al tempo e alle altre condizioni del sensibile e del fenomeno, è sotto queste condizioni nondimeno che egli è costretto in realtà a  rappresentarsele. L'analogia dalle sue rappresentazioni rea/i con le esperienze che sono le premesse della sua inferenza incosciente, basta a quest'assimilazione che costituisce la base e il valore esplicativo dei concetti metafisici. La nostra osservazione sul criticismo, che esso spiega l'uniformità dell'ordine della natura per la costanza delle proprietà del soggetto conoscente, si applica, meglio ancora che a Kant, ai sistemi posteriori di criticismo, nei quali l'elemento propriamente idealista del kantismo cioè l'attività, 1'efficienza causale, dell'intendimento e dei concetti puri nella formazione del mondo dell'esperienza è lasciato nell'ombra o è anche sparito, come in Renouvier, in Lange e in altri  filosofi p. e. Forrier che si riattaccano più o meno da vicino a Kant. In  questi sistemi non resta del criticismo originale che la dottrina. «•^  del doppio elemento della conoscenza, l'uno  nvariabile ed essenziale al soggetto conoscente, la forma cioè la legge, l'altro variabile ed avventizio; la materia cioè le sensazioni; e questa dottrina, destinata evidentemente alla spiegazione dei fenomeni, non potrebbe spiegare, come il criticismo originale, che perchè i  fenomeni non si succedono all'azzardo, ma vi ha in essi un ordine stabile ed uniforme. Fra i sistemi a cui abbiamo accennato, ve ne ha alcuno nel 1*^ gruppo atomismo metafìsico che merita un'attenzione particolare. Tale è sovratutti quello di Herbart. Non vi ha forse nella filosofìa moderna un altro sistema che porti cosi spiccatamente l'impronta del sofisma a priori che studiamo in  quest'Appendice. Grli elementi ultimi delle cose non sono per Herbart degli atomi fisici la materia della fìsica non essendo per lui che un'apparenza, un fenomeno subiettivo ma essi sono calcati della maniera più evidente sul concetto dell'atomo fisico. Herbart chiama il suo sistema un atomismo qualitativo^perchè le qualità semplici che costituiscono gli esseri. i quali sono qualitativamente differenti e non omogenei come gli atomi vi tengono il posto dei frammenti indivisibili di materia dell'atomismo. L'essere di Herbart è assolutamente semplice: non solo esso è senza estensione ed indivisibile, ma non vi ha in esso una pluralità 'di proprietà; un reale non ha che una qualità, o, a parlar propriamente, non è che una qualità unica e semplice. Le sostanze  ^qualità di Herbart  sono, come le sostanze materiali degli atomisti, assolutamente immutabili: non vi ha nel reale alcun cangiamento interiore, in altri termini niente cangia negli elementi considerati in se stessi; il cangiamento, ciò che accade, non è che un cangiamento nei rapporti degli elementi, nella loro disposizione, o, come dicono gli herbartiani, nel loro collegamento. Quando il meccanismo vuol  ridurre tutti i cangiamenti al Cangiamento dei rapporti nellospazio GRICE ACTIONS EVENTS WRIGHT, la più grave difficoltà è per esso di rendere conto dei cangiamenti interni che deve riconoscere in alcuni esseri, cioè i fenomeni psichici: un meccanismo rigoroso non indietreggia innanzi alla conseguenza che questi fenomeni sono anch'essi movimento, per quanto questa  proposizione sia evidentemente inintelligibile. Ln stessa difficoltà si presenta nel sistema di Herbart, ma d'una maniera più ge La sostanza vale a dire ciò che vi ha di permanente nelle cose non è, nel concetto coniuno, che l'esteso, ciò che persiste nello spazio: Herbart toglie al reale l'estensione, ma fa delle sue qualità delle sostanze, vale a dire attribuisce loro quella permanenza assoluta che ordinariamente non si attribuisce che a ciò che occupa lo spazio e in quanto occupa lo spazio. Una conseguenza di questa trasformazione di qualilà inestese in Hontanse è che la coesistenza di più (jualità in un essere é impossibile. Una qualità, riguardata come un che di assolutamente permanente, è già supposto d'altronde che essa possa concepirsi per se stessa una sostanza: di più noi non possiamo concepire che una di questo qualità inerisca in un'altra o tutte e due ineriscano in un soggetto comune, poiché noi non possiamo rappresentarci altrimenti la coesistenza di più qualità p. e. odore, sapore, calore non sono le qualità di Herbart, ma il sovrasensibile non può modellarsi che sul sensibile in uno stesso soggetto, se non rappresentandocele come inerenti tutte  egualmente in une stesso esteso. I»«  fi' ■«•4 nerale. Non solo egli ammette ciò di cui non potrebbe fare a meno degli stati interni nella monade anima, ma tutte le monadi, tutti i reali, hanno secondo lui degli stati interni, i quali ci sono sconosciuti nella loro natura, ma che, come osserva Lotze, non bisogna credere molto dissimili da quelli dell'anima. È da questi stati interni, da questa attività interiore delle monadi, che derivano i cangiamenti delle cose nello spazio. Questo concetto non deve sorprenderci in un sistema din^mista quale quello di Herbart: noi vediamo in esso un altro osempio di questo vago antropomorfismo che abbiamo più volte segnalato in cèrti concetti metafìsici, e il cui germe si trova già nell'idea comune della forza nel senso trascendente di  questo termine. Supponendo degli atti interni anche negli elementi della materia, di cui egli ammette uon pertanto l'assoluta immutabilità, Herbart non introduce una contraddizione nuova nel suo -sistema questa esiste dacché  la coscienza ci obbliga a riconoscere in noi stessi dei cangiamenti interiori ma non fa che generalizzarla. Herbart pretende che gli stessi cangiamenti negli stati  interni delle monadi non sono che semplici cangiamenti nei rapporti fra di esse, nel loro collegamento, come il meccanista conseguente pretende che la sensazione e il pensiero non sono che movimenti degli atomi. La conseguenza rigorosa del principio di Herbart che non vi ha, nell'essere reale considerato in se stesso, alcun cangiamento possibile, sarebbe di non accordare al  caniriamento, almeno al cano;iamento interno, che un valore puramente fenomenale^di non vedervi, come i VELINI, che una semplice apparenza della stessa maniera che il priniùpio del meccanismo che ogni cangiamento, e quindi anche il pensiero, si riduce al movimento di elementi immutabili in se stessi, condurrebbe a nen vedere nel pensiero che un'apparenza illusoria del  movimento. È così che talvotta è stata interpretata la dottrina di Herbart; ma tale non è veramente il suo pensiero. Egli non nega che i cangiamenti interni siano reaU,, ma afferma al tempo stesso ciò che contraddice a questa proposizione che tutti i cangiamenti si riducono a quello della relazione tra gli esseri. Una cosa, egli dice, può cangiare, per la sua relazione con altre cose, senza  cangiare in se stessa: così una stessa nota musicale può essere giusta o falsa, secondo i rapporti in cui si trova con altre note; una stessa retta è una tangente relativamente ad un cerchio, e diviene una secante relativamente ad un altro cerchio. A questo concetto inintelligibile, che gli stati in terni delle cose non esistono assolutamente, ma non sono che semplici relazioni fra queste cose,  si riati^acca pure la dottrina delle perturbazioni e degli atti di conservazione di sé, per cui Herbart pretende di ri' solvere il problema della possibilità del cangiamento. Gli stati interni delle monadi, come le  rappre Psicol, flsiol, trad. frane, Diz, fllos. di Frank, artic. Herbart. sentazioni dell'anima, sono degli atti di conservazione di sé di questi monadi, per cui esse reagiscono contro le  pertubazioni prodotte da altre monadi. Quando due monadi, aventi qualità contrarie, s'incontrano a uno stesso punto, nasce fra di loro un'opposizione, una lotta, essendo impossibile la coesistenza di qualità contrarie: ciascuna monade resiste all'invasione dell'altra, fa uno sforzo per conservarsi quale essa è, cioè nella sua propria qualità. Questa mutua opposizione importa in ciascuna delle due monadi una passione è la perturbazione e un'azione è Tatto di conservazione di se. La periurbazione può panigonarsi a una pressione, la conservazione di se a una  resistenza. Pressandosi o turbandosi reciprocamente, ciascuna delle due monadi eccita V altra alla resistenza, a uno sforzo di conservazioiie di se: ma le due sostanze, con tutto ciò, non provano alcun mutamento; come, pressando l'uno contro Taltro due atomi, ciascuno si opporrebbe all'invasione dell'altro, manifestando la sua forza di resistenza, ciò che sarebbe uno sforzo contro lo sforzo contrario tendente a comprimerlo, ma senza che perciò i due atomi cessassero un istante di restare nel loro stato invariabile. Come dal rapporto particolare in cui gli atomi sono posti, nasce questo sforzo di  resistenza di ciascun atomo, che è un avvenimento ma che non importa alcun cangiamento reale nell'atomo stesso, non essendoA^ stato in realtà altro cangiamento che nella posizione reciproca dei due atomi, cioè in una loro relazione; così dal rapporto particolare in cui le monadisono poste, nasce l'atto di consei'vazione di sé di ciascuna monade, che è un avvenimento ma che non  importa alcun cangiamento reale nella monade stessa, non essendovi stato in realtà altro cangiamento che nelle relazioni, nel collegamento, delle monadi. Ciò che vi ha di particolare nel sistema di Herbart, ciò che mette questo sistema in contrasto con la concezione meccanica, e che diffonde su di esso un'oscurità a cui non è comparabile quella che può trovarsi in alcuni punti della  concezione meccanica, è l'unione di questi due punti di vista incompatibili, quello dell'assolufa immutabilità della sostanza e quello della sua attività interiore, in altri termini, di un concetto dinamico e di un concetto meccanico che riduce tutti i cangiamenti del reale ài cangiamento nelle relazioni tra le unità costitutive. La stessa unione di questi due concetti si trova nel sistema del  filosofo siciliano NON ITALIANO CORICO (vedasi), che fu senza dubbio un pensatore distinto, e merita anch'egli di essere ricordato. Il concetto fondamentale di Corleo è ciò che egli chiama la rettificazione dell'idea di sostanza. Bisogq^ rigettare l'idea conmune che vede nella sostanza qualche cosa di uno e al tempo stesso di multiplo:  la sostanza reale non è il soggetto d'inerenza  di una pluralità di fenomeni accidenti, non è qualche cosa che ha la potema di fare successivamente degli atti differenti, di ricevere successivamente delle modificazioni diverse. Una sostanza semplice non racchiude alcuna potenza: la sostanza non è che atto, sempre lo stesso atto, un atto identico ed invariabile. La rettificazione dell'idea della sostanza consiste dunque nel togliere alle  sostanze reali, agli elementi ultimi delle cose, qualsiasi mutamento, qualsiasi successione di stati, qualsiasi moltiplicità. Ma la sostanza, quantunque immutabile come Fatomo, non bisogna perciò concepirla come 1'atomo dei fisici. Prima di tutto la sostanza è assolutamente indivisibile, senza parti, senza estensione  la divisibilità all'infinito della materia essendo un'idea contraddittoria:  inoltre essa differisce ancora dall'atomo, quale lo concepiscono i fisici, perchè mentre questo è un che di passivo e d'inerte, il cui attribuito non è che la sua proprietà di occupare uno spazio, e la cui realtà non è che la sua presenza nello spazio; al contrario la sostanza reale è essenzialmente attiva, l'attività essendo 1'essenza stessa dell'essere reale. A parlar propriamente, non vi hanno  due cose, la s(>stan>'<a  e la sua azione – GRICE: HE WAS IN JAIL ALL DAY, DOING NOTHING --:  1'azione non si distingue dalla sostanza, sostanza ed azione sono due termini equipollenti; l'essere reale è un^n^ione sostantiva o una sostanza^azione. 11! azione non bisogna concepirla come una modificazione della  sostanza ^n vi hanno modificazioni nella sostanza ^ come una  seccessione di stati; ma come lo stato immanente, sempre lo stesso, della sostanza. La contraddizione tra il concetto dinamico, e il concetto meccanico dell'assoluta immutabilità dell'essere ehe nel sistema di Herbart si manifesta come contraddizione tra il concetto di  un essere senz' alcun cangiamento interiore e quello di una moltiplicità di stati di cui quest'essere è successivamente il  soggetto qui prende un'altra forma: l'aziono, che noi non possiamo rappresentarci altrimenti che come un cangiamento, una successione, è concepita come uno stato permanente, immutabile. L'idea della semplicità assoluta della sostanza assenza di ogni moltiplicità interiore, che Corleo ha in comune con Herbart, deriva, per il primo, come per il secondo, dai due concetti riuniti dell'assoluta immutabilità della sostanza che esclude il moltiplico come successivo  e della sua inestensione e indivisibilità che lo esclude come coesistente. Lra sostanza essendo assolutamente invariabile, come si deve comprendere dunque 1'esistenza del fenomeno, cioè del variabile, nella natura? È la concezione meccanica naturalmente che offre il tipo su cui Corleo modella la  spiegazione del cangiamento. Ogni cangiamento non è che un cangiamento nelle relazioni, nella posizione reciproca degli elementi, ciascuno di questi in se stesso restando invariabile. Non bisogna credere che gli elementi per il loro concorso possano mai produrre qualche fenomeno nuovo, che sia qualche cosa di più o di diverso che la somma delle proprietà degli elementi stessi: il  rapporto tra il fenomeno, vale a dire ciò che esiste d'una maniera transitoria, e la sostanza, vale a dire ciò che esiste d'una maniera permanente, è il rapporto tra il composto e il semplice, tra W.piìi e Viino, La sostanza è un'azione semplice, un'azione sostantiva; il fenomeno è un'azione composta, un insieme di azioni sostantive o di sostanze azioni. È la composizione che muta e passa,  non i singoli atti sostantivi che sono sempre gli stessi. Ciò si ai3plica al pensiero: esso non è una serie di modificazioni di una sola sostanza ciò che sarebbe incompatibile, con rimmutabilità della sostanza ma è una azione composta di quest'azione sostantiva che noi chiamiamo anima, e delle azioni sostantive che noi chiamiamo elementi materiali; esso cangia e si muta^perchè il  composto cangia e si muta, per Paddizione,^ sottrazione, o trasposizione degli elementi. La sostanza, lo sappiamo, non è per Corico come un atomo, inattivo in se stesso, e che può, sotto l'azione di forze a lui straniere, manifestare successivamente forme differenti di attività: al contrario, la sostanza è per essenza attiva, e quest'attività è immutabile, costituendo l'essenza stessa della  sostanza. Ne segue che il contingente, per dir così, di azione, che esiste nel mondo, è quantitativamentee qualitativamente invariabile: le azioni possono comporsi, decomporsi, ricomporsi in aggregati differenti, ma ciascuna delle azioni elementari, cosr bene che il loro totale esistente nel mondo, restano sempre invariabili. La natura, considerata nei suoi stati successivi, è sempre, al  fondo, identica; non soltanto identica come il mondo degli atomisti, composto sempre degli stessi atomi, ma identica ancora in quanto le azioni elementari, e quindi anche le azioni composte, cioè i fenomeni, dello stato antecedente, sono sempre identiche, al fondo, a quelle dello stato susseguente. In altri termini, vi ha identità tra i fenomeni antecedenti e i fenomeni conseguenti, tra le  cause e gli effetti: l'effetto, il conseguente, non è che la somma delle sue cause – GRICE REBEL WITHOUT A CAUSE --,  dei suoi antecedenti, ed è identico con esse. Se la causa e l'effetto ci sembrano due cose differenti – those spots mean measles, those spots ARE measles --,  è che noi, per una sorta di sezione arbitraria, stacchiamo\ dall'insieme una delle condizioni del fenomeno,  e la consideriamo come causa del fenomeno, senza tener conto delle altre concause che con essa contribuiscono al  risultato: ma e tutte le cercassimo e le ponessimo sotfc'occhio,  l'identità dell'effetto totale con tutte le concause che lo producono e lo fanno essere quel che è, risulterebbe evidentemente. Vi ha tra il sistema di Corico e quello di Herbart una somiglianza si colpente, che si  è creduto di vedere nel primo un plagiario del secondo: la supposizione di un legame tradizionale, per ispiegare i punti di contatto tra i sistemi, s'impone, quando si vede nei concetti  metafìsici qualche cosa di fortuito e di arbitrario. Ma noi sappiamo che la metafisica è un tatto naturale dell'intelligenza umana, e che il metafisico, anche nei suoi concetti i più apparentementi lontani dal  pensare comune, non fa che sviluppare certi germi che tutti gli spiriti naturalmente portanoin se stessi. I tratti comuni tra Herbart e Corico si spiegano, io credo, sufficientemente, senza bisogno di supporre che questi li abbia imprestati da quello. La dottrina della semplicità assoluta della sostanza risulta, come abbiamo notato, dai concetti della sua immutabilità e della sua inestensione e indivisibilità: questi costituiscono il carattere comune dell'atomismo metafisico che, come vedremo, è una delle forme naturali che prende il realismo nella sua inevitabile evoluz ione; quello è, come abbiamo visto, un prodotto di questa tendenza naturale del nostro spirito che costituisce la base ultima della metafisica a ricondurre tutti i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari.  Questa tendenza spiega, nel tempo stesso che il concetto delPimmutabilità della sostanza, quello di ridurje il fenomeno, il variabile, al cangiamento dei rapporti tra le sostanze: il tipo per questi concetti era per altro esibito dalla teoria meccanica. La dottrina dell'identità della causa dell'effetto che noi abbiamo già  incontrato in Corleo ci fornirà Tultimo esempio del sofisma a priori che  studiamo in quest'appendice, applicato a una concezione generale dei fenomeni.  Questa dottrina non bisogna confonderla né col principio di alcuni filosofi, che il simile non può agire che sul simile, né con l'altro, più analogo che la causa deve essere simile all'effetto. Questi due principii sono delle generalizzazioni eccessive dell'esperienza, assai comprensibili in uno stadio primitivo  della ricerca scientifica; ma non potrebbero riguardarsi come concezioni metafìsiche, se si vuol dare a questa parola un senso definito. Mancano ad essi l'uno e l'altro dei tratti generali che caratterizzano le concezioni metafìsiche; essi non sono, come la dottrina stessa dell'identità della causa e dell'effetto, delle nozioni irrappresentabili o implicanti delle impossibilità intrinseche; e, quel  ch'è più, non sono nemmeno il prodotto di alcuna di queste tendenze spontanee^e quasi fatali, dello spirito umano, che noi chiamiamo con MORE GRICE TO THE Mill sofismi a priori. Al contrario, la dottrina dell'identità della causa e dell'effetto si riattacca della maniera più evidente a queste tendenze spontanee dello spirito di cui la principale é quella che ci spinge a ricondurre tutti  i fenomeni a quelli che ci sono i più familiari, non essendo che uno degli sviluppi più estremi del principio che il reale é nella sua essenza invariabile, o, come dicevano gli antichi fisici, che l'essere non può venire dal non essere né ridursi al non  essere. Ascoltiamo Hamilton: Quando noi  apprendiamo^ egli dice, che una cosa comincia ad esistere, noi siamo costretti dalle leggi della  nostra intelligenza a credere ch'essa ha una causa. Ma che vuol dire quest'espressione: avere una causa? DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE Se analizziamo il nostro pensiero, troveremo che ciò significa semplicemente che, poiché noi non possiamo concepire il cominciamento d'una nuova esistenza, bisogna che tutto ciò che si vede apparire sia esistito prima sotto un'altra forma. Noi siamo affatto incapaci di concepire che il contingente d'esistenza possa aumentare o diminuire. Da una parte noi siamo incapaci di concepire che niente divenga qualche cosa^ e d'altra parte che qualche cosa divenga niente. L'aforisma: ex niliilo nihil, in nihiliim nil posse reverti, esprime nella sua forma più netta il fenomeno intelletuale della causalità. Si  concepisce dunque che un effetto e le sue cause sono una sola e stessa cosa THOSE SPOTS ARE MEASLES. Noi crediamo che le cause contengono tutto ciò che è nell'effetto, e che l'effetto non racchiude  niente di più che ciò che era contenuto nelle cause. Omnia mutantnr, niìiil interit, é questo quello che noi pensiamo, che noi dobbiamo pensare. È là il fenomeno mentale della causalità: noi neghiamo necessariamente che la cosa che sembra cominciare ad assere cominci in realtà; e identifichiamo necessariamente là sua esistenza presente con la sua esistenza passata. Questa idenitficazione dell'esistenza poesente della cosa  che sembra cominciare ad essere con la sua esistenza passata consiste ad ammettere che, come dice l'autore, le cause continuano sempre ad esistere attualmente nei loro effetti, e che un effetto non è niente di più che la somma o totalità di tutte le cause parziali di cui il concorso costituisce la sua esistenza. La dottrina della causalità di Hamilton ha la adesione di Spencer. Io penso, egli  dice, d'accordo in ciò con Hamilton, che la nostra credenza alia necessità delle cause viene dalla nostra impotenza a concepire un accrescimento o una diminuzione  La dottrina di Hamilton contiene due proposizioni che bisogna distinguere: Tuna ha una portata ontologica, e afferma l'identità della causa e dell'effetto; l'altra ha una portata psicologica, e afferma che il principio di causalità    che Hamilton riguarda, non come un'acquisizione dell'esperien/a, ma come una legge o una necessità del pensiero si deduce da un principio o da una necessità del pensiero più primordiale, cioè l'impossibilità di concepire die l'essese venga dal non essere. Di queste due proposizioni, la prima è una concezione metafìsica, nel senso più rigoroso della parola essa è un prodotto di una  tendenza spontanea e generale, di un sofisma a priori DECAPITATION WILLED REBEL WITHOUT A CAUSE, dello spirito umano; la seconda non potrebbe riguardarsi, secondo me, come una concezione metafìsica propriamente detta, noi sei:.so rhe non può  riattaccarsi alle tendenze generali sofìstiche a priori del nostro spirito, quantunque il suo punto di partenza, l'apriorità del  principio di causalità; sia un prodotto del sofisma a priori xaT^  è^OXYjV  della  psicologia, di cui diremo in questo Saggio, e perciò una vera dottrina metafìsica. La pretesa deducibilità del principio di causalitl dall'inconcepibilità di un cominciamento assoluto dell'essere ha lo scopo di ricondurre la legge mentale della causalità a una legge più generale, quella del condizionato, che è  secondo Hamilton la legge fondamentale dell'intelligenza, e consiste a stabilire che il solo concepibile è il condizionato, e questo sta fra due incondizionati egualmente inconcepibili, che sono 1'uno l'illimitato e l'altro l'incondizionalmento dell'essere considerato nella sua totalità. Cosi nei Primi prindpii egli deduce il principio di causalità da quello della persistenza della forza cioè dell'immutabilità della quantità del reale, dedotto, alla sua volta, dall'impossibilità di concepire che il niente diventi qualche cosa o qualche cosa niente. Ricordiamo infine la dottrina di Lewes. L'effetto e la causa non si distinguono che logicamente. Un fatto è identico alle sue condizioni e non è niente di sovraggiunto ad esse. Non vi hanno due cose da una parte un grnppo di condizioni  cause e d'altra parte un risultato effetto ma una sola e stessa cosa vista differentemente. Ciò che noi chiamiamo le condizioni di un fatto sono i fattori analitici che noi abbiamo scovorti nel fatto: questi fattori, considerati analiticamente, si chiamano cause; la loro limitato rincondizionalmente limitato sarebbe un tutto assoluto, limitato, che non fosse una parte di uu tutto più grande come dovremmo  concepire l'essere, se potessimo concepire un cominciamento assoluto, ovvero una parte assoluta, che non fosse divisibile in parti minori  V.  nei Frammenti tradotti da Peisse Filosofia deW assoluto. La legge del condizionato è, come si sa, la dottrina che dà un carattere personale alla filosofia di Hamilton. Cosi la sua deduzione del principio di causalità dalla legge acl  condizionato é un esempio utile a mostrare che sofisma a j^riori e sofisma naturale non sono due termini perfettamente equivalenti. Facendo questa deduzione, Hamilton fa un'applicazione troppo estesa d'una sua idea favorita: questo ó un sofisma naturale, ma non è un sofisma a priori come quelli su cui è fondata la metafìsica, perchè non dfi luogo a delle conclusioni che s'impongono  al nostro spirito come verità evidenti per se stesse. Saffffi scientifici, Obbies, e risp, sui primi principii, Conclas,  // conoscibile Obbies, e risp, sui pr, princ, Conclns, somma, considerata sinteticamente, si chiama effetto. La teoria dell'identità della causa e dell'effetto fa riscontro alla teoria d'Eraclito dell'identità dei contrari. Se noi facciamo astrazione del modo in cui viene concepita la  legge del divenire che il filosofo antico si rappresenta come un passaggio continuo da uno stato al suo stato opposto, mentre i filosofi moderni se la rappresentano per l'idea più scientifica di un rapporto definito tra ciascun cangiamento e dei cangiamenti antecedenti determinati legge della causalità le due dottrine si riducono egualmente  a questa proposizione,  GRICE ACTIONS AND EVENTS BECOMING che il reale divenendo incessantemente altro, resta nondimeno costantemente Io stesso, cioè che il diverso è identico, che il cangiamento non è un cangiamento. È per altro a questa formula, a questa contraddizione nei termini, che arrivano egualmente tutti gli sviluppi più estremi del sofisma  r//?m;7 che fa l'argomento di quest'appendice, la dottrina dei VELINI,  dei Vedantini. di Bruno, dei filosofi realisti nel senso degli scolastici, che riduce il cangiamento ad un'apparenza, non meno che la dottrina dell'identità degli opposti o quella dell'identità della causa e dell'effetto se il cangiamento è un'apparenza, Fapparenza di una realtà immutabile, il can-^ giamento è dunque in realtà un non cangiamento^ il diverso l'identico. Ciò che diciamo della  dottrina dell'identità  della causa e dell'effetto può pure naturalmente riferirsi alFapplicazione particolare di questa dottrina ai fenomeni psichici l'identità del fisico e del mentale; anche qui pretendendosi identificare dei termini che non possiamo rappresentarci che come essenzialmente ed assolutamente differenti. Forse si dirà che se la dottrina dell'identità della causa e deireffetto, presa  alla lettera, non è che una flagrande contraddizione, ciò prova semplicemente ohe questa dottrina non deve intendersi nel senso rigorosamente letterale. Ma se noi non cerchiamo in questa proposizione che dei concetti perfettatamente intellegibili, non tardiamo ad avvederci che la proposizione non è, in questo caso, suscettibile di un senso qualsiasi. Quando si dice che la causa e l'effetto  sono la stessa cosa, che la causa continua ad esistere nell'effetio, noi dobbiamo intendere per le parole cause DECAPITATION WILLED ed effetti i cangiamenti del reale poiché la legge della causalità non è che la legge dei cangiamenti. Ora è assurdo di attribuire la persistenza a dei cangiamenti, di dire con Hamilton ^-he la cosa che noi vediamo esistere attualmente come effetto non  comincia ora ad esistere, ma è già esistita prima come causa di quest'effetto. Se questa persistenza, che la dottrina dell'identità della causa e dell'effetto attribuisce alle cause e agli effetti, noi vogliamo limitarla a questo elemento del reale che noi possiamo effettivamente rappresentarci come persistente, allora noi non ammettiamo più in alcun modo un'identità tra le cause e gli effetti,  poiché la legge della causalità non si applica all'elemento persistente, ma all'elemento cangiante del reale. E' l'obbiezione di MORE GRICE TO THE Mill contro Hamilton. Hamilton, dice MORE GRICE TO THE Mill, scambia l'uno per l'altro due dei quattro sensi distinti che la parola causa ha nella filosofia peripatetica la causa materiale e la eausa efficiente: nei suoi esempi egli  mostra che un composto è identico ai suoi elementi materiali; ma gii elementi non sono le cause del composto, perchè la legge della causalità non si applica alla materia, ma ai suoi cangiamenti, e perciò le cause sono le azioni che hanno determinato una nuova posizione degli elementi, e l'effetto la nuova posizione di questi elementi. In favore della dottrina dell'identità della causa e  dell'effetto potrà invocarsi la teoria della persistenza e trasformazione dell'energia. È press'a poco in questo senso che Bain dice che Hamilton ha dato, per la legge di causalità, una formula che equivale esattamente al principio di conservazione dell'energia. Si può dire, continua Bain, che egli ne ha scoverto il primo l'espressione  E in So si ammetto la teorÌB. atomica o aXmQno  molecolare déìÌRxniK' teria, l'elemento persistente del roale, che resta fuori del dominio della legge di causalità, sarà un che di qualitativamente invariabile di cui non cangiano che i rapporti spaziali tra le sue parti; e, considerando il mondo dal punto di vista obbiettivo, tanto gli effetti fjuanto le cause non saranno che dei cangiamenti di posizione. Se invece si respingesse questa sostanza   qualitativamente invariabile come nn prodotto dei sofismi a priori del nostro suirito, allora l'elemento persistente del reale si parla naturalmente della realtà fìsica non avrebbe altro d'invariibile che U massa, cioè, al fondo, la costanza con cui la stessa materia riceve la stessa velocità dall'. izione di forze eguali. Ma che vi siano nella materia dei cangiamenti qualitativi o interiori, come  in quest'ipotesi, o che tutti i cangiamenti della materia siano puramente esteriori e si riducano al cangiamento di posizione, resta sempre che è ai cangiamenti, e non a ciò che permane durante i cangiamenti, che si applica la legge della causalità, e quindi i termini di causa e d'effetto. Log,  I fatti, tutti i cangiamenti della materia ridicendosi a delle forme dell'energia, e l'energia non  creandosi né annichilandosi mai, sembra che cosi potrebbe darsi un soxiso intelligibile all'affermazione che la causa continua ad esistere nell'effetto, ed è identica all'effetto. Non vi ha dubbio che questo concetto non sia uno dei fondamenti della dottrina, se non nel pensiero di Hamilton, in quello degli autori posteriori. Ma per istabilire la dottrina sul principio della conservazione e  trasformazione dell'energia, è necessario di comprendere questo principio in un senso trascendente, metaempirico. Al punto di vista empirico, questo principio non fa che stabilire dei rapporti quantitativi definiti tra i fenomeni: per la costatazione di questi rapporti questi fenomeni non hanno cessato di essere distinti e differenti gli uni dagli altri. Quand'anche si ammetta la teoria dell'unità  delle forze fisiche nel senso non trascendente, cioè quello secondo cui tutte le azioni fisiche vengono ridotte alla trasmissione del movimento per l'impulsione, siccome il movimento, nella sua circolazione incessante nella materia, cangia continuamente, non solo per questo mutamento del suo su strato meteriale, ma nella velocità, nella direzione, in tutte le qualità per cui un movimento può differire da un altro movimento; cosi non si potrebbe dire, anche in quest'ipotesi, che i movimenti antecedenti le cause sono una sola e stessa cosa eoi movimenti conseguenti gli effetti. Per affermare che, nella trasmissione e trasformazione dell'energia, vi ha qualche cosa che persiste sempre la stessa, bisognerà fare della forza un quid di sostanziale, di cui non cangia che la forma    prendendo alla lettera la parola trasformazione^come se si  trattasse d'un oggetto materiale e l'associazione con una porzione determinata della motoria. Ma \\\questo caso si abbandonerà il dominio del sensibile e del rappresentabile al di fuori del quale sarebbe evidente per tutti che non vi ha niente d'intelligibile, se non fosse questa tendenza fatale che spinge lo spirito umano ad  oltrepassare l'esperienza tendenza di cui noi cerchiamo l'espressione generale e la spiegazione psicologica -.Di più, se noi ammettiamo questa sostanza forza, che migra di corpo in corpo, e prende successivamente delle forme differenti, la forza entrerà, con la materia, a far parte di questo elemento persistente del reale, a cui non si applica la legge di causalità; la legge di causalità, e i  termini cause ed effetti, non sarebbero applicabili a ciò che della forza è sempre identico, alla sostanza, ma a ciò che di essa passa e si muta, ai cangiamenti della sostanza trasmigrazioni, trasformazioni, ecc.; sicché ne anche allora si riuscirebbe a dare un senso alla proposizione che le cause sono una sola e stessa cosa coi loro effetti, che vi ha identità fra questi e quelle. Sembra dunque  vano ogni sforzo per rendere intelligibile la proposizione. Noi non possiamo, relativamente a questa dottrina, che ripetere press'a poco un'osservazione che abbiamo fatto relativamente alla dottrina dell'identità degli opposti di Eraclito. Essa non contiene la soluzione di una quistione, ma il postulato che la quistione è solubile, il postulato, cioè, che, quantunque il principio a priori vale a  dire ammesso in virtù delle tendenze spontanee della credenza che il reale è in sostanza invariabile, che non vi ha mai nelle cose un cangiamento assoluto, essenziale, sembri e sia effettivamente, per noi in contradizione coi cangiamenti dati dall'osservazione; nondimeno i fatti dell'osservazione devono necessasiamente conciliarsi col principio, che è evidente per se stesso;  e che questa conciliazione suppone la possibilità  d'identificare i cangiamenti successivi della natura coi cangiamenti con cui hanno una relazione costante. Ma la dottrina non ci mostra come la conciliazione sia possibile: questa identificazione, che si suppone come una condizione per ottenerla, è irrealizzabile nel pensiero. Se noi la prendiamo alla lettera, lungi di risolvere la contraddizione, essa  non fa che darle una forma più palpabile: se ci rifiutiamo a prenderla alla lettera, noi cerchiamo inutilmente quale possa essere il senso definito che si debba annettere alla proposizione. Il concetto deiranima. Parlando dell'animismo primitivo, abbiamo visto che in esso^ col concetto dell'animazione della natura – THOSE SPOTS NATURALLY MEAN MEASLES --,  o, più generalmente,  con l'assimilazione delle forze della natura alla nostra attività umana, è implicato il concetto della dualità, della distinzione di duo sostanze, neir uomo e nelF essere animato. Questo secondo elemento della metafisica dell'uomo primitivo restò allora senza spiegazione: ma ora siamo in grado di ricercare quale sia il suo rapporto con le tendenze naturali dello spirito umano da cui derivano  generalmente i concetti della metafisica. È evidente che se vi ha una dottrina a cui convenga il nome di metafisica nel senso definito in cui noi intendiamo la parola GRICE STRAWSSON PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS, comprendente il concetto che la dottrina ha la sua base nella costituzione stessa della intelligenza umana questa è senza dubbio la dottrina animista  come ipotesi sulla natura degli esseri animati, che noi incontriamo in tutti i luoghi, in tutte le epoche, in tutte le razze, in tutti i gradi dello sviluppo della cultura. Questa considerazione deve farci rigettare quelle spiegazioni dell'idea à^Wanima che ne cercano l'origine, non in un lato permanente dello spirito umano, ma in un certo stato intellettuale dell'umanità preistorica, che per noi,  uomini attuali, è un mondo interamente scomparso, e che noi diflìeilmente potremmo oggi riprodurre in noi stessi, GRICE CAN!  anche in immaginazione. Tale è la spiegazione di Spencer, secondo la quale Tidea dell'anima è nata dalla interpretazione, grossolana e infantile, che l'uomo primitivo da di certi fenomeni, sovratutto le ombre e le immagini viste, per esempio, nell'acqua NARCISSO e le rappresentazioni del sogno. Spencer, partendo dal fatto che alcune popolazioni selvagge identificano l'anima con l'ombra del corpo umano o con la sua immagine, ammette che l'uomo primitivo, scambiando questi fenomeni per oggetti reali, ne conclude che ciascun essere ha un duplicato. I fenomeni del sogno confermavano e danno una forma più definita a questa  concezione di un doppio, di un altro sé dell'uomo; Tuonio primitivo ò incapace di distinguere il subbiettivo e Tobbiettivo; non avendo ancora ridea di un mondo interiore, egli realizza necessariamente i suoi sogni. Cosi, non solo le immagini viste nel sogno sono per lui i duplicati degli esseri reali conosciuti nella veglia, ma egli suppone che, mentre 1'uomo è immerso nell'immobilità  del sonno, l'anima, il duplicato che è la stessa cosa che, l'ombra o l'immagine va vagando qua e là, facendo le azioni e visitando i luoghi che gli appariscono nel sogno. Per conseguenza, quando l'individuo è in uno stato momentaneo d'insensibilità di sincope, di apoplessia, di catalessi l'uomo primitivo crede che l'altro se siasi momentaneamente assentato: questa stessa assenza dell'altro  se, prima creduta temporanea perchè l'uomo primitivo, secondo Spencer, comincia per isperare nella resurrezione poi definitiva, spiega l'insensibilità della morte. Ora, ammettendo che questo sia il processo psichico da cui è risultata primitivamente l'idea dell'anima processo che non potrebbe concepirsi se non nello stato selvaggio il più estremo come spiegare la persistenza dell'animismo,  quando non si tratta più delle razze inferiori e del grado infimo dello sviluppo della civiltà? Secondo l'ipotesi di Spencer e le altre analoghe sull'origine della teoria animista, questa non potrebbe essere, nelle razze pervenute a un certo grado di sviluppo intellettuale io non dico semplicemente negli attuali popoli inciviliti che la sopravvivenza, dovuta a una cieca tradizione, di una vecchia  idea non più adattata al nuovo ambiente intellettuale; una superstizione nel senso dell'etimologia che alcuni, al punto di vista dei concetti moderni, assegnano a questo termine ciò che persiste delle antiche  eià'^ in una parola, una specie di organo rudimentario neir organismo sociale. Ma noi non possiamo considerare la dottrina animista, nei popoli inciviliti, ed anche nei popoli barbari,  come un semplice organo rudimentario: l'energia vitale di questa dottrina, la sua influenza, dimostrano che la sua forza deriva da un'impulsione attuale, e non da un'impulsione già una volta ricevuta, e il cui effetto per Principii di socioì*. I »-^siste per un'inesplicabile inerzia dello spirito umano. Forse si dirà che nei popoli pervenuti a una eerta maturità, o piuttosto che hanno sorpassato  il cerchio d'idee della prima infanzia, la base delFanimismo non è più nelPintelligenza, ma nel sentimento soltanto: ma allora sarebbe stato più coerente di assegnare lo stesso fondamento anche all'animismo primitivo. Spencer e gli altri pensatori che studiano le idee di quest'ordine al punto di vista antropologico^hanno ragione, io credo, di considerare l'animismo come una vera teoria  filosoflctty cioè come un'ipotesi destinata sovratutto a rendere conto dei fenomeni: quantunque 1' uomo sia certamente portato a realizzare le sue speranze e i suoi timori, questa tendenza del nostro spirito non basterebbe per sé sola a spiegare l'origine delle credenze umane, la speranza e il timore stessi supponendo che l'intelligenza ha qualche motivo per ammettere 1'esistenza o la  verisimiglianza di ciò che si spera o si teme. Ma se si ammette che l'idea delFaninia è un concetto filosofico allo stesso titolo che l'altro elemento della teoria animista, cioè la concezione antropomorfistica della  natura, non si può considerare l'animismo dei popoli pervenuti a un certo grado di cultura come una semplice superstizione; e allora si deve ammettere che i motivi e il  fondamento dell'animismo primitivo non possono essere essenzialmente differenti da quelli dello spiritualismo moderno, e che l'idea dell'anima è, sin dalle prime origini della civiltà, il prodotto di una tendenza naturale ed essenziale dello spirito umano come abbiamo visto che l'autropomorfìsma del filosofo selvaggio è il prodotto di quella stessa tendenza, naturale ed essenziale al  nostro spirito, che spinge il filosofo incivilito alla più parte delle sue concezioni metafisiche. Se noi cerchiamo i motivi della filosofia spiritualista, quali essi possono desumersi dallo studio storico della quistione, noi possiamo, con Lotze, riassumerli insomma nei tre seguenti: La sensazione, il pensiero, il desiderio, in una parola i fatti della coscienza, sono dei fenomeni essenzialmente differenti dai fenomeni della materia dal movimento e dagli aitai cangiamenti di cui i corpi inanimati sono suscettibili. Per rendere conto dunque dell'apparizione di questi fenomeni e della loro scomparsa dopo la morte, è necessario di ammettere l'intervento e la separazione d'un principio distinto dalle sostanze che costituiscono il corpo, e la cui natura possa spiegare la natura speciale  di questi fenomeni. Osserviamo che quest'argomento non è semplicemente impiegato dagli spiritualisti moilerni per cui 1'anima è dna sostanza spirituale nel senso stretto della parola: noi lo incontriamo pure presso gli animisti antichi che, come vedremo, riguardavano l'anima come qualche cosa di semi-materiale. Così CICERONE dice: Non è possibile di trovare sulla terra un'origine  per l'anima: essa non può essere formata da alcuno degli elementi che noi conosciamo, perchè in questi non si trova il pensiero. E i filosofi ortodossi indiani rrìtic. di pnic»  fUiol,  e. 1. Ta,sviilane. opponeyano ai materialisti che il sentimento e il pensiero non appartengono ai corpi, agli elementi materiali. La materia inanimata è inerte, passiva: nel suo movimento obbedisce alle leggi  del meccanismo, ed è necessariamente determinata da oause esteriori. Ma gli esseri animati hanno in se stessi il principio del movimento: essi possiedono un'attività spontanea, possono da se stessi dar cominciamento a una nuova serie di cangiamenti nel mondo materiale, di cui essi sono la causa prima. Questa facoltà prova, della stessa  maniera che la facoltà precedente, la presenza,  negli esseri animati, d'un principio distinto dagli elementi della materia. Quest'argomento della necessità di un principio attivo che si sovraggiunga alla materia inerte, sembra a Leibnitz praferibiie, per provare l'esistenza dell'anima come principio distinto dalla materia, all'argomento antecedente, cioè alla differenza del pensiero e della sensazione dai fenomeni materiali. Qui è applicabile la stessa osservazione del numero precedente. Questo motivo conviene tanto allo spirìtualiswo moderno quando al semi-materialismo degli antichi a Colebrooke Sayuio sulla  flloi, deuV IndUini traci, fran. In Lotze rargomento e condotto in modo da sui)i>orre il Ubero arbitrio. Io ho creduto più conforme ai dati storici di presentarlo sotto una forma più generile, cioè come implicante  semplicemente l'attività spontanea HEAD SCRATCHING, la libertà fisica REBEL WITHOUT A CAUSE FREE FALL, la quale esisto necessariamente se e quando esiste la cos'idetta libertà morale il libero arbitrio, mentre al contrario l'esistenza della prima non suppone necessariamente l'esistenza della seconda. Opera ed. Dutens Responsiones nil Stahlianas observatioties, ecc. U J  nimisti. L uomo, a tutti i gradi del suo sviluppo intellettuale, ha sempre distinto l'animato dall'inanimato per la sua attività spontanea, e l'animista ha sempre trovato nella natura dell'anima la causa di quest'attività. Si sa che Platone, il gran sistematizzatore della filosofìa animista, dà come essenza o definizione dell'anima ciò che muove se stesso, e stabilisce che 1'anima è il principio del movimento nel mondo dei corpi, ciò che prova che essa è indipendente da questi, ed è loro non posteriore, come pretendono i materialisti, ma anteriore. Con ciò Platone non fa che compiere uno sviluppo naturale del concetto dell'anima nella filosofìa: Aristotile osserva infatti che uno dei caratteri per cui i filosofi in generale aveano distinto l'anima era di concepirla come causa di  movimento nel corpo per il suo proprio movimento. L'unità della coscienza non permette di rapportare Tattività intellettuale a un aggregato di elementi uniti fra loro: il soggetto delle sensazioni e dei pensieri che co-^tituiscono una coscienza, unica deve osseine semplice, indivisibile, e quindi immateriale. Se questo soggetto fosse la materia, questa ha delle parti, e perciò le sensazioni  e i pensieri dovrebbero dividersi tra le sue parti: ma da ciò non potrebbe risultarne l'unità della coscienza. Naturalmente io non pretendo che questa sia una enumerazione completa degli argomenti dei filosofi Fedro,  Let/f/i  X.  Arist. De An,. spiritualisti; ma sono questi quelli che sono stati impiegati più frcquentamente e che sembrano avere più forza probante. Tuttavia, queste tre  prove  della filosofia .9^/ritualista non potrebbero essere riguardate tutte egualmente come motivi A^ÌVannnisìuo. Distinguiamo tra animismo e spiritualismo: il primo è un genere, di cui il secondo è una specie. Tylor ha soddisfatto a un'esigenza indispensabile della lingua filosofica, servendosi del primo di questi due termijii per indicare la riconoscenza, in tutte le razze umane, dell'anima  come sostanza distinta, uso a cui il secondo termine non sarebbe stato proprio, perchè legato al concetto dell'assoluta immaterialità di questa sostanza. L'anima non è una sostanza spirituale nel senso moderno della parola, cioè assolutamente immateriale, che nella fase più recente deUa teoria animista: è bisognato che l'intelligenza umana si fosse lungamente esercitata all'astrazione  filosofica, e familiarizzata con le idee astruse del sovrasensibile, prima di ammettere un concetto a cui non corrisponde niente di sensibile né d'immaginabile. Così la dottrina della dualità anima e corpo non è all'origine, come dice Baia, che un doppio materialismo: la sostanza spirituale è opposta alla sostanza corporale, non perchè la seconda è materiale e la prima no, ma perchè la seconda è costituita di una materia più grossolana, e la prima di una materia più sottile. Le razze inferiori, come ancora fra di noi gli uomini privi di coltura, concepiscono per il solito l'anima come qualche cosa di vaporoso o di etereo avente la forma umana, ordinariamente impalpabile e invisibile, ma che può  manifestarsi ai sensi in certe occasioni, p. e. nel sogno e nella visione. A questo concetto è talvolta illogicamente associato quello di una materialità più grossolana, come lo indica, p. e., il costume molto diffuso di spargere della cenere o della farina per potervi osservare le impronte NEL CASTELLO SANTANGELO lasciate dai passi degli spiriti: quest'uso esiste anche presso gli  Ebrei,  e può tuttora incontrarsi nell'Europa incivilita. L'esistenza che l'anima conduce nell'altra vita  non è che una copia dell'esistenza attuale: essa può mangiare, bere, PARLARE, camminare, e darsi alle occupazioni solite nella Aita corporale. Questo stosso doppio materialismo, che caratterizza l'animismo popolare, è ammesso pure generalmente dai filosofi. Senza dubbio noi troviamo una tendenza crescente a distinguere lo spirito dalla materia tendenza la quale deve finalmente arrivare al concetto delF immaterialità assoluta. Aristotile osserva che uno dei caratteri per cui i suoi antecessori hanno definito l'anima è Tincorporeità cioè la composizione dalla materia più sottile. Fra gli elementi materiali è l'aria o il fuoco questi due elemonti non sono nettamente distinti  presso i primi fisici che i filosofi, i quali ammettono quasi Lo spirito e il corpo e. Tylor  La civili -.zuz.primif, e.  <2) De nn.  i  f^  tutti la distinzione deir anima e del corpo, riguardano preferibilmente come sostanza deiranima. Nel mondo antico, queste non erano delle concezioni materialiste: gli stoici, che nella filosofia antica rappresentano evidentemente la tendenza anti-materialista,  considerano 1'anima come del fuoco o come uno spirito 7uv£0tj.a caldo, ciò che è l'essenza dell'elemento divino che penetra e governa tutto l'universo. Similmente CICERONE DA ALL’ANIMA GL’ATTRIBUTI DI DVINA, IMMORTALE, ED ANCHE SEMPLICE; MA CIO NON ESCLUDE LA SUA MATERIALITA: l'anima si eleva in alto sino agli astri per la sua purezza e  leggerezza; noi non conosciamo la sua forma, la sua grandezza, la sua sede; noi non sappiamo se possa cadere sotto i sensi o vi sfugga por la sua sottigliezza; egli non sa comprendere cosa possa essere un Dio assolutamente incorporale. Quegli stessi filosofi, che stabiliscono la più recisa opposizione tra lo spirito e il mondo dei corpi, non hanno ancora la nozione di una sostanza  spirituale, cioè inestesa: secondo Anassagora il nous è la più sottile di tutte le sostanze, e si fraziona nei diversi esseri animati, nei quali si trova in maggiore o minor quantità; secondo Platone, l'anima è invisibile, almeno per noi, ma ha una grandezza, e si muove  ontinuali) Cicero. Tnscul,  Pluf.  Flac.  ecc. TuHcuì,   Nai.  Deor,  Muli.   Muli.  Ft\  ; Arist.  De  An. Leyyi  . Fedone  mente,  comunicando ai corpi il proprio movimento, come potrebbe farlo, un corpo ad altri corpi. In verità potrebbe credersi che il concetto della spiritualità si trovi già in Aristotile, perchè il nous separato è per lui indivisibile, senza grandezza, senza materia: ma per poter attribuire ad Aristotile la nozione della sostanza spirituale, nel senso moderno, bisognerebbe che questo filosofo avesse ammesso nel nous, al di là del pensiero, un quid come substratum del pensiero, ciò che non è, il nous non essendo che una semplice attività intellettuale, un'intelligenza identica all'intelligibile, in cui ciò che pensa e ciò che è pensato non è che il pensiero stesso. Noi possiamo dunque affermare che nel periodo veramente classico della filosofìa, la nozione di sostanza spirituale resta  ancora sconosciuta. Il doppio materialismo è pure la dottrina dominante presso i primi padri della chiesa, quantunque presso i filosofi, notevolmente i neoplutonici, si fosse già iniziata la dottrina della immaterialità. I primi padri della Chiesa avevano due motivi per ammettere che l'anima è materiale: primo, ciò che non è materiale non è una sostanza, e secondo, se lo spirito non fosse  corporale, esso non potrebbe essere affettato dalle ricompense e sovratutto dalle punizioni dell'altra vita. Se l'anima non Plato Le(ji]i  X..,  Timeo, Aristotile  De an., ecc. Phy8..; Met,,  ecc.  De  An.  De an.  Mefaf. ecc. è un corpo, chi è, domanda Tertulliano, quest'essere che discende agl'inferni dopo la  morte, e vi resta sino al giorno del giudizio? L'anima? ma ciò è impossibile se  l'anima è niente: ora ciò che non è un corpo non è che niente. D'altronde un essere incorporale non potrebbe soffrire prigionia, e sarebbe immune da pena: se l'anima è capace di sentire il tormento e il piacere, in mezzo al fuoco dell'inferno o nel seno di Abramo, ciò dimostra la sua corporalità, poiché una cosa incorporale sarebbe necessariamente impassibile. Non vi ha niente, dice S.  Ilario, che non sia corporale nella sua sostanza; e Arnobio domanda chi sarà tanto imbecille e illogico per ammettere che delle animo inestese o per loro natura incorruttibili possano essere toccate dalle fiamme e sottomesse agli altri tormenti dello inferno. L'anima, dice L*eneo, ha degli occhi, UNA LINGUA, delle dita, ed è di una forma simile in tutto a quella del corpo, ma non è un  corpo. L'ultima proposizione non include la sua assoluta incorporalità; essa è incorporale comparativamente ai corpi grossolani dei mortali. Taziano ammette, come IL PORTICO, che lo spirito umano, non che quello degli animali, delle piante, degli astri, ecc., è una parte dello spirito divino, diffuso da per tutto nelle natura. Cosi lo spirito è secondo lui divisibile: Tortull. Lib, de Anima  e. Ilar su S. Matt. Adv. Geiit,,. Iren..  L.  V.. cLXxm d'altronde se l'anima non avesse delle parti e non fosse divisibile, essa non potrebbe essere diffusa per il corpo, Alcuni padri ammettevano la materia-lità tanto di Dio quanto dell'anima, altri, come Ambrogio, non accordavano l'immaterialità che alla sostanza divina. La dottrina dell'immaterialità dell'onima non oomineiò a prevalere  per opera sovratutto di alcuni padri platonizzanti, fra i quali bisogna assegnare il primo posto a Agostino. Questa rapida escursione nel dominio della steria ci mostra che un argomento che conclude alla semplicità o spiritualità dell'anima non potrebbe essere uno dei fondamenti (\e{V animismo^ considerato come la lilosofla generale e spontanea del genere umano: di più, siccome il  concetto della spiritualità è, come mostreremo, il risultato naturale dell'evolulusione della teoria animista, potenzialmente implicato nei pré^supposti stessi dell'animismo primitivo, noi non potremmo vedere nemmeno in un tale argomento il motivo reale della filosofia spiritualista. Così delle tre prove indicate come motivi della dottrina della sostanzialità dello spirito, noi non possiamo riguardare come veri fondamenti della dottrina che le prime due soltanto, ed escludere la terza, quella che conclude dall'unità della coscienza alla semplicità e indivisibilità del soggetto pen Oi'it. Ade,  Ci'.  Atnbr.  da  A'n\i.'f  i  u  sante. Ora è evidente che le due prove non sono che due casi particolari d'un'argomento più generale, nel quale perciò dobbiamo riconoscere la vera base  dell'animismo, e che potrebbe formularsi così: Certi corpi che si chiamano animati, ai fenomeni generali della materia aggiungono altri fenomeni d'una natura affatto speciale, e sono perciò nettamente opposti ad altri corpi, che, per l'assenza di questi fenomeni speciali, si chiamano inanimati; ora siccome i corpi animati si formano dagl'inanimati, e ritornano dopo un certo tempo allo  stato inanimato, non essendo cosi che per un tempo limitato Quest'argomento ò fondato suUa falsa assimilazione delle diverse parti dell'organismo SENZIENTE a dei soggetti SENZIENTI distinti e separati. Se una sostanza che pensa, dice Bayle, non fosso una che come un globo é uno, essa non vedrebbe mai un albero intero, non sentiiobbe mai il dolore eccitato da un colpo di bastone HIT BY A CRICKET BAT. Ecco un mezzo onde convincersi di ciò. Considerate la figura delle quattro parti del mondo sa di un globo; voi non vedrete in questo  globo cosa alcuna che contenga tutta l'Asia o anche un fiume intero, il luocro che rappresenta il regno di Siam, e voi distinguete un lato drirto 0 un lato sinistro nel luogo che rappresenta l'Eufrate. Nasce da ciò che, se questo  globo fosse capace di conoscere le figure di cui è stato adornato, non conterrebbe cosa alcuna la quale potesse dire: io conosco tutta VEuropa, tutta la Francia, tutta la città di Amsterdam CORSICA, tutta la Vistola: ciascuna parto del globp potrebbe solamente conoscere la parte della figura che le sarebbe caduta in sorte; e come questa parte sarebbe  si  piccola che non rappresenterebbe luogo alcuno per intero, sarebbe assolutamente inutile che il globo fosse capace di conoscere; da questa capacità non risulterebbe alcur. atto di conoscenza, o per lo meno sarebbero atti di conoscenza molto diversi da quelli che noi sperimentiamo, poiché i nostri rappresentano un albero intero, un intero cavaUo. Prova evidente che U soggetto colpito da tutta l'immagine di questi oggetti non è divisibile in molte parti; e perciò che Tuomo, in quanto pensa^ non è corporeo o materiale o composto di molti esseri. Se egli fosse tale, sarebbe niente sensibile ai colpi del bastone CRICKET BAT, poiché il dolore H: \i fi la sede di questi fenomeni che caratterizzano lo stato animato, se ne deve concludere che, durante questo tempo limitato, al corpo, alla materia visibile e  tangibile, è associata un'altra sostanza, invisibile e intangibile, che è l'agente e il soggetto reale di questi fenomeni. Le due prove particolari applicano l'argomento generale all'uno e all'altro dei due caratteri più salienti, che distinguono l'animato dall'inanimato, cioè la coscienza e l'attività spontanea HEAD SCRATCHING: l'una e l'altra prendono per punto di partenza la differenza  essenziale di questi due ordini di fenomeni, caratteristici dello stato animato, dai  fenomeni 8Ì dividerebbe in tante particelle quante ve ne sono negli organi colpiti. Ora questi organi contengono un'infinità di particelle, e cosi la porzione del dolore che converrebbe a ciascuna parte, sarebbe si piccola che non si sentirobbo affatto. Diz, art. Leucippo. E  GALLUPPI, dopo aver citato Baj-lo, aggiunge: La coscienza dell'unità sintetica della percezione comprende dunque la percezione dell'unità o della semplicità del me DI GRICE che sintetizza. Meditando sul paragone che noi facciamo degli oggetti che agiscono su dei nostri sensi, sui giudizi ai (inali danno luogo le loro impressioni, il sentimento dell'unità semplice, indivisibile, immateriale dell'essere pensante risuUcrà'luminosamonte. Quando voi vi riscaldate la mano, è sicuro che provate una sorte di piacere: se nel tempo medesimo venga avvicinato al vostro naso un odor piacevole, sentirete uu'altraspecie di piacere. Se io vi domando quale di questi due piaceri maggiormente vi piaccia, voi mi risponderete quello o questo: voi dunque paragonate insieme questi due piaceri e giudicate di essi nel tempo medesimo. Se dopo esservi riscaldato e di avere odorato, io vi faccia gustare una vivanda, voi potrete certamente dire quale di questi due piaceri sia il maggiore; bisogna dunque che ciò che in voi giudica abbia sentito tutto ciò. Questo stesso io DI GRICE che giudica, conosce se un piacere dei sensi sia maggiore del piacere della  scoverta di una verità, o di quello che reca l'esercizio della virtù, e sceglie fra queste due cose; il medesimo soggetto, dunque, il quale prova i piaceri sensibili, prova altresì gli spirituali, e giudica e vuole: è questa una prova che la coscienza del me DI GRICE, che si sente af dello stato inanimato, e (lall'identità della materia, che passa alternativamente dall'uno alFaltro di questi due stati, concludono, 1'una che ciò che fa che Tessere animato senta e pensi o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto della sensazione e del pensiero, l'altra che ciò che fa che Tessere animato sia dotato di attività spontanea o piuttosto ciò che è esso stesso il soggetto di quest'attività spontanea non è il corpo, mi un quid distinto dal corpo e con questo temporareamente associato. Ma in che consiste il legame fra tale conclusione e i dati su cui essa è fondata? come si giustifica il passaggio da fetto da tutte queste sensazioni, e che opera in seguito, non ò mica la coscienza del vostro naso che sente gli odori, uè della vostra mano che sente il calore; poiché come la mano o il naso sono due cose assolutamente distinte, egli è tanto  possiìiile che V una senta ciò che sente l'altro, quanto è possibile che noi sentiamo in questa camera il piacere che ora sentono quelli i quali sono al teatro; bisogna dunciuo che la coscienza che avete del me DI GRICE il quale sente l'odoro ed il caloie nello stesso tempo, non solo non sia la percezione del naso e della mano; ma bisogna altresì che sia la percezione di un soggetto unico, semplice e privo di parti; perchè se avesse i)arti, runa sentirebbe l'odore, mentre l'altra sentirebbe il calore, e non vi sarebbe giammai il sentimento di una cosa, la quale sentisse in sieme GRICE MOLYNEUX 1'odore ed il calore, li paragonasse, e giudicasse che l'uno è più piacevole dell'altro Eleni, di ftlos,.Tutta la forza dell'argomento svanisce, se noi togliamo la supposizione che la mano il naso o, secondo la fisiologia, le diverse  parti del cervello in cui sarebbe la sede dei fenomeni fisici che sono i supposti antecedenti della sensazione e del pensiero sono, secondo il materialista, dei soggetti SENZIENTI e pensanti distinti, come noi che Miamo in queata camera e le jìersone che «mio al teatro. Ma chi nega la sostanzialità dello spirito non è perciò obbligato a concepire le diverse cellule o molecole del cervello  corra altrettante persone distinte. Ciò che sente o pensa non è la mano o il naso – ALTHOUGH HE THINKS WITH HIS DICK --,  né (juesta o quella porzione della corterrcia cerebrale, ma GRICE 1'uomo, all'occasione di un contatto della mano o del naso, o, supponiamolo, d'un movimento molecolare in questi a quella? Se noi rivolgessimo queste domande ad alcuno dei filosofi  spiritualisti che fanno quest'inferenza, egli risponderebbe forse che il legame fra i dati da cui s'inferisce la differenza essenziale dei fenomeni dello stato animato da quelli dello stato inanimato, e la identità del sustrato materiale che è ora nelT uno ora nell'altro di questi stati, e la conclusione che se ne inferisce, è evidente per se stesso, e non ha bisogno di una giustificazione ulteriore. Ma noi che sappiamo, che la evidenza intrinseca non può essere il fondamento ultimo di una connessione tra le nostre idee, e che qualche parte del cervello. Supponiamo queste parti isolate, fuori del concerto organico, non vi sarebbe più né sensazione né pensiero. Non bisogna, per altro, prestare gratuitamente al materialista l'assurda immaginazione che il fatto della coscienza abbfa una località,.nel senso stretto della parola, come p. e. il movimento o la figura e in una parola ciò che può essere oggetto della percezione visuale. Bayle, nella sua finzione del globo che prende conoscenza delle figure su di esso dipinte, suppone tra le percezioni e le differenti parti del globo lo stesso rapporto che tra queste e le figure: cosi «gli immagina la coscienza divisa in frammenti e sparsa nelle diverse parti della materia, e anche divisibile, come la materia, all'infinito. Quando si dice che 1'uomo – AND NOT THE ANIMALS WHO CAN’T SIGNIFY! GRICE --,  quale oggetto della percezione esteriore, è il soggetto della coscienza, si vuol dire semplicemente che tra i fenomeni materiali, cioè esistenti in un luogo, i quali hanno la loro sedo nel corpo dell'uomo, e i fenomeni spirituali, cioè non esistenti in alcun luogo, i quali costituiscono la coscienza o il me DI GRICE mentale dell'uomo E NON DELL’ANIMALE CHE NON PUO SIGNIFICARE --, vi ha una corrispondenza secondo rapporti definiti di simultaneità o di successione. E quando si dice che le porzioni differenti di questa coscienza o di questo me DI GRICE mentale il quale non  è, è vero, che una serie di stati di coscienza, ma una serie che bisogna concepire, non come un aggregato di elementi separati ed aventi ciascuno un'esistenza indipendente, ma come un tutto uno « continuo, in cui non si distinguono delle porzioni separate che per una sorta di astrazione corrispondono a dei fenomeni fisici esistenti in porzioni differenti del me della percezione esteriore, tutte le connessioni mentali quelle almeno che hanno per oggetto l'esistente derivano, in ultima analisi, dall'esperienza, dobbiamo cercare se vi sia^un principio generale, fondato sull'esperienza, che il ragionamento sottintende IMPLICATURA, e che è un altro antecedente logico indispensabile per giustificare il pasdagli antecedenti enunciati della conclusione alla conclusione stessa. Questo principio generale supposto, questo altro antecedente logico che noi cerchiamo, non è che il principio stesso su cui sono fondati tutti gli altri concetti metafìsici che noi abbiamo percorsi in quest'Appendice, vale a dire il cioè del corpo, non si stabilisce ha i due ordini di fenomeni che un semplice rapporto esteriore, non si rompe 1'unità e continuità del me DI GRICE mentale, spargendone i frammenti tra le diverse parti del me DI GRICE fisico. Il me DI GRICE mentale può essere concepito come una semplice serie di stati di coscienza? È un'altra quistione, a cui più giù avremo occasione di toccare. L'argomento che dall'unità empirica della coscienza conclude all'unità assoluta del substratum della coscienza, è talmente diffuso tra i filosofi spiritualisti, e questa scuola gli dà tanto peso, che noi non possiamo vedere in esso un semplice sofisma artificiale, ma dobbiamo vedervi l'espressiona di un sofisma a priori o ìiaturale, I sofismi di questa natura, che stabiliscono come intrinsecamente evidente l'impossibilità di una connessione obbiettiva, suppongono una inconcepibilità relativa, una difficoltà subbiettiva a formare la connessione ideale corrispondente, e questa difficoltà non può essere che un risultato dell'esperienza. Ma, in questo caso, sembra diffìcile di spiegare in che consista e donde abbia origine l'inconcepibilità, poiché non vi ha un concetto più abituale e fondato su esperienze più familiari che quello che la coscienza ha la sua sede in un substratum, la cui unità non esclude la moltiplicità, e che le diverse senzazioni sono localizzate nelle parti differenti di questo substratum la mano, il piede, l’area di Brocca l’emisfero musicale ecc. Noi abbiamo però la conoscenza di un fenomeno psicologico che può venirci in aiuto; noi sappiamo cioè che i fatti più familiari diventano incomprensibili  BIZARRE, NOT BANALE dopo che la scienza THE DEVIL OF SCIENTISM ha mutato il modo prescientifìco di cojicepire questi fatti. L'in principio secondo cui le cose non possono cangiare di natura, e una stessa sostanza non potrebbe, in tempi differenti, avere delle proprietà essenzialmente differenti. Ammesso questo principio, se si riconosce d'altra parte che vi ha una differenza essenziale tra le proprietà dell'essere animato e quelle della materia inanimata da cui esso procede e a cui esso ritorna, non se ne deve concludere che le proprietà differenziali dell'essere animato, il sentimento, il pensiero, l'attività spontanea SCRATCHING MY HEAD, ecc. suppongano la cooperazione col corpo di un'altra sostanza distinta dal corpo e con esso temporaneamente congiunta? non se ne deve concludere inoltre che quest'altra sostanzar è il soggetto reale, il vero  possessore GRICE STRAWSON NON-POSSESSION, del sentimento, del pensiero e delle altre proprietà distintive del concepibilità o piuttosto l'incomprensibilità, su cui è fondato Par»gomento degli spiritualisti, potrebbe derivare da questo, che la teoria corpuscolare ha sostituito al concetto naturale di un corpo unoe continuo, quale sede della coscienza, quello di una moltiplicità di corpuscoli  separati e, nella forma più ordinaria della teoria, non solo senza continuità, ma anche senza contiguità o, neU 'atomismo metafisico, di una  moltiplicità di monadi. Allora, l'idea dell'unità della coscienza essendo per noi strettamente associata a quella dell'unità del corpo, una coscienza unica che sia la proprietà di un aggregato di corpuscoli ci sembra cosi incomprensibile CONDUTTA MOLARE come se questa coscienza unica si attribuisse ad un gregge o ad un esenùto THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL. Io credo che sia questa la difficoltà che costituisce la forza probante del sofismti, quantunque, nell'espressione dell'argomento, questo punto possa talvolta esser perduto di vista, e, per dare all'argomento una portata generale, non si distingua tra una  materia continua, e una materia, quale si ammette effettivamente, costituita di corpuscoli separati. Si ricordi l'idea di Diderot che, per evitare la difficoltà dell'unità della coscienza, al punto di vista dell'ilozoismo ZOISMO DI GRICE, crede necessario di ammettere la continuità materiale e non la costituzione molecolare dell'organismo. l'essere animato, in modo che, come è essa che le ha apportato nel corpo, cosi è ad essa che spettano dopo avvenuta la separazione dal corpo, quando questo è ricaduto neirincoscienza e nell'inerzia della materia inanimata? Non bisogna però dimenticare che l'inferenza del filosofo animista non è ordinariamente, come le altre inferenze su cui sono fondati i coiicetti della metafisica, che un'inferenza incosciente. Il principio dell'immutabilità  dell'essenza delle cose, che la conclusione suppone, non determina questa come un principio coscientemente invocato e riconosciuto; l'inferenza, espressa sotto la forma logica del ragionamento cosciente, avrebbe bisogno di questo principio; ma invece di esso è la massa delle nostre esperienze passate di cui esso è la generalizzazione, che agisce d'una maniera cieca e puramente  organica, e la conclusione che esse determinano è o può essere la sola cosa di cui si abbia coscienza. Noi comprendiamo così come il filosofo animista può non ammettere in tutti i casi il principio generale che^praticamente, egli ammette nel caso speciale; e comprendiamo pure come, per giustificare la conclusione, siano spesso impiegati dei ragionamenti capziosi e puramente artificiali^  invece del ragionamento naturale di cui essa è il risultato. Una conferma della spiegazione data dell'origine dell'animismo la troviamo nel fatto che le altre soluzioni dello stesso problema, che lo spirito umano incontra naturalmente quando respinge la soluzione animista, sono fondate sullo stesso principio su cui questa, secondo noi, è fondata. L'ilozoi•;i   V  smo e la dottrina dell'identità  del fisico e del mentale le soluzioni differenti dell'animismo del problema dell'origine della coscienza riconoscono anch'esse con 1'animismo, il principio che l'essenza delle cose non può cangiare; ed essi non evitano la conclusione animista che negando il dato di fatto che ne è la premessa, cioè la differenza essenziale, assoluta, tra il cosciente e l' incosciente. Lo stesso fatto si osserva,  passando dalla quistione della coscienza a quella dei caratteri puramenti fisici che distinguono i corpi animati: quando, per la spiegazione di questi caratteri, non si accetta il concetto dell'anima o altri concetti analoghi, si ammette invece la teoria meccanica, o più generalmente fisico-chimica, della vita FISIOLOGIA ZOISMO che nega la differenza essenziale tra i fenomeni della materia animata e vivente e quelli della materia bruta, salvando cosi il principio eh'esso ha in comune con le dottrine rivali, dell'impossibilità di un cangiamento neiressenza delle cose. Quest'osservazione ci conduce a una considerazione generale sui concetti diversi, e apparentemente opposti, che lo spirito umano si forma delle forze e della loro relazione con la materia, e sull'influenza che il  principio dell'invariabilità essenziale del reale ha su questi concetti. Sarebbe una ripetizione inutile, se insistessimo sull'analogia, da una parte, tra la teoria animista e la teoria vitalista la quale, sia detto per incidente, si presenta pure, come la prima, sotto le due forme distinte della materialità fluido vitale e concetti simili e dell'immaterialità forila vitale propriamente detta GRICE SURVIVAL OPERANCY e dall'altra parte, tra le dottrine materialiste opposte all'animismo e al vitalismo FREE FALL, il carattere comune delle quali è l'identificazione dei fenomeni caratteristici dell'animato e del vivente a quelli dell'inanimato e del non vivente. Ciò che ora dobbiamo notare è che, anche nei limiti del dominio della semplice materia bruta, noi troviamo, insieme all'antao:onismo di una concezione materialista che unisce inseparabilmente la forza alla materia, e una concezione dualista che fa della materia e della forza due entità distinte e separabili, l'accordo, tra le due concezioni antagoniste, sopra un principio comune, che è lo stesso nel quale convengono le soluzioni opposte dei problemi della coscienza e della vita, cioè l'invariabilità dell'essenza delle cose. Quando la materia presenta dei fenomeni nuovi che prima non presentava, quando viene riscaldata, illuminata, elettrizzata, ecc., e cessa poi FLOSTIGON di presentare questi fenomeni, è una vera concezione dualista, analoga a quella CAteGORY MISTAKE dell'anima o della forza vitale BEHAVIOURISM DI RYLE, di spiegare il fatto, ammettendo, come già  facevano i fisici, dei fluidi imponderabili speciali, la cui presenza o assenza è la causa della presenza o assenza nella materia delle proprietà corrispondenti. Si suppone che il calorico o l'elettrico entrassero nei corpi, producendovi lo stato particolare <»he si chiama con lo stesso nome di calore o di elettricità, e poi ne uscissero, alla cessazione dei fenomeni corrispondenti quantunque in  verità si fosse costretti ad ammettere che i fluidi potessero trovarsi nei corpi d'una maniera occulta o dissimulata, cioè senza manifestarvisi con dei fenomeni sensibili, come il calore che si dice latente, o l'uno dei due fluidi elettrici che si suppone neutralizzato dal fluido di natura contraria, come lo spirito o la forza vitale sono supposti entrare in altri corpi per produrvi la coscienza e la  vita, e poi separarsene, alla cessazione di questi stati particolari. Dal principio che una sostanza non può cangiare di natura e di proprietà, si conclude nell'un caso, come si conclude neir altro, che il cangiamento del corpo era dovuto alla presenza e all'assenza di un'altra sostanza distinta dal corpo stesso, la sostanza supposta ritenendosi anch'essa come invariabile nella sua essenza, donde  la necessità di distinguere una pluralità di fluidi, ciascuno non potendo produrre che un ordine di fenomeni, senza di che si sarebbe rinunziato al principio dell'invariabilità dell'essenza. Questo dualismo in fisica sembra definitivamente abbandonato, almeno sotto la forma semimaterialista, perchè sotto la forma, per dir cosi, spiritualista ALLA WOLLSTONECRAFT che sostituisce delle forze immateriali ai fluidi imponderabili, esso ha ancora dei rappresentanti fra i fisici, come Hirn, che partendo dalla diversità dei fenomeni per concludere alla diversità delle cause, riconosce nel mondo fisico l'esistenza di tre elementi almeno, specificamente distinti dalla materia, capaci di manifestarsi come potenze dinamiche questi elementi sono, oltre alla forza gravifica, che non  ha rapporto alla presente quistione, la forza elettrica DELL’ANGUILLA e la forza calorica di HARRY POTTER. Ora la fisica non ha potuto abbandonare questa concezione dualista del rapporto tra la forza e la materia, prima di identificare le varie categorie di fenomeni, già attribuite ciascuna a ciascuno di questi agenti distinti, che erano supposti per rendere conto dell'apparizione, a  un certo momento, di fenomeni nuovi, prima non esistenti, nella materia FLOGISTON, e dei quali perciò non potè farsi a meno se non quando comincia ad ammettersi che i fenomeni non sono essenzialmente nuovi, cioè che la materia, cominciando a manifestarli e poi cessando dal manifestarli, non cangia perciò di proprietà secondo la spiegazione meccanica GRICE MECHANISM di questi fenomeni, che riducendoli tutti al movimento che i corpi si trasmettono secondo le leggi dell'urto, non vede nella materia che la proprietà, sempre invariabilmente la stessa, di appropriarsi il moA^imento ricevuto  per impulsione e di trasmetterlo per lo stesso  mezzo. Così è salvo^ nella teoria, il principio dell'invariabilità dell'essenza delle cose, che già avea condotto all'ipotesi degli imponderabili come agenti specificatamente distinti; e noi vediamo anche qui, come nella quistione della vita e in quella della coscienza, da una parte una concezione materialista cioè che non fa la forza separabile dalla materia, fondata sulla identificazione dei fenomeni differenti che la materia in condizioni differenti manifesta; dall'altra parte una concezione dualista per cui la forza è separabile dalla materia --ROBERTI TORRICELLI,  che suppone degli agenti speciali per ispiegare la presenza e assenza alternativa di speciali fenomeni nella materia; e l'una e l'altra delle due concezioni opposte fondata sul principio comune che l'essenza delle cose è invariabile. Ciò che può servire a mostrare quanto vi sia di vero neir osservazione di Bacone, che le opinioni  più opposte io non dirò, com'egli effettivamente dice, le illusioni più opposte derivano il più spesso da una sorgente comune. D'una maniera generale, l'ipotesi dei'anima è destinata a spiegare il passaggio della materia, sia dallo stato inanimato allo stato animato, sia dallo stato animato allo stato inanimato: ma noi non potremmo attenderci dall'intelligenza dell'uomo primitivo che egli    si fosse proposto il problema della vita sotto una forma rigorosamente generale. Probabilmente il filosofo selvaggio non si dice che la materia che costituisce l'essere vivente è la stessa materia che è già esistita allo stato di materia bruta, e che perciò la trasnaturazione di questa materia, la acquisizione delle nuove proprietà vitali, necessita riiitervento di un altro principio. Ma ciò di cui egli non può mancare di essere colpito è il fenomeno della morte, l'opposizione fra il cadavere e l'uomo già un istante prima ancora vivente. Egli ha visto, dice Huxley, il guerriero pieno di una feroce energia, il capo dispotico della sua tribù forse, rovesciato da un colpo inatteso. Un  fanciullo può insultare impunemente V uomo che era, non è già che un istante, sì terribile; una mosca  riposa tranquillamente sulle sue labbra da cui uscivano degli ordini sempre ubbiditi. Pertanto l'aspetto fisico di quest'uomo sembra pressoché lo stesso che allorquando egli dormiva, e che dormendo si immaginava esso stesso staccato dal suo corpo ed errare nella terra dei sogni. Non è che questa qualche cosa che è l'essenza dell'uomo, è stata costretta in effetto di partire, e d'errare al di  fuori per la violenza che le si è fatta subire, e ci trova ora incapace, ovvero il -' « dimentica, di ritornare nel suo inviluppo? Non conserva alcuni dei poteri che possedeva durante la vita? Confrontiamo questo ragionamento, che noi prestiamo, con Huxley, al filosofo selvaggio, col ragionamento di un filosofo incivilito. L'aspetto di un cadavere, dice Schopenhauer, mi mostra che là ogni  sensibilità, irritabilità, circolazione, riproduzione, ecc., hanno cessato. Io ne concludo con certezza che il principio, a me sconosciuto, che mette tutto ciò in attività, cessa di asire: che esso se ne è dunque separato. La nostra spiegazione dell'origine dell'animismo si accorda sino ad un certo punto con quella di Tylor, di cui ecco il riassunto con le parole stesse dell'autore: L'intelligenza  umana, ad uno stato di coltura ancora poco avanzato, sembra sovratutto preoccupata di due categorie di problemi fisiologici. Cioè: primo ciò che costituisce la differenza tra un corpo Aivente e un corpo morto, la causa della veglia, del sonno, della catalessia, della malattia, della morte. Poi, la natura di queste forme umane che appariscono nel sogno e nelle visioni. Meditando su questi  due ordini di fenomeni gli antichi filosofi selvaggi devono essere stati portati, al principio, a questa induzione tutta  naturale cli^vi ha ili ciascun uomo una vita e un fantasma. Questi due elementi sono in istretta connessione col (^orpo. La vita lo rende atto a sentire, a pensare, ad agire; il fantasma è la sua immagine, un secondo se stesso. Tutti e due pure sono ì •t   //  poslt, e la se.  contemp. iu  Rei\  sciente  sei-,  // mondo come volontà e come rappresentazione, . nettamente separabili dal corpo, la vita è suscettibile di ritirarsene, di lasciarlo insensibile o morto; il fantasma può apparire a persone lontane. TJn secondo  passo ci sembra facile per questi selvaggi, se noi consideriamo l'estrema difficoltà che provano le genti incivilite a romperla con questa dottrina. Esso consiste semplicemente a combinare la vita e il fantasma. Tutti e due appartengono al corpo: perchè non apparterrebbero pure l'uno all'altro? Perchè non sarebbero le manifestazioni d'una sola e stessa anima? Si considerano come uniti? si ottiene per risultato questa concezione ben conosciuta, che si potrebbe chiamare la dottrina àéWanima apparmonaie o  ^\V anima-fantasma.  Tale, in effetto l'idea che le razze inferiori si fanno dell'anima personale o spirito. È un'immagine umana, sottile, immateriale, un vapore in qualche sorta, una nebbia, un'ombra; essa è la causa della vita e del pensiero nell'individuo che anima, la padrona indipendente della coscienza e della volontà THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL del suo possessore corporale, presente o  passato; essa può lasciare il corpo dietro di sé e trasportarsi rapidamente di luogo in luogo; generalmente impalpabile e invisibile, ma suscettibile anche di manifestare qualche proprietà fìsica, apparisce agli uomini, nella veglia HAMLET o nel sonno, come un fantasma separato dal corpo ma di cui conserva l'apparenza; dopo la morte di questo corpo continua ad esistere e ad apparire,    ed ha la facoltà di penetrare INCUBO SUCCUBO, di dominare e d'agire nel corpo d'altri uomini, d'animali, ed anche nel seno d'oggetti inanimati. Senza dubbio, questa maniera di comprendere l'anima non potrebbe essere universalmente applicata; ma essa è sufficientemente generale per ben renderci l'idea tipo, che non fa che modificarsi in ciascun paese con divergenze più o meno  pronunziate. Perchè queste idee DI JUNG, che si ritrovano dappertutto sulla terra, non sono delle produzioni puramente arbitrctrie e convenzionali COME IL DEUTERO-ESPERANTO dello spirito umano. Sono delle teorie che derivano forzatamente dalla testimonianza indubitabile dei sensi, quale la interpreta una filosofia primitiva realmente conseguente e razionale. D'altronde,  l'animismo originale rende conto così bene dei fatti, ch'esso ha conservato il suo posto nelle sfere più elevate della coltura. Modificato, rimaneggiato dalla filosofia classica, da quella del medio evo, trattato con più libertà ancora dalla filosofia moderna, esso ha si chiaramente conservato le tracce del suo carattere primitivo, che, nello psicologia attuale del mondo incivilito, le prime età  potrebbero riconoscere e reclamare il loro bene. Come si vede, Tvlor conformemente d'altronde alla maggior parte dei pensatori contemporanei che hanno considerato la quistione dal punto di vista deiretnologia annette un'importanza capitale, per la spiegazione dell'animismo, alla interpretazione realista del sogno. Ma, si può domandare, tale interpretazione è veramente il principio, o  è piuttosto la conseguenza della dottrina animista? Ciò che fa pensare che uno dei punti di partenza dell'idea dell'anima sia l'oggettivazione delle immagini viste  Civilizsnz, primitiva nel sogno, è specialmente questo tratto dell'animismo popolare per cui Tylor lo chiama la dottrina dell'anima fantasma RYLE, vale a dire il concetto che l'anima ha la forma stessa dell'uomo, e ne è come un'immagine. È sullo stesso fatto che è fondata la idea di vedere un altro dei punti di partenza dell'animismo nell'oggettivazione dell'ombra e dell'imagine riflettuta; p. e., dall'acqua. NARCISSO Ma se noi pensiamo alla grande importanza che il semplice principio dell'associazione delle idee senza niente che abbia la rassomiglianza più lontana con un'inferenza logica  ha avuto nella  formazione delle credenze umane, si ammette forse che questo principio può dare una spiegazione soddisfacente del fatto in quistione. Se si esamina, dice MORE GRICE TO THE Mill, in che si accordano la più parte delle cose che in differenti tempi e da diverse nazioni e razze sono state considerate come dei presagi di qualche avvenimento importante^ felice o infelice, si troverà che  esse offrono generalmente questa particolarità, che fanno nascere nello spirito GRICE MEANING l'idea del fatto che sono supposte annunziare. Tylor stesso estende questa spiegazione alle arti magiche ed alle scienze occulte in generale. Ciò che ci dà principalmente, egli dice, l'intelligenza delle scienze occulte è questa osservazione che esse riposano sull'associazione delle idee,   facoltà che si ritrova alla base stessa della ragione umana, come a  quella della sragione.  Logica . fiXO L'uomo, benché in uno stato intellettuale ancora molto inferiore, dopo essere perv^enuto ad associare nel suo pensiero delle cose che l'esperienza gli ha insegnato essere materialmente con nesso, arriva per errore a intervertire questo rapporto e a concludere, dalla loro associazione  subbiettiva, un'associazione obbiettiva corrispondente. Egli ha cercato così d'indovinare DARK CLOUDS MEAN RAIN,  di predire e di provocare degli avvenimenti per mezzo di processi di cui noi possiamo oggi riconoscere il carattere puramente immaginario DARK CLOUDS MEAN RAIN.  Un vasto insieme di testimonianze preso nel mondo selvaggio barbaro e incivilito, mostra che le arti magiche risultano da questo errore che fa prendere un'associazione ideale per un'associazione reale. È evidente che molte idee dell'animismo popolare non hanno un'origine diversa: sarebbe inutile, p. e., di cercare, per la credenza generalmente diffusa che gli spiriti frequentano i cimiteri, o la casa che essi abitavano quando erano congiunti col  corpo, un'altra ragione che quella assai naturale che questi luoghi sono i più propri a sugrerire l'idea degli spiriti dei morti. Quando un'associazione d'idee è molto intima, noi abbiamo qualche cosa che si avvicina ad una vera necessità mentale, a un sofisma naturale o a priori il risultato diquesto Saggio sarà di mostrare che è in ciò che consiste 1'essenza di questo processo psicologico a  cui sono dovuti i concetti metafìsici in generale. L'associazione tra delle facoltà psichiche che noi non abbiamo sperimentate che nell'uomo o nell'animale e una forma esteriore d'uomo o d'animale è talmente intima, che noi potremmo vedere quasi, nell'idea di associare a un'entità che è supposta godere della personalità umana, una forma umana, il prodotto di un sofisma a priori del  nostro spirito: non solo questa era un'immaginazione naturale, ma l'intelligenza dell'uomo primitivo STONE-AGE PHYSICS doveva trovare più facile a comprendere che questa materia, di cui lo spirito era costituito, potesse sentire, pensare, ecc., avendo la forma umana, che se essa avesse avuto invece una forma con la quale il sentimento, il pensiero, ecc. non erano stati mai trovati associati nell'esperienza. Senza dubbio l'associazione che lega Tidea dello spirito d'un individuo a quella della figura di quest'individuo non era talmente forte da agire d'una maniera simile sull'intelligenza del selvaggio: ma ammesso una volta il principio che lo spirito aveva una forma umana, niente di più ovvio che di attribuirgli quella stessa forma individuale con cui era associato  nelTimmaginazione. Naturalmente il sogno alimenta l'idea, quantunque nata sopra un altro terreno, e l'allucinazione originata dall'idea stessa, veniva a darle la riconferma più evidente. In quanto all'identificazione dell'anima con l'ombra, che s'incontra in alcune popolazioni – ME AND MY SHADOW ALL ALONE AND FEELING BLUE, e ad altre idee analoghe^ si potrebbe vedervi  delle interpretazioni posteriori, brutalmente letterali, di espressioni destinate al principio ad indicare l'incorporeità dell'anima e la sua forma umana, per un caso di quella malattia della lingua, in cui Muller vede il processo fondamentale della formazione dei miti. Tra le idee essenziali della metafìsica dei popoli poco coltivati non si trova quella dell'immortalità assoluta dell'anima, non    si trova almeno come credenza generale: la credenza alla sopravvivenza al corpo alla quale è spesso unita quella alla preesistenza  è quasi universale, ma è molto diffusa pure V idea che V anima può subire una seconda morte. E' evidente tuttavia che il concetto dell'immortalità è il prodotto naturale e necessario d'un animismo conseguente. In effetto il presupposto dell'animismo è la impossibilità che ciò che sente, pensa, agisce, ecc. divenga insensibile, incosciente, inattivo, ecc., e viceversa: ora la conseguenza di questo principio è di stabilire fra queste due forme dell'esistenza un dualismo radicale, in modo che 1'una sia assolutamente inconvertibile nell'altra. Allora, non sono possibili per un animista realmente conseguente che due dottrine: s'egli non ammette la  possibilità di una creazione e d'un annientamento assoluti, deve pensare che l'anima nella sua sostanza almeno, se non nella sua esistenza individuale è senza cominciamento né fine, eterna è la dottrina di molti filosofi, come Platone, i Platonici, i Vedantini e le altre celebri scuole indiane GRICE STAAL, filosofi che noi possiamo considerare come i rappresentanti della forma più  sviluppata dell'animismo nel mondo antico; o s'egli ammette la possibilità della creaci) Tylor Colebr. trad. Panth, Regnand in Sei;. phiL. Y. Colebr. trad. Panth. sankhya, nyaya, vaisechika. !' H I I zione e dell'annientamento assoluto, egli deve pensare che l'anima non può cominciare ad esistere cha per creazione né potrebbe finire d'esistere che per un annientamento assoluto é la dottrina  dello spiritualismo SIR NOEL COWARD BLITHE SPIRIT. Ma l'uomo primitivo naturalmente non é capace né di stabilire dei principii generali né di sviluppare sistematicamente un'idea sino alle sue conseguenze ultime: egli può ben immaginare una spiegazione per un fenomeno particolare da cui é vivamente colpito, qual é la morte del suo simile; ma^ quantunque nel caso particolare egli ammetta praticamente il principio che il cosciente e attivo non può trasformarsi nell'incosciente e inattivo, egli non pensa che, per la stessa ragione, l'anima non deve mai morire; perciò egli dovrebbe concepire la quistione sotto una forma universale^e applicare la sua meditazione a un soggetto troppo L'anima, dice Agostino, è la vita, e 11 principio della vita: per ogrni essere  vivente. Essa dunque non può morire: perchè, se potesse essere senza vita, non sarebbe Tanlma, ma una cosa animata che non ha la vita per se stessa, ma la deve alla presenza dell'anima. De immortalit, aniniae L'argomento di Agostino che non è al fondo che quello di Fedone fPhaedo: 11 solo, tra tutti quelli del dialogo che Platone dia come decisivo, svolto, dalla mescolanza con la  dottrina delle Idee, ed espresso sotto una forma più propria e più vibrata è perfettamente concludente: l'alternativa della vita e della morte nell'anima sarebbe In contraddizione con l'Ipotesi dell'animismo che quest'alternativa negli esseri viventi deve spiegarsi per la presenza e la separazione del principia della vita. Secondo quest'Ipotesi, l'anima stessa non potrebbe perdere la vita che  perchè 11 principio della vita si separa da essa: ma allora la vera anima sarebbe qnesto principio della vita dell'anima, e questa sarebbe, come dice Agostino, non V anima, ma un che di animato. lontano dalle sue percezioni attuali per poterla sollecitare. D'altra parte, l'esistenza futura delPanima egli non l'immagina che sul tipo dell'esistenza pregente conformandosi a questa tendenza  naturale del nostro spirito ad assimilare il non conosciuto e il non familiare al conosciuto e al  familiare. L'anima nell'altro mondo mangia, beve, danza, caccia, lavora la terra, combatte, ecc.; i suoi beni e i suoi mali sono i beni e i mali stessi di questa vita: spinto da questa tendenza assimilatrice, il selvaggio finisce per ammettere che l'anima può essere annegata, uccisa, ecc., senza  accorgersi che perciò egli si mette in contraddizione col suo punto di partenza. L'idea antica della materialità dell'anima sembrerà certamente ad alcuno strana ed antifìlosofìca tale è la forza dell'abitudine: per noi invece il problema è, non di spiegare come sia nata Tidea della materialità dell'anima, ma come sia nata quella della sua immaterialità. Il concetto della materialità si spiega da  se stesso, poiché è evidente che noi non possiamo concepire se non una sostanza materiale, l'idea di sostanza cioè di un quid permanente che sia il sustrato di fenomeni cangianti essendo per l'intelligenza umana affatto equivalente all'idea di corpo. Ma bisogna riconoscere nondimeno nel concetto dell'immaterialità il risultato naturale dello sviluppo della filosofìa animista. Questo  sviluppo ci mostra, vcome dice Spencer, una dismaterializzazione progresa y. Tylor  e XUI. _sìva dello spirito, di cui il primo passo, inevitabile per non mettersi in una contraddizione troppo diretta con l'esperienza, si fa già nella fase più antica della dottrina, concependo l'anima come un che d'impalpabile ed invisibile. Noi abbiamo visto inoltre che la conseguenza logica dell'animismo  è di stabilire un dualismo radicale tra l'anima l'essere cosciente e attivo e il corpo l'essere incosciente e inattivo, in modo che non sia possibile il passaggio dall'una all'altra di queste due forme della esistenza. È un altro passo considerevole verso l'opposizione assoluta tra le due sostanze, il quale nella Btoria della filosofìa è rappresentato dalle teorie di Anassagora e di Platone: ma questo  dualismo non è ancora incompatibile con l'idea che l'anima sia una cosa estesa nello spazio, una sostanza materiale particolare, distinta ed opposta a tutte le altre. L'ultimo passo il più importante al punto di vista della teoria della conoscenza, perchè si tratta di varcare il confine che separa il dominio del rappresentabile da quello dell'irrappresentabile è anch'esso un portato naturale dei  presupposti generali della concezione animista: l'idea della materia ordinaria è già strettamente associata nel nostro spirito a quella della incoscienza e della inattività; quando lo stesso corpo vivente diviene, per usare l'espressione di un filosofo spiritualista un ^orpo di morto^ in cui la vita non risiede che come in un ricettacolo, allora il concetto di materia finisce Malebranche Ricerca  della verità, Schiarimento. OX per essere 1'equivalente perfetto di una sostanza, incosciente, morta, inattiva, e insuscettibile di mai acquistare la coscienza, la vita, l'attività. Questi attributi non sono soltanto legati alla materia per un'associazione intima tra le idee; il legame è anche logico; se tutti  i corpi dell'esperienza sono incoscienti e inattivi e incapaci di divenire il contrario, non se  ne deve concludere che il corpo in gènerale è incapace di coscienza e di attività? Ne segue che l'anima non può essere una sostanza materiale, e il dualismo iniziale arriva così al concetto iperfisico della sostanza spìnto, della stessa maniera che, nel dominio della natura inanimata, il dualismo analogo dei corpi concepiti come assolutamente inerti e passivi e di qualche cosa che deve ad  essi sopraggiungersi come principio di ogni attività arriva al concetto analogo di forze trascendenti, immateriali, l'idea di forza divenendo necessariamente incompatibile con quella di materialità, dopo che a questa si è legata l'idea opposta della assoluta inattività. Ma ciò che dobbiamo notare è che tra le due forme successive dell'animismo la materialista e la spiritualista  1'opposizione  non è cosi assoluta, come pare a prima vista: tutti i vari modi di concepire la sostanza dell'anima, dalla grossolana materialità di quelle intelligenze primitive che cercano le impronte dei passi degli spiriti, sino al più puro spiritualismo del filosofo che nega che l'anima sia in un luogo, non sono che dei gradi differenti di un'evoluzione continua, in cui vediamo all'opera un processo di  sottilizzazione e di astrazione progressiva applicato al concetto della materia, quale esso risulta immediatamente dai dati della percezione sensibile, cioè di uia cosa che può essere vista e toccata. Quando il filosofo animista ha soppresso, nella sostanza dell'anima, la visibilità e la palpabilità, ma lasciandovi sussistere altre determinazioni della materia, quali l'estensione, il movimento  ecc., una tale sostanza non è più una materia, secondo l'idea primitiva che i sensi <;i  hanno dato della materia, ma, siccome, sin da Cartesio, noi siamo abituati a fare dell'esteso 1'equivalente esatto del corporeo, noi non esitiamo a riconoscere che la sostanza anima di un tal filosofo non è al fondo che un corpo. Ora, quando il filosofo spiritualista, dal concetto grossolanamente materialista  dello spirito, oltre la visibilità e la palpabilità, toglie anche l'estensione, ma lasciando sussistere la sostanzialità CICERONE RES COGITANS, l'operazione è in questo secondo caso della stessa natura che nel primo; si tratta di una nuova astrazione operante sul concetto primitivo della materia; e il residuo è, nel secondo caso, una determinazione della materia, come nel primo, poiché  la categoria di sostanza, per dirla con Kant, non è applicabile che ^g'ì oggetti dell'esperienza esteriore, o a ciò che ci è dato in una intuizione nello spazio BUNBURGY DISINTERESTEDNESS. Il concetto della sostanza spirituale non può dunque essere modellato che sul tipo delle sole sostanze che noi conosciamo e possiamo rappresentarci, le materiali: Analit, trascendente Scoi,  gener. al sistema del prinelplt edlz. Dlalett, trascendent, Paralog della  rag. jfara. In fine del capit. e Confutai, dell'argom, di Mendelsohn, 'I cxcYiir l'elemento positivo di questo concetto la sostanzialità non è tratto che della materia NOTHING CAN BE RED AND GREEN ALL OVER NO STRIPES ALLOWED; il semplice, Finesteso e il resto che si aggiunge alla parola sostanza, non  sono che degli elementi negativi, esprimenti che si intende fare astrazione di certe determinazioni della  materia. L'idea che lo spirito è una sostanza OFTEN ABUSED,  cioè che oltre alle sensazioni, sentimenti, pensieri, volizioni, ecc., vi sia qualche cosa di permanente materiale o immateriale come sustrato di questi fenomeni, è prima di tutto una conseguenza necessaria dell'ipotesi  animista, che vede nella vita il risultato della congiunzione dei due elementi di cui l'uomo e ogni essere animato si suppone composto, e nella morte il risultato della loro separazione. Non vi ha altra rappresentazione possibile di due elementi capaci di stare ora uniti ed ora separati che quella di due sostanze materiali, di due corpi, che possono cangiare il loro rapporto nello spazio ciò  che ci mostra sotto un altro aspetto la verità d'un'osservazione antecedente, vale a dire la comunanza di origine tra l'animismo e la teoria meccanica, le esperienze familiari che servono di tipo all'una delle due dottrine potendo riconoscersi per le stesse, al fondo, che quelle che servono di tipo all'altra. Così, quando il doppio materialismo primitivo è stato rigettato, questa rappresentazione  non potrebbe più considerarsi come adequata alla realtà, ma resta il concetto astratto di due sostanze capaci di unirsi e di separarsi, concetto che non è più un'idea rappresentabile dopo che runa delle due sostanze finisce di considerarsi come un corpo e come capace di entrare con l'altra in rapporti di spazio, JONES IS BETWEEN SMITH AND WILLIAMS ma che, come tutti i concetti  trascendenti, cioè oltrepassanti il sensibili e r immaginabile, non è modellato che sul sensibile e l'immaginabile, vale a dire, nel nostro» caso, sulla rappresentazione primitiva di due corpi che si uniscono e si separano, e trova  in questa rappresentazione  per esprimerci sotto una forma che non implichi una teoria determinata sulla natura dei concetti trascendenti un'approssimazione e un  simbolo indispensabili. Ma, oltre l'animismo come spiegazione della VITA GRICE FILOSOFIA DELLA VITA e della morte, l'idea che lo spirito è una sostanza ha un'altra sorgente. Per dilucidare questo punto, dobbiamo entrare in alcune considerazioni che non hanno un rapporto molto stretto col nostro presente argomento, ma che non possiamo evitare, essenda esse, oltre alla loro  importanza per la quistione del valore dell'idea della sostanza spirito, indispensabili per comprendere certi sviluppi di quest'idea, che ci presenta la storia della metafisica. Tutte le volte che lo spirito è concepito come esistente per sé, separatamente dal corpo, noi abbiamo una tendenza  quasi invincibile  a considerarlo, come una sostanza, cioè a supporre, al di sotto della, serie fluente   degli stati di coscienza che costituiscono lo spirito quale fenomeno dell'esperienza, un quid permanente come loro sustrato – THE I OF GRICE. Ciò può aver luogo anche indipendentemente dalla teoria animista, del che possiamo trovare un esempio in alcune^ proposizioni di MORE GRICE TO THE Mill. MORE GRICE TO THE MILL non è uno spiritualista – MODERATE MENTALISM, e nondimeno egli non ammette che lospiriso sia una semplice serie di stati di coscienza. ce Noi siamo forzati, egli dice, di riconoscere che ciascuna parte della serie è attaccata alle altre parti mediante un legame che loro è comune a tutte, e che non è la catena dei sentimenti per se stessi: e €ome ciò che è lo stesso nel primo e nel secondo, nel secondo e nel terzo, nel terzo  e nel quarto, e così di seguito, deve essere lo stesso NEL PRIMO E NEL CINQUANTESIMO, quest'elemento comune è un elemento permanente GRICE AVOIDS NUMBERING THEM!. Quest'elemento permanente, distinto dalla catena degli stati di coscienza, non può essere altra cosa che la sostanza spiritoTHE PURE EGO DI BROAD dei filosofi spiritualisti, quantunque Mill,  poco prima del luogo citato, neghi di adottare la teoria comune che riguarda lo spirito come una sostanza GALLIE GRICE SELF AND SUBSTANCE MIND. Noi dobbiamo prima di tutto sbarazzare la quistione da un possibile equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis]. La proposizione che lo spirito, il me di GRICE, è una collezione O COSTRUZIONE LOGICA di sensazioni  intendendo naturalmente per sensazioni  tanto i dati della percezione esteriore quanto quelli del senso intimo non è che la semplice espressione dei fatti dell'esperienza interiore, senza mescolanza d'ipotesi o interpretazione di qualsiasi natura: ma essa non deve intendersi come se queste sensazioni che costituiscono la collezione, fossero altrettanti elementi aventi ciascuno un'esistenza propria  e indipendente, come degli atomi,  fra di cui non vi fosse che il rapporto puramente esteriore di una semplice juxtaposizione WENT TO BED AND TOOK OFF HIS BOOTS URMSON ATOMISM. Tra le cose esteriori non vi hanno altri rapporti che quelli di tempo e di spazio: ma tra gli Filo8,  di Hamilton  Appendice. COI stati di coscienza che costituiscono un me di GRICE, una coscienza unica, oltre i rapporti di  TEMPO, cioè di successione e di simultaneità qui naturalmente non è a parlare di quelli di spazio, vi ha un rapporto più intimo, che non ha niente di analogo nelle cose del mondo esteriore, ma che se noi vogliamo indicare con un termine che nel suo senso proprio e originario TOTAL TEMPORARY MNEMONIC STATE non può convenire con\e, quasi tutti quelli che appresta la  lingua, che alla realtà esteriore, lo possiamo fare con le parole PROUST: continuità della coscienza. La coscienza è un tutto uno e continuo INTERLOCKING, non un aggregato di elementi indipendenti: è questo un fatto evidente dell'esperienza interiore, di cui lo stesso HAUGELAND o lo stesso Hume sarebbe convenuto, se la quistione gli si fosse presentata in questi termini – AS IT WAS!. Stabilire un rapporto tra le nostre Idee, fare un ragionamento VAGARIES OF PERSONAL IDENTITY,  avere la percezione di un tutto complesso HUME’S VAGARIES ON PERSONAL IDENTITY,  sarebbero degli atti impossibili, se fra le idee successive o simultanee da cui essi risultano, non vi fosse che un semplice rapporto di simultaneità o di successione, come quello  che esiste tra le idee di Se, di coscienze, differenti. Se tra queste idee che appartengono a me IL ME DI GRICE che stabilisco il rapporto, ragiono, percepisco SIGNIFICO il tutto complesso, non vi fosse un legame particolare, che non esiste tra le idee di spiriti distinti WHAT DO YOU MEAN, sarebbe altrettanto possibile in questo caso IF YOU KNOW WHAT I MEAN che questi  elementi si riunissero per costituire l'atto unico del rapporto, del ragionamento, della percezione, quanto nel caso che ciascuno di essi fosse uno stato di coscienze differenti. Prendiamo per esempio un semplice rapporto di succesgione o di coesistenza ai quali si riducono, in ultima analisi, al punto di vista semplicemente obbiettivo, tutti i rapporti che noi possiamo stabilire fra le nostre  idee. Noi non percepiamo le successioni e le coesistenze obbiettive che per delle successioni e coesistenze fra le nostre percezioni, e non ci rappresentiamo questi rapporti che per dei rapporti corrispondenti tra le nostre rappresentazioni in quanto alle coesistenze vi sarebbero delle riserve da fare, ma non importano alla quistione presente. La conoscenza della successione e della  simultaneità è dunque la coscienza della successione e della simultaneità delle nostre idee, cioè la coscienza delle nostre idee come successive e  simultanee. Ora avere coscienza  della successione o simultaneità delle idee A SOMONE IS HEARING A NOISE AT TIME T1 e  B SOMEONE IS HEARING A NOISE AT TIME T2, o di queste idee come successive SOMEONE IS HEARING A NOISE AT TIME T1 SOMEONE IS HEARING A NOISE AT TIMET2 o simultanee ACTIONS AND EVENTS, importa uno sguardo unico della coscienza, una coscienza unica che riunisce la coscienza di  T T S A  e  quella  di  T T S B. La coscienza di  T T S A e quella di T T S B, prese ciascuna isolatamente e succedentisi Funa all'altra, non potrebbero dare la coscienza del rapporto di successione tra A e B: questa coscienza non è dunque una  semplice juxtaposizione, un aggregato, delle due coscienze successive di A e di B,  ma è una coscienza – META-COSCIENZA -- unica, continua^ in cui le due coscienze successive sono comprese. Ma costatare l'unità della coscienza, la continuità tra i suoi stati GRICE STATE  successivi, non è  costatare l'esistenza di un elemento permanente, accompagnante elafi)  Saggio . ceni scuAO di questi stati GRICE STATE successivi, e che persiste, sempre lo stèsso, dal primo all'ultimo di questi stati e che esiste anche negl'intervalli in cui alcuno stato di coscienza non esiste. Sono due cose differenti, di cui la prima è un fatto d'esperienza interna, la seconda un'ipotesi metafìsica. È  evidente che quando Mill conclude dall'una delle due cose all'altra, come fanno i metafisici COME LOCKE REID GALLIE BROAD GRICE FLEW JONES, egli si allontana dai principii fondamentali della sua filosofia, cioè di quella dell'esperienza. Il principio supremo di questa filosofia è che non bisogna niente ammetterà in virtù di una semplice evidenza intrinseca, spesso fallace,    ma tutto provare senza altra eccezione che i portulati indispensabili ad ogni operazione detta ragione, che è impossibile di stabilire col ragionamento, perchè ogni ragionamento, li presuppone, e provare non è che estendere a nuovi casi particolari un rapporto di sequenza, di coesistenza, ecc. già costatato per l'esperienza nei casi identici, tutte le volte che quest'esperienza è tale che la  generalizzazione del rapporto ne sia garentita. Nel nostro caso, alle difficoltà logiche che solleva il criterio della evidenza intrinseca, se si ammette che il Me di GRICE trascendente è CDnosciuto a priori, per un'intuizione della ragione, si unisce l'impossibilità psicologica di porre nello spirito un'idea di cui non potrebbe trovarsi l'origine nell'esperienza UNLESS IT’S WUNDT’S – O LA DI LOTZE!. Ma noi non possiamo nemmeno ammettere che l'atto dello spirito, per cui il Me di GRICE trascendente è conosciuto, sia un'inferenza lofigira. LA COSTRUZIONE LOGICA Questa proposizione: la continuità della coscienza richiede l'esistenza di un Me di GRICE sostanziale, permanente, stabilisce fra le due cose un legame che se si ammette che esso è una semplice  inferenza  r esperienza  non ha mai potuto in alcun caso costatare. THEN IT’S ANALYTIC! Questa proposizione non può essere un caso particolare di una proposizione più generale già induttivamente stabilita, perchè il fatto di cui si tratta, la continuità della coscienza, è un fatto unico nel suo genere, di cui l'esperienza non presenta un analogo. Ad una sola condizione pòtremmo noi  dunque inferire dalla continuità della coscienza la cosa che si pretende con essa legata, cioè il Me di GRICE sostanziale, alla condizione cioè che noi conoscessimo dei casi in cui il legame tra le due cose fosse, non una verità d'inferenza, ma un dato dell'osservazione. Non vi ha  dunque che un mezzo per rendere la proposizione conciliabile coi principii del metodo sperimentale, cioè  con quelli della logica: è di supporre, come fanno una gran parte dei filosofi spiritualisti, che il legame è effettivamente un dato dell'osservazione,  che il Me di GRICE sostanziale non s'inferisce, ma si esperimenta, si percepisce. Ma, per questa supposizione, l'accordo coi principii del metodo sperimentale non è che apparente. La percezione è uno stato di coscienza del soggetto  percepente, che può interpretarsi sia come un fenomeno puramente subbiettivo, che non esce dal soggetto percepente, sia come un atto che oltrepassa questo soggetto ed attinge 1'oggetto percepito, che perciò si suppone presente nella coscienza. Ma per preferire questa seconda interpretazione, come fa l'ipotesi di cui parliamo, non vi ha che questa ragione da poter addurre, che la portata  obbiettiva della percezione, la presenza dell'oggetto nella coscienza, è una credenza naturale, irresistibile, che accompagna la percezione. E cosi l'ipotesi presuppone il principio in cui noi abbiamo riconosciuto l'antitesi di quello del metodo sperimentale, cioè che la semplice evidenza intrinseca è un criterio sufficiente, che la credenza è una prova della realtà della credenza stessa. Ben  più, in questo caso, il rimedio è peggiore del male perchè l'evidenza intrinseca della proposizione che l'unità della coscienza suppone un Me di GRICE permanente, sostanziale potrebbe forse ammettersi come fatto psicologico, se non come criterio logico O DI COSTRUZIONE LOGICA, ma non quella della proposizione che questo Me di GRICE è una percezione immediata della  coscienza. Quando la teoria della percezione immediata si applica agli oggetti del mondo esteriore di GRICE E MOORE, essa si giustifica per un appello alla credenza naturale del genere umano; ma la teoria della percezione immediata della sostanza Me di GRICE non è una credenza naturale del genere umano; non è che un'ipotesi di alcuni metafisici COME LOCKE REID BROAD GALLIE GRICE JONES FLEW,  immaginata per ispiegare la possibilità della conoscenza di questa sostanza. E un'ipotesi delle non meno strane, che presenta delle inconcepibilità come queste: Si ammette generalmente che la sostanza dello spirito è un che HUME HAUGELAND GRICE di sconosciuto e d'inconoscibile, e la divergenza delle opinioni dei metafìsici GALLIE E GRICE sulla natura di questa sostanza è una prova che essa non può essere l'oggetto di una conoscenza immediata; come la natura di una cosa immeliatamente presente alla coscienza potrebbe restare assolutamente sconosciuta? La percezione suppone una dualità di termini SELF-AWARENESS, un soggetto percepente – GRICE -- e un oggetto percepito – SOMEONE --, mentre qui non vi  sarebbe che un termine unico che sarebbe al tempo stesso il soggetto e Toggetto LA FERITA NARCISSISTA DI FREUD SOTTO PEARS. Sembra nondimeno che quando noi consideriamo il Me di GRICE, il complesso dei fenomeni della coscienza, separatamente dal suo sustrato corporale, l'idea di una sostanza,  d'una cosa che permane durante la successione di questi fenomeni, sia  una suggestione naturale, che noi non possiamo impedire che ci venga – HE IMPLICATED HE SUGGESTED -- allo spirito, per quanto possiamo respingerne il valore obbiettivo. È un fatto d'osservazione psicologica JAMES, e di cui MORE GRICE TO THE Mill può fornirci un esempio, quest'idea dovendo avere in lui un motivo indipendente dallo spiritualismo o, generalmente, dall'animismo, che potrebbe essere appunto  MENTALISMO MODERATO MORE GRICE TO THE Mill non si fjnda, per istabilire V esistenza del me di GRICE permanente, suir unità della coscienza direttamente y ma sul fatto della MEMORIA come implicante l'affermazione deirunità di coscienza, cioè, per dire la cosa con le sue stesse parole, la credenza che le sensazioni  rammentate hanpo formato realmente una parte della stessa catena MNEMONICA INTERLOCKED di coscienza di cui IL RICORDO DI BENJAMIN E DI BROAD di queste sensazioni è la parte attualmente presente. Il solo fatto, egli dice, che rende necessaria la credenza a un Me DI GRICE, il solo fatto che la teoria psicologica la quale risolve lo spirito, come la materia, in sentimenti e possibilità di sentimenti non può spiegare, è LA MEMORIA GRICE PERSONAL IDENTITY. La nozione del Sé è perciò secondo lui un accompagnamento LOGICAL CONSTRUCTION delle operazioni di questa facoltà, ma egli non vuol decidere se noi ne abbiamo direttamente coscienza neir atto di ricordarci, o se, non avendo coscienza di un So, noi siamo  forzati d*ammetterlo come una condizione necessaria della MEMORIA; in altri termini, se noi conosciamo il sé di GRICE por una percezione immediata o per un'inferenza Filos, di Hamilton. Non vi sarà certamente alcuno che metterà in dubbio li fatto questo, che, negando la realtà obbiettiva della materia, egli deve rappresentarsi lo spirito separatamente da un sustrato materiale. Ora  quale può essere la spiegazione di questo fenomeno psicologico? Ciò che deve mostrarci la via in questa ricerca è il principio che le illusioni naturali, i sofismi a priori del nostro spirito, sono il risultato di coesioni mentali puasi inseparabili, coesioni mentali che non hanno potuto essere formate se non dall'esperienza: ora la sola sostanza, la sola cosa permanente, con cui l'esperienza ci  mostra associato lo spirito o la coscienza, e con la cui  idea l'idea che LA MEMORIA IMPLICA LA CREDENZA CHE IO STESSO, L’IO CHE RICORDA, E NON UN ALTRO, HO AVUTE LE SENSAZIONI RICORDATE, né la realtà di questa credenza: ma questa credenza non è che la semplice affermazione di ciò che  noi  abbiamo chiamato unità della coscienza. Ammettere   che essa  contiene inoltre la nozione di UN ME PERMANENTE a meno che per QUESTO ME PERMANENTE non s'intenda la persona fisica, la cui rappresentazione in effetto è un accompagnamento abituale del ricordo delle sensazioni passate non è che un caso di queir errore, tante volte rimproverato al metodo introspettivo nella ricerca psicologica, di vedere nella coscienza dei  fatti che non vi sono, prendendo per fatti della coscienza le proprie interpretazioni di questi fatti. L'esistenza di UN ME PERMANENTE e trascendente cioè cha non è né i fenomeni della coscienza né la persona fisica che li accompagna é poi cosi poco la condizione necessaria della MEMORIA e della sua realtà, che, nella supposizione di QUESTO ME, niente vi La di più naturale che  il dubbio di LOCKE E REID E BROAD E GALLIE CITATO DA GRICE, «e l'identità della persona, cioè della coscienza, non possa continuare, malgrado che la sostanza che pensa non sia più la stessa, e se questa sostanza rimanendo la stessa, non possano esservi nondimeno più persone o coscienze distinte infatti è perfettamente concepibile che una sostanza abbia la convinzione di  aver fatte certe azioni o avute certe sensazioni BENJAMIN BROAD CITATO DA GRICE che un'altra invece ha realmente latte o avute, come anche che questa sostanza REID CITATO DA GRICE perda totalmente THE OFFICER’S THREE FORGETTINGS il sentimento della sua esistenza passata ciò che non sarebbe una pura ipotesi, ma un fatto dell'esperienza  Saggio sulVinUnd,  um. ccyiu dello spirito o della coscienza ha una coesione strettissima, quasi inseparabile, è IL ME fisico, il sustrato materiale di questa coscienza. È vero in un senso che la concezione del me non è semplicemente quella di una COSTRUZIONE LOGICA di una serie di sensazioni, pensieri, volizioni, ecc., ma comprende inoltre la nozione di qualche cosa che perdura e resta sempre la  stessa LOCKE DON LOCKE ME MYSELF durante lo svolgersi di tutta la serie, e che questa cosa che perdura ce la rappresentiamo come il soggetto, in cui le sensazioni, i pensieri, le volizioni, ecc., ineriscono. L'io, che nella lingua dello psicologo non è che il nome dello spirito, della coscienza, nella lingua ordinaria significa invece Del resto lo stesso Mill conviene che il fatto della  memoria e quello della previsione in cui egli vede pure un motivo per ammettere un me permanente, ma che egli riconduce al fenomeno della memoria resta egualmente inesplicabile tanto se si ammette la teoria che il me non è che la serie dei sentimenti, quanto se si ammette la teoria che esso è altra cosa che questa serie. La verità, egli dice, è che noi siamo in faccia all'inesplicabilità  finale, alla quale, come lo fa osservare Hamilton, arriviamo inevitabilmente quando tocchiamo ai fatti ultimi; e in generale si può dire che una maniera di formularla non pare più incomprensibile di un'altra che perchè la lingua intera è appropriata all'una, e si accorda si male con l'altra, che non si trovano per esprimere questa che delle parole che la negano. La vera pietra d' inciampo è forse meno in una teoria del fatto che nel fatto stesso. Ciò che vi ha di realmente incomprensibile è forsa che una cosa che ha cessato d'esistere, o che non ha ancora cominciato ad esistere, possa nondimeno essere, in eualche sorta, presente: che una serie di sentimenti, di cui l'infinitamente più gran parte è passata o avvenire possa essere raccolta, per cosi dire, in una sensazione presente  accompagnata dalla credenza nella sua realtà. Una proposizione di Mill ha per noi tanta importanza che non possiamo farla passare senza discuterla, quantunque il luogo possa sembrare inopportuno, ammettiamo che il fatto della memoria lo spirito e il corpo insieme, anzi il corpo a preferenza dello spirito GRICE THREE SENSES OF “I”.  È evidente infatti che il PRO-NOME me – or someone --  y  della stessa maniera che un NOME designante un se qualsiasi GRICE PRO-VERB,  non è la rappresentazione della serie degli stati di coscienza che richiama immediatamente al pensiero, ma quella della persona fisica I WAS HIT BY A CRICKET BAT. Di più, come nel modo abituale di conce|lire i fenomeni psichici, la persona fisica è il soggetto di questi fenomeni,  cosi è mediante la rappresentazione dell'unità e IDENTITA della persona fisica, che noi concepiamo ordinariamente l'unità e identità della catena di cui questi fenomeni fanno parte. Ciò è evidente quando si tratta di altre persone: come noi non possiamo attribuire un fatto psichico GRICE DAVIDSON DISIMPLICATURE EXTENSIONAL INTENSIONAL He’ll ruin the department a con le credenze che essa implica, sia un fatto ultimo, cioè che essa non possa ricondursi a della legge psicologica più generale; ne segue che esso è, come  tutti i fatti ultimi, inesplicabile; ma ne seguirà pure che esso è incomprensibile? Ciò sarebbe contrario all& teoria della conoscenza, i cui principii sono stati solidamente stabiliti dallo stesso Mill. Se noi ammettiamo che il fenomeno  è l'unica esistenza di cui possiamo essere certi, bisogna ammettere pure che la parola incomprensibile, quando si applica ai fatti ultimi, costanti, generali, della natura o dello spirito, non ha senso, che essa non indica niente almeno che abbia un valore obbiettivo, quantunque possa indicare un fatto psicologico reale. Un fatto particolare è incomprensibile, se esso non è stato sin qui  ricondotto alle leggi generali, ai fatti ultimi: ma i fatti ultimi essi stessi non possono presentare questa specie d'incomprensibilità, la sola che abbia un valore obbiettivo; per essi, incomprensibile non può significare se nonché ohe vi ha qualche cosa che oltrepassa l'esperienza e i fenomeni, l€t quale, se la conoscenza umana potesse attingervi, spiegherebbe i £Bi>tti in quistione. Noi  abbiamo stabilito che questa specie d'incomprensibilità non è che un fenomeno psicologico, senz'alcuna portata obbiettiva. Ma nel caso presente può sembrare difficile di assegnare l'origine d«ll'incomprensibilità WHAT DO YOU MEAN BY OF?,  perchè questa accompagna i fatti poco o niente familiari. Come un fenomeno così familiare qual è la*. ccx un me determinato che  rappresentandocelo in connessione con un individuo fisico determinato, cosi non possiamo attribuire due fatti psichici successivi a uno stesso me determinato che rappresentandoceli entrambi in connessione con uno stesso individuo fisico determinato. Quando si tratta di noi stessi, fors#  la regola non è così assoluta HAUGELAND: I WROTE IT, NOT GRICE! : ma io credo che ciascuno può osservare in se stesso che ordinariamente non si rappresenta come sua una situazione psicologica in cui, in un passato più o meno lontano, si è trovato, che rappresentandosela congiuntamente al suo proprio individuo fisico; e che una parte almeno di questa credenza accomqagnante ogni atto della memoria, che io stesso, e non un altro, sono quello che ha fatto l'azione o  provato la sensazione ricordata SOMEONE IS HEARING A NOISE IFF A HEARING OF A NOISE IS --,  è Taffermazione dell'identità del me fisico, che era il sogggtto di quest'azione o di memoria può dunque sembrare incomprensibile? quando lo afferma un persatore come MORE GRICE TO THE Mill, noi dobbiamo ammettere che, se esso non è realmente incomprensibile,  bisogna almeno che quest'apparenza d'incomprensibilità sia reale. Io credo che questa difficoltà AVRAMIDES WISDOM OTHER MINDS si risolva, ricordando il principio che i fatti stessi più familiari diventano incomprensibili quando la interpretazione scientifica di questi fatti è differente dalla loro intoipretnzione prescientifica THE DEVIL OF SCIENTISM e, per dir cosi, naturale, e riflettendo che questo  principio trova la sua applicazione anche nel fenomeno della memoria, la quale, secondo la credenza naturale, non è una rappresenrazione, un'immagine della cosa ricordata, come ammettiamo noi, ma attinge e involge LA COSA STESSA BENJAMIN, come ammette Reid CITATO DA GRICE che pretende essere il restauratore delle credenze naturali. Ciò che  non si vede però ò come questa incomprensibilità della memoria, cos'i intesa, possa servire a provare l'esistenza di un me trascendente; ma Mill riconosce che l'incomprensibilità sussiste egualmente tanto se si respinge quanto se si ammette questa ipotesi. questa sensazione, col me fisico che è il soggetto delle mie azioni e sensazioni attuali. Il me fisico dunque, oltre che è concepito  come il soggetto, il substratum necessario, dei fatti psichici, rappresenta, nel nostro pensiero, l'unità e identità della coscienza NOT A SPLIT PERSONALITY, e dà la coesione alla collezione delle sensazioni, formando la base comune a cui tutte stanno attac<;ate: ne segue che, quando noi concepiamo lo spirito, la serie dei fatti della coscienza, come separato dal corpo, ci sembra che  questi fatti siano quasi delle astrazioni realizzate, degli accidenti senza sostanza, e che la collezione delle sensazioni abbia perduto ciò che ne costituiva il legame e la continuità. Di là lo sforzo di restitufre alla serie il suo substratum e il principio della sua coesione, in altri termini, di sostituire un equivalenie al me fisico soppresso. Il me trascendente è dunque un succedaneo della  persona fisica, che il metafisico immagina naturalmente, per conformarsi il più che è possibile a un'abitudine quasi irresistibile della nostra intelligenza abitudine che genera una corrispondente tendenza a credere, per la legge psicologica, segnalata da Mill, che noi tendiamo a credere necessariamente legate le cose stesse le cui idee sono necessariamente legate, dopo che quest'abitudine non può essere più soddisfatta nella forma primitiva e genuina, per la separazione dello spirito dalla sua base materiale. Noi sappiamo infatti ciò di cui la forma secondaria della nozione di causa efficiente ci ha mostrato un esempio evidente che il nostro spirito, tutte le volte che una circostanza qualunque viene a contrariare le sue tenclenze naturali, e che così esso è costretto ad  abbandonare le prime concezioni che si era spontaneamente formato dei fenomeni, è inclinato a modellare le sue concezioni ulteriori e riflesse intorno a questi fenomeni sulle spontanee e primitive. Ora il me trascendente L’EGO DELLA APPERCEZIONE non si concepisce che per analogia alla persona fìsica COGITO ERGO SUM: esso è,  come questa, una sostanza, cioè un essere  che sussiste d'una maniera permanente ed è sempre lo stesso nella successione dei fenomeni psichici; il soggetto o snbstratum, a cui questi fenomeni ineriscono; e ciò la cui unità e identità è la base dell'unità e identità della persona THE CONCEPT OF A PERSON AYER STRAWSON. È sempre il fantasma del corpo, per quanto le forme sotto cui il filosofo lo concepisce possano essere lontane dall'antica teoria dell'anima fantasma. Quando la sostanza spirito è concepita come: immateriale, e al tempo stesso come un che di distinto dai sentimenti, pensieri, ecc., in una parola dai fatti della coscienza, si ha necessariamente l'idea di una sostanza sconosciuta e misteriosa di cui non ci è possibile di formarci alcuna nozione, tutte le nostre nozioni reali non avendo altri  oggetti che i corpi, le presentezioni dei sensi esterni, e i fatti del senso intimo, della coscienza: inoltre la dottrina ha questo difetto evidente, al punto di vista della logica, di supporre una forma dell'esistenza che non ha alcuna analogia nell'esperienza. Così la dottrina dei cartesiani e di altri filosofi, che la sostan  Il filosofo spiritualista somiglia al re Lear di Shakespeare, comanda: Chi sa  ^i essi chi sono io? za dell'anima consiste nel pensiero ovvero nel sentimento, nella percezione, ecc. quantunque essa sia quella che si allontana di più dalla forma naturale della teoria della sostanza anima, vale a dire dal doppio materialismo primitivo, e dalle esperienze familiari su cui la teoria in generale è modellata, e, per conseguenza, non possa dare che una soddisfazione meno completa alle tendenze dello spirito che l'hanno fatto immaginare pure si spiega, non solo come uno sforzo assai naturale di penetrare l'essenza delle cose, ma ancora per questo vantaggio che e^sa ha sullo spiritualismo ordinario, di non ammettere altre forme  della realtà che quelle che sono date dairesperienza. Ma è strano che, sia che si tratti dell'essenza dello spirito sia che si tratti di quella della materia, delle due ipotesi tra cui il metafisico può scegliere quando le concezioni, più spontanee sono state abbandonate, e di cui l'una consiste ad ammettere una forma della realtà assolutamente sconosciuta ed inconoscibile, e l'altra a non riconoscere  altra forma della realtà che quella che, è data nella conoscenza immediata, nella coscienza modo di vedere che, applicato alla materia, dà luogo al panpsichismo oppure all'idealismo, e applicato allo spirito, alla dottrina che la sua sostanza consiste ilei pensiero o nel sentimento ecc. è strano, dico, che delle due ipotesi è la più sperimentale che è il punto di partenza della metafisica più astrusa e più arrischiata. La prima conseguenza che si offre allo spirito e senza dubbio la meno allarmante della dottrina che la sostanza deiranima consiste nel pensiero qui la parola pensiero deve intenders come il sinonimo di stato di coscienza in generale è la proposizione cartesiana che l'anima pensa sempre. In effetto ima sostanza deve esistere d'una maniera continua; così se in  questa sostanza non vi ha altra cosa che il pensiero, o piuttosto se essa non è altra cosa che il pensiero, non può mai darsi un istante in cui essa non abbia qualche pensiero. Se l'anima cessa un istante di pensare, la sostanza sarebbe allora annichilata, e una nuova sostanza sarebbe creata, quando l'anima ricomincia a pensare. TJn'alra conseguenza è la teoria delle idee innate. Questa teoria  è già virtualmente contenuta nella dottrina che l'anima pensa sempre. È ciò che Locke comprese perfettamente,  quantunque egli sembri non aver visto che il punto essenziale a decidere tra lui e ì cartesiani era precisamente se, come egli 1'assume senza provarlo, la sostanza dell'anima dove riporsi in qualche cosa di sconosciuto, ovvero in ciò che solo è attestato dalla coscienza. Se  l'anima pensa sempre, domanda Locke, quali sono le idee che si trovano nell'anima d'un fanciullo, prima della, sua unione col corpo, o al momento preciso di questa unione, prima d'aver ricevuto alcuna idea per la via dei sensi? Bisogna allora che lo spirito abbia delle idee che gli sono naturali, e che egli non ha ricevuto per l'intermediario del corpo. In verità dalla supposizione che1'anima pensa sempre, non ne segue, come osserva il traduttore francese Coste,.Saggi  snirintend,  JHqti. che l'anima abbia avuto delle idee prima di essere stata unita al corpo, poiché essa potrebbe aver cominciato ad esistere nel momento stesso eh'essa è stata unita al corpo: ma Coste non dovrebbe concludere da quest'osservazione che sin dal primo momento dell'esistenza dell'anima, i sensi possono fornirle delle idee, comunicandole le impressioni degli oggetti esteriori. Prima che l'anima abbia una sensazione, il corpo deve comunicarle l'impressione ricevuta dall'oggetto esteriore; la sensazione è la reazione dell'anima che segue all'azione del corpo su di essa nell'ipotesi che il corpo e l'anima siano due sostanze; dunque l'anima deve esistere prima di sentire. Ma  inoltre la necessità che vi sia nello spirito qualche cosa che non sia dovuta al corpo, è una conseguenza necessaria del concetto che lo spirito esiste indipendentemente dal corpo, senza di che esso non potrebbe essere una sostanza. Se tutto ciò che vi ha nello spirito di reale non è che un effetto, sia immediato, sia mediato, dell'azione del corpo, allora l'esistenza stessa dello spirito sarà una conseguenza dell'azione del corpo, lo spirito, per esistere, dipende dal corpo, non esiste per sé stesso, e per conseguenza non sarà una  sostanza. La necessità delle idee innate deriva per Cartesio dalla definizione stessa della sostanza una volta che egli concepiva lo spirito come una sostanza, e come una sostanza consistente nel pensiero: una cosa che non ha bisogno se non che di se stessa per esistere, o, per non pregiudicare alla dipendenza delle cose finite da Dio, che può esistere senza l'aiuto d'alcuna cosa creata. E la definizione cartesiana è perfettamente esatta: i fenomeni, cioè i cangiamenti, delle sostanze, vale a dire dei còrpi, dipendono dall'azione di altre sostanze, di altri corpi; ma l'esistenza stessa dei corpi è indipendente da quella di altri corpi. Deve esservi dunque nella sostansa anima, come nei corpi, qualche cosa di proprio che le appartentenga per sua natura e che non sia una conseguenza dei suoi rapporti con altre sostanze: ma niente resterebbe all'anima di proprio e appartenente ad essa por sua natura nella supposizione che tutto ciò che vi ha in essa non è che pensiero se tutte le sue idee fossero nate dai sensi, e, quindi,  aA^ventizie e dipendenti dal corpo. Princijnì della  filosofia, Ecco come l’anonimo cartesiano, autore del Trattato della natura dell'anima e dell'origine delle sue conoscerne contro il sistema di Locke e dei suoi partigiani, stabilisce che vi sono delle Idee che i-uomo riceve da Dio prima che 1 sensi  possano agire su di lui: L'anima essendo essenzialmente spirituale, essendo stata creata  pensante, bisogna necessariamente che sin da questo primo Istante vi sia <iua]che  1 roale al  qiiile es=ja pen^a; perchè potrebbe dirsi che In questo primo momento Tanlma pensa a nulla? Pensare a nulla e non pensare affatto è la stessa cosn. Se dunque si ammette che Tanima pensa tosto che essa comincia ad esistere, si deve indlspensabilanente convenire ancora che essa ha sin d'allora  un oggetto a cui essa pensa. Lelbnitz obbietta a Locke: Questa tavola rasa di cui tanto si parla  non è a mio avviso che una finzione Quelli che parlano tanto di questa tavola rasa, dopo d'averle  tolto le Idee, non potrebfcero dire che cosa le resti Mi si risponderà forse che questa tavola rasa dei filosofi vuol dire che l'anima non ha naturalmente ed originariamente che delle facoltfi nude. Ma le facoltà senza qualche atto, in una parola, le pure potenze della scuola, non sono ^he Il concetto delle idee innate non è così innocente al punto di vista della correttezza intrinseca come quello della continuità del pensiero nell'anima. Se, come abbiamo visto nel saggio, è dell'essenza stessa del pensiero di risolversi in elementi sensoriali, un preteso pensiero che non constasse di elementi sensoriali, non sarebbe un pensiero secondo il solo concetto concepibile che noi possiamo formarci del pensiero: la teoria delle idee innate è dunque un concetto metafìsico nel senso più stretto, non essendo un semplice errore di fatto, ma un'impossibilità logica. Ma quand'anche non fosse così, questa teoria mefiu2ionl, che la natura non conosce, e che non si ottengono che facendo delle astrazioni N, S, sull'intend, Le idee innate in Lelbultz rlposcino sulla base stessa che In Carlerlo: quantunque talvolta egli si o;ipongi alla dottrina cartesiana nella sostanza dell'anima p. e. neW Esame di MelebrancUe, ed.Dutens, ove dice: lo spirito non è 11 pensiero, come dicono i c^rteslanl, ma un soggetto o un concretnm che pensa, tuttavia la sua propria dottrina, in ottima analisi, non differisce essenzialmente da quella di Cartesio. Nelle monadi non vi ha altra cosa che percezioni ed appetiti; anzi, le monadi non sono altra cosa che rappresentazioni  di lenomeul col  transito a nuovi fenomeni, cioè che percezicnl ed appetltl. E iu queste proposizioni che dobbiamo vedere l'espressione del vero pensiero pi Lelbultz, perchè la monadologia, come tutte lo altrevarietà del panpsichismo, suppone il principio che non si può ammettere altra forma della realtà che quella che è data nella esperienza immediata, nella coscienza. Citiamo infine Rosmini: I filosofi che immaginano 1'uomo a principio piivo di ogni sentimento, lo fanno veramente una statua: e quando in questa statua, che non è un soggetto sensitivo, pretendono che al toccamento del corpi esterni nascano le sensazioni, sebbene nella statua nulla ci sia di simile, descrivono allora un procedimento GRICE PROCEDURE Inesplicabile, un mistero contrario all'ordine consueto della natura. Dico un procedimento GRICE PROCEDURE inesplicabile, perchè si fatta origine del sentimento, che comincia di tratto a trovarsi là dove punto non c'è, oltrepassa l' Intelligenza nostra ({uanto la creazione dal nulla.Tale Ipotesi è altresì contro l'ordine costante della natura, la quale HiU ^ i riterebbe sempre di avere un posto nella storia dei concetti metafìsici in questo senso più stretto, in grazia almeno della dottrina della visione ideale^di cui essa è uno dei punti di partenza. Tutte le volte che si ammettono nello spirito delle conoscenze indipendenti dall'esperienza,  nasce il problema di spiegare la possibilità e l'origine di queste conoscenze; e una delle soluzioni che si presenta naturalmente al metafìsico è che queste conoscenze vengono da una percezione sovrasensibile, intellettuale. Questa spiegazione si conforma perfettamenfe al tipo generale delle spiegazioni metafìsiche, che consiste a ricondurre il fatto a spiegare, vero o supposto, alle nozioni che ci sono più familiari. Ciò è tanto vero che la dottrina della intuizione ideale suppone che l'oggetto intuito è immediatamente presente al pensiero intuente, della stessa maniera che il realismo naturale suppone che 1'oggetto percepito dai sensi è immediatamente presente nella percenon opera per salto; e eerto vi sarebbe un saUo, ove noi . al tocco che di uol fa un corpo esterno, passassimo dil non sentir punto noi stessi, a senti, e di repente e noi stessi e qualche cosa fuori di noi. Contemporaneo a quel movimento esterno, che non ha nulla di slmile con la sensazione, si sarebbe, per così dire, acceso in noi e creato uno spirito; polche quale idea ci possiamo noi formare deUo spirito privo al tutto di qualunque sentimento e di qualun ine pensiero? Lo spirito non ha estensione né altre qualità di corpo; togliete a lui anche le qualità dello spirito, che sono il sentire e l'intendere, e voi l'avete annullato, o certo nella vostra mente l'idea di uno spirito è al tutto svanita; purché supplendo voi a quella con un giuoco della vostra immaj?Inazione, non v'immaginiate poi, o fingiate d'Immaginarvl, uno spirito d'una specie  quale non è data  nò dali'osservazlou» uè dalla coscienza, e noi mettiate nel luogo dello spirito vero del quale avete cancellata l'idea N S, snll'orig, delle idee. zione sensibile, quantunque la gran maggioranza dei filosofi rigetti, su questo punto, la credenza naturale, sostituendole la teoria che ciò che lo spirito percepisce immediatamente è, non l'oggetto stesso, ma una rappresentazione dell'oggetto VISUM GRICE WARNOCK. Ora la prevalenza, nella scienza, della teoria rappresentativa non impedisce che la maniera più familiare di concepire il fatto della percezione in cui lo stesso filosofo rappresentazionista  lo concepisce spontaneamente tutte le volte eh'egli ha una perceziona sia appunto quella del realismo naturale. Così è su questa, non sulla nozione scientifica della percezione rappresentativa, che il  metafisico modella la sua visione ideale: Malebranche non dubita della dottrina generalmente ammessa dai filosofi, che noi non percepiamo i corpi che per l'intermediario di una rappresentaziene VISUM GRICE WARNOCK; ma se egli avesse ammesso, in conseguenza, che è di questa stessa maniera che noi vediamo le idee in Dio, la visione ideale non sarebbe stata più per lui una  spiegazione delle idee innate, perchè egli non avrebbe ricondotto, allora, il fatto da spiegare alle nozioni più familiari del nostro spirito, La dottrina che lo spirito è una cosa che dura La dottrina delle idee innate può essere cosi bene li principio che la conseguenza, della dottrina dell'Intuizione intellettuale. Quando troviamo la dottrina deli'intuizione intellettuale unita a quella che la  sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o ad un'altra analoga sulla sostanza dell'anima, la quale supponga che questa contenga in sé delle idee anteriormente all'esercizio dei sensi come p. e. nel sistemi di Matebrauche e di Rosmini, evidentemente noi dobbiamo considerare come uno almeno dei punti di partenza della dottrina ccxx continuamente che esso pensa sempre, e quella che  esso esiste per se, che, per esistere, non dipende dal corpo, avvicinano certamente la nozione dello spirito, concepito come non contenente in se altra cosa che il pensiero, alla nozione di una sostanza: ma perchè V assimilazione dello spirito alla sostanza sia la più completa possibile, bisogna anche ammettere in lui un fondo permanente, un elemento che persiste sempre lo stesso, nel  mutamento continuo dei fenomeni, e che sia il sustrato in cui questi fenomeni cangianti ineriscono. È questa la proprietà più caratteristica della sostanza, per cui noi V abbiamo definita. Ora, nella supposizione che nello spirito non vi sia altra cosa che pensiero, o sentimento, ecc., in una parola che tutto il suo contenuto debba essere concepito per analogia ai dati della coscienza, questo  fondo permanente dello spirito, questo sustrato dei suoi fenomeni cangianti, non può essere altra cosa che delMntult3  li dottrina delle idee innate, e quella j^ulla  »o«itanza dell'anima come punto di partenza più lontano. Ma la dottrina dell'intuito non è stata immaginata soltanto per ispiepai-e le idee innate: considerata In generale, essa ha per oggetto di spiegare le idee e le contS'tnie  che si suppongono indipendenti dall'esperienza, qualunque sia 11 motivo che faccia ammettere delle idee e dello conoscenze di questa specIe. È evidente che questo motivo non è unicamente una certa dottrina sulla sostanza dell'anima: quasi tutti i metafisici, qua» iunque siano le loro idee sull'essenza dello spirito, ammettono che le verità che ci sembrano intrinsicamente evidenti, sono  Indipendenti dall'esperienza, opinione, che può riguardarsi corno 11 risultato di un'inclinazione naturale del nostro spirito. Alla tendenza spontanea che ci fa conslderai'e le verità che sembrano intrinsicamente evidenti come a priori, si aggiunge questa forma di speculazione metafisica, che abbiamo studiata qualche pensiero, o sentimento, ecc., in una parola qualche cosa di analogo ai  fatti reali della ooscionza. Di là il concetto che la sostanza dello spirito è un sentimento o un pensiero sostanziale, cioè immanente e continuo GRICE PERSONAL IDENTITY, di cui tutti i fenomeni transitori della coscienza sono dei modi di essere, come tutti i fenomeni transitori del corpo sono dei modi di essere della sostanza del corpo, che persiste GRICE PERSONAL IDENTITY al di sotto di questi cangiamenti. I Cartesiani non potevano mancare di sviluppare in questo senso la dottrina del maestro. L'essenza dello spirito, dice Malebranche, non consiste che nel pensiero, come l'essenza della materia non consiste che nell'estensione Per questa parola pensiero io non intendo lo modificazioni particolari dell'anima, tale o tal altro pensiero, ma il pensiero sostanziale,  il pensiero capace di ogni sorta di modificazioni o di pensieri, come per l'estensione non s'intende una tale o tal altra estensione^ la  rotonda e VII., il cai oggetto ò di convertire Ife verità o pretese verità Induttivo in verità intrinsicamente evidenti, e quindi a priori. Ciascuno di questi motivi della teoria delle conoscenze a priori può avere per effetto mediato la dottrini dell'intuito razionale,  e quella delle idee innate che ne è la conseguenza. Un altro motivo che produce la dottrina delle idee innite per la mediazione di quella dell'intuito, può trovarsi nella stessa teoria ordinaria sulla sostanza dello spirito, che considera questo come un che di di«tinto dai fenometil della co^clenzi, e di sconosciuto nella sua essenza spiritualismo. Quando il filosofo spiritualista ammette la  dottrina della po;'ceeione immediata degli oggetti esteriori ciò che è la regola nella filosofia spiritualista - egli è naturalmente portato ad estendere per nnalogla la stessa dottrina alla sostanza me, ciò che Implica Videa innata del ME DI GRICE come sostanza almeno quando si «uppoue, come sembra il più naturale, che questa percezione  che IL ME DI GRICE HA DI SE STESSO è  Immauante, o la quadrata, ma l'estensione capace dì ogni sorta di modificazioni o di figure. L'autore paragona altrove le differenti percezioni particolari dell'anima di GRICE, relativamente alla sostanza dell'anima di GRICE, cioè alla percezione o pensiero sostanziale che ne costituisce l'essenza, alle differenti figure che può ricevere la cera, relativamente alla cera stessa. Regis definisce l'anima: un pensiero che esiste in se stesso e che è il soggetto delle diverse maniere di pensare. Egli distingue il pensiero, che costituisce la sostanza dell'anima di GRICE, e i pensieri particolari, che non ne sono se non delle modificazioni differenti: vi ha questo divario tra il pensiero, che costituisce LA MIA NATURA DI GRICEl, e quelli i quali non sono che dei modi di essere, che il  primo è un  pensiero fisso e permanente, e gli altri sono cangianti e passeggieri. Ma il pensiero che costituisce LA MIA NATURA DI GRICE non è il pensiero in generale una semplice astrazione ma un pensiero fìsso, singolare e determinato, che è il soggetto dei pensieri particolari. Arnauld dice: I cangiamenti che avvengono nelle sostanze semplici non le fanno essere una cosa diversa  da quella che erano. Ciò è appunto quello, per cui le cose o le sostanze si distinguono dai modi o maniere di •essere, che si possono anche chiamare modificazioni. Ma le vere modificazioni non potendosi concepire senza concepire la sostanza di cui esse sono modificazioni; se LA MIA NATURA DI GRICE è di pensare, ed io posso I  Rie. della ver. Rie. della  ver.. Plouquet Esame del  fatai, e. H'*. pensare a diverse cose senza cangiare di natura I AM THINKING OF HITLER,  è necessario clie questi diversi pensieri non siano se non che differenti modificazioni del pensiero che fa LA MIA NATURA DI GRICE. Porse vi ha IN ME GRICE qualche pensiero che non cangia, e che si potrebbe prendere per l'essenza DELLA MIA ANIMA DI GRICE. Io ne trovo due che potrebbero credersi tali: il pensiero dell'essere universale, e quello che 1'anima ha di se stessa; perchè sembra che 1'uno e l' altro si trovi in tutti gli altri pensieri: quello dell'essere universale, perchè tutti i pensieri raccliiudono l' idea dell'essere IL SUM DI GRICE, non conoscendo L’ANIMA NOSTRA DI GRICE alcuna cosa se non sotto la nozione di essere RES COGITANS RES EXTENSA o possibile o esistente è il germe della dottrina di Rosmini sull'essere ideale; e il pensiero che L’ANIMA NOSTRA DI GRICE ha di se stessa, perchè di qualunque cosa io conosca, conosco che la conosco, per una certa riflessione virtuale, che accompagna tutti i miei pensieri GRICE PIROTOLOGY INCORRIGIBILITY PRIVILEGED ACCESS. L'esempio più notevole di  quest'applicazione del concetto di sostanza ai fenomeni della coscienza si trova senza dubbio nella filosofia di SERBATI:  la sua dottrina sul sentimento fondamentale e quella sull'intuizione dell'essere ideale non hanno altro scopo che di trovare tra i fenomeni del sentimento e del pensiero la sostanza dell'anima di GRICE, cioè questa cosa permanente GRICE PERSONAL IDENTITY, di cui i  pensieri e i sentimenti successivi GRICE PERSONAL IDENTITY non sono che dei modi di essere. Ma per l'importanza di questa dottrina nel sistema di Rosmini, e l'importanza di questo sistema  nella  fìlo. Delle vere e delle false idee^sofia nazionale ITALIANA, ne faremo un'esposizione particolareggiata in un Supplemento: è ad esso che rimandiamo per una maggiore  delucidazione di questa forma del concetto di sostanza anima, che cerca questa sostanza nei fatti stessi della coscienza. Qui termineremo per un'osservazione generale sulle diverse forme di questo concetto: è che i diversi modi in cui è stata concepita l'essenza della sostanza anima non sono, al fondo, che quelli stessi in cui è stata concepita l'essenza della materia. La materia è stata  concepita: Come materiale mi si permetta di esprimermi così, cioè conformemente alla nozione ordinaria e naturale che gli uomini si fanno della materia, come una cosa estesa, visibite, palpabile, ecc., ciò che è la sola rappresentazione reale che lo spirito umano può formarsi della materialità questo concetto della materia ha il suo riscontro nella forma primitiva della dottrina animista,  che Bain chiama il doppio materialismo. Come una cosa sconosciuta e inconoscibile J’AI NE SAIS QUOI, punto di vista al quale devono anche ricondursi le dottrine cosi dette dinamiche, che risolvono la materia in elementi semplici, cioè assolutamente indivisibili e inestesi a questa concezione della materia corrisponde lo spiritualismo ordinario. Come consistente in percezione e  appetito monadologia di Leibuitz o volontà Schopenauer, Biran, ecc: o tendenza, ecc:, in una parola come analosfa alla realtà che ci è data nella coscienza è, d'una maniera generale, la dottrina che abbiamo chiamato panpsichismo, alla quale corrisponde quella che la sostanza dell'anima consiste nel pensiero, o nel sentimento, ecc.. Che i tre soli modi possibili di concepire la materia si  ino pure i tre soli modi possibili di concepire la sostanza dello spirito, non è un fatto sorprendente, anzi è necessario, perchè noi non possiamo pensare che con le idee che abbiamo, e l'idea della materia e quella della sostanza, che ciò si riconosca o no, non sono due idee distinte, ma una sola e stessa idea. Ma prima di finire non sarà forse inutile di mettere in guardia il lettore contro un  possibile malinteso. La dottrina che non ammette che lo spirito sia una sostanza^ non sopprime l'opposizione radicale tra lo spirito e il corpo, anzi è una conseguenza di questa opposizione, perchè se si nega la sostanzialità dello spirito, è appunto per l'impossibilità di applicare allo spirito un concetto, che non conviene se non alla materia. Da ciò che lo spirito non è una sostanza non si  deve concludere che lo spirito è niente ONTOLOGICAL MARXISM, o che la materia ha una realtà piti grande che quella dello spirito. Al contrario, tutti coloro per cui lo sviluppo della filosofia, da Cartesio sino ai nostri giorni, non è il libro chiuso dai sette sigilli, sanno che lo spirito è un fatto mentre la materia non è che un'ipotesi, e un'ipotesi che presenta le più gravi difficoltà che  noi svilupperemo e discuteremo, perchè sono esse che danno l'impulso alla evoluzione della concezione realista del mondo esteriore GRICE MOORE, determinando le forme metafisiche di questa concezione. La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'anima è una conseguenza del principio fondamentale della sua filosofia principio in se stesso rigorosamente sperimentale che la realtà  è costituita dal seutimento. Cosi il suo concetto della sostanza dell'anima si ottiene fondendo insieme queste due idee incompatibili, quella di un sentimento e quella di una sostanza. L'anima, dice Rosmini, è un sentimento originario e stabile, principio e soggetto di tutii gli altri sentimenti. è un sentimento sostanziale o un sentimento sostanza: fio d' una persona GRICE PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON è il sentimento proprio e incomunicabile di questa persona GRICE PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON. La facoltà, di sentire è costituita da un atto primitivo e permanente GRICE PERSONAL IDENTITY che è la base e la radice di tutti gli atti avventizi e mutabili di questa facoltà: quest'atto originario – SOMEONE IS HEARING A NOISE --- e immanente del senso Rosmini lo chiama il sentimento fondamentale, ed è in esso che fa consistere la sostanza del principio SENZIENTE, dell'anima puramente sensitiva. Le prove di cui Rosmini si vale per  istabiLro  l'esistenza del sentimento fondamentale, sono generalmente Psic, ecc.; ecc. N. S,  Psic  KB.Tc^os.  ecc.  fondate sul con(3etto della sostanzialità deir anima non che  su quello dell'unità e dell'IDENTITA DEL ME GRICE PERSONAL IDENTITY, lo' quali suppongono secondo lui 1'unità e  L’IDENTITA DEL NOSTRO SENTIMENTO NELLA PLURALITA E IL CANGIAMENTO DEGLI STATI DELLA NOSTRA SENSIBILITA, in modo che sia sempre LO STESSO – FLEW JONES SAME SELF THE SELF sentimento nei suoi diversi modi. Il sentimento fondamentale è IL SENTIMENTO DELL’IO PERCETTIVO DEL PROPRIO CORPO: esso è unico, ma comprende, come due poli opposti e inseparabili, un principio e un termine, cioè un soggetto che percepisce e una cosa che è percepita  THE SOUND SOMEONE IS HEARING,  Questa cosa che è percepita THE NOT RED OF THE PILLAR BOX  col sentimento fondamentale è il proprio corpo: il nostro corpo o almeno tutte le parti sensitive del nostro corpo SOMEONE IS HEARING A NOISE WITH HIS EARS AND NOT SEEING THE RED PILLAR BOX WITH HIS EYES è da noi abitualmente e uniformemente sentito d'una maniera intima che non bisogna confondere con le percezioni dei scusi esterni, quantunque questo sentimento,  per essere coniiuuo e sempre il medesimo GRICE SAMENESS, suole sfuggire alla nostra osservazione. Questo sentimento intimo, per cui ranima percepisce il proprio corpo, è, nel suo stato normale, un sentimento di piacere blandamente e equabilmente diffuso in tutta Testensione del corpo almeno del corpo sensitivo, o più  propriamente V estensione di questo corpo è una proprietà,  un modo del sentimento stesso poiché secondo Rosmini il corpo MY HEAD WAS HIT BY A CRICKET BAT  non è se non in quanto è sentito, e non esiste se non nel sentimento BERKELEY WARNOCK AUSTIN GRICE. Ps., eco. Ps. m  TI,, N.  ^,  ecc. N. S,  eoo.  Ps,  eoo. <5)  N.  S,  sez.  il studio  di G. suUa dottrina di Rosminr sull'essenza della materia Notiamo che questa  dottrina e quella del sentimento fondamentale sono intimamente connesse, e si suppongono l'una con Il  sentimento  fondamentale è a noi innato THAT BABY IS HEARING A NOISE,  perchè esso è rio, e noi siamo innati a noi stessi; esso non ci manca mai, in alcun momento della nostra esistenza, perchè noi non possiamo mancare a noi stessi; infine esso persiste nel flusso continuo degli altri fenomeni avventizi dello spinto, perchè IL ME, LA PERSONA, GRICE, persiste ed è sempre identica a sé stessa. Ma è evidente che questa persistenza del sentimento fondamentale, nella successione dei sentimenti  avventizi e transitori, non sarebbe sufficiente per se sola a riguardare questo sentimento come il me o la sostanza dell 'aI l'altra. Mentre, da una parte, senza la i)ermanenza del sentimento fondamentale la permanenza, e quindi la nmltà, del corpo sarebbe impossibile, dall'altra parte, senza l'inesistenza del corpo nel principio senziente, senza il panpsicltlsmo di Rosmini, la sua dottrina sulla sostanzialità dell'anima sensitiva sarebbe senza motivo. Perchè Rosmini cerca una sostanza, un quid permanente, che sia il sustrato dei fenomeni dell'anima sensitiva? Perchè questo sustrato non può essere pia per lui IL ME FISICO GRICE PERSONAL IDENTITY THREE SENSES OF I -- , il corpo: infatti come i fenomeni dello spirito potrebbero avere per sustrato 11 corpo se  questo non è esso stesso che un fenomeno dello spirito? L'ipotesi della sostanzialità dell'anima in Rosmini non ha per oggetto, come nel'animismo primitivo, di spiegare l'origine della vita e il passaggio dalla vita alla  morte: la vita, per Rosmini, non sorge, né si perde, nel seno della materia bruta; tutta la materia è per lui animata, e le anime degli elementi materiali che costituiscono un  individuo vivente, organizzato, sono degli elementi costitutivi dell'anima di quest'individuo. L'esempio di Rosmini ci mostra della maniera più evidente l'importanza capitale del secondo dei due motivi che noi abbiamo assegnato alla dottrina che lo spirito è una sostanza cioè quello risultante dall'associazione intima dell'idea dello spirito con quella del corpo per ispiegare le forme della  dottrina che ripongono questa sostanza negli stessi fenomeni della coscienza.  N. S., ecc. N. S,, Psic. IGS., eco., Teos.,  eoe. Dima: perciò è necessario ancora che questo sentimento abbia con gli altri fenomeni della sensibilità lo stesso rapporto che la sostanza ha coi suoi accidenti o modi di essere. In effetto se il sentimento fondamentale non fosse in tale rapporto con gli altri sentimenti, se esso non fosse il soggetto a cui questi si riferiscono, l'ipotesi del sentimento fondamentale non farebbe che aggiungere un'altra sensazione a questa collezione di sensazioni, in cui fanno consistere IL ME DI GRICE quelli che non ammettono che IL ME E UNA SOSTANZA – GRICE BROAD PURE EGO THEORY: mentre Rosmini cerca ciò che dà l'unità alla collezione delle sensazioni, questa  sostanza ME DI GRICE che tutte le raccoglie ed unizza, perchè tutte in essa ineriscono. Il sentimento fondamentale è così chiamato da Rosmini, perchè è in esso, secondo lui, che sono fondate tutte le altre sensazioni e fra queste bisogna comprendere le riproduzioni che fa V immaginazione delle sensazioni passate. Il sentimento fondamentale è dunque la sede delle sensazioni avventizie,  e queste ad esso si attengono come a loro sustrato. E in effetto l'estensione del nostro corpo da noi continuamente percepita col sentimento fondamentale, è la sede in cui tutte le sensazioni avventizie vengono percepite; poiché secondo Rosmini l'estensione è un dato comune di tutte le sensazioni, l'estensione percepita di ogni sensazione essendo l'estensione stessa dell'organo in cui essa  ha la sua sede. Ciò non è vero soltanto delle sensazioni Interne, che noi localizziamo in punti determinati del N. S, Teos., Ps., eco. Psic. Ps., Teos. N. S., Ps., Teos. B.  eoo. V nostro corpo: ma le stesse sensazioni esterne, che ci danno le nozioni degli oggetti esteriori, hanno un'estensione identica a quella dell'organo percipiente, poiché tutte le percezioni dei sensi esterni si riducono  secondo Rosmini al tatto, e noi non percepiamo che la superficie dei corpi esterni, in quanto essa coincide e s'identifica con la superficie dell'organo percipiente, sicché V estensione immediatamente percepita nelle sensazioni esterne non è che l'estensione stessa del sentimento fondamentale. Di più, siccome il sentimento fondamentale, che è naturalmente un sentimento di piacere, ma  che può variare, rendendosi più o meno piacevole o anche doloroso secondo i cangiamenti del corpo, sostiene e contiene tutte le sensazioni avventizie, cosi il piacere o il dolore accompagna, in qualche grado, tutte le sensazioni, se pure non voglia dirsi che tutte le sensazioni sono dei modi del piacere e del dolore. Potrebbe dirsi che il sentimento fondamentale è nella costituzione dello  spirito ciò che lo scheletro o il nucleo nella costituzione dei corpi: ma Rosmini trova che queste comparazioni non sono adequate. Queste comparazioni, in effetto, non danno un'idea esatta della natura del rapporto tra il sentimento fondamentale e le sensazioni avventizie: questo rapporto non è di quelli che possono correre tra fenomeni distinti e separati, fra atti distinti e separati dello  spirito. Vi è al contrario una relazione d'inerenza reciproca tra il sentimento fondamentale e le sensazioni avventizie, perchè il sentimento fondamentale è IL ME DI GRICE o la sostanza dello  spirito, e perciò N.  S.  N.  S., eco. Teos..la relazione fra esso e gli altri fenomeni dello spirito è quella che vi ha fra la sostanza e gli accidenti, fra Tente e i modi di essere dell'ente. Le sensazioni  avventizie e tra esse bisogna comprendere lo rappresentazioni deirimmaginazione sono delle modificazioni del sentimento fondamentale: quando una sensazione nuova sopravviene nello spirito, essa non è già nuovamente creata, ma è una nuova forma che prende il sentimento fondamentate preesistente, è il sentimento fondamentale stesso eccitato e modificato, il quale divenendo una  nuova sensazione, il sentimento non muta r essere, ma il modo doir essere. La sostanza dello spirito, cioè del sentimento, resta la stessa, non cangia che la forma: è, per ripigliare la similitudine di Malebranche, la stessa cera che prende un'altra figura. Per conseguenza Rosmini va anche sino ad affermare che le sensazioni avventizie preesistono, quantunque in un modo diverso, nel  sentimento fondamentale cioè nel sentimento abituale e primitivo deiranima per cui essa percepisce se stessa in unione col proprio corpo. In questo sentimento originario che costituisce la sostanza delTanima si contengono tutte queste appendici ch'es5>a prende poscia nel suo sviluppo. Perchè il senziente resti identico a se stesso, egli deve avere inerente, sin dal principio della sua  esistenza, un sentito nel quale virtualmente si compreu'lano tutte le future sensazioni. S., Ps,  tav. sinott. del senso, Teos. eoo. Ps, Ps., Teos. 5.,  iV. S., eoo. Il principio SENZIENTE prima di sentire GRICE SENSING attualmente la nuova sensazione, la sentiva dunque virtualmente. Ma che cosa vuol dire sentirla virtualmente – it’s like when Grice says that he has the absence of experiencing the red pillar box as blue -- ? Se per sentire virtualmente s'intende non sentire niente affatto, dimodoché vi avesse un passaggio tra il non sentire affatto e il sentire attualmente NONDISPOSITIONALLY, in tal caso con la nuova sensazione sorge un principio nuovo di sentire, non resta il precedente identico; la sensazione nuova non e modificazione di un sentimento ]»i ecedente, sarebbe un sentimento del tutto nuovo ella s:«  ssa Conviene dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo . quasi nascosta e confusa in un sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l'energia propria del principio senziente Secondo questo concetto della virtualità sensitiva un principio senziente, un soggetto, contiene in sé sentimento fondamentale  tutte le sensazioni di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l'ultima perfezione dell'atto, in un primo grado di atto, a cui manca l'ultimazione. Laonde fé si considera quale operazione si faccia nell'anima nostra allorché noi ascoltiamo un concerto di musica, converrà dire che tutta quell'armonia che si sente SOMEONE IS HEARING A NOISE si svoglia ed eccita nell'anima stessa, dove si trova latente; ella dimora nel sentimento fondamentale e sostanziale adunata insieme e fusa con tutte le altre possibili sensazioni formanti un sentimento solo che è appunto il fondamentale, manchevole dell'atto ultimo e distinto, al quale venne provocato dall'organico eccitamento. Le sensazioni non sono dunque create di nuovo quando cadono  nella nostra coscienza, ma si estrin  Teos. secano, da implicite diventano esplicite, il sentimento non cangia Tessere, ma il modo deir essere. Nei luoghi citati e in più altri Rosmini si rappresenta la mutazione del sentimento, che avviene alla nascita di una sensazione avventizia, come un passaggio dall'implicito allo esplicito, dairinvoluto all'evoluto – BERGSON L’evolution creatrice --,  dallo stato latente alla manifestazione esteriore Noi abbiamo visto che è a simili rappresentazioni che si è generalmente ricorso per mostrare come nei cangiamenti apparenti delle cose l'essere in se stesso resti nondimeno identico ed immutabile. E cosi che i Vedantini per far comprendere come l'universo è identico a Brama da cui esso è uscito usano Timmagine di una stoffa  inviluppata che si sviluppa – GRICE MYRO RELATIVE IDENTITY -- o della testuggine che fa uscire le membra dalla sua scaglia. Vi ha un'altra immagine usata dai filosofi vedantini che può fornirci una rappresentazione conveniente del rapporto che Rosmini stabilisce tra il sentimento fondamentale e le sensazioni avventizie. I Vedantini comparano Brama al mare, il quale non è  che acqua, ma in cui si osservano dei flutti, della spuma e altre modificazioni dell'acqua. L'acqua del mare rappresenta per essi l'essere primitivo, e i flutti, la spuma, ecc.; l'universo creato. Noi possiamo invece rappresentare per quella il sentimento originario e abituale dell'anima, e per questi le sensazioni avventizie. Come i flutti, la spuma, ecc., non sono fuori del mare, ma in esso,  cosi le sensazioni avventizie non sono fuori del sentimento fondamentale, ma in esso: e come i flutti, la spuma, ecc.: non sono che l'acqua stessa modificata, cosi le sensazioni avventici Psic, . zie non sono che lo stesso sentimento originario e immanente dell'anima modificato. Rosmini spinge sino al limite estremo l'assimilazione dello spirito i fenomeni della coscienza ad una sostanza; egli applica al mondo interiore della coscienza l'assioma degli antichi filosofi che Tessere non può venire dal non essere GRICE NEGATION AND PRIVATION, che niente nasce e muore, che il reale è, al fondo, immutabile; principio che é una generalizzazione dei fenomeni r»iù familiari dell'esperienza, ma semplicemente dell'esperienza esterna; ma una volta che Rosmini concepisce lo spirito come una sostanza, il soggetto come un oggfMto, non deve trovarsi strano ch'egli applichi al mondo subbiettivo un principio che i filosofi ordinariamente non applicano che al mondo obbiettivo. Il sentimento fondamentale, quale T abbiamo sin qui descritto, rioti esiurisce tutta la sostanza dell'anima. L'anivna umana non è solo un principio SENZIENTE: se non fosse che  questo, essa non potrebbe sopravvivere alla morte del corpo; perchè T attività del senso è condizionata dalle funzioni degli organi e quindi dall'esistenza del corpo vivente. L'anima sensitiva non perisce del tutto secondo Rosmini alla morte dell'animale,  ma essa perde la sua individualità: come essa si è formata, con la formazione del corpo vivente, per la composizione delle anime degli  elementi materiali di cui il corpo è stato composto, cosi essa si discioglie in queste anime elementari, con la dissoluzione dei corpo nei suoi elementi. O piuttosto, siccome la vera sostanza non è per Rosmini che T anima', il corpo non essendo che un sentito, e non esistendo che in e per il principio SENZIENTE, cosi è l'anima sola  Psic, eoo.  V. il studio di G. sulla dottrina dell'essenza  della materia in Bosmini. 6 in realtà che sì compone e si diacioglìe, queste anime elementari di cui essa si compone e in cui si discioglie, essendo al pari di essa dei sentimenti sostanziali, in ciascuno dei quali inerisce come suo termine uìì corpo. L'anima sensitiva è dunque in un senso immortale secondo Rosmini: ma questa immortalità  non è quella che il dogma religioso attribuisce  allo spirito umano. Per salvare l'immortalità individuale dello spirito umano  Rosmini unisce neiruomo al principio SENZIENTE un principio intelligente: questo sopravvive alla dissoluzione delr animale umano, e può avere un'esistenza separata dal corpo, perchè T attività dell'intelligenza secondo Rosmini è condizionata necessariamente come quella del senso a degli organi corporali. Come il principio sensitivo è costituito da un atto originario ed immanente del sen^o, così il princìpio intellettivo è costituito da un atto originario ed immanente dell'intelligenza. Un atto primitivo ed essenziale dell'intelligenza, un pensiero essenziale, è dunque il sustrato di tutti i pensieri avventizi, come un atto primitivo ed essenziale del senso è il sustrato di tutte le sensazioni  avventizie. Questo pensiero essenziale, in cui tutti i p-^nsieri sono contenuti e che tutti suppongono, come tutte le sensazioni sono contenute nel sentimento fondamentale e lo suppongono, è la più universale o la più astratta di tutte le idee, l'idea dell'essere. L'intellezione dell'essere è la sostanza del principio intellettivo, come il sentimento fondamentale del principio sensitivo. LMdea  dell'essere indeterminato che  y,  S.  S. Ps, . il principio intellettivo ha inerente sin dall'origine della sua esistenza, contiene virtualmente tutte le intellezioni future, come il sentimento fondamentale,  tutte le future sensazioni, perchè tutte le intellezioni possibili non sono che delle determinazioni dell'idea dell'essere. Que8t'idea è perciò innata, non è un risultato dell'astrazione, non viene  all'anima dal di fuori per il canale dei sensi: tutte le altre idee sono acquisite, e nascono dall'unione deir idea dell'essere con una percezione dei sensi che dà a quest'idea una determinazione particolare. Rosmini paragona l'idea dell'essere, che costituisce la natura stessa dell'intelligenza, alla tavola rasa d'Aristotile, 0 ad una pagina bianca su cui le esperienze dei sensi vengono ad imprimere  dei caratteri. La natura dell'intendimento, dice Rosmini, consiste in uno sguardo continuo che mira V essere, e che vede tutto ciò che spetta alla ragione dell'essere, come sono le condizioni e determinazioni dell' essere stesso. L'ente indeterminato che sta a noi continuamente ed immobilmente presente è come la carta bianca ove il nostro spirito mira e riguarda. Ora le determinazioni di  quest'oggetto non sono che un'aggiunta accidentale al medesimo, una scrittura sulla detta carta. Quindi con queir atto medesimo col quale vediamo l'essere, vediamo ancora in lui, e giammai senza lui, le sue determinazioni, come guardando la carta, noi vediamo pure con lo stesso sguardo tutti 1 caratteri che vengono in essa tracciati. Pi, , ecc. N, S, N. S.. N. S. y.  S. -7n L'atto del  principio intellettivo, considerato per se solo, consiste nella semplice apprensione dell'essere universale e indeterminato: ma l'apprensione dell'essere rivestito delle determinazioni particolari somministrate dal senso, non è r atto del solo principio intellettivo, come non è quello del solo principio sensitivo, ma è l'atto di questa unica e semplice anima dell'uomo, che è al tempo stesso intellettiva e sensitiva, perchè in essa si comprendono, unificati, tanto il principio sensitivo quanto l'intellettivo. Rosmini chiama 1'anima dell'uomo, questa unità del principio sensitivo e del principio intellettivo, IL PRINCIPIO RAZIONALE, perchè, come H. P. Grice, egli considera la ragione come una risultante dell'unione della sensibilità e dell'intelligenza KANTOTLE  Gli oggetti    che cadono sotto la nostra conoscenza constano secondo Rosmini di due elementi: un elemento che viene dalla pura intelligenza; è l'essere universale, r idea del quale costituisce la forma stessa dell'intendimento, e deve perciò trovarsi in tutti gl'intesi e un elemento che viene dal senso; sono le determinazioni o differenziazioni dell'essere, separate dall'essere stesso. Di là la distinzione  di  Rosmini tra la percezione semitiva e la percezione  intellettiva che con più proprietà egli avrebbe potuto chiamare percezione razionale Sì.-'la percezione sensitiva non coglie che il secondo elemento degli oggetti, vale a dire le determinazioni  dell'essere senza l'essere stesso per cui un sentito come puramente tale non è un essere secondo Rosmini; la percezione Psic,,.V. S, eoo.Y.  S., ecc. P6ic,  Teos., eco. intellettiva completa la sensitiva, aggiungendo a questa il primo elemento, cioè 1'essere, e contemplando cosi i sentiti nella forma dell'essere, cioè come esseri. La percezione intellettiva, questa sintesi primitiva del sentito con l'idea dell'essere, è il talamo in cui il principio intellettivo si congiunge col principio sensitivo: essa è  r atto primitivo del principio  razionale, di questo principio unico e duplice al tempo stesso, che costituisce 1'essenza dell'anima umana. Come la sostanza del principio sensitivo è costituita da un atto immanente del senso, il sentimento fondamentale animale, e la sostanza del principio intellettivo è costituita da un atto immanente dell'intelligenza, la apprensione dell'essere universale, così la sostanza del principio  razionale, risultante dall'unione dell'uno con r altro, è costituita da un atto immanente, che è la sintesi dell'atto immanente del senso con l'atto immanente dell'intelligenza. L'atto immanente del principio razionale è una percezione intellettiva, il cui oggetto è il sentimento fondamentale animale, cioè il principio SENZIENTE congiuntamente al suo termine corporeo: questa percezione  intellettiva fondamentale si distingue dal sentimento fondamentale animale, in quanto ciò che nel sentimento animale è puramente sentito, diviene inteso nella percezione razionale, cioè viene appreso nella forma intellettuale dell'essere o come essere. Quantunque SERBATI affermi energicamente  l'unità  e  Ps. X  S. Psic. ,  ecc.  Ps, la semplicità dello spirito umano, è evidente tuttavìa che la sua dottrina ò al fondo un vero dualismo: il principio sensitivo e il principio intellettivo sono associati durante la vita, ma essi si separano alla morte dell'uomo. Alla quistione come questi due principii possano costituire un soggetto unico e semplice, Rosmini risponde che ciò avviene per la percezione che Tun principio ha dell'altro. Questa percezione è immediata, cioè il percepito si percepisce in se stesso, e non mediante una sua rappresentazione: per essa avviene runificazione dei due principii, perchè, quando un principio sente un altro principio, siccome il principio sentito non è altra cosa che un sentimento, e si tratta di una percezione immediata^ cosi il principio percepiente s'identifica col principio percepito, e si veritìca la massima che ex percipiente et  percepto fit unum. Questa percezione uniàcatrice dei due principii non è che la stessa percezione fondamentale che costituisce la sostanza dell'anima razionale: nella percezione immanente del sentimento fondamentale animale, Rosmini considera questo come il percepito, e il principio intellettivo che, secondo lui, è il portatore dell'identità del soggetto umano come il percipiente.Il  principio intellettivo, che mira continuamente l'essere, vede anche in esso la sua determinazione particolare, cioè il sentimento fondamentale animale: questa percezione che il principio intellettivo ha del sentimento anici) Ps, Psic. .  J,  Teoa., eoo. Ps. Teos, Psic,  ecc.  Psic, Teos, male si concilia, secondo Rosmini, con la dottrina, la quale esige che, perchè un principio conservi la sua  identità, ciascuno dri suoi atti deve essere virtualmente compreso nell'atto primo che ne costituisce l'essenza; poiché, il sentimento animale essendo una determinazione particolare dell'essere, esso è virtualmente contenuto nell'essere universale, e quindi la percezione del sentimento animale è virtualmente compresa nella percezione dell'essere universale che costituisce la sostanza del  principio intellettivo. Noi dobbiamo aggiungere che, mentr*^ da una parte, Rosmini spiega Tunificazione dei due principii mediante la percezione intellettiva, dall'altra parte egli dà l'unità del soggetto umauo come ragione e fondamento di questa sintesi del sensibile e dell'intelK ttualo, che ha^uogo nella percezione iutelleitiva. Cosi la p  rcezione intellettiva è spiegata per l'unità dello  spirito umano, e questa alla sua volta è spie^fata per la p^^rcezione intellettiva: Rosmini non spiega dunque l'unità del nostro spirito, essa è inesplicabile nel suo s  stema, che, come abbiamo detto, è un vero dualismo; »ppure la dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'anima aveva lo scopo di dare un fondamento all'unità e all'identità del mq ! Cosi qui accade questo fatto strano, che non  è pertanto nuovo nella storia delle dottrine metafisiche, cioè che il fenomeno stesso, che l'ipotesi è destinata a spiegare, diviene un'obbiezione invincibile contro questa ipotesi. La dottrina di Rosmini sulla sostanza dell'ain'in \ non 8i limita a dare una risposta a questa quistione particolare della psicologia metaempirica: al contrario essa è i Psic. >.iV.  S. r'  il punto di partenza di una  moltitudine di speculazioni tanto psicologiche, quanto ontologiche, sicché il sistema filosofico di Eosmi DÌ non è in gran parte che uno sviluppo e una conseguenza di questa dottrina. La teorica dell'essere ideale è il fondamento, non solo di una psicologia arbitraria perchè Rosmini vuol mostrare, per la analisi delle operazioni dell'intelligenza umana, che esse suppongono tutteTidea  innata dell'essere, ma anche quello di una metafìsica non meno arbitraria, quest'idea innata dell'essere, affinchè essa possa  avere un valore obbiettivo, e si comprenda la sua presenza nel nostro spirito indipendentemente dall'esperienza, supponendo, secondo Rosmini, che lo spirito umano abbia l'intuizione immediata dell'oggetto reale corrispondente a quest'idea l'essere universale 0  indeterminato, che noi predichiamo di tutti gli esseri, è un attributo divino, che viene comunicato agii esseri ereati; noi percepiamo in Dio quest'attributo, ma senza percepire la sostanza divina; quebta percezione è immanenie, e costituibcc l'idea dell'essere continuamente presente al nostro spirito. Di là un'ontologia delle più .ardue, che non è se non il contracolpo dell'ideologia  rcsminiana.  La dottrina dell'essere ideale è ciò che vi ha di più caratteristico nella filosofia di Rosmini, e ne è ordinariamente considerata  come la parte fondamentale; ma chi studia i concetti metafisici per darsi ragione sovratutto del loro perchè e della loro origine, non può vedere altra cosa in questa dottrina e in tutti i suoi sviluppi psicologici e ontologici che una conseguenza di un risultato a cui  Rosmini è pervenuto nella sua ricerca della sostanza dell'anima. La dottrina giobertiana dell'intuito ohe sostituisce all'essere ideale o astratto di Bosmini l'essere reale o concreto, cioè  Dio stesso e non uno dei suoi attributi ha dei motivi in parte analoghi alla dottrina rosminiana. Gioberti ammette, come Bosmini, che in tutte le facoltà dell'anima vi hanno due stati o due modi di esercitarsi,  l'uno immanente e continuo, l'altro successivo e discontinuo: il primo è la baso e la radice del secondo. Il sentimento fondamentale di Bosmini è lo stato immanente del senso; l'intuito di Dio è lo stato immanente del pensiero o il pensiero immanente. Il pensiero immanente non è mai assente dallo spirito umano; esso si trova nel fanciullo, nel dormiente, ecc.; e, se si parla di questo  pensiero, è vero di dire che l'anima pensa sempre. Il pensiero immanente non è un atto particolare del pensiero, ma la stessa attività pensante, l'essenza stessa del pensiero analogamente, il sentimento fondamentale non è una sensazione particolare, ma la stessa facoltà sensitiva, e il simile per le altre facoltà dello spirito. Esso è dunque una potenza, ma non nel senso ordinario della  parola, che fa della potenza una semplice astrazione, ma una potenza nel senso leibnitziano, quae conatum involvitj  un ohe di concreto e perciò includente un principio di azione. Il pensiero immanente essendo l'atto iniziale che costituisce la potenza di pensare, ne segue che il pensiero successivo non è che un'applicazione, un'attuazione particolare determinata, del pensiero immanente.  Il pensiero immanente ha per oggetto l'ente universale, il pensiero successivo, le esistenze particolari; quello percepisce Dio come ente puro, questo percepisce Dio come ente in relazione con le esistenze, cioè Dio creante gli esseri finiti Protoh, Intuiz. e  rifless. E siccome la creazione è secondo GIOBERTI (vedasi) l'individuazione delle idee generali  Inlrod. Milano,  Err,  filos.  di   Rosmini  Brusselle)  che tutte  sono  comprese  nell'Idea,  cioè  in  Dio,  noi  possiamo  dire  anche che  il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'Idea  pura,  e  il  pensiero successivo  l'Idea  individuantesi  o  esplicantesi  esteriormente. Ciò  che vi ha di comune tra la dottrina di Gioberti e quella di Bosmini è il concetto di un fenomeno stabile, immanente, dell'at"tività psichica, che è il substratum dei fenomeni transitori. Applicato all'attivila intellettuale, questo concetto importa la necessità di ammettere un'idea o delle idee essenziali allo spirito e perciò innate. Per giustificare poi il valore obbiettivo di queste idee innate, quindi indipendenti dall'esperienza, e spiegare la loro coincidenza con la realtà, tanto Gioberti quanto Bosmini ammettono un'intuizione ragionale dell'oggetto intelligibile. Ma le dottrine dei due filosofi non si fondano sovra un principio assolutamente identico. Il principio della dottrina di Bosmini è che la sostanza dell'anima oonsiste nel sentimento o, con un termine più generale, nel  fenomeno della coscienza; ciò che è un'applicazione partioolare del prìneipio più genera/e ohe il reale è oostitoito daj seniimeuto. Ma non è questo prinoipio o un principio analogo che può essere il fondamento della dottrina di Gioberti. Perchè, quantunque la filosofia delle opere postume di Gioberti aia un panpsichismo che risolve ogni essere nel pensiero e quindi anche la sosttknza  dell'anima, la prima forma della sua filosofia invece riguarda le sostanze, e per conseguenza anche la sostanza anima, come delle forze sconosciute, dichiarando la loro  essenza assolutamente inescogitabile. Ora, nella prima forma della filosofia di Gioberti, si trova già non solo la dottrina dell'intuito razionale come atto immanente dell'intelligenza  e quella del sentimento fondamentale,  ma anche il concetto ohe quest'intuito costituisce la sostanza aterina dell'intelligenza Il pensiero è l'intuito dell'Idea; senza questo, esso non sarebbe pensiero,  Intr,  Mil. Il possesso intuitivo dell'Idea forma la nostra intelligenza; la creazione della intelligenza non è altra cosa ohe la comunicazione, nell'intuito, deU' Intelligibile divino. Errori  Filos, di J^oamini  Brusselle, ecc.. Il  fondamento della dottrina giobertiana deve essere cercato in questa tesi: che la potenza non è un'astrazione, ma una cosa reale e conereta, e consiste in uno sforzo spontaneo, in un atto incoato Proleg, del Primato ed. napoletana, ProtoU  Napoli. Questa tesi è secondo Gioberti una conseguenza della concezione dinamica delle cose. E infetti questa concezione di cui spiegheremo l'origine   risolvendo il reale in forze senza materia, toglie dalle cose questo substratum permanente che fa si che noi le chiamiamo sostanze poiché la sola idea che noi abbiamo della sostanza si riduce alla  materia. Ma per un effetto di questa inconscia tendenza che ci spinge ad assimilare tutte le nostre idee a quelle che ci sono le più  familiari, il metafisico dinamista si sforza di restituire agli  esseri la loro sostanzialità, ristabilendo, sotto un'altra forma, questo substratum permanente\,oh'essi hanno perduto nella sua dottrina filosofica: in altri termini, egli cerca di rappresentarsi la forza, cioè l'attività, la potenza, come una sostanza. Di là risulta, primo, l'idea che la potenza non è mai inattiva poiché la sostanzialità importa la continuità dell'esistenza; e, secondo, perchè la  SOSTANTIFICAZIONE GRICE sia più completa, la supposizione di un continuo, immanente, quale substratum degli atti transitori della forza o potenza, substratum che è alla sostanza forza ciò che là materia alle sostanze corporee vale a dire il fondo permanente su cui appariscono successivamente i fenomeni variabili. Questa 1 tesi, ohe ogni potenza è un atto primo e costante, da óul  risultano degli atti secondi e variabili, è comune anche a SERBATI N,  S,: ma per SERBATI essa risulta dal principio che il concettò di realtà è sinonimo di quello di attività psichica, di coscienza; per Gioberti invece dal principio che il concetto di realtà sinonima, non con quello di attività psichica, ma con quello più generale di attività. Dalla fusione del concetto di attività con quello  di sostanza nasce, per l'uno e per l'altro di questi filosofi, l'idea di un atto immanente come substratum degli atti transitori di ciascuna potenza: ma l'uno si rappresenta ciascuno di questi atti immanenti come un fenomeno stabile della coscienza, perchè ogni attività è per lui attività psichica, coscienza; per l'aitro il concetto di atto immanente è più esteso che quello di fenomeno stabile  della coscienza, perchè il concetto di attività è più esteso ohe quello di coscienza. Ne segue che per Rosmini i fenomeni stabili della coscienza, che egli si rappresenta come il substratum dei fenomeni variabili, esauriscono la sostanza dello spirito, questo, come tutti gli altri esseri, non essendo per lui che coscienza: per Gioberti invece questi fenomeni stabili della coscienza non possono  costituire tutla la sostanza dell'anima, perchè egli suppone, al di là dei fenomeni della coscienza, un principio sconosciuto, da cui essi derivano, che egli  chiama 1' é?8senza dell'anima. Cercando un substratum permanente ai fenomeni successivi dello spirito, affinchè sia possibile di concepire questo come una sostanza, e cercandolo in qualche atto continuo e immanente, Gioberti, come  Rosmini, non può trovare altro di rappresentabile che dei fenomeni della coscienza, immaginati coll'attributo della continuità e della stabilità; ma per Rosmini questo rappresentabile è tutta la sostanza dell'anima; per Gioberti invece vi ha di più in questa sostanza un nucleo oscuro, una cosa ohe sfugge assolutamente alla rappresentazione, e si chiama l'essenza. Circoscritta nei limiti  delle forze di cui possiamo formarci una rappresentazione cioè le potenze psichiche che sono le sole forze immateriali di cui abbiamo l'idea-^la dottrina di Gioberti che la potenza consiste in un atto immanente e per conseguenza l'applicazione di questa dottrina alle facoltà del nostro spirito riposa dunque sullo stesso fondamento che quella di Rosmini: la differenza tra i due filosofi è  che mentre il secondo non vuole ammettere delle forze d'una natura diversa da quelle di cui può formarsi una rappresentazione donde il suo panpsichismo, il primo estende al di là dei limiti del rappresentabile il concetto di forza immateriale, e, con esso, quello di un atto immanente quale substratum degli atti transitori di questa forza.Noi dobbiamo aggiungere infine, perchè non si dia  alle oonsi u  derasiom che precedono un'importanza troppo assolata, che, mentre la dottrina di  Rosmini delle idee innate cioè dell'idea innata dell'esfiore, e quella connessa dell'intuizione intellettuale, non sono che un risultato delle sue speculazioni sulla sostanza dell'anima, noi non possiamo, al contrario, vedere in quest'ordine di speculazioni il motivo unico delle dottrine corrispondenti  di Gioberti. Evidentemente Gioberti, e gli altri fìloslfi che, come Yoi, ammettono un'intuizione razionale di Dio e della verità in Dio  Agostino, FIDANZA, Malebranche, Cousin, ecc., ciò che vogliono spiegare per questa dottrina, è, in generale, la possibilità delle conoscenze indipendenti dall'esperienza, la loro coincidenza colla realtà. In Rosmini, l'intuizione razionale non spiega che  l'idea innata dell'essere; in questi filosofi, oltre le idee innate, spiega anche i giudizi a priori. Cosi essa è anzitutto in questi filosofi una conseguenza dell'apriorismo e dei sofismi naturali da cui esso deriva. La dottrina delle idee innate è, in tutto o in parte, una conseguenza di questa conseguenza. Come prova dell’immanenza noi possiamo addurre in primo luogo i termini di cui Platone  si serve per indicare l’idee. Questi sono: lòéoL specie, forma, il suo sinonimo sl8o^,  yéyoi; genere, cpóot^ natura^, oùaCa essenza ed altri simili: p : e: T ISéa  forma o essenza del pari Fedone, l'sISog  forma o essenza della conoscenza Crat., gli st^yj specie del piacere Filebo, il y^vos deirinfinito Fil., la ^ùoit; del bene Fil., Voùoioi, del colore Crat.. Questi termini non si riferiscono  sempre alle Idee, ma solo quando denotano Tuniversale, come negli esempi citati, indicando sia le diverse specie di esseri l'uomo, Tanimale, il bianco, IL SHAGGY, ecc. considerati in generale, sìa Tattributo o insieme di attributi comuni a Bammentiamo che, neirinterpretazione del sistema platonico, bisogna guardarsi dal lasciarsi influenzare dal senso che la parola idea ha nelle lingue  moderne, Come nota Martin e tanti altri espositori di Platone, e IL PORITICO i primi ohe danno a questo termine un senso psicologico e analogo a quello che ci è familiare . I neo-platonici, conformemente alla loro interpretazione del sistema di Platone, intendeno per idee i pensieri dell'intelligenza creatrice, cause esemplari delle cose, e la parola ritenne lungamente questo significato  neoplatonico e teologico, per tutto il periodo della scolastica, ed anche dopo la rinascenza. La diffusione del termine nel senso attuale si deve a Cartesio, e Locke si scusa di usarlo in questo senso, come di un nelogismo Sag. sull'int. um. Preamb.. ciascuna specie rumanità, Tanimalità, la bianchezza, considerati pure in generale. Naturalmente vi ha un'infinità di luoghi in cui questi termini  sono impiegati con questo significato generale, e in cui è evidente che ri8éa, Velòoz, il Yévo^,  ecc., di cui si tratta, non sono delle entità trascendenti, cioè poste fuori delle coso di cui si dicono I8éa, el8og, vévog, ecc.: se non che, l'in  per es., per il termine elfio^ : Polit. Sof. Fil. Teet. Crat. Fedro Conv. Meno. Eutiphr. Rep. Tim. Leggi  ; a; Parm. di VELIA le Idee sono chiamate le  specie degli esseri: s18y) xc5v òvt(i)v); eco. Per n termine  lÒéoi,:  Fil.  Fedo. PoUt.  Sof. Fedro  Eutiphr. Crat. Conv. Tim. Rep. Parm. di VELIA le Idee sono chiamate  lòéoLi XCDV  OVXODV pure perciò Ar. Met.; ecc. Per la parola yévoc: Sof. Fil. Polit. Tim. Aristotile chiama le Idee platoniche ^ivY]  iffiv ÒVX(i)V Met.  IliriII). Per la parola cpóot^:  Fil. Crat. Teet. Fedro Tim.  Polit. Leggi Per la parola oòaCa: Fedo Crat. Il termine oùoCa nel significato di essenza prova, d'una maniera più palpabile che gli altri, rinerenza delle Idee nelle cose: come terprete che ammette la trascendenza delle Idee plaloniche, dirà, in molti casi in cui questo significato immanente è indiscut'bile, che i termini  I5éa,  slSog, ecc. non vengono usali nel senso tecnico, e non designano  le Idee. Ma questa scappatoia dell'interprete trascendentalista^ la quale per altro non è possibile in tutti i casi, potrà valergli ben poco anche per quelli in cui crede di potervi ricorrere, perchè è un principio platonico che l'oggetti d^l concetto e della conoscenza generale è TIdc», e quin«li, tutte le volte che alcuno di questi termini indica il punto di vista generalo, noi dobbiamo presu.mere  ch'esso si riferisce all'Idea. Senza dubbio, è possibile che Platone abbia alcune volte usato questi termini oon un significato generale, senza pensare perciò a fare dell'univrrsale a cui sì riferivano, un'entità unirà sussistcnt •? or sé stessa; è certo anzi che vi' hanno diM  ca?i  eccezionali, in cui il significato generale non potrebbe affatto implicare la supposizione di un'entità generale  corrispondente; e l'interprete trascendentalista potrà anche aggiungere, a difesa della sua proposizione, che, nell'ipotesi stessa della trascendenza delle Idee, Platone sarebbe stato tuttavia costretto, in un gran numero di casi, cioè quando egli voleva indicare il punto di vinta generale nella cons'derazione delle cose, ad impiegare i termini  Idèa,  sl8og, ecc. in un senso immanente, perchè  la lingua non gli offre altri termini per s'gniinfatti l'essenza potrebbe essere concepita fuori delle cose di cui è l'essenza? Che le Idee siano per Platone le essenze delle cose, è poi confermato da Aristotile  in  Met.. Per es. quando l'universalità delle cose fenomenali o un genere di queste cose vengono opposte alle loro Idee, come nel Tim. e nella Bepubbl.  '? J r  m   «I  ficare l'universale nelle cose, che quegli stessi che nel senso tecnico particolare, proprio esclusivamente del suo sistema, significano Tuniver^^ale fuori delle cose. Quest'espressione: l'universale fuori d^lle cose, è evidentemente un controsenso; ma l'interprete trascendentalista ha bisogno di questo controsenso per definire le Idee platoniche. Ma cosi egli confesserà che, nell'ipotesi della trascendenza, Platone, oltre che sì metterebbe persistenmente in contraddiziono, col suo principio che il concetto generale SHAGGY si riferisce all'Id'^a, userebbe i termini  I5éa,  el^og ecc; quando essi designano le Idee: in un senso affatto diverso dal loro significato più ovvio, e che è quello stesso in cui vengono usati il più abitualmente da lui stesso. I termini designanti ciascun'Idea, cosi bene che quelli, di cui abbiamo parlato, designanti le Idee in genere, provano l'immanenza. Le stesse parole che indicano le cose, indicano pure le loro Idee: il movimento, lo stato, la somiglianza, la dissomiglianza, ecc., senz'altro, significano l'Idea del movimento, dello stato, della somiglianza, della dissomiglianza, ec3. Qual è il criterio per distinguere quando il nome indica l'Idea e quando le cose? non ve ne può essere che un solo: quando il nome  AGGETIVO SHAGGY SIGNIFICA il concetto generale l'uomo, il movimento, ecc.,, noi dobbiamo presumere ch'esso si riferisce all'Idea; quando il suo significato viene ristretto a denotare degli oggetti particolari quest'uomo, il movimento di questo corpo, THE HAIRY-COATEDNESS OF SMITH’S DOG FIDO ecc.,, allora non può  riferirsi Pannen, di VELIA, Fedo., RepnhhL,  Tim,, Fedro,  eco. che alle cose. Non è questa la prova più palpabile che le Idee non sono separate dalle cose, ma sono le cose stesse considerate in ciò che vi ha in esse di generale? Gli aggiunti, quali aùxó, aùxó xaG'aOxó, 8 Ioti, che si uniscono al nome della cosa, quando occorre un segno per dile Idee dalle cose particolari, non possono mutare il significato immanente del nome a cui si uniscono, perchè essi non indicano che il punto di vista dell'astrazione: aòxè  àvGpwTiog l'uomo stesfio vuol dire l'uomo in generale, considerato negli  attributi che costituiscono il stesso di uomo, astrazion facendo da tutte le difTeronzo individuali, di nazionalità, di razza, ecc.; aùxò TÒ xaXóv il bello stesso vuol dire la beltà in generale, la stessa beltà che è l'oggetto del nostro concetto di beltà, astrazion facendo da tutti gli altri attributi che, insieme alla beltA, si trovano negli oggetti particolari a cui questo concetto si riferisce, cioè, che si chiamano belli; L'aÙTÓ, dice Aristotile Eth.Eud. si aggiunge per indicare il concetto generale. Il significato di OLÒzó^ risulta della maniera più netta da un luogo della Repubbl. La sete, in quanto è sete, si dice in questo luogo, non è che l'appetito deUa bevanda, e non di una bevanda molta o poca, calda o fredda, ecc.» in una parola, di una certa bevanda. Se per la i^apoDota della moltitudine la sete è molta, sarà l'appetito di molta bevanda, se è poca di poca; se alla sete si aggiunge il calore, si avrà l'appetito di una bevanda fredda, se si aggiunge il freddo, l'appetito di una bevanda calda: ma la sete stessa aÙTÒ  òi'])OQ)t  n^n è che l'appetito della bevanda sfossa aÙToO  7l(i)[iaxog), l'animo di chi ha sete, in quanto ha sete, non vuole altra cosa che bere. E  in generale, per le cose relative ad altre cose, ciascuna cosa stessa xà  aùxà Sxaaxa è relativa soltanto a ciascuna cosa stessa aùxoO éxàaxou, ma quelle che sono a un certo modo determinato sono relative a cose che sono pure a un certo modo determinate: p. e. il maggiore semplicemente è relativo al minore semplicemente, ma il molto mag-140  loTc  xXCvT], 8 laxiv  àyaGóv, ecc.  fciò che è letto, ciò che è bene, ecc., vuol dire ciò che è propriamente significato dal nome letto, dal nome bene, dal NOME AGGETIVO SHAGGY, ecc., e che non è altro se non quello che ciascuno di questi nomi propriamente significa, ciò che noi propriamente chiam'amo letto, bene, ecc., nelle cose particolari a cui applichiamo questi nomi, cioè quell'attributo o insieme di attributi che i termini letto, bene ecc. connotano, astrazion facendo dagli altri attributi con cui e.«si Fono congiunti nelle cose particolari che questi termini denotano, cioè ancora il letto in generale, il bene in generale, ecc. Il significato di giore è relativo al molto minore. Cosi per le scienze: la soienza stessa èmaXTQjiY) OLÒZ'h  è scienza dello scibile stesso jia9TQ|iaT0g tt'^TOi), ina una certa scienza determinata d'nn certo scibile determinato: p. e, essendovi una scienza di edificare le case, si distingue da tutte le altre scienze particolari, prendendo il nome di architettura; essendo d'una cosa particolare e determinata, anch'essa si fa particolare e determinata. Cosi pure la s'iienza dei salubri e degl'iasalubri, essendo scienza non dell'oggetto stesso di che è scienza la scienza  semplicemente^, madi un certo oggetto particolare, cioè il salubre e l'insalubre, anch'essa si fa determinata e particolare, e si chiama perciò, non scienza semplicemente, ma, per l'aggiunzione d'una determinazione particolare, scienza medica Rep. GRICE ICHTYOLOGY. Non è evidente cha aùxè  SC^^OC  stessa^ OLÒZÒ Tz(ò\iOL la  bevanda  sftfssr», aÙTYj  èmoTT^fiY]  la soienza  sf<?s8a>  aòxò |iòc0Y][ia, lo scibile stesso non designano delle entità trascendenti fuori delle cose, ma quello stesso che noi chiamiamo sete, bevanda, scienza, scibile, considerati in astratto? Questo significato di aÙTÓ^ si trova anche abbastanza chiaro in Teet.; Pam. Di VELIA; Crat.; Fedone;  Rep.,  Eutifr.;  Ipp.  magg.;  ecc. Crat.,  Parm. di VELIA,  Fedone,  Rep.,  ecc. 3f<?no. Per compiendere bene il valore di 3 laxt,  aÙTÓ^ e simili nella lingua platonica, è utile di tener presente aùxd xaO'aGxó è il medesimo che quello di 8 loxt e del semplice aùxó: il xaB'aOxó per se stesiiO si aggiunge per indicare d'uua maniera più energica che dell*oggetto, designato dal nome, non deve prendersi che quel solo la disiinzione tra la denotazione e la connotazione dei  nomi. Secondo questa distinzione che i logici peripatetici ìacevano nel significato dei nomi e che Mili MORE GRICE TO THE MILL ha introdotto nella logica, il nome denota ciascuno degli oggetti concreti appartenenti a una classe, e connota l'attributo o gli attributi astratti comuni a questa classe se non tutti, quelli almeno che entrano nella definizione delia classe. Per un vero nominalista, il vero significato del nome consiste nella sua denotazione; ma per un concettualista consiste invece nella sua connota; infatti, neir ipotesi dell'esistenza di concetti generali, un nome generale è il segno d'un concetto generale DISINTERESTEDNESS, e questo è costituito dall'attributo o insieme di attributi comuni a una classe o per cui la classe si definisce. Tale è la dottrina dello stesso Mill il quale,  quantunque si dia per nominalista, è in realtà un concettualista Saggio: la siguiìicazione reale d'un nome generale non è secondo lui che la sua connotazione, questa consistendo negli attributi inclusi nel concetto Log e una  proposizione, i cui termini sono dei nomgenerali, non afterma che una relazione tra attributi Log., Fa, di Hamilton, ecc. Ora se al concettualismo, come  teoria psicologica, si aggiunge il rea/umo^ come dottrina ontologica, in altri termini se si ammette che ai concetti astratti e generali corrispondono delle entità astratte e generali, allora il vero significato dei nomi si riferirà a queste entità, perchè esse non sono che i concetti, cioè le connotazioni dei nomi generali, realizzate. In effetto secondo Platone i nomi sono  propriamente i SEGNI delle idee – utterances that we use to signify this or that Grice --, e le cose prendono la denominazione di queste per la loro presenza e partecipazione Fedo, Parm. di VELIA, Meno, Sof.,  Lach.,  ecc. Arist.  Eth.  hud,  Met,,  ecc. È questa, al fondo, la dottrina dei concettualisti, secondo cui i nomi sono i SEGNI – utterances by which we signify – Grice ---  degli  attributi come SHAGGY,  e  vengono dati agli oggetti in vista degli attributi che essi possiedono IZZING HAZZING,  tradotta in lingua realista. Vi ha tuttavia tra la dottrina di Platone e la concettualista questa difìerenza: secondo Platone, i nomi generali SHAGGY sono i nom| delle Idee; il concettualista invece, quantunque ^X\  ammetta che i nomi N attributo 0  insieme di attributi  che costituisce ìa nozione generale di quest'oggetto, lasciando in disparte tutte le particolarità individuali, tutti gli attributi concomitanti che differenziano i concreti, tutto ciò, in una parola, che non è incluso nel concetto generale. Senza dubbio 3 generali concreti, p. e. uomo, animale, bianco, buon SHAGGY,  ecc. significano propriamente gli attributi SHAGGY SIGNIFIES HAIRY COATED – SHAGGY SIGNIFICA HAIRY-COATED perchè la loro applicazione agli oggetti indica la presenza di certi attributi, e viene fatta in ragione di questi attributi HAIRY-COATED, non dirà però che questi nomi  SHAGGY sono i nomi degli attributi . perché gli attributi vengono denotati, non da essi, ma dai nomi astratti che ne derivano, p. e. umanità, animalità,  bianchezza,  bontà, SHAGGINESS THE BLUE SHAGGY – a Devonshire breed eec. Sicché mentre secondo Platone le cose prendono il nome delle Idee, secondo il concettualista a! contrario sono gli attributi che prendono il nome SHAGGY delie cose» perchè animalità SHAGGINESS viene da animale SHAGGY, bianchezza da bianco, HORSENESS ecc. La ragione di questa differenza é che  secondo il concettualista gli attributi sono semplicemente degli attributi che non si concepiscono per sé stj non per una astrazione della mente e non allo stesso tempo delle 80stan2e, cioè delle realtà sussistenti per se stesse; per conseguenza non può applicarsi ad essi un nome concreto CAMBRIDGE BLUE, perchè questi nomi non denotano che le sostanze SMITH’S DOG OR BUNBURY, NOT DISINTEREDNESS. Ma le Idee sono per Plat.ne non solo attributi delle cose che ne partecipanoma anche sostanze, potendo darsi per definizione dell'Idea ch'essa è un attributo sostantificatc; SHAGGINESS DISINTERESTEDNESS HORSENESS per conseguenza egli può denotare gli attributi quali esistenti per sé. cioè le Idee, coi nomi concreti FIDO BUNBURY PAUL GRICE IS CALLED PAUL GRICE BECAUSE HE IS PAUL GRICE. Si osservi che la dottrina platonica di cui parliamo è una prova evidente della immanenza delle Idee, perché é chiaro che ciò che  i nomi propriamente SIGNIFICANO non può essere che gli attributi delle cose nelle cose stesse, e non delle entità  trascendenti /i*oW  delle cose. Toroando ora al significato di  o SOTt, aùxóg, ecc. nella lingua platonica, noi possiamo formularlo brevemente, dicendo che questi termini, aggiunti a un nome, identificano la denotazione di questo nome alla sua connotazione, indicano che ciò che ii nome denota non è che quello stesso che esso connota. Parm. di VELIA,  Meno,,  liep.,  ecc.  Hep,  in CUI si oppone al solido in movimento che è l'oggetto  dell'astronomia, il  solido  a'JXÒ  xaO'aOxó che é l'oggetto della geometria. L'aOxò xaG'aùxó e il femminile aOxY]  xaO'aòxT^v), oltre che ai nomi delle coil i'p laxi  xXCvT), aòxó  xaXóv, xaXòv  aòxó  xa9*a6xó  ecc., non significano solamente che il letto, il bello, e ogni altra cosa di cui è quistionf* SHAGGINESS, devono concepirsi d'una maniera astratta DISINTERESTEDNESS, ma di più chVssi hanno un'esistenza reale in questo stato astratto, ch'essi sono delle sostanze nel tempo stesso che delle astrazioni  DISINTERSTEDNESS DOESN’T EXIST. IT DOES – IT’S IN THE OTHER ROOM SMITH IS DISINTERESTEDNESS PERSONIFIED la determinazione della sostanzialità -è chiaramente espressa sovratutto dal termine  aOxò xaG'aòxó, perchè e^s^re  xaG'aOxó significa sussistere per se stesso – AS DISINTERESTEDNESS does not --, essere non un semplice predicato – come SHAGGY, ma un soggetto -- come FIDO o BUNBURY: ma da ciò V interprete trascendentalista non deve affrettarsi a concludere che il letto, il bello, ecc., di cui si tratta, sono delle entità situate in un altro mondo SUPRALUNARE, al di fuori dei letti, delle  cose belle cose CIRCOLARE,  ecc., particolari. La quistione non è già se Piatone abbia o no concepito le Idee come sostanze;  ma se queste sostanze IPOSTASI egli le abbia o no considerato al tempo stesso come inerenti nelle cose e costituenti i loro attributi. Non vi ha dubbio che queste due nozioni, essere delle sostanze, e inerire nelle cose come loro attributi, sembrino al nostro punto di vista contraddittorie, ma è in questa contrad dizione che sta l'essenza della dottrina delle Idee e del realismo in generale, e il significato di aùxò xaG'aOxó  e degli altri termini equivalenti designanti le Idee HORSENESS riunisce appunto queste due  nozioni, per noi incompatibili. Amse, può essere aggiunto ai termini glSog, OÙaCa e altri designanti le 1dee in genere, per  indicare che le forme o essenze di cui si tra Uà devono essere considerate ciascuna per sé sola, astrazion facendo dalle altre forme o essenze con cui si trova mescolata nelle cose come pure che, cosi considerate, esse non sono deile semplici astrazioni, ma anche delle realtà delle astrazioni realizzate. La stessa osservazione per OLÙzÓQ. Arist. Magn. Mor..Net.  Mei. Anal. Post -i mettere  che le Idee platoniche sono fuori delle cose è ammettere che, quando si pensa e quando si parla, i nostri coDcetti e i nostri nomi generali si riferiscono a delle entità poste fuori delle cose. Ma se si conviene che, quando si pensa e quando si parla, 1 nostri concetti e i nostri nomi generali si riferiscono agli attributi esistenti nelle cose stesse, bisogna anche convenire che le Idee platoniche esistono nelle cose stesse come loro atiributt. In effetto i valore dei termini aòxó, aùxò xaG'aOxó,  o éoxt e simili è precisamente questo, di far significare ai nomi, a cui essi si aggiungono, quello stesso appunto quello stesso, non qualche cosa di s  mile o di eguale a coi i nostri concetti e i nostri nomi generali, tutto le volte che pensiamo o che parliamo, si riferiscono, in quanto questi  concetti e questi nomi sono i SEGNI e i rappresentanti, non delle cose concrete, ma degli attributi di queste cose. li senso immanente di questi termini è abbastanza chiaro negli esempi cne abbiamo citato nelle note, e gli altri che si potrebbero aggiungere, per illustrare il loro significato nella lingua filosofica di Platone. Contro alcuno di questi esempi l'interprete irascendenfaiisla  potrebbe fare l'obbiezione che non vi si parla delle Idee: e sia pure! ma ciò non invaliderebbe la forza dell'argomento, perchè se aùxóg e gli altri termini equivalenti designano, quando non sono impiegati in un senso tecnico, cioè implicante la realizzazione dei concetti THE HORSE ITSELF, gli attributi delle cose stesse considerati nella loro generalità e nella loro purezza astratta, essi  non possono designare altra cosa, quando il loro senso è tecnico, cioè quando implica questa realizzazione dei concetti. La cosa designata nei due casi deve essere la stessa: salvo che nel primo caso non si pensa, come nel secondo, ad elevare questa cosa, cioè quest'astrazione., al grado di entità reale DISINTERESTEDNESS HORSENESS, sussistente per sé stessa Una prova del  significalo immanente dei termini platonici aÙXÓ e xaG'auxÓ si ha anche nell'uso che fa Aristotile di questi termini, quando se ne serve, come Platone, per indicare il punto di vista dell'astrazione, perchè è certo che i concetti che essi esprimono in Aristotile non possono rappresentare delle entità trascendenti. per ciò  De  6'o0/o Como può ridoa, che è uni,  identificarsi chi gli attribuii dell», coso particolari, che sono multiple?.Comc può Tuno essere nei moti? Certamente ciò è difficile a concepire; ma  lo stesso Platone confes-a clic qu  sta è la grande diffi»,oltà del sistema dell»?   \iet., ecc. È sovratutto notevole ii primo dei luoghi citati, in cui distingue la forma sUssa per se slessa aOxTQ  xaG'aOxr^v e questa forma mescolata con la materia: p. v. la forma  gen^.'-aie  e  astraila del CIRCOLO GRICE CIRCLE e  un circolo parcicolare, quella della slera e una sfera particolare, quella del <-ielo che potrebbe ritrovarsi in una moluiudiuc di cieli possibili e quest'unico cielo reale che noi osserviamo La stessa distinzione un po'piii innanzi espressa con le parole: il cielo sleao aOx(j) OÙpavq)  e questo cielo, in altri casi Aristotilo usa questi termini iti  un senso identico quasi assolutamente al platonico cioè indicante, oltre aU'aslrPzione, anche la sostanzialità: è quando essi gli servono ad esprimere dei concetti di altii filosofi che, come Platone, hanno realizzato – A TRACE OF OUR ENDEAVOURS CAN BE GRASPED IN HIS INDIVIDUALS  -- delle astrazioni; ed anche in questi casi il significato immanente «* indubitabile,  perchè i filosofi di cui si tratta hanno incontestabilmente consi(icrato le loro astrazioni realizzate come inerenti alle cose, e non come (ìa.la  ^iniiik trascendenti. Cosi vengono chiamati aOxÓ  i'Tno, il Finito e l"Infinito dei Pitagorici Phys  Met,  Mei,  IH,  <"fr.  lì, dicendo che questi filosofi consideravano queste astrazioni, non come s<'mplici attributi degli esseri concreti, ma    come realtà sostanziali in Ph»/s,  aOxó viene anche applicato al l'Essere dei VELINI, perchè anche questo era in un certo modo la realizzazione del concetto astratto dell'essere: e llnfinito degli stessi Pitagorici viene anche detto, per questa ragione, xaG'aOxó .  l^h^'s , confermando la nostra osservazione antecedente che la determinazione della sostanzialità espressa da questo termine  non porta come conseguenza quella della trascendenza. Ad aòxó, xaB'aOxó, 0 èaxi corrispondono gli epiteti, dati alle Idee, di xaBapÓV pure; Fedone,  TU,  Conv., slXlxpivé; schietto Fedone,  Conv,  dt|llXXOV -i f Prima di passare a un altro ordine di prove, segnalerò una formula di cui Platone si serve per indicare brevemente la sua dottrina: il beHo o il bello stesso o il bello stesso  per se stesso è qualche cosa, il buono, il giusto e ciascuna specie degli esseri è qualche cosa; vuol dire: si deve ammettere un'Idea del bello, del beno, della giustizia e di ogni altro attributo generale delii cose. La PREDICAZIONE è qualche cosa attribuisce al bello, al buono, al giusto, ecc., in astratto, la realtà, afferma che essi non sono puri nomi né semplici concetti, ma entità reali aventi  ciascuna un'esistenza propria e distinta. Ora m queste proposizioni: e il bello, il buono, ecc. è qualche cosa, questi astratti, di cui Platone afferma la sussistenza reale, sono, per lui, delle entità immanenH o trascendenti V sono gli attributi del'e cose ndl^ cose stesse, o gli esemplari di questi attributi posti fuori delle cose V È una semplice quistione grammaticale. È evidente che la  proposizione il bello, o il buono, ecc. immisto  Couv.,  FU.,  |X0V02t5éc uniforme  frdone, Conr,, ecc.: questi termini significano, come quelli, che noi dobbiamo rappresentarci  l'Idea per un concetto rigorosamente astratto, isolando ciascun attributo generale delle cose FANG FENG da tutte le circostanze concomitanti, PERCEIVED OR POTCH AN OBBLE AS FANG OR FENG, non perchè esista realmente isolato da esse, ma perchè, concepito astrazion facendo da esse FANG FENG, ha tuttavia una realtà propria, un'esistenza distinta e indipendente.  P. e. nel Fedone. Diciamo che il giusto è qualche cosa o niente? Qualche cosa, per dio!  E  il bello, e il buono, sono qualche cosa?  E come no?  Hai visto mai alcuna di queste cose?  Giammai, disse  O forse l'hai  percepito per qualche altro dei sensi corporei? io parlo di tutte, della grandezza, della sanità, della,  e  in una parola dell'essenza di tutte le cose – THE ESSENCE OF SHAGGY, vale  a dire di ciò che è ciascuna cosa. anche Fedone.  Crai,  fppia  maity,,  Protay.,  Rep,,  eco. I è qualche cosa è una proposizione, non verbale e analitica, ma reale e sintetica, vale a dir»», in cui la nota, espressa dairattributo, non era contenuta nel com;etto del soggetto, ma gli  è aggiunta neir atto stesso che viene attribuita al soggetto. L'essere qualche cosa, cioè la realtà, la sussistenza per sé stesso, è dunque una nota che non è compresa nel significato del soggetto il hello^ il buono,  ecc.; il bello, il buono, ecc., quale semplice soggetto della proposizione, designa semplicemente  V  astratto, ma non ancora astratto  sostantificato DISINTERESTEDNESS HORSENESS \  la determinazione della sostanzialità è aggiunta posteriormente air enunciazione del soggetto. Ma se il bello, il buono, ecc., come semplice soggetto della proposizione, non designa V astratto sostantificato SUBSTANTIATION,  cioè V Idea platonica, cosa designerà? non altro che lo stesso astratto  che nella lingua comune è significato d«lle parole IN LATINO NEUTRO  il  bello PULCHRUM to agathon,  il buono, ecc. QUESTO neutro ( dacché queste parole non possono qui essere comprese nel senso tecnico, qualunque esso sia, particolare alla dottrina delle Idee; vale a dire V attributo della beltà, della bontà, ecc. nelle cose stesse, considerato d'una maniera, non solo astratta,  ma anche generale. Per conseguenza è a questa beltà, bontà, ecc, che sono nelle cose, considerate d'una maniera astratta e generale, che, nelle proposizioni di cui parliamo, viene attribuita la sussistenza per se stesse; e le Idee platoniche sono gli attributi generali delle cose, sostantificati, ma nelle cose stesse, e non degli attributi simili o eguali, fuori delle cose, quali sarebbero neir  interpretazìo'* trascendentalista. Nel Timeo la quistione tra il realismo e il nominalismo, contenuta nella domanda della nota precedente, è posta in termini, per noi moderni, più netti. Il faoco stesso in se stesso, domanda III. È, come ^ìh accennammo, nn principio platonico che il concetto e la conoscenza generale si riferiscono ali'Idea. Ciò risalta in primo luogo dalle prove per cui Platone dimostra resistenza delle Idee, di cui la più aiparte non sono che delle applicazioni di questo principio. Tali sono le seguenti: Il concetto si riferisce  aWuno nei molti, a qualche cosa che SI PREDICA di tutti i singolari come uno e lo stesso in tutti, senza identificarsi con alcuno di essi: ma ciò a cui si riferisco il concetto è; vi hanno dunque, oltre:• singolari, le Idee Il concetto  non si riferisce alle cose particolari, peichè queste periscono, mentre esso permane e resta sempre lo stesservi ha dunque, oltre le cose particolari e feribili, qualche cosa che permane e resta sempre la stessa, e a cui il concetto si riferisce; è V Idea Non vi ha scienza dei singolari, perchè es^si sono infiniti di numero e indeterminati; la scienza invece non può avere che un oggetto finito e  determinato; questo è ridea. La medicina, la geometria, ecc. Timeo, e tutte le altre cose di cui diciamo che sono aOxà  xaB'aOxà, hanno veramente un'esistenza reale, o una tale esistenza non conviene che agli oggetti che vediamo e percepiamo con gli altri sensi, e non vi ha niente oltre di questi, ma vanamente diciamo esservi un sl5og intelligibile di ciascuna cosa, mentre esso non è  che una parola? rt/i<t'o  51 b-o. È di uno stesso slòoi che qui si domanda se ha una sussistenza reale, come pretende Platone, o se è una parola GRICE WORD-MEANING, come vuole il nominalismo: dunque, l'siSo^, che, secondo il nominalismo, è una parola WORD-MEANING, essendo nelle cose, cioè l'universale; l'siSog, che ha una sussistenza reale, deve essere pure nelle cose, cioè anch'esso l'universale. Se fosse fuori delle cose, l'sISog che Platone ha di mira, quando dichiara che è un'entità reale, non sarebbe queir sldog stesso, che il nominalista ha di mira,  quando dichiare che è un nome WORD-MEANING. I i sono la scienza, non della sanità di questo o di quellO| ma della sanità semplicemente, non di questo o di quel cerchio THE GRICE CIRCLE, di  questo o quel commensurahile, ma del cerchio e del commensurabile semplicemente; vi ha dunque la sanità stessa, il cerchio stesso, il commensurabile stesso, ecc. La scienza non si riferisce ad alcun particolare,  ma air universale, a ciò che è uno e lo stesso in tutti i particolari: ma ciò a cui si riferisce la scienza è; vi ha dunque l'Idea. La prova antecedente ò fondata suU' a strattezza della scienza, questa sulla sua universalità, La dimostrazione suppone che ciò di cui si dimostra è: ma non si dimostra di alcun particolare, ma dell'universale, di alcun che di uno e lo stesso che si dice di molte cose; la dimostrazione suppone dunque che vi hanno nelle cose OTidpxetv  èv  xor?  ouai  Arist.  An.  Post. delle nature universali a cui essa  si riferisce . insistiamo sull'espressione  aristotelica Oiiòcpxstv  Iv •cote  oyot  che, se non è ia riproduzione esatta d'una formula platonica, è certamente modellata sulle formule platoniche, nemmeno sulla desift-nazione dell'oggetto del concetto cioè dell'Idea come qualche cosa che è una e la stessa in tutti gli oggetti particolari: sono degli esempi di altre prove dell'immanenza che esamineremo a suo luogo. Per ora dobbiamo  limitarci a questa quistione: i nostri concetti e le nostre scienze cioè le nostre conoscenze generali si riferiscono agli attributi generali dello cose nelle cose stesse o a degli attributi simili fuori delle cose? questa sanità, p. e., che è 1'oggetto della medicina, è la sanità degli uomini e degli animali, o un'altra sanità per queste prove  Arist.  Met., ecc., e il commento di Aless. Aprod. in phil.  pr. Arist. al primo di questi luoghi. Arist. Anal. Post. V i inori degli uomini  e  di ogni altro essere reale? A ciò r interprete trascendentalista risponderà che i nostri concetti e le nostre scienze si riferiscono agli attributi delle cose nelle cose stesse, ma che Platone parla, non dello oggetto a cui si riferiscono efTettivaniente i concetti umani e le scienze umane in generale, ma dell'oggetto a  cui essi devono riferirsi, se si vuol salvare la loro verità, dopo che si è riconosciuto  che questa verità non può fondarsi sulla loro relazione con  gli oggetti sensibili. Le prove platoniche delle Idee conterrebbero dunque, secondo questa  interpretazione, una teoria della conoscenza, la quale rettificherebbe quest* illusione naturale, per cui gli uomini riferiscono spontaneamente i loro   concetti e le loro conoscenze generali agli attributi delle cose nelle cose stesse, e sostituirebbe a quest^ oggetto immanente un oggetto trascendente. Ma Platone non dice: i concetti e le conoscenze generali, che gli uomini erroneamente riferiscono agli attributi stessi delle cose, essi dovrebbero riferirli invece agli esemplari dì questi attributi fuori delle cose quali sono le Idee neirinterpretazione trascendentalista. Al contrario, egli suppone che gli oggetti a cui gli uomini riferiscono e non: a cui dovrebbero riferire i loro concetti e le loro conoscenze generali, sono le Idee È ciò che noi vediamo, non solo  negli arca) Naturalmente Platone non pretende che tutti qucll i che hanno una nozione generale sanno che l'oggetto di questa nozione è un'Idea: tutti ntenscono le loro nozioni generali agli attributi generali delle cose agli astratti, e questi sono Idee; ma solo il filosofo sa che sono Idee, ciocche ciascuno di questi astntti ha un'esistenza propria e distinta; e per ciò della sola conoscenza  filosofica è vero di dire, nel senso stretto . che ha per oggetto le Idee. Cosi non vi ha contraddizione tra il principio che ogni nozione generale si riferisce alle Idee, e V opposizione che Platone stabilisce tra l'opinione, che ha per oggetto i fenomeni -anche quando 14 gementi per V esistenza delle Idee che ci sono pervenuti per il tramite, di altri autori, ma in una moltitudine di luoghi  degli scritti stessi di Platone. Cosi egli dice che i fabbri del letto, della mensa, della spola fanno le loro opere, guardando alle Idee di queste cose, a ciò c?ie è letto, ciò che è mensa, ciò che é spola Rep:, Crat.; che il facitore dei nomi impone i nomi, guardando a ciò che è nome Crat.; che il geometra si serve di figure visibili come di immagini, ma il suo pensiero è diretto a quelle di cui  queste sono le immagini, al quadrato stesso e alla diagonale stessa, non al quadrato e alla diagonale particolari eh'egli descrive Rep.; che V aritu. etico ragiona sui numeri sfessi ^ e non sui numeri  aventi corpi visibili e palpabili cioè: non sulle cose concrete a cui i concetti dei numeri si applicano Rep.; che lo spìrito, distinguendo gli attributi contrari  delle cose l'uno, il multiplo, il  grande, il piccolo, ecc. che sono confasi nella percezione sensibile, e contemplandoli separatamente gli uni dagli altri, si eleva dal sensibile e dal fenomeno air intelligibile e air essenza Rep. Se si afferma di due cose. essa si riferisce al generale, come p, e nel  Fibbo e nel Timeo la scien7a, nel senso stretto cioè la dialettica, che sola ha per oggetto le Idee. Platone dà le Idee per oggetto  alla dialettica, perché queste due parti del sistema platonico, la dottrina delle Idee e la dialettica, sono fatte Tuna per Taltra, talmente che la realizzazione dei concetti resterebbe senza valore e senza scopo, se fosse scompagnata dal metodo dialettico. È perciò che alle proposizioni generali del tilosofo stesso ^ quando esse non sono il risultato del metodo dialettico, vengono dati per  oggetto, non le Idee, ira i fenomeni, come si vede nel luogo citato del Timeo. Il metodo empirico il quale non può dare per risultato che la semplice opinione studia le coesistenze e sequenze cronologiche tra i fenomeni, e perciò ha per oggetto i fenomeni; il metodo dialettico che è deduttivo, e dk quindi per risultato la scienza vera studia le sequenze logiche-anteriorità e posteriorità di  natura tra le Idee, e perciò ha per oggetto le Idee. - p. e. dnl moto e dello stato, che tutte e due .sono, Platone ne conclude che sì pone per il pensiero una terza  entità, r  Essere, comn contenente lo due prime Sofista. Il principio è espresso poi d'una maniera generale nel Fedro, secondo il quale alcun*anima non può vonre in un corpo umano, se non ha contemplato le Idee, perchè è il  proprio dell'uomo di comprendere secondo la specie, raccogliendo la moltitudine dei sensibili in una unità razionale, ciò che è la reminiscenza delle Idee che l'anima ha contemplato. A questi luoghi, per non moltiplicare inutihr.ente le citazioni, non ne aggiungerò che un altro: è nella Rep., in cui dice che lo spirito del filosofo a<?pira ad abbracciare l'universo, a comprendere tutto il  divino e l'umano, e ch'egli contempla tutto il tempo e tutto V essere, riferendosi a quella che ha detto un poco prima, cioè che il filosofo studia l'essenza che sempre è le Idee, e tuffa questa essenza. Ciò prova, non solamente che la scienza si riferisce «He Idee, ma ancora, della maniera più diretta, che la scienza delle Idre è la scienza delle coso stes-e. E questo d'altronde un punto su cui  troviamo le informazioni più esplicite nello stesso Aristotile, il quale attribuisce ai partigiani delle Idre il principio che avere la scienza delle cose è avere la scienza delle specie secondo cui le cose si dicono. MQt. ecc.  1j. If  Per indicare il punto di vista del. a teiria delle Idee Platone dice nel Fedone eli egli ha ricorso ai concclfi sl^ XOÙ^ XÓYOOg guardando in  éSsi la verità derrli  esseri è 1'equivalente di ciò che e» dice Aristotile, cioè che la scienza delle cose è la scienza delle Idee .secondo esse si dicono: e poi oppone quello che guarda gli esseri nei concetti a quello che li guarda n^i tatti Sono gli stessi esseri che vengono guardati ora nei tatti nell'esperienza ora nei concetti: il mondo intelligibile e il mondo sensibile noi sono che Io stesso mondo, guardato da  di\e  punti di vista ditt'erenti; ciò che ali*intelligenza apparisce come un mondo di entità astratte, non v che quello stesso cke ai sensi apparisce come un mondo di cose concrete. Rendiamoci ora un conto esatto della teoria della conoscenza che gl'interpreti trascendentalisti attribuiscono a Piatone, secondo la quale i concetti si riferiscono, non agli attributi stessi delle coso, ma ad altri  attributi simili separati dalle cose. Ciò è tanto più importante, che gì'interpreti trascendentalisti, vedendo l'assoluta inutilità delle Idee trascendenti per la spiegazione delle cose, danno per iscopo alla dottrina delle Idee, non di spiegare le coso, mi di salvare la realtà della conoscenza. Vediamo come la teoria in quistione salva la realtà della conoscenza. I predicati dei giudizi, ci dicono i  logici, sono in generale delle nozioni astratte, dei concetti; i soggetti possono essere sia dei concetti sia delle rappresentazioni concrete e particolari. Il giudizio afferma che al genere o all'individuo GRICE SMITH’S DOG, a cui si riferisce il concetto SHAGGY o la rappresriitazioiio particolare che fa da soggetto, inerisce V attributo SHAGGY a cui si riferisce il concetto HAIRY-COATEDNESS che fa da predicato. L'interprete trascendental'sta di Platone aggiunge che, secondo Platone, gli attributi, a cui si riferiscono i concetti che fanno da predicati SHAGGY cioè le Idee non ineriscono nelle cose, a cui si riferiscono le rappresentazioni particolari che fanno da soggetti SMITH’S DOG. Di più, siccome gli argomenti che provano 1'immanenza delie Idee nelle cose sono quegli stessi che provano l' immanenza delle Idee più generali nelle Idee più particolari, e gli argomenti chn secondo V interprete trascendentalista proverebbero la separazione delle Idee dalle cose, proverebbero pure la separazione delle Idee più generali dalle Idee più partidolari; così egli aggiunge ancora che gli Attributi, a cui si riferiscono i concetti che fanno da predicati, non ineriscono nei Generi a cui si riferiscono i concetti che fanno da soggetti. Uomo non inerisce sl Socrate, Animale non inerisce ad Uomo. Ma se è cosi, come possiamo affermare che Socrate è uomo, che 1'uomo è animale? La conseguenza della teoria che gì*interpreti irascendent alisi i attribuiscono a Piatone ciò è tanto evidente che alcuni di questi interpreti lo hanno apertamente riconosciuto è il paradosso di quegli eristici di cui Platone si ride nel Sofista, e contro cui é diretto ciò che si dice in questo dialogo della comunione o mescolanza dei Generi i quaM permettono che il buono pia buono e 1'uomo sia uomo, ma non soffrono che sì dica di un uomo che è buono. Lo stesso giudizio ANALITICO GRICE STEAWSON, che né Hume crede possibile di attaccare, né Kant necessario di  giustificare, sarebbe impossibile secondo Platone interpretato dagl'interpreti trascendentalisti^ e non ci resterebbero che le proposizioni puramente identiche, cioè tautologiche. La definizione secondo Platone si riferisce airidea, e solamente all'Idea. Questa dottrina non solo è implicitamente contenuta nel principio che il concetto e la conoscenza generale si  riferiscono all'Idea, e in quello che la dialettica di cui la definizione è un elemento essenziale versa nelle Idee, ma é espressamente attribuita a Platone da Aristotile, che la dà anzi come il fondamento del sistema delle Idee. Noi dobbiamo dunque ammettere che quando un dialogo platonico ha per oggetto la ricerca della definizione, quest'i definizioni che Platone cerca, o che egli dà, sia  comm definitive sia come semplici tentativi, si riferiscono alle Idre: in effetto, lo scopo di Platone in questi dialoghi è dì illustrare con esempi la teoria della definizione, e sarebbe inconcepibile che in  p. e. TOSCO (vedasi) Ricerche platoniche.  I Megarici, e seconflo l'opinione dì alcuni storici che io ritengo erronea anche i Cinici. Met. questi esempi egli si mette in contraddizione con  uno dei principii fondamentali  della teoria di cui essi devono fare Papplicazione. D'altronde, che l'oggetto della definizione sia  r Idea, é quello che Platone dichiara esplicitamente in molti di questi dialoghi. Così nelPEutifrone Socrate domanda al suo  interlocutore: cosa è il santo che é lo stesso in tutte le azioni sante, e lo prega di spiegargli, non uno 0 due dei molti Fanti, ma quell'aÒTÒ  xò slòog, queir cesa unica, per cui tutte le cose sante sono sante, affinchè possa servirsene come di un paradigma neir applicazione del nome: santo. Neil' Ippia maggiore comincia per istabilire che tutte le cose belle sonò belle per il bello, e questo è qualche cosa noi sappiamo il significato di questa formula platonica, e domanda al sofista: che é questo bello? che é il bello stesso, di cui tutti gli altri belli sono adorni; che quando è presente sl una cosa qualunque, pietra, legno, uomo, dio, ecc., a questa appartiene di esser bella? ^ la presenza napowoia é uno dei termini soliti di cui Platone si serve per indicare il rapporto dell'Idea con le cose. Nrl Menone la virtù, di cui si cerca ciò che essa sia, é Pel^oc che hanno lo stesso tutte le virtù, la virtù che é una e non molte, l'uno  in tutti, la Yirtù che è una e la stessa in tutte le virtù e in tutti i virtuosi, ciò che corrisponde propriamente a questo nome: virtù tutte queste designazioni, per cui Platone suole indicare le Idee, provano chiaramente la loro immanenza, ma noi supporremo per ora ch'esse potrebbero convenire indifferentemente tanto alle Idee immanenti quanto alle trascendenti; lo stesso vale per la presenza  dell'Ippia maggiore; e per giustificare la poFsibilità della ricerca contro Tobbiezione di Menone che sopprime ogni conoscenza, s'invoca la dottrina che la conoscenza é una reminiscenza. ciò che suppone che  la virtù, che si vuol conoscere, è quella stessa virtù, che T anima ha intuito^vale a dire ridea della virtù. Nel Politico, si avverte che le dieresi, che devono condurre alia scovorta  dell'arte politica e del politico, hanno per oggetto le Idee, e nel Sofista si dice che 1 oggetto della ricerca è l'Idea del sofista. Ma, da un altro lato, è incontestabile che le definizioni li Platone si riferiscono alle cose stesse. Cosi nel Sofista, in cui si cerca la definizione del Sofista e dell'arte sofistica, questo sofista, di cui si vuol conoscere ciò ch'egli è, è quello stesso che successivamente  apparisce: come un cacciatore mercenario di uomini ricchi, come un mercante di conoscenze che si rifVriscono all'anima, come un rivenditore in dettaglio di queste conoscenze, come un venditore di prima mano delle stesse, come un atleta nella lotta di parole, il quale si arroga l'arte eristica, come un purgatore dell'anima dalle opinioni che le impediscono l'acquisto della scienza, ma  sovratutto come contraddittore e maestro agli altri di questo stesso; che ha una scienza appaiente, ma non vera; che, quando noi affeimiamo ch'egli ha un'arte fantastica, e lo chiamiamo un facitore di simulacri, ci domanderà cosa sia un simulacro, e s». noi gli risponderemo citandogli le immagini degli specchi, dell'acqua ecc., sì riderà di noi che gli parliamo come ad un uomo che vede,  fingendo di lion a\  cr visto mai né specchi ne acqua e di non sapere nommeiio che cosa sia la vista, e infine ci costringerà a confessare che ciò che non è, in un certo modo é; che nega che si dia il falso, poiché ciò che non é non può partecipare all'essere, e, dopo che si è visto che partecipa all'essere, forse, dirà che alcune specie partecipano del non essere e altre no, e l'opinione e il  discorso sono di quelle che non ne partecipano; ecc. E l'arte sofistica è quella che ha questo stesso ai fista ecc; Parte che fa profissione di disputare in grazia della virtù ed csìgf^ danaro per mercede; la caccia ai ricchi; l'arte per cui si possono incantare con discorsi i ricchi e ancora lontani dalla verità, mostrando loro delle immagini, in parole, di tutte cose, in modo da far loro credere  che si dice la verità e si e il più sapente di tutti gli uomini in tutte le cose; un'arte n;enzognera da cui la nostia anima è tratta ad opinare il falso; ecc. Nel Politico, la scienza regale o politica, di cui si ricerca ciò che es?a è, è una che non può trovarsi nella moltitudine né dei ricchi né di tutto il popolo, ma in uno o due o pochissimi, che si devono chiamare re, sia ch'essi comandino o che vivano da privati, che comandino ai volenti o ai nolenti, con leggi scritte o senza, ecc.; questa scienza non comporrà di buon grado lo stato di buoni e di cattivi, ma quelli che possono formarsi ai costumi saggi li rimett rà a persone capaci di educarli, essa dando degli ordini e presiedendo a tutto, gli altri li condannerà alia morte o all'esilio, o li tottometterà alia schiavitù, e tra i buoni  naturali prenderà i caratteri forti, simili ai fili dell'ordito, e i modelati, simili a quelli del ripieno, e li intreccerà gli uni con gli altri, Icrmendone il più bello di tutti i tessuti; ecc. E il politico che ti tratta di definire è quello ci e ha questa scienza; a cui bisogna consegnare le redini dello stato; che ha cura del gregge umano come un pastore; ecc. 11 bello dell'Ippia maggiore è quel bello che  é bello per tutte le coso e iu tutte le circostanze, e Socrate propone di definirlo: ciò che ha la potenza di produrre qualche bene; e: ciò che ci reca diletto mediante 11 senso della vista o dell'udito. NeirEutifrone, Eutifrone risponde alla domanda di Socrate, che il santo è ciò che è aggredevole agli dei (6  ej, e Socrate dice che infine ha risposto com'egli desidera vale a dire che questa  risposta definisce, beue o male, il santo stesso^ la specie; e in seguito si propongono queste altre definizioni: il santo è la parte del giusto che ha per oggetto la cura degli dei; é la scienza delle domande e dei doni che bisogna fare agli dei. Nel Menone, la virtù, di cui si domanda ciò che essa sia, é la stessa virtù, di cui si domanda come essa sopravvenga agli nomini, se possa insegnarsi  o no; e si propongono queste definizioni: la virtù é il saper comandare agli uomini; è il desiderare le belle cose e potersele procurare. Nello stesso dialogo Socrate, per dare dei modelli d'una definizione secondo la sua intenzione, definisce la figura: in ogni figura dico essere figura ciò in cui termina il solido; e il colore: un fiusso di figure proporzionata alla vista  e sensibile  Evidentemente,  questo colore, questa figura, questa virtù, questo santo, questo bello, questo politico e arte politica, questo sofista e arte sofistica, di cui si ricerca ciò che eiascona di queste cose è, sono le cose stesse che tutti chiamiamo con questi nomi SHAGGY, e non dalle entità trascendenti: e lo stesso deve dirsi della giustizia della Repubblica -- H. P. Grice, Philosophical Eschatology and Plato’s Republic --  della scienza del Teeteto, della fortezza del Protagora  e del Laches, dell'amico del Lisis, della temperanza del Carmide, e in una parola di tutto ciò di cui Platone dà o cerca la definizione in tutti i dialoghi che hanno per oggetto questa ricerca. Ma se le definizioni platoniche non si applicano che alle cose stesse, come può Platone affermare ch'esse si riferiscono alle Idee, e  solamente alle Idee? Nell'ipotesi i della trascendenza delle Idee, ciò sarebbe incomprensibile; ma nell'ipotesi dell'immanenza, si comprende perfettamente. Piatone sostiene che la definizione ha per oggetto l'Idea, e Tldea sola, perchè quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere ciò che esso è, non è l individuo l'individuo, considerato nella sua individualità, è indefinibile, e ad  ogni modo egli non è quello stesso che dice la definizione comune; Tizio GRICE SMITH’S DOG FIDO IS SHAGGY ha, ma non è, questo gruppo di attributi che costituisce la nozione dell'uomo, la sua definizione; per dire ciò che egli è, bisognerebbe aggiungere agli attributi di uomo le particolarità individuali che gli sono proprie; quello che si definisce, quello di cui si vuol sapere  ciò che esso è, è l'essenza comune degli individui, l'oggetto della nozione generale, e questo è, secondo Platone, l'Idea. É perchè quest'essenza, che è l'oggetto della definizione, è l'essenza comune degl'individui, e non si trova altrove che negl'individui stessi, che la definizione si applica alle cose; ma indirettamente, e in quanto, e solamente in quanto, queste partecipano alle Idee, vale  a dire, in quanto si considera in esse, non l'elemento indivuale, ma l'elemento comune; Tizio – SMITH’S DOG FIDO IS SHAGGY GRICE  si  definisce, non corno Tizio, ma come uomo; Protagora non come Protagora, ma come sofista.  Quando poi la definizione si applica, non a questo o quell'individuo, ma a tutti gl'individui della classe, p. e. a tutti  gli uomini, a tutti i sofisti; allora,  per il fatto stesso che si emette una proposizione generale, l'elemento individuale sparisce, e non resta che Telemento comune, qu^^llo a cui si applica direttamente la definizione, l'Idea; perchè, secondo Platone la conoscenza generale si riferisce all'Idea. Per conseguenza, cercare o dare la definizione degli uoniiui o dei sofisti, non è altra cosa che cercare o dare la definizione dell'Idea  dell'uomo o di (|uella del sofista; dire ciò che è l'uomo o il sofista considerato in generale, è dire SS mm ciò che è ridea dfU'uomo o quella del solista; porche ruomo e il sofista, considerati in generale, non sono altra cosa che l'Idea dell'uomo e l'Idea del sofista. In verità, noi potremmo, per la stessa ragion», riguardare tutte le proposizioni generali che si trovano negli scritti platonici,  qualunque sia il loro contenuto, come altrettante prove dell'immanenza dello Idee, perchè, da una parte, è evid^^nte che queste proposizioni si riteriscoDO allo cose, e d'altra parte, secondo i principi! platonici, ogni nozione generale non può avere per ogget o che l'Idea. Ma io non ho creduto potermi avvalere di questo genere di provo, perchè non è rara nei filosofi uua contraddizione  tra la teoria e la prat  ca: ma una tale contraddizione sai ebbe inammissibile, quando questa pratica è precisamente un esempio destinato a mettere in azione la teoria. Cosi noi non cercheremo un'altra prova analoga del rimmanenza che nflle dieresi platoniche. La dieresi è la divisione del genere nelle sue specie; essa piende per punto di partenza uno dei generi più vasti, lo divide nei  generi immediatamente inferiori HAIRY-COATED SMOOTH-COATED cioè meno est si, qursti in quelli ancora immediatamente inferiori, e cosi di Feguit'^, sinché si trovino le specie infimo SHAGGY, che sono quelle di cui si cerca la definizione HAIRY-COATED. Tutta la dialettica platonica sta nella dieresi: la definizione stessa vi è compresa, per che non ne è che il termine e il  risultato. Il metodo della dieresi è praticato nel Sofista e nel Politico, e lo dieresi di questi due dialoghi hanno appunto per iscopo, come ci avverte lo stesso Piatone, di dare degli esempi di questo metodo, che, come abbiamo detto, non è che la dialettica stes-ia. Noi dobbiamo ammettere, per conseguenza che le dieresi del Sofista e del Politico si applicano alle Idee cioè che i generi divisi  e le specie in cui si dividono sono delle Idee, perchè è l'Idea che è p*oggetto proprio ed unico della dialettica. È quello el resto che Platone dice espressamente nei luoghi di questi due dialoghi superiormente citati a proposito della definizione come anche in uno dei luoghi del Politico che riporteremo tra poco. Intanto è evidente che le dieresi del Sofista e del Politico si riferiscono alle  cose stesse, e non ad entità iperfisiche. Non per provarlo perchè ciò non ha bisogno di essere provato ma perchè il pensiero possa fissarsi su qualche cosa di concreto, e non siresti nel vago dell'astrazione, io darò qualche esempio. Ecco dunque la prima dieresi del Sofista; L Osp. VELINO. Delle arti, si può dire, tutto, vi hanno due specie. TebTETo: Quali? L'Osp. El.: L'r gricoltura,  e  ogni lavoro relativo a qualsiasi corpo corruttibile, e quello relativo a ogni oggetto fabbricato che noi chi^^miamo suppellettile, e l'arte imitativa, tutto ciò potreble a buon dritto chiamarsi con un sol nome Teet.: Cerne, e con qual nome? L'Osp. El.: Per tutto ciò che prima n^n era e poi viene Polii.  Per la dottrina che le Idee sono l'oggetto, e l'oggetto unico, della dialettica, V. FU., Rep.  Parmen di VELIA Fedone d-ioo  a. So/,,  ecc. Per l'identità della dialettica e della dieresi v, oltre l'ultimo dei primi indicati, ciò che ne abbiamo detto nel cap. Aristotile dà come motivo della dottrina delle Idee, non solo la proposizione che la delinlzione non può a ere per loggetto che le Idee e non le cose, ma anche quella più generaie che a dialettica cioè tanto la definizione quanto la  dieresi non può avere che quest'oggetto, Mei. e il commento d'Aless. d'Afrod. a questo luogo Del resto, che le dieresi di Platone si riferiscono alle Idee, é provato abbastanza dalle prove stesse che dimostrano che le sue definizioni si riferiscono alle Idee; poiché ciò a cui si applica la definizione non SODO che le sezioni ultime, gl'indivisibili a cui arriva la dieresi. SHAGGY ' 1 t. 1 portato airesistenza, noi diciamo di quello che lo porta all'esistenza, che fa, e di quello che vi è portato, che è fatto. Tebt.: Giustamente L'Osp. El.: È  questo l'oggetto della potenza ch^ hanno tutte le arti che nbbiamo -TEET: Si, è questo L'Osp.  El.: Noi le chiameremo dunque in  generale l'arte di fare Tebt :  Sia L'Osp. El: Poi, ogni specie di disciplina e di scienza, il negozio e la lotta e  la caccia, siccome non producono niente, ma, tra le cose che esistono e sono state prodotte, delle une s'impadroniscono por la potenza del discorso e dell'azione, le altre difendono contro quelli che vogliono  impadronirsene, cosi tutte queste parti potrebbero riunirsi convenientemente sotto il titolo di arte di acquistare. Le due ultime dieresi dello stesso dialogo: L'Osp. El.: L'imitatore  opinante è moltiplice; perchè Tuno è| uno sciocco che crede di sapere le cose che opina, ma la specie dell'altro, per la volubilità dei suoi discorsi, dà molto a sospettare e a* temere che ignori le cose THE LADY DOTH PROTEST TOO MUCH GRICE, che innanzi agli altri si dà l'aria di conoscere Tebt.: Ve ne ha certamente dell'uno e dell'altro genere che hai detto -L'Osp. El.:  Chiameremo dunque l'uno imitatore semplice, e l'altro imitatore simulatole?- Teet.: E con ragione -L'Osp. El.:  E il genere del secondo;', diremo unico o doppio? Teet.: Veditu -L'Osp El'Ì  Guardo, e due me ne appariscono: vedo l'uno capace di simulare in pubblico con lunghi discorsi alla moltitudine, l'altro in privato, con brevi discorsi, costringendo l'interlocutore a mettersi in  contraddizione con se stesso La prima dieresi del Politico: L'Ospiste: Come trovare la via della scienza politica? vale a dire: in quale classe di scienze dobbiamo cercare questa scienza V)  bisogna scoprirla, e separandola dalle altre, imprimerle un'Idea unica, e le altre direzioni segnando d'un altra Specie unica, far concepire al nostro spirito tutte le scienze come essenti due Specie L'aritmetica e altre arti consimili non sono scevro da ogni azione, e non esibiscono una semplice conoscenza? Socrate: Cosi è  L' Osp: Ma quelle, che spettano alla fabbricazione e ad ogni altra operazione manuale, possiedono invece una conoscenza che si rapporta naturalmeate all'azione, e fanno gli oggetti materiali a cui danno 1'esistenza, e che prima non erano Socrate: è chiaro L' Osp.: Cosi dividi tutte le scienze, chiamando l'una  attiva, l'altra semplicemente speculativa Socrate: Siano queste le due specie della scienza, u7ia essendo tutta la » Nello stesso dialogo: L'Osp.: Prima consideriamo due arti, che sono circa tutte le cose che si fanno. Socr.: Quali?- L'Osp.: L'una, con causa della produzione, l'altra la causa stessa Socr.: Come? L'osp.:Tutte  quelle, che non  fabbricano la cosa stessa, ma somministrano ai fabbricanti gli strumenti, nella cui assenza ciascuna arte non potrebbe compiere l'opera che le è assegnata, chiamirmo eoncause, quelle che fanno la cosa stessa, cause  E    e, distinguendo la politica dalle arti più  affini l'oratoria, la militare e la giudiziaria: L'Osp.: Quella poi che presiede a tutte queste, e veglia alle leggi e a tutti gli affari  dello stato, e tutte cose rettamente contesse, denotandola sua facoltà Notiamo le  parole in corsivo. Socrate risponde cosi, per mostrare ch'egli ha compreso che la dieresi si riferisce alle Idee come l'ospite VELINO ha detto al principio del luogo citato. È perchè la dieresi si riferisce propriamente all' if no l'Idea e non ai molti le cose, che nel Politico e nel Sofista i nomi designanti i generi ohe si tratta di dividere, e le specie in cui vengono divisi cioè i nomi comuni degli oggetti appartenenti a questi generi e a queste specie, si trovano, di regola, al singolare. col nome  comune, chiameremo giustametìte, mi sembra, scienza politica. Io devo avvertire il lettore, che non conoscesse questi due dialoghi e un'avvertenza analoga avrei potuto fare sulle definizioni che non è  ia questo o in quel punto isolato, ma è dal principio sino alla fine, che le dieresi del Sofista e del Politico ci mostrano con la più grande chiarezza che esse si applicano, non ad entità  iperfisiche, ma alle cose stesse: ciò è tanto evidente, che nessun interprete trascendentalista  certamente oserebbe sostenere che in queste dieresi si tratta delle  làQQirascendenti] forse però alcuno dirà che in esse non potrebbe nemmeno trattarsi delle Idee immanenti, perchè anche queste sarebbero al postutto dfìlle entità ultrafenomenali, metaempiriche, mentre è incontestabile che le  arti e le scienze, di cui si fa la divisione nel Sofista e nel Politico, sono le scienze, e le arti fenomeni, e fenomeni egualmente, cioè oggetti della nostra esperienza, sono gli oggetti su cui versano queste arti e queste scienze, e i soggetti in cui esse risiedono ai quali si applica pure la divisione. Che le dieresi di Platone si applicano alle cose nel tempo stesso che egli afferma che hanno per  oggetto le Idee e quindi che le Idee per lui si identificano con le cose non si vede solamente dai dialoghi destinali a mettere in pratica il metodo di divisione, cioè dal Sofista e dal Politico^ ma anche da quei luoghi degli altri dialoghi, in cui, inculcando la divisione come regola generale di metodo, ne dà qualche esempio particolare; perchè in questi casi, mentre nella regola si parla di  una dieresi delle Idee, negli esempi si tratta invece di una dieresi delle cose. È così che si fa nel Fi'Icho, dove si deduco dalla costituzione stessa degli esseri eterni cioè le Idee, di cui ciascuno è al tempo stesso uno e molti, che bisogna in ogni ricerca stabilire un'Idea unica per tutto, e sforzarsi di scoprire il numero d'Idee comprese sotto di quella, e poi quello ohe è compreso sotto  ciascuna di queste, e cosi di seguitò, siiichè Ma. quegli che facesse quest'obbiezione, mostrerebbe ch'egli non sa porsi esattamente al punto di vista delTipotesi dell'immanenza. Le Idee non sono che le cose considerate d'una maniera astratta e generale, e le cose considerate d'una maniera astratta e generale non sono che le Idee. La dieresi avendo per oggetto, non delle cose particolari,  ma i generi eie specie delle cose, ha perciò per oggetto le Idee, anche quando Platone non parla esplicitamente che di una divisione delle cose; perchè secondo Platone, ogni NOZIONE generale direttamente non si riferisce che alle Idee. Come i concetti e i nomi, che sono i SEGNI GRICE --  SIGNIFYING -- dei concetti, non si riferiscono  direttamente che alle Idee, cioè agli Attributi SHAGGY SIGNIFIES, e alle cose solo indirettamente, in quanto partecipano dogli Attributi; cosi ogni proposizione generale, ch'essa sia una definizione, o una dieresi, o che abbia un altro contenuto qualunque, non ha per oggetto che le Llee; essa si riferisce pure alle cose, ma indirettamente, in quanto queste possiedono GRICE IZZING HAZZIG gli Attributi, i cui  rapporti, astrattamente    considerati, costituiscono il vero significato della proposizione. Ogni proposizione generale é dunque, in certo modo, per Platone, un'espressione a doppio senso: essa significa al tempo stesso le cose e le Idee; questo doppio senso non si scopra tutta la moltitudine compresa nell'unità primitiva; e si danno come applicazioni di questo metodo la divisione delle lettere ohe fa la grammatica,  e quella dei suoni che fa la musica le quali certamente non trattano di suoni e di lettere trascendenti, e si esorta ad applicarlo al piacere e alla saggezza, cioè incontestabilmente al nostro piacere e alla nostra saggezza, perchè si tratta di quel piacere e di quella saggezza, di cui si ricerca se il bene questo bene la cui possessione GRICE IZZING HAZZING deve renderci felici consista  nell'uno o nell'altra È cosi che si fa pare nel  Fedro ì lì W' è che il doppio significato dei nomi, la connotazione NOTAZIONE, che si riferisce all'astratto e al general»*, e la denotazione NOTAZIONE, che si riferisce al concreto e al particolare. Supponiamo, per chiarire il punto di visto di Platone, che vi hanno r*  almrnte, come ammettono la più parte dei filosofi, dei concetti, cioè  delle rappresentazioni astratte e generali. Quale sarà per un filosofo logico, che ammette la teorica dei concetti, il vero significato di una proposizione generale? Una proposizione generale è l'espressione di un giudizio generale, e un giudizio generale consta d'idee generali, di concetti; dunque la proposizione generale non può riferirsi che a ciò a cui i concetti si riferiscono, cioè agli  attributi, agli astratti; direttamente, essa non può riferirsi alle cose particolari e concrete, perché, quando facciamo il giudizio, non vi hanno  nel nostro pensiero le rappresentazioni di queste cose particolari e concrete, ma i loro concetti, cioè delle rappresentazioni astratte, delle rappresentazioni di attributi. Il significato diretto della proposizione sarà dunque TafiTermazione di un  rapporto tra attributi: p: e : Tuomo è un animale, significa propriamente che Tattributo animale fa parte del gruppo di attributi uomo. Ma Avverto una volta per tutte che quando, per rendere conto delle idee dei metafisici realisti, parlo delle operazioni del pensiero in termini che implicano la teoria dei concetti, io non intendo fare adesione effettivamente a questa teoria. Non intendo  decidere se la verità stia m essa o nella teoria contraria che non ammette altre ideo che rappresentazioni di cose concrete e particolari. Ma mi attengo alla teoria dei concetti, primo perchè è conformemente a questa ttoria che i metafisici di cui si tratta si rappresentano necessariamente le operazioni deli' intelligenza; e poi perchè questa è la dottrina stabilita e la sola, pei conseguenza, che abbia a sua disposizione una lingua già fatta che permette di essere breve e di farsi facilmente comprendere. Mill. GRICE TO THE MILL Log. Pil. di Hamilton, oftp. saUa fine,. sul principio, eoo. Siccome il gruppo di attributi uomo non si trova altrove che negl'individui concreti e particolari, cosi la proposizione si riferirà pure a questi, ma non direttamente, perchè non é alcun individuo  né tutti d'indivìdui che noi ci rappresentiamo, affermando che Tuomo é un animale, ma semplicemente l'uomo astratto, Toggetto del concetto. Aggiungiamo ora aUMpotesi concettualista l'ipotesi realista: supponiamo, cioè, che gli oggetti dei concetti, vale a dire gli attributi, gli astratti, abbiano ciascuno un'esistenza propria e distinta, ch'essi siano, parlando la lingua di Piatone, delle  Idee. Quale sarà il significato diretto di una proposizione generale? sarà l'affermazione di un rapporto tra Idee.  SMITH’S “DOG” IS “SHAGGY” L'uomo è animale, affermerà l'inerenza dell'Animale nell Uomo. Ma siccome l'Uomo non si trova altrove che  negli uomini, cosi la proposiziono si riierirà pur^i agli uomini, cioè agl'individui concreti e particolari; ma questo secondo  significato sarà indiretto, perchè, affermando che l'uomo é animale, non è quest'uomo né quello, né la totalità  degli uomini, che si trova presente al nostro pensiero, ma semplicemente l'Uomo, l'astratto. Cosi, che Platone affermi che delle proposizioni, ch'egli riferisce evidentemente alle cose definizioni, dieresi, e in una parola tutte le proposizioni generali si riferiscono alle Idee di  queste cose, é una conseguenza logica della teoria dei concetti, unita alla realizzazione degli oggetti di questi concetti: ma quést'affermazione implica l'identificazione delle Idee con le cose, cioè con le cose considerate d'una maniere generale ed astratta. Essa sarebbe un*inconcepibilità  nell'ipotesi della trascendenza^ che sopprime l'identità tra le Idee e le cose, e f *i del sensibile e  dell'intelligibile, del concreto e dell'astratto. due realtà assolutamente differenti e separate Tuna dall'altra, e non, come vuole Piatone, una sola e stessa vista da due laii differenti. L'idea platonica essendo T oggetto del concetto, sostantificato, i caratteri dell'Idea sono i caratteri stessi del concetto, cioè 1'astrattezza e Tuniversalità. Ora di questi due caratteri, l'interpretazione trascendentalista ammette il primo, ma nega, in sostanza, il secondo Dico m sostanza, perchè gP interpreti trascendentalisti, trascinati dalla forza stessa della verità, chiamano, come noi, le Idee platoniche universali; essi convengono del nome se non della cosa; ma è evidente che bisognerebbe cangiare radicalmente il significato di questo nome prima di poterlo applicare convenientemente alle Idee  platoniche quali essi se le rappresentano. Universale vuol dircelo che può essere attribuito a tutti gl'individui di una classe, l'attributo comune di tutti questi individui; ma 1 Idea, per l'interprete trascendentalista, non è un attributo di questi individui, né di.tutti né di alcuno, perché attributo inerisce nel soggetto, mentre l'Idea, secondo lui, non inerisce nelle cose, ma è fuori di esse.  L'interprete trascendentalista parla con più proprietà se dice che le Idee platoniche sono, non gli universali, ma 1 contenuti CONTENUTO CONTENUTO PROPOSIZIONALE PEACOCKE GRICE MYRO dei concetti universali, realizzati; perchè secondo la sua interpretazione, le Idee corrispondereb' bero ai concetti nella loro comprensione solamente, ma non nella loro estensione;  ora l'universalità si rapporta ali estensione, e non alla comprensione. Sicché la quistione sull'immanenza o trasceudcnza delle Idee si riduce al fondo, a questa: l'Idea è semplice rr ente l'astratto o è anche l'universale? Ma per l'abuso che gl'interpreti trascendentalisti fanno della parola universale, noi dobbiamo sostituire a questa parola una perifrasi, e formulare la quistione cosi: l' Idea  platonica è o no un attributo comune delle cose, che Platone si rappresenta come uno e Io stesso nel senso più stretto di queste parole in tutte le cose che possiedono quest'attributo? il bianco stesso, il bello stesso, l'uomo stesso, è una bianchezza, una bellezza, una umanità fuori degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi, o é questa bianchezza, questa  bellezza, quest'umanità che è 1'attributo comune degli uomini, degli oggetti belli e degli oggetti bianchi, ma concepita come qualche cosa che è una e la stessa  e non semplicemente simile o uguale in tutti gli uomini, in tutti gli oggetti belli e in tutti gli oggetti bianchi? L'universalità cosi definita delle Idee platoniche è sufficientemente dimostrata dalle prove antecedenti; ma vi hanno  delle prove ancora più esplicite, che passeremo in rassegna in questo numero. Tra queste prove io non comprenderò i lunghi numerosi, in cui Aristotile afferma esplicitamente o suppone che le Idee platoniche sono universali, ch'esse si predicano universalmente  o in comune di tutte le cose cioè di tutte le cose appartenenti a una classe determinata, che sono i generi degli esseri, ecc.,  perché rinterpetre trascendentìlista potrebbe dire, e con qualche apparenza di ragione, che Aristotile fa qui del termine universale e dei suoi sinonimi Tuso improprio che abbiamo rimproverato a lui stesso; mi limiterò per conseguenza ai soli testi  di Platone,  « di Aristotile non aggiungerò che alcuna di quelle indicazioni il cui significato non può lasciar luogo ad alcun dubbio. II modo  in cui Platone mette in antitesi l'Idea e le cose prova che l'Idea é l'universale, perché le cose sono opposte ad essa come particolari: p. e:  « il fabbro, non la Specie del letto, ma qualche letto; ma Kep. Dio il  Bene produce il letto che realmente é, e non qualche letto; il vero amante della scienza aspira all'essere vero, e non si ferma ai molti singolari che sono creduti essere; < invoco di  considerare lo Stesso stesso cioè l'Idea dello stesso, abbiamo considerato i singoli stessi cioè le cose particolari a cui conviene il predicato: stesso; bisogna prendere chiaramente o il bene cioè senz'alcun dubbio, l'Idea del bene, o qualche forma di esso; ecc. Se Tldea fosse trascendente^ mancherebbe la ragione deirantitesi; al particolare deve corrispondere il suo opposto, il generale. 2«  Astrarre, generalizzare, è, secoudo Piatone, riunire il multiplo neiruno, cioè le cose neiridea, ole Idee specifiche nell'Idea generica. Cosi nel Sofista dice che il dialettico vede acutamente un'Idea unica sparsa per una moltitudine di cose, separate le une dalle altre, e molte Idee distinte contenute sotto un' Idea unica, e un'Idea unica per molti tutti cioè sparsa per molte specie in uno raccolta Sf  oXwv  tcoXXcSv  èv  Ivi  g'jvyjjiiiésvyjv; nel  Fedro, che bisogna ricondurre ciò  che è qua e là disperso, guardandolo con una veduta d'insieme, ad un'Idea unica, e chiama questa  riconduzione delle cose all'Idea, o delle Idee più particolari a un'idea più generale, una riunione ouvarcovii^ ; nello stesso dialogo rifiuta la perizia nell'arte del dire a chi non è capace di dividere gli cs-^cri per ispecie e di nuovo comprendere i singoli in un'Idea unica; nel  Po^i7 raccomanda di racchiudere tutto ciò che è affine den Alcib. Filebo a. tro una somiglianza unica o rivestirlo dell*essenza d'un certo genere; nel Filebo Socrate si sforza di guardare prima il finito e l'infinito ciascuno diviso in molti e disperso, e poi di riunire ouvaYstv nuovamente in uno, per vedere come l'uno e l'altro é al tempo stesso uno molti;  ecc. Tutte queste espressioni potrebbero anche essere impiegate da un concettualista o da un nominalistama è ciò precisamente che prova l'immanenza delle idee platoniche: in quelli, non sarebbero che dele metafore un po'ardite, in Platone devono prendersi il più letteralmente possibile; l'unità, in cui si racchiude, o a cui si riduce, il multiplo, non è,  per quelli, chf». un'unità mentale, trasportata, per metafora, nelle cose, ma por Platone è un'unità reale; unificare, identificare, per quelli non è che r similare, per Platone si tratta d'una unificazione e d'una identificazione nel s^nso più strétto di queste parole. Sui luoghi citati e gli altri che si potrebbero aggiungere, si deve osservare ch'essi possono dividersi in due categorie: in tutti vi ha il concetto dell'unificazione del multiplo; ma in alcuni quest'unificazione ò il riconoscere che l'attributo comune che é in molte cose p. e. il bianco che é in questa  carta, quello che è nella parete, quello che è in questo libro, ecc. è un'entità unica, e non tante entità quante vi hanno cose che possiedono GRICE IZZING HAZZING  l'attributo; negli altri ciò che si tratta di unificare sono le cose stesse o le Idee che possiedono GRICE IZZING HAZZING  l'attributo comune, o, più propriamente, gli attributi omonimi SHAGGY,  e non semplicemente questi attributi Per somiglianza óiiotoTYjg bisogna intendere non la relazione tra gli oggetti simili, ma il fondamento di questa  relazione, il carattere loro oomune par cui ossi sono chiamati simili. e. omonimi; vale a dire non sì dice semplicemente che Tumanità che è in me, in voi, in quello, ecc. è un'umanità unica, che Tanimale che è nell'uomo, nel cavallo, nel bue è un'Animalità unica, ma ancora che tutti gli uomini diventano uno neirUomo, tutti gli animali uno nell'Animale, ecc. Questi due aspetti della riduzione del multiplo neir uno si vedranno più chiaramente  nei due numeri seguenti. La risoluzione degli attributi omonimi di tutte le cose in un'entità unica è espressa da Platone sotto due forme un po'differenti, ma equivalenti di signifìcato. Uno è il bello, uno il buono, uno il grande, uno è, in una parola, tutto ciò che è coìinofato da ciascun nome generale, e questo bello, questo buono, questo grande, ecc. è Tldea del bello, del buono, del grande, ecc. Cosi nella Bep.: Poiché il bello e il contrario del brutto, questi sono due; ed essendo due, ciascuno è uno. E  lo stesso deve dirsi del giusto Un'altra distinzione che si potrebbe fare è dei luoghi che si riferiscono al rapporto tra l'Idea e le cose e quelli che si riferiscono al rapporto tra l'Idea generica e le Idee specifiche. Non ho creduto necessario di fare questa distinzione, sia perchè nella più parte dei casi Platone ha di mira tanto la unificazione del multiplo reale nell'Idea, quanto quello del multiplo ideale in un'Idea superiore; sia perchè un'interpretazione coerente del sistema delle Idee deve ammettere tra le Specie e le cose lo stesso rapporto, o d'immanenza o di trascendenza, che ira i Generi e le Specie. La stessa osservazione vale per il num. Come genelizzare è per Platone astrarre l'Idea comune a molte cose, che è riguardata come una e la stessa in tutte; così ragionare per ana'ogia è per lui trasferire la stessa Idea, già costatata e determinata nell'oggetto da cui si tira  l'analogia, nell'altro oggetto la cui natura si vuole rischiarare per quest'analogia. Pulii, Hep.. e dell'ingiusto, del bene e del male e di tutti gli  sXSy): ciascuno é uuo esso stesso, ma per la xotvcDvCa cioè la partecipazione ad osso delle azioni e dei corpi e la reciproca la partecipazione degli  sXòri gli uni agli altri, da per tutto apparendo, ciascuno pare molti. E: Che ci risponda dunque  questo buon uomo, che iion crede al bello stesso, né ammette che vi sia alcuna Idea del bello sempre la stessa, ma crede molti i belli; quest'amatore di spettacoli che non accrrderà mai che uno è il belio, uno il giusto, e cosi ogni altra cosa. E: Il volgo crede uiai o soffrirà che si dica che vi  ha GRICE IZZING HAZZING il bello stesso, ma non molti belli, e qualsiasi stesso cioè il bene  stesso, il giusto stesso, il grande stesso, e non molti qualsiansi cioè molti beni, molti giusti, molti grandi,  ecc.? Se le Idee del bene, del bello, del giusto, ecc. fossero trascendenti, come potrebbe dire Platone che vi ha un solo bene, un solo bello, un solo giusto, ecc.? In questo caso vi sarebbero altrettanti beni, belli, giusti, ecc., quante vi hanno cose che possiedono questi attributi, più il  bene stosso, il bello stesso, il giusto btcf^so, ecc. E a questa prima forma con cui viene espressa l'unificazione degli attributi omonimi delle cose, che noi possiamo rapportare pure una delle prove, riferita da Alessandro d'Afrodisia, per cui si dimoitra l'esistenza delle Idee: Ciò che noi aifermiamo come vero è;  ma  noi affermiamo come vero che vi hanno cinque concenti, tre armonie,  ecc.: dunque ciascuno di questi concenti é realmente uno, ciascuna di queste armonie è realmente una, ecc., e vi hanno le Idee di questi concenti, di queste armonie, ecc. Alessandro d'Afrodisia presenta In phil, pr. Arisi, quest'argomento un pò diversamente, ma che Platone lo presenta pressa poco nella forma che abbiamo detto, è anche confermato dal cominciamento del primo dei luoghi citati, che ne è una variante, o piuttosto una applicazione particolare. La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in  tutti gli oggetti belli, è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezza, ecc., e questa grandezza, questa  bellezza ecc., una e la stessa in tutti, è la Idea della grandezza, della bellezza, ecc. Così nel Parmenide di VELIA: Io penso, dice a  Socrate il filosofo VELINO, che tu credi che ciascuna Specie è una, per questo: quando molte co.^eti semb-ano grandi, forese, contemplandole, una certa Idea unica la stessa ti sembra essere in tutte, e perciò ammetti che la grandezza è una. E poco dopo, quando Socrate, confuso dalle obbiezioni del filosofo, batte in ritirata, e passando dal realismo al concettualismo, dice che, forse  ciascuna specie è una NOZIONE, e non esiste altrove che nelle nostre anime, Parmenide di VELIA, che in questo dialogo è il vero rappresentante della teoria delle Idee, gli domanda: Ma che? Ciascuna di queste NOZIONI, che è una, è LA NOZIONE di niente? Socrate: Ciò è impossibile Parmenide: E dunque LA NOZIONE DI qualche cosa? Socr.: Si  Parm. VELIA: Di qualche cosa cosa esistente o non esistente? Socr.: Esistente Parm. VELIA: Non è di qualche cosa di uno, che QUESTA NOZIONE concepisce come presente in tutti gli oggetti, ed essente una certa forma unica? Socr.: Si  Parm. VELIA: E non sarà un'Idea questa cosa che si concepisce essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti? Nelle Uggì, I'Ateniesb: 4c Si può più esattamente esaminare checchesia che guardando ad un'Idea unica dai molli dissimili? Clinia. Forse -L'Atemfsk: Non forse, ma certamente non vi ha metodo più luminoso di questo per lo spirito umano. Ci bisogna dunque, sembra, obbligare i custodi della nostra divina città a vedere prima esattamente cos' è che per tutte quattro le virtù è lo stesso, che essendo uno nella fortezza, nella temperanza, nella giustizia e nella prudenza, giustamente chiamiamo con un sol nome, virtù ANDREIA Philosophy is, like virtue, entire GRICE. Nel Convito si chiama una demenza il non credere che uno e Io stesso è il bello in tutti i corpi; nel Mmom si cerca che coea sia  la virtù ANDREIA  unica Philosophy is, like virtue, entire. Grivce -- che è per tutte le virtù; che cosa sia la figura che è la stessa in  tutte le figure; nel Sofista che cosa sia il simulacro unico che è in tutti i simulacri; ecc.: Nella Metafisica Aristotile domanda Se la diade è una e la stessa nelle diadi corruttibili e le molte ma eterne, perchè non sarà pure la stessa nella diade stessa e nelle particolari? qui Aristotile fa a Platone l'obbiezione del TERZO UOMO, ma ciò che c'importa è ia proposizione che gli attribuisce, cioè che la diade è una e la stessa in tutte le diadi; nel  1. Ili  fa appoggiare la dottrina della realtà degli universali suirargemente che in t«nto conosciamo tutte le cose, in quanto vi ha un che di universale, un che di uno e lo stesso, e che non vi sarebbe scienza, se non vi fosse un che di  Rep, I numeri matematici, che, nell'ultima forma del suo sistema, Platone fa intermediari Ira il numero ideale e i numeri  sensibili. Sup2jtem. uno in tutti; e in una moltitudine di luoghi afferìma esplicitamente o indubbiamente suppone che i Platonici chiamavano Tldea Vuno nei molti. Noi sappiamo pure da Alessandro d'Afrodisia, che certament'^ lo aveva attinto da Aristotile, che uno degli argomenti, e di quelli tenuti in magior conto,  per dimostrare Tesistf^nza delle Idee, era questo: che gli oggetti che sono simili tra di loro cioè che hanno questa somiglianza definita cui si riuniscono in una stessa classe non possono estali che perchè partecipano a qualche cosa la stessa che è propriamente quello che viene predicato in comune di questi oggetti, e questa cosa è Tldea. Met, eco. In Metaph. Arisi,. Alessandro d'Afrodisia c'informa anche di una variante di quest'argomento, ch'egli espone cosi: che vi ha una causa delle cose costantemente farsi, e farsi secondo un tipo costante; e questa causa è l'Idea comune a queste cose. Anche esposto sotto questa forma che non sappiamo se sia esattam ente quella con cui Platone lo propone, quest'argomento prova l'immanenza dell'Idea, cioè che la Idea è l'Attributo che è uno e lo stesso in tutti gli esseri della stessa specie. Infatti, se l'Uomo fosse una semplice causa esemplare degli uomini, posta al di fuori di essi, essa non ci spiegherebbe perchò uno stesso tipo si riproduce costantemente in esseri distinti fra di loro; per la semplice ragione che l'Idea separata non sarebbe una causa efficiente, vale a dire una causa che a priori si riconosce capace di produrre l'effetto che le viene attribuito e  naturalmente nemmeno una causa empirica, cioè la cui azione è stata dimostrata dall'esperienza. Al contrario, se si ammette che l'Idea è nelle cose, la somiglianza delle cose che partecipano alla stessa Idea può essere dedotta a priori da questa partecipazione a una stessa Idea; tra la causa e l'effetto vi ha un legame necessario; e perciò, dato l'effetto la somiglianza di tutti gli uomini noi possiamo inferirne la causa la partecipazione a una Idea comune, perchè questa causa è una causa che noi già sappiamo essere capace di produrre l'effetto, ciò che è la condizione in A questi dati non aggiungerò alcun commento. L'espressione più netta sotto cui può formularsi l'ipotesi daWimvianenza e precisamente questa, contenuta nelle citazioni precedenti, che gli attributi omonimi  di tutti gli esseri non sono in sostanza che un Attributo unico, e questo è l'Idea; che quest'Attributo inerisce, uno e lo stesso, nella moltitudine degli esseri dei quali predichiamo dispensabile di qualsiasi ipotesi, fisica o metafisica, vera o falsa, che lo spirito umano possa fare sulle cause dei fenomeni. L'argomento di Platone che gli oggetti simili non possono essere tali che per la  partecipazione a qualche cosa comune, suggeriva agli avversari della sua teoria 1'obbiezione del  ^tco uomo, della quale gl'interpreti trascendentalisti delle Idee  platoniche fanno gran caso, perchè essa prova, secondo essi, che la teoria contro cui era diretta, era quella delle Idee trascendenti. L'obbiezione del terz'uomo è questa: se tutti gli uomini sono simili perchò partecipano a uno  stesso, all'Uomo in sé, l'Uomo in sé e gli uomini debbono pure essere simili perchè partecipano a qualche cosa di comune; vi ha dunque, oltre l'uomo fenomenale e l'Idea dell'uomo, un terzo uomo distinto dal fenomeno e dall'Idea; e l'obbiezione continua pretendendo che la somiglianza del terz'uomo con gli altri supporrebbe un quarto uomo, a cui tutti gli altri uomini partecipassero, e  cosi di seguito all'infinito per quest'obbiez. Plato. Parmen VELIA, Arist. Met, e Aless, d' Afrod. commento al primo di questi due luoghi. Non vi ha dubbio che, perchè quest'obbiezione fosse logicamente inappuntabile, essa dove essere diretta contro le Idee terascendenti se l'Idea è nelle cose, non vi ha motivo di domandare la causa della somiglianza tra le Idee e le cose, perchè l'Idea non è altro che questo punto di coincidenza comune per cui tutte le cose simili si dicono simili ma resta a provare che l'obbiozione del terz’uomo era logicamente inappuntabile. Nella dottrina delle Idee immanenti vi ha quel tanto che, so non è sufficiente perchè quest'argomento sia perfettamente concludente, basta perchè esso abbia quella plausibilità necessaria a un argomento perchè  gli avversari di una teoria ne facciano uso. In effetto, Platone ha un bell'affermare che le Idee, quantunque siano sostanze per se stesse, inori-, aoono nondimeno nelle cose,  e ohe, quantunque ciascuna sia una, .% t  \  rattiibuto. Certamente questa prova deirimmanenza  che in verità non è una prova, ma la ripetizione, in termini più chiari, della tesi stessa che si tratta di provare non sembra con tutto ciò soddisfacente a^Finterpreti trascendentalisti: ma che si può fare di più? non altro che pregare questi interpreti che cerchino di rappresentarsi nettamente la tesi deirimmanenza delle Idee, vale si trova nondimeno simultaneamente in una moltitudine: queste determinazioni sono incompatibili,  noi non possiamo rappresentarcele insieme; noi non possiamo concepire  che una sostanza inerisca in altre sostanze come un attributo, che un essere unico si trovi al tempo stesso, senza frazionarsi, in una moltitudine di esseri differenti. Ne segue che delle sostanze quali Platone finge le Idee, non potremmo rapjìresentarc'ìe che esistenti separatamente dalle cose; l'Uomo in sé, in quanto noi possiamo immoijinarlo, non lo possiamo che come un uomo particolare,  distinto e separato dagli altri uomini, questi nati e peribili, esso eterno: è questa la base dell'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, e la chiave per comprendere tutte le vicende di questa teoria. Cosi, se l'obbiezione del terz’uomo non vale contro le Idee quali Platone le afferuia, direbbe egli, quali oggetti dell'intelligenza, poiché egli afTeruia che esse sono nelle cose; vale  però contro le Idee quali noi possiamo rappresentarcele, quali oggetti, direbbe Platone, d' un'immaginazione circoscritta nelle condizioni del sensibile; perchè noi non \)0^ siamo rapp/É'StfM/arftf/t' che separate dalle cose: é quanto basta alla vis probante dell'obbiezione del terz'uomo, quantunque quest'argomento, in sostanza, non sia che un SOFISMA  I metafìsici hanno un mezzo assai  comodo per superare tutte le difficoltà: é di distinguere tra inmufjinare ed intende^-e.  Se noi troviamo le loro teorie inconcepibili, essi rispondono che ciò é perchè si pretende d'immaginare ciò che non si può se non intendere, come se si volessero vedere i suoni o udire i colori Vedi Cartesio ed. Cousin, Leibnitz  N,  S,  sulVint, um., De ipsa nat. sire de vi ins,  r, Epist. ad  P,  Des-Iiosa.    ed.  Dutens, Spinoza  De intelL emend., ecc. Tra l'empirismo e la metafisica tutta la quistione è, al fondo, se questa distinzione deve ammettersi o no. 2^3 a dire la dottrina che le Idee sono, delle sostanze sì, ma inerenti nelle cone come loro nttributi nozioni certamente incompatibili, io sarò il primo a convenirne, e di fare per un istante la supposizione che tale sia stata realmente la  dottrina di Platone ciò eh? non è chiede' poco, perchè si può essere sicuri che la più parte degrinterpreti trascendentalisti, per non dire tutti, non hanno fatto mai seriamente questa supposizione, e poi di saperci dire come, in questo caso, Platone avrebbe potuto esprimere la sua  dottrina d'una maniera più chiara e più c-^plicita che dicendo che in tutti gli oggetti grandi la grandezza  è una  e la steFsn, e questa è Tldea della grandezza, e cosi la bellezza in tutti gli rggetti belli, l'umanità in  tutti gli uomini,  HORSENESS l'anim^^lità in tutti gli animali, ecc. Negare che la dottrina di Platon^, sia realmente quello che essa suona, perchè questi dottrina, cosi intesa, ci sembra racchiudere una impossibilità logica, prima di tutto non è conforme ai criteri di una buona ermeneutica;  e poi, oltre che per assolvere Platone da una contraddizione gliesene addrssenbboro cento altre, si otterrebbe per risultato, che si fn recherò dire a Platone delle assurdità perchè chi vorrà snstenere che la dottrina delle Idee, immanenti o trascendenti, non sia un'assurdità? senz'alcun motivo né scopo, perchè il sistema delle Idee trascendenti non spiegherebbe niente, non conterrebbe alcuna  di queste vedute ardite e geniali, che scusano e fanno comprendere gli errori dei grandi pensatori metafìsici, perchè di natura da s<  durre rintelligenza con la prospettiva di una spiegazione universale e radicale delle cose, cui la scienza positiva si dichiara incapace di attingere. D'altronde Platone ha avuto cura di togliere al l'interprete trascendentalista qualsiasi pretesto per rifiutargli la  dottrina che le idee sono gli Attributi generali delle cose, ciascuno dei quali inerisce, uno e lo stesso, in  tutte le cose aventi degli attributi omonimi, fondandosi sulle difficoltà logiche contenute in questa dottrina: noi sappiamo infatti dallo stesso Platone che queste difficoltà sono precisamente quelle stesse che gli avversari obbiettavano alla teoria delle Idee. Ecco come esse vengano proposte nel Parmenide di VELIA: Parmenide: Dimmi dunque, pensi tu, come dicevi, che vi hanno certe Specie, da cui le cose, partecipandone, prendone le loro denominazioni? che p. e. le cose sono simili per la partecipazione della somiglianza, grandi, belle, giuste, per quella della grandezza, della bellezza, della giustizia? Io ne sono persuaso, disse Socrate Ora ogni cosa che partecipa della Specie, non è necessario che partecipi o di tutta la Specie o di una parte? o vi ha, oltre di questi, un altro modo di partecipazione? E come ve ne potrebbe essere un altro? Credi tu che la Specie sia tutta in ciascuno dei molti, una essendo, o altrimenti? Che cosa può impedire, o Parmenide, disse Socrate, che inerisca tutta? È che essendo una e la stessa, inibirà tutta simultaneamente  in molte cose che sono separate le une dalle altre, e cosi essa stessa sarà  separata da se stessa  Ma no, disse Socrate; come il giorno, essendo uno e lo stesso, esiste simultaneamente in molti luoghi, e non è perciò separato da se stesso; cosi niente impedisce che ciascuna Specie esista simultaneamente, una e la stessa, in tutti gli oggetti, senza separarsi da se stessa. Bei »  è il tuo, o Socrate,  di far esistere una sola e stessa cosa simultaneamente in molti oggetti! è come se comolti uomini con un velo, tu dicessi che Tuno è tutto intero nei molti. Non è vero che dici qualche cosa di simile? Forse, disse Socrate Ma il velo sarà tutto intero in ciascuno, o soltanto una parte in uno, e un'altra parte in un altro? Una  parte soltanto Le Specie dunque, o Socrate, saranno divisibili, e le  cose che partecipano di esse parteciperanno di una parte, e non  vi sarà più in ciascuna cosa tutta la Specie, ma una parte soltanto Cosi  pare. Vorresti dunque, o Socrate, che la Specie sia veramente divisa? e sarà ancora una dopo questa divisione? No, affatto Vedi in effetto: se tu dividerai la grandezza stessa, ciascuno dei molti grandi sarà grande, non per la grandezza, ma per una parte  della grandezza, necessariamente più piccola della grandezza stessa; ora ciò non ti sembra assurdo? Assolutamente. In che modo dunque, o Socrate, le altre cose parteciperanno alle  Specie, se non possono riceverle né in parte né in totalità? Questa stessa obbiezione del Parmenide di VELIA si ritrova, in riassunto, nel Filebo, dove Socrate spiega quali siano le controversie quando si    stabilisce un Uomo, un Bue, e il bello uno, e il buono uno, e altrettali unità: Prima di tuto, egli dice, si contesta se si devono ammettere questa sorta d'unità come realmente esistenti; poi si domanda come ciascuna di esse, essendo una e sempre la stessa, e non ammettendo né generazione né corruzione, possa tuttavia essere immutabilmente una e la stessa; e in seguito se negli esseri  generati e infiniti di numero deve porsi divenuta molti e frazionata, 0 tutta intera in ciascuno, separata essa stessa da se stessa, ed è questa che sembra la cosa più impossibile dol  mondo, che un solo e lo stesso essere sia allo stesso tempo in uno ed in molti. Potrebbero tali obbiezioni dirigersi alle Idee trascendenti? se il rapporto tra l'Idea e le cose non fosse che quello tra l'esemplare.   Che difficoltà potrebbe trovarsi nell'essere l'Idea una e sempre la stessa, se essa fosse fuori delle cose? ìA  .n. / » e le copie, che ditìScoltà vi sarebbe a concepire che uno stesso esemplare potesse servire di modello a molte copie? sarebbe perciò necessario di ammettere o che l'esemplare si trova tutto intero in ciascuna delle copie, o che esso si fraziona in tante parti quante sono le copie,  e che una di queste parti esiste in una delle copie, e un'altra in un'altra? Non è evidente che queste obbiezioni non possono comprendersi altrimenti che come lo sviluppo delle impossibilità logiche contenute in una dottrina, che afferma che un solo e stesso Attributo inerisce simultaneamente in una moltitudine di soggetti? Senza dubbio Platone dove pensare che queste obbiezioni non  toccavano il segno, e che la sua dottrina sfuggiva al dilemma proposto nel Fileho e nel Parmenide di VELIA: ma tutto ciò che possiamo concluderne è che queste difficoltà non sembrano a Piatone insolubili come sembrano a noi. Quale sia la soluzione egli non lo dice né nel Parmenide di VELIA né nel Fllebo: ma egli ne ha immaginato una; noi la troviamo in uno dei luoghi citati: Il   Alcuni interpreti credono che la parte dialettica del Parmenide di VELIA contiene una dottrina riposta destinata appunto a risolvere le obbiezioni del principio del dialogo: per me io non posso vedervi se non quello per cui Platon'e la dà manifestamente,  cioè un semplice esercizio dialettico di cui nel cai). 2J abbiamo mostrato la relazione con la dialettica platonica. Del resto le ipotesi  ohe trovano nella seconda parte del Parmenide di VELIA le soluzioni delle obbiezioni contenute nella i)rima, non fanno al nostro caso, perché esse sono state immaginate nella supposizione che le obbiezioni siano dirette contro le Idee trascendenti, quantunque tra queste obbiezioni una sola, quella del terz'uomo, possa essere interpretata a questo modo; ma basta che Platone dichiari  che le Idee esistono per se stesse cioè come sostanze, o che egli le distingua dai fenomeni, perchè 1'interprete trascendentalista ne concluda immediatamente che esse sono separate dalle cose. bello, il brutto, il giusto, l'ingiusto e ciascun altro  sUog è uno in se stesso, ma apparendo qua e là, nelle cose e negli altri sT5y] che ne partecipano, ciascuno pare molti. E in effetto, la quistione,  ridotta ai minimi termini, è questa: L'esperienza ei mostra il bello, il brutto, in una parola, ciascun attributo generale delle cose, non come uno, come suppone la teoria delle Idee, ma come multiplo, l'attributo che è in un soggetto essendo numericamente distinto dallo stesso attributo HORSENESS che é in un altro soggetto. Come risolvere questa contraddizione Ira l'esperienza e la  teoria delle Idee? se le Idee sono immanenti; poiché è solo in quest'ipotesi che la moltiplicità dell'attributo nella moltitudine dei soggetti esclude Tunità dell'Idea. Il concetto vago che una delle due contraddittorie, cioè il dato dell'esperienza, la moltiplicità dell'attributo, non è che un'apparenza un'apparenza, s'intende, obbiettiva àk^  non una soluzione reale della contraddizione perciò  bisognerebbe sopprimere realmente l'una delle due contraddittorie, dichiarando la moltiplicità dft 'attributo una vera apparenza, cioè un'apparenza subbietiiva, ma un sembiante di soluzione, per questa vaga assimilazione del fatto, che è in contraddizione con la teoria, ad un'illusione senza realtà, assimilazione vaga che è tutto il significato del termine apparenza, quando esso non ha il  suo significato proprio di apparenza subbiettiva o semplice illusione. Su questo concetto della dottrina platonica dovremo ritornare in uno dei numeri seguenti. L' astratto e il concreto non sono due cose differenti, ma una sola e stessa cosa a gradi differenti di  Rep I determinazione: l'astratto è il concreto,  ma  indeterminato; il concreto é l'astratto, determinato. Siccome poi r astratto è suscettibile di più determinazioni distinte e divergenti l'animale, determinandosi, diviene nomo, cavallo, ecc:;  l'uomo, quest'uomo alto o basso, dotto o ignorante, ecc:; cosi il movimento di concretizzazione o determinazione progressiva dell'Idea perchè l'Idea non è, per dir cosi inerte, ma vivente –GRICE TRANSUBSTANTIATION HUMAN BECOMES PERSON, e la sua vita, il suo sviluppo, nel sistema di Platone come in quello di Hegel o di qualsiasi altro filosofo realista, è il suo passaggio continuo da uno stato più indeterminato, pili astratto, anno stato più determinato, più concreto questo movimento è al tempo stesso una moltiplicazione progressiva, per cui ciò che è unità nel momento anteriore, nel momento posteriore diviene moltiplicità si tratta, ben inteso, di un'anteriorità e posteriorità, non cronologica, ma logica e metafìsica. Di là la formula platonica che tutto cioè tutto ciò che corrisponde a un nome generale: l'uomo, l'animale, il bene, ecc. è al tempo stesso uno e molti un Genere e molte Specie, ovvero una Specie' e molti individui o ancora uno, molti ed infiniti un Genere, molte Specie ed infiniti individui. Nel Filebo, in cui questa formula principalmente è impiegata, dopo che si è convenuto tra gl'interlocutori che vi hanno molte specie del piacere e della scienza, Socrate dice: Fermiamo ancora di più per una confessione mutua questo principio, che cau8a grandi imbarazzi a tutti gli uomini, ai volenti ed anche qualche volta ai nolenti. Io parlo del principio in cui ci siamo imbattuti, e che è di una natura ben sorprendente; è in cfiVitto una cosa strana a dire che ìiiolti sono uno e che uno è molti', ed è facile di muovere controversia a chi sostiene in ciò il prò o il contro. Filebo crede che Socrate alluda alla dif14o.fìcoltà, divulgata presso gli eristici del tempo, come ad un soggetto unico possano inerire molti attributi; ma Socrate si spiega, soggiungendo che la difficoltà di cui egli parla, nasce non quando l'uno è preso tra le cose soggette alla nascita e alla morte quando si tratta di un tale uno, si conviene  che non bisogna disputare in ciò con alcuno ma quando sì cerca di stabilire un uomo, un bue, e il bello uno, e il bene uno vale a dire quando il multiplo fenomenale si risolve nell'uno ideale; è su queste unità e le altre della stessa natura che i sentimenti sono divisi e vi ha della contestazione. Io dico che lo stesso, fatto uno e molti dalle ragioni, si trova da per tutto e sempre, per il passato  come oggi, in ciascuna delle cose di cui si parla dalle ragioni vuol dire: dalla dialettica; questa trasforma continuamente l'uno in molti, per la dieresi, e i molti in uno, per la auvaYwyì^; e Socrate intende dire che questo fatto, che la stessa cosa diviene per la dialettica ora uno e ora molti, è un fatto generale: ciò non cesserà mai, e non è ora che incomincia, ma è,  mi sembra, una proprietà,  immortale e incapace d'invecchiare, delle ragioni stesse Gli  antichi, che erano migliori di noi, e stavano più vicini agli dei, ci hanno tramandato quest'oracolo, che tutte le cose che si dicono esistere eternamente le specie constano di uno e di molti, ed hanno insite in sé la finità e l'infinità constano di uno e di molti, non è che un'altra maniera di dire che ciascuna è uno e molti; Piatone si  serve di questa espressione, perchè cerca una forma che possa convenire tanto alla sua propria dottrina quanto a quella dei Pitagorici, nella quale, cioè nell'afiìnità dei suoi concetti con quelli del platonismo, sta tutto il fondamento storico della supposizione fantastica di una dottrina, tramandata dagli antichi eotto la forma oscura di un oracolo, e il cui senso riposto era la teoria delle Idee  e la dialettica. Egli può attribuire ai Pitagorici la proposizione che tutto consta, non solo dell'uno ma anche dei molti, perché questa seconda entità fa parte di una delle loro due serie di elementi contrari. E che, tale essendo l'ordine di queste cose, noi dobbiamo sempre, nella ricerca di ciascun oggetto, stabilire un'Idea unica per tutto; e si può ritrovarla, perchè vi esiste; scoverta questa,  cercare se dopo una ve ne ha due, o, se non due, tre o qualche altro numero; e ciascun uno di questi cioè ciascuna di queste Idee esaminare ancora cosi, sinché si veda, non solo che T^no primitivo è wno e moZ/f ed infiniti, ma anche quanti è cioè quante Specie comprende l'Idea da principio stabilita; e non si deve applicare alla moltitudine l'Idea dell'infinito, prima di vederne ogni  numero che s'interpone tra l'infinito e l'uno cioè non si deve considerare la moltitudine infinita, vale a dire gl'individui, prima di considerare successivamente tutte le moltitudini determinate, vale a dire tutte le divisioni e suddivisioni 'del Genere stabilito in principio; p. e. se questo genere è l'Animale, e Platone ammettesse la classificazione dei naturalisti moderni, prima di enumerare i  Tipi, le Classi, gli Ordini, le Famiglie, i Generi, le Specie; solo allora si può lasciare ciascuno di tutti gli wm andare a disperdersi nell'infinito Ciò che ho detto è chiaro nelle lettere, e puoi vederlo nelle cose che hai appreso nell'infanzia. La voce che ci esce dalla bocca è una e al tempo stesso infinita in moltitudine, per tutti e per ciascuno. Ma per nessuna delle due cose diveniamo sapienti, né perchè conosciamo della voce l'infinito, né perchè conosciamo l'uno, ma ciascuno di noi diviene grammatico perchè conosce quanti e quali essa é cioè, come spiega, perchè nell'infinito della voce sa discernere i diversi generi e specie di suoni. È per la stessa cosa che si diviene musico: una è la voce anche per quest'arte; pure bisogna porne due, il grave e l'acuto, e terzo il  tono medio MEZZO ed è a questo modo che bisogna esaminare tutto ciò che è uno e molti. Posto questo principio generale, Socrate vuol farne l'ap.phcazione alla sapienza e al piacere: Uno diciamo essere ciascuno di essi: ora il discorso precedente ci chiede come ciascuno è uno e molti, e come ciascuno non è subito infiniti, ma V uno e 1'altra hanno un certo numero prima di divenire  infiniti. Filebo, comprendendo Tinterrogazione di Socrate, dice: Socrate sembra domandarci 86 il piacere ha o no delle specie, e quante e quali siano e cosi similmente per la sapienza. E Socrate: È come dici: in effetto, come ha mostrato il discorso precedente, di noi sarà di alcun valore in checchesia, se non è capace, di rispondere a questa domanda su tutto cho è uno e simile e  lo stesso  e il contrario vale a diro: su tutto ciò che é al tempo stesso uno e molti, e perciò anche lo stesso e diverso, simile e dissimile. Poi, il principio viene applicato ai quattro generi, in cui Socrate divide tutti gli esseri che sono nell'universo, o piuttosto a tre di questi generi, il finito, l'infinito e' il composto dei due: Socrate ricerca come ciascuno di essi è uno e molti, riunendolo come dice nel  luogo riportato in uno, dopo averlo guardato diviso in molti e disperso. La formula che lo stesso è uno e molti, non si trova solamente nel Flleho. Così, nelle Leggi l'Ateniese dice: Giacché vi hanno quattro specie di virtù, ciascuna è una, poiché sono quattro: e tuttavia abbiamo chiamato uno tutte queste; diciamo infatti la fortezza virtù, la prudenza virtù, e cosi le due altre, come se  realmente siano non molti j  ma quest'wwo solo, virtù.  E: Io t'ho spiegato come la prudenza e la fortezza sono differenti e due: tu spiegami come sono uno e lo stesso. Figurati che tu devi dirmi come, essendo quattro, sono uno; e domandami, dopo avermi insegnato che sono uno, che io t'insegni come sono quattro l'Ateniese domanda insom al suo interlocutore la defììiizione comune  della virtù). E: Ma che? non diremo noi lo stesso del bello e del buono? i nostri custodi devono sapere soltanto come l'uno e l'altro sono molti, o anche come sono uno? Nel  Menone, dopo che Menono, interrogato cosa sia la virtù ANDREIA, risponde quale sia la virtii dell'uomo ANDREIA, quale della donna, quale del fanciullo, quale del vecchio, ecc., Socrate dice che, cercando una  virtù, ha trovato presso di lui uno sciame di virtù,  e lo esorta a lasciare la virtù intera e sana, e a cessare di fare di uno molti GRICE, PHILOSOPHY IS, LIKE VIRTUE, ENTIRE. In questi luoghi il molti rappresenta le Specie rispetto al Genere: ma altrove rapprrsenla gl'individui, le cose, rispetto all'Idea. Cosi nella Rep.: Diciamo che vi hanno molti belli e molti buoni e similmente  ogni altra cosa, e li distinguiamo col discorso; e poi il bello stesso e il buono stesso, e cosi tutti quelli che ponevamo come molti, di nuovo ponendo secondo un'Idea Unica di ciascuno, come unica, chiamiamo ciascuno ciò che è; e quelli diciamo vedersi, ma non intendersi, le Idee intendersi, ma non vedersi. Ora io domando al lettore: 1®  è chiaro o no che nei luoghi citati l'uno è  identificato coi molli, e i molti con l'uno? che i molti sono riguardati, non come un'altra cosa dall'uno, ma come l'uno stesso, e l'uno non come un'altra cosa dai molti, ma come i molti stessi? che l'uno e i molti sono, non due cose completamente differenti e separate, da una parte l'uno, da un'altra parte i molti, ma una sola e stessa cosa, che si considera sotto due aspettì differenti, ora  come uno, ora come molti? 2^ è chiaro o no che quest'uno e questi molti sono l'Idea e le cose, ovvero l'Idea generica e le Idee specifiche? 3^ é chiaro che, questi due punti ammessi, ne risulta un terzo, cioè che l'Idea e le cose, l'Idea generica e le Idee specifiche, sono una sola e stessa realtà considerata sotto due aspetti differenti, e non due realtà completamente differenti e separate? Ora  se le Idee platoniche sono immanenti, se e«se sono gli universali nel senso rigoroso della parola, cioè i concetti generici e specifici, realizzati, ma nelle cose stesse; è questo appunto che deve avvenire: che l'Idea generica, quantunque distinta dalle Idee specifiche, e sussistente per se stessa, deve identificarsi nondimeno con queste Idee specifiche, cioè con la loro totalità, e l'Idea specifica,  quantunque distinta dagli individui, deve non pertanto identificarsi eon la totalità degli individui; perchè l'universale e il particolare, l'astratto e il concreto o, più generalmente, il più astratto e il più concreto non possono essere, anche nel S'stema realista, che una cosa stessa a gradi differenti di determinazione gradi differenti di determinazione che, per noi, non sono che delle vedute  m(ntali differenti Fotto cui il medesimo oggetto viene considerato MODO DI PRESENTAZIONE DEL SENSO FREGEIANO GRICE, ma che il metafisico realista, con quella confusione sistematica tra l'obbiettivo e il subbiettivo che è il carattere proprio di questa forma di metafisica, trasporta nell'oggetto stesso, e ne fa degli stati differenti, dei momenti diversi di sviluppo non  successivi, ma simultanei di un solo e stesso essere. L'identificazione dell'uno coi molti, risultante dalla inevitabile identità fra l'astratto e il concreto cioè fra il più astratto e il più concreto tiene nel sistema platonico un posto più cospicuo che ne gli altri sistemi analoghi, per Tirr.portanza suproma che la dialettica platonica dà alla relazione tra i generi e le specie; ma è evidente ohe  questa identificazione ha luogo in tutti i sistemi realisti. L'Idea dell'essere, p. e., non si identifica, per Hegel, con tutte le altre Idee, le quali non sono che TEst^ere primitivo, che riceve successivamente nuovi gradi di determinazione? e ciascuna di queste Idee, una in s. stessa, non apparisce infiniti nello spazio e nel tempo? Quest'Essere è dunque, come V Essere di Platone, uno, molti,  rd infiniti allo stesso tempo. Ma questa conseguenza inevitabile del realismo non ha luogo che quando le astrazioni obbieitivate dal realista si suppongono nelle cose stesse supposizione che d'altronde fanno tutti i realisti; il proprio dall'interpretazione trascendentalista, cioè di questa forma dell'interpretazione trascendentalista che vede nelle Idee platoniche tutt'altra cosa che i pensieri  della divinità, è di attribuire a Platone una dottrina che non trova riscontro in alcun'altra dottrina conosciuta; se le Idte platoniche non fossero che gli archetipi delle cose fuori delle cose, e le Idee generiche che gli archetipi delle Idee specifiche, egualmente separati da queste, il rapporto tra le Idee e le cose, tra le Idee generiche e le specifiche, sarebbe esclusivamente un rapporto di  differenza, e non questo rapporto ambiguo, di differenza al tempo stesso e d'identità, che i filosofi realisti sono obbligati di supporre tra l'astratto e il concreto o più propriamente tra il più astratto e il più concreto, appunto perchè i loro astratli non sono fuori dei concreti, ma i concreti stessi  GUARDATI dal punto di vista d^irastrazionc. Evidentemente, Platone trascendentalista avrebbe  calunniata la sua dottrina, facendone uscire la conseguenza ch'egli si contenta di chiamare strana, ma che è in verità inconcepibile e contraddittoria che l'uno e molti  e i molti sono uno: questo corollario del sistema platonico è cosi chiaramente connesso con l'immanenza delle Idee, che l'interprete trascendentalista potrebbe a buon dritto farne una delle più forti obbiezioni contro  Tinterpietazione delle Idee come immanenti, se Platone l'avesse dissimulato, invece di proclamarlo arditamente, come ha fatto, sventuratamente per Tinterpretadone trascendentalista. L'identità tra i molti e l'uno suppone l'assorbimento dei molti nell'uno, cioè delle cose nell'Idea, e delle Idee specifiche nelF Idea generica. Dire che tutti gli animali sono l'Animale THE ALTOGETHER SAILOR THE ONE AT A TIME SAILOR THE ALTOGETHER NICE GIRL THE ONE AT A TIME NICE GIRL, e che l'Animale è tutti gli animali, è risohere tutti gli esseri animati in un'essenza unica, l'Animale. Ora siccome tutte le Idee sono, secondo Platone, subordinate ad un'Idea suprema, la più universale di tutte, che tutte le abbraccia nella sua universalità, ed é l'eiSo^ di tutti  gli  £t$Yj, l'Idea di tutte le Idee, ne segue che tutte le Idee, e quindi tutte le cose, si risolvono in questa essenza universalissima GENUS GENERALISSIMVS, che Platone chiama il Buono, l'Essere, l'Uno, ecc. Quest'Idea è, come dice SCHELLING del suo assoluto, l'universo concentrato in un punto: il mondo delle Idee e delle cose non sono che il Buono o l'Essere allo stato esplicito,  e il Buono o l'Essere è il mondo delle Idee e delle cose allo stato implicito.IMPLICITURA È a questa dottrina della risoluzione del tutto in una Lenità suprema, che si riferisce (juesta indicazione d'Aristotile in Met: E, ciò che sembra facile, dimostrare che tutto è uno, non riescerpoiche dall'astrazione sxBeaic; non risulta che tutti sono uno, ma risulta semplicemente (jualche cosa in sé  qualche  Idea nna, se pure si concedono tutte le loro supposizioni: ma nemmeno ciò, se non si concede che ogni universale è genere; ora questo per alcuni universali è impossibile. Aristotile fa qui alla proposizione di Platone due obbiezioni: una ò la seconda che Platone non ha il dritto di htabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si predica Tessere H. P. GRICE MULTIPLICITY OF BEING IN ARISTOTLE o Timo, perchè queste cose,  quantunque loro si applichi lo stesso nome BEING, non costituiscono un genere; e Taltra la prima che, ancorché si fosse autorizzati a stabilire un'Idea unica comune per tutte le cose di cui si predica Tessere H P GRICE MULTIPLICYT OF BEING IN ARISTOTLE o l'uno cioè per tutte le cose, perchè di tutte si predica Tessere H P GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING  e T uno, ne seguirebbe semplicemente che vi  ha un'Idea delTes^sere o dell'uno, ma non che tutte le cose si risolvono in una cosa unica, l'Essere oTUno. Facendo quest'ultima obbiezione, Aristotile dimentica la dottrina del Filebo, ciò che in lui non é sorprendente, perchè tutta la sua interpretazione del platonismo di GRICE E CODE tende ad esagerare il rapporto di differenza tra le Idee e le cose e tra le Idee generiche e spccifiche a scapito di quello à' identità: ma, qualunque sia jl valore delle obbiezioni d'Aristotile STUDIATA DA GRICE SEQUENDO A OWENS, ciò che risulta incontestabilmente dal luogo citato, è che Platone tira dal sistema delle Idee la conseguenza che tutto è uno. Ora  questo monismo sarebbe inconcepibile, se le Idee fossero separate dalle cosi^  e le une dalle altre: in questo caso il mondo ideale sarebbe, non un'unità multipla, ma una moltiplicità senza unità; e s'ì  p^r un'inconseguenza si ammettesse che le Idee, pur essondo fuori dello cose, si riducono all'unità in un'Idea suprema, questa supposizione non basterebbe ancora a  rendere conto della  proposizione platonica riferitaci da Aristotile, perchè ciò che è affermato da questa proposizione è che tutto è uno^ e non semplicemente che tutte le Idee sono uno. Su qu'^sto concetto di una Unità suprema che contiene virtualmente il tutto, rimandiamo a ciò che abbiamo detto parlando della dialettica platonica. Per indicare il rapporto tra T attributo e il soggetto, noi diciamo che  l'attributo è nel soggetto, e che il soggetto HA GRICE IZZING HAZZING  l'attributo. Questi termini e i loro sinonimi sono in un certo modo dei traslati, come tutti quelÙ i esprìmenti delle concezioni astratte, 1 quali  primitivam*»nte non significano che delle idee più concrete, ma che hanno con queste concezioni astratte una certa analogia su cui è fondato il passaggio dall'uno all'altro  dei due significati. Nel nostro caso, questo significato primitivo e più concreto è, per i teruìini che indicano il rapporto dell'attributo al soggetto, la PRESENZA IZZING locale, e per quelli che indicano il rapporto del soggetto all'attributo, IL POSSESSO HAZZING GRICE IZZING HAZZING. Nel sistema realista, in cui gli attributi vengono considerati come sostanze, inesistenti nei  soggetti, ma aventi, in essi, un'esistenza propria e distinta, queht'analogia tra il significato primitivo e più concreto dei termini indicanti il rapporto tra il soggetto e l'attributo IZZING LA PRESENZA, 0  il significato nuovo e più astratto in cui vengono applicata è naturalmente più grande. Per conseguenza Platone, per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, preferisce, fra i termini che  esprimono il rapporto tra il soggetto e l'attributo, quelli che, anche usati in questo nuovo significato, suggeriscono più vivamente le idee del loro significao primitivo, vale a dire della presenza locale e del possesso. Di pin, il possesso dell'attributo essendo, nel sistema realista, comune a molti soggetti, noi possiamo attenderci a priori che, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, cioè  dei soggetti agli Attributi, verrà data la preferenza a quei termini che esprimono, non solo il possesso, ma la comunanza nel possesso. Di là, nel platonismo, i termini tecnici presenza^ esser presente  Tiapo'jo£a, uapsìvat e sinonimi, per indicare la relazione delle Ilee alle cose, e partecipare, partecipazione [xexéxeiv,  jjlsTaXajjipavetv,  xoivwverv,  ecc., e i nomi  corrispondenti  ixéGsgi^, jiexaXYj'^^ig,  xotvwvia,  ecc. per indicare la relazione delle cos^  alle Idee. Naturalmente questi termini non sono i soli che Platone impieghi per denotare il rapporto tra le Idee e le cose: degli altri, alcuni esprimono il concetto dell’immanenza d'una maniera anche più energica. L'oso di tutti questi termini parusìa, partecipazione e gli altri è cosi naturale nell'ipotesi d»*irimaianenza  dello Idee, e diviene SI IMBARAZZANTE in quella della trascendenza, che basterebbe di enuoeiarli per provare la prima delle due ipotesi: ma siccome il 80g<>etto è stato molto discusso, e le lunghe discussioni hanno per risultato di spargere del dubbi sulle cose più chiare, cosi noi siamo obbligati ad un'e8poii;izione più  minuziosa, per il comodo della quale li divideremo in due  gruppi, riunendo gli altri attoroo ai due termini tipici parusia e partecipazione. Quando Platone dice che gli oggetti sono bianchì per la presenza napouoCal, in «ssf, della bianchezza, belli per la presenza della bellezza, ecc., chi vorrà negare che Tidea che ci suggerisce immediatamente la parola presenza  sia la presenza deirattributo nel soorgetto? Noi saremmo autorizzati a cercare un  altro significato, se ciò che si dice essere PRESENTE non fosst) la bianchezza, la bellezza, ecc., in una parola se le Idee platoniche fossero altra cosa che degli attributi realizzati. So si trattasse p. e. delle divinità delle specie di alcuni popoli selvaggi – NELLA ANGILA E NELLA BRITANNIA, a cui Tylor ed altri paragonano le Idee platoniche, ch'essi intendono, alla maniera  tradizionale, come degli archetipi, noi dovremmo intendere per la parola parusia la DIMORA di uno spirito feticcio in un oggetto; p. e., una cosa è bella per la presenza dell'Idea del bello, significherebbe allora che essa è bella perchè è posseduta dallo spirito che presiede alla specie delle cose belle. Ma l'Idea del bello essendo, non uno spirilo feticcio, nò una divinità, né una forza, né  alcun altro degli agenti iperiisici  Tylop  Xa  aivilizsaz, primit,, suU» tìne. che sono stati riguardati come cause efficienti dei fenomeni, ma l'attributo bell-zzi, considerato come un'entità reale HORSENESS, è ragionevole cercare alla proposizione un altro significato che questo si ovvio, che la cosa è bella perchè ineri-^ce  in essa  l'attributo  Bellezza  V  Alcun interprete trapcendentalista  non ha mai detto, per quel che io sappia, d'una maniera preei'^a quale sia il significato della parola parusia  Fecondo questa interpretazione: ma il paragone di Tylor ci suggerisce l'unica soluzione che l'interprete trascentalista possa darà al problema problema nell'ipotesi della trascendenza della parusia platonica. Le Idee di Platone, potrebbe dirsi, sono presenti nelle cose come noi  diciamo che Do è presente nel mondo: la parola presenza, trattandosi di un  oggetto inesteso che non è nello spazio WHERE IS BUNBURY? WHERE IS DISINTERESTEDNESS?,  non potrebbe avere alcuna significaz'ono precisa; essa indica semplicemente una vaga assimilazione, che si tenta di fare, del rapporto tra due oggetti, che si suppongono tra di loro nella relazione di causa  e di effetto, di agente e di paziente, a quel rapporto locale, che solo può fflr comprendere la possibilità dell'azione di una c^sa su di un'altra, lo spirito uma o avendo sempre trovato incoucc|ibile che una cosa agisca dove essa non è. ACTION AT A DISTANCE I WILLED THAT THE CHAIR RISE I FAILED Per quanto questa interpretazione della parusia platonica sia intrinsecamente  inverisimile e in effetto l'attitudine di un modello, quale l'Idea nell'interpretazione trascendentalista, a produrre delle copie, è altrettanto inconcepibile nell'ipotesi d'un'AZIONE A CONTATTO quanto in quella d'uu'AZIONE A DISTANZA -  sicché Platone avrebbe senza alcun profitto complicato il suo sistema d'un'ipotesi tanto onerosi, che introduce nel sistema delle Idee trascendenti  qml'a stessa es'stenza simultanea dell'uno nei molti, che è la più grave difficolta del sistema delle Idee immanenti pure è tutto quello, io credo, che Tiuterprete trascendentalista  può dire per rendere cont^  deiTaso che Platone fa del t'armine parusia e degli nitri dello stesso ordino. Per conseguenza, è in questi termini che io proporrò la qu'stione deir  interpretazione della parusia platonica:   la presenza delle Idee nello cose è la presenza delPattributo nel soggetto, o e una presenza quad locale, per cui le  Idee, separate dalle cose, quantunque non siano in alcun luogo, pure si trovano in un certo modo DOVE SONO LE COSE SANZIO non ì/i loco sed ubi, come dicevano gli scolastici deiranìma, d'una maniera che. del resto, è impossibile di dire con pm precisione? Tra le  due interpretaziooì il lettore potrà giudicare dagli esempi segu*^Jìti. Ipp.  Mago.: Il bello stesso, di cui tutti gli altri belli le co«?e belle sono orwrt/i  xooiisrxaO,  e appaiono belli, tutte le volte che è /^msew^c TcpoorivyjTai quella specie  Le erse belle potrebbero essere ornaf^ di un bello, che non è una loro PROPRIETA HAZZED?  lutante questo bello di cui si cerca la definizione è  certamente l'Idea del bello. Ih. : Il conveniente per cui si è proposto dì definire il bello, diremo che è ciò che, essendo presente Tiapavsvóiievov, fa  par»  r  bello ciascuno degli  oogetti a cui è  presente  uap^, o ciò che lo  la  essere bello? Se il conveniente fa parere le cose più belle di quel che sono, il conveniente è una sorta d' inganno intorno al bello, ò non è ciò che noi cerchiamo. Poiché noi cerchiamo ciò per cui tutte le cose belle sono belle – and pigs pigs and rightly so-called Crome Yellow --,  come è per recce5?so che tutte le erse grandi sono grandi: per esso infatti tutte sono grandi, e, quand'anche non sembrino tali, purché eccedano, è necessario che siano grandi Ippia dice Ma il conconveniente, o Socrate, fa le cose ed essere e parer belle, quando è presente  irapóv; a cui Socrate: É dunque impossibile che le cose realmente belle non sembrino belle, essendo presente Tcapóvxo; ciò che le fa parere tali  (2> Parmen VELIA: 4  Se o TUno avesse  piccolezza e le «Itre cose  grandezza, o ITJno  grandezza e le altre cose piccolezza, quella delle due specie a cui fosse presente TrpooeCrj la grandezza non sarebbe maggiore, quella a cui la piccolezza,  minore? Necessariamente Sodo dunque queste due spi eie, la grandezza e la piccolezza? se infatti non fossero, non sarebbero contrarie fra di loro, e non inerirebbeio èxy^x'^oia^y negri! esseri. Il seguito mostra più chiaramente ancora che la grandezza e la piccolezza di cui si tratta sono delle Idee, delle  astrazioni realizzate. Filebo e. e  La  qj'Jatg del bene in ciò d  fferisce dalle altre,  che chiunque dei viventi a cui è presente jiapeCr) sempre, in tutto ed assolutamente, non ha più bisogno di niente altro, ed ha tutto ciò che gli Qaesto conveniente è pure un'entità trascendente? ma chiamandolo un inganno, Socrate suppone evidentemente oh'esso entra nella sfera delle nostre percezioni HORSENESS. Quest'eccesso è anch'esso un'entità trascendente? dovrebbe esserlo  se il bello lo è, poiché Socrate dice che le cosa grandi sono grandi per l'eccesso, come le cosa belle sono belle per i\ bello. Intanto qui è evidente ohe la proposizione: le cose grandi sono grand[ per l'eccesso, signiftoa  puramente e semplicemente ch'esse sonotaU perchè eccedono. Ippia, cha non sa niante dalla  teoria dalle Idee, può intendere altro per la presenta del conveniente che la presenza di un attributo nel soggetto? anche Socrate quindi deve intendere la stessa cosa, se tra i due interlocutori non vi ha un  equivoco  EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis]. \0 -^  basta  perfettamente  Rep.: Socr. : La séte in quanto è sete, non è Tappetito, neiranima, di qaal che cosa di più che ciò che noi diciamo cioè la bevanda non è,  p. e., l'appetito di una  bevanda calda o fredda molta 0 poca, in una parola di qualche bevanda determinata; ma se alla sete si aggiunge npoQ% il calore apporterà di più Tappetìto del freddo, se si aggiunge il freddo, del caldo; e se per la presenza 7:apoiio(av del molto la sete è molta, apporf^rà l'appetito del molto, se « poca, del poco; ma la sete stessa non é l'appetito di altro che di ciò di cui lo è per sua natura,  vale a dire della bevanda stessa; e cosi la fame del cibo. Cosi è, disse Glaucone; ciascun appetito in se stesso é V appetito solamente dell'oggetto per se stesso a cui rsso si riferisce per sna natura; Tesserlo di un tal oggetto o tal altro oggetto determinato sono delle cose che si aggiungono. Carmide: E, chiaro che se in te è presente Tzdpto-zi la temperanza, tu hai di che formarti un'opinione  intorno ad essa. È necessario infatti che inerendo IvoDaav essa apporterà, s'è vero che imrisce iveottv, qualche sentimento di so stossa, da cui ti verrà un'o Il bene, di cui si tratta nel Fileho è incontestabilmente una Idea, un concetto realizzato, come si vede,  p. e.,  a in cui è chiamato il primo bene denominazione per cui si designa l'Idea Arist. fra gli altri, Kth, Knd., e gli è assegnata una  natura eterna ciò che è il carattere distintivo delle Idee. Si negherà che la <^ùotg del bene, di cui si parla, sia la stessa cosa che il primo bene, di cui si parla? Ma perchè? Il primo bene, l'Idea, non può essere che ciò che corrisponde al concetto, cioè appunto la ^ùai^ del bene. Questo molto di cui vi ha la parasia nella sete è dunque una nuova circostanza, come il caldo e il freddo, non  compresa nel concetto di sete, e che si aggiunge alla sete considerata secondo il concetto, cioè in astratto, come una differenza. I plnione su ciò che sia e quale sia la temperanza. Non lo credi? Lo credo E avendone un'opinione, poiché sai parlare greco, potrai  dire ciò che essa ti sembra. Forse Dicci dunque che cosa sia, secondo la tua opinione, la temperanza, affinchè possiamo  congetturarne se essa inerisce svsoxiv in te o no. Questa temperanza èToggetto a cui si riferisce la definizione, per conseguenza ridea della temperanza. Lisis Alcune cose dico essere tali quale è ciò che è ad esse presente xò Tiapóv, alcune altre no. Cosi se un oggetto si tinge  d*un certo colore,  prc*c/i/e (Tiixpeoxt,  mi sembra, a ciò che si  è tinto ciò con cui si è tinto. È presente Ma  ciò che si è tinto è allora dello stesso colore di cui è ciò che  glMnerisce xò  éiióv? Non comprendo Cokì forse comprenderai. Se i tuoi  capelli, che sono biondi, si tingessero con la biacca, sarebbero bianchi, o piuttosto lo sembrerebbero? Lo sembrerebbero Eppure sarebbe presente TiapeCrj in essi la bianch(^zza SI Con tutto ciò non sarebbero più bianchi di prima, presente  Tiapoùor^g  la bianchezza non sarebbero né bianchi ne neri. È vero Ma quando, o amico, la vecchiaia apporterà questo stesso colore, allora saranno tali quale è ciò che sarà presente xò Tiapóv, bianchi per la presenza izol^omoìol del bianco. E come no  V Ora questo io ti domando: ciò a cui é presente iiap^ qualche cosa, è sempre tale quale è la cosa che e presente xò Tiapóv? ovvero lo è, se questa  cosa è presente iiap^ in un certo modo, se no, no? Cosi piuttosto, disse Qui Platone distingue la parusia in due specie, di cui Tuna, la più intima, è evidentemente V inerenza dell'attributo nel soggetto. Ora è questa sola specie di parusia che rende ciò a cui una cosa è presente tale quale è questa cosa: cosi è questa la specie di parusia che compete air Idea, perche la parusia dell'Idea rende  le cose tali quale è l'Idea. NaturalmeOte T  interprete trascendentalista dirà al suo solito che in alcuni dei luoghi  precedenti o forse anche in tutti Platone non parla delle Idee. Ma perchè, se è un principio platonico che il concetto generale si riferisce all'Idea? A questo perchè egli non potrebbe dare che una sola risposta: che nei casi in cui evidentemente si tratta d'una realtà immanente, noi non possiamo ammettere che Platone parli delle Idee, perchè un'Idea platonica non pnò essere che un'entità trascendente. Ma non è questo un mettersi al di fuori di ogni discussione, e sostituire alle prove il proprio capriccio? Sì può sfidare V interprete trascendentalista a separare nettamente i casi in cui Platone parla delle Idee e quelli in cui no -tutte le volte, s'intende, in cui si tratta  d'un concetto generale; a dirci, limitandoci alla quistione presente, per esempio, come noi possiamo distinguere i casi, in cui la parusia significa l'inerenza deirattributo nel soggetto, da quelli, in cui significa non si sa qual rapporto misterioso tra un'entità trascendente e un oggetto della natura. L' impossibilità di fare questa distinzione dovrebbe renderlo accorto che il significato di questo  teimine non può in un caso differire sostanzialmente da quello che chiaramente ha in un altro. Gli esempi seguenti come anche in parte alcuno del precedenti, segnatamente il penultimo si riferiscono, non ai termini TiapoooCa, Tiapstvat ed equivalenti, ma ad altri analoghi, che esprimono l'inerenza delle Idee nelle cose d'una maniera anche più ch'ara. Cratilo subito dopo aver detto che,  se si rompe la spola, il fabbro guarderà, per farne un'altra, non alla spola rotta, ma all'sISog, a ciò che è spola: Quando si tratta di fabbricare delle spole per delle stoffe fine o grossolane dì  filo o di lana o di qualsiasi altro genere, non è necessario che tutte abbiano S/s'-v V stéos della spola?,, EìUHf.: Che cosa dici essere il santo e l empio neiromicidio e in ogni altra azione? non è lo  stesso il santo in tutte le azioni? e 1'empio, il contrario del santo? non è lo stesso e simile e avente Ix^v un Idea unica, secondo l'empietà, tutto ciò che è empio? Menane: Le virtù, quantunque molte e diverse, ìianno Ix^'^ai tutte un certo sISo^ lo stesso per cui sono virtù, al quale bisogna guardare per rispondere alla domanda: che cosa è la virtù?(lì. Filebo: Non potendo prendere il bene  m un Idea unica, prendiamolo in tre Idee, la beltà, la proporzione e la verità qui tutti gl'interpreti convengono che si tratta del bene Idea. Compariamo ciascuna di queste tre col piacere e l'intelligenza, e vediamo se Tuno o l altra ha più affìoità con esse-Parlì della beltà, della verità e della scienza? Si. Dopo la verià, considera la misura, se il piacere {^possegga xéxxr.Tai più della s  ipienza o la sapienza più del piacere Anche questa quistione è facile a risolvere  Io penso che non vi ha niente di più smisurato che il piacere e la gioia, uè di più misurato che l'intelligenza e la scienza Ottimamente. Rispondimi anCora sulla terza cosa: l'intelligenza partecipa della be à più che il piacere, in modo che l'intelligenza sia più bella del piacere, o al contrario? Il piacere non e  dun Gai vi ha la paratia dell'Idea generica nalle Idee speoifi-,a 1^  p"ova che questa é una partecipazione nel senso teenico, cioè quella delle cose alle Idee. qne né il primo né il secondo bene: ma il primo bene é circa la misura e il misurato e l'opportuno e quaut'altre cose tali devono credersi aver sortito una natura eterna. Non è chiaro che questa misura e questa beltà che VinteìUgenzA possiede o a cui partecipa più del piacere, sono delle Idee?. Fedone: Allora nella prima prova dell'Jmmortalità si dice che dalla cosa contrai ia viene la contraria, ora si dice invece che il contrario stesso non può mai divenire contrario a se stesso, né quello in noi p. e. la mia 0 la vostra piccolezza, la mia o la vostra grandezza né quello nella natura la piccolezza e la grandezza in generale,  cioè le Idee del piccolo e del grande. Allora, o amico, si parla delle cose che hanno èxóvxwv i contrari e che chiamiamo cel nome di questi, ora di questi stessi, dei quali vierenti èvóvxwv le cose prendono il nome con cui le chiamiamo: è di questi stessi che dicianio che l'uno non può mai divenire Taltro,: 'Vi ha qualche cosa che ch'ami Caldo e qualche cosa che chiami Freddo? OTtaraente È forse un caldo quale il fuoco e un freddo quale la neve? No, per dio! Ma un Caldo che é altra cosa che il fuoco e un Freddo che è altra cosa che la neve? Si (3J Ora tu ammetterai, io credo, che giammai la neve, ricevuto aegaiiévYjv il Caldo, resterà quale era prima, ma, venuto carta, nota Cosi tanto il contrario in noi quanto quello nella natura sono inerenti nelle cose, e il contrario  nella natura non può inerire in essa che nel senso stesso in cui t'inerisce il contrario m noi, cioè come un attributo nel soggetto. Distingue il Caldo e il Freddo Idee, che sono propriamente gli oggetti a cui si riferiscono questi nomi, dalle cose fredde e caldo, dai partecipanti. 7:pootóvxotì ad essa il Caldo, è necessario che si sottragga o che perisca Senza dubbio E similmente il fuoco,  venuto ad esso il Freddo, deve o sottrarsi o perire, ma giammai potrà, ricevuto il Freddo, restare ciò che era prima  È ve o Tale è dunque la natura di  ceit^ cose come queste, che non solo VelòoQ stesso deve essere chiamato sempre dello stesso nome, ma anche qualche altra cosa, che non è quello, ma ha sempre, sinché è, la forma di quello. Ciò che io dico sarà forse più chiaro con  questo esempio: r Impari rsISog stesso non è necessario che jibbia sempre lo stesso nome? È necessario Ora io ti domando: è la sola cosa che abbia sempre questo nome, o vi ha anche qualche altra cosa, che senza essere ciò che è l'Impari, tuttavia deve sempre chiamarci, non solo col suo proprio nome, ma anche con quello d'impari, perchè tale è la sua natura che non può mai essere  abbandonata à7:oXs(u£oeat dall'Impari? Se la parus'a deirimpari non fosse quella deir attributo nel soggetto, il non CFsere mai abbandonata dairimpari sarebbe una ragione per chiamare sempre una cosa col nome deirimpari? Per esempio, la triade non deve sempre chiamarsi e col suo proprio nome e cen quello dell'Impari, quantunque questo non sia la stessa eosa che la triade? ma tale  é tuttavia la natura e della trìrde e della pentade e della metà di tutti i numeri i che ciascuno, quantunque non s-a  ciòche è rimpari, è nondimeno sempre impariti. Ecco dnnqm c<ò che io voglio dimostrare: che non solo ì contrari non si ricevono où 56xó[ieva fra di loro, ma ancora tutte quelle erse che, senza e.«^sere reciprocamt^nte contrarie, Queste ultime parole spiegano ciò che vuol  dire flou ^aaere mai abbandonata daìV Impari. hanno Ixst GRICE IZZING HAZZING sempre i contrari, non ricevono mai quella Idea che è contrarla a quella che è in esse év aOior^ oìjo^y, ma venendo sTitoóor^c questa, o periscono o si sottraggono. I tre, per esempio, noa diremo noi che periranno 0 accadrà loro checchesia, avanti di divenire pari, mentre sono tre? L'esempio spiega che una cosa ricevere ridea contraria a quella che è in essa, significa: questa cosa acquistare V attributo contrario a quello che ha. Non solo dunque le Specie contrarie non soffrono Vaccesso reciproco oùx ùnoixéyti éTcìóvi'àXXyjXa, ma anche certe altre cose sia Sp-cie sia cose particolari non sofsoffrono Vacc^esso dei contrari ciré delle Specie contrarie Queste cose sono quelle, le quali forzano ciò che occupano xaTàax^2 ad avere ta/eiv GRICE IZZING HAZZING, non solo la propria Idìn, ma anche quella di qualche contrario. Come dici?- Corae dicevamo poco fa: sai infatti che ciò che occupa Tldea del trp, è necessario, non solo che sia tre, ma anche dispari L^esempio, al solito, prova che la parusia dell'Idea non è che il possesso dell'attributo - Certamonte Ora iodico che in una tal cosa neiridea del tre non entrerà IX9oi mai l'Idea contraria alla forma che è la causa di ciò Giammai Questa forma è la dispari Si La contraria ad essa è quella del pari Si Nel Tre dunque non entrerà ifjgeO mai l'Idea del pari Giammai CoM il Tre é privo àtaoipa del Pari Privo Dunque è impari Si Vediamo dunque come possiamo determinare quali siano quollo cose, che, quantunque non siano contrarie a una certa cosa pure non ricevono 5éXsxaO mai questa; come la Triade, cho, pur non essendo contraria al Pari, non riceve mai il Pari, perchè sempre apporta éTitcpépet il contrario di questo; e la Diaie il contrario dell'Impari, e il fuoco quello del Freddo, e cosi via via. Vedi se possiamo determinarle cosi: non soIvO il contrario non può ricevere il contrario, ma ancora quello chQ apporta qualche contrario alle cose in cui va Trj non può ricevere il contrario di quello che apporta Io ricomincerò a farti delle domande, e tu rispondimi, non quello stesso che io ti domando, ma un'altra c^sa, seguendo lo esempio che io ti darò: io voglio dire che oltre quella risposta sicura che abbiamo stabilito in principio cioè che le e se belle sono belle per il Bello, le cose grandi grandi perla Grandezza, ecc.: ì, ne vedo uuh altra che nasce dalle cose che abbiamo detto ora. Per esempio, se tu mi domandassi cosa è che trovandosi in uno oggetto (j) àv zi è'^yé'^rizoLi questo diviene c^ldo, io non ti darei quella risposta sicura ed ignorante che è il Caldo, ma un'altra più dotta, che segue da quello che abbiamo detto ora, cioè che è il fuoco. Similmente se mi domandassi cosa è che trovandosi nel corpo, questo diviene malato, non ti risponderei che è la Malattia, ma che è la febbre; e se mi domandassi cosa è che trovandosi nel numero, questo è impari, non ti rispond^^rei che è l'Impari, ma che è l'unità; e cosi per le altre cose. Intendi Ciò che l'Idea apporto alle cose in cui ra, è evidentemente un attribnto di queste cose; ma è anche un'Idea, perchè i contrari in tutto questo ragionamento sono considerati come delle Idee; per conseguenza noi dobbiamo intendere questo apportare sTCìcpépStv nel senso più letterale, o meglio più etimologico, possibile, cioè come se l'Idea porta nelle cose in cui ra il suo proprio attributo quella delle Idee contrarie a cui ossa partecipa della stessa maniera ohe noi, entrando in un luogo, vi portiamo con noi ciò che teniamo addosso. Questo senso realista della parola è perfettamente conformo al carattere delle altre espressioni di cui Platone si serve in tutto questo luogo, e prova l'identità numerica dell'attributo nell'Idea che apporta il contrario e nelle cose in cui lo apporta, Questo caldo, questa malattia, questo impari sono le Idee; se no, rispondere che un oggetto è caldo per il caldo, ecc. non sarebbe quella risposta ignorante e sicura stabilita nel principio, perchè questa consiste a spiegare l'essere e il divenire delle cose ciò che voglio dire? Perfettamente Rispondimi dunque: cosa è che trovandosi sYyévYjxat e. «. in un corpo, questo è vivente? L'anima È sempre cosi? Sempre. L'an'ma apporta dunque sempre in ciò che occupa xaxàaxTQ, la V^lta? Senza dubbio Vi ha un contrario della Vita, o non ve ne ha? Vi Iia Qual è? La Morte Dunque Tanima non riceverà mai il contrario di ciò che essa apporta sempre, secondo il principio d| cui sopra siamo convenuti Senza dubbio Ma come abbiamo chiamato poco fa ciò che non può ricevere Tldea del pari? Impari E ciò che non può ricevere la Morte, come lo chiameremo? Immortale MaTanimanon può ricevere la Morte No L'anima è duncjue immortale? Immortale. Bisogna ora fare alcune osservaz'oni su tutto il contesto. La prima è che non potrebbe esservi alcun dubbio che i nomi cho io ho scritti con la maiuscola o che sono preceduti dalla parola Idea, non designino realmente delle Idee, delle astrazioni realizzate. Ciò non è solamente provato dairevidente realismo delle espressioni indicanti la parusia: andare, venire, entrare, occupare, ecc. come potrebbero questi termini applicarsi a delle semplici astrazioni, se queste astrazioni non fossero considerate come delle realtà? e dagli altri indizi su cui ho richiamato ratteuzionc in alcune delle note o ohe il lettore ha per la parasia e partecipazione delle Idee. Aggiungiamo ohe questa Malattia, quest'Impari, questo Caldo devono trovarsi nelle cose nello stesso senso in cui ri si trovano la febbre, l'unitji e il fuoco giusta la dottrina fìsica qui ammessa da Platone, secondo la quale il calore sarebbe l'effetto della presenza interiore del fuoco, vale a dire presenti non d'una presenza esteriore, ma interiore, come quella di una parte nel tutto. potuto notare da se stesso; ma è dichiarato esplicitamente dallo stef-so Platone. E in effetto egli fa precedere questa prova deirimmortalità, che ritiene la più rigorosa, da una esposizione della teoria delle Idee, perchè per ottenere una tal prova è necessario, egli dice, di esiminare a fondo la causa della generazione e della corruzione, o questa causa è la presenza o partecipazione delle Ideo e la loro sottraziono; e Socrate dico a Cvìbete che, se questi gli accorda Te sistenza dt*lle Idee, egli gli dimostrerà che Tanima è immortale. Qual è il legame tra questa dimostrazione deirimmortalità dell'anima e la teoria delle Idee? È cho questa teoria appresta la base, per dir cosi, induttiva al principio che è il cardine deirargomento, cioè che una cosa che conferisce sempre un certo attributo alle cose che essa occupa, non può mai avere l'attributo contrario. Platone fa vedere prima che questo principio si verifica nel rapporto tra le Idee e le cose, che il Tre, p. e., che rende sempre impari tutto ciò che occupa, non può mai essere pari; è ne conclude per analogia che il principio deve pure verificarsi nel rapporto tra Tanima e il corpo, per conseguenza che Tanima, la quale rende sempre vivente tutto ciò che occupa, non può mai morire. Co>i tutta la forza delTargomcnto sta nell'analogia tra la parusia dell'Idea nelle cose e quella dell'anima nel!'ess»^re vivente secondo la dottrina auimista: se l'astratto non fosse nel concreto come raninia è nell'essere animato, vale a dire come una realrà avente un'esistenza propria e distinta; se il Tre, p. e., fosse un semplice attributo delle cose che si dicono tre, e non un attributo elevato al grado di realtà sostanziale; 1'aoa^ogia non esisterebbe, e mancherebbe all'argomento ogni forza probante. L'argomento suppone dunque la dottrina delle Idee la re«»lizzazione delle astrazioni, e al t'^inpo stesso che le Idee siano presenti nelle cose, come Tanima è presente neU'eesere animato. Qualche dubbio potrebbe forse sorgere relativamente alle Idee dei contrarli: caldo, freddo, pari, impali, ecc. Siccome Platone ha distinto un po'sopra il contrario in noi e il contrario nella natura Tinterprete trascendentalista potrebbe obbiettare che nel nostro contesto il caldo, il freddo, il pari, V impari, ecc. corrippondono forse al contrario in noi, e non al contrario nella natura, e che non è necessario che siano il caldo, il freddo, il pari, lo impari, ecc. Idee. Ma quest'obbiezione non varrebbe niente, perchè per il contrario in noi Platone intende Tattributo considerato, non nel suo concetto generale, ma come PROPRIETA di una cosa particolare, fenomenalmente^ quantunque non realmente^distinta dalle proprietà omonime delle altre cose particolari; e Tattributo considerato cosi, cioè individualizzato, fenomenalizzato, Platone non lo considera come avente una realtà propria e distinta; questa non compete che all'attributo considerato secondo il concetto generale, airidea Ora nel nostro luogo il caldo, il freddo, il pari, l'impari ecc., designano incontestabilmente ciò che corrisponde al concetto generale, e delle entità reali: quindi non può trattarsi che del Caldo e del Freddo, del Pari e dell'Impari, ecc. nella natura, vale a dire delle Idee. In secondo luogo si deve osservare che tale è l'energia dei termini designanti la parusia delle Idee venire andare, entrare, occupare, essere in, ecc. da parte delle Idee, e da parte delle cose o delle Idee inferiori avere, ricevere, ecc.), © la comparazione con la presenza dell'anima neiressere vivente è tal V. n. Vili. mento indispensabile all'argomento di Platone, che so per questa parusia non si deve intendere la presenza dell'attributo nel soggetto, non ci resta che di ammettere che Platone paragona la presenza delle Idee nelle cose a quella dell'anima, non nell'essere animato, ma nel corpo, o, prendendo quest'analogia nel senso più stretto, che le Idee sono presenti nelle cose d'una presenza locale, come i*anima nel corpo, e che esse sono la causa della generazione e della corruzione entrando nelle cose ed uscendone, precisamente come la teoria animista suppone che l'anima è la causa della vita e della morte entrando nel corpo ed uscendone la presenza di Dio nel mondo a cui abbiamo paragonato la parusia delle Idee secondo l'interpretazione trascendentalista, è una comparazione troppo inadequata alla energia delle espressioni di cui si serve Platone e al parallelo con la presenza dall'anima nel corpo Io credo che non vi sia alcun interprete che voglia dare questo significato alla parusia platonica, prestando a Platone un concetto, che oltre a dotare le Idee dilla prodigiosa facoltà, attribuita a certi santi del cattol'cismo e di altre religioni, di trovarsi al tempo stesso in molti luoghi, sarebbe in contraddizione con le affermazioni dell'autore, il quale diirhiara che le Idee non sono in alcun luogo naturalmente noi non possiamo dare alcuna importanza alla frivola distinzione degli scolastici non in loco, sed uhi, perchè queste parole significano semplicemente che l'anima è in luogo e non lo è; ma pe ve ne fosse qualcuno, bisognerebbe fargli riflettere che quest'in'^onspguenza di dare una posizione nello spazio a ciò che è immateriale GRICE STRAWSON BUNBURY DISINTERESTEDNESS, se si comprende Tim. L«3 Idee non sono in alcun luogo, quantunque le cose, di cui sono gli attributi, sono in un luogo, perclic Tessere iu un luogo non compete che a ciò che è esteso. quando Tessere immateriale di cui si tratta è uno spirilo, sarebbe inammissibile trattandosi di entità come le Idee platoniche. Ciò è perchè questo quid, questo substratum sconosciuto, che si chiama sostanza nello spìrit>, noi non lo concepiamo che sul tipo di ciò che si chiama sostanza nel corpo, vale a dire di questa cosa che persiste nello topazio, della materia; e tutto ciò che ci suggerisce di rappresentabile la parola sostanza nel senso della parola in cui si dice che Tanima è una sostanza Cl), no a e che la sostanza materia, ciò che riempie lo spaz'o; nou è dunque strano che, anche dopo che la concezione, affatto materialista, dciraniraismo primitivo è stata sostituiti da concezioni più raffinate, si cont'nui ad attribuire allo sp'rito, considerato come una sostanza, delle determinazioni che non competono se non alla materia. Ma Platone nou potrebbe rappresentarsi le Idee come aventi una posizione nello spazio, psrchò egli non immagina in esse niente di analogo a questo substratum, concepito sul tipo della materia, che lo spiritualista immagina nello spirito; poiché Tldea platonica non è che il contenuto del concetto realizzato, l'attributo considerato, nella sua astrazione, come avente un'et^istenza propria e distinta, e niente altro di più. SI osservi, in terzo luogo, ch^, se la paru ia dell'Idea non è l'inerenza dell'attributo nel soggetto, il ragionanamento di Platone non può avere alcuna pretesa a quell'evidenza dimostrativa eh l'autore si propone. L'^proposizioni che Platone stabilisce come evidenti per se stese non sono tali che nell'ipotesi dell'immanenza delle Idee. Per esempio, egli stabilisce il principio che le cose che hanno sempre l'uno di due attributi contrari non poFSono aPa parte prima. mai ricevere l'Idea contraria a quella che é in e'^se: che p. e. il fuoco, essendo e8<?enzialmente caldo, non può ricevere l'Idea del freddo GRICE STRAWSON THE UNDERDOGMA, il Tre, essendo dispari, quella del Pari, ecc.: nell'ipotesi dell' /mrwanen^a, nient'^ di più evidente di questo principio, perchè esso non è che l'enunciato, in termini realisti^ del pi nei pio di contraddizione. Ma sel'Ideaè trascendente, quale inconseguenza io parlo d'un'inconseguenza assoluta, d'un'impossibilità logica vi sarebbe a supporre che in una cosa possa esservi la parusia dell'Idea corrispondente all'attributo contrario a qu'llo pof^seduto ^'a qu'^sta cosa? e perchè la paiusiadi un'Idea sarebbe incompatibile con quella simultanea dell'Idea contraria, se queste Idee fossero separate 1'una dall'altra e tutte e due dalle cose a cui si dicono essere presenti? Similmente, quando Socrate dice: E necestrario che le cose che occupa l'Idra del tre siano, non solo tre, ma anche impari,,, si potrebbe rispondergli: Ma perchè? Perchè le cose a cui è presente l'Idea del tre se questa presenza deve intendersi nel senso trascendentalista non sarebbero invece quattro e pari? In effetto, neir ipotesi della trascendenza, non vi sarebbe alcuna connessione necessaria, visibile a priori, tra la parus'a dell'Idea e l'inerenza dell'atribuo corrispondente a quest'Idea. E della stessa maniera che, in quest'ipotesi, si perderebbe 1'ev'denza delle proposizioni che servono di premesse al ragionamento, si perderebbe egualmente quella della crnnessicne tra una preposizione ed un'altra, perchè questa connessione è il più delle volte fondata sulla sostituibilità reciproca tra la inerenza dell'attributo e la parusia dell'Idea corrispondente. Dalla propos'zione che in un numero non vi può essere la parusia del Pari non si potrebbe concludere co7i necessità che questo numero è dispari; dalla proposizione che nell'anima non vi può essere la parusia della Morte non si potrebbe concludere con necessità che l'anima è immortale, perchè non vi sarebbe alcuna contraddizione a supporre simultaneamente in una cosa la parusia dell'Idea e Tinerenza dell'attributo di nome coiit'*ario. Ma per vedere la giustezza della nostra osservazione, basterà di restringersi alla proposizione m cui s'incardina tutto il ragionamento di Platone e che noi abbiamo chiamato la brse induttiva di questo ragionamento, cioè che un'Idea non può avere l'attributo contrario a quello che essa conferisce alle cose con la sua parusia. E indubitabile che Platone riguarda questa proposizione come evidente per se stessa, e non avente b'so^no per essere ammessa che di essere enunciata e ccmpre?a si rilegga la pai te del luopio citato in cui questa proposizione viene stal'ilita; e tale è in effetto nell'ipotesi delFimmanen/a delle Idee: ma nell'ipotesi della trascendenza, in cui la coinciHpiìza tra la parusia dell'Idea in una cosa e la partecipazione, di questa cosa all'attributo omonimo e quindi a ciascuno degli attributi più astratti ì acchiusi in quest'attributi è, non è vnx connessione necessaiia ed a iriori, ma un mistero inesplicabile, la proposizione diviene una pura aflermazioue dommatica. Senza dubbio, purché si ammetta il principe che la paru'-ia df^ll'Idea ó la causa per cui le coso possiedono l'attributo dello stesso nome, il ragionamento di Platone corre, anche neiripot<»si della trascendenza: ma s'ccome questo principio è, in questa ipotesi, non un assioma, ma un postulato nel senso aristotelico della parola postulato GORDON LAKOFF CONVERSATIONAL POSTULATES -- e questo postulato ò Fottinteso a ciascun paFso del ragionamento, questo perde ogni chiarezza, e non può più aspirare ad essere una dimostrazione, come Platone evidentemente pretende. i li n Se le Idee sono gli attributi generali delle cose nelle cose stesse, ma considerati come entità reali, di cui ciascuna è una e la stessa in tutte le cose di cui l'attributo viene predicato, l'impiego della parola partecipazione jiéOsgis e sinonimi, per indicare il rapporto delle cose alle Idee, uon è meno naturale che quello della parola presenza e sinonimi per indicare il rapporto delie Idee alle cose. Partecipare ad una cosa lett<^ralmente significa averne una PARTE, o avere il tutto, ma in comune con altri; e ciò, quando questa cosa è un Attributo, qual è l'Idea anche secondo l'interpretazione trascendentalista, non può voler dire altro se non che essere uno dei soggetti ai quali quest'Attributo è comune. Di più questo significato adempie all'altra condizione, a cui deve conformarsi il significato di questo termine, che è di assej^nare, nel tempo stesso che indica il rapporto tra le cose e le Idee, la ragione per cui le cose sono ciò che sono: in effetto, la causa per cui una cosa è buona, è bella, è grande, ecc., è, secondo Platone, perchè essa partecipa all'Idea del buono, del bello, del grande, ecc. La partecipazione delle Idee e la stessa osservazione vale anche per la parusia è una causa che spiega, nel senso metafisico della parola spiegazione, perchè le cose hanno i loro attributi; tra la causa la partecipazione o paraci AggiungiMio che, secondo grinterpreti trascendentalisti, questo postulato non ha per Platone, almeno nel Fedone, che il valore di una semplice ipotesi. In efletto il luogo del Fedone in cui Platone suppone la parusia delle Idee come causa alle cose dei loro attributi, sembra riguardare la parusia e 'a par'ecipazione come due ipotesi distinte, di cui si può ammettere luna o l'altra, per ispiegare rassimilazione delle cose alle Idee. Noi vedremo più giù che il vero senso del luogo non è quesio, |>erchc la parusia e la partecipazione non sono due cose diverse, ma due espressioni che signifn:ano una sola e stessa cosa; ma l'inerprete trascendentalista d«'ve necessariamente intenderlo cosi, perchè, per dare di questi due termini un'interpretazione conlorrae all'ipotesi della trascendenza, egli <• obbligato ad attribuire ad essi due significati diil'erenti. Bl sia deiridea e l'efFetto la possessione dell'attributo corrispondente essendovi un legame necessario e visibilo a priori^ e senza questa condizione la ragione che si assegna di un fatto non potendo essere, per un metafisico, una spiegazione di questo fatto. Ma non solo questo significato del termine par^ecipazione cioè la possessione di un Attributo che si ha in comune con altri soggetti è quello che è il più naturale, ma è anche il solo che da alla parola un senso reale, vale a dire che le faccia esprimere un concettj determinato. Neir ipotesi della trascendenza delle Idee, non vi lia tra le cose e le Idee altro rapporto immaginabile che la somiglianza: dicendo che le cose partecipano alle Idee, Platone vuol dire, fecondo Tinterpretazione trascendentalista, che le Idre, separate dalle cose, comunicano a queste degli attributi simili ad osse; che le cose divengono somiglianti alle Idee, per un'influenza delle Idee sulle cose. Ma quale è il modo di questa comunicazione? in che consiste questa influenza? Il come dellVffìcienza delle Idee trascendenti è inconcepibile; noi non possiamo formarci alcun'idea di quest'azione per cui esse ren È evidente che, qnainìo Platone dice che una cosa partecipa al bello, al buono ecc., nel significato di queste propo:^izioni è contenuta ratiei inazione che la cosa è IZZING HAZZING bella, è buona ecc.. Ma non e meno evidente che le stesse proposizioni assegnano al tempo stesso la c^usa per cui la cosa è bella, è buona, ecc.: se no come potrebbe egli dire che la cosa <^ bella per la partecipazione del bello, buona per la partecipazione del buono, ecc. Il termine partecipazione significa -aX tempo stesso un fatto la possessessione di un certo attributo, e la causa di questo fatto. Ciò è perchè qui il fatto e la sua causa non sono due fatti distinti e separati; la causa del fatto vale a dire la partecipazione o parusia dell'Idea non e che il fatto stesso la possessione GRICE IZZING HAZZING dell'attributo corrispondente interpretato secondo una teoria particolare, tradotto, dalla lingua comune, nella lingua della dottrina reclista. 'ij*j t derebbero le cose simili a se stesse. Platone, con la parola partecipazione, intende indicare nn rapporto tra le erse e le Idee, che contenga una ragione dell'essere delle cose e dei loro attributi. Ma supposta la ^ra,sce^^n^en2a delle Idee, non può tra le cose e le Idee immaginarsi a^cun rapporto che spieghi perchè le cose sono ed hanno i loro attributi; tanto meno quindi potrebbe immaginarsene qualcuno che aggiungesse a questa condizione quel'a di poter essere denominato con la parola partecipazione: ne segue che, mila supposizione della trascendenza, non vi ha alcun concetto determinato che possa corrii-pondere a questa parola. Ciò è tanto vero che gì' int^ rpreti trascendentalisti sono obbligati a convenirne: Platone, dicono quest'interpreti, non ha determinato la vera natura del rapporto tra le Idee e le cose, egli non ha detto che cosa è la metessì, la parusia, ecc.; e in prova della loro tesi citano certi luoghi d'Aristotile, che io devo mettere sotto gli occhi del lettore, per fissar bene lo stato della quistione sull'interpretazione della metessi platonica. Ecco dunque questi luoghi. Mei.: I Pitagorici dicono che gli esseri sono per 1"imitazione dei numeri; Platone, mutando il nome, per la partecipazione delle Specie; ma che cosa sia questa imitazione o questa partecipazione, vattel'a pesca àcpsìaav sv xoivw ^Yjxsrv: Volendo dire la sostanza delle cose sensibili, poniamo noi platonici altre sostanze; ma come queste siano sostanze di quelle, lo diciamo vanamente dia xsv^g, polche 'a partecipazione, come abbiamo già detto, è nien0) Chiappelli. V intcrpretaz. panteist, di P/alone, ecc. te : t Ì)ire che le Specie sono degli esemplari e che le altre cose ne partecipano, è pronunziare delle parole vuote di senso xsvoXoystv PIROT e fare delle metafore poetiche YOU’RE THE CREAM IN MY COFFEE. Sui due primi di questi luoghi dobbiamo osservare che la critica che essi contengono non ha necessariamente il senso che le danno gì'interpreti trascendentalisti, vale a dire che Platone non attacca alla parola partecipazione alcun concetto preciso. Forse gl'interpreti trascendentalisti hanno ragione d'intenderla così e di ammettere ch'essa suppone nel concetto d'Aristotile la trascendenza delle Idee: ma questa critica Aristotile GRICE CODE IZZING HAZZING ARISTOTELIANISM PLATONISM avrebbe potuto farla, anche supponendo l'immanenza delle Idee; in questo caso essa vorrebbe dire, non che la parola partecipazione non significa alcun concetto determinato, ma che la partecipazione. la cosa corrispondente al concetto significato da questa parola è un che d'inintelligibile cloche ò perfettamente vero, perchè non si comprende, e Platone non ha fatto niente per fare comprendere, come una sostanza può inerire in altre sostanze quale attributo, come l'uno può esistere simultaneamente nei molti, e tutte le altre impossibilità della dottrina delle Idee, Che il senso della critica sia (juesto o sia piuttosto quello che vogliono grinterpreti trascendentalisti, è ciò che io non oserei affermare; perchè, come vedremo a suo luogo, le testimonianze d'Aiistotile sulla Notiamo che V indicazione contenuta in questo luogo, cioè clie per la partecipazione i | latonici intendevano spiegare come le Idee fossero le sostanze delle cose, è una prova che il signiti^'ato della parola partecipazione è quello che noi diciamo: se infatti la paitecipazione non sigiiilicasse r inerenza del partecipato nel partecipante, come Platone avrebbe potuto pretendere di spiegare per la partecipazione come le Idee, cioè i partecipati, fossero la sostanza delle cose, cioè dei partecipanti t quistione dell'immanenza o trascendenza delle Idee solió incerte e discord*; e per conseguenza, per alcune delle sue critiche, è difficile decidere se esse sono fatte nella supposiz'one dell'immanenza o In quella della trascendenza 0 abbracciano Puna e l'altra supposizione com'è probabilmente il caso per quella di cui parliamo In quanto all'ultimo dei luoghi citati, il rimprovero ch'esso contiene è diretto senza dubbio alle Idee t'ascendenti; perchè Aristotile suppone che il rapporto tra le Idee e le cose non sia che quello tra il modello e le copie vedi tutto il contesto MeL ; e ci dice nettamente che, con o senza la confessione degl'interpreti trascendentalisti, sarebbero, nella loro interpretazione, la partecipazione e tutti gli altri termini indicanti il rapporto tra le Idee e le cose: delle metafore poetiche e delle parole vuote di senso. Forse il lettore dirà ch'egli non comprende quale sia la d Gerenza tra una parola vuota di senso PIROT e una cosa inintelligibile; e che, se è vero, come io lo confosso, che la partecipazione, nel senso che io attribuisco a questo termine, è un che d'inintelligibile e racchiude delle impossibilità logiche, non si vede qual vantaggio abbia l'interpretazione che io ammetto, tu quella degl' ioter Ai luoghi citati d'Aristotile possiamo aggiungerne un altro che é in Afei,, in cui dice che i platonici sono incerti nel determinare che cosa sia la partecipazione e quale sia la sua causa. Ma dobbiamo noi realmente ammettere nei platonici quest'incertezza che loro attribuisce Aristotile? o dobbiamo supporre piuttosto che Aristotile, esitante sul significato della dottrina platonica, attribuisce alla dottrina stessa queir incertezza che è nel suo proprio si)irito^ Ciò é tanto più verisimile che questa dottrina, oltre di riunire degli elementi fra di loro incompatibili, è vestita talvolta, come nel Timeo, di certe rappresentazioni che, se l'ossero prese alla lettera, sarebbero in contraddizione ooi concetti filosofici di cui esse non sono che un'espressione simbolica. preti irascendentalisH^ che confessano che a questo termine non cosrisponde alcun concetto determinato. Non è qui il luogo di determinare d'una maniera rigorosa la differenza tra una parola vuota di senso cioè a cui non corrisponde alcun concetto determinato PIROT e nna cosa inintelligibile: ma, airiogrosso, possiamo dire che vi ha questa differenza che, mentre delle parole vuote di senso non indicano alcnn* id^a, almeno alcunMdea precisa, delle parole che significano una cosa inintelligibile, indicano delle idee determinate, precise, ma queste idee sono tra di loro incompatibili, non possono fondersi in una rappresentazione unica. Per mo, e per tutti quelli che ammettono 1 princìpii della filosofia d^ir esperienza, ogni ipolesi metafisica o, più generalmente, metaempirlca ridea di Hegel o la Sostanza di Spinoza o V Assoluto della metafisica ordinaria, ecc., della stessa maniera che lo spazio pseudosferico o a n dimensioni degli odierni metagcometri ò una cosa inintelligibile, in questo senso deUa parola inintelligibile; e il perchè è facile a dirti: è che rappresentarsi per noi equivale ad immogivare, e noi non possiamo immaginale se non ciò che può essere roggetto dei nostri sensi o della nostra coscienza, 0 che ha con gli oggetti dei nostri sensi o del»a nostra coscienza una somiglianza definita. Per tutte le idee che 1 metaempirìci pretendono di farci concepire, essi no prendono gli elementi nel mondo delP esperienza, cioè dei sensi e della coscienza; ciascuno di questi elementi è un predicato generale che conviene a una classe di oggetti sperimentabili o almeno immaginabili; ma non vi ha alcun oggetto, né sperimentabile né immaginabile, a cui tutti questi predicati generali, presi insieme, possano convenire. Macon tutto ciò nessuno pretenderà seriamente che Spinoza, Hegel e tutti 1 metafìsici e i metaempirìci in generale non sanno quello che si dicano: ora quando io dico che la partecipazione è una cosa inintelligibile, io affermo semplicemente che Platone, come tutti i metafisici e metaempirìci, ha detto delle cose che non possiamo immaginare, ma quando Tinterprete trascendentalista afferma, sulla testimonianza o pretesa testimonianza d'Aristotile, che la partecipazione è una parola a cui non corrisponde alcun concetto determinato, che Platone non ha detto che cosa sia la partecipazione, la parus'a, ecc., ciò che questo significa, in lingua povera, è appunto che Platone, il divino Platone come lo chiamano quest'interpetri, non sa quello che si dica. Premesso ciò, diamo degli esempi deir uso che Platone fa del termine nif tessi e sinonimi: da essi il lettnre potrà vedere che il senso di questi termini è chiarissimo- quantunque implichi delle impossibilità logiche e che noi non siamo ridotti alla necessitàdi ammettere che essi sono delle parole vuote di senso come vooliono gli interpreti trascendentalisti. Naturalmente il solo impiego di questi termini che ci interessa, e a cui si limiteranno i nostri esempi, è quando la cosa a cui sì partecipa è un astratto, e la cosa che partecipa riceve, per questa p^irtecìpazionc, il predicato corrispondente a quest^ astrato. Neir immensa maggioranza dei casi di quelli, s'intende, in cui l'uso dei termini è questo che ho d tto T immanenza del partecipato nel partecipante è evidente; ma, il p. ispesso, non lo è altrettanto che il part:^c:pato sia unldea, cioè che esso sia considerato da Platone come un'entità sussistente per se stessa quantunque ciò possa presumersi, in viriù del principio platonico che Toggetto del concetto i generale è lìdea. Ma anche allora il luo^o non é senza importanza come prova del significato della metcssi: perciò alcuni dei nostri esempi saranno presi da questa numerosa classe di luoghi, in cui il senso immanente è incontestabile, ma si può dubitare che Platone consideri come un'Idea l'astratto a cui si partecipa; e comincelemo da essi: Leggi per provare che gli dei hanno cura degli aifari umani. Gli affari umani non partecipano |isTéxei della cfóoig animata, e di tutti gli animali non è Tuomo che venera massimamente gli Dei? Certamente Ora tutti gli animali mortali appartengono agli Dei, a cui appartiene tutto l'universo spiegando la distinzione tra la fortezza e la prudenza l'una la fortezza si riferisce al timore, e ne partecipano fisxéxst anche le bestie e i costumi dei piccoli fanciulli; infatti per natura e senza ragione l'animo diviene forte; al contrario senza ragione l'animo non fu né è né diverrà mai prudente e dotato d'intelligenza, ciò essen lo un'altra cosa. In qualche caso vi haano anzi delle circostanze che sembrano esludere che Platone pensi a realizzare l'astratto a cui egli dice che una cosa partecipa, P. e. nel Polìtico, dove dice che la natura corporea partecipava di molto disordine prima di essere ridotta ali ordine presente; o nel Filebo, dove parla della specie di lettere che partecipano, non della voce, ma di qualche suono in questi esempi, le parole molto e gualche, particoiarizzando il concetto, indicano che il disordine e il suono a cui si partecipa, non devono essere prtsi nella loro ge»ieralità, e non possono, per conseguenza, essere delle Ideoj Nel Parmen. lZZ v b, in cui, distinguendosi gli attributi fenomeni dalle Idee, si dice che le cose partecipano ai pruni ma non alle seconde, la parola partecipare nsxéYS-v ha un significato dill'erente dal! ordinario e affatto speiiale a questo luogo isolato. Tim, per provare che l'intelligenza e l'opinione vera sono due generi differenti l'una nasce in noi per l'istruzione, l'altra per la persuasione; Tuna è sempre accompagnata dalla vera ragiono, l'a'tra è senza ragione; runa non può esser mutata per alcuna persuasione, l'altra è soggetta a questo mutamento; dell'opinione vera partecipa iisiexci ogni uomo, dell'intelligenza gli dei e solo un piccolo numero degli uomini. Sof, Noi abbiamo stablta come sufficiente, questa definizione dell'essere, cioè quando in qualche cosa è presente Tiap^ la potenza di patire o di agire rapporto a qualche altra cosa, anche la minima. Si. Ma a ciò rispondono gli amici delle Ideo che il divenire è partecipe Ysvéoei jiéisaxi della potenza di agire e di patire, ma questa potenza non conviene all'essere Ed hanno ragione? A ciò noi diremo che li preghiamo di dichiararci più nettamente se consentono che l'anima conosce e l'essere è conosciuto. Essi lo confessano Ma che? il conoscere o tesser conosciuto chiamate voi aziono o passione o l'una e l'altra cosa? o l'uno passione e l'altro azione? o dite che né l'uno né l'altro partecipano jisxaXajipàvsiv ad alcuna di queste due cose? liep: Se troveremo quelle sia la giustizia, esigeremo forse che l'uomo giusto non debba niente differire da c^sa, ma essera assolutamente quale ò la giustizia? o basterà se si approssima ad essa e ne partecipa [lexéxK/ più di ogni altro? liep.: Non abbiamo detto sopra che fc qualche cosa ci apparisse tale che fosse e non fosse al tempo stesso, questa sarebbe media tra il puro essere e il non essere assoluto, e non le spetterebbe né la scienza DÒ Tignoranza, ma ciò che apparirebbe medio tra la scienza e r ignoranza? Si Ora media tra di queste ci apparve ciò che chiamiamo opinione. Si. Quello che ci resta dunque a trovare è ciò che partecipa {isxéxov dell'uno e dell'altro, cioè dell'essere e del non essere, e che non può rettamente chiamarsi ne essere puro né puro non essere, affine di chiamarlo a buon dritto, se noi lo troveremo, op'nabile, attribuendo il med'o al medio e gli estremi agli estremi In seguito mostra che questo medio tra 1'essere e il non e>ssere sono le cose sensibili, perchè di esse può dirsi al tempo stesso che sono e che non sono. Rep.: per provare ehe i piaceri dello spirito sono più veri che quelli del corpo. Qual riempimento è più vero, quello che si fa per le cose che sono più cioè, come spiega in seguito, che hanno più essere, o quello che si fa per le cose che sono meno cioè che hanno meno essere? Senza dubbio quello che si fa per le cose che sono più. Ora quali generi credi che partecipino iisTéxs'.v più al puro essere, quelli del cibo e della bevanda e di tutto ciò di CUI il corpo si nutrisce, o l'elSog dell'opinieoe vera, della scienza, dell'intelligenza e in una parola di tutte le virtù? É corì che devi giudicarne: ciò che è congiunto al sempre simile e immortale e alla verità, e tal è esso stesso, e in un tale nasce, ti sembra essere più, che ciò che è congiunto al mortale e non mai simile, e tale è esso stesso, e in tale nasce? Di gran lunga è superiore ciò ihe è congiunto al sempre simile E l'tssen/a dei sempre simile partecipa liexéxsi più all'essere che alla scienza? No O che alla verità? Nemmeno Se partecipasse meno alla verità, non parteciperebbe meno all'essere? Necessariamente In generale dunque i grneri che spettano alla cura del corpo partecipano iiexéx^O alla verità e all'essere meno di quelli che spettano alla cura dell'anima? Molto meno E il corpo stesso meno dell'anima? Si Dunque ciò che si riempie di cose che p ù sono ed esso stesso più è, si riempie più realmente che ciò che si riempie di cose che sono meno e meno è f sso stesso? E come no? Leggi: per mostrare che, chiamando turpi le pene inflitte ai delitti, ci mettiamo in contraddizione con la massima che ciò che è giusto è bello se tutte le cose che si attengono alla giustizia sono belle, nel numero di tutte sono anche le passioni che subiamo, le qui» li sono pressoché uguali alle azioni che facciamo E che perciò? Ogni azione che è giusta, quanto partecipa xotvoDv^ del giusto, altrettanto è partecide fisxéxov L'essenza del sempre simile partecipa alla scienza, perchè l'esser sempre simi'e è un attributo della scienza. In quest) caso la metessi ha dunque un senso diirerente dall'ordinario. Ordinariamente è l'individuo che si dice partecipare della specie, e la specie del genere: ma in questo caso ò il genere che si dice partecipare della si>ecie, il conctiiio dì sempre simile essendo più esteso che quello di scienza^e comprendendolo nella sua estensione. Tuttavia quest'altro senso della partecipazione potrebbe ricondursi al senso ordinario, in quapto il genere, se non partecipa ne^ senso ordinario della parola alla specie nella sua totalità, vi partecipa in parte, cioò in alcuni degl'individui che esso comprende. Si noti che se il genere fosse separato dagl'individui, come sarebbe nell'interpretazione trascendentalista del sistema delle Idee, e non immanente in essi, e identico in certo modo con essi perchè l'uno è i molti e i molti sono l'uno; Platone non potrebbe attribuire ad esso uu rapporto di partecipazione che in senso rigoroso non conviene che ai suoi individui. del bello- E come no?-Dunque anche ogni passione che partecipa xoivtov? del giusto, so converremo che, quanto è partecipe del giusto, altrettanto è bella, il nostro discorso non sarà discordante È vero Ma se affermeremo che vi sia alcuna passiono giusta ma turpe, il giusto e il bello discorderanno, perchè le cose giuste si diranno turpissime. Nessuno negherà, io credo, che nei lunghi citati e in un'infinità d'altri in cui la parola partecipare cioè le parole che noi traduciamu cosi viene impiegata d'una maniera simile, la cosa a cui si partecipa sia un attributo della cosa che ne partecipa, e partecipare non significhi altro che possedere l'attributo. Ciò è, sia perchè, come nei primi cinque esempi, vi hanno delle rag-oni che mostrano che la cosa a cui si partecipa è una PROPRIETA degli oggetti deiresperienza, e non un'entità trascendente; sia perchè, come negli ultimi tre, se la partecipazione s' intendesse nel senso dell'interpretazione trascendentalista, verrebbe inopportunamente interrotta la connessione ddle idee, la quale richiede semplicemente che alla cosa che è detta partecipare, venga attribuito un certo PREDICATO; sia per altri motivi. Certamente l'interpr,te trascendentalista dirà, in questi casi, che la cosa a cui si partecipa non è un'Idea; e noi confessiamo che non si potrebbe, il più delle volte, né affermare recisamente, né negare, ehe l'autore pensasse ai elevare lo astratto di cui parla al rango di entità reale, benché egli avrebbe dovuto farlo per essere strettamente coerente alle proposizioni cardinali della sua dottrina. Ma questo dubbio non annulla il valore dei luoghi di cui si tratta come prove del senso immanente della metessi platonica: in effetti, se nella più parte dei casi partecipare a un astratto significa per Platone possederlo come un proprio ATTRIBUTO, non si vede perchè gli si debba dare iun altro significato in altri casi affatto simili, e solo differenti dai primi per la circostanza che Platone fa un'applicazione esplicita del suo principio che un astratto è un'entità reale; tanto più che è impossibile di tracciare una linea di separazione tra i casi in cui Platone pensa a realizzare le astrazioni di cui egli parla, e quelli in cui non vi pensa. Nei luoghi seguenti le cose a cui si partecipa sono incontestabilmente delle Idee. Parm. VELIA per confutare la supposizione che le Idee, sono dei pensieri: Ma che? non è necesrario, poiché dici che le altre cose partecipano fisxéxs'.v alle Idee, di ammettere o che ogni cosa costa di pensieri sx voYjjidxov slvai e tutto pon-^a, o che le cose non pensano, mentre sono pensieri? Le Idee sono dunque elementi costitutivi delle cose che ne partecipano. Quando si dice compendiosamente: l'uno è; ciò non significa lo stesso che l'uno partecipa all'essereV. Potrebbe Platone affermare d'una maniera più esplicita che partecipare a un'Idea non significa altra L'uno e l'essere nel Parmenide di VELIA jono seuz 'alcun dubbio delle Idee. Infatti Tesercizio dialettico sull'uno Tarmenide di VELIA lo dà come un esempio del metodo di cuj ejjli prima ha parlato in generale, il quale, a differenza della dialettica di Zenone, che volgeva sul sensibile, dove avere per o^i^etto le Idee. In quanto all'essere, Platone lo tratta evidentemente, non come una semplice astrazione, ma come un'entità reale; e in generale questa realizzazione sembra aver luogo per tutti gli attributi, a cui l'uno e le altre cose sono detti partecipare p. e. sulla grandezza e la piccolezza. Alcuni dei luoghi citati si rifeiiscono. non alla partecipazione delle cose alle Idee, ma a quella delle Idee ad altre Idee: ma ciò non può impedirci di presentarli come prove della immanenza delle Idee nelle cose, perchè è chiaro che la metessi non può avere che lo stesso significato, sia che si tratti di quella d'una cosa ad una Idea, sia che si tratti di quella d'un'ldea ad un'altra Idea. /i > cosa che la possessione dell' attributo? La stessa affermazione si trova: Essere ò altra cosa che la partecipazione fiéBcgis dell'essere col tempo presente? Ed era e sarà sono altra cosa che la partecipazione xo;v(!)v{a dell'essere col tempo passato e col futuro? Se T uno è . è necessario che anche il numero sia Senza dubbio Ma, se il numero è, vi saranno più cose e una moltitudine infinita di esseri :o il numero infinito in moltitudine non è anche partecipe lisxéxwv dell'essere? Come nel luo^o prccpden!e, partecipare all'essere è riguardato come l'equivalente di avere l'attributo essere. E se tutto il numero parlccìpa fisiéxei dell'essere, ciascuna delle sue parti non ne parteciperà jjLSxéxoO pure? Si L' essere è dunque distribuito vevéfiY]Tai per tutti i molti esseri, e non è assente àTiooxaxet da alcuna delle cose che sono, s'a la più grande, sia la più piccola. 0 è assurdo di fare una simile domanda? in effetti, come l'essere potrebbe essere assente àuooTaTotir) da una cosa che è? In nessun modo L'essere ò dunque diviso, per quanto è possibile, in parti grandissime e piccolissime, e di ogni sorta di maniere; esso è ciò che vi ha di più frazionato, e le sue parti snuo infinite Questo luogo, come tanti altri dei seguenti e quello del Parmenide VELIA stesso a e che abbiamo già citato, mostrano chiaramente che la partecipazione d'una cosa a un'I iea non significa altro che la parusia dell'Idea nella cosa. Una cosa partecipare al Bello, non vuol dire, come ammettono gì*interpreti trascendentalisti, che l'Ideadel bello comunica alla cosa uà nttributo simile a se stessa, ma vuol dire semplicemente che la cosa ricove iéxsxat, ha in sé 1x^0 GRICE HAZZING IZZING I^* bello. È esattamente lo stesso rapporto che si chiama parusia, quando si prende come soggetto di esso la Idea o piuttosto, In generale, il partecipato, e partecipazione, Farm. VELIA: o Diciamo che le altre coso dall'uno ne quando si prende come soggetto la cosa o, in generale, il partecipante. Dopo ciò che abbiamo detto sulla parusia, è inutile d'insistere ancora su questo fatto evidente, che la presenza o inesistenza dell'Essere, del Bello, del Grande ecc. o dell'Essanza, della Beltà, della Grandezza, ecc., perchè le Idee sono pura designate da Platone coi nomi astratti negli esseri, nelle cose belle, nelle cose grandi, 030. non può sigaiticara altra cosa che la presenza o inesistenza dell'attributo nel soggetto. Tuttavia l'uso che Platone fa del termine che noi traduciamo per la parola partecipazione, ci fornisce un'altra prova che non dobbiamo negligere. La partecipazione, abbiamo detto, non significa altro che la parusia nella cosa o Idea che si dice partecipare, dell'Idea a cai si dice partecipare. Ma d'altra parte, è incontestabile che la partecipazione significa la possessione GRICE HAZZING IZZING dell'attributo corrìspondontc all'Idea a cui si partcipa. È ciò che si può vedere, non solo da questo luogo e dai due precedenti, ma da tutti i luoghi che abbiamo citati sulla partecipazione; perchè, quand'anche in alcuno di questi luoghi per Ut cosa partecipata si volesse intendere un'Idea té'ffureìi dente, ciò che sarebbe assolutamente impossibile di negare è che, quando Platone dice, p. e., che le cose sensibibili partecipano dell'essere e del non essere Rep., che le azioni partecipano del bello altrettanto che del giusto {Le(i.., ciò che egli vuole esprimere è che le cose Sdnsibili sono al tempo stesso e non sono, che le azioni sono altrettanto belle quanto giuste, ecc. Ma un'espro{^-;ione il cui significato è la parusia dell'Idea, non potrebbe significare la possessione dell'attributo, se la parusia dell'Idea e la possessione dell'attributo non fossero la stessa cosa. Per infirmare questa conclusione si dirà forse che non è necessario cha la parusia dell'Idea fosse por Platone l'equivalente della possessione dell'attributo, ma basta che per lui il secondo «lei due fatti, pur es-jando distiate dal primo, fosse legato al primo come l'effetto alla causa, perchè un'esprosdone, che direttamente significava l'uuD dai due fatti la parusia dell'Idea quand'anche questa s'intendesse nel senso trascendentalista, cioè come una semplice presenza locale o quasi locala suggerisse pure l'altro fatto che ne era la conseguenza la possessione dell'attributo E ciò è vero: ma la possessione dell'attribato non è semplicemente un'associazione dell'idea direttamente espressa dalle parole partecipare alVen' sere^ al non essere, al bello, al (jiitsto, ecc.; ma è, come si può ve- sono l'uno né partecipano [isxéxsO all'uno, so pure sono derlo dai laoghi citali, l'idea stessa che queste parole esprimono direttamente, il loro suinificatOj ciò che è ben altra cosa che una semplice suggestiono. Che una parte almeno ed è quanto basta all'argomento procedente del significato delle parole che noi traduciamo per partecipare e partecipazione, sia la possessione dell'attributo omonimo all'Idea a cui si partecipa, è talmente evidente ohe è anche ammesso dagl'interpreti trascendenralisti: perciò possiamo dispensarci di provare più abbondantemente questo punto con luoghi scolli a questo scopo; basteranno quelli che ci è accaduto e ci accadrà di citare, quantunque con un altro scopo, cioè di provare immediatamente il senso immanente della metessi. La differenza tra noi e gl'interpreti trascendentalisti è che per questi la possessione dello attributo omonimo all'Idea partecipata è foIo una parlo del significato della partecipuzione l'altra parte essendo che quest'attributo è comunicato, non si sa come, dall'Idea; per noi invece è tutto il significato. Ciò non vuol dire che esser bello, buono, ecc. e partecipare al Bello, al Buono, ecc., sono delle proposizioni perfettamente identiche: se cosi fosse, Platone non potrebbe dire, senza avvolgersi in una vana tautologia, che la causa a una cosa di essere bella ò la sua pariecipaztune al Bello, né, com'egli spesso fa, inferire, dalla partecipazions di una cosa all'Idea, che questa cosa possiede l'attributo corrispondente, e viceversa, dalla possessione dell'attributo, che la cosa che lo possiede partecipa all'Idea corrispondente. Platone può farlo senza rimprovero di frivolezza, perchè, quantunque lo due proposizioni: esser bello o buono, ecc., e: partecipare al Bello o al Buono, ecc., indicano lo stesso fatto, questo fatto però è considerato a due punti di vista differenti PLATONISMO ARISTOTELISMO SANZIO: una proposizione lo considera al jìunto di vista comune, che non implica alcuna teoria particolare, e l'altra al punto di vista del rrolismoy che considera gli attributi, non come semplici attributi, ma come attributi-sostanze. Prendiamo qui l'occasione di ripetere sulla partecipaziene due osservazioni che abbiamo già fatto sulla parusia. Quando Platone dice che una cosa è bella, è buona, eco. per la sua partecipazione al Bello, al Buono, ecc., è altrentanto naturale d'intendere ch'essa lo è perchè possiede l'attributo Bontà, Beltà, ecc. considerate come entità reali, che quando egli dico che la cosa è bolla por la parusia altre da esso Certamente Dunque nelle altre nòti inedel Bello, buona per la parusia del Buono, ecc. Ciò è perchè, come abbiamo tante volte notato, se le Idee non fossero gli attributi delle cose, non vi sarebbe per le parole metessi e i)arusia alcun senso possibile che facesse comprendere come Platone possa dare la metessi o parusia delle Idee come la ragione degli attributi delle cose: è soltanto quando per le Idee s'intendono gli attributi delle cose sostantificati che vi ha tra la metessi o parusia dell'Idea e l'inerenza nella cosa dell'attributo corrispondente questo legame necessario ed evidente per se stesso che deve esservi tra la ragione ohe si adduce per ispiegare un fatto e questo fatto. È per lo stesso motivo che noi dobbiamo vedere una prova dell'immanenza delle Idee nei luoghi numerosi di cui ci asteniamo di dare degli esempi, perchè sa questo soggetto basta ciò chs è stalo detto p-irlando della parusia nei quali Platone conclude immediatamente dalla partecipazions all'Idea alla possessione GRICE HAZZING IZZING dell'attributo omonimo, e viceversa dalla possessione GRICE IZZING HAZZING di un attributo alla partecipazione all'Idea omonima; come una prova simile abbiamo già vista nei luoghi in cui Platone procede della stessa maniera riguardo alle parusia SUBSTANTIATION. IMatone non potrebbe passare immediatamente dalla premessa alla conseguenza, considerando quest'inferenza come una cosa che va da so, se non fosse d' un'evidenza immediata che la molossi o parusia dell'Llea importa, nelle cose, la possassione dell'attributo omonimo, e questa data la ipotesi dell'esistenza delle Idee la metessi o parusia dell'Idea omonima: ma questa evidenza non esiste che dando alla metessi e alla parusia un senso immanente. Bisogna convenire, è vero, che, quando si tratta della partecipazione, anche l'interprete trascendentalista può rendere conto di quest'inferenza immediata, nel caso almeno in cui la premessa è la partecipazione all'Idea e la conseguenza la possessione dell attributo: ma ciò avviene perchè egli non ammette, contro l'evidenza dei testi, che ciò che la metessi di una cosa a un'Idea significa, è la parusia dell'Idea nella cosa. Per gl'ini erprexi trascendentalisti, come per noi, la metessi all'Idea include nel suo significato la possessione GRICE HAZZING IZZING dell'attributo omonimo: ma questa inclusione, nell'ipotesi della trascendenza, è inammissibile, se si fa, com'è necessario, della metessi l'equivalente perfetto della parusia. Una sola è l'interpretazione trascendentalista possibile, che permettano i testi evidenti che provano che i termini ohe noi traduciamo per partecipare jjiexéxsiv, jisxaXafxpocvsiv, ecc. 4lì^. risce evsoxiv il nomerò, non merendo fiYj évóvxo^ in esse l'uno. Come potrebbe inerirvi? Le altre cose dunque non sono né uno né due né designate per il nome di alcun altro numero. L'inerenza delTuno e del numero nelle altre cose é co^i l'inerenza delT attributo nel soggetto. Diciamo ciò che accadrà alle altre cose, se Tuno è? Beiamolo Poiché sono altre dall'uno^ esse 1 on sono Tuuo, poiché in questo caso non snrebbero altre dall'uno È giusto -Tuttavia le altre cose non sono prive axépexaO affatto dell'uno, ma ne partecipano [isxéxs^^ in qualche modo Perchè? Perché le altre co-^e dall'uno sono altre da esso, perché hanno delle parti; se non avessero pai ti, sarebbero assolutamente uno È giusto Ma lo parti non sono parti che di ciò che é un tutto. Se dunque le altre cose sono per Platone i fiinonimi di avjre (sx*-^)» fic37are {tix^O^Oi'.^ e altri simili, con cui egli designa quallo stesso rapporto tra le cose e la Ilea ch'egli indica coi termini esser presente (napstv ai), inegistere (èvsrvai), ecc., qaanio concilerà come soggetto di questo rapporto, non le cose, ma le Idee: e di ammettere che la metessi, come la parusia, significa che le Idee «lono nalle cose press' a poco come ROBERTI TORRICELLI dice eh 3 la forza è GRICE IZZING HAZZING nella materia, cioè come in un vaso. Ma è vero però che se l'interprete trascendentalista accettasse questo senso della metessi, egli si metterebbe in contraddizione coi testi non meno evidenti che provano che il senso di questo termine deve includere la possessione GRICE IZZING HAZZING dell'attributo omonimo all'Idea a cui la cosa è detta partecipare. Cosi la partecipazione di una coia all'uno è equivalente all'inerenza dell'uno in questa cosa. Quest'antitesi tra esser privo e partecipare indica che la partecipaziono iill'uno signitica la parasia dall'u io, Nelle paro'.o che mancano mostra che la parte non si dice 1 .1 hanno delle partì, partecipano iiexéxsO anche al tutto e all'uno. Le altre cose dall'uno partecipano jisTaXajipotvsi all'uno, quando non sono né l'uno né partecipi fjtexéxovxa dell'uno Dunque quando sono moltitudini, in cui non enemce svi l'uno. La partecipazione all'uno equivale cosi air l'inerenza deiruno: Diciamo da capo, seTunoé, ciò che é necessario che accada alle altre cose dall'uno Diciamolo L' uno noi é separato x^)pi^ dalle altre cose, e le altre cos3 separati cx^P^s dall'uno? Inoltre diciamo che il vero uno non ha parti. Conivi potrebbe averne? Dunque né l'uno intero sarà nelle altre cose eir) èv zoi(; dcXXois nò delle parti di cssr, se l'uno è separato xwpC^ dalle altre erse, e non ha parti Cosi è Le altre cose non parteciperanno disxéxot) dunque in niun modo dell'uno, non partecipando [xexéxovxa né dell'uno intero né dì alcuna parte di esso In niun modo, a quanto pare Le altre cose dunque non saranno in niun modo uno, né avranno in sé alcun che di uno. parte dei molti che costituiscano un tutto, ma di un certo uno, che è ciò che si chiama tutto; e dopo ciò concludo immediatamente con la proposizione seguente. Questa conclusione ci prova che partecipare al tutto e all'uno significa essere un tutto e un uno, perchè il ragionamento da cui essa è tirata non stabilisce altro se nonché ciò che ha delle parti 9ome le altre cose, di cui si ò convenuto che ne hanno deve essere un tutto e un uno. Le oltre cose partecipare alVuno è equivalente a: Viino essere nelle altre cose^ ed è in antitesi con: l'uno essere separalo dalle altre cose. Potrebbe provarsi più chiaramente che la partecipazione a un'Idea non significa altro cha la parusia o inerenza di quest'Idea? Conseguenza immediata dalla non partecipazione all'Idea alla non possessione dell'attributo corrispondente. la nota a carta No certamente Né per conseguenza saranno molte: se fossero molte, ciascuna di esse, quale parte del tutto, sarebbe una; ma al presente le altre cose dall'uno non sonò né una né molte né parti né tutto, poiché non partecipano fisTsxeO in alcun modo dell' uno É giusto Le altre cose non sono dunque né due né tre, né vi ha in esse alcun che di tale, se sono prive axépsxai affatto dell'uno Così é Dunque né sono esse stesse simili o dissimili, né vi ha in esse alcuna somiglianza o dissomiglianza. In effetto se fossero simili e dissimih*, o vi foss»^ in esse qualche somiglianza e disomiglianza, le altre cose dair uno avrebbero in sé sxot av év éoLuzolg due specie contrarie fra di loro Co>i pare Ma é impossibile che partecipi [isxéxs'-v a duo ciò che non può partecipare fxsiéxoO a nessuno È impossibile Le altre cose non sono dunque né simili né d ssìmìli né simili e dissimili al tempo hte-^so: poiché se fossero simili e dissimili, parteciperebbero iiszéxoi ad una una delle due specie; se fossero simili e dissimili al tempo stesso, parteciperebbero alle due specie contrarie; ora ciò é parso impossibile E vero Le attre cose dall'uuo non sono dunqu'^ né le stesse né diverse, né in movimento né in riposo; non divengono né periscono; non sono né più grandi né più piccole né eguali; né hanno alcun altro di tali attributi; perché se avessero alcuno di tali atei) Esser prive rìelPuno equivale a )io)i p<irU'('ipnre all'uno^ ciò che prova l'ideatilìi di signilicato tra la partecipazione e la parusia. Sinonimia tra parlcciparf a ìì n'Idea e averla in sé la somif^lianza e la dissomiglianza essendo qui evidentemente considerate come Idee, e conseguenza imme<liata dalla possessione dell'attributo alla partecipazione dell'Idea omonima, Conseguenza immediata, come sopra. I itributi, parteciperebbero fisGégsi ad uno e a due e à tre, e al numero pari e all'impari, a cui abbiamo visto essere impossibile partecipare jisxéxstv, eisendoprive oxspofiévot^ interamente dell'uno. Farm. VELIA: Non cerchiamo noi ciò che deve accadere all'uno se esso non é? Si Quando diciamo non é, ciò significa altro che l'assenza àTioDoiav dell'essere da ciò che diciamo che non é? Niente altro (2j Antitesi tra ess^r prive d'tiri'Idoa e patieviparc a quest'Idea, e conclusione immediata dalla possessione di corti attributi alla partecipazione delle Idee corrispondenti e delle Idee dei numeri a cui queste Idee partecipano. Notiamo che se la partecipazione avesse il significato che le danno l?rinter^-reti trascendentalisti, il ragionam-^nto di Platone sarebbe impossibile. Platone ragiona cosi: ciò che non partecipa all'Idea dell'uno ne a quella di alcun altro numero non può essere ne simile uè dissimile né avere alcun altro attributo, perchè non può partecipare alle Idee corrispondenti a questi attributi, e la ragione per cui non può parteciparvi ò che, ciascuna di queste Idee essendo una, partecipa all'Idea dell'uno, e più di loro prese insieme formando un certo numero, partecipano all'Idea di questo numero, e per conseguenza ciò che parteciperebbe ad uua o più di (pieste Idee parteciperebl>e all'Idea dell'Uno o all'Idea di q'jesto numero. Il ragionamento corre, se per partecipazione s' intende la parusia. perchè e chiaro che in una cosa, in cui é presente un'Idea, deve ess'^re anche presente ogni altra Idea che è presente in quest'Idea. Ma se la partecipazione d'una cosa a un'Idea significasse, come vogliono gì'interpreti trascendentalisti, che la cosa e fatta ruU' esemplare di quest'Idea, non sarebbe sempre vero che la cosa che partecipa a un'Idea, partecipa ai>che alle altre Idee a cui quest'Idea partecipa: nel caso particolare sarebbe falso, poiché l'avere o uno o due o tre, ecc. esemplari non porta [)er conseguenza l'avere per esemplare l'Idea deli 'uno, del due, del tre, ecc., della slessa maniera che, per inipiegare un esemi)io d'Aristotile Mei. 1 avere per esenvlare una cosa eterna, qual e l'Idea, non porta per conseguenza di avere per esemplare l'Idea dell'eterno. Se l'assenza dell'Idea significa la stessa cosa che la ptivazione dell'attributo, la presenza dell'Idea significherà dunque la stessa cosa che la possessione dell'attributo. Quando diciamo che una cosa non è, intendiamo dire che essa in qualche modo è e in qualche modo no; o dire non è significa semplicemente ch'essa non è affatto, e non essendo, non partecipa fisxéxst in niun modo all'essere? Questo semplicemente Dunque ciò che non è, né potrà essere ne potrà partecipare ixsTéxsiv in alcun altro modo airessere Non lo potrà Ora divenire e perire sono altra cosa se non l'uno ricevere fisxaXaiipàvsiv Tessere, e l'altro perderlo? àTioXXóvai? Niente altro Ma CIÒ che non partecipa 4,..ixéisaxiv per niente di esso, non potrà nò riceverlo o5t av Xa^tpavoi ne perderlo oQx'àTzoXXùoi Come lo potrebbe V-All'uno dunque, poiché assolutamente non e, non conviene nò di possedere o50'éxxsov nò di perdere (o5x'à7raXXexxéov né di ricevere or^ze fisxaXyjTixéov l'essere in alcuna maniera Pare Dunque l'uno che non ò non perisce né diviene, poiché non partecipa fxsxsxsO in alcun modo all'essere. Sof. Diciamo eome diamo ad una stessa cosa più nomi -Apporta un esempio di ciò -L'uomo chiamiamo con molti nomi, attribuendogli dei colori, delle forme, delle dimensioni, delle virtù e dei vizi, pei quali attributi e molti altri non solo lo diciamo uomo, ma anche buono, e altre cose innumerevoli; e lo stesso fac-, clamo per gli altri oggetti, ponendo ciascuno come uno, e al tempo stesso come molti per i molti nomi con cui lo chiamiamo È vero Così abbiamo, io penso, preparato un festino ai nostri giovani e ai nostri vecchi tardi L'essere che ricevono le cose che divengono, e che perdono le cose elle periscono, certamente un essere immanente in queste cose ora quest'essere evidentemente è quello stesso a cui ciò che é partecipa e a cui l'uno che non è non può partecipare; dunque la partecipazione ò di un'Idea non trascendente, ma immanente nelle cose che ne partecipano. c D istruiti; ai quali para facile di obbiettarci che è impossibile che uno sia molti e molti uno, e che sono al colmo della gioia quando non permettono che l'uomo si dica buono, ma soltanto che il buono si dica buono, e l'uomo uomo Senza dubbio tu incontri spesso delle persone, che s'applicano a simili arguzie, e qualche volta anche dei vecchi che, per povertà di spirito, ammirano queste cose, e credono di avervi trovato il colmo della sapienza È vero. Afiìnchò il nostro discorso libracci tutti quelli che si Fono occupati d'una maniera qualunque dell'essere, le n*strc domanrlc devono intcnder-i come dirette tanto a questi quanto rg'.i altri con cui abbiamo precedentemento disputato cioè i fisici e gli amici delle Idee Quali sono queste domande? Se non congiungeremo né l'essere col movimento e col riposo, nò alcun'altr.i cosa con alcun' altra, ma le ammetteremo nei nostri discorsi come immiste afitxxa e incapaci di partecipare iisxaXajipaveiv l'uua dell'altra; 0 le identificheremo tutte, ammettendo che sono tutte capaci di una comunione reciproca; 0 per alcune lo f»mTnetteremo e per altre no? quali di questi tre partiti diremo che essi sceglieranno? Io non saprei che cosa rispondere per loro: perché non fai tu ciascuna dello tre r'sposte possibili, cercaudo quali conseguenze risultano da ciascuna? Tu dici bene; e supponiamo, se vuoi, ch\*ssi rispondano prima che non vi hi «Icnua comunione possibile di alcuna cosa con un'altra; p r conseguenza il moto e il riposo non parteciperanno fjis252 A Oégsxov in akun modo all'essere? Non parteciperanno Ma che? sarà l'uno 0 l'altro di essi, non partecipindo (TipogxotvtóvoOv delTessere? Non sarà Questa confe sione, a quanto pare, ha subito tutto rovesciato, e idommi di quelli che mett'no tutto in movimento, e di quelli che lo lasciano in riposo come uno, e di quegli altri che ammettono che, sotto il rapporto delle loro Idee, gli esseri sono sempreinvaE G2 B riabili e nello stesso stato: tutti infatti aggiungono Tessere, dicendo gli uni che le cose sono realmente in movimento, e gli altri che sono realmente in riposo Cosi è E quelli che ora compongono e ora decompongono il tutto, sia riducendo tutto ad uno, e facendo uscire dall'uno una varietà infinita, sia decomponendo il tutto in un numero finito di elementi, e componendolo da questi stessi elementi, sia supponendo che ciò si faccia a vicenda, sia continuamente, in tutti i casi non potrebbero dire niente di vero, se non vi ha alcuna mescolanza £ùfi[xigts E giustoCiò che vi ha di più piacevole è che essi stessi hanno bisogno del discorso questi che non permettono che di una cosa se ne dica un'altra per la partecipazione di quest'altra xotvwvia TcaOiìiiaToc éxspou Come? Essi sono costretti di servirsi a ogni momento delle parole essere^separatamente.dagli altri, per sé e di mille altre che non possono astenersi di adoperare e di connettere nei loro discorsi; dimodoché ossi non hanno bisogno di un altro che li confuti, ma, come suol dirsi, hanno il nemico in casa, e portano da per tutto con sé stossi il loro contradittore, che mormora dentro di loro, come quel pazzo di Euricle un ventriloquo che pretende di avere nel ventre un demone profetico Gli somigl.ano in effetto, e tu dici la verità Ma che? se lasciamo a tutte cose la facoltà di una comunione reclpioca V Questa supposizione posso confutarla anch'io Avere il 7ioc0Y)|ia d'un’Idea significa partecipare a questa Idea. Sofista stesso. Per oonsej^uenza la xoivwvta del TidOr^iJia di un'altra cosa cioè di un altro Genere, perchè le cose di cui -li tratta qui, sono, come si dice in seguito, dei Generi significa aver parte a questo raprorto delle cose col Genere, che Platone chiama ordinariamente partecipazione. B Come? É ehe il movimento sarebbe in riposo, e il riposo in movimento, se si raescolassero V uuo coir altro (èTiiYipotaOYjv èic'àXXi^Xwv Ma è assolutamente impossibile che il movimento sia in riposo e il riposo in movimento E come no? Resta dunque soltanto la terza supposizione Si Infatti è necessario che sia vera una di queste tre supposizioni, o tutto mescolarsi aufi|xCYvua9at, 0 niente, o alcune cose si e alcune no. È necessario Ma le |»riine due abbiamo visto che soni impossibili Si Dunque chi vuol rispondere giustamente deve ammettere la terza supposizione Certamente Poiché alcune cose possono mescolarsi e altre no, esse sono press' a poco com»i le lettere, delle quali alcune possono congiungersi fra di loro, ali re non lo possono. Ma tutti conoscono quali lettere pò sono associarsi fra di loro, o vi ha bisogno di un'arte per chi vuol fare ciò d'una maniera conveniente? D'uti'arte Quale? La grammatica P] non è lo stesso pei suoni gravi ed acuti? Chi ha l'arte di conoscere quali si accordano e quali no, è musico; chi l'ignora, é straniero alla musica. Ebbene! poiché siamo convenuti che i generi si mescolano iitSsws sx^'-v similmente tra di loro, non ha bisogno di procelere nei suoi ragionamenti con una certa scienza chi vuol mostrare quali generi si accordano a'j|i(^(!)v£t e quali non si ammettono oO Séxexai fra di loro? E come chiameremo questa scienza? Dividere per generi. e non prendere la stessa specie per un'altra né un'altra per la ste-s-i, non é questo l'ufficio della scienza dialettica? Si Chi é cap-rice di far ciò, vede acutamente un'Idea unica diffusa pur molte cose Sia uoXXwv. Tiavxy] Siaxsxaixé vT]v che cj^istoiio Kseparatamente l'una dall'altra, e molte Idee diverse compresa sotto un'Idea unica, ed un'Idea unica per molli lutti iu uuo raccolta, e molte Idee distinte e separale fra di loro: ({uesto é saper discernere, per mezzo della divisione per geneii, quali sono in comunione fra di loro, e quali no € Poiché siamo convenuti che dei generi alcuni souo in comunione reciproca e alcuni no, alcuni con pochi, alcuni con C molti, e di altri niente impedire la loro comunione con tutti intuite», cose, continuiamo la nostra discussimi, non esaminando tutte le Specie, per non restare confusi dalla loro moltitudine, ma scegleadone alcune di quelle che hanno una più grande estensione, e vedendo prima qunle sia ciascuna di esse, e poi quale comunione abbia con B le altre I generi più estesi, tra quelli di cui abbiamo parlato, sono l'essere, lo etato e il movimento I più esteiri di gran lunga p] due di essi diciamo che non si mescolano àiiCxxo)) l'uno con l'altro Certamente Ma l'essere si mescola jjitxxóv a tutti e due: lutti e due in effetto sono Senza dubbio Essi sono tre Certamente Dunque ciascuno è altro dagli altri due, e lo ste>so con ^ se stesso? Si Ma che sono questi lo stesso e altro che abbiamo nominat? sono due generi diversi dai tre superiori, necessariamente sempre mescolali gu|ijuYV'j}jiévo) con essi, e così bisogna esaminare cinque generi in luogo di A tre; o senz'accorgercene, abbiamo chiamato qualcuno dei tre generi superiori lo stesso ed altro? Forse Ma il moto e lo stato non sono né lo stesso nò l'altro B Tuttavia tutti e due partecipano iistsxsxov dello stesso e dell'altro. Poniamo dunque lo stesso come una quarta € specie oltre le tre specie superiori? Poniamolo. Quinta D deve dirsi la natura deli'altro che é nelle spec'e(év xor^ E et$£oiv o'joav che noi abbiamo scelte Si E diremo ch'essa é diffusa per tutie queste 5ta tiocviwv slvai SLsX-rjXueutavj, poiché ciascuna é ahra dalle altre, non per U natura di se stessa, ma per il partecipare iiexéxs'-v all'Idea dell'allro. Certamente. Cosi diremo adunque dei cinque generi riprendendoli ad uno ad uno Come? Primo che il movimento è affatto altro dallo stato; o non diremo cosi? Cosi Dunque non é lo stato. Giammai Ma è per il partecipare jxexéxetv all'essere È Ancora il movimento è altro che lo Stesso Si Non é dunque lo Stesso No Tuttavia si é convenuto tra noi, che è lo stesso per il partecipare iJLsxsxstv allo Stesso SiBisogna dunque ricoscere sen/a difficolià che il movimento è lo stesso e non è lo stesso; non è infatti nello stesso senso che noi diciamo che è lo stesso e che non è lo stesso; ma quando diciamo che è lo stesso, è per la partecipazione (iisOsgiv dello stesso relativamente a se stesso cioè in quanto B ^sso è lo stesso con se stesso; quando diciamo che non è lo stesso, è per la partecipazione xoivoovtav dell'Altro, per cui, distinguendosi dallo Stesso, è, non questo, ma un altro, sicché giustamente si dice che non è lo Stesso Senza dubbio Cosi se il movimento partecipa fjisxaX(X|JLpav£v dello stato, non sarebbe assurdo di chiamarlo stabile Sarebbe con ragione, poiché siamo convenuti che dei generi alcuni si mescolano iityvooGai fra di loro D e altri no Sosterremo senza timore che il movimento è altro che l'essere? Senza il mìnimo timore Dunque è evidente che il movimento é non essere, ed é essere, poiché partecipa diexéxeO dell' Passere? È evidente Ne segue che il Non essere è nel movimento èni xs xivtq05(0^ elvat e in tutti i generi; poiché in tutti la natura dell'Altro, rendendo ciascuno altro dall'Essere, ne fa un non essere; e perciò tutti diremo con ragione non ent', e ancora, perché partecipano jjisxéxsO dell'Essere, essere ed enti A I generi sono mescolati oD|i|iiYV'jxaO fra di loro, e l'Essere e l'Altro sono d ffusi per tutti e l'uno nell'altro Sia ndvxwv xal ei'àXXrjXtov SisXyjX'jOóxa; l'Altro, partecipando liexaaxóv dell'Essere, per questa partecipazione |isOegtv è, ma non é quello di cui partecipa jisxéaxsv, ma altro; 3 ed essendo altro dall'E^fsere, è evidentemente necessario 'S che sia non essere; T Essere poi, essendo partecipe |ie TstXiQcpós dell'Altro, ò altro dagli altri generi, ed essendo altro da essi tutt'', non è ciascuno di e>si nò tutti sii altri insieme fuori di se s'esso, sicché Tiilssere senza dubbio in maniere innumerevoli non è, e gli altri generi, ciascuno preso a parte e tutti insieme, sono in molte maniere e in molte maniere non sono E Voler separare àTioxwpf^eiv ogni cosa da rgni altra manca di grazia, ed annunzia uno spirito straniero alle Muse e alla filosofia Perchè? Il separare SiaXOetv ciascuna cosa da tutte le altre è la distruzione complea di ogni discorso: in effetto noi abbiamo il discorso per l'intreccio au[i:iXox75v delle specie fra di loro. È vero A Vedi con quale opportunità abbiamo combattuto costoro, e li abbiamo costretti a lasciare che .si m€.s(Otino (jitY'^'jaOat) runa con Taltra Perchè? Perchè il discorso sia anche esso uno dei generi che esistono. Si sopprimerebbe, se si concedesse non esservi alcuna mescolanza TiiCfiv di niente con niente. Facciamo alcune osservazioni su questo luogo del Sofista. Siccome gl'interpreti generalmente cenvengono che in questo luogo si tratta dei rapporti di partccipazicne tra le Idee, ci limiteremo alla quistione se questi rapporti implichino o no l'inererza dell'Idea partecipato nell'Idea partecipante nel senso speciale che questa parola inerenza ha nella nostra interpretazione del sistema delle Idee. Se noi vedremo che la implicano, ciò sarà una prova dell'immanenza delle Idee, esendo evidente che se, quando si tratta della partecipazione d'un'Idea ad un'altra, parledpazione significa V inerenza del partecipato nel partecipante, essa non può significare il contrario, quando si tratta della partecipazione d'una cosa ad un'Idea. Come prove delPinerenza, notiamo prima di tutto le espressioni mescolarsi [iCYvuaO-at, aujjifiCYvooO'at e mescolanza lAtgt?, gO|i|iigts e quelle che indicano la diffusione d'una cosa in una moltitudine di altre cose (Ij tralascio altre espressioni non meno probanti, perchè identiche o simili ad alcune di quelle che abbiamo già incontrate nei luoghi precedentemente citati Il termine mescolanza significa, è appena bisogno di dirlo, la parusia. Esso esprime r immanenza d'una maniera anche più energica, a un certo punto di vista, che il termine parusia: per questo potrebbe intendersi, come si è detto sopra, che il partecipato è presente nel partecipante d'una semplice presenza loca'e 0 quasi locale; la parola parusia non esprime questa unione di due sostanze in una sola, indicata dalla parola mescolanza sì pensi al significato di questa parola |xigi^ nella fìsica d'Aristotile, Aggiungiamo che, siccome Platone considera senza alcun dubbio la mescolanza dì due Idee come un'espressione affatto equivalente nel hignificato alla partecipazione deiruna delle due Idee all'altra, noi abbiamo qui la prova più evidente della verità di un'osservazione precedente, cioè che il senso della parola partecipazione è la parusia dell'Idea partecipata nella cosa o nell'Idea partecipante, e che, per conseguenza, sapendo anche che questa parola significa per Platone la possessione dell'attributo omonimo all'Idea a cui si partecipa, noi possiamo concluderne che la parusia dell'Idea non è altro che la possessione dell'attributo omonimo, e quindi che l'Idea e l'attributo sono la stessa cosa. Senza dubbio, la parola mescolanza è un'espressione E bisogna aggiungere, in cui dice che il Non essere è disseminato SteoTiapjxévov in tutti gli esseri.inadequata al concetto che essa significa, come più o meno lo sono necessariamente tutte le altre di cni PIatone 8i serve per indicare i rapporti tra le Idee « tra queste e le cose, prr la semplice ragione che questi rapporti differiFcono toio coelo da tutto ciò che le parole di ogni lingua umana sono destinate a significare. La parola mescolanza esprime con proprietà questo canttere del rapporto tra le due Idee, che e-se som delle sostanze di cui l'una si trova contenuta nelfalira, |ur essendo due sostanze distinte luna dalPaltra l'Idea delrUomo e quella dell'Animale, quantunque la seconda sia compresa nella prima come una parte di essa, sono nondimeno due sostanze distinte, poiché Tldea dell'animale si trova anche fuori delllica dell'uomo, in quella del leone, del cavallo ecc. Ma ess.ì è in'^satta, fercbr le sostanze che si mescolano sono comp^etan ente distinto runa dall'altra: l'ura r.on fa parte dell'altra, come l'Idea partecipata della partecipante. Per conseguenza lo interprete trascendentalista può dire cho. la mescolanza dei generi del Sofista indica ben^i un'intima cong unz^one tra le Idee, ma non Viwwarìenza dellldea partecipata nell'Idea partecipante, poiché per immanenza noi intend'amo piecisamente questo inrsistere del partecipato nel partecipante come una parte di e^so, che la parola mescolanza non esprimo. Ma quale sarà allora, secondo l'interprete trascendentalista, qursta intima congiunz ore tra le Idee che Platone chiama mescolanza? e che ragione egli ha potuto aveie per ammetterla? Nell'ipotesi ^^W immanenza la parola mescolanza ha un s^gnificRto perfett«mente determinato quantunque non sia ^osmbile una rappresentazione corrispondente, ciò che è un difetto comune a tutte U do trine metafis'che e di cui si trova fac Imente la ragione nel realismo dell'autore: cioè che, s'ccome le Idee sono i concetti realizzati, cosi vi hanno tra dì esse gli stessi rapporti di contenenza reciproca, in comprensione e iu estensione, che si ammettono tra i concetti. Ma che significherà la mescolanza nell'ipotesi della trascendenza? qual è il senso, il concetto determinato, che può corrisponde: e a questa parola, applicata a delle sostanze immatcriali ed esenti dai rapporti di posizione? Questo stesso vago conato di assimilazione dei rapporti tra le Idee a questo rapporto tra le sostanze materiali che chiamiamo mescolanza a cui si ridurrebbe tutto il significato della parola, sarebbe inoltre senza motivo e senza scopo; poiché quest'assimilazione, né avrebbe alcun legame logico con Itpolesi delle Idee, né gioverebbe a rendere quest'ipotesi più coerente o più verisimile o più propria a sp'cgare i IVnomeni, né darebbe alcun soccorso per rispondere alla quistione, cosi imbarazzante nell'ipotesi della trascendenza, della possibilità di predicare un concetto di un altro, alla cui soluzione è destinato da Platone ciò che dice su questo rapporto tra le Idee a cui dà il nome di mescolanza. Delle considerazioni simili valgono per 1 termini che e^primoro la diffusione di un'Idea in una moltitudine di altre Idee: questa parusia dell'uno nei molti, che, nell'ipo'esi deli'immanenz», ha un senso preciso e di cui si comprende perfettamente il legame con la realizzazione de^ii Universali, non avrebbe, nell'ipotesi della trascendenza, né significato né ragione alcuna, e inoltre introdurrebbe gratuitamente nel sistema delie Idee trascendenti quella stessa inconcepibilità che é la dilhcoltà più grande del sistema delle Idee imnauinti. La qu'stione a cui Platone risponde con la teoria della p»ìrtecipazione, è: come noi diamo ad una cosa più nomt^ vale a dire, in ultima analisi, come possiamo congiungere un soggetto e un predicato. Si sa, in effttto, che gii altri nomi che si aggiungono al nome soggetto per determinarlo, possono considerarsi come equivalenti a \ altrettante proposizioni incidenti di cui essi sono i predicati: e d'alironde la partecipazione, chVsm s'intenda nel senso dell'immanenza o in quello della trascendenza, non potrebbe render conto della congiunzione, nel discors*^, di altre parole che del soggetto e dfl predicato, perchè Platone dice che una cosa partecipa a un'Idea o un'Idea ad un'altra Idea, quando della ROSA può predicarsi l'attributo corrispondente all'Idea o della prima Idea quello corrispondente aUa feconda. La quistione della possibilità di unire un nome ad un altro è presentata da Piatone in termini generali: es'^a comprende tanto il caso in cui il nome sog^et oè prrso universalmente p. e. l'uomo o tutti gli uomini – GRICE OGNI UOMO -- quanto il caso in cui è preso particolarmente p. e. un uomo o alcuni uomini GRICE: SOME (AT LEAST ONE) MAN -- Tuttavia è evidente che la partecipazione tra le Idee se almeno noi vogliamo intendere la partf cipazione nel scns'> ordinario che questa parola ha in Platone non potrebbe rendei e conto che della possibilità delle proposizioni universali THE ALTOGETHER SAILOR THE ONE AT A TIME NICE GIRL THE ALTOGETHER NICE GIRL THE ONE AT A TIME SAILOR: l'Idea dell'uomo non può partecipare a un'nltra Idea HOMO SAPIENS SAPIENS, il cui attributo omonimo non appartiene HUMAN che ad un uomo o ad a'cunì uomini; quantunque in questo caso potrebbe dirsi che la specie umana intesa come la collettività degl'individui uomini partecipa a quest'Idea RAZIONALE, non potn^bbe dirsi che vi partecipa l'Idea deirUomo, perchè l'Idea non rappresenta la specie come collettività degl'individui, ma l'insieme degli attributi comuni MEANING POSTULATES GRICE STRAWSON ADULT a questa collettività. Platone ha dunque dimenticato di rispondere alla quistione propostasi, per il caso in cui il nome soggetto è preso particolarmente? o se egli nella sua risposta ha contemplato anche questo caso, come si applica ad esso ciò che egli dice sulla coTiunìone dei generi? Sono delle quìstlonì che noi tralasceremo, perchè non hanno una relazione molto stretta col nostro soggetto, e ci limiteremo al caso che Platone ha, se non esclusivamente, almeno specialmente, di mira, cioè alle proposizioni universali e alla partecipazione tra le Idee come fondamento della possibilità di queste proposizioni. Noi abbiamo già notato che, nell'ipotesi della trascendenza delle Idee, la congionzìone del soggetto e del piedicaio tarebbe impossibile, perchè, gli oggetti dei concetti essendo le Idee, e il rapporto del predicato col aogg€tto essendo quello deirinerenza dell'uno nell'altro, quésta congiunzione suppone l'inerenza delle Idee nelle cose e nelle altre Idee subordinate; e che perciò la conseguenza logica della dottrina della trascendenza sarebbe la tesi erisica che non si può affermare che ^^omo è bur no, ma solo che l'uomo è uomo GRICE WOMEN ARE WOMEN WAR IS WAR, e il buono è buono; tesi alla cui confutazione è appunto destinata la teoria della partecipazione dei generi gli uni agli altri. Cosi se la partecipazione dove intendersi nel ^enso degli interpreti trascendentalisti, lungi di poter fornire una risposta alla quistione: com'è possibile la congiunzione di un soggetto e di un predicato? essa renderebbe la quistione insolubile, questa cougiuazione essendo imposti) Platone stesso dichiara che il separare ogni cosa da ogni altra renderebbe impossibile il discorso; ciò che implica la condanna della dottrina che gli attribuiscono gl'interpreti trascendentalisti dico implica^perchè sarebbe impossibile di trovare in Platone un rifiuto esplicito della dottrina della Idee separate, per la semplice ragione ch'essa gli è affatto sconosciuta. La proposisione citata conterrebbe questo rifiuto esplicito^ se i Megarici, come credono, secondo me erroneamente, alcuni critici, avessero ammessa qaesta dottrina. sibile in qualsiasi rapporto tra le Ide e tra le Idee e Io cose che non sia quello d'iramanenzR; e sarebbe singolare che Platone, per confutare la tesi dei Megarici deirim possibilità di ogni giudizio non tautologico mettesse innanzi la teoria delle Idee e dei loro rapporti tra di loro e con le cose, che, nell'ipotesi della trascendenza, sarebbe precisamente l'appoggio più forte della tesi confutata. Ma ciò che dobbiamo ancora osservare è che . Platone, nel luogo citato del Sofista, non solo dà la teoria della partecipazione per il fondamento e la giustificazione della sintesi tra il soggetto e il predicato, ma, quel ch'è più, identifica il rapporto di partecipazione d^lle Idee le une alle altre al rapporto che noi cioè tutti quelli che pensano e che parlano, anche quelli che non ammettono la teoria delle Idee stabiliamo tra il sozgetto e il predicato, quando formiamo un giudizio o enunciamo una proposizione. Per es^mp*o, quando Platone domanda se noi dobbiamo non coogiungere lo sta^o e il movimento con Tessere, né alcun altro genere con un altro, ma ammetterli nei no tri discorsi come immilli e incapaci di partcc'pire gli uni agli altri, evidentemente egli considera la partecipazione dell'Idea del movimento e dello stato a quella delFessere come equivalente al rapporto che noi stabiliamo tra il soggetto movimento o stato e il predicato essere, quando congiungiamo lo stato e il movimento con l'essere, cioè diciamo che il movimento o lo stato è. Similmente quando egli paragona la mutua mescolanza delle Idee, cioè la partecipazione d«lle une alle altre, al'a capacità che hanno le lettere di essere unite e all'accorlo dei snoni musicali, e dice ch'^, poiché i generi alcuni si mes-o'ano fra di loro e altri no, vi ha bisrgno per (ssi, come ppr lo letlere e i suoni musicali, di una scienzn che mostri quali si accordano e quali non sì ammettono fra di loro; quest'accordo o associabilita dei generi per cui naturalmente dobbiamo intendere la possibilità d« Ha loro sintesi quali soggetti e predicati nelle proposizioni non ha un significato differente che la loro mescolanza o partecipazione degli uni agli altri. Ma se le Idee fossero separate dalle cose e ciascun'Idea da ciascun'altra, come vog'iono gl'interpreti trascendentalisti, le Idee non potrebbero essere gli attributi dele coso, ma solo gli esemplari di questi attributi, e parimenti un'Idea non potrebbe essere 1'attributo di un'altra Idea, ma solo l'esemplare SPECIMEN di quest'attributo SMITH’S DOG IS SHAGGY. Quando noi congiungiamo l'essere al movimento cioè quando affermiamo: il movimento è quest'essere che noi congiungiamo al movimento è, secondo l'interprete trascendentalista, un'imitazione o un simulacro dell'Essere a cui il movimento partecipa, mentre è evidente che per Platone é qu sl'E^sere stesso: in efifetto egli direbbe indifferentemente, per esprimere lo stesso fatto, sia che i due generi possono congiungersi tra loro e si accordano considerando il fatto sotto il suo aspetto logico sia che essi partecipano l'uno dell'altro o si mescolano l'uno con Taltro considerando il fatto sotto il suo aspetto onlogico. Ma questa stessa distinzione di un aspetto logico e di un aspetto ontologico, sotto di cui le due differenti sorta di espressioni di cui si serve Platone, considerebbero il rapporto tra i generi, abbiamo avuto forse torto di farla; poiché il sistema platonico é essenzialmente una realizzazione dei rapporti logici, per conseguenza il logico e rontologico per Platone s'identificano; e così, nel caso presente, il rapporto ontologico tra i generi, cioè la partecipazione di un'Idea ad un'alt'-a, non è altro nell'ipotesi, ben inteso, dell'immanenza delle Idee che il loro rapporto logico, cioè l'inerenza dell'attributo nel soggetto, obicttivato. E in effetto, per V immanenza delle Idee, noi noa intendiamo altra cosa ss non che le Idee ineriscono nelle cose e le Idee più generali nelle più particolari in una parola i partecipati nei partecipanti della maniera in cui Tattributo inerisce nel soggetto. Che Platone consideri il rapporto tra il partecipante e il partecipato come identico al rapporto tra il soggetto e il predicato, è dimostrato pnre da questa circostanza, che egli fa della quistione della partecipazione una quistione comune a tutti i filosofi, anche a quelli che non ammettono la teoria delle Idee. Quando egli domanda ai Fisici se essi ammetteranno che rè il movimento e lo stato partecipano all'essere né alcun'altra cosa ad un'altra, ovvero che ciascuna cosa partecipa di ciascun' altra cosa, ovvéro infine che vi hanno delle cose che partecipano l'una dell'altra e altre che non partecipano; e mostra che se non vi ha alcuna mescolanza, cioè partecipazione, i Fisici non potrebbero dire né che vi ha il movimento ne che vi ha lo stato, e che tutte le altre proposizioni dei Fisici sarebbero ugualmente false; che si deve intendere por queste cose, di cui si domandano i rapporti dì partecipazione, e la cui mescolanza sarebbe indispensabile per la verità delle teorie dei Fisici? Senza dubbio, queste cose sono nel sistema di Platone le Idee: ma egli non potrebbe domandare ai Fisici quali siano i rapporii tra le Idee, né potrebbe dire che le proposizioni dei Fisici in cui si afferma un termine generale d'un altro termine Per i.idicaP3 questi ognratti, di cai egli domanda ai fisici quali siano i rapporti di partecipazione, Platone non dice né Idea né specie né generi nò niente altro di simile, ma si serve semplicemente dall'aggettivo al ndulro: così io ho tradotto aggiungendo all'aggettivo SHAGGY il termine vago coso. generale suppongono la partecipazione d'un' Idea ad un'altra, pnichè i Fisici non sanno niente delle Idee, e non conoscono che la realtà fenomenale. Per queste cose di cui i-ì domanda quali siano i ra[porti di partecipazione, si deve durque intendere alcun che che possa essere comune tanto a Platone, che fa la domanda, quanto ai Fisici, a cui la domanda é fatta: ciò non può essere altro che gii oggetti dei concetti generali, considerati senza determinare se (ssi siano delle entità iperfìbiche, conformemente al sistema realista, ovvero semplicemente le classi degli rggetti fenomenali e i loro attributi, conformemente all'opinione volgare che è il punto di vista dei Fisici. Per conseguenza il rapporto di partecipazione di cui è quistione tra Piatone e i Fisici, deve essere un rapporto che può correre egualmente tanto tra le entità iperfìsiche del primo quanto tra le classi e gli attributi fenomenali dei secondi. Ma queste classi e attributi dei Fisici sono, non delle cose trascendenti, ma immanenti; e perc'ò il solo rapporto di partecipazione che può esistere fra di loro, é quello deirinerenza del predicato nel soggetto. Dunque anche il rapporto di partecipazione tra le entità iperfisiche di Platone deve essere il rapporto d'inerenza del predicato nel soggetto. Allo stesso risultato si perverrà, CFaminando la polemica con gli erist'ci che negano la validità di qualsiasi giudizio non identico. Platone attribuisce a questi filosofi di negare la partecipazione di qualsiasi cosa ad un'altra; cosi egli dice che essi non permettono che una cosa sia detta di un'altra per la partecipazione di quest'altra; che essi separano ogni cosa da ogni altra f2); che egli li ha combattuti e forzati a permettere che una co8a si iLescoli con un'altra. Lo cose di cui essi negano, secondo Platone, la partecipazione dell'una all'altra, per loro, come per i Fisici, non possono essere le Idee (2j, ma semplicemente le classi degli oggetti fenoramali e i loro attributi; e la so'a partecipazione chi essi nrghino è quella del soggetto al predicato, vale a dire la possibilità di attribuire questo a quello. Dunque per la partecipazione di una cosa ad un'altra, che queste cose siano delle Idee ovvero semplicemonte delle ebusi e degli attributi di queste class», Platone incende che la seconda, la partecipata SHAGGY ATTRIBUTO, inerisce nella prima, la partecipantp, come il predicato ATTRIBUTO nel soggetto. L'osservazione precedente ne suggerisca, o piuttosto ne implica, un'altra, a cui non sarà forse inutile di dare un posto a sé SHAGGY PROPRIETA, quantunque essa non abbia un'attinenza diritta con la qiiistione della partecipayion. Le cose, sui cui rapporti di partecipazione Plato-ie interroga i Fisci, e di cui attribuisce agli eristicl ERITSTICI EIRENIC che non amm ttono se non i giudizi identici, di negaro questi rapporti, sono, come abbiamo detto, degli oggetti che P'^ssorio ess'-re con«jiderati di due maniere dìfferent*, cioè conoe a^trflzioni realizzate, come Idee-da Platone-, e come sempl ci classi degli oggetti d'esperienza e loro attributi non ri*8lizzati Hai Fjsici e gli cristici-Ma lo classi e i loro at ributi di questi filosofi non sono certamente delle cose trascendenti: dunque anch*^ le Idee platoniche devono essere immanentL E in ett'fiti è evi . Che i Megarici abbiano ammes«4o la teoria deUe Idee, è una supposizione d'alcuni autori moderni ohe non ha né verosimiglianza intrinseca né alcun fonlamento storico. Confr. qaesto Supplemento. dente che quando Platone domanda ai Fisici se essi ammettono o no che il movimento e lo stato partecipano airessere, egh non può parlare di un movimento, di uno stato e di uà essere fuori delle cose, ma di questo movimento, stato ed essere che sono degli attributi delle cose da Piatone riguardati come Idee, cioè come attributisostanze e dai Fisici come semplici attributi. Similmente quando agli eristic:*, che non vogliono che si dica che l'uomo è buono né che un altro predicato qualunque si predichi di un soggetto differente da esso, Platone attribuisce di separare il buono dall'uomo e ogni cosa da ogni altra e di non permettere la loro mescolanza, qieste cose che essi separano e di cui non permettono la mescolanza, non possono essere certamente gli esemplari trascendenti dell'uomo, della bontà e di ogni altra cosa espressa dai nomi generali, che questi filosofi ci proibiscono di affermare l'uno dell'altro; perchè Vuomo è buono e tutte le altre proposizioni che questi filosofi c'inibiscono, noi non le riferiamo ad esemplari trascendenti delle cose, ma alle cosa stesse. E in una parola quando Platone dice che il discorso nasco dalla mutua complicazione o'j|i7iXoxf^ delle specie, per queste specie che sono evidentemente le Idee noi non possiamo intendere delle entità trascendenti, perche i nomi generali di cui i discorsi umani si compongono, e i concetti che ad essi corrispondono, non si riferiscono ad oggetti trascendenti, ma immanenti. Ma questo è un punto che ese^*, come abbiamo detto, dall'argomento del presente numero, ed entra in quello del numero. Un'altra prova evidente ohe i generi, di cui Platone discute nel Solista i rapporti di partecipazione, sono delle realtà immo>ieii(i, l'abbiamo in ciò che Platone dice del discorso sulla fine del luogo 70# Nella mescolanza del Sofista vi ha il ^erme d'un'immagtnp, a cui alcuoi platonici ricorrevano per rappresentarsi il rapporto tra le Idee e le cose. Alcuno, dice Aristotile Mei,, potrà credere che le Idee sono causa alle cose deircssere ciò che sono, come il bianco, mescolato, è causa a un oggetto di essere bianco. Egli attribuisce questa proposizione ad Eudossio e a molti altri, e la paragona alla dottrina delle omeomerie di Anasagora. Questa comparazione del rapporto tra le cose e le Idee a cui esse devono i loro attributi, a quello tra l'oggetti coloralo e la sostanza colorante, mostra d'una maniera cosi evidente V immanenza del 'e Idee nelle cose, che Tinterprete trescendentalista, per citato e nel seguito: egU classa il discorso tra i generi di cai ha discusso qaasti rapi)orti di partecipazione, e domanda se il non essere si mescoU a questa specie come ha visto che si mescola alle altre. Ora il discorso di cui Platone parla, è incontestabilmente il nostro discorso, non l'archetipo di esso: ma se questo genere è una realtà immanente, gli altri, con cui esso è classato, non possono essere delle entità trascendenti. Aggiungiamo che il Non essere, che è uno dei generi di cui si cercano i rapporti di partecipazione con gli altri, e che è anzi l'oggetto precipuo di tutta la digressione di cui fa parte questa discussione sui rapporti di partecipazione tra i generi, è riguardato come l'oggetto dell'opinione falsa della reale, della nostra. Ma l'oggetto dell'opinione falsa sono i non esseri cioè le cose che non sono e che noi crediamo falsamente che siano: dunque Platone concepisce il Non esst^re, non come un archetipo dei non esseri, separato da essi, ma come la loro iorma generale, in essi immanente. È certamente una stranezza di realizzare, come fa Platone, anche il concetto di ciò che non è; ma, facendolo, egli non può considerare il rapporto tra questo concetto realizzato e le cose particolari comprese sotto il concetto di cui è la realizzazione, come differente da quello fra gli altri concetti realizzati e le cose particolari subordinate. il comm. d'Aless. Afrod. conciliare quest'indicazione d'Aristotile con la sua interpretazione, non potrebbe dire altro se non che la proposizone appartieu's non a tutti i platonici, ma ad una fraz'one, e questa poteva ben essere una scuola di d'ssident'. Ed è vero che Aristoti'e Fembra riguardare questa proposizione come una doitrira particolare: incerto, com'egli era, sulla qnistìone fc il rapporto tra le Idee e le cose fosse un rapporto d'immanenza o di trascendenza, non è difficile di corapron^lerc com'egli potasse vedere delle differenze reali nella maniera di concepire quc-to rapporto là dove non si tratta che di una semplice diiferenza nell'epprossione dt-llo stesso concetto. Co ì noi 1. 3 e. 2^ e 1. IS'^ e. 1«, 2« e Scegli distingue quelli che ammettono le entità matematictie i Numeri e le Figure geometriche nelle cose e quelli che le ammettono separate dalle cose: verosimlrrente non vi era tra gli gli uni egli altri una differenza di dot:;rina, come afferma Aristotile, ma semplicemente gli uni esprimevano l'immanenza di queste entità di una maniera più energica che gli altri. La quistione del rapporto tra le Idee e le co^^e era di troppo momento pfl significato e lo scopo dell'ipotesi stessa delle l'iep, perchè potes^^e essere l'o^rgetto di una divergenza reale tra i parcigìanì di qu^st' ipote-i. Nella proposizi'^ne d'Eudosr!o non bisogna vedere che una rappresentazione materiale della dottrina ordinaria della partecipazione: anche Platone si serviva Hi rappre-en•ta'/ioni sim 1', p. e. n^l FéJone, in cui le Id^e si fanno venire nelle cose e ritirarsene, determinando in La grandezza che è in noi, dice e, quando viene il suo contrario, si deve credere o ohe fugge e si rilira, o che perisce. Platone non fa due ipotesi, non intende dire, cioè, che alla grandezza che è in noi deve avvenire o l'una o l'ai71 esse, per questa veauta e questo ritiro, V apparizione e la disparizione degli^ attributi corrispoiidenii. Queste proposizioni evidentemente non potrebbero essere prese alla lettera, perchè cosi le Idee si sottoporrebbero alle condizioni dell'esistenza nello spazio, del mutamento, ecc., condizioni che, secondo Piatone, noa competono che al fenomeno: esse non sono che 1'espressione, sotto una forma sensibile, del concetto sovrasensibile della partecipazione e della parusia, cioè della dottrina che gli attributi omonimi di t it i gii esseri non sono in sostanza che una ì-ola entità, un solo Attributo, uno e lo stesso in tutt'. A (jueste rappresentazioni m^ter-'ali (^el rapporto tra le cose e le Idee dobbiamo ug^inogere la descrizione simbolica della formazirne dell'anima nel Timeo. Ivi Platone racconta che il Demiurgo compose l'anima notiamo, l'anima cosa, non l'anima Idea, mescolando in una calda'a V essenza inditnsibile e sempre la stessa con Vessenza che diviene divisibile circa i corpi, e facendo tra di queste du3 cose, porche ciò non avrebbe alcun senso: ma vuol dire che, quando una cosa cassa di essera grande, questa perdila dalla grandezza può considerarsi sotto due punti di vista, cioè sia coma una cassazione dall'e^iistenza di quest'attributo, sia come la cas-^aziane della parusia dell' Idaa corrispondente a quest'attributo. In quanto la grandezza che è in una cosa si considera come t't'trìmeaoj cioè come individualizzata e distinta dalla grandezza che è nelle altre cose, esija perisce: ma in quanto si considera, nella sua ffisenza ruale^ cioè cjme la grandezza una e la stessa che è in tutta le cosa grandi, essa non perisce, ma cessa soltanto la sua parusia nella cosa. Quest'interpretazione è confermata dall'autorità d'Aristotile, il quale dica ^ Ih' fimcrat. ohe nel Fedone le Idee si considerano come causa etlioienti, perchè le cose si fanno nascerò per la receziona nsx5tXYj'];tv della Idee e perire per la loro sottrazione dcTio^oXVjV: quest'ultima indicazione non può alludere che ai luoghi citati. anche entrare nella mesc( lanza la natura dello stesso e quella del diverso Tim. Che cosa si debba intendere precisamente per queste entità di cui il Demiurgo compose l'anima, è controverso. Io intendo: per Vessenza indivisibile esemjire la stessa l'Idea de' l'anima; per Vessenza che diviene divisibile circa i corpi la inateteria, di cui Pia one -ncU'ultima for^na del suo sistema fa un elemento delle cose distinto dalle Idee; per lo stesso e il diverso le due entità ch^^. egli sempre nell'ultima fjnna del suo sistema, iu cui .^i avvicina ai Pitagorici riguarda, l'uoa come la forma comune di tutte le Idee, e per con^e^uonzianijhe delle, c^se, l'altra coni'*, la materia tanto delle Id'C quanto delle cose, e che chiama pure finito e infinito, essere e non es-ere, bene e male, uno e dualità indefinita, eguale e ineguale, ecc.. Ma che si ammetta questa interpretazione o un'altra, è, per la (jaistione presento, un punto d'un'importanza secondaria; perchè le diverse interpretazioni si accordano sul pun o più importante, cioè che alcuni degli elementi, di cui Platone compone l'anima, sono Idee. Ora l'anima della cui composizione egli p ria, è uni cosa: dunque bisogna anche ammettere che il rapporto tua le Idee e le cose è quello che vi ha tra gli elementi e il loro conposto, ciò che è raffVrmazione più en^rg ca deiriininanenzi delle I Ice. La più parte degl' iuter[»reti t-a ayndeiitnlisti, s(5 non tutti, non accorderebbero, è vero, eh », l'anima è per Plafone una cosa, cioè una SMnpliee realtà fenomenale: essi ammettono invece che l'anima fa parte della classe delle entità matemat'che, che Platone dici) V. per quest'interpretazione Suppl., TV, A. stingaeva, nel periodo pitagoreggiante, dalle Idee propriamente dette 0 Duroeri ideali, e che venivano chiamate entità intermediarie tra le Idee eie co ie; e danno della composzioue delTanima nel T/meo questa interpretazione, che Platone la compone delle Idee e dell'elemento sensibile o della materia, f erchò essa è per lui d'una natura intermediaria fra le Idee e le cose. None qui il luogo di discutere questa identificazione deiranima ad un'entità matematica: qui basterà di osservare che essa lascia intatta la contraddizione che vi ha tra la interpretazione trascendentalista delle Idee e la composizione dell'anima nel Timeo, In effetto, secondo l'interprete trascendentalista, le Idee devono essere trascendent', tanto di fronte alle cose, quando di fronte aUe ent'tà matematiche o intermediari^». Tutte le deterniinazìoni che Platone o Aristotile attribuiscono alle I<le^, di essere delle sostanze, di essere cia^'cuna aOiò xaB'aOxó, di essere x^P-^'c* o xs^^ptaiaéva separabili o separate, ecc., che provano, secondo l'interprete trascendentalista, che le Idee sono fuori delle cose, prov*Tribberò ugualmente che e^se sono fuori delle entità intermediarie. Per conseguenza 1 interprete trascendentalista è costretto in quest'alternativa: o di ammettere che le Idee sono immanenti nelle entità intcrmedia-ie, e allora si avrà Tincongrueuza che le ste-jse determinazioni significh**ranno ora la trascendenza delle Idee e ora la loro immanenza; o di ammettere che le Idee sono fuori delle entità intermediarie, e allora gli elementi di cui l'anima è composta saranno fuori dell'anima. L' identificazione, che noi abbiamo fatto, tra la meteFsi e la parusia sembra contraria a un luogo del Fedone, di cui non dobbiamo tralasciare di occuparci, tanto più che gl'interpreti trascendentalisti vi vedono una prova della loro interpretazione. Ivi Socrate, dopo avere stabilito che vi ha un bello, un buono, un grande ecc., per se stesso, e che una cosa è bella perchè partecipa [lexéxei di quel bello, dice: Dunque io non comprendo più né potrei comprendere queste spiegazioni sapienti alxia; ao^ot^ che ci si danno: ma se alcuno mi dice che una cosa è bella a causa dei suoi colorì vivi o della sua forma o di altre proprietà simili, io lascio andare tutte queste ragioni che non fanno che turbarmi, e dico a me stesso semplicemente e senz'arte, fors'anche troppo semplicemente tacog sOi^eoog che non altro fa bella una cosa se non il bello, per la sua presenza r.apo'ja{a o per la sua partecipazione xoivoovCa o in qualunque modo esso sopravvenga TipoaytYvsTai; che su questo non voglio affermare niente, ma ciò che sostengo è che tutte le cose belle sono belle per il bello. Questa mi pare la risposta più sicura per me e per ogni altro, e appoggiandomi su questa base, penso di non cader mai, ma di poter rispondere sicuramente, io e chiunque altro, che le cose belle sono belle perii bello. Gl'interpreti trascendentalisti vedono in queste parole la prova che Platone non determinò mai esattamente il rapporto tra le cose e le Idee, perchè essi le intendono come se la Tiapo'jota, la xoivwvfa e le altre espressioni di cui egli suole 8»*rvirsi per indicare questo rapporto, significassero delle ip itesi dift'erenti che possono farsi su di esso, e l'autore confessasse che egli era incerto a quale di queste ipotesi sì dove dare la preferenza. Ma contro questa interpretazione sta il fatto evidente che tutte le volte che Platone allude alla metessi o alla parusia, egli non ne parla come di semplici ipotesi, ma la sua lingua è intcamente aftermativo. E per vederlo, non è necessario di uscire dallo stesso Fedone. Nella dimostrazione dell'immortalità dell'anima che noi abbiamo citato vale a dire un po'più giù del luogo di cui si tratta la parusia è espressa della maniera più energica, e, certo, non in un modo dubitativo; e nel luogo smesso di cui si tratta la parola npoo^iy^^zai^ la quale esprime evidentemente la parusia, deve valere per tutti i casi, qualunque sia il nome che si debba dare al rapporto delle Idee con le cose. Della metessì si parla immediatamente prima e un poco dopo di questo luogo stesso due luoghi strettamente connessi con esso, e se ne parla d'una maniera egualmente categorica. In quanto allaxoivowia, essa è per Platone, come si vede abbfl stanza da alcuni dei luoghi citati, un perfetto sinonimo della «jiiGsgic. Ma se la 7iapo*jaia, la xoivcovCa, la [léGsSi?; non sono delle ipotesi differenti sul rapporto delle Idee ron le cose, qual è allora il senso del luogo di cui parliamo V Queste parole e tutte le altro espressonì di cui Platon^ si s rve per indicare il rapporto tra le cose e le Idee, hignificano lo stesser concetto, ma nessuna di esse lo esprime d'una maniera adequata. E che questo rapporto essendo una cosa unica nel suo genere, non vi ha, come abb'amo già detto, alcuna parola che possa esprimerlo. Ciò che vi ha sovratutto d'inesprimibile è naturalmente il carattere di questo rapporto che è la ccusa principale dell'oscurit\ del sistema delle Idee, vale a dire l'es'stenza s'muUanea dell'uno nei molti. Questo carattere essendo necessariamente assente da tutti i fatti osservabili o semplicemente rappresentabili, che le parole 7:apot>a£a, iiéOsgi?, xoivcDvCot, ecc. potevano evocare all'inmaginazioce, ciò basta perchè queste parole fosseio giudicate impossenti ad esprimere la relazione tra le cose e le Id(e. La parusia ha il vantaggio di esprimere del^a maniera [nù e-nergica l'inesistenza delle Idee nelle cose; ma non implica, anzi esclude, l'esistenza simultanea di una stessa Idea in molte cose, perchè la presenza di una cosa in un luogo che è il fatto rappresentabile corrispondente alla parola parusia circoscrive l'esistenza di questa cosa nei limiti di questo luogo particolare. La [léGegig e la xoivwvCa hanno sulla Tiapouota il vantaggio di esprimere che una stessa Idea è comune a molte cose: ma i fatti rappresentabili significati da queste parole si distinguono dal rapporto delle cose con le Idee, perchè, quando più erse partecipano r»d una sola, é necesFario che questa si divida in più parti, o, se resta indivisa, è impossibile che la cosa partecipata entri a far parte della sostanza delle cose partecipanti, come l'Idea delle cose. Platone non dice dunque, nel luogo di cui parliamo, che la TiapouaCa, la xoiv(!)v{a, ecc. sono delle ipotesi diverse che possono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, e che egli non intende affermare categoricamente nessuna di queste ipotesi; ma che il rapporto fra le cose e le Idee potrebbe in certo modo classarsi tra gli uni o gli altri di quelli che i Greci indicano con le parole TiapouaCa, xoivwvta, ecc., ma egli non intende affermare che esso debba classarsi tja gli uni o gli altri, per la semplice ragione che queste classazioni sono tutte inesatte. Che que.Nto rapporto, qualunque sia il nome con cui si debba chiamarlo, sia un rapporto d'immanenza, è del resto ciò di che il nostro luogo porta in se stesso delle prove sufficienti. Il Bello deve essere causa della beltà delle cose belle nei senso stesso in cui lo sono le altre cause sapienti che Platone non approva e a cui viene messo in opposizione, vale a dire i colori vivaci, la forma, ecc.; ma queste non sono delle cause esteriori, ma delle proprietà delle cose che fanno si che si dia ad esse il predicato bello: dunque il Bello, dovendo essere una causa della stessa natura, non può essere una causa esteriore alle cose belle, ma una proprietà di queste cose. Un'altra prova evidente dell'immanenza é l'opposizione che Plalone stabilisce tra le spiegazioni che egli non approva e quella che egli prorone: le prime sono delle spiegazioni sapienti; la sua è una spiegazione sicura, con cui non si rischia di ingannarsi, ma semplice, senz'arte e quasi quasi un'ingenuità. La stessa opposizione è ripetuta un po'più giù, dove dice: Ma che? j-e si aggiunge uno ad uno, non avrai timore di dire che è l'addizione la causa di divenire due, o che questa cau a è la divisione se 1'uno si divide in due? e ron dichiarerai altamente che tu non conosci altro modo con cui una cosa si produca che partecipando iiexaoxóv al'a essenza a lei propria, della quale partecipa jisxdoxr^, e che per conseguenza tu non sai altra causa di divenire due, che la partecipazione disxdoxsaiv della dualità, e che è necessario che partecipi iisxaoxsìv di essa tutto ciò che diviene due, come dell'unità tut o ciò che diviene uno? non abbandrnerai le addizion*, le divisioni e le altre sott-gliezze di questo geuerr, lasciandt>le a dei più sapienti di te? per te, temendo, come suol dirsi, la tua^ombra e la tua ignoranza, non risponderai co.-ì, contentandoti della ipotesi sicura che abbiamo stabilita? Sulla stessa idea m* ritorna: ivi Socrate, domandando a Cebet^ qual è la cosa, che quando sovraggiunge a un oggetto, questo si liscalda, dice a costui che non deve rispondergli con quello stesso che egli domanda, non deve dargli quella risposta sicura, ma ignorante, stabilita al princip'o, cioè che questa cosa è il caldo, ma una risposta più dotta, cioè che è il fuoco. Ora Platone non potrebbe parlare cosi, se ìe cose belle sono belle per il bello volesse dire ehe esse sono tali pò: che sono state fatto ad imitazione dell'Idea trascendent<3 del bello, perchè questa spiegazione sarebbe più ric^rcat», o come dice Platone, più sapiente di qualsiasi altra: le parole di Platone al contrario sono naturalissime, se la Idea è un attributo delle cose, perchè in questo caso la spiegazione ha tutta Tarla di essere una mera tautologia, somigliando a quella del medico di Molière che l'oppio fa dormire perchè ha la virtù dormitiva. E qui il luogo di parlare dì un epiteto che Aristotile dà alle Idee platoniche, e in cui gl'interpreti trascendentalisti vedono una delle prove più forti della loro interpetazi«no. Quest'epiteto è x^ptaxó^ separabile o separato, e Aristotile Io dà alle Idee per indicare il loro rapporto sia con le cose sia tra di loro. Quantunque noi non troviamo questa parola negli scritti platonici, tuttavia l'uso frequente che ne fa Aristotile, quando parla delle Idee, non lascia pressocchè alcun dubbio che si tratti di un'espressione platonica, tanto più che in certi casi jn cui egli Tusa, ha tutta l'aria di riprodurre le proposizioni di Platone o dei platonici con le loro proprie espressioni. Gl'interpreti trascendentalisti intendono per questa parola che le Idee sono separate dalle cose e ciascuna da ciascun'altra: ma noi dobbiamo cercare per essa un signiiìcato che non sia in contraddizione coi risultati evidenti a cui conduce sulla quistione dell'immanenza o trascendenza dello Idee V esame imparziale degli scritti platonici. Noi cerchiamo, ben inteso, non il significato che Aristotile dà alla parola ciò riguarda direttamente, non la dottrina di Platone, ma l'interpretazione aristotelica di questa dottrina, ma quello che esso ha potuto avere per lo stesso Platone. Un primo dato che può metterci sulla via per trovare qupsto significato, noi lo abbiamo nel luogo della Repubblica in cui Platone distingue le percezioni dei sensi che eccitano l'intelligenza alla ricerca e quelle che p. e. Eth. End. Vili. ;f non lo fanno. Le seconde sono quelle che non inviluppano una contrarietà: p. e. alla vista di tre dita, Tintelligen^a non è obbligata a ricercare cosa sia il dito; il seoso lo giudica sufficientemeDtp, perchè ciò che apparisce come dito non apparisce al tempo stesso come il contrario del dito. Le prime invece inviluppano qualche contrarietà: p. e. noi non possiamo percepire una cosa molle che non ci sembra al tempo stesso dura, una cosa grande che non ci sembri al tempo stesso piccola, e viceversa. Il senso non dichiara che la cosa sia ciò piuttosto che il suo cjntrario, e la stessa percezione viene annunziata alFanima come percez'one al tempo stesso del molle e del duro, del grande e del piccolo, ecc. In tali cose, continua Socrate, l'anima eccita la ragione e Tintelligenza a ricercare se ciò che le viene Annunziato sia una sola cosa ovvero due Glaucome: E come no? Sock. E se appaiono due, ciascuna delle d'ie non apparirà differente ed una? Glauc.: Si Socr.: Se dunque ciascuna appare una e amendue due, queste due penserà separate xsxwptoiiéva: se le pensasse non separate àxt&ptaxa, non penserebbe due cose, ma una sola Gl.: È giusto Socr.: La vista, noi diciamo, vedeva il grande e il piccolo; ma non come un che di separato xexwpiafxévovì, ma come un che di confuso o'jYxsxu|iévov. Non è vero? Glauc.: Si Socr.: Ma per rischiarare ciò, l'intelligenza è costretta a vedere il grande e il piccolo, non confusi ooYxsxujisva, ma distinti ÒKop'.afxéva, al contrario del senso- GLAUC.: È vero -SrcR.: E non siamo cosi eccitati a ricercare cosa sia il grande e cosa sia il piccolo?- Gl.: Certo- SocR.: Ed è pure oo^i che abbiamo distinto l'intelligibile dal sensibile- GL.: Giustamente. Qui cvidentemente la parola xsx(opia|iévov non significa che il grande e il piccolo esistono isolatamenle l'uno dall'altro e dalle cos<-, ne la parola àxwpioxov il contrario di questo isolamento: qui non si tratta di altra separazione che di quella che r intelligenza opera nella formazione dei concetti; separato xsxwptaiiévov vuol dire semplicemente astratto, e vedere il grande e il piccolo separati xsxwptajjiéva vuol dire considerarli in astratto, cioè nei loro concetti^ del resto questo grande e questo piccolo che V intelligenza, cioè l'astrazione, vede distinti e separati, lungi di essere dogli ogjyetti trascendenti, sono quello stesso grande e quello stesso piccolo che il senso vede inseparati e confusi nella percezione degli oggetti concreti. Aristotile usa pure spesso le parole lopioxó^ e xexwpia[xévog nel senso di astratto^ e x^p^^^siv nel senso di aHtrarre, Cosi egli dice che gli oggetti della matematica, vale a dire i numeri e le grandezze, sono per il pensiero Xwp'.axa dal movimento; che il matematico x^pi^si questi oggetti; che li pone come xsxo)pia|iéva dagli accidenti cioè dagli attributi concomitanti con cui esistono nelle cose; o semplicemente che li apprende o li contempla come xextópt<^|AÌva o come x^ptaxcc. Similmente la forma elSoaj è per Aristotile x^Pv secondo il concetto, quantunque non lo sia nella realtà; e cosi pure la materia. Il senso delia parola x^ptaióg per Platone, per metterlo d'accordo coi concetti di questo filos-^'fo che nni conosciamo dalle sue proprie opere, deve essere determinato in conformità di questi dati; e allora noi otteniamo per questa parola un significato presso Phis, MeL De an, Met. Phys. Met. ecc. JJe Geu. 1. I, V. G. :jt, "Vche identico a quello dell'espressione aOxè xaO'aOtó. XtopioTÓg che noi dobbiamo tradarre non per separato, ma per separaò/7e~.8ignifica che ciascuna Idea, cioè ciascun attributo, a cui questo nome viene applicato, può isolarsi, per il pensiero, da tutti gli altri attributi con cui esso coesiste nelle cose, e che, concepito in questo isolamento, è ancora una realtà, perchè, essendo una sostanza e non semplicemente un attributo, la sua esistenza è indipendente dall'esistenza degli altri e da quella delle cose in cui coesiste con gli altri. Lldea ò detta separabile dalle cose e dalle altre Idee e dalla materia, che, nell'ultima forma del sistema platonico, è un elementi delle cose distinto dalle Idee -come iu un oggetto materiale una parte si dice separabile dal tutto e dalle altre parti con cui forma questo tutto; c'oè perchè avendo un'esistenza propria e distinta, il pensiero può rappresentarsela come separata, quantunque in fatto non lo sia. Anche secondo il concettualista noi possiamo rappresentarci ciascun attributo separatamente dagli altri, staccandolo per il pensiero dai tutti concreti nei quali coesiste con essi: ma il concettualsmo non ammette che gli attributi esistano nel tutto concreto di cui sono le parti concettuali, di un'esistenza propria e distinta come vi esistono le parti materiali. Per conseguenza il concettualista Aristotile non può attribuire all'sleos il nome Xcoptaxóv senza fare delle riserve: è che questo nome non gli conviene propriamente che nel sistema realista di Platone, perchè dire uoa cosa separabile importa, non solo che essa può essere concepita separatamente, ma che può essere concepita separatamente come reale. Delredto, quantunque il termine xop'.axós, applicato alle Supplem. entità platoniche, implichi spesso, nell'uso che ne fa Aristotile, la separaz-ofie di queste entità nel senso del l'interpretazione trascendentalista per la ragione che egli n'n può concepire che ciò che è una sostanza sia al tempo stesso un attributo e un attributo comune a molte cose, pure non mancano nello stesso Aristotile degli esempi che confermano che il senso del termine per Platone è quello che noi abbiamo detto. Cosi egli chiama xwpiaxóv lo spazio che secondo i Platonici costituisce la materia dei corpi e non esiste altrove che nei corpi stessi, e dice che Platone nel Timeo non ha spiegato se ciò che riceve tutto xò TravSsxé?: si separi XwpiCisxa'. dagli elementi il ^xavesxés a cui allude Aristotile è la materia <iuale viene rappresentata nel Timeo, in cui Platone la det'^rmina d'una maniera che l'avvicina al'a materia aristotelica, e sembra per conseguenza farne un principio distinto dallo spazio. Siccome la materia platonica è certamente un principio immanente, cosi in questi casi non può trattarsi di una separazione rea'e, nel senso trascendentalista, ma di questa separabilità ideale che nel sistema realista compete all'astratto, quantunque questo sistema non lo consideri che come un elemento del concreto. Xwpiaxóv è chiamato pure da Aristotile V infinito che secondo Platone è la materia tanto delle cose quanto delle Idee p. e.: in MeL; ed anche questa è senza dubbio una entità immanente, come lo stesso Aristotile attesta nei termini più chiari nella Fhys., in cui dice che per Platone T infinito è nelle cos3 sensibili e nelle Idee. Phys. De general, V. pare il nanxero seguente. Il senso che noi diamo alla parola x^P'-oxo^ risulta anche nettamente dalla Met.: ivi Aristotile domanda come il numero venga dagli elementi (rUno e la Dualità indefinita; sesia per la mescolanza l^'-È'-s o per la composizione aùvOsais di questi elementi. Nel primo caso, egli obbietta, l'uno non sarebbe xwptaióv. Qui xwp'.oTÓv non deve intendersi nel senso trascendentalista, perchè allora l'obbiezione sussisterebbe anche nell'ipotesi che il numero venisse dagli elementi per compos'zione; mentre per Aristotile essa non sussiste che nell'ipotesi in cui esso ne viene per mescolanza. Il senso dell'obbiezione d'Aristotile è che nella mescolanza gli elementi non conservano un'esistenza propria e distinU come nella composizione, perchè il proprio della mescolanza fiig- è l'annullamento delle sostanze mescolate come sostanze distinte e la sostiiuzione ad is^e di una nuova sostanza; per conseguenza se il numiro venisse dalla mescolanza dell'Uno e della Dualità indefinita, questi elementi non potrebbero esistere nel numero di una esistenza propria e distinta come vuole Platone. Aggiungerò infine che in Met., facendo duo ipotesi sul rapporto tra le Idee generi.rhe e le specifiche, di cui l'una è che l'Idea generica esista, numericanente una e la stessa, in ciascuna delle Idee specifiche, applica a quella il termine x^P'-^xó^ tanto riguardo a queste quanto riguardo agV individui in quest'ipotesi stessa, che è evidentemente quella dell'immanenza. L'uso che Aristotile e Platone stesso nel luogo citato deUa Repubblica fanno del verbo x^p^^stv edeisuoi'derivati, ci autorizza a supporre che questo verbo era un termine tecnico di cui Platone si serviva per denotare quest'operazione del pensiero che noi chiamiamo astrarre, con questa differenza, beninteso, che, mentre per noi l'astrazione è un artifizio puramente subbiettivo che non ha alcun ìli riscontro nella realtà, al contrario per Platone, come pertutti i filosofi r**fl listi, essa è l'organo per cui lo spirito apprende la real'à vera, e quindi l'operazione dove includere, per Platone un momento di più che per noi, vale a dire l'afiVrmaz'onc dell'esistenza indipendente dell'oggetto che ne era il risultato. E certo almeno che Platone usa in questo senso delle espressioni analoghe, p. e.à^aipsìv l'Idea del bene da tutte le altre, à^opi^sLv , ecc. Quest'uso della parola x^'^P-Jstv spiegherebbe perfettamente quello di x^pt-aióg, che significherebbe, secondo la sua etimologia, astraibile o astratto, implicando naturalmente nel senso di queste parole l'idea dell'esistenza per sé, che secondo noi è agli antipoii dell'astrazione, ma secondo Platone ne era inseparabile. Oltre all'ep'teto di xwp'-axóg, Aristotile dà alle entità platoniche quello di xsxwpiajiévos che però non usa cosi spesso come il primo. Sul senso di questa parola bisogna fare una distinzione: l'sl^os può es<=»ere detto o y.Byoyp\.Gliv^o'^ seniplicemente, o xsxwpiajiévov dalle cose sensibili, dagli esseri, ecc. Il primo di questi due casi non presenta alcuna difficoltà: nell'ipotesi dell'immanenza, cosi bene che in quella della trascendenza, ciascuna Idea è separata dalle altre Tcioè non da tutte, ma da tutte quelle di cui non è né un genere né una specie e dalla materia, quantunque unita con esse negli oggetti concreti in cui essa è presente; perchè l'Idea è una sostanza, e una sostanza esiste in se stessa e al di fuori delle altre. In quanto al secondo caso, xsxwp'.ajxévog dalle cose potrebbe significare: che è stato separato j9er il jyensiero dalle cose; e in Rep. L'Idea del bene è l'sido; degli sl^r^» e perciò si trova in tutte le Idee. Parmen. VELIA <" ; 1 f questo senso l'espressione si applicherebbe alle Idee considerate, non assolutamente, ma in relazione all'operazione dello spirito che noi chiamiamo astrarre^ e che Platone avrebbe chiamato xcopJJsiv. Il bello, il buono, il grande, ecc. xsxwptojiéva dalle coj^e vorrebbe dire il bello, il buono, il grande, ecc. concepiti in se stessi, cioè quali appariscono al pensiero dopo che questo ha isolato ciascuno di essi dagli altri attributi e da tutte le circostanze particolari che lo accompagnano negli oggetti concreti. Ma Aristotile applica questa e simili espressioni alle Idee, considerandole evidentemente, non in relazione alToperazìone dello spirito per cui l'Idea viene appresa in se stessa, ma assolutamente: p. e. egli dice: secondo alcuni le entità matematiche sono xsxwpiaiJisva dai sensibili, secondo altri nei sensibili stessi. Quest'uso della parola xsx^opto|jL£voc; sembra implicare la t'-ascendcnza deMe I Ice, ed affettivamente Aristotile la impiega in questo senso. Ma siccome non vi ha alcuna ragione per ammettere che le espressioni d'Aristotile siano la riproduzione fedele di quelle di Platone, cosi non può farsi di quest'uso del'a parola xsxwpiaiisvoj un argomento diretto a favore della trascendenza, a parte quello, certamente grave, ma indiretto, che può tirarsi dall'autorità d'Aristotile come interprete del sistvima platonico. Il rapporto tra le Ide3 generiche e le Idee specifiche non può essere che identico a quello tra le Idee e le cose: se il primo rapporto è d'immanenza, il secondo non può essere di trascendenza. Ciò risulta prima di tutto dall'indole stessa della teoria delle Idee. Gli stessi motivi che Platone aveva per ammettere l'immanenza dei Generi nelle Specie, dovevano anche fargli ammettere la immanenza delle Specie negl'individui: s'egli riguarda i Generi come inerenti nelle Specie, ciò non poteva essere che per questa ragione assai semplice, che il gene-rale non si trova altrove che nel particolare; ma per la stessa ragione egli dove riguardare le Specie come ine-renti negl'individui. Dall'altra parte, tutte le inconcepibilità legate, nella dottrina dell'immanenza, alla sostantificazione degli universali, esistevano egualmente, tanto nel rapporto tra le Idee e le cose quanto in quello tra le Idee generiche e le Id^». specifiche. Se Platone avesse ammesso la trascendenza delle Idee rispetto alle cose pfr evitare l'assurdità che una sostanzi inerisca in altre sostanze come attributo, che l'uno si trovi simultaneamente in ciascuno dei molti, ecc.; per gli stessi motivi egli avrcbbc dovuto ammettere la trascendenza delle Idee dei generi ri^^petto alle Idee delle specie. Per conseguenza tutte le determinazioni delle Idee, che all'interprete trascendentalista sembrano una prova della separazione delle Idee dalle cose, proverebbe! o pure la separazione delle Idee generali dalle Idee più particolari. Se i termini ov, oOata, aOxò %a(i'aOxó, e gli altri attribuiti alle Idee per indicare la loro sussistenza per s^ stesse, significano, nonsolo che l'Idea è una sostanza, ma che è una sostanza che esiste separatamente da ogni altra; l'Idea sarà separata tanto dalle cose quanto da tutte le altre Idee. Se il Xcopiaió; e il x£x^'>?-^IJ'*voc; d'Aristotile prov^ano la trascendenza dell'Idea di fronte all'oggetto riguardo a cui questi termini le vengono attribuiti, essi proveranno la trascendenza delle Idee gen'^riche di tronte alle Idee spe-ifiche, j eichè Aristotile li attribuisce alle prime a riguardo delle seconde. Se quando le Idee si dicono Met, Xni, Klh. End., y[el., ecc. i essere :iapà ì sensibili, noi dobbiamo intendere, non solo che esse sono delle sostanze distinte dalle sensibili, ma ancora che esistono al di fuori di queste; bisogDerà ammettere pure che le Idee dei gi neri sono al di lucri delle Idee delle Specie, perchè le prime hoio dette essere Tiapd le seconde (Ij. E in una parola, tutte le prove che secondo grinterpreti trascendentalisti dimostrano la trascendenza dille Idee di fronte allo cose, dimostrerebbero egualmente quella delle Idee più generali di fronte alle Idee p ù part colarì, perchè queste prove si riducono, jn uliima analisi, alla sostantificazione delle Idee e alla loro dist'nzione dall^*. cose. Ag^riungiamo che gli stessi termini e le stcss^, formule di cui Piatone si serve per indicare il rapporto tra le Idee e le cose, gli servono ugualmente per indicare il rapporto tra le Idee più generigli e le Idee più particolari. Cosi, quando Platone chiama la generalizzazione una oDvaYcoYTp cu è una riduzione del multiplo liirunità; quando chiama l'Idea l'uno nei molti; quando dice che Tuno è molti e i molti sono uno; quest'uno di cui ej^li parla è tanto l'Idea rispetto alle cose, quanto la Idea generica rispetto alle Idee sprcifiche, e i molt», tanto le cose rispetto all'Id^^a quanto le Idee specifiche rispetto all'Idea generica (2j: ora, la relazione che Platone stabilisce tra TYino e i molt', non può nei due casi essere difiFerenie. Così pure la p'irola partecipare cioè le parole gre. 'he che le corrispondono non può avere due sensi differenti, quando Piatone dico delle cose che partecipano alle Idee, e quanio dice delle Idee che partecipano ad à'tre Idee più generali. Ari-;t. Met. FJth. lùid., Vili, Plato. Sof. Segue da ciò che abbiamo detto che ciò che prova immediatamente l'immanenza delle Idee più generali nelle Idee più part'colari, prova anche mediatamente l'immanenza delle Idee nelle cose. È a questi clas?e di prove che appartengono, almene in parte, alcune di quelle esposte nei numeri precedenti notevolmeilte la comunione dei generi del Sofista, l'identità tra l'uno e i molti del Fllebo, la «-eneralizzazione considerata come una riduzione del multiplo all'uno: le prove che esp^rr^mo nel presente numero appartengono pure alla stessa classe. Il rapporto fra le Idee generali e le Idee particolari è considerato da Platone a un doppio punto di vista», corrispondente al doppio punto di vista sotto cui possono considerarsi i concetti, (juello dell'estensione, e quello dell'intensione. A Considerando i concet*;i, e quindi le Idee, che non sono se non i concetti realizzati, al punto di vista delPestensione, le Idee specifiche sono contenute nelle Idee generiche. Questo punto dì vista è naturalmente quello della dialettica, poiché la dialettica platonica è la divisione del genere nelle specie, e considera quindi il genere nella sua estensione. Siccome nella divisione diaipsT.; le specie sono riguardate come parti del genf^re, e l'oggetto proprio di questo metodo sono esclusivamente 1^, Id'e, cosi la dialettica vale a dire 1'uno dei due elementi costitutivi df Ila teoria delle Idee ha p«»r bas^. il concetto che le Idee specifiche ^ono^Mr/ideiridea generica. Per la prova della proposizione che l'oggetto proprio ed esclusivo della divisione sono le Idee, rimando al num.: in quanto alla proposzione che nf^lla divisione le specie sono riguardate come parti del genere, sembrerà una puerilità di credere che sia necessario di prov<irla. Tuttavia siccome può esservi (jualche lettore che noa abbia alcuna V nozione della dieresi platonica, e questi potrebbe immaginare che Platone nelle sue dieresi non riguarda le specie in cui il genere viene diviso come parti di esso ciò che infatti sarebbe la conseguenza inevitabile dell'ipotesi della trascendenza, cosi non sarà torse inutile di provare coi testi 'anche questa proposizione. Perciò basteranno i due luoghi seguenti: Polii,: Lo straniero riprovando una divisione di Socrate: Non separiamo una pi«cola parte per opporla ad altre grandi e numerose, né prendiamo una parte soìza la specie, ma la parte abbia al tempo stesso specie. E bello di separare subito da tutto il resto ciò che si cerca ma vale di più andare dividendo per metà, e meglio cosi scopriremo le Id'»e; ora è ciò che importa sovratutto in ogni ricerca Socr.: Ma come si può i atendere più chiaramente che la parte e la specie non sono la stessa cosa, ma due cos^ difieren^iV Lo stran.: Ottimo fra gli uomini, non è lieve ciò che mi domandi Guardati bene però di pensare di aver udito da me alcuna cosa determinata intorno a questo Socr.: Intorno a che? Lo «tran.: Che la part^ e la specie siano due cose differenti Socr.: Perchè? Lo STRAN.: La specie v necessarìamente^ una parte di ciò di cui si dice che è una specie, ma non è necessario che una parte sia al tempo stesso una specie. Non dimenticare mai, 0 Socrate, che io cerco di dividere di questa maniera cioè par parti che sono specie anziché delPaltra cioè per semplici parli. Fedro: Vi hanno due cose che sarebbe interessante che un uomo abUe potesse trattare con arte. Prima, di ricondurre ad un'Idea unica, guardandolo con una veduta comprensiva, lutto ciò che è sparso da una parte e dall'altra e poi di sapere di nuovo dividere per ispecie come per altrettante articolazioni naturali, cercando di non mutilare alcuna parte come farebbe un cattivo scalco. Cosi poco fa i nostri due discorsi fatti l'uno in lode, e Paltro in biasimo dell'amore hanno cominciato per prendere la specie generale del delirio, e come un sol corpo si compone di membra doppie, chiamate con lo stesso nome, cioè le destre e le sinistre, similmente essi hanno considerato il delirio come una specie unica, e Puno, dividendo la parte sin^'stra e suddividendola, non si è fermato che dopo aver trovato un certo sinistro amore, ch'esso ha colmato di rimproveri ben meritati; l'altro, avendo preso la destra del delirio, vi ha trovato un altro amore, simile al primo di nome, ma divino, che ha colmato di lodi, vantandolo come l'autore dei più grandi beni. Per me, o Fedro, io sono amante di queste divisioni e riunioni aovaY0)Yó5v, per essere più in grado di ben pensare e di ben parlare; e se credo di scorgere in alcuno la capacità di guardare all'uno e ai molti, io seguo le sue orme come quelle d'un dio. Quelli che hanno questa capacità, dio sa se a torto o a ragione, io li chiamo sin qui dialettici. In questi luoghi non potrebbe supporsi che Platone, mentre riguarda le specie come parti del genere diviso, dimentica il suo principio che l'oggetto a cui si applica la dieresi sono le Idee ciò che è la sola risorsa a cui potrebbe ricorrere l' interprete trascendentalista per negare che le Idee specifiche siano considerate come parti dell'Idea generica Infatti in essi è affermato esplicitamente che il vero oggetto della dieresi sono le Idee: e oltre di ciò la supposizione potrebbe al più essere ammissibile nei casi in cui questo metodo non è che praticato; la pratica, potrebbe dirsi in questi casi, non corrisponde alla teoria; ma nei due luoghi citati Platone si mette al punto di vista teorico, dandone nell'uno delle regole, e nell'altro inculcandolo come metodo generale, e ciò con un'enfasi che basterebbe essa sola a provare che egli lo -considera nella sua applicazione alle Idee, poiché è in quest'applicazione che esso diviene una soluzione del problema delle cause, efficienti, e acquista perciò il pregio inestimabile in cui è tenuto da Platone. Del resto, oltre alle dieresi e ai luoghi relativi a questo metodo, che Tlatone riguardi le Idee sprcifiche come parti deir Idea generica, risulta anche da altri luoghi, nei quali non vi ha alcun dubbio che le specie e i generi di cui si tratta sono le Ideo. Cosi nel Sofista: La ^ùgk; del diverso mi pare essere frazionata xaTa/.sxspfxaxio^aO come la scienza. Questa è pure una; ma ciascuna parte di e^^sa, riferendosi a un soggetto particolare, prende un nome particolare; e perciò vi hanno molte arti e molte scienze Senza dubbio Non vale la stessa cosa per le parti .uópia della y-Jx^ del diverso, un-> in Fé stessa V Forse, ma spiega in che modo Vi ha una parte iiópiov del Diverso, che si oppone al Bello? Si Ha qualche nome o non ne ha V ~ Lo ha; perchè ciò che chiamiamo non bello non è che ciò che è diverso dalla cpóac; del bello Bisogna porre nel numero degli esseri il Non hello non meno che il Bello? Non meno E bisogna pure dire che il Non grande è similmente che il OrandeV Similmente Dunque anche il Non giusto porremo di fronte al Giusto, come se il primo non esis a meno che il secondo V Certamente E lo stesso vale per le altre cose, poiché noi abbiamoo visto che la cpjot; del diverso è nel numero d^gli esseri; e ammettendo che essa è, bisogna anche ammettere che le sue parti ixópiaj sono E come no V Per conseguenza Topposizione di una parte jióp.o'j della (f'jG.g del diverso a quella dell'essere non è meno un essere che l'Essere stesso; e significa, non il contrario di questo, ma solamente il diverso Evidentemente Come la chiameremo V È chiaro che è il Non essere, che noi cerca v^amo pin causa del sofif1sta Noi abbiamo non solo dimostrato che i non esseri sono, ma spiegato ancora che cosa sia la specie del non essere; poiché avendo provato che esiste la cpóots del diverso, e che si trova divisa xaTaxsxspiiaxtaiiévYjv in tutti gli esseri, nella loro relazione reciproca, abbiamo osato di dire che la parte iiiòp\.o^) di essa, opposta a ciascun essere, è realmente il Non essere. Nel 7imeo si cerca quale sia Tanimale l'animale Idea, non "animale cosa a somiglianza del quale il mondo è stato f'atto. Quest'animale, dice Timeo, non può essere uno (<i quelli che sono nel genere della parte jiico'; cioè che sono delle parti, perchè ciò che è fatto a somiglianza delT imperfetto non può essere bello; ma è l'animale <f di cui tutti gli altri animali, presi per generi e per individui cioè ppr ispecie, perchè gì'individui di cui qui si tratta sono Idee, sono delle parti jidpia. Esso contiene in sé iv éaoxò TispiXagòv sxet tutti gli animali intelligibili, come questo mondo contiene noi e tutti gli animali visibili». Per conseguenza essendo fatto sopra un tale esemplare, il mondo è unico: poiché quello che contiene xò Tispiexov tutti gli animali intelligibili non può essere un secondo con un altro; perché allora esisterebbe necessariamente un altro ancora, di cui ciascuno dei due sarebbe una parte népo;, e il mondo sarebbe stato fatto a somiglianza, non di questi due, ma di quest'altro che conterrebbe rwspié/ov tutti e due. Affinché dunque questo mondo fosse simile per la sua unità all'animale assoluto TiavTSAsì, il suo autore non ne ha fatto né due né un'infinità, iva non ha prodotto che questo solo cielo, che è e sarà unico. Cominciando a narrare la produzione degli animali, Timeo dice che il mondo, in quanto al resto, somigliava al modello alla cui imitazione è stato fatto, e ma non racchiudendo tutti gli animali che sono nati nel suo seno, per questa ragione era ancora dissimilt; perciò il Demiurgo aggìuDgcva ciò che gli mancava, riproducendo la natura del suo modello. Per conseguenza, quali e quante specie V intelligenza vede inesistenti rivo'iaa^ in ciò che e animale xòi '6 iaii ?;tr)ov), tali e tante h labili che questo mondo dovesse riceverne». Quest'animale assoluto o intero, che contiene tutti gli altri animali intelligibili come delle parti, non può essere che l'Idea generale dell'animale. In effetti, quando un nome (FIDO) si riferisce alle Idee (FIDONESS), non può significare nella lingua di Platone che l'Idea delle cosr a cui questo nome appartiene. Ciò è coul'ermato inoltre dall'argomento con cui Platone dimostra che quest'animale ò unico, cioè 'he se ve ne fossero due, ve ne sarebbe anche necessariamente un altro, che li conterrebbe amendue, e sarebbe questo l'animale assoluto. Lo stesso argomento si trova nel'a Rep, per dimostrare che non |,uò esistei e che una sola Idea del letto; e sotto una forma generale può svilupparsi cesi: per tutti i molti compresi sot.o un concetto comune vi ha un'Idea ciò che è dimostrato dalla prova per l'esistenza delle Idee, e non può esservene che una sola, poiché, se ve ne fossero di più, queste farebbero parto dei molti compresi sotto il concetto eoinuiu', perciò al di bopra dì questa nini-' liplicità bisognerebbe cercare aucora un'unità, e sarebbe «iuella, e non le precedenti, l'Idea dei molti compresi sotto ifconcetto comune. Infine ciò che toglie ogni dubbio è la denominazione di o sar. ^coov, perche o san equivale ad aOxó, e significa che il -lome acuì si aggiunge viene applicato all'Idea delle cose denotato da questo nome. Platone può riguardare T Idea dell'animale come l'esemplare del mondo, perchè, siccome egli ammette l'animazione delle piante, della terra e degli astri, cosi ogni sostanza è per lui un essere animato o almeno una parte di un essere animato; e per conseguenza, tutti gli oggetti dei nostri concetti essendo con. U'uuti nelle sostanze, le Idee degli esseri animati, cioè le parti dell'Idea dell'animale, esauriscono in un certo modo tutto il contenuto del mondo ideale. La relazione di tutto e parti stabilita tra l' Idea generale e le Idee particolari subordinate presenta una difficoltà. La specie è certamente uux parte del genere, se por genere e per ispecle s'intende la collettività degl'individui: ma V Idea non «• la collettività degl'individui, ma solamente l'attributo o insieme d'attributi comune a questa collettività GRICE EXTENSIONALISM AS bete noire MINIMALISM. Ora l'insieme degli attributi specifici non è contenuto come una parte nell'insieme degli attributi generici. Sembra dunque che il concetto che l'Idea specifica abbia con l'Idea generica la relazione della parte col tutto, sia incoaapatibile, tanto con l'ipotesi della trascendenza delle Idee, quanto con quella della loro immanenza. Per risolvere questa difficoltà bisogna ricordarsi della formula platonica che l'uno è i molti e i molti sono Tuno, e della sp'egazione che ne abbiano data. Tra l'uno e i molti cioè tra il (ien^re e le Specie, tra la Specie e gl'individui vi ha una relazione che è al tempo stesso di differenza e d'identità. L'uno e i molti, nell'ipotesi dell'immanenza, s'identificano necessariamente, perchè sono la stessa co3a, il primo in astratto (dog, shaggy), i secondi in concreto – Smith’s dog Fido is shaggy --; quantun(|ue al tempo stesso si distinguano, perchè l'astratto e il concreto non sono solamente due punti di vista subbiettivi sotto cui la stessa cosa viene considerata, ma due gradi o momenti successivi logicamente dello sviluppo dell'essere, che, pur conservandosi identico a se stesso, passa continuamente questa è la vita dellldea da uno stato più astratto o più indeterminato a uno stato più concreto o più determinato. Questa determinazione o concretizzazione progressiva dello stesso essere, ammessa necessariamente in tutti 1 sistemi che realizzano gli universali, nel sistema di Platone, per la maniera in cui egli concei)isce la d'aJettica, cioè il metodo di dedurre le Idee metodo che non è altra cosa, in Platone come negli altri metafisici realisti, che la riproduzione subbiettiva di questo stesso processo per cui Tessere si sviluppa por una concretizzazione progressiva è al tempo stesso una divisione progressiva, ciò chs nel momento anteriore, più indeterminato, è wno, nel momento posteriore, più determinato, trovandosi molti, Platone chiama dunque ciascuno dei molti una parte deir^mo, poiché i molti non sono che Vuno stesso che, det'^rminandosi, si divìde. Certamente questo concetto non è facile a comprendere, «nzi, per dire la cosa com'è, é assolutauif^nte inintelligibile; ma è la conseguenza inevitabile de'la reaMzzazione degli universali. Questa conseguenza però non ha luogo che quando dell'universale si fa un'entità immanente, vale a dire quando, realizzanlos», esso non cessa di essere veramente un universale, cioè la proprietà cornine dei particolari. Ma se l'Idea è trascendente, essa non è più, a parlar propriamente, Tuniversile, non è più le cose stesse considerate dal punto di vista dell'astrazione: allora l'astratto e il concreto, l'uno e i molti, sono solamente distinti, e non al t-^mpo stesso distinti e identificati. Il rapporto di tutto e parti stabilito tra l'Idea generica e le Idee specifiche ci fa comprendere certe locuzioni che al punto di vista ordinario sarebbero strane. Platone chiama le specie di un genere parti jiipr^, iióP'.a, T»jn^naxa, ecc. dell'oggetto deao'aco dal nome generico, e qu^^sto tutto oXo;, ;, ecc. relativamente alle specie del genere. Cosi, oltre agli esempi di queste locuzioni nelle dieresi delle arti e delle scienze del Sofista e del Politico, dice: le parti del delirio Fedro, dell'imprudenza Alcib., dell'ignoranza Sof. Jìl, della figura ML, ecc., intendendo le loro specie; neWEutifr. J; oL P^^^'1 Sì^^^o; nel Font., eh egli ha diviso tutto quanto l'animale domestico e vivente in gregge; nel Conr., che un sl5o; part colare dell'amore é chiamato col nome del tutto amore; ecc.. Il delirio, il piacere, la figura, ecc., non significano la collettività delle cose o dei fenomeni chia-mati con (luesti nomi, ma il concetto della cosa o del fénomeno la generale: cosi le loro specie non potrebbero, al punto di vista comune, esserne chiamate delle parti' Se Platone lo ia, è perchè, secondo luì, il concetto si ri^ ferisce all'Idea, e le Idee specifiche sono parti deiridea generica. Per conseguenza, per questo delirio, per questo piacere, per questa figura, ecc., bisogna intendere la Idea del delirio, del piacere, d^lla figura, ecc.: e siccome nella più parte di questi casi, se non in tutti, è evidente che Platone non parla di entità trascendenti, ma del delirio, del piacere, della figura, ecc. in noi e nelle cose, cosi noi dobbiamo vedervi un'altra prova immediata dell'immanenza delle Idee. rn'altra maniera di formulare il rapporto tra l'Idea più generale e le Idee più particolari ad essa subordinate, è di riguardare la prima come contenente e le seconde come contenute. K ciò che si vede nei luoghi citati del 7meo e in tanti altri, tra cui basterà d'indicare Sof. luogo citato al num. carta e Sof., Jydro , l'olit. luoghi citati al n. «)! Evidentemente Platone non può dire che l'Idea generale co atiene le Idee particolari che nello stesso senso in cui noi Menane, luogo citato a carta, e: / diciamo che il concetto generale contiene i concotti particolari; vale a dire in quanto le sfere, in estensione, delle seconde cadono dentro la sfera, in estensione, della prima. Ora l'estensione GRICE EXTENSIONALISM non è una proprietà che appartiene agli oggetti dei nostri concetti, agli astratii, considerati in se stessi, cioè nel loro coiìtenuto intrinseco; ma appartiene ad essi in ragione degli oggetti, i concreti, di cui essi sono gli attributi. Noi diciamo che animale è PIU ESTESO di uomo^ e lo contiene, in quanto gli oggetti di cui si predica animale, sono più numerosi di quelli di cui si predica uomo, e la totalità dei secondi è una parte della totalità dei primi. In assenza di oggetti, di cui uomo e animale siano gli attributi, non potrebbe parlarsi, per essi, di estension'^, non potrebbe dirsi che il secondo è più esteso del primo e lo contiene. Ora, secondo gFinterpreti trascendentalisti, non vi hanno, \ov Platone, oggetti, di cui uoìno e animale^ considerati come Idee, siano gli attributi: Tldea dell'uomo non è un attributo degli uomini, Tldea delP animale non è un attributo degli animali, ne degli animali cose, ne degli animali Idee. Per conseguenza, Platone non potrebbe dire dell'Idea dell'animale ch'essa contiene l'Idea dell'uomo e degli altri animali: le Idee, separate dalle cose e le une dalle altre, avrebbero semplicemente INTENSIONE, non avrebbero estensione. lo ho creduto di dover distinii*ip Noi dobbiamo vedere perciò una prova dell'immanenza delle Idee in lutti i casi in generale in cai Platone attribuisce ad esse un'estensione. P. e. nel Sof. luogo citato nel numero |)recedente, dove chiama le Idee dell'essere, «iello stato e del movimento i generi pia grandi {isyiaia tra quelli di cui egli ha parlato: non potrebbe chiamarli cosi, se non li riguardasse come contenenti, nella loro estensione, un più gran numero di oggetti che sVi altri. guere la proposizione che l'Idea generica contiene le Idee specifiche da quella che le Idee specifiche sono parti dell'Idea generica, quantunque in certi casi, come nei luoghi cH«iti del Timeo, le due proposizioni siano evidentemente equivalenti, perchè la prima non include necessariaiaente nel suo significato questa identificazione dell'uno coi molti inclusa nel significato della seconda. Per rappresentarsi un'Idea come inviluppante, nella sfera della sua estensione, un'altra Idea, Platone non ha bisogno di riguardare la seconda come una parte della prima, ma solo di riguardare la totalità degli oggetti in cui /rova la seconda come una parte della totalità degli oggetti in cui st trova la prima. Considerando le Idee al punto di vista dell'intensione, le Idee generali sono contenute nelle Idee particolari. Una delle prove più palpabili di questa proposizione ci è fornita dallo stesso Aristotile, malgrado la sua innegabile inclinazione verso l'interpretazione trascendentalista: è la dottrina dei due elementi delle Idee e delle cose dottrina appartenente alle ultime speculazioni di Platone, e per la cui conoscenza noi siamo ridotti quasi unicamente all'autorità d'Aristotile Secondo questa dottrina, tutte le Idee sono costituite da due elementi oToixsta che corrispondono al Fine e Infinito dei Pitagorici, e che Aristotile chiama talvolta con questi stessi nomi, ma il più ordinariamente con quelli di Essere e Non essere o al punto di vista della teoria dei numeri, ai quali le Idee venivano identificate di Uno e Dualità indefinita o Grande e Piccolo. L'uno o essere era la essenza oOaia o forma o specie zllo^ di tutte le Idee; la dualità indefinita o non essere ne era la materia. Mot. Il nome dì elemmii dato ai due prìncipìì ultimi delle cose non deve farci illusione sul vero significato di questa dottrina: queste due entità non sono al fondo che due Idee generiche, a cui tutte le altre sono subordinate come loro specie, vale a dire dei predicali universali, comuni a tutti gli esseri, considerati come delle sostanze per cui vengono loro applicati i termini aOxó, xaH'aóió, x^ptoTóv, indicanti lastrattezza dell'Idea e insieme la sua sostanzialità, e ciascuno come uno nel molti. In verità Piatone non considera rome Idea di genere nel senso stretto che quello dei due elementi che fa da sl5o;, e che non è altra cosa che T Id*>a del bene (4j, che nella Rep. daU come il principio dell'essere e della conoscenza è questo, come vedremo a suo luogo, un artifizio destinato a conciliare la dottrina, dovuta ai Pitagorici, di una dualitii di principii con l'esigenza della dialettica, cioè della dieresi, la quale richiede al vertice della piramide che costituiva il mondo ideale, non due Idee, ma una Idea unica come genere supremo: ma la denominazione stessa di materia delle Idee data all'altro elemento, per distinguerlo da un'Idea di geaere propriamente detta, ci dice Met. a. pel Xon essere Plato. Suf, . Phys. Mct. EUi. Eud. 1. I. vnu 14, eoo. abbastanza che anch'esso è al fondo un predicato generale, comune a tutte le cose meno, s'intende, l'elemento opposto poiché il nome d'una materia il legno, l'oro, ecc.: è un nome generico applicabile alle cose che sono fatte interamente di questa materia. Per conseguenza tra i due elementi e le Idee deve esservi lo stesso rapporto, d'immanenza o di trascendenza, che vi ha tra le Idee dei generi e «juclle delle specie, e questo non può, come abbiamo detto, differire da quello che vi ha tra le Idee delle specie e le cose individuali. Tanto piti che il rapjorto tra i due elementi e le Idee è designato dagli stessi termini che designaao quello tra le Idee generiche e le specifiche o tra le Idee e le cose: p. e. le Idee sono dette partecipare ijlstsxsiv agli elementi, e questi sono chiamati separabili o separati xwpiaia o y.sy/oP'.ajjiéva. (Jli stessi termini, come abbiamo più volte o^^servato, non potrebbero indicare, in un caso, un rapporto d'immanenza, e in un altro, un rapporto di trascendenza. Ora non vi ha dubbio che il rapporto dei dtie principii con le Idee sia quello dell'immanenza: se non fosse cosi, non potrebbero essere chiamati elementi, e l'uno materia, l'altro forma o essenza, delle Idee. E si noti che Aristotile prenie la parola elemento nel senso stretto: cosi egli fa inerire OTcocpxstv, svjTiapxstv, slvai sv i dae principii negli esseri derivati; chiama questi, rapporto ad essi, dei composti aóvS'cxa 4j; paragona MH, Mei, ^fcL . m. Phys., eoe. Mt't. '\ n modo in cui essi formano gVi esseri a quello in cui le lettere formano le sillabe; li considera entrambi come materia dei composti; e fa l'obbiezione che, se ciascun elemento è uno di numero come dice Platone, e non semplicemente di specie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi. Un'osservazione analoga vale per il nome di materia dato all'uno dei due principii: questo principio è per Aristotile il sustrato j-oy.s:jisvov, nelle Idee, al quale la forma inerisce; paragona il rapporto delle I lee con esso a quello della meusa col legno di cui è fatta; considera la sua funzione nel sistema platonico come identica a quella che ha la materia nel suo proprio sistema (, tranne che Platone confonde la materia con la privazione, menti e egli le distingue; e lo riguarda come la potenzialità di tutte le cose, come il tutto allo stato indetermina^r», prima di determinarsi per la partecipazione delle for.aiih). La proposizione che il principio materiale è gli esseri stessi in potenza è attribuita anche a Platone stesso; e vediamo una singolare applicazione di questo concetto nella formazione dei numeri, le uiità del primo numìro che viene formato, cioè della dualità definita, essendo ri^-uar MeL eoe Met. Met, Met, L'oUmauto matoriale è anche detto luogo xwpa del'eleinento formale Mei, ciò ohe prova rimmanenza dell'uno e dell'altro. Met. Phys. Met. Phys, Met. Met. IN > P" dale da Platone come le unità stesse della dualità indefinita il Grande e il Piccolo, eguagliate. In quanto a'Telemento che serve di forma, la conseguenza naturale della teoria dei numeri <> di fargli qualche volta rappresentare una parte ch^ convif^ne alla materia piutosto che jilla forma; la <,nal cosa, fc dissimula la fcnziono e il significato reale di questo principio, è jcrò la prova più palpabile c'era sua immanenza. Aristotile osserva che i platonici cocsiderano Puno al Uml>o f-tosho come i*( mia e specie dei numeri perchè ciascun numero è uno e come parte e materia di essi lerchr i Lumeri .^ono composti di unità. È a (juesta funzfrne deiruno come materia dei tiimeri che può riferirsi pure l'obbiezione che le unità che compongono i diversi numeri non possono diffeiire, come vogliono i platonici, perchè essi parlano dell'urio in se, da cui tutte le unità sono costituite, come se questo fosse un elemento di parti similari e|iO'.o|i£pé; come il fuoco o rac<jua(o); e Pindicazìone che nella formazione dei numeri (dairuno in se e dalla dualità indefinita) l'Uno in sé era riguardato come l'unità media nei numeri impari i numeri di cui si tratta in tutti questi cas', non bisogna obliarlo, non sono allra cosa che le Id'^e . Infine, come prova dell' immanenza dell'uno o essere, citerò l'argomento con cui Platone dimostra l'esistenza. La dualità iiidcliiiita era Jiiiche chiMiiiala l'iiiegualo, e l'uno, alla cui partecil»aziouo era dovuta la l'orinazione dei numeri, l'eguale. Met, I del non essere l'a-tro elemento; cio'^ che se non esistesse il non essere, non potrebbe darsi una moltìplicità di esseri, poiché allora tutti gli esseri sarebbero un solo essere, Tessere slesso. Platone non potrebbe dire: tutti gli esseri sarebbero l'essere stesso, se l'essere fosse fuori d^^^ìì esseri. Il senso deirargomento è che, se insieme aliVssfre cioè all'attributo connotato da questo nome non vi fosse negli esseri ciò che non è l'essere, vale a dire il non ev sere, tutti gii esseri non sarebbero altra cosa che l'essere; e Targomeoto suppone, prr crnseguenza, che tanto l'essere stesso quanto l'elemento opposto siano negli fsseri. Negli scritti platonici, l'immanenza dell'Idea de' bene che, come abbiamo detto, corrispmde al princij ^o che Ariiitotile chiama l'uno o Trs-Jere nelle altre Idee n* n è meno evidente: ersi nella liepublica si dice e h^^ non ha alcuna conoscenza del bene chi non sa definirne lldea, astraendola da tutte le altre; e quest'Id»»« é chiamata V ottimo negli esseri, // jnl: chiaro e il piii felice e) delV essere i t'essere siirniliea ìì*1ì rsseri, vale a dire le Idee, considnate gencralment •, cioè nel loro concetto comune, e per conseguenza, il piìi chiaro et il più felice delV essere vuol dire: ciò che vi ha di più chiaro e di più felice negli e.^seri, cioè nelle Idee. Aggiungiamo che, se al punto di vista dell'intensioni', i due Generi supremi sono nelle Specie, al punto di vista dell'estensione invece (lueste sono in quelli: e in effe to Platone dice tanto dell'Uno quando della Dualità indefinita che essi contengono Tiep'.éxstv tutti gli esseri. Platone non considera solamente come elementi delle t . « I <i <Idee i due Universsli supremi, ma tutti i Generi sono da lui riguardati corre elementi e parti delle loro Specie. Infatti Aristotile agita la quistione se bisogna riguardare come elementi axoixsìa degli esseri gì'ingredienti materiali di cui le cose si com|.ongono, ovvero i generi, considerando la seconda opinione come legata alla realizzazione degli universali e alle proposizioni proprie della scuola platonicache ciascuna cosa m conosce per la definiziono, e che avere la scienza degli esseri non è che avere quella della specie. K nella Metafisica, in cui spiega i significati dei teimini filosofici, dice che alcuni chiamano elementi axoixs^a i geueri (e. III. 5-aggiungendo subito che, in tutti i significati dati alla parola, l'flemento è riguardato come inerente (IvuTiapxov) nelle cose di cui si dice eleoicnto); e che, mentre a un punto di virata la specie è chiamata parte jiépo^ del genere, a un altro punu> di vista è il genere che è chiamato parte iiépo; delia specie fc.. I filosofi che fanno quest'uso delle parole parte ed eie7nento non possono essere che i platonici, perchè evidentemente esso implica la realizzazione dei concetti: il genere, considerato come la collettività degl'individui, non potrebbe essere chiauato parte ed elemento della specie, perchè, in questo senso, il gen(^.re non è contenuto nella sp'^cic; e considerato come una semplice astrazione come il complesso dfgli attributi che costituiscono il concetto generico, non lo potn bbe nemmeno, perchè le parole parte ed elemento implicalo la realtà della cosa a cui vengono applicate. Altrove Met., dopo aver obbiettato ai platonici che, si5 si ammettesse la realtà degli universali, in una sostanza individuale vi Met. Jl. AUl., /'//A'. 1. in. vi. Vgpecialmeiito Afct. I sarebbero più sostanze, mentre è impossibile che una sostanza consti di più sostanze che le ineriscano in atto; Aristotile si propone questa diMcolcà: ma « so alcuna sostanza non può risultare da universali, né comporsi di più sostanze attualmente esistenti, la sostanza Farà allora ijualche cosa di non composto, e non sarà possibile di darne la definizione. Ciò suppone che alcuni filosofi riguardavano la definizione come una decompos'zione del definito nei suoi elementi costitutivi il genere e la differenza, e che (laesti elementi erano, secondo essi, degli universali e delle sostanze. Questo concetto era infatti naturalissimo al punto di vista delia teoria delle Idee; poiché, quantunque Platone non elevasse al grado d'Idea che il genere solo, e non la differenza perchè il multiplo, per lui, deve sempre poter ricondursi all'uno, pure, se si ammette che il Genere esist.» nella Specie d'un'eslstenza propria e distinta, la conspguenza inevitabile sarà che anche la diff'erenza vi esi-iterà d'un'esistenza propria e distinta. Infine, che Platone chiamasse i U) Siccome Platone stabilisce tra le Idee \n\\ Kcnerali e le più panicolari ad esse subordinate un rapporto di priorità e posteriorità (perclic la dialettica platonica è l'ondata sul principio che il più particolare deriva, logicamente e ontologicamente, dal più generale, cosi egli ammette che la sostanza consta di elementi di cui gli uni sono anteriori e gli altri posteriori. È a questo concetto platonico che allude evidentemente Aristotile in Mei, dove dice: Nella sostanza non vi ha alcun ordine: intatti che senso ha il dire che in essa una parte <• anteriore e un'altra è posteriore "i » Ciò prova almeno che Platone riguarda le Id<*e più generali come elementi costitutivi delle Idee più particolari ammettendo che (|ui per sO' stanze Aristotile intenda, non le cose stesse, ma le loro essenze, poiché egli parla della sostanza quale og<^etto della delinizione. Infatti, se le Idee, a cui una sostanza ld**a o cosa partecipa, l'ossero separate da essa, non vi avrebbe ragione di compone questa sostanza di parti distinte, corrispondenti alle Idee a cui partecipa, inoltre il rapporto di priorità e p/istej iorità deve essere esclusivamente [iroprio alle Idee, perchè esso signifìca, come abbiamo accennato, un processo, logico e al tempo stesso ontolegico, di tiliazione, che non ha luogo che nelle Idee. Generi elementi, ò confermato da un luogo del Politico, in cui spiega forche si deve ricorrere ad esempi per illustrare i soggetti difficili. Noi sappiamo, egli d'C, che i fanciulli, mentre imparano a leggere, riconoscono assai bene ciascruna delle lettere axotxera nelle sillabe più corte e più facili, e sono capaci di parlarne con giustezza. Ma se essi incontrano queste stesse lettere in altre sillabe, restano incerti, e ne giudicano e parlano falsamente. Ora la maniera più facile e più bella di condurli a ciò che non sanno ancora, non sarebbe questa? Bitogn^rebbe prima ricondurli alle sillabe in cui hanno opinato rettamente su queste stesse lettere, e, riconducendoveli, porre a lato le sillabe che ancora non sanno, o mostrare, conia comparazione, che in entrambi i composti vi ha una stessa somiglianza e una stessa natura, sinché le sillabe in cui hanno opinato rettamente, essendo state comparate con tutte quelle non sapute ed essendo divenute degli esempi, loro apprendano, per ciascuna di queste lettere, in tutte le sillabi», in cui si trovarw, a designare come diversa quella che è diver-a dalle altre, e come sempre la stessa « identica a se s'CFsa quella che è realmente la stessa. Non è abbastanza chiaro ora p^r noi che vi ha esempio, quando ciò che è lo stesso è appunto riconosciuto come file in due cose separate, e quando ben inteso e considerato come uno in ([uesti due casi distinti, ma analoghi, diviene l'oggetto d'una sola e stessa opinione vera? Dobbiamo dunque sorprenderci se la nostra anima, che è naturalmente nello stesso stato per gli clementi (axot Sulla parola somiglianza ò|ioióxr^g la nota a carta y I |.\' ^- Xefa di tutte cose, trova qualche volta ia verità su ciascun elemento particolare in ceni composti e vi si att'eno, e poi cade neircrrore su tutti qufsti elementi conM'derati in altri soggetti; se essa si forma un'opinione giusta su certi elementi quando li incontra incerti tutti, e li misconosce interamente trasportati nelle sillabe lunghe e difficili delle cose?  Questa realizzazione degli attribuii generali delle coso, implicata dal nome, che viene loro dato, di elementi, e dalla comparazione con le lettere, in uà altro autore sarebbe una semplice metafora; ma in un real's^a come Platone deve prendersi al senso proprio. Vi ha appena bisogno di osservare che (juesto luogo prova T immanenza dei Generi, non solo nelle Specie, ma anche nelle cose ste-se. Gli elomenti delle Idee sono  anche per Platone gli elementi delle cose: l'Uno o E>\sere  èlVss?nzadi tutte le cose cosi bene che di tutte le Idee, ia Dualità indcilnita o Non essere, la materia. Io non ag0) Arist. Met, Bisogna dHliugaore in Platona dna princìpii dittorenti, ai quali viene dato eguaiinonte il nome di materia: cioò la matoriri delle cose e la materia comune tanto alle cose qua.ilo  allo Idea. La prima è lo  spazio, al quale Platone riconduca rost;3nsion 3 dji corpi, e corrisponde a ciò che noi chiamiamo propriamanta materia; è una determinazione che si trova esclusivamente nallj cose, e mtfcnva nelle Idee, la <iuali rappresentano solamante la formo ^le cose risultando cosi dalla sintesi delle Idaa l'orma e dello spazio ma-teria. La materia comune alle Idea e alle co^e rapprasenta una serie  di determinazioni generali degli esseri p. e.il non essero, giungerò niente per provare che questi termini dementi, essenza, materia, devono intendersi nel loro significato naturale, che implica Timmanenza: sarebbe fare delle ripetizioni inutili, perchè la più parte dei luoghi d'Aristotile, citati nel numero prf cedente come prove dell'infinito, la moltiplicità, il male, la diversità, il movimento,  ecc. opposte a quelle di un'altra serie p. e. l'essere, il finito, l'unità, il bene, l'identità, lo stato, ecc. che vengono riunite nel principio opposto a questa materia, vale a dire nell'elemento formale. I due elementi vengono il più abitualmente chiamati Essere e Non essere, ])erohè Platone riguarda le determinazioni della serie dell'elemento l'ormale come positive, e le determinazioni   corrispondenti della serie opposta come negativa; e Uno e Dualità indefinita al punto di vista della teoria dei numeri per questa dottrina Supplemento. La materia propria delle cose e la materia comune alle cose e alle Idee vengono ricondotte a un principio unico, la Dualità indefinita, uno dei caratteri del pitagorismo platonico, come del pitagorismo genuino, essendo questa riduzione   illogica a uno stesso numero o a uno stesso principio di concetti essenzialmente differenti; ma ciò non toglie che le due materie siano due entità distinto l'una dall'altra Qu andò Aristotile dice che secondo Platone gli elementi della Idee sono pura gli elementi delle cose, senza dubbio egli comprende nell'elemento materiato anche lo spazio, quantunque questo non sia un elemento delle  Idee: ciò è perchè, come abbiamo detto, lo spazio, quantunque sia un'entità distinta dalla materia delle Idee, viene ricondotto con essa a uno stesso principio. Sarebbe però un errore di cradere che, anche ammettendo che nelle cose non vi sia altra materia che lo spazio, baslerebbe questa riduzione dello spazio a uno stesso principio insieme con la materia delle Ideo, perchè (iue~;ta  potesse eisero identificata con la materia delle cose; o che la |>roposiziona «l'Aristotile che gli elementi dello Idee sono gli elementi delle co^e  non importa quindi necessariamante, come noi ammottianu, che la materia delle Idee si ritrova realmente nelle co-se. Certamente tra gli elementi delle cose e gli elementi delle Idoe non potrabba ossarvi un'identità completa: l'elemento materiale  dello cose deve diflforira in ogni caso dall'elemento materiale delle Idee, perchè questo non comprendo lo - I rimmanenza dei due principi! nelle Idee, provano egualmente la loro immancuza nelle cose. In effetto le in'dicazioni o allusioni d^ Aristotile relative alla dottrina dei due elementi, si riferiscono il più spesso, non alla proposizione che questi due princ-pii sono gli elementi delle spazio. Ma l'impossibilità di prendere una proposifsione in un senso perfettamento rigoroso non è una ra{rione |)er preterire il mono rigoroso dei sensi di cui essa sarebbe suscettibile. Ora è questo che noi faremmo per la proposizione d'Aristotile in questione o a dir meglio por la dottrina di Platone che questa proposizione ci riferisce, se per l'elemento materiale nelle cose non intendessimo  che lo spazio; perchè allora la materia delle cose e quella delle Idee sarebbero due entità completamente distinte, non vi sarebbe fra di esse alcuna reale identità, nò totale né parziale. D'ahronde l'elemento materiale delle Idee deve essere identico all'elemento corrispondenti^ delle cose nello stesso senso in cui lo è l'elemento formale: l'Uno non rappresenta due concetti distinti come la  Dualità indefinita; noi non potremmo assegnargliene uno come forma dello Idee, e un altro ditfereate come forma delle cose; per conseguenza anche l'elemento materiale dove rappresentare uno <^:tosso concotto nelle Idee e nelle cose. Che sia cosi, è confermato dalle determinazioni che Aristotile attribuisce alla materia platonica, in luoghi m cui egli la considera come elemento delle  cose cosi bene che delle Idee: cioè che essa è un genere UT. 5^,  che è l'uno nei molti  (p.  e. quando fa l'obbiezione che se gli olemouti «logli esseri fossero ciascuno uno di numero, e non solamente di specie, non vi sarebbero che i soli elementi, che rappresenta al tempo stesso la parte di materia e di steresi Phiis, che è il tutto allo slato d'mdeterminazione Met., che è la natura <lel male,  che è il non essere (cioè l'opposto dell'attributo essere-v. Mei.), che ò il contrario dell'altro elemento (v. Phìjs: Questo determinazioni non potrebbero convenire al semplice spazio, ma convengono perfettamente sia alla materia dello Idee per se sola, sia  a<l  os^a in unione con lo spazio. Idee, e a quella che sono gli elementi delle cose, considerate l'una a parte dell'altra, ma alla  proposizione che sono gli elementi di tutti gli esseri, cioè delle cose cosi bene che delle Idee. Ciò che si deve notare è la connessione logica che viene affermato esistere tra la proposizione che i due principii sono gli elementi dfUe Idee e quella che sono gli elementi delle cose, «E perchè, dice Aristotile C2), le Specie sono le cause delle altre cose, gli elementi di quelle credè Platone  che fossero gli clementi di tutti gli esseri. Ora questa connessione non esiste, evidentemeate, che iif  IT ipotesi delT immanenza de'le Idee. S'j  le Idee sono clementi delle coSi%  necessariamente anche i loro elementi saranno elementi delle cose: ma se le Idee non sono che dogli archetipi di cui le cose sono le copie, tutto ciò che potrà seguirne sarà che le cose hanno degli elementi che  sono le copie degli elementi delle Idee, ma non mai che gli elementi delle cose sono una sola e stessa cosa con gli elementi delle Idee. L'identità tra questi e quelli non si spiega dunque d'una (1' Indicherò nondimeno un certo numero di luoghi, la piìi parte oitaii nel numero precedente. V. dunque, per tutti e due gli elementi: Mei. Per l'elemento materiale: /V///s.  Met., ecc. Per  'elemento  formale: .ecc. Mei. Notiamo che Aristotile distingue quattro specie di cause, di cui una è  la causa essenziale, l'essenza; e che questa è delle quattro specie di causalità la sola che conviene secon<io lui alle Idee platoniche. Mei. Io stesso cap., 7^ toaniera naturale che nelìMpotesi deir immanenza delle Idee. Ma non teniamo conto di questa considerazione: ammettiamo, ciò che non è, cho  anche nell'ipotesi della trascendenza delle Idee possa darsene una spiegazione pausibile. Kesterà sempre r incoerenza di riguardare alcune entità come immanente, e alcune altre come trascendenti, mentre queste entità appartengono tutte allo stesso tipo: concetti realizzati. I due elementi hanno, tutti i caratteri delle Idee: ciascuno è un predicato universale degli esseri di cui si dice   elemento, riguardato come sussistente per se stesso e come uno e lo stcFso in tuttiuno di essi è anche certamente da Platone chiamato un Idea, nello stesso senso che tutte lo altre, porche ciò che neiresposizione d'Aristotile è detto l'Uno o l'Essere non è che la slessa entità che negli scritti platonici è detta 1 Idea del bene. Le stesse inconcepibilità che, ne! sistema dell immanenza, sono  legale alla realizzazione degli altri concetti ~ l'impossibilità di comprendere come una sostanza sia al tempo stesso un attributo di altre sostanze come r uno.sì trovi simultaneamente nei molti ree  -esi' stono egualmente per la realizzazione dei concetti rappresentati dai due elementi. (;ii stessi termini che indicano i rapporti tra le altre Idee e le cose indicano il rapporto tra 1 due elementi  e le cose, tanto quelli che possono addursi come prove dell'immanenza, quanto quelli in cui gì'interpreti trascendentalisti vedono una prova della trascendenza: cosi la relazione degli elementi alle cose ò chiamata parusia, e quella delle cose agli eleme.iti metessì . gli elementi sono detti essere Tiapa le cose, e sono chiamati x^P^xa  e xsxwpiajiéva semplicemente o dalle cos^); ecc. Se  ammettiamo la trascendenza dello Idee, dovremmo dunque ammettere necessariamente anche la trascendenza degli elementi; se ammettiamo, come siamo forzati di farlo, l'immanenza di questi, dobbiamo anche ammettere, non meno nrc^ssariamente, la immanenza di quelle. Per l'immanenza di uno dei due elementi noi non abbiamo alcuna prova diretta negli scritti di Platone, perchè  in questi scritti non si trova la dottrina dei due elememi (tranne, come vedremo, d'una maniera simbolica nel Timeo: ma l'immanenza dell'altro, cioè dell'Idea del beno, è naturalmente in Platone più evidenteche nello stesso Arislotile. Cobl  n(  1 Timeo dico che le cause materiali quelle che riscaldano e raffreddano, condensano e dilatano, e producono altri effetti simili sono dei mezzi  di cui  Dio si serve per compiere àTioTsXwv  l'Idea dell'ottimo. Nel Fedone, dopo avere spiegato che per ogni cosa la causa di essere e di essere nel modo in cui è e non altrimenti, è il bene di ciascuna cosa in particolare e di tutte in generale, e che questa soluzione del problema delle cause è la conseguenza logica della dottrina di Anassagora, rimprovera a costui e agli altri fisici che  non si servono, nella spiegazione dei fenomeni, che di semplici cause meccaniche, « e la potenza prr cui le cose sono disposta nel miglior nndo in cui potevano esserlo, né ricercano né stimano che vi sia in essa qualche forza divina, ma credono di avor trovato un Atlante più forte di questo. i  V. p. e. Elh,  Eud,  Vllf.   lUK  End. Met. ecc  Met. ecc. 0) MeL , />/i/yt. I. Iir. V.  J,  Klh,  Sic,, ecc.v; più immortale e più capace di contenere ii^XXo^j  grjvéxovxa l'universo, e non ammettono che e il buono zx^olH^ e conveniente che collega guvSsìv e contiene guvéxetv tutte le cose Io stesso verbo g-jvéxsiv attribuito prima aWAflanie più forte ecc., e poi al buono e conveniente, prova che il buono e conveniente é la stessa cosa Q^ieìh potenza per cui tutte le cose nono  disposte  ecc., che è l'oggetto con cui VAtlayite pih forte ecc. viene confrontato. In (lueste parole vi ha evidentemente la  realizzazione dell'astrazione il bene Tàya^óv: ma questo bene non può essere che quello stesso di cui sopra ha parlato, e d'altronde, se fosse un bene trascendente, non si potrebbe dire di esso che contiene e collega tutte le cose Ma la prova più forte dell'immanenza  dell'Idea  del bene, in Platone, è l'identitìcazione dì quest'Idea con la felicità degli uomini o generalmente degli esseri viventi. Quest'identificazione si vede della maniera più sensibile nel Filebo. In qursto dialogo si cerca che sia  il bene  xàva^óv: se sia il piacere come ritengono i più 0 la sapienza fcome ritengono altri, p. e.  i Megarici)' o qualche altra cosa. Filebo sostiene che é il piacere; Socrate  comincia per ammettere  che è la sapienza; ma poi muta d'avviso, e diceche il bene none né runa né l'altra cosa, ma una terza, diversa da esse e migliore di amendue. In effetti, egli domanda, la condizione del bene non è necessario che sia il per'fette, 0 deve essere  il non perfetto V-Puotarco Ciò che vi ha di più perfetto, o Socrate Socu.: Ma che? il bene non è sufficiente per se sfosso?-Prot.: Senza dubbio, ed è in ciò che differisce da tutti le altre cose^ SocR. Questo ancora mi sembra sovratutto necessario di affermare di esso, che tutto ciò che lo conosce lo ricerca e lo desidera, sforzandosi di attingerlo e di possederlo e niente si cura delle altre cose, faori di quelle che si e ffettuano insieme ai beni Prot.: A questo i;on si può contrastare SocR.: Esamim'amo dunque e  giudichiamo la vita di piacere e la vita d'intelligenza, prendondole ciascuna a parte  Prot.: In che modo? So.R.: In moJo che l'intelligenza non entri assolutamente nella vita di piacere, e il piacere nella vita d'intelligenza: infatti, se l'uoo o l'altra fossero il bene, non avrebbero più bisogno di altra cosa; ma se 1'uno 0 l'altra sembreranno aver bisogno di qualche altra cosa, non potranno  essere per noi il vero bene. Risalta, dall'esame del'e due vite, che nessuno vorrebbe una vita con tuiti i piaceri, ma scnz'alcun'intelligenza, nò con tutta rintclligeiiza ma senz'alena piacere; e cho la vira che tutti vorrebbero sarebbe quella in cui il piacere fosse m'^scolato con Tintelligenza. E dunque evidente, che nò V una nò 1'altra delle due vite (quella di piacere e quella d' intelligenza  ha il bene: poiché essa sarebbe sufficiente, parfctta, e degna della scelta di tutti gli esseri, che potessero vivere per sempre così. Qui nasce un'altra quistione: quantunqu'^ né il piacere né la sapienza sia il bene, pure V uno o l'altra potrebbe credersene la causa: ora  Socrate sostiene che,  checchesia  ciò che ricevuto dalla vita mista di piacere e d'intelligenza questa si fa dcsilerabile e buon*», r  intelligenza gli somiglia e gli é affine più che il piacere, e perciò (lucsto non otierrìl né il primo né il secondo posto. Seguono delle digres-^ioni che non c'int:'ressano, e sulla fine del dialogo viene ripigliata la quisJone sulla natura del bene e se esso sia più affine al i lacere o all'intelligenza; ma  prima Socrate, riassumenio il cominciamento della discussione, dice: Filebo  afferma che il piacere é il fine legittimo di tutti i viventi, lo scopo a cui tutti devono tendere; che esfo è il bene per tutti, e che questi due nomi, bene e i piacere, competono alla stessa cosa e aduna cpóat^unicd. Socrate lo nega, e afferma che, come vi hanno due nomi differenti, co..i il bene e il piacere hanno nna  ^^^,^ differente Tuno dall'altro, e che la sapienza è più che il piacere  partecipe della condizione del bene La qpóa.s del bene in ciò differisce dalle altre cose che qualunque dei viventi a cui è presente Tiapsiyj sempre ed assolutamente, non ha più bisogno di altro, ma ha quanto gli basta perfettamente Ma abbiamo visto che né il piacere nò la sapienza è sufficiente.. Nò Tuno nò l'altra ò dunque il perfetto, il desiderabile per tutti, il bene assoluto Bisogna  per conseguenza o scoprire il bene chiaramente o qualche forma tótiov di esso, per vedere, come abbiamo detto, a chi dobbiamo assegnare il secondo posto  %. Ora, soggiunge Socrate, non  abbiamo noi incontrata una via che conduce al beneP-PaoT.: Quale via?SocR.: Se alcuno, cercando un uomo,  apprendesse la casa dove egli abita, non avrebbe un grande aiuto per trovarlo V-Prot.:  Certo-SocR.: Cosi il presente e Jl precedente discorso ci avvertono che non dobbiamo cercare il bene nella vita semplice, ma nella vita mescolata di piacere e d'intelligenza  -Prot. È  vcro-Soca.: E abbiamo più speranza di trovarlo  in quella che è ben mescolata che neTopposta.-PROT.; Molto più Socr • Facciamo dunque la mescolanza. Questa si fa unendo i piaceri veri e quelli che  accompa-nano la salute e la virtù, con le scienze, e facendovi anche entrare la verità, perchò ciò a cui non si mescola la verità w  m  l^t'£o|xsv  àXTì9-£tav non potrebbe esistere; e compiuta cosi la mescolanza, Socrate dice: Se noi dicessimo di essere pervenuti al vestibolo del bene e della sua abitazione, non avremmo in certo modo ragione? Prot.: Cosi mi pare-SocR.: Che vi ha dunque  in (|uesta mescolanza di più prezioso e che sembri specialmente la causa dell'essere una tal condiziono desiderabile per tutti? In ogni mescolanza non ò difficile di vedere quale sia la causa che la rende pregevole o di nessun pregio Ogni mescolanza che non partecipi della misura e della cpuoig del proporzionato rovina necessariamente le cose mescolate e se stessa la prima. Cosi la  natura del bene se n' ò fuggita in quella del bello, perchò la misura e la proporzione sono da per tutto beltà e virtù Ma roi abbiamo detto che la verità entra con esse nella mescolanza aOxor;;  sv  tv;  xpaaei |i£|iiX^a'.- Por  conFegucnza, se non possiamo prendere il bene in una forma ì5éa unica, prendiamolo in tre forme, beltà, mi>ura e verità, e diciamo che tutto ciò come uno ò la causa  di ciò che vi ha di pregevole nella mescolanza, e perchò é bene, perciò la mescolanza è pure un bene. Ora ò facile di giudicare se il piacere o la sapienza sia più affine al bene xoO  àpiaio-j: perciò bisogna comparare l'uno e l'altra con le tre forme in cui il bene ò apparso. Fatta (juesta comparazione, risulta che l'intelligenza ò più che il piacere affine alla verità  i, chVssa possiede  (xsxTr^xai)  di più la misura, e che partecipa iisxsayjqrs di p.ù alla behà. Così la conclusione di questo paragone e di tutto il dialogo ò che < il piacere non ò il primo bene xxf^iia nò il Fecondo; ma il primo ò circa la mi^ul•a, il moderato, l'opportuno e quant'altre cose tali si deve credere aver sortito la natura eterna citò il primo bene ò riposto nella misura, nel moderato, ecc., ma nella  misura, nel moderato, ecc. che hanno sortito la natura eterna, vale a dire gl'ideali, non i  fenomenali il secondo è circa il misurato, il bello, il perfetto, il sufficiente e tutte le altre co-e  di questo genere questa  seconda  seria  ò il j 94identica alla prima, ma ciascuno dei termini nella prima significa Tastratto, l'attributo aOxò xaB'aGxó, nella seconda i concreti, cose o Idee, che partecipano alTattributo); e nella scala dei beni xiV^iiaxa il piacere ò inferiore alla sapienza, e occupa Tultimo grado. Ma prima di finire, Socrate, riassumendo un'altra volta la discussione, dice: Filebo afferma che il bene xàYa0óv è per noi il piacere tutto intero io indignato deiropinione di Filebo, che è pure quella di  moltissimi altri, ho detto che l'intelligenza è di gran lunga migliore e più vantaggiosa alla vita umana che il piacere. Noi abbiamo visto in seguito della maniera più chiara che né l'uno né T altra é sufficiente Perciò tanto il piacere quanto Tintelligenza essendo apparsi in questo discorso privi della sufficienza e della perfezione, né Tuno né l'altra potè essere il bene sfesso aOxó Ma essendo  apparso un altro terzo, superiore ad amendue, Tintelligenza di gran lunga più che il piacere ci apparve affine alla essenza del vincente. Facciamo ora qualche osservazione. Che il primo bene, di cui si parla, sia l'Idea del bene, non potrebbe esservi alcun dubbio. Ciò è, non solo perché alla misura, il moderato, l'opportuno e simili, che sono come tanti aspetti del bene, viene attribuita la  natura eterna, ma anche perchè noi sappiamo che il primo bene vuol dire per Platone l'Idea del bene, conformemente all'uso ch'egli fa dei termini significanti l'anteriorità e la posteriorità, di cui abbiamo detto nel capitolo VII. Ma non bisogna credere che questo primo bene sia qualchecosa di differente dal bene di cui si tratta nel resto del dialogo. Che il bene sulla cui natura si discute   tra Soli) Arist. Ehi. Kud, Vili. crate e i suoi iuterlocutori sia riguardato come un'Idea è ciò che sarebbe già sufficientemente provato dal principio platonico che il concetto generale e la ricerca dell'essenza si riferiscono aU'Idea, non che dall'uso dei termini che nel linguaggio platonico significano le Idee il bene stesso aOxó-, la cpóai^ del bene, del proporzionato (U  d),  dd  bello, l'iòéa e  il'rapporto tra le Idee e le cose esser presente  7iapsrvai-, partecipare (}i£xaXa|JL?dv eiv-. Ma la prova più forte l'abbiamo in una moltitudine di circostanze che dimostrano che Vti<ivH/Aom',bene è elevata al rango di realtà sussisteute per se stessa. È  a  qu-^sta realizzazione che si pensa naturalmente, quando Platone dice che né la vita di piacere né la vita  d'int"l»igenza ha elyz il  bene; che è ricevendo Xa3wv il beno, che la vita mista si fa buona f22 d; che ogni vivente a cui é présente la cpóai; del bene nm ha bisogno di a'tro; che il bene è ciò che vi ha di più prezioso nella mesco'anza; ecc..Ma questa rralizzazinne si vede della maniera più evidente quando Piatone dice che la verità e le altre forme del bene fanno parte della mes?olanza, e sovratulto quando  paragona il rapporto tra il bene e la vita mista a quello di una persona e la sua abitazione, e chiama questa stessa vita l'abitazione d9\ Bene. Il bene, di cui si discute tra Socrate Filebo e Protarco, è dunque incontestabilmente l'Idea del bene noi sappiamo come le premesse per cui Piatone prova l'esistenza dt-lle Idee giustificano la stranezza che Filebo e Protarco, i quali non sanno niente della teoria delle Idee, discutano nondimeno sopra un'Idea: ma questo bene è quello che alcuni fanno consistere nel piacere, e altri nella sapienza; che chi lo conosce cerca e appetisce, sforzandosi di attingerlo e di possederlo; che quando si ha, non si ha più bisogno di altro; ecc.; in una parola lo stato dell'anima in cui Platone fa consistere la felicità. Aggiungiamo clie l'immanenza dell'Idea è provata inoltre dalle esprcssoni si-uificanti la parusia, che noi abbiamo già segnalato in parte come prove della realizzazione del concetto; p. e. elio la vita mista non potrebbe esistere veramente, se non VI fosse mescolata la verità -che è una forma del Hcnc; che con la verit/i  .s* rmscolam in questa vita le oltre forme del Bene; che essa é l'abitazione del Bene; che questo è  ciò che vi ha di PIÙ prezioso  «e//rt  mescolanza év xj  S-Jn.u£g6i;  eco. Infine, il nomo xx^-ia  rposscpso)  con cui è chiamato il primo bette, e la cla.csazione di esso insi-me agli altri xxYinaxa, cioè la sapienza, il piacere, ecc. (a dove si  fa la granduazione dei beni, ci dicono abbastanza che questo bene è anch'esso, come il piacere, la sapienza e gli alcri, un beno nostro, un bene che  noi possodiamo o potremmo possedere. La stessa identificazione tra il bene obbiettivo -l'Idea e il bene subiettivo-la felicità degli uomini-ha luo-o nella  KepubUka, con questa ditferenza che. m<'ntr(>  m-l Fikbo prevale la^pett) subbicttivo, per cui alcuni i.,lerprcti hanno potuto negare-cni.c abbiamo vsto, contro levidenza che il bene di cui si tratti il. questo dialogo, sia  l'Idea. invec3  nella Repubblica prevale l'aspetto obb:cttivo. Ivi il bene 6 presentato come la più alta delc Idee, sovrana del mondo intelligibile, e principio pI tempo Messo dell'essere e del conoscere. Jla questo stesso bene 6 il bene nostro, un possessi del unstro fpirit-^.  tì ciò che si vede chiaramente dal luogo seguente: Socuate: La massima disciplin.i è l'Idea del bene (cioè quella che ha per oggetto  quest'Idea), della (juale (Idea) le cofc gioste e le altre avvalendosi (7ipoax.orìaa;i£va) divengono vanta»na giose e convenienti cioè le cose giuste e le altre sono vantag-giose per la presenza dell'Idea del bene Noi non conosciamo sufficientemente qu^stldea; ma, ignorandola, non ci sarebbe di alcuna utilità di conoscere le altre erse senza di essa, come non ci gioverebbe di possedere  qualche cosa senza il bene. O credi tu che sia utile di avere qualsiasi possesso, ma non buono? o di conoscere tutte le altre erse senza il bene, e niente conosci re di buono e di bello? U) Animante: Non lo credo, per Giove! SocR.: Tu sai che i più credono che il bene sia il piacere, e altri, più eleganti, l'intelligenza Ad.: Si SocR.: E che questi ultimi non sanno spiegare che cosa sia  quest'intelligenza, ma infine sono ridotti a dire che è l'intelligenza del bene Ma che? quelli che definiscono il bene il piacere, non sono neir errore non meno ch^ gli altri? non sono essi costretti a confessare che vi h<ìnno dei piaceri cattivi? Ad.: Senza dubbio SocR.: Accade dunque», ad essi di ammettere che le stesse cose sono al teiwpo stesso buone e cattive E non è chiaro che mentre  molti sarebbero contenti di agire e di possedere le co-^e giuste e belle apparenti ma non reali, a nessuno però basterebbe di possedere dei beni apparenti, ma tutri cercano i reali, e dispregiano in c'ò l'apparenza? Ad. Certamente Socr. : Ora su questo bene, che ogni anima ricerca, e tuito fa in grazia Xoliamo che <iaamlo Platone dice: conoscere tutte le altre cose senza il bone la parola  />t';i:> si«^niiìca  evid^nl omento l'Idea; danque ancha q-aando ha dotto: possedere qualche cosa senza il b3n3 questo bene, della cui ])oss3ssione si tratta, deve essere l'Idea. Apjghingiamo che poss.^dere qualche cosa senza il bene cioè senza l'idea, equivale, non meno evidentemente, ad avere  qualsiasi possesso ma non buono; per conseguenza il beno non è che il bene attributo delle  cose buone. di esso, iii'IovinanJo che è qualche cosa, ina dubitando e non comprendendo sufficientemente che cosa sia, ne avendo intorno ad esso una stabile credenza, quale ha intorno alle altre co^e, per cui  perde anche le altre cos^ se vi ha alcun che di utile; su tale e tanto oggetto diremo noi che dovranno essere ciechi i migliori, a cui dobbiamo affidare la somma delie cose?»  Socrate   vuol mostrare con queste parole la necessità che i magistrati siano istruiti nella disciplina ch^  ha per oggetto il bene. Convenutosi di  ciò, Adimante gli domanda: Ma tu, o Socrate, credi che il bene sia la scienza, o il piacere, o qualche altra cosa differente?. Socrate risponde che non ha la scienza del bene, e non vuol parlarne secondo una semplice opinione; perciò invece di dire che cosa sìa il bene, parlerà piuttosto del figlio di esso, somigliantissimo al padre. Questo è il sole, che il bene generò analogo a se stesso: ciò che esso è nel luogo intelligibile rapporto all'intelligenza e agrintellìgibili le Idee, il sole è nel luogo visibile rapporto alla vista e alle cose visibili. L'uno regna noi mondo intelliiiibile, l'altro nel mondo visibile; come il sole dà agli oo-^-etti visìbili la  possibilità di esser visti e insieme la gi^nesi e raccrescimenlo, cosi il bene dàagrintelligibili la possibilità di essere intesi e insieme l' e^^sere e l'essenza dì. La dottrina dei due elementi ha molta analogìa, senza esserle identica, con una dottrina esposta nel Fileho, che ò anch'essa una del'e prove più evidenti dell'immanenza delle Idee. Io porrò sotto gli occhi del lettore la parte del Fileho  che si riferi«^ce a questa dottrina. € SocR.: Dividiamo in due, o piuttosto in tre, tutti gli esseri che sono neiruuìvers> Noi dicevamo che Dio ha insegnato che degli esseri l'uno è illimitato :J:istpov e l'altro limite jiépac;. Contiamo dunque questi per due specie e mettiamo per terza ciò che risulta dalla mescolanza di amendue. Per due di questi generi cerchiamo di vedere come ciascuno  di essi ò uno e molti, guardandolo prima diviso in molti e disperso, e poi riducendolo nuovamente ad uno. I due generi di cui parlo sono quelli jhe ho posti dapprima, cioè il limitato fTispas £Xov e rillimitato. Cercherò di mostrare come l'illimitato è in certo modo molti: il limitato ci aspetti Considera in primo luogo il pii!i caldo e il più  reddo, se scopri in essi qualche limite, o se  piuttosto il più e il meno che si trovano in ques: e specie, finche vi si trovano, impediscano loro di avere un fine: infatti sopravvenendo il fine, anch'essi finiscono <'. non sono più Prot.: È vero Socii.: Del più caldo e il più freddo diciamo dunque che vi ha sempre in essi il più  e il meno Pkot.: Senza dubbio  Socr. : Questa ragione ci mostra che queste due coee non hanno fine: e non  avendo fine, esse sono necessariamente infinite àicsipo) Il torte e il piano hanno la stessa natura che Per il s3nso di questa identificaeione dsl bene etico la felicità col bene ontologico la forma gsnerale di tutti gli esseri. Come si vede, Platone chiama l'uno dei tre generi l'opposto dell'illimitato ora limite e ora limitato. Anche questa è un'imitazione dei Pitagorici: intatti questi chiamano  pure l'uno dei due elementi dei numeri e delle cose ora limite o limitante (rcspac;,  Tispalvov ora limitato 7i£7i£paa|iévov V. perciò Fr. di Filolao ap. Stob. Plato. Fileho, Arist. Met. ecc./ il più e il meno; perche dovunque si trovino, fanno che la cosa non abb'a una quant'tà d:  terminata, ma sia sempre più forte che nn'alira più  ])iuna e p'ù piana che un'altra più fort<% introducordo in  tu-te li azioni il maggiore e il minore e facendone sparire l quanto. Infatti, come si ù detto, se non facessero sparire il quanto, ma lasciassero questo e la misura entrare nel luogo del più e del meno, del forte e del piano, questi sarebbero respinti dal luogr» che occupavano. Ne il più caldo e il più freddo rest. rcbbero, se ricevessero il (juanto; poiché jl più caldo e il più freddo progrediscono  sempre senza mai fermarsi; il quanto invece si è fermato, e ha cessato di progredire. Il più caldo e il p'ù freddo sono, per cons^'gueoz'^, illimitali Veii ora se aa.metteremo questo carfittere distintivo della natura deirillimìtato, p<  r non estenderci troppo p-^rcorrenioli tutti Prot.: Quale carattere VSocii.: Tutto ciò che ammette il più e il meno, il forte e il piano, il troppo e tutte le qualità simili, bis^giia  porl-^, com > in una unità (w;  sic;  sv) n^l genere dell'illimitato, conformemente a ciò che si ò detto sopra, ciré che bisogna, per quanto ò possibile, riunendo (a'jvayaYÓvxas) ciò che è diviso e disperso, imprimergli il cor.trassegiìo di una natura unica Cosi tutte le cose che non ammettono queste qualirà ma le contrarie, in primo luogo V eguale e V eguaglianza, poi il doppio e tutto ciò che è conie un numero ò a un altro numero o una  misura a un'altra misura, pare che faremo bene riteren Jole al  limite. Quale Idea poi diremo avere il terzo, cioè quello che risulta dalla mescolanza di questi due? Noi parlavamo poco fa del più caldo e del  più freddo Prot.: Si SocrC.. : Aggiungi il più secco e il  p'ù umido, il più e il meno numeroso, il più veloce e il più tardo, il più grande e il più piccolo, e tutto ciò che sopra abbiamo posto nell'unità della 7 •I natura che ammette il piùe il meno  -Prof.: Parli della natura dell'illimitato? Soc?.: Si. Mescola au[xji(YVD ora con essa la progenie del limite Prot.: Quale progenie? Quella che avr^^mmo dovuto raccoglie e in uno oDvaYaysLv  sic,  Iv, come abbiamo fatto per quella dell'illimitato, ma non abbiamo ancora raccolta li progeiie dell'eguale, del doppio e di tutto ciò che fa cessare la dissensione tra i duo contrari, e v'introduce U misura e l'accordo per mezzo d» l numero Prot. Comprendo: mi pare che tu dica che, se si mescolano insiemi queste due specie, risulteranno da ciascuna mesco'anza certe produzioni SoCR.: E ti  pare giustamente Prot.: DI' adunque SocR.: Non è vero che nelle malattie la giusta mescolanza di queste due specie produce la sanità? Prot.: Senza dubbio Sock: Che nell'a'juto e il grave, il veloce e il taralo, che sono illimitati, la stessa mescolanza introduce il limite, e dà la pui grande perfezione a tutta la musica? Prot.: Beoissimo Socr.: Similmente, nel caldo e il freddo, essa fa cessare  il troppo e l'illimitato, e vi sostituisce la misura e la proporzione? Prot.: Certamente Socr.: Le stagioni, e tutto ciò che vi ha di bello nella natura, nasce -dunque da questa mescolanza del limitato e dell' illimitato? Prot.: Senza dubbio Socr. : Lascio da parte un'infinità d'altre cose, quali la bellezza e la forza con la sanità, e nell'anima altre qualità bellissime e in gran numero. In effetto la t'ia dea stessa la dea del piacere, cioè Venere, o bel f'ilebo, considerando la deprav^azione degli uomini e i loro eccessi d'ogni genere, e vedendo che non vi ha alcun limita nei piaceri e nella soddisfazione della concupiscenza, vi ha stabilito la legge e l'ordine che sono del genere del limitato. Prot.: Tu  metti, mi sembra, nellA natura delle cose, primo V illimitato; secondo il limite; in  quanto al terzo, non comprendo ancora 4: sufficientemente quello che vuoi dire Socr.: Ciò è perchè la moltitudine dei generi di questo terzo ti ha stordito. Tuttavia anche V illimitato presentava molti generi Ysvr^, ma s'ugnati della nota comune xw yìvsi del più e del meno, apparvero una cosa  unica v  ècpavr^ Prot.: É vero Socr.: li limite non ne present«ava un gran numero, e non  abbiamo avuto difficoltà ad ammettere che fosse ano di sua natura Prot.: Che difficoltà poteva esservi? Socr.: Nessuna. Di' dunque che io metto per terzo quest'uno: tutto ciò che é prodotto dalla mescolanza degli aliri due, tutto ciò che viene all'esistenza per le misure stabilite col limite. L'interpretazione della dottrina contenuta nel luogo citato p'-esenta agl'interpreti dello difficoltà,  sovratuto perché essi si ostinano a identificare il limite rcépa? e l'illimitato àpsipov del Fihbo con altri concetti platonici, conosciuti indipendentemente da questo dialogo. Alcuni vedono nel Tispac; le Idee, altri le entità matematiche: l'àTisipov equivarrebbe alla materia, che nelrespos'zione aristotelica del sistema platonico viene chiamata Non essere o Grande e Piccolo. Siccome l'immanenza del Ttspac; e dell' àTisipov del Fdebo nelle cose ò ÌQCont3siabile, e gli stessi interpreti trascendentalisti sono obbligati ad ammetterla, dall'identificazione del Tiipa; con le Idee segui necessariamente l'immanenza di queste. Quindi gl'interpreti trascendentalisti preferiscoin di vedere nel Tispa^, piuttosto che le Idee, le entità matematiche. Ma l'ipotesi della trascendenza  delle Idee non vi fa un gran guadagno. Infatti le entità matematiche, quantunque Platone le distingua dalle Idee propriamente dette, hanno nondimeno tutti i caratteri delle Idee: vale a dire sono degli attributi generali delle cose, considerati come sostanze, e ciascuno come uno e lo stesso in tutte Je cose di cui è l'attributo l'uno nei molti La <  .'Iì  i m I distinzione delle entità matematiche  dalle Idee, cóme vedremo a suo luogo, è stata fatta al punto di vista della teoria dei numeri ideali, ed è una dottrina dell'ultimo periodo della speculazione platonica: cosi negli scritti di Platone noi non troviamo mai questa distinzione, e in alcuni luoghi anzi, come nel Fedone, queste entità sono poste chiaramente allo stesso rango che tntte le altre Idee. Aggiungiamo che gli stessi argomenti che, secondo gl'interpreti Irascendentalist', provano la trascendenza delle Idee propriamente dette, proverebbero egualmente quella delle entità matematiche: p. e. anche le entità mitematiche soud dette essere Tiapa le cose, e chiamate ^(op'.axa  e xs^^p'-ajasva da esse. Se le entità matematiche sono immanenti, le Idee non possono dunqu3 essere trascendenti: ne segue che se  il TiÉpac; del Filebo e(j[uivalc alle entità matematiche, s'ccome esso è immanente, anche le Idee devono essere immanenti. Ma io non posso ammettere l'equivalenza del Tiépag né con le Idee nò con le entità matematiche. Del significato di questa dottrina del Filebo ci occuperemo in segu'to: ivi vedremo che il uépa^ e Tàpstpov del Filebo sono speciali a questo dialogo, e non hanno un  equivalente perfetto in altri concetti platonici; e che questa dottrina rappresenta una fase transitoria nell'evoluzione di Platone verso il pitagorismo, il cui risultato definitivo fu la teoria dei numeri ideali e dei due Supplem. Arisi. Met. Il'» elementi delle Idee e delle cose, che noi conosciamo per mezzo di Aristotile. Quello che c'jmporta per ora è di costatare un fatto che è al di sopra di  txUte le contestazioni a cui ha dato luogo l'interpretazione della dottrina del Filebo, K che tanto le entità che Platone riunisce sotto il termine comune di :iépac:, quanto le entità che egli riunisco sotto quello di àTisipov, sono evidentemente delle astrazioni realizzate della stessa natura che tutte le altre che noi troviamo nella filosofia platonica. Il più freddo e il più caldo, il più veloce e  il più tardo, ecc. da una parte, e IVguale, il doppio, ecc. dall'altra, sono degli attributi delle cose elevati, non potrebbe esservi alcun dubbio, al graio di entità sussistenti per se stesse. Di più que-ti attributi sono, non solo sostanlificati, ma considerati ciascuno com'»> una sostanza numericamente unica, della j-tes^a mauiera che tutti gli altri attributi delle cose che PUtone cliva al grado  di sostanze. E ciò che risulta chiaramente dalle propos'z'oai in cui Platone riguarda il Tiipa; e l'ànsipov ciascuno come uno e al tempo stesso molti. Iq efTctto (luest'unità a cui il muliiplo viene ricondotto, non è per Platone un'unità semplicemente concettuale, ma uu' unità reale. Il  T:épa^, e così pure r aTisipov, non è uno semplicemente nel senso che le entità a cui il termine viene  applicato s no comprese in un genere unico; ma quest'uniu\  importa di più che questo genere è riguardato come una sostanza unica, come un'Idea. Per conseguenza, anche e a«?cuno dei molli compresi nell'unità del Tispa; e deira-s.pov l'f^gualc, il doppio, ecc. da una parte, e il più caldo e il più freddo,  V. n. Y, 4.0 il più veloce e il  più tardo, ecc. dall'altra è uno nello stesso senso in  cui il Tiépa; e l'aTisipov è uno: vale a dire ciascuna delle specie del Tispa^ e dell'àTisipov è riguardata egualinente coun^. una sostanza unica, come un'idea. Ma gl'interpreii tras-.-endcntalisti sono, come abbiamo detto, obbMgati a convenire che il Tiépa; e PàTtsipov del Flhbo sono icnmanentì nelle cose: dunque essi devono anche convenire che le Idee platoniche sono immaneni nelle  cose. Tutto il reale per Platone si riduce alle Idee. Cosi egli chiama le Idee gli ess?ri xà ovia  o V essere xó ov, r\ oògìol, e, considerate in relazione al sog Un'altra prova dell'iinmaiianzi dolio Idoo è che Platone riguarda la proposjziona che il Tlépac; e l'àpsipov sono gli elementi dille CD-53 cio3 la dottrina contenuta noi luogo citato com3 equivalente alla proposizione che il Tlépa^ o V loeipO'^ sono gli elementi dello Idee. In effetto, sul principio del luogo citalo, dice: Noi abbiamo detto ch3 Dio ha insegnato elio degli esseri l'uno è àrcsipov e 1'altro zipa^; soggi ungondo ohe, oltre a questi due, vi ha un terzo genere, cioè quello che risulla dalla loro mescolanza, e che poi definisce: ciò che viene all'esistenza per le misure stabilite col limite. Ora questo è un richiamo che si riferisce a dove ha detto che gli anticld che furono migliori di noi e più vicini alla divinità ci hanno trasmesso quest'oracolo, che lo cose ohe si dicono essere oternamonto sono di uno e di molti, e comprendono in sé il limite e rillimilazìone. Le cose che si dicono essere eternamente sono naturalmonte le Idee. Platone non potrebbe considerare le «lue proposizioni come equivalenti, se le Idee per lui non si identificassero in un certo modo con le cose, ciò che sarebbe impossibile neiripotosi della trascendenza. F,uìro e, ('rat,, Fedoni' Rcp., ecc. Fedro, rim., Fedone, FU. Sof,, e, liej), Il reale risolvendosi nelle Idee, ciascuna cosa ixaaxov signi \ getto conoscente, i veri xàXyj^)^^ fi o il vero xàXYjO-é^ , fi aXr^^sia Ciò non si comprende che nell'ipotesi dell'immanenza. Se. le Idee fossero trascendenti, le Idee e le cose sarebbero due realtà distinte e separate, e Platone non potrebbe dire che tutto il reale consiste nelle Idee. Ma se le Idre sono gli attributi delle cose, siccome tutto Tessere si risolve nei loro attributi, cosi le C08e si risolvono nelle Idee, e queste costituiscono tuttala realtà. Nell'ipotesi dell' immanenza, il mondo delle Idee e il mondo delle cose. Vintdligibile e il sensibile^ non sono due mondi differenti, ma, come abbiamo detto, un solo e stesso mondo visto da due lati differenti: ciò che Tintelligeuza vede come un complesso di astraiti cioè d'Idee, è quello stesso che i sensi vedono come un complesso di concreti c:oè di cose. Tra l'intelligibile e il sensibile vi ha in certo modo il rapporto che vi ha tra il semplice e il composto: Tintelligenza decompone i concreti in astratti, le cose in Idee. Platone non può negare che il mondo sensibile differisce dal mondo m/e/ . ligibile. Se la realtà consiste nel mondo intelligibile, cioè nelle Idee, ne segue che il mondo sensibile, cioè delle cose, in quanto differisce dal mondo delle I^^ec», non ha lìca talvolta in Platone: ciascuna Idea. Fedone G5 e. IhUì, le Idae sono anche chiamate le rose atesse aOxà xà TlpdYriaxa. Noi abbiamo viste che per dire: V Idea del movimento, deììcf stato, dell'essere, ecc., Platone si serve semplicemente delle parole: il inovimento, lo stato, Vesaerey ecc.: ciò suppone evidentemente che le cose per lui si ri-;olvono nelle Idee. Fedro, liej), Fedone Fedro Jiep. /ee?i>., eoe. Confr. Taine Posit. imjL JJ. JI., L'InteHùjA, 1. ecc.. H M realtà. É tale è in effetto la dottrina di Platone. In altri rasi, in cui per verità si deve inteniere la conoscenza vera, e non l'oggetto di questa conoscenza, la veW^à significa la conoscenza delle Idee. Altrove la verità vuol dire la condizione degli oggetti veri, la proprietà che e^si hanno di esser veri, e questa condizione o proprietà è attiribuita unicamente alle Idee. Cosi l'Idea ò chiamata il vero essere (ov ovxw;; , TiavxsXw^ ov , xsXéw^ ov , slXtxpivw^ ov, oòoicc ovxo)^ ouaa, àXYjO-toc; cpóai^ 'yKdpy^oDooL, ecc., ciò che implica che l'individuo non è tale; e questo vero essere e opposto alle cose che son credute essere, cioè le cose particolari. Il divenire Yèvsa'.c: o ciò che diviene yiY'^óiisvov è per quest'attributo ch'^ P)atoae caratterizz i il sensìbile è opposto all'essere e al vero, e sì dice di esso che non è mai realmente, che non è un essere. <1) Fedro, Fedone Fedro Ti,u,, FU,, R.p. Sof. I^ep, Jiep. Re)). Fedro Tini, Kep, Fedro Tini, AVj9. J^ep, eco. Tini, Crat. Tim..Nel Sof, dice: i partigiani delle Specie pongono in queste la vera oùaia: iii quanto a ciò che i Fisici chiamano veriti\, essi lo chiamano non oùoiOL, mn. una certa genesi fluente. il letto reale xXCvyj ovxo); o'joa significa V Idea del letto; là bellezza vera {za àXY)8-èG xaXXXog) l'Idea della bellezza; il vero nimero (6 àXYjGivò^ àpL0|jiós) <^ le verj figure (xà àXvjH; axTjfiaxa) le Idee dei numeri e de' le figure cioè, propriamente, le entità mat^natiche. L'individuale non ò un essere, ma qualche cosa di simile all'essere; noa è né essere né non essere ma partecipa dell'uno e dell'altro, è un che di medio tra il puro essere e l'assoluto non essere. I sensi non ci fanno conoscere il vero; il sensibile è credut*) vero, ma nonlo è, almeno non ha una verità assoluta; questi non si trova che nelle Idee. Tra gli argomenti per dimostrare l'esistenza delle Idee vi hanno questi: se vi ha qualche cosa di vero, esistono le Idee, perchè niente delle cose presso di noi è vero; il numero è degli es>eri, ma le cose presso di noi non sono esseri, dunque il numero è delle Idee, e queste esistono; le definizioni sono degli esseri, ma nessuna di queste cose è, Fono dunque le Idee. Le fonr.e che riveste succrssivarnent.». 1 \ materia sono apparenze ^avxotajjiaxa degli es-^eri veri, cioè de' le Rf^p, i'Vd/o I?ep. Jiep. Jeep, Fedone a, d, eco. Fedo. Rep, ecc. Fedo, FU, R^p, 5iU , ecc. Fedo,, FU,, Eep,, ecc. L'Idea è, come il solo essere vero, cosi pure il solo essere certo (pspaiov V. Tim. Il sensibile noa è certo, perchè è qualche cosa di ambigno, di cui non può dirsi né che è né che non è* Aless. Afrod. bi phU . I,,:l|''I fi li Idee; ciascun sltoc, è uno in se stesso, ma per là partécipazinne ad es'o dei corpi e dello aziou', da per tutto apparendo (cfavxa^ó|i£vov), pare (cpacvsxat) molti. L'acqua, il fuoco, l'ari Ji, la terra non sono, ma appariscono cpavxa^sxai; la materia pare ^atvsxai acqua, fuoco, ecc. secondo che riceve le immagini di questi, cioè delle Idee dell'acqua, del fuoco, ecc. Platone si esprime cosi, perchè 1'acqua reale, il fu^co reale, ecc. sono le Idee dell'acqua, del fuoco, ecc. Le cose non sono che immagini deMc Idee; e chiamandole immagini slxóvsg, stdcoXa, ecc., Platone non vnol dire semplicemente ch'esse sono fatte ad imitazione delle Idee, ma ancora ch'esse non hanno una vera realtà; infatti queste stxóvsc, £t5(i)Xa, ecc. vengono opposti agli esseri veri (le I !ee). Il volgare, che non ammette la teoria delle Idee, vive coT.c in un sogno, perchè, come colui che Fogna, prende delle semplici immagini per esseri reali. Ciò che vi ha di reale negli oggetti che ci mostrano i sen-i, so-no le Idee: della grandezza, della s mìtà, della robustezza e, in una parola, dell'essenza di tutte le cose, il verissimo non è ciò che ne percepiscono i sensi, m«a ciò che ne percepisce la ragione, vale a dire le Idee; 1 sensi c'ingannano, e per conoscere la verità delle cose, dobbiamo rinunziare, per quanto è possibile, all'uso degli organi del corp'>, e contemplare con la mente ste sa Tihi. Rep, Tim. Tihi, Fjdè'O Tim. ecc. Fedro Rep., CjhvUo Rep. Rep, Titn. ecc, Fedone e. i > per se stessa gli esseri stessi per se stessi, cioè Tintelligibile ed invisibile; a traverso il corpo, noi vediamo gli esseri le Ider, come a traverso un carcere. Da tutte queste proposizioni risulta con la più grande evidenza, quantunque Platon", bisogna confessarlo, ron lo formuli mai nettamente, il concetto che le cose sono alle Idee ciò che l'apparenza è alla realtà: ciò che è in realtà un mondo d'Idee apparisce come un mr»ndo di cose, d'individui concreti. In effetto, se le cose non sono una realtà, saranno un'apparenza: ma un'apparenza suppone una realtà che apparisce divera da quello che è; per conseguenza, non essendovi altro di reale che le Idee, la realtà, di cui il mondo sensibile è l'apparenza, non può essere che il mondo ideale. Se le Idee fossero separate dare cose, noi non comprenderemmo come possa negare la realtà del sensibile, e ridurre tutto il reale alle Idee: -na se le Idee sono comprese nelle cose, e costituiscono la sola realtà, ciò che vi ha di reale nel mondo sensibile non sarà ch'3 il mondo d'elle Idee, e allora il mondo sensibile, come tale, sarà l'apparenza del mondo delle Idee. Considerando il mondo sensibile come un'apparenza, Platone non intende negare la sua obbiettività, perchè egli non ammette che ciò che i sensi percepiscono sia un semplice fenomeno subbiettivo. Per Platone, come per Hegel, il mondo che noi chiamiamo reale è un'apparenza delle Idee, ma un'apparenza obbiettiva. Senza dubbio un'apparenza oltbiettiva è una contraddizione nei termini; perchè una cosa non reale, un'apparenza, significa un fenomeno subbiettivo che si prende a torto per IJ! H n una cn.ca obbiettiva. Una cosa, di cui si riconosce l'obbiettività, non può, d'una maniera intelligibile, clas^^arsi tra le cose il cui caratterd essenziale è la mancanza di obbiettività; ma questa classazione ininte]li;;ibile era il solo mezzo che Platone potesse tentare | er conciliare l'esistenza di un mondo di cose col principio che ogni realtà consiste neMe Idee. Questa riduzione del sensibile a una apparenza dell'intelligibile spiega perchè, tra tutte le filosofie preced«nt', la VELINA DI VELIA fo'^se, dopo la pitagorica, quella di cui Platone riconoscesse il legame più intimo con la sua propria filosofia: è che per Platone, come per I VELINI DI VELIA, il mondo mutabi'e, percepito dai sensi, è l'apparenza obbiettivi d'una realtà immutabile. Il concetto che le co«e sono 1'apparenza delle Idee sarebbe evidentemente incompatibile con la dottrina della trascenienza. Primo, perché, come abbiamo notato, se le Idee f.>ssero separate d^lle cose, Platone non potrebbe ridurre tutto il remile alle Id'^.e, e non avrebbe alcuna ragione per negare la realtà del sensibile. Secondo, perchè questo concetto suppone che il mondo delle Idee e il mondo degl'individui, l'intelligibile e il sensibile, siano, non due cose differenti, ma due aspoti differenti di una sola e stessa cosa. Noi abbiamo confessato, è vero, che questo concetto non si trova in Platone nettamente formulato. Ma l'identità tra le cose e le Idee, che esso suppone, è ammessa della maniera più netta in molte delle proposizioni da cui lo abbiamo ricavato: p. e. quando dice che ciò che vi ha di verissimo nelle cose è quello che ne percepisce 1'intelligenza, vale a dire le Idee; ch^ a traverso gli organi del corpo Fedo Fedo. e. °,l 6.° (2j Fedone, luogo citato. i: noi vediamo gli esseri, ci'^è le Idee, coinè a traverso un career vi; qiiand) chiama le Idee gli esseri; quando dice: ciascuna cosa Sxaaxov, per significare: ciascuna Idea; ecc:. Questa iJenti ;i tra le Idee e le erse, incoucepibile nell'ipotesi della trascenlenza, è una conseguenza logica di quella dell'immanenza. In effetti, come abbiamo più volte osservato, l'astratto e il concreto, o, più generalmente, il più astratto e il più concreto, non sono degli oggetti differenti, ma uno stesso oggetto a gradi differenti di determinazione; questi gradi differenti di determinazione, che al punto di vista ordinario non esistono che nella nostra intelligenza, sono elevati dalla mi^tafisica realista a realtà obiottive; ma questa stessa metafisica non può non riconoscere l'identità dell'oggetto, di cui essi sono i gradi differenti di determinazione; e perciò i.e fa degli aspetti o df>gli stati difft^ reati di uno stfsso essere, che nei gradi successivi di determinazione che c^so percorre, si conserva nondimeno sempre identico a se stesso. Ci resta a spiegare perchè quest'ultimo grado della determinazione dell'essere, che è l'individuo, non abbia per Platone (e in generale per tutti i filosofi che uniscono al realismo il metodo dialettico che il valore di una semplice apparenza. La ragione più ovvia per riguardare il sensibile come un'apparenza ò ch'esso ò in contraddizione con l'altro aspetto deiressere, la cui realtà deve stare più a cuore a Platone, cioè con l'Idea. Ciascun sl5og è uno, ma noi lo vediamo come molli, disseminfito nello spazio e nel tempo: di questi due aspetti contraddittori dell'essere, i i rintelligibiie e il s<jnsìbile, Platone, sacrificando, come lutti i metafisici, il dato dell'esperienza al risultato dt-lla speculazione, dichiara che il reale è il primo e il secondo è un'apparenza, che l'sleo^ è uno in se stesso, ma pare molti. Tuttavia una consideraz'one più attenti mostra clic questa ragione non basterebbe per se sola a negare Iri realtà del sensibile. In ette!to questa centra Idizioue tra l'uno e i molti si trova a ciascun passo della determinazione progressiva d^irid'ja: come l'Idea specifica diviene molti negl'individui che ne partecipano, co>i l'Idea generica diviene molti nelle Idee specifiche che ne partecipano. Quci^ta moltiplicazione dell'Idea nelle Idee più particolari ad essa subordinate è per Platone anch'essa una semplice apparenza: ciascun sldog pare molti, tanto per la partecipazione de'lc azioni e dei corpi, quanto per la partecipizioiic degli altri slòri W Ma Platone non dichiara perciò che le Idee particolari sono delle semplici apparenze dell'Idi a generale: è che vi ha in esse, oltre l'elemento generico, che, come molti e diverso nelle diverse Idee, è un'apparenza dell'Idea generica, un elemento differenziale; e questo è irriduttibile all'Idea generica, e reale come eséa. Ora anche nell'individuo vi ha un elemento differenziale, che si aggiunge all'elemento specifico: sembra perciò che Platone dovrebbe conservare la realtà degrindividui in grazia delle differenze individuali, come conserva quella della Specie in grazia delle differenze specifiche. Al cominciamento di questo numero, per ispiegare la dottrina di Platone che tutto il reale consiste nelle Fedone, loogo citato. Fedone, luogo citato. Rep, »-r" ' i i I Idee, noi abbiamo detto che gli esseri si decompongono nei loro attributi, i quali, considerati gen'^ralmeite, sono d^»lle lie»^. Infntti questa è la sola ragione plausibile, che Platone e ogni altro nietafis'co che prot 'ssa lastessa dottrina, potrebbe addurre per giustificarla; ed io ho citato il Taine, il quale ammette effettivamente che il rapporto tra le entità generali corrispondenti alle Idee platoniche e le cose è quello che vi ha tra le parti e i tutti, i componenti e i composti. A questo punto di vista» l'elemento differenziale, che si aggiunge alla Specie por costituire l'individuo, sarebbe un complesso di caratteri, di cui ciascuno è generale e corrisponde a un'Idea, e che basta a determinare V individuo, perchè il conceremo di tutti non ha luogo che in un singolo individuo. Ma questo punto di vista ò, rigorosamente parlando, inammissibile. Vi ha. necessariamente nell'individuo un elemento, chi*, è irriduttibile al generale, all'Idea. Prima di tutto, la posizione in un punto determinato dello spazio e del tempo. Poi, un cumulo di caratteri generali, per quanto si moltiplichino, non potrebbe fornire una rappresentazione adequata, precisa, dell'individuale. È perciò che i realisti del medio evo ammettevano un principio particolare, V ecceità, che si aggiunge agli Universali per formare l'individuo. Il vero motivo per cui Platone e gli altri filosofi, i cui sistemi sono costruiti sullo stesso tipo del sistema platonico, non fanno come i realisti del medio evo, ma risolvono tutto il reale in entità generali, bisogna cercarlo, non nel realismo per se stesso, ma nella dialettica. Io chiamo dialettica ogni metodo in generale di dedurre i concetti realizzati che Platone chiama Idee gli uni dagli altri, allo scopo di assimilare il rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa e lo effetto. La dialettica non ò un semplice processo subiettivo per dimostrare le cose, ma è il processo stesso per cui le cose si producono, la legge della loro causazione reale. Questa legge non determina le successioni cronologiche dei fenomeni, ma le succe-isioni logiche delle entità in cui la mot;ifis'ca realista r.solve il reale. Queste entità si deducono le une dall«ì altre secondo un metodo costante fche, p. e, per Platone è la divisione del genere nelle sue specie, per Hegel il passaggio dalla tesi all'antitesi e poi alla sintesi); e il proprio di questa deduzione è che fra le entità che si deducono e quelle da cui si deducono, non vi ha semplicemente il rapporto logico di conseguenze e dì principii, ma anche il rapporto ontologico di f fleti i e di cause, poiché l'essenza della metafisica di cui parlian^o consiste nella identificazione di questi due rapporti. Il nietfdo per cui procede questa deduzione essendo, come abbiamo detto, la legge di causazione delle entità ch<>, secondo la metafi^jica realista, costituiscono il reale, ton può esservi niente nel reale che non si uniformi a questa legge, cioè che non possa dedursi secondo questo metodo; della stessa maniera che tra i fenomeni non può esservene alcuno che non si uniformi alle legji di causazione dei fenomeni. Ora nessun metafisico potrebbe pretendere di dedurre l'individuale; poiché la scienza non aspira a onoscere l'individuale, ma solo il generale. L'individuale non può dunque uniformarsi alla legge dialettica che governa il reale: la sua esistenza è in contraddizione con questa Ifoge; quardo, nella determinazione progressiva dell'essere, arriva il momento finale finale almeno nel sistema platonico, in cui si passa dall'astratto al concreto, dal generale all'individuale, accade un avvenimento senza causa. Ecco perchè il metafisico real'sta non conta quest'avvenimento fra i gradi reali dello sviluppo dell'essere, e dichiara il sensibila una semplice apparenza. Il metafisico realista non fa che quello che noi stessi farem I. mo innanzi ad un avvenimento, di cui saremmo eerti che non vi hanno nel mondo esteriore degli antecedenti capaci di determinarlo: noi lo dichiareremmo un sogno 0 un'illusione, il criterio principale, se non Tutiico, per distinguere il sogno o V illusione dalla realtà, essendo la possibilità o meno di mettere un fenomeno in connessione causale cogli altri fenomeni che costituiscono la serie che noi chiamiamo il mondo reale. Tutti i metafisici che. come Platone, realizzano i concetti, e ammettono che questi concetti realizzati possono deduisi gli uni dagli altri secondo un metodo costante che noi chiamiamo dialettico, perchè cosi è stato chiamato dai più celebri rappresentanti di questa forma di metafisica, Platone ed Hegel, riguardano il sensibile, l'individuo, come non reale, ma soltanto apparente. Schelling dice: Non vi ha passaggio continuo dall'assoluto l'entità suprema da cui tutte le altre procedono, la pia astratta di tutte al mondo sensibile; non si può concepire l'origine del mondo fenomenale che per un salto, per una discontinuazione perfetta dell'azione dell'assoluto. Perche fosse possibile di dedurre dall'assoluto la nascita delle cose reali cioè che noi chiamiamo tali, bisognerebbe che esse avessero in lui la loro ragione positiva: ora n^n vi ha in Dio cioè nell'assoluto che la ragione delle Idee, e le Idee alla loro volta non producono che delle Idee, e niuna azione positiva procedente da esse o dall'assoluto può formare un passajrgio da'I'infinito il mondo delle Idee al finito il mondo dei fenomeni. L:i filosofia non ha alle cose fenomenali che una relazione negativa: essa hu meno per oggetto di provare che esse sono, che di mostrare che esse non sono Willm Stor. della fiL aUm. da Kant sino ad Hegel Hegel nella Logica: L'idea è il vero; perchè il vero consiste nella conformità tra la nozione e il suo oggetto. Ogni essere reale tira la sua realtà dall'Idea, e non è che per l'Idea che è un essere reale. L'individuo non corrisponde alla sua nozione e per conseguenza manca di verità. Nell'Introduzione all'Enciclopedia: Un'osservazione attenta del mondo distingue ciò che, nel vasto dominio dell'esistenza interna ed esterna, non è che un'apparenza fuggitiva ed insignificante da ciò che ba una vera realtà. Dio cioè l'Idea é la realtà più alta e la sola realtà, e, relativamente alla forma, l'esistenza è in parte apparenza Zeller, quantunque sia Tuno dei principali rappresentanti dell'interprctazioDe trascendentalista, riconosce che dalle proposizioni di Platone sulla realtà delle sole Idee e la non realtà del sensibile, ne segue il concetto che il mondo sensibile non è che un fenomeno del mondo ideale. Egli ammette che questo Iato della dottrina platonica è in contraddizione con l'altro lato che egli le attribuisce, cioè la separazione tra le Idee e le cose; ma secondo lui esso importa, non l'immanenza delle Idee nelle cose, ma l'immanenza deUe cose nelle Idee. E in verità si deve convenire che sarebbe più e in parte realtà. Nella vita ordinai ia, tutti gli avvenimenti, l'errore, il male e tutto ciò che appartiene a quest'ordine di cose, come anche ogni esistenza passeggiera e peribile, sono accidentalmente chiamati delle realtà. Nota di VERA; Vi ha nel'e cose un elemento apparente, accidentale» esteriore, e un elemento reale, necessario ed interiore. È quest'elemento che è l'oggetto della filosofia. VERA nell'Introduzione alla filosofia della natura di Hegel, e.: Il tempo e lo spazio costituiscono il sustrato e come i due fattori del'a natura; di tal sorta che ciò che è uno vi ipparisce come molti, e ciò che è simultaneo vi apparisce come successivo. E questo apparire non è un fatto o uno stato puramente subbiettivo ed esteriore alla natura, ma costituisce la condizione e la forma stessa della sua esistenza. Taine nel Posil. intjl.; Questo magnifico mondo in movimento, questo caos tumultuoso d'avvenimenti che s'incrociano, questa vita in cessante infinitamente variata e multipla, si riducono ad alcuni elementi e ai loro rapporti. Tutto il nostro sforzo consiste a passare dal complesso al semplice, dai fatt alle leggi, dalle esperienze alle formule. Sinché non guardiamo la natura che per l'osservazione sola, noi non la vediamo quale è; noi non abbiamo di essa che un'idea provvisoria e illusoria Essa è propriamente una tappezzeria che noi non vediamo che dal rovescio. Ecco perche cerchiamo di voltarla. Noi ci sforziamo di distinguere delle leggi, noi scopriamo delle coppie di entità astratte noi passiamo dall'accidentale al necessario, dal relativo all'assoluto, dall'apparenza alla verità. Filos. dei Greci r<esatto di riguardare il fenomeno come inerente nella sostanza, che la sostanza come inerente nel fenomeno. È qui dunque il luogo di domandarci se s^a più giusto di formulare il rapporto tra le Idee e le cose nel sistema platonico, dicendo che le Idee sono immanenti nelle cose, 0 dicendo piuttosto che le cose sono immanenti nelle Idee. Effettivamente il rapporto tra le Idee e le cose, o, più generalmente, tra il generale e il particolare, è concepito da Platone dell'una e dell'altra maniera. Queste due concezioni corrispondono alle due formule, Vuno nei molti e Vuno è molti. Secondo la prima, l'Idra generica è contenuta nell'Idea specifica, e questa negl'individui. Secondo l'altra, l'Idea generica è la stessa cosa che la totalità delle Idee specifiche, e contiene quinii le Idee specifiche; e similmente l'Idea specifica è la stessa cosa che la totalità degl'individui, e contiene quindi grindividui. Vi ha però una differenza tra il rapporto dell'Idea generale con le Idee più particolari ad < ssa subordinata e quello dell'Idea con le erse; ed è che nel primo caso l'uno e i molti cioè Tldea generale e le Ide? particolari subordinate sono riguardati da Platone come due aspetti o due stati egualmente r«»ali che Tessere attraversa successivamente neUa sua progressiva determinazione; invece, quando l'uno r;ipprp.8enta l'Idea e i moiri le cose, di questi duo a-petti dell'essere uno solo, Vuìio^ è riguardato come reale, e l'altro, i molli^ è riguardato come una semplice apparenza. Questi rapporti contrari di contenenza reciproca tra il generale e i particolari non sono al fondo che la doppia re:azione che può stabilirsi tra i concetti, secondoche si guardano nella loro estensione o nella loro intensione: guardati nell'intensione – GRICE ESTENSIONALISMO MINIMALISMO bete noire --, il particolare contiene il generale; guardali neiresiensione, il generale contiene il11 il ' '1 i particolare. Tuttavia bisogna riconoscere che queste due maniere di concepire la relazione tra le Idee generali e le Idee particolari e tra le Idee e le cose non sono perfettamente congruenti: ciò non è solo per la contraddizione che vi ha a rappresentarsi una cosa come parte di un'altra, e al tempo stesso quest'altra come parte della prima secondo la formula dell'immanenza delle Idee nelle cose e dello Idee generiche nelle Idee specifiche, l'Idea sarebbe nella cosa e l'Idea generica nell'Idea specifica come una parte (Vx) nel tutto (/\x) ; secondo la formula contraria invece le Specie sarebbero parti (Vx) del Genere e gl'individui della Spec'e); ma ancora perchè le due concezioni suppongono in sostanza due concezioni differenti dell'Idea. Il concetto può considerarsi a due punti di vista differenti: come rappresentante l'oggetto, a cui si riferisce, considerato d'una maniera astratta e generale; e come rappresentante l'attributo, per la possessione GRICE IZZING HAZZING del quale a quest'oggetto viene dato il nome corrispondente al concetto. Questi due punti di vista corrispondono al nome concreto e al nome astratto SHAGGINESS; p. e. animale ed animalità.HORSENESS Di qu?8ti due aspetti o, se sì ama meglio, di queste due forme del concetto, qual è che realizza Piatone? è la rappresentazione astratta del soggetto animale, o quella dell'attributo animalUd V L'unae l'altra; e quantunque la realizzazione dell'una non sia perfettamente identica a quella dell'altra, egli non vi fa alcuna differenza. Infatti egli chiama indifferentemente l'Idea sia col nome concreto FIDO THE HORSE ITSELF: p. e. il grande, il piccolo, il padrone, Fedo, Parm, Parm. Parm. T^ il servo, Tuomo – CICERO: “Greeks add ‘ho’ to anthropos, I don’t know why”, il bue; sia col nome astratto: p. e. la grandezza, la piccolezza, la padronanza, la servitù, la 7nen6*aZ//à (xpaTis^óxyjs da TpocTis^a mensa. Evidentemente, per riguardare Tldea come contenuta nelle cose e Tldea generica come contenuta nelle Idee specifiche, l'Idea deve essere la realizzazione dell'attributo, p. e. dell'animalità HAIRY-COATEDNESS; ma per riguardare le Idee generiche come contenenti le Idee specifiche e queste come coDt:'nenti le cose, l'Idea deve essere la realizzazione del soggetto, p, e. dell'animale, astrattamente considerato. Di queste due concezioni dell'Idea è la prima che prevale, come apparisce da tutte le espressìoni del rapporto tra le Idee e le cose significanti o implicanti la parusia: è che è cosi che noi possiamo rappresentarci della maniera possibilmente più netta le Idee e la loro relazione con le cose e tra di loro; per conseguenza qurl'i che rigettano la sepaiaiione tra le IJeo e le cose preferiranno sempre la formula dell'immaneu'za delle Idee nelle co<je. Ma quando Platone si mette più specialmente al punto di vista della dialettica, egli deve abbandonare questa concezione per l'altra; poiché è evidente che non è p. e. la sostanzialità ^l'attributo che si divide in corporeità e spiritualità, ma è la sostanza il soggetto che si divide in spirito e corpo; Parm. FU, redo. Parm, Fedo. Parm. Parm. Diog. Laert.. I lì / il il H e che non é ^animalità che si divide in umanità e brutalità e angelita e divinita a planetatita, ma è l'animale che si divide in uomo e bruto. A questo punto dì vista la formula più giusta del rapporto tra il generale e il particolare è l'immanenza del secondo nel primo, cioè delle Idee specìfiche nel'e Idee generiche conformemente al Timeo, in cui Platone dice che l'intelligenza vede le Specie degli animali inesìstenti (èvouoag) DeirAnimale in sé e per conseguenza anche delle erse nelle Idee. Bisogna dunque riconoscere quest'oscillazione dì Platone nel concepire l'Idea: ma non si deve dimenticare che le due co)icezioni differenti sono l'una e l'altra esclusive della trascendenza delle Idee; che l'Animale in se stesso, cioè l'astratto, non è separato dall'animale concreto, ma è identico con esso, perchè runo è i molH, e i molti sono Vuno'^ e l'Animalità in se stessa non è separata dall'animalità che è l'attributo dell'animale concreto, ma è questa stessa animalità, perchè Vuno non è fuori dei molti, ma nei molti, X. La dottrina della non realtà delle cose sensibili è legata in Platone con quella d( l loro continuo divenire. Egli ammette la tesi di Eraclito, con gli sviluppi che le aveano dato gli eraclitizzanti più recenti. Il presupposto su cui erano fondate le conseguenze che questi tiravano dalla dottrina del maestro era che ciò che cangia di un cangiamento continuo non è mai, nel tempo in cui cangia, in uno stato determinato: essi ne concludevano che delle cose, che sono in un contiauo divenire, non vi ha alcuna conoscenza possibile, poiché niente potrebbe dirsi di vero di ciò che non è d'una per questa proposizione Append. Le antinomie della ragione. maniera determiaata. A questa conseguenza della tesi eraclitica, che Platone restringe naturalmente al sensibile, egii ne aggiunge un'altra, cioè che eiòche diviene non è, proposizione che senza dubbio viene anch'essa dedotta dal medesimo presupposto. Per l'esatta comprensione del legame tra la dottrina del continuo divenire delle cose e le conseguenze che gli Eraclitizzanti e Platone ne deducevano, io rinvio perciò ai luoghi di qu-^sto scritto sopra indicati. La quistione che per ora c'interessa è un'altra, cioè: quando Platone oppone l'Idea eterna e sempre la stessa alle cose che nascono e periscono e sono in un divenire continuo, parla egli, come intendono gì'interpreti trascendentalisti, di due mondi separati – POPPER DI TRE -- e contrari, l'uno sottoposto a un perpetuo cangiamento, e l'altro esento da qualsiasi cau giamento; o di un mondo solo, che può consiaevarsi a due punti di vista oppo-ti, comò in un divenire c^nJiauo, guardato in ciò che ess3 ha di fenomenale, d'individuale, di contingente, e come immutabile, guardato in ciò che ha di rea^e, di generale, di necessario? Prima di tutto si deve osservare che questi stossi caratteri di eternità e d'immutabilità, attribuiti allo Idee, non si comprendono perfettamente che nell'ipotesi dell'immanenza. Le Idee sono eterne e sempre le stesse non è Arìst. Met. Met. Arisi, Mei, Fedone, Conv. SII, FU, 7'ui?, ecc. Parm. Conv. Polli, FU, Fedo. Tim, ecc. che la traduzione in lingua realista di questo risultato dell'osservazione più volgare: che nei cangiamenti incessanti che avvengono nel mondo, le forme generiche e sjecifiche d^gli esseri non cangiano; che gl'individui periscono, ma le specie sono stabili. Per l'eternità delle Idee, Platone esprime lo stesso concetto, espresso da Aristotile quando egli dice che le forme non nascono né periscono – ma l’idea di implicatura nasce con Grice -- : l'uno e l'altro alla dottrina ai terìore dei F.sici di un'origine e di una fine del cosmos attuale gos*iiuiscono la dottrina più conforme alla tendenza innata del nostro j-pirito di generalizzare, quanto più è possibile, la nostra esperienza deireternità dell'ordine presente del mondo. Ma se le Idee non sono le forme generiche e spcciticbe degli esseri, l'eternità, di cui vengono dotate, è arbi(raria come tutti gli altri caratteri, che ad c^sc hi attribuiscono: in elìctt'\ il male radicale e incurabile del sistema delle Idee trascendenti è la loro assoluta incapacità di esercitare sulle cose un'efficienza qualsiasi; sicché qualunque ipotesi secondaria di cui venga circondata l'ipotesi della loro esistenza, è, come questa, gratuita e priva di scopo, la loro causalità restando, in tutti i casi, egualmente misteriosa. prova dell'immanenza delle Idee è V argofi) Mei,, ecc. Se non cho per Ari>àtotile la forma non può considerarsi come identica negl'individui differenti CHE PER METAFORA – He is an ideal pupil; per Platone invece quest'identità ò reale. Nel Parm, per significare rigeltando la dollrina delle Idee^ dice: non lasciando che la forma l$£a di ciascuno detjli esseri cioè di ciascuna specie di esseri sia sempre la stessa. Ciò prova che l'Idea non è che la forma di ciascuna specie di esseri riguardata come sempre la stessa, cioè come numericamente identica in tutti gl'individui che rivestono questa forma. tnento per cui Platone dimostra la loro esistenza dal divenire continuo delle cose. Conformemente alla tesi degli Eraclitizzanti, è impossibile di avere la conoscenza di ciò che diviene: Platone ne conclude che bi90o:na ammettere un essere permanente, che sia il vero oggetto della conoscenza; questo è V Idea. Quest'argomento che Aristotile dà come il vero motivo del sistema delle Idee apprezzamento su cui dobbianro fare le nostre riserve, perchè i sistemi metafisici, secondo noi, non hanno per motivi dei sofismi artificiali come questo, ma i sofismi naturali dello spirito umano era fondato, come la più parte degli altri argomen Met. Io credo anzi che si debba prendere al rovescio il rapporto che Aristotile in un'epoca in cui non potremmo attenderci che lo spirito umano avesse già acquistato la coscienza delle sue tendenze metafisiche e dei processi per cui esse si realizzano stabilisce fra la tesi degli eraclitizzanti e la dottrina delle Idee. La dottrina delie Idee non e una cnseguenza della tesi degli eraclitizzaìiti, ma è questa che è, in Platone, una conseguenza di quella. Io non pretendo che Platone ammettesse U dottrina del continuo divenire delle cose in conseguenza delia sua dottrina delle Idee, perchè non vi ha tra le due dottrine una oonnessione naturale. Si deve dunque ritenere che Platone adottasse la tesi di Eraclitoche al punto di vista moderno è l'espressione esatta della verità, e che anche al punto di vista antico era un'interpretazione plausibile dei dati deirosservazione per dei motivi indipendenti dal sistema delle Idee. Ma le conseguenze esorbitami, che gli Eracletiszanti come CRATILO deducevano da questa tesi, cioè l'indeterminatezza delle cose, che continuamente divengono, e la loro inconoscibilità, non dovettero essere accolte da Platone, che perchè egli vi trova delle prove per dimostrare l'esistenza delle Idee. Similmente, quando Platone aggiunge, come conseguenza dell'indeterminatezza di ciò che diviene, che ciò che diviene non è, egli ammette la legittimità di quest'inferenza, perchè vi vede una conferma della dottrina della non realtà del sensibile, ch'egli ha dedotta dal sistema delle Idee. / deiresistenza delle Idee tirati dalla scienza e dal Concetto, sul presupposto che tra le nostre nozioni e i loro ogcretti deve esservi una conformità assoluta. Per la dottrina deirindeterminatezza di ciò che continuamente diviene, non potrebbe esservi una rappresentazione assolutamente conformo, e quindi nemmeno una conoscenza, del l'individu ile, perchè questa lo rappresenterebbe d'una maniera determinata, mentre ciò che diviene non è mai d'una maniera determinata. A questo noi obbietteremmo-ed è in efi'etto l'obbiezione che Aristotile faceva alla tesi degli Eraclitizzanti che, per conoscere le cos^, non è necessario di formarsi una rappresentazione esatta, precisa, dello stato 0 degli stati successivi ia cui si trova l'individuo, ma basta avere la conoscenza della forma specifica, dell'sISos comune degl'individui; ora questa forma non è attìnta dal divenire, perchè i cangiamenti dell'individuo, qualunque sia la loro natura, sono sempre contenuti dentro 1 limiti di essa, e per conseguenza la sui conoscenza, e quindi quella dell^. cns\ è possibile. Ma di quesfa miniera noi non faremmo la confutaz'one dell'argomento platonico, invece lo continueremmo: in effetto Platone soggiungerà che Toggetto di questa conoscenza dell'elSos comune degl'individui non sono gl'individui la conoscenza che ha per oggetto l'individuo sarebbe la rappresentazione esatta e completa dello stato in cui esso si trova, e questa si è dimostrata impossibile ma è TsISos in so st?ss'>, perchè deve esservi una conformità assoluta tra la nozione e il suo oggetto, e perciò una nozione astratta e generale, qual è la conoscenza del MeU Tslaog comune, non può riferirsi che ad un oggetto egualmente astratto e generale. Ciò che prova che l'argomento di Platone mira a dimostrare un elSog che è Degl'individui, quantunque separabili xwpioxóv nel senso che abbiamo spiegato da essi, e non un elòoz che è fuori di essi, è che nel primo caso si attribuisce a Platone una proposizione incontestabile, cioè che l'oggetto della scienza non è ciò che vi ha nelle cose d'individuale, ma ciò che vi ha in e -so di generale; nel secondo caso invece gli si attribuirebbe questa proposizione stran», che la scienza si riferisce, non al mondo reale, ma ad un mondo fantastico HOW THE LAWS OF PHYSICS LIE , posto, non si sa dove, al di fuori del mondo reale. Forse V interprete trascendentalista dirà che Platone non vuole dimostrare quale sia l'oggetto a cui si riferisce, nel fatto, la scienza, ma quale sia quello a cui essa DEVE riferirsi. E sia pure. Ma si può attribuire a Platone V idea che la sclen/.a deve riferirsi a un altro mondo, e non a questo che ò il solo che cMntcressi di conoscere? Passiamo alle prove dirette, contenute negli scritti di Platone, che ci mostrano che l'essere, V immutabile, non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso, come Dio per Hegel Gott in Werden. La prima è l'attitudine ambigua di Platone verso la tesi eraclitica. Aristotile dice Mei.: Conversato Platone con Cratilo, e familiarizzatosi con le opinioni eraclitee che tutti i sensibili continuamente fluiscono e non vi ha di essi scenza, mantenne anche io appresso le stesse opinioni. E infatti la dottrina del continuo divenire delle cose noi la troviamo nel Fedone, nel Fileho, nel Sofista, nel Timeo, ecc. Ma intanto vi hanno altri luoghi in cui Platone si mostra avversario risoluto di questa dottrina. E ciò che fa specialmente nel Teeieio. In questo dialogo la presenta come conducente logicamente alla tesi di Protagora che le cose non hanno in se stesse una natura determinata, ma sono quello che sembrano a ciascuno, ciò che deve riguardarsene come una sorta di confutazione per 1'assurdo; e la combatte apertamente a luogo di cui basterà di cithre il tratto seguente, che è il più importante: SocR.; Tutto si muove, voi dite, tutto fluiscp. Non è cosi? Teodoro: Si. Socr.: Senza dubbio del doppio movimento che noi abbiamo distinto, di trasla[ Alcuni vedono nel Teeieio una testimonianza storica sul rapporto tra Protagora ed Eraclito, e ammettono, fondandosi su di essa, che la tesi di Protagora deriva realmente dalla dottrina eraclitica del divenire. Ma che il legame tra le due dottrine sia una semplice speculazione di Platone, è ciò che egli stesso confessa chiaramente, quando dice che espone, non ciò che Protagora e i suoi partigiani dicono apertamente, ma il loro secreto. D'altronde che la deduzione del Teeieio non abbia alcun valore storico, risulta sufficientemente dalla mancanza di una connessione naturala tra le due dottrine, poiché è evidente che la tesi di Protagora è dedotta dal valore puramente subbiettivo delle sensazioni, e questo dalla loro relatività; ora non vi ha alcun rapporto logico tra questi principii e la dottrina del divenire continuo delle cose. Aggiungiamo che Ira la tesi di Protagora e quella d^ Eraclito, non solo non vi ha un legame logico, ma vi ha anzi unaaperta contraddizione; perchè la prima distruggo l'obbiettività delle cose, ed è incompatibile con qualsiasi sistema dommatico. Zeller dice, è vero, ohe Protagora «ha incontestabilmente attribuito alle cose un'esistenza obbiettiva; ma quest'affermazione non ha altra base che l'esposizione del Teeieio- poiché Sesto Empirico Purrh che ò 1'altra autorità su si appoggia Zeller, non è un testimonio diretto, e si fonda anch'egli evidentemente sul Teeieio. L'antecedente storico della tesi di Protagora deve corcarsi, come ben nota Lange Sior. del mater,, piuttosto che nella dottrina di Eraclito, nell'atomismo di Leucippo, perchè questo era il primo passo verso la negazione assoluta del valore obbiettivo della sensazione. -Ili V; zione e di alterazione? Teod.: E come do, se sì vuole che tutto si muova perfettamente? Sccr.: Se le cose cangiassero semplicemente di luogo, e non si alterassero, potremmo dire quale sia la natura di ciò che fluisce cangiando di luogo. Non è vero? Teod.: Certamente SocR.: Ma siccome nemmeno è una cosa Ftabiie che ciò che fluisce fluisca bianco, ma anche in questo vi ha cangiamento, in modo che la bianchezza stessa fluisce e si muta in un altro colore GRICE ON SEEMING TIES BLUE AND GREEN, affinchè non si sorprenda in uno stato fisso; è mai possibile di dare a un colore un nome – GRICE LIGHT BLUE GREEN, EXAMINING A CHAMALEON, in modo che questa denominazione sìa giusta? Teod.: Come sarebbe ciò possibile, o Socrate, sia per il colore, sia per un'altra di tale cose, se, mentre parliamo, esse fuggono, poiché fluiscono continuamente? SocR.: E che diremo delle sensazioni, p. e. di quelle della vista e dell'udito? che esse permangono nello stato di visione o di audizione? Teod.: No, s'è vero che tutto si muove SocR. : Non si deve dunque dire che si vede qualche cosa anziché che non si vede, né che si ha qualche altra sensazione anziché che non si ha, so tutto è assolutamente in movimento Teod.: No, senza dubbio Socr.: Ora la sensazione è la scienza, abbiamo detto io e Tceteto Teod.: Si Socr.: Interrogati dunque che cosa FÌa la scienza, abbiamo risposto qualche cosa che non è scienza piuttosto che non scienza Teod.: Cosi p«re Socr.: Abbiamo giustificato la nostra risposta d'una bella maniera, noi che ci siamo sforzati di mostrare che tutto si muove per far ved'^re la giustezza di questa risposta: quello che si è visto è, mi sembra, che se tutto si muove, qualsiasi risposta, su qualunque c<>sa si risponda, é egualmente giusta, sìa che si risponda che la cosa è co>ì, sia che non è co>i, o, se ti piace meglio, che diviene cosi, o che non diviene cosi, affinchè le nostre parole non attribuiscano ad essi ai partigiani della dottrina del divenire alcuna permanenza NOTHING REMAINS BUT MUTABILITY. Teod.: Dici bene - Socr.: Tranne in questo, Teodoro, che ho detto così e non così: queste parole non devono essere usate, poiché, essendo costo non cosìf le cose non sarebbero più in movimento; infatti né così né non così è movimento. I partigiani di questo sistema dovrebbero inventare qualche altra parola, po'ché sin qui non hanno termini adattati alla loro ipotesi, tranne forse quvisto: in nessun modo. Questa espressione, ripetuta all'infinito, é la più conveniente per essi. E evidente che qni Fintone non accoglie, ma rigetta come assurda, LA TESI DI CRATILO che non vi ha alcuna proposizione vera sulle cose ch^ continuamente divvugono; e che egli la presenta come una conseguenza inevitabile della dottrina del continuo divenire, per mostrare che questa conduce ad una conseguenza assurda. Orri come conciliare quest'attitudine ostile coi luoghi dei suoi i-cr.tti in cui si mostra un propugnatore di questa dottrina, e con la testimonianza d'Aristotile? La cosa si sp'ega pcrfeitamente, se si ammetto che l'immutabile e ciò che continuamente divien'3 non sono per Platone due L'argomento del Teeleto è la definizione della scienza. Teeteto, interrogato da Socrate, risponde che la scienza è la sensazione. Questa definizione, secondo Socrate, equivale all'opinione di Protagora, la quale alla sua volta equivale alla dottrina di Eraclito e degli altri sapienti del divenire continuo di tutte le cose. Di là l'esame di questa dottrina, allo scopo di confermare o d'infirmare la definizione di Teeteto. <\ mondi separati ed opposti, ma un solo e stesso mondo che può considerarsi a due punti di vista opposti: come in un divenire continuo, nel suo elemento apparente, individuale, e come immutabile, nel suo elemento reale, generale. Quando si mette al primo punto di vista, Platone è un partigiano di Eraclito; quando si mette al secondo punto di vista, è un avversario di Eraclito, e un amico dei VELINI di VELIA. Se il mondo non presentnss'^. a Platone questi due aspetti opposti, le due attitudini opposte verso la dottrina del divenire sarebbero incomprensibili. Del resto, non bisogna credere che quando Platone parla, nelle sue prove per dimostrare l'esistenza delle Idee, della inconoscibilità dei sensibili, che continuamente divengono, egli ammetta tale quale LA TESI DI CRATILO che non può enunciarsi di essi alcuna proposizione vera: la inconoscibilità dei sensibili è una sottiglie7za di cui Platone si serve per il comodo della twa argomentazione, ed essa non importa che non possiamo assegnare con verità ad una cosa alcun attributo, COME PRETENDE CRATILO, ma semplicemente che non è possibile alcuna nozione adequata e completa dell'individuo, che lo rappresenti esattamente nella sua fisonomia individuale e, per dir cosi, nel suo colorilo preciso, perchè questa fisonomia e questo colorito cangia continuamente, e non si trova mai perciò in uno stato determinato. È questa rappresentazione solamente ch'egli chiamerebbe una conoscenza dell'individuo, perchè egli suppon che tra la cono Nel Teeteto, in cui combatte tutti i filosofi precedenti, ai quali tutti attribuisce l'opinione di Eraclito, non parla in tono amichevole che di Parmenide di VELIA e degli altri VELINI DI VELIA. scenza e il suo oggetto deve esservi una conformità assoluta. LA TESI DI CRATILO che non può enunciarsi di una cosa alcuna proposizione vira, sarebbe in contraddizione con la dotuina che le cose partecipano alle Idee, perchè che una cosa pariccipa a im'Idt'a vuol dire per Platone che della cosa può predicarsi V attributo corrispondente airi'lca. lia presenza dell'Idea nel sensibile inetto necessariamente un limite al suo divenire continuo, e alla indeterminatezza di'» ne è la conseguenza: le cose cangiano continuamente, ma questi cangiamenli non oltrepassano nirii i ii iiiii necessari perchè esse abbiano una essenza deierinin.ita e partecipino ad attributi determinati. Noi abb'amo giA.visto che, quantunque la definizione non abbia propriamente per oggetto che l'Idea, tuttavia essa si applc i agl'individui, perchè l'Idea è l'esscQza coniun»^. degl'individui. Secondo gl'interpreti trascendentalisti vi ha per Platone, non un mondo solo, immutabile sotto un aspetto e sotto un altro in continuo divenire, ma due mondi, di cui nell'uno domina un'assoluta immutabilità e neiraltro un divenire assoluto. In questa interpretazio^ne Platone ammetterebbe pei f« fa mente la tesi di Eraclito, limitandola al mondo realeeoe che noi chiamiamo così, e non respingerebbe che un'applicazione universale di questa tesi per cui essa si estenderebbe anche al mondo trascendente delle Idee. Ma, è incontestabile che nel Teeteto non è rigettata la tesi del divenire assoluto, inquanto essa si applicherebbe al mondo ideale, ma quella del divenire assoluto nel'o stesso mondo sensibile: è questa che Platone combatte, perchè i partigiani della dottrina del divenire non avevano parlato di altro mondo che del sensibile, ed egli stesso, neiresposiz'onc che fa di (juesta dottrina bì, non ha evidentemente in vista che il mondò sensibile. Quando poi comincia a di 'HU' I, ttumm^mammima scaterla, egli dichiara che va ad esaminare quest'essenza sempre in movimento di cui sopra ha parlato: quesVessenzx sempre in movimento non può ai^nìficare che il mondo sensibile concepito secondo il sistema di Eraclito e dei suol partio-iaui; e del resto nel tratto di questa discussione che è stato citato, si vede chiaramente che Pla(;>)ne non esamina quali siano le conseguenze deiripotobi che tut^o l'essere, vale a dire tanto il mondo delle cose quando il mondo delle Ide-^, s'a sottoposto al un flusso continuo, ma quali siano le conseguenze deiripote^i che le cose-cioè le cose particolari, sensibiii-fluiscano e si muovano continuamente, tanto di un movimento di tr.ìsla/Jone quanto di un movimento di alter,azione-perchò la tesi eraHilica incl.ide necessariamenlc l'uno e Taltro di questi due moviuìonti. Aggiungiamo che la limitazione che la dottrina ddle Id^^e apporta a quella del divenire continuo, non può salvare questa, se le Idee sono trascendenti, dalle conseguenze assurde che Platone ne fa derivare: a presenz.^ ch'ile Idee nel mondo sarebbe incompa-ibih^ coi T indcterminatezzj che la tosi di Protagora e quella .li Cratilo attribuiscono alle cose; ma Pe-^ist-nza delle hhe trascendenti sarebbe])ertettamente coiieiliabil.; c^n <iuella di un mondo, in cui non vi fo^se chj u.i fluire continuo Renza nient^ì di fisso e di determinabile, come preten(le Cratilo, o delle semplici apparenze senz'éìleuiìa realtà, come pretende Protagora -a parte nat^ralm-nt; la contraddizione intrinseca inerente nel concetto di un mondo slmile, considerato per se stesso. L'opposizione del Tecteio alla dottrina del divenire ò cosi evidente, e la contraddizione che ne, risulta nella filosofia platonica è cos'i irisolubi.V nell'interpretazione tradizionale di questa filosofia, che si potrebbe essere tentati ad ammettere che Platone non adottò la dottrina del divenire che in un'epoca posteriore a quella in cu^ scrisse il Teeteto, Ma la testimonianza d'Aristotile Mei. è troppo esplicitamente contraria a quest'ipotesi: e d'altronde noi vediamo Platone, in uno stesso dialogo, mostrar.d in un luogo un propugnatore di questa dottrina, e in un altro un avver^^ario. Cosi nel Fedone oppone alle Idee che sono sempre nello stesso stato le cose che non sono mai nello stesso stato, ed esorta a guardarsi dall'opinione di quei sedicenti saggi che non ammettono che niente nò nelle cose (io)v 7ipaY|iaxo)v ne nelle ragioni sia costante, ma che tutto sia in un flusso e riflusso continuo come l'Euri pò, e alcuna cosa non restì jìer alcun tempo nello stesso stato; nel Filebo parla con ironia evidente della bontà della dottrina che tutto si muove continuamente in ogni senso si tratta dell'applicazione di questa dottrina ai cangiamenti del nostro corpo, non della sua estensione a un mondo trascendente, e nega che possa darsi una scienza assolutamente vera delle co.-^e sensibili, perchè esse non sono, non furono, e non saranno mai nello stesso stato. Queste contraddizioni non hanno niente di st'-ano, perche corrispondono ai due punti di visti opposti, da cui le cose, nel sist^.ma platonico, possono considerarsi. Nel Cratilo mostrando che una moltituiinc di nomi implicano per la loro etimologia la dottrina del divenire continuo, Socrate dice: Si, per il Cane, io credo di non aver male indovinato, osservando poco fa che gli antichissimi autori dei nomi, come la più parte dei sapienti dei nostri giorni, a forza di rivolgersi in ogni senso ricercando la natura delle cose, sono stati presi da vertigine; perciò ò avvenuto di parer loro che le cose stesse si volgono e si muovono assolutamente. E la causa di quest'apparenza essi non l'attribuiscono alla maniera in cui sono int9riorinente affetti, ma stimano che lo cose stesse abbiano una tal natura che niente vi sia in esse di stabile e di fermo, ma fluiscano tutte e si muovano, e si agitino in ogni senso, e sempre divcng-ano. ^leste parole condannano l'applicazione della dottrina del divenire al mondo stesso dei nostri sensi, e non semplicemente la sua estens'one a un moodo iperfisico: è ciò di cui si vede la conferma dove, per mostrare a Cratilo che la conformità dei nomi a [uesta dottrina non prova la sua verità, Socrate gli fn vedere che molti nomi non vi si contormano, ma indicano invece la permanenza SHAGGY; perchè questi nomi indicano la permanenza supponendo l'esattezza delle etimologie fantastiche del Cratilo nelle cose stesse, non m un mondo trascendente. Nel luo^o citato non vi ha niente di più che nel Teetcto: ma sulla fine del dialo-o Platone sp-ega chiaramente che, se eg'i rigetta il divenire assoluto delle cose, è per la presenza, in esse, di un elemento immutabile, cioè dell'Idea. Socr.: Gli autori dei nomi li hanno stabiliti secondo il sistema che tutto è in un movimento e in un flusso continuo tale sembra essere stata la loro opinione- ma quest'opinione, se realmente essi l'hanno avuta, non è vera, ma sono caduti in un turbine, in cui sono stati presi da vertigme e in cui trascinano e precipitano noi stessi. Esamina, O AMMIRABILE CRATILO, ciò che io spesse volte sogno. Diremo noi che il bello stesso e il buono e eiasenno degli esseri sono qualche cosa? si sa che nella lingua platonica ciò vuol dire: esiste l'Idea del bello, del buono, e di ciascun'altra cosa? o lo negheremo V~ Cratilo: Per me, o Socrate, io credo che sono qualche cosa- SocR.: Noi non cerchiamo se <iuak-h'; viso o qualche altro oggetto di qu sta sorta ò bello, e tutto ciò sembra fluire; ma domandiamo: il bello stesso Cl'ldea) e sempre tale qual ù V-CuAr.: Necessariamente SocR.: Sarebbe forse possibile di rettamente denominarlo SHAGGY, se sempre fugge, e di dire che esso è e che è ta^e; o sarebbe necessario che, mentre noi parliamo FIDO IS SHAGGY, esso divenga subito un altro, e fugga, e non sia più tale? Crat.: Sarebbe necessario Sorc: Come potrebbe essere qualche cosa ciò che non è mai nello stesso stato? se infatti vi ha un tempo in cui è neMo stesso stato, è chiaro che per quel tempo non vi ha in esso il minimo cangiamento; ma se ò sempre nello stesso stato e sempre lo stesso, come potrebbe cangiare e muoversi, poiché non lascia mai la sua forma iòsa? CRATILO SPERANZA GRICE: Inniun modo Socr.: Inoltre non potrebbe essere conosciuto da alcuno: poiché mentre la potenza conoscitiva tenterebbe d’attingerlo, esso diverrebbe altro, in modo che sarebbe impossibile di sapere che e come sia, e perciò non potrebbe esservi alcuna conoscenza di ciò che non ò in alcun modo determinato CRATILO: E come tu dici Socr.: Ma nemmeno si deve affermare, O CRATILO, che esiste la conoscenza, se tutte le erse si mutano e niente perniane. Se infatti questo stesso, la conoscenza, non si muta dall'esser conoscenza, permarrà senq)re la conoscenza, e sarà conoscenza: ma se 1' z^.^o^ stesso della conoscenza si muta, e si cangia in un altro d^o^ di conoscenza, non sarà neppure conoscenza; se perpetuamente si muta, perpetuamente non sarà conoscenza. E secondo questo ragionamento non vi sarà nò È evidente che l' £l5o^ della conoscenza di cui qui ritratta ò la specie o la forma stessa della conoscenza reale, di questo mondo, non un suo archetipo trascendente; ma non lo è meno che quest' £t5og è l'Idea, il concetto realizzato, perchè tutto questo luogo ha per iscopo di mostrare che il divenire continuo delle cose non attinge le Idee. 'ri'," il conoscente rvtoaóiisvov né il conoscibile frvwoer^oófievov che non vi sarà, neiripotrsi del divenire assoluto, il conoscente, lo ha provato nel tratto chi immediatamente precede; che non vi sarà il conoscibile, lo ha provato sopra, mostrando che, in quest'ipotesi, niente potrebbe essere conosciuto. Ma se sempre é il conoscente vtYvwaxov e il conoscibile rtrvo3oxó|xevov e il bello e il buono e ciascuno degli esseri, le cose che ora diciamo non sembrano io niun modo simili al flusso e al movimento. Che questo sia il vero o quello che vogliono i partigiani di Eraclito e molti altri, non è forse facile di decidere; ma non ò di un uomo saggio scttomettere se stesso e la sua anima all'impero delle parole, e fidando in esse e nei loro autori, affermare, come uno che sa, e avere di se stesso e delle cose la cattiva opinione, che niente vi ha di stabile, ma tutto cangia come l'argilla, e credere che le cose xà TTpaniaxa abbiano la stessa disposizione che gli uomini malati di flussione, cioè che tutto Tidvxa xpV^Iiaxa sia in uno scorrimento e m flusso continuo L^ parole Tipar^iaxa e xpv^il^axa e sovratutto le parole sottolineate di se stesso provano che 7/ hr/lo, il buono r ciascuno dectli esseri sono ovMantemente lì hello sfesso, lì buono e ciascuna defili esseri, di cni sopra ha tìomandato se deve dirsi o no che sono qualche cosa, vale a dire le Idee. Dunque il conoscente e il conoscibile, che appartengono alla stessa sorio, sono puro della Idee. Ma qvLe^to conosr.'nte e conoscibile non possono ossero qualche cosa di diverso dal conoscente e conoscibile di cui è quistione nella proposizione immediatamente i.recedente. Ora in questa proposiziono si tratta cort amenta del conoscente e conoscibile di questo mondo reale, non di qualli di un mondo trascendonte. Notiamo elio questo conoscente è la stessa cosa che la conoscenza e l'siao della conoscenza di cui sopra: si sa infatti che Platoue dà alle idee ora il nome astratto e ora il nome concreto. N la dottrina del divenire continuo, che Platone respinge, ò quella del divenire continuo delle cose sensibili. L'immanenza dell'essere, cioò delle idee, nel divenire è confermata dal Sofista. Ma prima di mettere questo luogo sotto gli occhi del lettore, occorrono dello spiegazioni sulla dottrina dell'immutabilità dell'idea, che, quantunque non abb'ano il legame più intimo con rargcmento del presente numero, pure non saranno una digressione inutile, pcrclu> il nostro scopo non ò solo di provare l'immanenza delle idee platoniche, ma anche d’elucidare, per quanto ci è possibile, la loro nozione. L'idea è il concetto realizzato, e riguardato come uno ìlei molti. Cosi le determinazioni dell'idea non sono che le deterniinazioui stesse delle cose subordinate all'idea, cioè quelle che sono comuni a tutti gì'individui della specie. Bisogna dunque, rappresentarsi l'idea xome un individuo astratto – THE ALTOGETHER GIRL LOVES THE ONE AT A TIME SAILOR, vale a dire f-pogliato di quegli attributi cLc non sono comuni a tutta la specie: quest'individuo astratto – SPECIMEN ASTRATTO -- à presente in tutti gl'individui concreti, uno e lo stesso in tult'. Sarebbe per conseguenza in contraddizione con la nozione stessa dell'idea platonica il supporre che degli attributi, che appartengono a tutti grindividui o SPECIMEN della specie, non appartengano all'idea, ovvero che appartengano all'idea degli attributi PREDICATO PROPRIETA SHAGGY che non appartengono agl'individui della specie. Ora ò un attributo comune a tutti gl'individui p. e. della specie umana di vivere, di nascere, di morire, di svilupparsi, di pensare, di camminare, ecc. Bisogna dunque ammettere nell'uomo in so, nell'idea, questi attril)iiti e tutti gli altri simili denotanti un cangiamento, e quindi una successione. Senza dubbio il cangiamento e la successione che questi attributi denotano nell'uomo in se, devono dlistinguersi da quelli che essi denotang.amento ed, una sncccssionc che occupano una portmpo; ...ycce,1 ca„.iaD,cnto e la suces«ioue che rsi.tono ueir uomo i„ se,,.on possono occupare una po;. rt:,;ro "^» un te.npo 0, n un altro tempo determinato, N attritermi: tV:'"'' u-^t--n.nviduo terminato, e non alinonio considerato in astratto cioò ne concetto comune. Vn. successione che no'n 1' U'^JiO n. alcun tempo deternìinato non è né più né me o jnconcep,bi.e di una, ranc.o.. a che non ha «'.cu.;:;:'" t.ta determinata o di t, n IZZING HAZZING animale che non è di alcuna specie determinata URMSON AN ANIMAL IN THE BACKYARD: NOT my aunt or an ant, but a middle-sized mammal: questa concezione non ùnplica alte T/I.lea. come Platone .lice noi Ti»<e„ o-HS b è fuori .1«I tempo, La sn„ ote. ni. à non signiliea Co os.a esis.e .ut h, o i aurjbiito coinun.ì n, tuli rri'in.llv'U.i; r» i "^t un iv (oli V l^^»' i' loro conc.Uo cornane, ohUietston. a .n un tom,.o determinato, perchè, «o.ta non oon.pe.e ci, a «n m.lm.Uu, .lelonninato; né l'esistenza por,„o iUenpo, e .ooncoi.jre 1 I.loa bisogna . liin.iiij fare astrazione .lol temi.o-consi .orato corno „a porzione o co„ la .o,,.|là soTintìni^a ::i::;o;rcT;^^ l'e e^i n,Tl, ',^-X"^-'n..-. Così por .-IVe unVe la ' '"M'I/cemonto ch'essa r jL . i:;a;ir:ci; ;^rr:uo\itmi:;"Mf'"' lempo. Ma occuparo luito il fn»ii.\ una propnoià, non «IoH'T.Ia.i i„ tom,,,) u impossibilità logiche ciie quelle inerenti in generale alla r alizzazione degli astratti. É vero però che essa ha questo (li speciale, di presentare una insuperabile difficoltà verbale. Si dirà che l'uomo in sé nasce, muore, cresce, cammina, ecc.? QUESTE EXPRESSIONI SONO IMPROPRIE, perchè esse suggeriscono necessariamente l’idea IMPLICATURA che questi avvenimenti hanno luogo nel tempo. Si dirà invece che NON nasce, non muore, non cresce, non cammina, ecc.? L’IMPROPRIETA NON SARA MINORE, perchè ii significato IMPLICATURA di queste parole esc'ude che questi attiibuti: nascere, morire, crescere, camminare, ecc. siano rappresantati nel mondo ideah». Siamo in una REGIONE INACCESSIBILE air immaginazione, e per conseguenza anche ALLA LINGUA, poiché un pensiero che può essere espresso nettamente suppone una consistenza logica, che cessa nece-su-iamant3 là dove finisce il dominio dell'intuizione sensibile – SRAWSON GRENZEN DER SINNLICHKEIT. Quando IMatone dice che lldea è sempre la stessa (icl ;^ aOxyJ , sempre uniforme Oiovosieà^ àst ov il bello in sé e ciascun esrjere in sé (2i, sempre allo stesso modo àcì (oaaOxo)^ (:] e nello stesso stato àsL xaxi xaOxa, che è immobile i àsi xaxà xaOxà i/^ov àxivVixwc;, che non vi ha ia es a cangiamento o al'erczione alcuna, FU., Pnnìif'n,, Polìt. (U3 d ro*}i-., rVrrr., ecc. Conv,, Frdom' Fu, Follt, , ('ralA\\'ò o, Tini.2d i\ F.done'lf^ c-, e, HO b, Ik,'p, a, e, oce. ^ /'/'. ,5S a. Polii., Fedone, SO b, Tim2S a,, y»VjA , o, , ecc. Ti,n, Fedone . S •stSt 5 i ì i ì che non nasce ne perisce, non cresce ne decresce, non diviene più vecchia nò più giovane, ecc.; T intenzione di queste e simili espressioiii è sia di escludere dall'idea i cang'iamenti che avveogono nel tempo, sia di affermare che l'idea si ritrova, una e sempre la stessa, senza cangiamento o differenza alcuna, in tutti gr individui successivi che riempiono il tempo. Ma questa maniera di esprimersi, d'altronde inevitabile, si presta facilmente ad un'interpretazione inesatta dell'idea platonica, come una forma assolutamente immobile e priva di qualsiasi attività; anzi, se dovesse prendersi rigorosamente alla lettera, la giustificherebbe. Per dare forza a questa interpretazione, agli equivoci occasionati dalle espressioni platoniche, si aggiungerebbero le cs'genze della nostra facoltà rappresentativa, poiché e evidente che rimmaginazione può rappresentarsi j)iù ffjcilinente una sostanza immobile e inattiva che esiste sempre la stessa per tutta la durata del tempo – THE ETERNAL HORSENESS IN HERSELF --, anziché un'entità nssolutflmente astratta, posta fuori del tempo, e in cui vi ha del cangiamento e della succ» ssioi;e, ma un cangiamento e una successione che non avvengono nel tempo. Questa inlerpretaziore delle Idee platoniche ha avuto effettivamente luogo. È cosi infatti che se le rappresenta Aristotile -- WITH FRIENDS LIKE THAT H. P. GRICE: in un gran numero di luoghi egli attribuisce ad esse l'immobirtà, evidentemente in un senso asci) flL, Tim., Coni-,, Fedujit', SO b, 7iV^>. Coui'Uo Tim, Mei. Top,, Phys,, Kth. Jùtd,, ecc. soluto che esclude pure questo mutamento estratemporaneo di cui sopra abb'amo parlato, e le chiama anche le sostanze immobili; ed è notevole è un'osservazione che potrà giovarci in seguito che esclude esplicitamente da esse ogni attributo esprìmente una facoltà di ago di patire Tioir^xixòv yj TiaGyjTixóv. Sembra anche che questo fosse, presso i contemporanei, il concetto che volgarmente si ha dell’idee: ecco p. e. un argomento, che Alessandro d’Afrodisia dice impiegato dai sofi t', per concludere IL TERZO UOMO – IL TERZO UOMO è una obbiezione che i contemporanei fanno al sistema dell’idee, e che consiste a dedurre dai principii stessi di Platone la necessità d’ammettere una terza specie di entità, distinte dall’idee e dagl'individui: Quando diciamo l’uomo cammina non lo diciamo dell'Ideri, che è immobile, nò di alcuno dei singolari, che sono inconoscibili; LO DICIAMO DUNQUE D’UN TERZO UOMO. Questa interpretazione dell’idee ò evidentemente incompatibile con le esigenze più indispensabiii del sistema: il mondo ideale, cosi concepito, rappresenta una natura, per dir così, morta, non la natura reale. L'uomo in »ò, senza movimento, senza attività, senza sviluppo, sarebbe, non la leabzzazione del concetto dell'uomo, ma un'immagine del cadavere umano Nel Sofista Platone respinge questa nozione delle Idee che ne fa delle sostanze immobili e inattive. Lo straniero clea'e che è il personaggio che in questo dialogo rappresenta i concetti dell'autore, dopo aver distinto due classi di filosofi, di cui gli uni riducono Mt't. Top, Alex. Aphr. in pUit, .tutto il reale al taDgibile e alla materia, mentre gli altri sostengono che il vero essere Fono certe specie intelligibili e incorporali, e i corpi di quelli e la loro pretesa realtà riducono in polvere, ch^'amandola, non cfs. re, ma una certa genesi fluente; propone questa definizione deiressere, che deve convenire tanto al corporeo, quanto all'incorporeo: ciò che ha una facoltà qualsiasi di agire o di patire. I materialisti non avranno difficoltà ad accettare questa definizione; ma come l'accoglieranno gli amici delle Specie? Essi ci obbietteranno, dice lo straniero di VELIA, clic la facoltà di falire e di agire xoD 7rdoxsiv xal Twoistv compete alla genesi, ma all'essere non compete né l'una né l'altra. IL VELINO combatte questo concetto, dimostrando che anche le Specie ag'scono e patiscono, e che sarebbe un'assurdità di credere ch'esse siano immobili, o, ciò che vale lo stesso, di non ammettere del movimento e delle cose mosse in quanto mosse. Chi sono gli amici delle Specie? Alcuni interpreti credono che si tratti di qu?»lcuna delle scuole filosofiche contemporanfe o anteriori a Platone; chi vede in essi I VELINI DI VELIA, chi i Pitagorici di CROTONE, chi i Megarici, chi qualche altra scuola di socratici distinta da quelle di cui conosciamo le dottrine. Di tutte queste supposizioni é l’ultima che sarebbe la più logica; perché la teoria dell’idee, non solo non si ha alcuna ragione di attribuirla ad alcuna di quelle scuole di cui si conoscono le dottrine, ma sarebbe anzi assolutamente incompatibile con queste dottrine che se ne conoscono Ma anche questa supposizione cade innanzi alla testimonianza d'Aristotile, che dà Jlatone come l'introduttore del sistema dell’idee; obbiezione insupcrabi'e che é comune a Mi't T Klh. yicoìH,, ecc. tutte, e alla quale bisogna aggiungerne un'altra, cioè che la teoria dell’idee, vale a dire la realizzazione dei concetti, suppone la dialettica, vale a dire un metodo che produce la scienza a priori, deducendo questi concetti realizzati gli uni dagli altri, e non possiamo attribuire un sim'le metodo a nessuna delle i^cuole filosofiche autcriori o contemporanee a Platone – GORGIA LEONZIO GRICE. La dottrina dell’idee essendo csclusivanrnte platonica,^// amici deUe Specie non possono essere altri, per conseguenza, Uie Platone e i suoi. Noi abbiamo visto che corre un'inesatta interpretazione del sistema delle Idee, secondo cui queste si concepivano come delle sos:aiize immobili e prive di qua^iasi facoltà di agire e di patire. Il Sofista, atiribueiido questa concezione agli amici delle Specie, ci prova che (lue^t'interpretazione trova anche credito nella scuola platonica. Tuttavia noi non dobbiamo ammtf.cre che Platone, combattendo nel Sofista l'immobilità delie Idee e la mancanza in esse della facoltà di agire e di patire, intenda solamente respingere questa falsa interpretazione della sua dottrina: se cosi fosse, non si comprenderebbe come egli pò es^e attribuire questa falsa concezione delle Idee agli amici delie Specie in generale. Senza dubbio, il su(» intendimento finale é di rigettare !a falsa interpretazione che veniva data ai suoi concetti; ma subordinatamente a questo, ne ha anche un altro, ci(é di condannale quelle espiessioni di questi conceiti, che noi iroNianio nei suoi scritti o di cui aveva fatto uso nel suo insegnamento orale, le quali avevano dato luogo a questa falsa interpretazione, e anche se dovesseio prendersi in un senso sirettamente letterale, la giustificherebbero. proposizioni che egli condanna che le Idee sono immobili e sempre nello stesso stato, che non hanno la facoltà di agire e di patire, che l'essere vero non vive, non Ili pensa, non si muove, ecc. possono prendersi in due sensi: come dplle espressioni improprie del concetto che le Idee non sono soggette ai cangiamenti nel tempo, o in questo senso appartengono o potrebbero appartenere a Platone stesso; o come Taifermaziono che le Idee non sono soggette assolutamente ad alcun cangiamento cioè né temporaneo nò estratemporan'^o, e in questo senso non potrebbero appartenere che ad ALCUNI degli amici delle Idee – CATEGORY MISTAKE --, perchè certamente Platone stesso non ha mai potuto pensare cosi. Platone condanna queste proposizioni, tanto se si considerino come semplici improprietà di lingua – CATEGORY MISTAKE --, quanto se si con^derioo come affermazioni di un concetto erroneo; ed è perciò che può attribuire le proposizioni condannate agli amici delle Idee in genera'e. Premesso ciò, ven'amo ora al luogo del Sofista che ci ha portati a questa dlsgressione. Esso fa parte delia discussione contro le Idee immobili, ed è il seguente: Straniero di VELIA: Ma che? per Giove! crederemo veramente che il movimento, la vita, l'anima, l' intelli Tanto è vero che Platone condanna, nei parUgiani deU' inattività e impai^^ibilità delle Idee, le sue proprie espr3«jsioni che hanno dato luogo a una falsa interpretazione della sua dottrina' ohe, per indicare gli stessi filosofi, egli si serve pure dello parole: quelli che dicono che gli esperi quanto alle Idee sono sempre nello stesso stato e allo stesso modo Cxaxà xaÙTà (baaólto^, riguardando indubbiamente queste determinazioni come equivalenti a quella dell'immobilità. Le espressioni essere sempre xaxà TaùxQC e ó)aaÓTW^, applicate alle Idee, s'incontrano ad ogni momento nei dialoghi platonici Questa contraddizione tra il Sofista che afferma il movimento e l'azione delle Idee, e gli altri dialoghi che li negano contraddizione, badiamo, meramente verbole spiega l'indicazione di Diogene Laerzio, che Platone applica allo Ideo dei termini contrari, chiamandolo non mohili o non in (/uiete Diog, Laert. genza s^no assenti da quello che realmente è jiavTsXw^ ov, e che cs^o né vive né pensa, ma sene sta immobile, senza pos-iedere Tau^ustae santa iotelligcnza? Teeteto: Sarebbe, o ospite, concedere una proposizione troppo strana Stkan.: Ma diremo che prssedc Tintelligenza, e nou la vita? Teet.: E erme dirlo! Stiian.: Ma accordandogli runa e l'altra, negheremo ch'egli le abbia nelTanima? Teet: K in (jual altra parte potrebbe averl»^? Stran.: Ma si può ammefere che abbia l'intelligenza, la vita e l'anima, ma che Cf^sendo animato sia nondimono iiiimol)ilc? Teen.: Tutto ciò mi sembra assurdo Stran.: Bisogna dunque ammettere che il mosso e il movimento sono Thet.: K come no? Stran.: Da ciò risult», o Tteteto, che se gli esseri fossero immobili, in nessuno, su nessuno oggetto e in nessun luogo potrebbe esservi intelligenza Teet.: Evidenteirente Questo non vuol <lire, come intendono alcuni, che si deva attribuire l'inteMigen/.a, la vita, l'aniina e il movimento alle Ideo in generalo porche i'Tdoa d'una cosa non può avere che gli attributi stessi che ianuo parte dal concetto di questa cosa ma solo a quella di cui può essare quistione sa l'abbiano o no, vale a dire alio Idee dagli esseri intolliganti, animati, viventi a mobili Sin qui Platona parla evidtuitcmanta dal moviuianto, della vita, dall'anima e doll'intollig(»nza nello Idee, vale a dire, idaali. ; L'intelligonza e, per consoguenza, anche il movimento, di vui si parla qui, sono l'intolliganza e il movimento reali, cioè nello cose, e non |»lìi corno s()])ra, l'intelligenza e il movimento ideali» cioè nelle Idee: quasi o divarrà più chiaro dal seguito. Intanto ciò che ri-julla dal ragionamento precedente è, non che l'intelligenza reale -appone il luovimanto raalo, ma che l'intelligenza ideale sappone il movimento idealo. Per consaguanza Platone, considerando la prima di qunta due jii'o posizioni coma il risultalo del ragionamento pracad'^nto, la riguarda coma equivalente alla seconda; ciò che egli non potrab])e fare, se il movimento e l'intelligenza ideali fossero par lui separali dall'intelligenza e dal movimento reali, e non invece identici con c^si.llt -^ .!' )'Hf.Stran.: Ma se ammettessimo che tutto ò in movimento e in agitazione ALLA RYLE GRICE, anche coi qiesta proposizione leveremmo rintelligeiza dagli esseri Teet.: Come? Stran.: Pare a te che senza il riposo possa mai esistere ciò che è nello stesso stato, della stessa maniera e nello stesso rappoito? Tbet.: Giammai Stran.: E senza di ciò credi tu che vi sia o vi sia stata mai in (jiialche luogo jntell'genza? Teet.: No Stran.. Ma si deve combattere con tutte le ragioni quello che, di^^truggendo la scienza, il pensiero e l'intelligenza, nft'enni checchesia su qualche cosa Teet.: t^ combatterlo con l'orza Stran.: E dunque necessario che il filosofo e quegli che tiene in pregio queste cose nò approvi quelli che dicono il tutto immobile, sia come uno I VELINI DI VELIA sia come molte Specie, nò dia ascolto a qu^l'i che mettono Tessere in un movimento universale gli Eraclitici, ma voglia, imitando i fanciulli noi loro desiierii, che l'essere il mondo ideale e il tutto comprendano tanto le co^e immobili quanto quelle che sono in movimento. Questo luog" non esclude solamente riminobilità assoluta delle Idte, ma, come il luogo citato del Tedeto e quelli degli altri dialoghi che hanno la stessa portata, esclude anche il divenire assoluto delle cose sensibili. Di più, esso esprime nettamente il concetto dell'immanenza delle Idee nel divenire. Noi abbiamo già notato che il movimento e l'intelligenza ideali vengono riguardati come equivalenti al movimento e all'intelligenza reali. Notiamo ancora l'identificazione tra il mondo idea'c e il tutto contenuta nelle parole sugli amici delle Idee: quelli che dicono il tutto, come molte Specie, immobile; e aggiungiamo infine che la stessa identificazione ha luogo, dove ò detto di essi; quelli che dicono elle gli esseri, secondo le Idee xax's'idr^ sono sempre Urlio stesso stato e ('ella stessa maniera. Platone non potrebbe esprimersi cosi, se per gU amici delle Specie vale a dire per lii e pei suoi - il mondo immu abile delle Idee e quel'o continuamente cangiante delle cose fossero due monli separati, anziché, come abbiamo detto, due aspetti d'un solo e stesso mondo, che nel suo aspetto vevo^ cioè come un comples-o d'Idee, è immutabile con le restrizioni, por Platone, che sopra abbiamo fatte e nel suo aspft^o apparente^ ci< ò come un complesso d'individui, è sottoposto a un cangiamento continuo. Noi abbirmo percorso le prove più importanti della immanenza ddle lice platoniche: ma la nostra dimostrazione sarebbe incompletn, se non esaminassimo pure le ragioni dell'interpretazione contrariai. Queste possono ridursi alle seguenti. Il motivo principale deh' intrpre%azione trascendentalista ò nella natura stessa del sistema delle Id^^e. Quando Platone chiama l'Idea tó 6v, oùata, aOxò xaO-'aOxó, Xwpoaxóv, ecc.; in una parola quando mostra chiaramente ch'egli fa delle Idee? Itret^ante ipostasi IPOSTASI GRICE, cioò che le riguarda come sostanze, di cui ve ne ha una, e una sola, per tutti gli oggetti che si raccolgono sotto un nome generale come SHAGGY; l'interprete trascendentalista ne conclude immediatamente che le Idee per Platone srno separate dalle cos*. Que.ta conclusione è fondata sopra un principio perfettameite giusto, e oè che una sostanza non puòessere al tempo stesso uà attributo, e non può, se essa è un ca, iu'^rire simultaneamente in una moltitudine di FO sgotti. Ma la dottrina di Platone consiste precisamente in questo, che gli attributi generali delle cose sono elevati al grado di sostanze, senza cessare perciò d'inerire nelle cose come loro attributi, e che ciascuna di queste sostanze ò riguarilata come Tudo nei molti, cioè come presente al tempo stesso, una numricwmente eia stessa, in tutti i soggetti a cui T attiibuti è comune. Senza dubbio questa dottrina è inconeepib'le e contraddittoria : dell^ ipostasi IPOSTASIS SUBSTANTIAION come le Idee platonich'^, noi lo abbiamo più volte confessato, non potrebbero concepirsi, per quanto la loro coccezione è possibile, che come Feparate dalle c«^se. Altre inconcepibilità noi troviamo nel sistema delTimmanenzì, se dalla formula Viuio nei molti passiamo a'ia formula rimo é molfi: è un non seupo di affermare, come f>i Platone e come è una cnns.»gueuza necessaria della realizz^izione degli astratti, che il più astratto e il più concreto, il Genere e lo S^pecie, sono al tempo stesso difterenti ed id.mtici; né Tinconcepibilità è evitata perchè Tiino e i molti si riguardano com»». duo stati su^c'ssivi n l!o sviluppi dell'esser», anteriorità e e posteriorità; perciò la huccessione dovnbbe essere cronologica e non logica soltanto. L'interpret/iz'one trascendentalista ha dunque il vantaggio, bisogna riconoscerlo, di evitare una gran parte delle inco-^copiblità inerenti al sistema del'e Idee: ciò spiega la prevalenza di quest'interpretazione, se sì rifletta alle <l ffi.'oltà di un esame accurato dei testi e di una su'ficiento intelligenza dei mo ivi del sistema. Ma vediamo ora gl'inconvenienti, per dir cosi, intrinseci della trascendenza do le Idee. Prima di tiitt>, qnantunque elevare le astrazioni al grado di realà esi.stcnti per se stesse sia in tutti i casi un'imposiblità man'fe-Jta, è tuttavia una conseguenza necessaria del e U'ggi della credenza che di queste due ipotesi, l'una che ammette che queste astrazioni siano parti integranti delle cose concrete, e l'altra che ne fa delle ipostasi solitarie collocate al di fuori dello cose concrete, è la seconda che ci sembra più strana e più evidentemente impossibile. La ragione è ovvia: è che essa è in una opposizione più aperta con lo nostre abitudini mentali: la prima ipotesi si conforma a queste abitudini in due punti importanti, cioè non ammettendo altri esperi che gli esseri concreti, quantunque questii siano da essa decomposti in elementi astratt', e facendo dell'astratto, non un'enti'à isolata, ma un che d'inesistente nel concreto stesso. Ma V inconveniente più grava dell'interpretiziona trascendentalista è che l'ipotesi delle Idee diviene in qu-sc' interpretazione senza motivo e senza scopo. Lo scopo di un'ipotesi qualunque, legittima o illegittima, è di spiegare i fenomeni: ma Tipof^si delle Idee trascendenti non fa niente per la 8piegaz'on<^ dei fenomeni, perchè non vi ha tra le Idee e la cose alcuna relaz'ooo immaginabile di causa e di efiFetto. La capacità delle l^ee a produrra la cose o i loro fenomeni non è uè una verità o pretesi venta evidente per se stessa, come deve essere pertanto una connessione cau«=iale propria a fornire una spiegazione metafisica poiché nessuno pretenderà che vi ha tra l'esistenza delle Id"e e l'i'sistenza delle cose una di quella connessioni visibili a priori, in cui i metafisici fanno consistere la effic3nza cansa'e ; e non è nemmeno un'induzione dell'esperienza, perchè l'esperienza non ci mostra alcun caso, in cui dei moderi, quali gl'interpreti trascendentalisti si rappresentano le Idee, producono le loro cjpie. Non vi ha lutanti alcun'ipotesi possibile vale a dire alcun'ipotesi che lo spirito umano possa ammettere, vera o falsa, probabile o improbabih~ che non si conformi a questa condizione, cioè la capacità conosciuta della causa supposta a produrre l'effetto, sia che questa capacità si ammetta come una verità a priori, sia che si ammetta come un risultato della esperienza. Le Idee trascendenti non hanno dunque alcun'attitudine a spiegare le cose: è questo del resto an fatto evidente di cui convengono ^li stessi interpreti trascendentalisti. Tuttavia Tintcrprete trascendentalista potrà dire che questa inettitudine alla spiegazione dei fenomeni è anche comune alle idee immanenti. Senza dubbio, la presenza delle idee nelle cose spiega, come abbiamo altra volta osservato, porche le cose possiedono gli attributi corrispondenti alle Idee, e lo spiega nel senso metafìsico della parola spiegazione cioè in quanto vi ha tra la presenza dell'idei e la possessione dell'attributo una connessione necessaria e visibile a priori. Ma questa è, come abbiamo osservato, una di quelle spiegazioni apparenti o illusorie che consistono a ripetere in altri termini il fatto stesso che si tratta di spiegare; e quaniram-hv^. non fo so tale, siccome la possessione -- IZZING HAZZING -- dell'attributo è un fatto intelligibile e la presenza dell'idea un fatto as-olurjim-nto ininteMigibile, cosi non vi avrebbe alcun profitto a introdurre l'ipotesi delle idee, perchè non si farebbe che spiegare il chiaro per l'oscuro. Sembra dunque, a questo punto di vista, vale a dire codsderando le Idee come cause e le cose come effetti, che le Idee immaneuii Questa evidente inefficaci» delle Idee neH' ini erprci azione trascendentalista, qual è ammessa daUa più parte dji critici nioderni, vale a dire quella che fa delle Idee allrettanto sostanze separate, è il fondamento precipuo dell'interpretazione teislicn, eioò di queU'altra forma dell'interpretazione trascendentalista ohe vede nelle Idee i pensieri dell'intelligenza creatrice. Quest'interpretazione dà almeno al sistema delle Idee un motivo, e un motivo assai tacile a comprendere: se non che essa è interamente arbitraria. L'interpretazione che fa delle Ideo delle sostanze separate da Dio e dalle cose è anch'essa in contraddizione coi testi, ma non lo è d'una maniera cosi evidente, oltre che può appoggiarsi, almeno sino ad un oerto punto, soli'autorità d'Aristotile. non siano più che le idee trascendenti capaci di fornire una spiegazione della natura: ma per comprendere la vera causalità delle Idee e come esse diano una spiegazione della natura, noi dobbiamo metterci a un altro punto di vista. e da questo vedremo che lo scopo del sistema delle Idee suppone come condizione necessaria la loro immanenza. Il sistema delle Idee è un realismo dialettico, vale a dire esso ammette, come un complemputo neccessario della realizzazione dei concetti, un metodo per iscopriro a priori questi concetti realizzati, deducendoli progressivamente gli uni dflgli altri, allo scopo di identificare il rapporto logico tra il principio e la conseguenza in questa deduzione, al rapporto ontologico tra la causa e r«ffet^o. Platine ha dunque realizzato i concetti, affinchè rincatenaincuto logico, ch'egli stabilisce fra di essi, possa avi-re l'aria di un incatenamento causale. Infatti se il principio e la conseguenza fossero delle semplici nozioni e noa delle nozioni realizzate, il principio non potri^bbe considerarsi come la causa e la conseguenza come l'effetto, la causa e l'effetto essendo df»lle cose o dei fa'ti reali e realmente distìnti, e non delle semplici astrazioni mentali. Ma il principio e la conseguenza essendo delle ciitità reali, avviene che la loro sequenza logica somiglia a una sequenza causale, poiché T esistenza dell'entità principio trascina necessariamente la esistenza dell'entità conseguenza ^ questa esiste perchè esiste quella. I) principio e la conseguenza essendo, non delle semplici proposizioni generali, ma le verità obbiettive corrispondenti a queste propos'zioni, ne risulta che il principia non è semplìceote una premessa per dimostrare la conscguenza, ma é la condizione reale dalla cui esistenza dipende l'esistenza della conseguenza: In una parola il principio non è semplicemente il prinei•K^ u pium cognoscendi, ma é anche il principium essendi. QaestMncatenamcnto causale tra le nozioni realizzate è una causazione efficiente, perchè il It^gam ^ tra la causa e reffetto cioè tra il principio e la conseguenza è necessarlo e visibile a priori. Cosi lo scopo dell'ipotesi delle Idee é d'introdurre nella natura una causalità, che sia, non un semplice rapporto di sequenza Invariabile, ma una caumlità efficiente, cioè tale che tra la causa e Teffetto esista un legame intrinsecamente evidente e necessario. Ecco perciò come lo scopo deiripotesi delle Idee suppone necessariamente la loro immanenza. Sq le Idee sono gU elementi costitutivi delle cos^, il loro incatenamento logico sarà lo sviluppo reale delle cose, il modo in cui le cose si producono; e la dialettica, cioè la deduzione delle Idee, aarà la spiegazione della natura. Ma se le Idee sono fuori delle cose, la filiazione delle Idee non sarà più la prodazione, Tincatenamento causale, delle cose stesse; e la dialettica non sarà più una spiegazione della natura, poiché essa avrà per oggetto, non il mondo reale, ma un altro mondo, che non ha sul mondo reale alcun'influenza immaginabile. Aggiungiamo che, nella ipotesi della trascendenza, la stessa filiazione logica delle Idee sa-ebbe impossibile, perchè questa suppone ridentità e non semplcem'-nte la differenzi) t a Tldea da cui altre Idee si deduzione, e queste altre Idee che se ne deducono. In effetto, le conseguenze sono le conseguenze del principio, perchè sono contenuto implicitamente nel principio, vale a dire perchè il principio è le conseguenze stesse allo stato implicifì. Senza quest'identità tra il principio e le conseguenze cioè tra lo verità obbiettive che corrispondono alle proposizioni che si chiamano, al punto di vista ordinario, principio e conseguenze non vi sarebbe deduzione possibile. Nella dialettica platonica il principio é V Idea generica, e le conspguenze sono le Idee specifiche: cosi questa dialettica suppone che tra Tldea generica e \à Ideo specifiche vi sia identità, e non semplicemente differenza; in altri termini suppone che Vuno sia molti e i molti siano uno. Ora nell'ipotesi dell'immanenza, in cui le Idee generiche e le Idee speci6che sono i generi stessi e le specie delle cose quantunque considerati in a tratto, l'Idea generica è necessariamente identica con le Idee specifiche. Ma nell'ipotesi del'a trascendenza, in cui le Idee sono separateda 1»3 cose e le une da'le altre, t-a l'Idea generica e le Idee specifiche non vi ha più identità, ma semplicemente differetrza; l'I Ica generica non è più le Idee specifiche allo sfato implicito, e Je Id< e specifiche non sono più l'Idea generica allo stato esplicito; e per conseguenza non vi ha più tra le Idee rapf orto di filiazione, percl.è la filiazione delle Idee è precisamente questa esplicazioue progressiva dell'implicito primit'vo. Tra i motivi dell'interpretazione trascendentalista, dopo la sostanzialità delle Idee e le inconccpbilità che ut risultano nel sistema dcirimmanenza, dobb'amo assegnare il secourio posto a un malinteso a cai si prestano facilmente molte proposizioni di Platon^, in cui egli non fa in realtà che d'stinguere Io Idee dalle cose Quasi tutti i luoghi degli scritti platoiiic', in cui si pretende vedo? e u»ia prova diroila della srparaz'one delle Idee dalle cos'% appartengono a questa casse: là dove Platone iio.i parli che di distinzione^ l'iaterpictc trascendentalista intende: separazione. In alcuni di qresti luoghi P.'at-^r.c distingue le I ee V. n. V. 4.0 dalle cose stesse, cioè dalle sostanze, in altri dai loro attributi. Il primo caso non presenta alcuna difficoltà: le Idee essendo delie sostanze, è naturale clie Platone parli delle Idee e delle cose come di sostanze distinte distinte, badiamo, non «ejoaro/e . Quando Platone distingue questo mondo e il Vivente in sé di cui esso è Tiramagine; questi belli e il Bello in se stesso; que^ 8ti cerchi CIRCOLO e questa sfera umana e il Cerchio e la Sfera stessa divina; quando cppone l'oggetto della dialettica, che si riferisce alle cose che sono sempre le stesse, all'oggetto delle altre arti che si riferiscono a questo mondo e a queste cose che continuamente divengono; quando dice che vi hanno tre cose. Tessere l'Idea, il luogo e il divenire ciò che diviene; che vi hanno due spei-ie di esseri, gl'intelligibili e i sensibili; che gli oggetti eguali non S( no gli stessi che l'Eguaglianza, ma questa è un es5sere altro da essi; che oltre (noLpd) le cose sensibili e le intelligibili che cadono sotto un concetto comune si deve ammettere un'Idea di quette cose; ecc.: se gl'interpreti trascendentalisti vedono Tim, Conv. FU. FU. Tim. Fedone Fedone Fedone, Tim., Sof., ecc. Anche Aristotile chiama l'universale « runa noLpd i molti, che è uno e lo stesso in tutti questi. Anal. Poster. Talvolta, por indicare la distinzione tra le Idee e le cose, Platone si serve anche deUa parola x^p^C separatamente. È ciò che fa nel Parmenide di VELIA, dove il filosofo oleate domanda a Socrate s'egli '•0-? in qìiesti e negli altri lunghi anàloghi a questi degli argomenti contro l'immanenza delle l 'e , é perchè quelli che anunottono questa seconda interpretazione non hanno spiegato abbastanza chiaramente che le Idee platoniche, qnantunquenon esistano fuori delle cose, S'^no nondimeno delle sost^^nze, cioè delle realtà sussistenti per sq stesse, e non delle semplici astrazioni mentali. Il pronome questo^ questi 65s, ouiog, indicante il mondo e gli oggetti S'nsibil', in opposizione alle Idee, non significa che queste sono in un altro mondo, ma che gli oggetti, a cui esso b\ rift-ridce, smo quelli che stanno presenti alla nostra vista e chr» noi possiamo mostrare cri dito o con veramonle disling i3 X^P^C certe specie stessa sTSy] aùxà àxxa e X^P^C altro lato i partecipi di esse; s'egli ere le che vi sia una somiglianza stessa X^P^C parte di quella che noi abbiamo; un el^o^ dell'uomo j^oopCg di noi e di quanti altri sono come noi; un elSog del pelo (SHAGGY), del fango, della macchia, ecc., xwpig, altri dal pelo SHAGGY, dal fango, dalla macchia, che noi possiamo toccare. Nel Sofista 1'ospite di VELIA chiede agli amici delle Idee se essi dicono la genesi e i essenza XPS distinguendole La parola x^p^C» bi^ogi^a fessarlo, presa in tutto il suo rigore, significherebbe la trascendenzn ; e certamente Platone si sarebbe guardato bene di servirsene, se egli avesse potuto prevedere che del suo sistema si sarebbe data una falsa interpretazione che questo termine e i suoi deterivati, coi loro corrispondenti nelle lingue moderne, sono appunto i piii propri a formulara con ocncisione. Ma possiamo noi, foadanioci sa delle espressioni isolate ed eccezionali, interpretare il sistema platonico in un se.i-43 cha è in coatraddiziona con tatti i suoi concetti tondamentp'-i, attarmiiti costantemente in quasi tatti i luoghi dei suoi scritti in cui si parla delle Idee, quando d'altronde queste espressioni sono, al postutto, suscettibili di un significato che le metta d'accordo con questi concetti? Fedone, Tim., eco. y tn altro segno simile, non quelli che si possono, collie dice Piatone, contemplare soltanto con rinteingenra. Non dobbiamo per altro dimenticare che la ditinzion'ì tra le Idee e le co^e non è che uno dei due Iati di questo rapporto ambiguo, al tempo stesso d' identità e di difiFerenzJ», che il sistema platonico e gli altri costruiti sullo stesso tipo stabiliscono tra l'astratto e il concreto, o, generalmente, tra il più astratto e il più concreto. Talvolta Platone sembra negare V identità, come nella Repubblica, in cui dice che quelli che non ammettono il Bello in sé vivono come in un sogno, perchè credono che gli oggetti che somigliano al Bello, cioè che ne partecipano, siano, non semplicemente simili ad cfso, Una delle maniere più abituali a Platone di esprimere la distinzione tra le Idee e le cose per le loro determinazioni contrarie, è r opposizione tra l'intelligibile e il sensibile: essa implica ohe le Idee non sono oggetti dei sensi, ciò che del resto è affermato esplicitamente nel Fedone, Tim, Hep., ecc. Qaest'opposizione evidentemente è naturalissima anche nel sistema dell'immanenza: tuttavia anch'essa si presta all'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis], e può essere interpretata come una prova della trascendenza. Se si ammette che le Idee sono in noi, dice Aristotile Top., bisogna attribuire ad esse delle derminazioni contrarie: perehè, essendo in noi, esse cadrebbero necessariamente sotto i nostri sensi, poiché per il senso della vista conosciamo la forma di ciascuna cosa; mentre i partigiani delle Idee affermano che possono percepirsi per la sola intelligenza. Qui Aristotile dimentica ohe, quantunque l' Idea, essendo la forma delle cose, sia per conseguenza, in un certo senso, un oggetto della percezione sensibile, pure questa non la percepisce come Idea, cioè come sostanza separabile xcopi^XT^ , e perciò, in un altro senso, l'Idea non è un o«rgetto della percezione sensibile. Peraltro l'identità tra 1'Idea e IL PERCEPITO dai sensi è chiaramente affermata nella Repubblica, nel Fedone e, luoghi già citati, ai quali aggiungiamo il Fedro, che citeremo in appresso. ma la stessa cosa con rsso, mentre bisogna distingnéré l'uno dagli altri. Ma queste parole non sono dirette che contro la confusione che Topiniono op^o-ta a quella di Platone, cioè il NOMINALISMO – that bet noire -- , fa tra le Idee e le cose. IL NOMINALISTA confonde le cose con le Idee, sia perchè prende le imm^gin», cioè le cose, per esseri reali, mentre gli esperi reali non sono che le Idee; sia ancora perchè IL NOMINALISMO, an mettendo che il nome generale SHAGGY non SIGNIFICA altra cosa che gli oggetti concreti e indiv'duali, prrnde crroneanente questi oggetti per IVggetto a cui ^i r feri-ce realmente il nome SHAGGY – not just FIDO -- e il concetto generale, cioè ridea. La distinzione tra la sostanza Idea e le sostanze cose ha pure per effetto di stabilire tra V una e le altre dei rapporti che nelT esperienza non esistono che tra oggetti separati. Quando le Id< e sono chiamate cause delle cose come ivi Fedine, anche in questo può vedersi una prf va della trascendenza, perchè infatii le cause e gli effetti empirici soi o, non solo discinti, ma anche separati. Ma ciò mostra sempl'cmrnte che il rapporto tra le Idee e le cose nrn somiglia ad alcuno dei rapporti che cadono sotto la nostra esperienza. Le Idee non sono cause delle c<'Se come cause eflficiebtì propriamente dette, come c«use motr'ci per usare V espressione d'Arié^totile, ma sfno cause nel scnso che la ragione dell'esir^tere e del modo di esistere deU»^ cose è nclh». Idee. Similtnen'c qu-«n io le I^ee sono chiamate nodelli ixapa5eÌYfiaxa e le ces^ immagini etxóvs^, stòcoXa, 6[ioiwjiaTa , Tim. e, Fedro, Proclo in Parm, Alcinoo Intr. in PI,, ecc. D' altronde anche Aristotile chiama la forma n(X.pdòZl'{[iOL{Y. Met,, Phys. r -^x^ ciò suggerisce naturalmente l'idea della separazione, perchè tutti i modelli e le immagini che abbiamo visto o che possiamo rappreseutaref, sono separati, e non sem])licemcnte distinti, gli uni dalle altre. Il nomo d'immagini dato alle cose, in molti casi, ha evidentemente lo scopo d'indicare la loro mancanza Ai una vera realtà: ma facendo anche astrazione da questa circostanza, le Idee possono a buon dritto riguardarsi come esemplari delle cose anche neir ipotesi dell'immanenza, poiché, immanenti o trascendenti, Tuomo in sé e il cavallo in sé, che Platone ha creati, sono sempre c'elle immagini degli urmìni e dei cavalli reali, immagini che, rovesciando il ra^jporto rrale, egli chiama naturalmente esemplari, perché il nome di esemplare conviene a ciò che è anteriore, e il nomo d'immagino a ciò che è posteriore, e le Idee sono anteriori alle cose, non di un'anteriorità cronologica, ma di un'anteriorità di natura, cioè logica e metaOsica. Le Idee sono chiamate paradigmi, non solo delle cose, ma anche dei loro attributi È che Platone distingue le Idee, non solo dalle prime, ma anche dai socordi. È ciò che egli fa, per esempio, nel Fedro, in cui la bellezza sensibile viene opposta alla bellezza vera, cioè all'Idea della bellezza. Questo richiede delle spiegazioni, perchè sembra ia contraddizione col concetto stesso dell'immanenza, la quale consiste essenzialmente neir identità delle Idee con gli attributi generali delle cose. L' Idea è il concetta astratto e generale, realizzato. Per conseguenza gli attributi dille cose sono identici alle Idee, ma in quanto vengono considerati nel loro concetto generale, in astratto. Ora perciò essi devono concepirt»i astrazion facendo dai soggetti in cui ineriscono: la bellezza di questo fanciullo, la grandezza di questa superficie, la bianchezza di questa carta, ecc. differiscono dalla Bellezza, dalla Grandezza, dalla Bianchezza, ecc.in se s^e^ce, pe'^chè contengono delle determinazioni che non esistono nel concetto astratto e generale della bellezza, della grandezza, della bianchezza, ece. Prima di tutto la bellezza, la bianchezza, la grandezza, ecc., quali attributi di questi soggetti determinati, non sono rigorosamente conformi agli attributi omonimi che si trovano in altri soggetti, ma ne differiscono per il grado, per la quantità e per tante altre circostanze: cosi esse devono essere distinte dalla bellezza, bianchezza, grandezza, ecc. quali oggetti dei concetti generali, perché ciascuno di questi é uno e lo stesso in tutti i soggetti che ne partecipane. Ma anche considerando la bellezza, la bianchezza, la grandezza in questi soggetti determinati astrazion facendo dal grado, la quantità e le altre circostanze ìq cui e se differiscono dagli attributi omonimi in altri soggetti, basta questa determinazione, di essere l'attributo di tal soggetto determinato, perché esse noi corrispondano rigorosamente agli oggetti dei concetti generali, poiché questa d» terminazione non é una nota che fa parte del concetto generale. Ne segue che tutte le opposizioni, che Platone stabilisce tra le Idee e le cose, hanno pure luogo tra lo Idee e gli attributi considerati come proprietà d'individui determinali. La Bellezza in sé è eterna, cioè fuori del tempo, ed esente dal cangiamento; la bellezza proprietà di un oggetto determinato nasfe, per sce, cresce, ecc.; la prima é polo intelligibile, perchè il senso non percepisce a bellezza come sostanza, ma J^olo couìe U'i attributo; la bellezza individualizzata, ehe è un semplice attributo, è sensibile, perchè il senso la percepisce quale essa è; quella è una, perchè il concetto della belh zza è unico; 1^ bellezza che è in un individuo determinato è altra, per la percezione sensibile. dalla bellezza che é in un altro individuo determinato per CU', mentre per r intelligrenza vi ha una sola bellezza,' una sola grandezza, una sola bianchezza, ecc., per la percezione sensibile vi hanno molte bellezza molte grand^^zze, molte bianchezze, ecc. Queste oppo^izioni^^mettono cipo infine air opposizione suprema dell'essere reale e del fenomeno: queste molte bellezze che i sensi percepiscono non sono in sostanza che la Bellezza in realtà unica, ma cho, apparendo qua e là, por la partecipazione ad essa dolle azioni o dei corpi' )mre molti. Ma perchè 1'intelligenza risolva queste molte bellezze fenomenali nella Bellezza reah^unica, essa deve fare astrazione da tutte le determinazioni che non entrano nel concetto comune come i mo'ti uomini si risolvono nell'Uomo uno, facendo astrazione dallo difiFerenze individuali; come i mo'ti Animali si risolvono nell'Animale uno, facendo astrazione dalle diff renze specifiche; co ì perchè le molte bellez/.c si risolvano nella Bellezza unica, per la cui parusia i molti belli sono belli, bisogna spogliarle dall'inerenza in tnle o tal altro individuo determinato e da tutte le altre crcostanze che le differenziano le une dalle altre. In riassunto, 1'attributo Idea e l'attributo proprietà di un tal soggetto particolare si distinguono a due punti di vista: il primo è più indeterminato, il secondo è più determinato, perchè contiene delle determinazioni che non sono contenute nel concetto comune, se non altre, quella d'inerire in un tal soggetto particolare; il primo è l'essere reale, il secondo è il fenomeno, cioè l'apparenza obbiettiva di quest'essere reale.i i,r Questa distinzione tra l'Idea e l'attributo individualizzato ha por effetto naturale che, per indicare questa distinzione, Platone 8i serve talvolta di certe espressioni che sembrano negare la parusia delle Idee nelle cose. Cosi nel Fedro e distingue la scienza che è nell'esFere vero da q^iella in cui vi ha cangiamento e che esi^^te diflTercnte nei differenti oggetti cho ora cioè nella vita terrestre in cui l'anima non percepisce che delle apparenze chiamiamo esseri. Qui la distinzione è fatta sopratutto al pun»o di vista dell'opposizione tra la realtà e il lenoneno. La scienza che è nell'essere vero è l'Idea della scienza, la quale, quantunque sa aùxr] xaG'aux^v, pure é l'atta inerire in un soggetto, perchè, il mondo delle I ^ee essendo una rappresentazione astratta del mondo sensibile, ciò che, come la scienza, nel mondo sensbl'. inerisca in un soggetto, deve inerire inunsoggc to anche nel mondo delle Idee Nel Convito, dopo aver descritto il progr.sso del ret^o amante della bellezza, che dall'amore di un bel corpo passa a quello di tutti i b« i corpi, e poi alTamore e alla contemplazione del!a bellezza delle anime, dei costu-ni, delle leggi, delle Pcienz, per pervenire infine alla contemplazione del bello in so stesso, determina questo bello di natura meravigliosa, la cui contemplazione è il termine di tutto il progresso anteriore. Esso « in primo luogo sempre è, non nasce né perisce, non cresce né decresce, poi non è bello in una parte, brutto in un'altra, né ora bello ora no, né bello a que?to fine, brutto a quell'altro, né bello in un luogo, brutto in un a^tro, o bello per alcuni, brutto per altri. Né si deve immaginare que Rep. Senof. Memorab. sto bello come un bel viso o delle belle mani o qualche alrra cosa di cui il corpo è partecipe, né come un bel discorso o una beIla scienza, né come essente in qualche altra cosa^ p, e. un'animale^ la terrii^ il cielo o un altro oggetto qualunque, ma esso stesso p^r se stesso con se scosso, uniforme, sempre essente, e tutte le altre cose belle partecipi in certo modo di ess», in modo eoe che nascendo queste e perendo, niente gli si aggiunga o si sottragga, e niente patisca. Si è affermato che basterebbe questo luogo pir provare la trascendenza delle Idee! Ma esso non contiene che le solite determinazioni delle Idee, come sostanze, come astraete, come immutabili, ecc. Si dice che il Bello è esso stesso per se stesso con se stesso, per significare che nella sua astrattezza è una portanza, e, cono tale, csi-»te indipendentemente da ogni altra sosta n a: si aggiung -, è vero, che non deve immaginarsi come essente in qn.nl jhe altra cosa, p. e. in un anma^e, nrl'a t rra, rei ci lo, ecc., ma queste parole non fanno che distinguere il Bello, oggetlo del concetto comune, dal b ll«>, proprieià di U'ia cosa particolare. Nel Fedone si dice che non solo la grandezza stessa non può essere al tempo stesso grande e pic?ola, ma anche la grandezza in noi non può mai ricevere la piccolezza, e p'>i a 1(>3 b, esprimendo lo stesso concetto che non è altro al fondo che il principio di contraddizione iu u la forma generalo, che il contrario non può mai essere il suo contrario, nò quello in noi né quello ìiella natura èv t^ cpuget. Che Topposizione tra la grandezza stessa e la grandezza in noi significhi semplicemente la distinzione tra T attributo nel suo oncet'o generale e lo scesso attributo individualizzato, e non implichi che la grandezza stessa sia fuori delle cose, t-i vede della maniera più chiara da ciò che si è detto un po'prima (lOi b, cioè che, dopo che JS'ìa 1 L!J?'LiBi' fi fu convenuto che vi hanno le Specie e che le altre cose ricevono la loro denominazione partecipandone, Socrate soggiunse che, poiché è cosi, quando diciamo che Simmia è più grande di Socrate e più p*ccolo di Fedone, veniamo ad affermare che vi ha in Simmia tanto la grandezza quanto la piccolezza cioè le Specie, perchè altrimenti quest'affermazione non sarebbe più una conseguenza di ciò di cui si è prima convenuto. Similmente che la distinzione tra il contrario cioè Tuno qualunque di due attributi contrari in noi e il contrario nella natura non implica la trascendenza di questo, si rileva dalle parole che seguono immediatamente, cioè che Socrate intende parlare, non delle cose che hanno i contrari, ma di questi stessi contrari, per la cui inerenza wv èvóvTCDv IZZING HAZZING le cose ricevono la loro denominazione; e basta del resto a provarlo la stessa espressione il contrario nella natura, la quale indica nel modo più evidente che l'opposizione tra Tattributo m not e lo stesso attributo nella natura non è che quella tra il particolare e l'universele. Infine, nel Parmenide di VELIA si distingue la Ma, dice 1'interpatre trascendentalista, il contrario èv 1%a)Óaet vuol dire, non il contrario nella natura, m», il cohìtatìo nella bua natura, Non è vero; e se né ha una prova nella Rep., in cui la stessa espressione £V z% cpuost si ritrova impiegata in un modo che non permetto alcun dubbio sul suo significato. Ivi r Idea del letto, in opposizione al letto particolare, che costruisce il fabbro, è chiamata, non solo il letto nella natura, ma anche più chiaramente il letto che è nella natura (XXCvTQ £V 1% cpóast oòoa. Queste parole potrebbero mai significare: il letto nella sua natura? Del resto la quistione sembra oziosa, perchè anche il letto, o un'altra cosa qualunque, nella sua natura, nou p»ò affatto significare un'entità trascendente.]somiglianza stessa da quella che abbiamo noi, e poi la scienza stessa dalla scienza presso noi (7iap'r][iCv o nostra, la verità stessa dalla verità presso noi^ il dominio e la servitù /j/6«&*t dai dominio e la servitù presso noi, e in generale le specie dalle cose presso noi. Queste distinzioni, è appena necessario di dirlo, hanno lo stesso significato che quelle analoghe del Fedone: vi ha tuttavia questa differenza che, mentre nei luoghi citati del Fedone la distinzione é fatta al punto di vista deir opposizione tra il generale e l'individuale, in quelli del Parmenide di VELIA^ almeno nel secondo, sembra fatta specialmente al punto di vista delTopposizione tra il reale e il fenomenale. Ma questo luogo del Parmenide merita che ce ne occupiamo più particolarmente, essendo il più favorevole air interpretazione trascendentalista che io ricordi negli scritti di Platone, poiché esso contiene, olire alle espressioni indicate, delle proposizioni che hanno l'aria di negare esplicitamente la presenza delle Idee nelle cose. Ecco dunque la parte di questo luogo che e' interessa a questo riguardo: Tra le difficoltà cho presenta la teoria Si comprende dair insieme del luogo del Fedone ài cui si è parlato che, distinguendo la grandezza e, in generale, il contrario in noi e la grandezza stessa e il contrario nella natura – HE’S A RUNT – AUNT MATILDA --, 1'intendimento di Platone è di esprimere, quantunque forse non lo faccia d una maniera sutfìcientemente esatta, la distinzione tra due forme di negare il principio di contraddizione: 1'una, quella che ammetterebbe che il contrario nella natura possa essera il suo contrario, sarebbe l'identità SINTESI dei contrari; 1'altra, quella che ammetterebbe ohe il contrario in noi, p. e. la grandezza, possa ricevere il suo contrario, p. e. la piccolezza, sarebbe la contraddizione propriamente detta, cioè una proposizione ohe affermerebbe di uno st e^so soggetto due attributi contrari. IJ. i>l Iti delle Idee, la più grave è, dice Parmenide di VELIA, che sarebbe molto difficile dimostrare il suo errore a colui che pretende che le Specie, se esse esistessero, sarebbero inconoscibili per noi. Perchè? domanda Socrate Parm: E che io penso, o Socrate, che tu e chiunque altro ammette che vi ha un'essenza stessa per se stessa di ciascuna cosa, dove da prima convenire che nes5wwac?/65se è in noi. K come infatti potrebbe essere allora per se stessa? disse Socrate -PARivi.: Dici bene. Per conseguenza quelle dello Idee che sono ciò che sono relativamente le une alle altre, sono relative alle Idee stesse, e non alle cose presso noi, delle quali noi partecipando riceviamo ciascuna denominazione, sia che queste coso, debbano considerarsi come simulacri, sia d'un'altra maniera qualunque. Similmente le cose presso di noi che sono omonime a quelle, sono relative ad altre cose presso di noi, e non alle Idee che hanno la stessa denominazione. Come di' tu? domanda Socrate- PARM.: Per esempio, se alcuno di noi è servo o padrone, non è servo del padrone stesso, 0 padrone del servo stesso; ma essendo un uomo, lo è di un altro uomo. Ma la padronanza stessa é ciò che è della servitù stessa, e allo stesso modo la servitù steesa é servitù della padronanza stessa. Ma né le cose in noi si riferiscono a quelle, nò quelle si riferiscono a noi, ma, come dissi, quelle sono relative fra di loro, e le cose presso noi relative similmente fra di loro. Comprendi ora ciò che dico? Comprendo perfettamente, ripose Socrate Pakm.: La scienza stessa dunque sarà scienza della verità stessa'? -Socr.: Sì-Parm.: E ciascuna delle scienze in se stessa sarà scienza di ciascuno degli esseri in se stesso? Soca.: Si Parm.: Ma la scienza prcò^o di noi lo sarà della verità presso di noi? e ciascuna delle scienze presso di noi, di ciascuo degli esseri presso di noi fSocR.: Necessariamente Parm.: Ma, come tu -isolili confessi, noi non abbiamo le specie stesse ed esse non possono essere presso di noi SocR.; No Parm.: Cia scudo dei generi stessi non è conosciuto dalla specie stessa della scienza? Socr.: Si. Parm.: Specie che non ab' Marno SocR.: No Parm.: Nessuna specie dunque 8^ conosce da noi, poiché noi non partecipiamo della scienza stessa Socr.: No, a quanto pare Parm.: Sicché non sappiamo cosa sia il bello SGAGGY stesso e il bene stesso e tutte le cose che noi riguardiamo come Idee SocR.: Ne corriamo il rischio. Cosi, secondo questo luogo, le Idee no7i sono nelle cose, e queste non le hanno e non ne partecipano. Ma queste proposizioni, se dovessero prendersi in tutta l'estensione dei termini, sarebbero nella contraddizione più aperta con le proposizioni più abituali di Platone, perchè egli afferma costantemente che le cose partecipano alle Idee, che le hanno, e che Je Idee sono nelle cose. Ne segue che, se non vogliamo mettere Platone in contraddizione con se stesso, noi non dobbiamo prendere le prime in tutta l'estensione dei termini; perchè per evitare la contraddizione tra due proposizioni di cui Tuna afferma ciò che l'altra nega, è la negativa che si deve intendere necessariamente in un senso restrittivo – THE KING OF FRANCE AIN’T BALD. Al fondo le proposizioni del Parmenide di cui si tratta non dicono niente di più che quelle già citate del Fedone e le altre analoghe: se le Idee si distinguono dalle cose che sono in noi, vuol dire che esse non sono in noi. Vi ha tuttavia questa differenza, che nelle proposizioni del Fedone la negazione della parusia è contenuta d'una maniera implicita, mentre in quelle del Parmenide lo è d'una maniera esplicita ben inteso, se queste proposizioni si prendono nel senso più assoluto. Ciò mostra che la distinzione tra le Idee e gli attributi delle cosp, nel Parmenide, è fatta dal punto di vista da cui nel sistema delle Idee interpretate come immanenti il distacco tra le Id(>e e gli attributi delle cose apparisce più grande. Questo punto di vista è quello che considera il mondo sensibile come l'apparenza, e il mondo delle Idee come la realtà. Il Bello in sé, il Buono in sé, ecc. non esistono nel mondo dell'apparenza cioè nell'aspetto apparente dell'essere, ma nel mondo della realtà cioè nel suo aspetto reale; nel mondo dell'apparenza non esistono che le molte bellezze, le molte bontà, ecc., che sono nei molti belli, nei molti buoni, ecc., perchè il senso non percepisce che la moltiplicità, Tunità è solo intelligibile, e apprendendola, l'int^ligenza si mette la contraddiz'one con la percezione del senso. Cosi Piatone può dire che le Idee non sono in noi o presso di noi, che noi non le abbiamo e non ne parte,cipiamo, in questo senso, che esse non fanno parte del mondo dei fenomeni: queste proposizioni negano la presenza fenomenale, sensibile, delle Idee nelle cose perché le Idee non sono nelle cose sensibilmente, come una cosa fenomenale è in un'altra cosa fenomenale, ma non la presenza sovrasensibile che nel sistema platonico é indicata dal termine tecnico parusia PRE-SENZA, AS-SENZA. Certo etili non dice esplicitamente, nel luogo citato, che considera le cose come delle apparenze dello Idee {iy MarabiLudiue di Platone non é di Taltavia potrebbe trovar-jene un accenno là dova dice che le cose possono riguardarsi come simulacri ójiO'.tóiia'aì delle Idee, e più ancora dove chiama le scienze in se stesse e gli esperi in «e stessi cioò le Idee; ciascuna delle scienze che è r\ loTlv e ciascuno degli esseri cha è o laxiv lìU a descriverci minutamente tutti i gradi del processo mentale di cui le sue proposizioni sono il risultato: di tutte le sue speculazioni sulle Idee, suiraniraa, ecc. egli non ci presenta che i risultati, saltando sulle idee intermediarie quando dà le prove delle sue dottrine, ai veri motivi di esse, cioè ai gradi reali del processo mentale che lo hanno condotto a questi risultati, sostituisce dei sofismi puramente artificiali, che non potrebbero sembrare concludenti se non a chi è già, per altri motivi, convinto della verità della conclusione. Non si deve del resto dimenticare la difficoltà che vi ha, nel sistema deirimmanenza, ad esprimere il rapporto tra le Idee e le cose: tutte le espressioni per cui noi possiamo indicare una distinzione tra sostanze, implicano pure necessariamente la 8e,parazione tra queste sostanze, perchè tutte le sostanze distinte che noi possiamo percepire o immaginare sono anche delle sostanze separate; per conseguenza Platone, quando vuole esprimere con concisione la distinzione tra le Idee e le cose, è facilmente condotto a servirsi di proposizioni che, se non s'interpretano in confronto con le altre parti dei suoi scritti, danno reagione air interprete trascendentalista. Una considerazione che bisogna sempre tener presente in questa quistione dell'immanenza o trascendenza delle Idee platoniche è che, nell'ipotesi dell'immanenza, si può perfettamente rendersi conto delle proposizioni, per altro isolate, che sembrano contrarie, per questa difficoltà di esprimere il rapporto tra le Idee e le cose difficoltà che certamente deriva dall'inconcepibilità di questo sistema, perchè le Idee, per quanto è possibile d'immaginarle, non possiamo immaginarle, bisogna convenirne, che come separate dalle cose; mentre, nell'ipotesi della trascendenza, sarebbe impossibile di rendersi conto di tutti i concetti platonici esposti nel Supplemento, che esprimono 0 implicano la presenza delle Idee nelle cose o l'identità tra le Idee e le cose, e costituiscono, non delle proposizioni isolate, ma la dottrina costante dell'autore. In altre proposizioni, in cui Platone sembra negarela parusia, egli non nega in realtà che una parusia locale, l'esistenza delle Idee in un luogo determinato. È ciò che fa nel tratto seguente del Tmeo, che è anch'esso dagl'interpreti trascendentalisti citato come una delle prove più chiare della loro interpretazione: Poiché è cosi cioè poiché l'intelligenza e l'opinione sono due cose diflFerenti, bisogna convenire che esiste un'Idea, che è sempre la stessa, non nasce e non perisce, non riceve in se stessa altro d'altronde e non va essa atessa in altro ad alcun luogo oìjzs cLÒxò ^V bIòoì; -^ el<; àXXo noi tóv, non può percepirsi né per la vista né per alcun altro senso, e non può essere contemplata che dall'intelligenza; e un'altra cosa, omonima e simile ad essa, sensibile, generata, sempre in movimento, esistente in un luogo determinato dal quale disparisce pprendo, e che può essere appresa dall'opinione congiunta alla s^^nsazione; e una terza cosa, il genere eterno del luogo che non perisce, dà un posto a tutto ciò che nasce, percettibile senza i sensi per un certo concetto spurio, appena credibile; Platone chiama la nozione dallo spazio un concetto spurio, perchè efFeltivamente e^sa non è un vero concetto: un concetto, nel senso rigoroso della parola, è la rappresentazione di ciò che vi ha di comune in molti oggetti, ma la nozione dello spazio si riferisce a un oggetto unico, perchè lo spazio è uno solo. Il luogo, di cui Platone nel Timeo fa un principio e un elemento delle cose distinto dalle idee, non è né uno spazio particolare né l'Idea generale degli spazi particolari, ma lo spazio infinito, l'insieme di tutti gli spazi particolari Kant Estel, troscendent». ai quaie rigrnardando, sogniamo e diclamo che ò necessario che tutto ciò che esiste sia in qualche luogo e occupi uno spazio determinato, e che ciò che non è né in terra né in cielo non ha alcuna esistenza. è in (erra né in cielo ciò che, come mostrano le parole seguenti, si riferisce alle idee vuol dire evidentemente: in nessun luogo. L'idea è fuori dello spazio nello stesso senso in cui è fuori del tempo; cioè in quanto l'esistere in un luogo determinato, come V esistere in un tempo determinato, sono delle determinazioni che competono a tal individuo particolare, ma non entrano nel concetto generale. Com'è possibile ciò? A questa domanda non vi ha che una risposta: è che l’idea non è che il concetto generale realizzato; e 1'apparire e il disparire degl'individui sono delle circostanze che non Seguono le parole: Tali determinazioni e altre simili attribuiamo pure all'essere che esiste veramente e che non vediamo in un sogno; e perchè noi sogniamo, siamo incapaci di distinguere come uomini svegliati, e di dire la verità, cioè che l'immagine, poiché ciò in cui è nata non le appartiene, ed è il fantasma sempre agitato d'un altro essere, deve per conseguenza esistere in qualche altra cosa, attaccandosi in qualche maniera all'esistenza, o non essere assolutamente niente Platone dà quilo spazio, identico per lui alla materia, come un altro elemento che deve aggiungersi necessariamente all'elemento generale, cioè all'idea, perchè sia possibile l'esistenza del particolare; in altri termini fa dello spazio o deW&mAteTÌ&iì principium individnationis. Supplem.; ma l'essere che veramente è, è difeso da questa ragione vera ed esatta che, sinché due cose saranno differenti, esse non potranno mai essere l'una nell'altra in modo da essere al tempo stesso due coso e una sola. Per queste due cose che non possono essere l'una neir altra Platone non intende, come gli fa dire Cousin nella sua traduzione, l'essere vero e l'immagine, ma l'essere vero e lo spa«io; perchè l'intenzione di tutto questo luogo è di escludere dall'essere vero l'esistenza nello spazio. concernono il concetto generale. Dicendo poi che V Idea non va in altro, Platone non esclude la presenza delle Idee n'^Ue cose, ma ci avverte che noi non dobbiamo immaginare che, quando una nuova forma apparisce in qualche parte della materia, cioè dello spazio, Tldea corrispondente a questa forma si muova, per dir cosi, e vada ad occupare questa parte della materia, ma il nascere e il perire delle cose non importa nelle Idee nessun cangiamento. È un concetto analogo a quello che esprime nel luogo citato del Convito, quando dice che le cose belle partecipano al bello, ma in modo che nascendo esse o p-rendo, niente gli si aggiunga o gli si sottragga, e niente patisca. Vi ha una classe d'Idee, a cui Platone dà un contenuto che sembra, ed è in realtà, a prendere la cosa a rigor di logica, incompatibile con la loro immanenza. Alcuni concetti non si applicano rigorosamente alle cose, non corrispondendo esattamente ai loro attributi, ma sono piuttosto come dogi'ideali a cui questi non si conformano che d'una maniera più o meno approssimativa. Tali sono i concetti che ci servono di norma per giudicare le azioni morali- la giustizia assoluta, il dritto assoluto non si realizzano mai perfettamente negli nomini; tali sono pure quelli delle figure geometriche- nella natura non vi hanno delle rette, dei cerchi – THE CIRCLE AND THE MEANING --, delle sfere, rigorosamente conformi alla definizione geometrica. In questi casi noi ci serviamo ordinariamente dello stesso nome per SIGNIFICARE tanto l'attributo considerato nel suo concetto assoluto, quanto l'attributo delle cose reali corrispondenti, ma inadeqaatamente – AUSTIN FRANCE IS HEXAGONAL --, a questo concetto: ma questo nome (SHAGGY) è in un certo modo equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] -- AEQUIVOCO, poiché è evidente che giusto, retto, sferico e i sostantivi corrispondenti, quando SIGNIFICANO la giustizia assoluta e la rettitudine e la sfericità assolute esattamente conformi allo definizioni geometriche, hanno un senso differente – O IMPLICATURA DISIMPLICATURA KNOW -- che quando significano la giustizia relativa degli uomini e la rettitudine e la sfericità relative delle linee e dei solidi reali. Ora alle idee corrispondenti a questi nomi Platone dà per contenuto V attributo considerato nel suo concetto assoluto p. e. T Idea del giusto rappresenta la giustizia assoluta, l'idea della retta e delia sfera la retta e la sfera geometriche e ammette al tempo stesso che queste Idee sono le Idee delle cose reali a cui i nomi non convengono che in un senso relativo - p. e. che gli uomini giusti, le rette e le sfere imperfette della realtà sono tali per la partecipazione dell'idea del giusto, della retta e della sfera, cioè della giustizia assoluta e della rettitudine e sfericità «ssolute rigorosamente conformi alle definizioni geometriche. Il luogo più importante per questa parte della dottrina delle Idee è il seguente del Fedone: Diciamo noi che Teguale è qualche cosa V io non parlo di un legno uguale a un legno né di una pietra uguale a una pietra ne di altre cose simili, ma di qualche altra cosa oltre di queste, deir eguale stesso: diciamo noi che esso è qualche cosa o no? Lo diciamo, per Giove!, disse Simmia, e meravigliosamente E sappiamo che cosa sia? Senza dubbio Donde abbiamo attinta questa conoscenza V non è da questi oggetti di cui abbiamo parlato? vale a dire non è vedendo dei legni, dei sassi o altri oggetti eguali, che abbiamo concepito reguale, che è diverso da essi? 0 non ti sembra diverso? Considera la cosa in questo modo: i legni e i sassi eguali non ci sembrano, senz'aver cangiato, ora eguali ora ineguali? Si Ma l'eguale stesso ti è mai sembrato ineguale, o l'eguaglianza ineguaglianza? Giammai, o Socrate Dunque non sono la stessa cosa questi eguali e l'eguale stesso Non mi pare afl'atto che siano le stessa cosa, o Socrate Nondimeno è da questi eguali, quantunque diversi dall'eguale stesso, che hai attinto col pensiero la conoscenza di esso. È vero Sia che esso somigli loro sia che non somigli? Certamente Ciò infatti non ha alcuna importanza; perchè dacché la vista d'una cosa ci fa pensare a un'altra cosa, sia che questa le somigli sia che non le somigli, vi ha necessariamente reminiscenza Senza dubbio Ma, ripiglia Socrate, quando vediamo dei legni, o altri oggetti di quelli di cui abbiamo parlato, eguali, ci sembrano essi eguali come r eguale stesso, o piuttosto vi manca qualche cosa perchè s ano tali qual è l'eguale stesso? Vi manca mo!to. Conveniamo dunque che quando alcuno, vedendo una cosa, pensa che questa tonde ad essere tale quale è un'altra cosa, ma senza poter ess>rlo perfettamente, e restandole inferiore; è necessario che quegli che ha questo pensiero preconosca già queir altra cosa a cui egli dice che la prima rassomiglia d'una maniera imperfetta? E necessario Che dunque? non è questo che ci accade per gli oo-s-etti effuali e Teoruale stesso? Certamente Dunque necessariamente noi abbiamo avuto la conoscenza dell'eguale prima di quel tempo, in cui vedendo per la prima volta degli oggetti eguali, pensammo che questi tendono ad essere quale è l'eguale, ma non sono perfettamente tali Cosi èp. Questo liiogo, benché il suo scopo diretto s'a di dimostrare la preconosceuza dell'Idea e la sua reminiscenza all'occa«5Ìone della percezione sensibile, pure contiene, come abbiano visto, una prova della sua esistenza: è un caso particolare di quella a cui allude Aristotile in Mei., rimproverandole di condurre ad ammettere Idee di i relativi, e che è esposta, quantunque d'una maniera alquanto confusa, nel commento d'Alessandro d'Afrodisia. una maniera generaìe possiamo to^ mulare questa prova cosi: Ài coDcetto deve corrispondere un oggetto reale; ma vi hanno dei concetti, ai quali niente corrisponde rigorosamente tra gli oggetti sensibili; per conseguenza a questi concetti devono corrispondere degli oggetti distinti dai sensibili; sono le Idee. Le Idee che Platone riguarda come degli esemplari che nelle cose non si realizzano se non d'una maniera imperfetta, appartengono costantemente alla classe che noi abbiamo detta; vale a dire corrispondono sempre a nomi SIGNIFICANTI degli attributi SHAGGY, che sono suscettibili di diversi gradi, e che hanno un grado massimo al di là di cui alcun altro non potrebbe esserne concepito; grado massimo il quale, quantunque non sia che un sf-mplice ideale del nostro spirito, può tuttavia considerarsi come il vero SIGNIFICATO del nome preso – GRICE IL SIGNIFICATO DEL SIGNIFICATO -- nel senso assolutamente rigoroso. Così nel Fileho IL CIRCOLO DI GRICE e la sfera stessa divina sono riguardati come regolari, e opposti, come tali, a questi cerchi e a questa sfera umana riguardati come irregolari. Nel Parmenide di VELIA si suppone che il genere stesso della scienza sìa molto più f L'argomento, nella forma in cui l'e-^pone Alessandro d'Afrodidia, può riassumersi, io credo, così: I predicati SHAGGY convengono alle cose sia esattamente sia come ad immagini: p. e. storno (grigio GRIS perdix gris -- può designare sia gli uomini reali sia degli uomini dipinti. Cosi un predicato, p. e. eguale, che non conviene alle cose sensibili esattamenteperchè queste non sono mai tra loro perfettamente eguali deve convenire ad esse come ad immagini; e per conseguenza deve ammettersi l'esistenza d'un esemplare – il metro di Parigi --, di cui le cose sensibili sono delle immagini, e a cui il predicato SHAGGY conviene esattamente. Arist. Mei.. esatto àxpi^éaxepov della scienza presso di noi, e cosi pure la bellezza e ogni altra cosa vale a dire ogni altra cosa suscettibile di diversi gradi di esattezza sino all'esattezza assoluta; e poi, in conformità di questa supposizione, l'Idea della scienza e della padronanza vengono chiamate la scienza e la padronanza assoluta àxptpsoxocxYjì. Nella Eep. Socrate dice ch'egli ha ricercato cosa sia la giustizia H. P. GRICE SOCIAL JUSTICE -- stessa a scopo di paradigma, poiché è impossibile che V uomo giusto sia perfettamente tale quale è la giustizia; e nelle diverse Etiche d'Aristotile o che portano il suo nome Eth, Nic., Magri. Mor. Eth. Eud. ai filosofi che ammettono un'Idea del bene è attribuita la dottrina che quest'idea è il massimo OTTIMO PARETO di tutti i beni. Dai luoghi aristotelici indicati si vede anche che la parola stesso aOxórì aggiunta al nome per denotare l'idea, nel tempo stesso che indica che l'attributo di cui trattavasi era V oggetto del concetto astratto e generale, significa pure che quest'attributo dove prendersi in un senso assoluto cioè nella sua purezza, nel massimo dei gradi di cui esso è suscettibile. Questa dottrina di Platone che V Idea rappresenta l'attributo nel suo grado assoluto, è espressa anche sotto un'altra forma, cioè che l'attributo idea non partecipa dell'attributo contrario, mentre le cose sensibili, subordinate all'idea, partecipano sempre di tutti e due gli attributi contrari. Si è gii visto nel luogo citato del Fedone che le coso eguali sembrano ora eguali ora ineguali cioè possono riguardarsi tanto dell'una quanto dell'altra manif^raj, mentre l'eguale stesso THE SHAGGY ITSELF the beautiful itself non può mai aembrarrt ineguale, o reguaglianza ineguaglianza. Similmente nel Convito il bello in se stesso, che è uniforme, sincero, puro, immisto, si oppone alle cose belle, che sono belle in una parte, brutte in un'altra, belle per un rispetto, brutte per un altro, belle per alcuni, brutte per altri, ecc. Neir Ippia maggiore, avendo il sofista risposto che il bello SHAGGY in se stesso è una bella vergine, Socrate gli fa osservare che una bella vergine è brutta in compara/.ione dì una dea, e conclude che, interrogato che cosa sia il bello stesso THE SHAGGY, egli ha risposto una cosa che è tanto bella quanto brutta. Nella Rep.si dice che il senso vede l’uno e il multiplo, il molle e il duro, ecc. confusi l'uno coll'altro, perchè la stessa cosa apparisce al tempo stesso una e multipla, molle e dura, ecc., ma Tintelligenza li distingue, vedendoli ciascuno per se stesso e separato dal suo contrario; e si oppone Tunità ideale, che è l'oggetto della matematica, alle unità corporee, che sono l'oggetto dei sensi, in quanto queste contengono sempre una moltiplicità, mentre quella è senza moltiplicità alcuna. Questo luogo ha qualche analogia con quello citato del Fedone, perchè vi si attribuisce ai dati della percezione sensibile che implicano degli attributi contrari, la proprietà di sollevare Tintelligenza alla contemplazione delle Idee, eccitandola a separare ciò che è confuso nella sensazione. Infine, nella stessa opera si prova che il solo essere vero è l'idea e che le cose sono un misto di essere e di non essere, mostrando che una cosa è e non è al tempo stesso ciò che si dice essere, perchè non vi ha alcuno dei molti belli che non sembri anche brutto – FIDO IS SHAGGIER TODAY --, dei molti giusti che non sembri ingiusto, dei 'molti santi che non sembri profano, ecc. In questi due luoghi della Repubblica agli attributi contrari, suscettibili di gradi diversi, ma che hanno pure un Sof., Parm. VELIA maximum – OPTIMALLY SHAGGY --che può riguardarsi come il SIGNIFICATO del nome inteso in tutto il suo rigore, si aggiungono quelli in cui vi ha una diversità di gradi, ma non un grado assoluto al di là del quale non possa concepirsene un altro, quali grande, piccolo, grave, leggiero, SHAGGY ecc. Queste due classi di attributi hanno il carattere comune di non convenire alle cose che d'una maniera relativa e in comparazione con altre cose FIDO IS SHAGGIER THAN RUFUS --: un uomo si dice giusto in quanto è più giusto di altri uomini perchè, come dice Platone, nessun uomo giusto e tale quale è la giustizia stessa, una linea sensibile SI DICe RETTA – DICTUM -- in quanto è meno flessuosa di altre linee, ecc., della stessa maniera che un oggetto SI DICE GRANDE – DICTUM -- -- SI DICE SHAGGY --, piccolo, grave, leggiero, eec. in quanto è più grande, più pìccolo, più grave, più leggiero, di altri oggetti. La proposizione che la bontà, la giustizia, la rettitudine, la rotondità – IL ROTONDO DI GRICE, ecc. Idee rappresentano questi attributi ad un grado assoluto, mentre essi nelle cose non si trovano che ad un grado relativo e comparativo, è incompatibile con la proposizione che questo Lice sono nelle cose. La contraddizione sta in ciò, che Timmanenza delle Idee nelle cos^ significa la loio identità con gli attributi delle cose concepiti d'una maniera generale, ma la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDILA DII GRICE, ecc. assolufe nen possono identificarsi ron gli attributi delle cose, perchè Platone ammette che li bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc. dello c( se sono relative. Noi dobbiamo dunque costatare questa contraddizione in Platone: ma vi hanno delle considerazioni che la sp'egano, e ch-^ mostrano che la dottrina di cui parliamo, quantunque contradditoria al punto di vista dell' iijiniaueuza, è nondimeno a questo punto di vista che è nata, e non a quello della trascendenza. Noi sappiamo che uno dei principii del sistema delle Idee è che il concetto e la scienza si riferiscono airidca: da questo principio segue che per ogni concetto e per ogni conoscenza scientifica si deve ammettere un Idea che ne sia l'oggetto. Ora lo spirito umano si forma necessariamente il concetto del buono, del giusto, della retta, del CERCHIO, dek SGAGGY, del HAILING – He said it hails but he means it snows MALAPROP, della sfera, ecc. assoluti: di più la scienza che tratta del buono, del giusto, della retta, del cerchio, della sfera, ecc. si riferisce a questi concetti assoluti, poiché Tetica non ha per oggetto le nozioni morali in quanto si realizzano d'una maniera relativa nella condotta degli uomini, ma come norme di questa condotta, cioè come assolute, e così la geometria non ha per oggetto le figure approssimativamente regolari degli oggetti reali, ma le figure perfettamente regolari che non esistono se non nella definizione. Platone non poteva dunque rifiutare resistenza delle Idee corrispondenti ai nostri concetti assolutij senzA mettersi in contraddizione con uno dei principi! fondamentali del sistema delle Idee; e si noti che questi concetti si trovano specialmente nella sfera dentro cui si muovono le ricerche più abituali di Pia' tone, cioè Tetica e la matematica. L'ammissione di questa classe d'Idee è inconciliabile col principio che le Idee sono gli attributi stessi delle cose: per essere coerente in un punto, Platone diviene dunque incoerente in un altro; ma la premessa che lo conduce ad ammetterti Idee che non potrebbero, in buona logica, identificarsi con gli attributi delle cose, quantunque lo forzi ad una conseguenza inconciliabile col principio dell'immanenza delle Idee, suppone nondimeno, considerata per se stessa, questo principio, la dottrina platonica che il concetto e la scienza si riferiscono alle Idee essendo, come abbiamo visto, una delle prove più evidenti della loro immanenza. Mn ciò ehe si deve sovratutto notare è che la conii I ( traddizione che vi ha tra Tasssolutezza della bontà, giustizia, rettitudine, ROTONDITA, ecc. Idee e V immanenza di queste Idee nelle cose, non esiste che al nostro punto di vista, secondo cui bontà, giustizia,rettitudine, ROTONDITA, ecc. sono dei nomi equivoci, che hanno un senso quando indicano questi attributi nel loro grado assoluUì, e un altro – SENSO -- quando indicano gli stessi attributi quali si trovano nelle cose, cioè in un grado relativo, e per conseguenza la bontà, giustizia, rettitudine, ROTONDITA, ecc. assolute non possono identificarsi con quelle che sono attributi delle cose. Questo punto di vista è il vero, ma non è quello di Platone. La bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc. in se stesse, cioè astrattamente considerate, sono, per Platone, come abbiamo visto, la bontà, la giustizia, la rettitudine, la ROTONDITA, ecc. assolute. Ciò non è logico, perche il concetto astratto SHAGGY di ciascuno di questi attributi dovrebbe formarsi facendo astrazione da tutti i gradi di cui essi sono suscettibili, tanto dai relativi quanto dall'assoluto. Se noi ci domandiamo il perchè di questo difetto di logica in Platone, la risposta è facile: è che dopo aver fatto delle idee della bontà, della giustizia, della rettitudine, della ROTONDITA, ecc. Assolute – ABSOLUTELY SHAGGY, Platone non ha altro mezzo per conciliare l'esistenza di queste Idee con la loro immanenza nelle cose, che quello di ammettere che la bontà, giustizia, rettitudine, rotondità, ecc. attributi delle cose, considerate in astratto, sono la stessa cosa che questi stessi attributi elevati ad un grado assoluto. Come può Platoue identificare l'attributo SHAGGY considerato in astratto eoa l'attributo elevato ad un grado assoluto OTTIMAMENTE SHAGGY? Anche qui la risposta è facile, perchè essa si desume naturalmente dall'opposizione che Platone stabilisce tra |e Idee di ciascuno di questi attributi, nelle quali l'attributo esiste nella sua purezza, e le cose subordinate a r i»| -queste Idee, nelle quali l'attributo esiste mescolato col suo contrario. l'iatoue pensa che, per concepire la giustizia, la rettitudine, ecc. in se stesse, bisogna separare nel senso della parola separare xa)?£!;eiv che abbiamo spiegato ^I-ciascuno di questi attributi da tutti gli altri che coesistono con esso nelle cose, per conseguenza anche dall'attributo contrario – THE ALPHA IS BETA --; la giustizia in se stessa sarà dunque una giustizia pura, senz'alcuna mescolanza d'ingiustizia, vale a dire la giustizia assoluta – THE CAT SAT ON THE MAT; la rettitudine in se stessa, una rettitudine senz'alcuna mescolanza di flessuosità, vale a dire la rettitudine assoluta, conforme rigorosamente alla definizione geometrica; e il simile per tutti gli altri attributi di questo genere. Gli uomini giusti – the dogs that are shaggy, the cats that sat on the mat --, le linee rette dell'esperienza, ecc. – the smiths that are happy -- sono tali dunque per la partecipazione della giustizia, della rettitudine, ecc. assolute; se con tutto ciò la loro giustizia, la loro rettitudine, ecc. non è assoluta, è perchè partecipano anche all'ingiustizia, alia flessuosità, ecc. Dalla mescolanza delle due Idee opposte, quantunque l'una e l'altra assolute, nascono gli attributi relativi delle cose, che sono intermediari tra i due assoluti opposti, e, possiamo anche ammettere dalla diversa proporzione in cui le due Idee opposte sono mescolate-perche Platone pensa che si può partecipar< a un'Idea a gradi differenti -i gradi differenti di questi attributi; come le diverse gradazioni del grigio-e tutti i colori, come ammette Platone nel Protagora nascono dalla mescolanza del bianco e del nero, della luce e dell'osciirità. Alcuni ammettono che la dottrina di cui parliamo ha un valore generale per tutte le Idee, cioè che Plalooe concepisce ogu'Iiea come un tipo di perfez'one a cui gl'individui non si conformano che d'una maniera approssimaliva. E un punto di vista che potrebbe sembrare giustificato da questa riflessione, che l'individuo non corrisponde mai esattamente al tipo normale della sua specie, che è come il piano che la natura sembra prendere per regola di tutt<^ le sue produzioni in questa specie, e al quale, come dice Kant, la specie tutta intera è solo adeguata, e non questo o quell'individuo SPECIMEN particolare. la ogni individuo, anatomicamente, vi ha sempre qualche anomalia, e le sue funzioni vitali non si compiono forse mai tutte d'una maniera perfettamente regolare. Ma l'Idea deve essere concepita, mettendo da parte tutto ciò che vi ha nci^:!' individui di eccezionale, e non tenendo conto che di ciò che è regolare, perchè una rappresentazione qualsiasi dell'Idea sarebbe impossibile, se volessimo farvi entrare solamente gli attributi degli individui della specie che sono rigorosamente generala escludendone quelii che sono semplicemente la regola^ ma con qualche eccezione. Cosi l'Idea sarebbe come una media di tutti gl'individui, come Kant dice della sua idea normale estetica; e potrebbe paragonarsi ai entrai ti generici o tipici di Galton, ottenuti per la sovrapposizione di diverse immagini, ritratti che sono più belli, a quanto si dice, di quelli j»articolari di cui sono la meA u^^J' <^os« 'ono Simili a misura che partecipano della Somiglianza, dissimili, della Dissomiglianza. Crif, del giudizio Darwin Oririine dell' ff omo o„ Critica del giudizio, dia, e ai qaali i concetti generali sono stati effettivamente paragonati. Qualunque sia il valore intrinseco di questo punto di vista, non si ha alcuna ragione di affermare che esso sia stato quello di Platone. Se Platone avesse determinato così l'Idea, egli si sarebbe posto in contraddizione coi principii generali del sistema, secondo cui Tldea è ciò che vi ha di uno e lo stesso in tutti gl'individui della specie: ora noi non possiamo ammettere altre contradaizioni a questi principii generali cl)e quelle che risultano esplicitamente dai testi. Ma questi ci autorizzano ad affermare solamente che Platone ha riguardalo come esemplari a cui le cose sono inadequate, le Idee corrispondenti ai concetti che non trovano un'applicazione rigorosa nel mondo reale. L'argomento del Fedone per dimostrare che Tldea è qualche cosa di distinto dagli oggetti sensibili, e quello analogo esposto da Alessandro d'Afrodisia, non potrebbero applicarsi al di fuori di questi concetti: non potrebbe dirsi degli uomini o dei cavalli che V attributo uomo o cavallo non conviene ad essi rigorosamente^, come si dice delTattr buto eguale per gli oggetti eguali; e meno ancora ch'essi sono anche non uomini 0 non cavalli, come Platone dice che gli oggetti eguali sono anche ineguali, ì belli brutti, i giusti ingiusti, i santi profani, ecc. Per conseguenza, a difetto di prove che permettano di attribuire a Platone questa dottrina, noi V. Delboeuf // sonno r i M>ffni 19S. Una prova di questa dottrina potrebbe vedersi nel luogo seguente della Repubòlica: Gli ornamenti di cui la volta dei cieli è decorata, polche apparteni^ono all'ordine delle cose visibili, devono certamente riguardar^ji come ciò che vi ha di più belio o di più perfetto nel loro orI possiamo dispensarci di esaminare se e come essa sia compatibile con quella dell'immanenza delle Idee. Vi hanno dei luoghi in Piatone chp, intesi alla lettera, significherebbero certamente la trascendenza: ma in essi i concetti platonici non sono esposti d'una maniera puramente scientifica, ma intimamente congiunti, o, a dir meglio, fusi, in modo da perdere il loro aspetto genuino, con elem'^nti evidentemente fantastici, dine, ma sono molto deficienti se si paragonano ai veri (alla vera ma Knificenza, come traduce Cousin. cioè ai movimenti con cui quella che è velocità e quelle che è lentezza za cv TccxoG xa: r, oùaa ^paòùxrc cioè la velocità e la lentezza in se stesse, in astratto, perchè queste espressioni equivalgono a 5 sait zdxo<;, ó laxt ppaetjxy]^ nel vero àX7jOtV(fj numero e in tulle le vere dXr^eÉaO figure si muovono runa rapporto alValtro. ACHILLE LA TORTURUGA e muovono ciò chg ad esse inerisce xà SV(5vxa: le quali cose possono – SLOWTH -- apprendersi solamente col pensiero e con la ra-ioné ma non con la vista. O pensi tu che possano apprendersi con la vista? No, disselli Adunque della varietà che è nel cielo bisogna servirsi come di un esemplare per Tinsegnamento di quelle cose, non altrimenti che se alcuno vedesse delle figure fatte da Dedalo o da un altro eccellente artefice o pittore. Se (piello che le vedesse tosse un abile jreometra, le stimerebbe certatnente delle belle opere: ma gli sembrerebbe ridicolo di considerarle attentamente per iscoprirvi la verità degli eguali, dei doppi o di qualsiasi altD rapporto di misura-E sarebbe veramente ridicolo, disse Glaucone Non tara lo stesso il vero astronomo, guardando i movimenti degli astri? egli crederà che dallautore del cielo esso e le cose che sono in esso furono costituiti della maniera piii hella che è possibile in tali opere: ma il rapporto della notte col giorno, e di essi col mese, e del mese mn Tanno, e dei periodi degli astri con questi e Ira di loro, riterrebbe assurdo di credere che siano sempre della stessa maniera e non cangino mai, quando sono aventi corpo e visibili, e di cercare con ogni studio in queste cose delle verità rigorose -Certamente ora che ti ascolto pare lo stesso anche a we, disse Hlaucone -Trattiamo dunque l'astronomia come la geometria, servendoci dei problemi, e la-' -sà sceverarli dai quali non vi ha altro mezzo che il confronto con le dottrine deirautore per cui non vi ha alcun dubbio che egli deve essere inteso alla lettera, prendendo per una dottrina reale ciò che è ad esse conforme, e tutto il resto per un semplice rivestimento poetico o un'allegoria. Queste rappresentazioni fantastiche dei concetti di Platone che, prese letteralmente, proverebbero la trascendenza delle Idee, si riducono ai due miii del Timeo sciamo là i lenomcni del cielo -à èv x^ oùpavép, 5e vogliamo, per lo studio deirastronomia, d'inutile rendere utile quest'organo del nostro spirito che la natura ha destinato airintelligenza Rep. Potrebbe credersi che i movimenti con cui xò cv XOtYOC 6 iì oùoa ppaSóxrjg nel vero numero e in tutte le vere figure si muovono, ecc. sij^'nifichi le Idee do! movimenti dei corpi celesti; e che il senso di questo luogo sia che i movimenti dei corpi celesti non si fanno con periodi costanti e, in una parola, con regolarità, ma questa regolarità che manca nei movimenti reali, esiste nelle Idee di questi movimenti. Ma Platone non dice tutto questo: di queste due proposizioni egli art'erma la prima, ma non la seconda. Tò ov zdyO(; e Tj 0»J0a jipaeóxY^ sono la velocità e la lentezza astrattamente considerate; il vero numero e le vere figure sono quelli che rcrraano l'oggetto della matematica, vale a dire dei numeri astratti e al tempo stesso precisi e delle figure astratte e al tempo stesso regolari. Per ccnsejiuenza i movimenti con cui xó òv xax^? e Yt QÒ^y. 3paò'3xY]f nel vero numero e in tutte le vere figure si muovono ecc. vuol dire: dei movimenti astratti, cioè per con eepire i quali deve farsi astrazione da qualsiasi corpo determinato e da ogni altra circostanza in cui essi possono aver luogo, e non determinare altra cosa che le loro velocità relative e la natura delle linee che essi seguono; di più questi movimenti astratti devono pensarsi avvenire secondo rapporti numerici precisi e in linee perfettamente regolari I movimenti con cui xÒ òv zd/0^ e f^ oùaa ppa5'ixr si muovono luno rapporto all'altra significa: dei movimenti più veloci e dei movimenti più lenti considerati nel loro rapporto; muovono xà évóvxa: questi e del J^droiì chiamo miti per conformarmi ait W, ma sarebbe forse più proprio di chiamarli simboli o allegorie. Nel Timeo Platone ci racconta che il mondo è stato fabbricato da un demiurgo, il quale si serviva d'una materia preesistente, informe e in un movimento disordinato, e compiva la sua opera contemplando le Idee stessi movimenti considerati assolutamente. Ma Platone non dice che questi movimenti ascratti siano le Idee dei movimenti dei corpi celesti: ciò è anche escluso dalle parole in tutte le vere figure, poiché i movimenti dei corpi celesti non si fanno in tutte le vere figure, ma soltanto, secondo i contemporanei di Platone, nella figura circolare. In questo luogo Platone raccomanda di studiare il njovimento d'una maniera puramente ipotetica, come la geometria studia le figure, supponendo, come il più conveniente per lo studio, che i movimenti si facciano secondo rapporti numerici precisi e in linee perfettamente regolari, perchè questa supposizione è necessaria per sottometterli a un calcolo rigoroso; senza curarsi se i movimenti reali della natura corrispondano o no ai movimenti ipotetici della teoria anzi essendo sicuri che non vi corrispondono mai esattamente, come il geometra non si cura se nel mondo reale esistano 0 no delle figure conformi alle definizioni geometriche. Platone vuole che l'astronomia si consideri sovratutto come una occasione per questo studio ipotetico del movimento: è che Io studio di questa scienza ha sovratutto per lui il valore d'un esercÌ2fio matematico; la sua utilità non è tanto per la conoscenza dei movimenti reali degli astri quanto per i problemi matematici a cui dà luogo la considerazione di questi movimenti studiano T astronomia, come la geometria, in grazia dei problemi, e lasciamo là le cose del cielo. Le scienze che nell'educazione platonica di cui nella Repubblica, formano la propedeutica della dialettica, hanno lo scopo di svegliare il bisogno e di fornire preventivamente un tipo approssimativo della conoscenza assoluta, cioè di una scienza puramente deduttiva che lo spirito sviluppa dal suo proprio fondo. Ora a questo scopo non possono servire che le matematiche scienza dei numeri e geometria: ne segue che le scienze affini, come l'astronomia, che Platone riunisce con le matematiche sotto il nome comune di StavO'.a, non hanno per lui del valore, quasi esclusivamente, che come applicazioni delle matematiche. éóme modelli; ciò che, se dove prendersi sul serio, implicherebbe certanieote la separazione tra il modello e la copia, le Idee e le cose. Il carattere mitico del racconto del Timeo è generalmente riconosciuto dagF interpreti moderni: ma i più ammettono che questo e gli altri miti filosofici che si trovano in Platone siano, non già il rivestimento fantastico di corcetti che V autore è pure in grado di determinare d'una maniera scientifica, vale a dire doi simboli, ma dei convincimenti reali dPlatcne, il quale hi dove gli manca il concetto filosoifico, vi avrebbe supplito con descrizioni fantastiche e poetiche. Noi non possiamo trattare qui questa quistioiie della natura del mito del Timeo, non avendo ancora stabilito i dati necessari per risolverla: perciò devo rinviare al Supplemento. Ivi vedremo che la cosmogonia del Timto è un semplice simbolo, qual è la dottrina che questo simbolo rappresenta, e perch' Platrne ha preferito la forma simbolica a un'esposizione puramente scientifica. Sono dei punti che ci sarebbe impossibile di dimostrare prima di avere esposto la dottrina simboleggiata nella dcFcrizione mitica del Timeo e i rapporti di Platone col pitagorismo. Dimostrata la natura simbolica della narrazione del Timeo, sarà per conseguenza dimostrato il niun valore della prova che se ne può tirare per la trascendenza delle Idee. Per ora mi contenterò di ricordare un episodio di qursta narrazione, di cui abbiamo già parlato, cioè la formazione dell'anima, da cui si vede che Platone riguarda le Idee come un elemento costitutivo delle cose; e di aggiungere che l'immanenza è evidente nei luoghi di questo dialogo in cui l'autore parla, non più da mitologo, ma da filosofo, per esempio in quelli in cui chiama le Idee V essere (T, o dice che la matèria contiene tutto, per conseguenza anche le fdee. Quantunque la narrazione del 77'mco porti in se stessa delle prove chiarissime dimostranti che non deve essere intesa letteralmente, tuttavia non è difficile di capire come essa abbia potuto essere presa sul s'irlo: è che, intesa letteralmente, contiene una spiegazione del mondo Pantropomorfistica più conforme alle tendenze spontanee del nostso spirito, e per conseguenza d'Un valore più facile a comprendere, che la dottrina reale che essa simbolrggia la quale de1 resto, per essere compresa, ha bisogno di una conoscenza profonda del sistema. Ma il carattere puramente fantastico e poetico della narrazione del Fedro è talmente evidente, che nessuno potrebbe es«^pre tentato di prendere questo mito in un stnso letterale. Il soggetto del racconto è V intuizione delle Idee che l'anima ha a^uto in una vita anteriore. Platone comincia con una semplice comparazione: Tanima è simile a un cocchio alato con un auriga e duo cavalli; i cavalli dell'anima divina sor.o tutti e due buoni e di buoni, di quelli delTanima umana l'uno è buono e l'altro cattivo. La virtù delle ali è di portare il grave e: Sé/sxai toc nàvxa la chiama TiavSsxsS» e e TÒ xà :idvTa £y.535ó|i£vov sv a'j'w ysvyj. In quanto la materia contiene le Idee, cioè è il loro suslrato, si dice she partecipa di esse. Tim, e Arist. Phys,, Met., ecc. Questo sen«o della parola partclpam cioè dei suoi equivalenti greci, è alquanto differente da quello in cui la troviamo libata negli altri scritti di Platone, nei quali sono le cose che partecipano alle Idee: ma anche in questo senso la parola prova la presenza delle Idee nelle cose, e di ami maniera forse ancora più evidente. L'anima secondo Platone consta di tre parti: l'auriga rappresenta la parte superiore, cioè la razionale; i cavalli le due parti inferiori; il buono quella dove è il coraggio, il cattivo quella dove sono i desideri sensuali. nell'alto, dove abitano gli dei: Tanima a cui le ali sonò cadute, tende al basso e si unisce ad un corpo terreno. Le ali dell'anima si nutriscono del bello, del buono, del saggio e di tutto ciò che è di questo genere. Quando gli dei accompagnati dalle anime che possono e vogliono seguirli vanno al convito e alle vivande, salgono alla sommità più elevata della volta celeste. I carridegrimmortali, sempre in equilibrio, si avanzano con leggierezza; gli altri saliscono con pena, perchè il cattivo corsiero s'aggrava, s'inclina e precipita verso la terra, se non è stato ben allevato dal suo cocchiere. È l'ultima e la più grande prova che l'anima abbia a sostenere. Le anime di quelli che chiamiamo immortali, dopo essersi elevate sino al più alto del cielo, uscito fuori, 8i mettono sulla parte convessa della sua volta; e mentre vi stanno, il movimento circolare le porta in giro, ed esse contemplano ciò che è fuori del cielo. Il luogo sovraceleste unspoupotvtoc non è stato ancora celebrato da alcuno dei nostri poeti, e non lo sarà mai degnamente. Ecco tuttavia com'ò, poiché non bisogna temere di dire la verità, sovratutto quando si parla sulla verità. L'es.venza realmente esistente, senza colore, Fenza figura, impalpabile non può essere vista che dalla guida dell'anima, l'intelligenza. Intorno ad essa è il luogo della vera scienza. Come il pensiero degli dei che si nutrisce d'intelligenza e di sc'enza senza mesco Platone nega alle Idee la figura e il colore nello stesso senso in cui nega ad esse il cangiamento: egli non esclude da esse la figura, il colore, il cangiamento irfea/i vale a dire non nega che queste cose siano anch'esse rappresentate nel mondo ideale ma solo la figura, il colore, il cangiamento fenomeni. anza, anche quello di ogni anima che deve raggiungere il suo destino, vedendo 1'essere, da cui era da lungo tempo separato, contento della contemplazione della verità, se ne nutrisce e gode, sinché il movimento circolare riconduca al punto di partenza. In questo giro vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la i-cienza, nrn quella in cui vi ha cangiamento e che è diflereiite nei differenti oggetti che ora chiamiamo esseri, ma la scienza che è in quello che è veramente essere; e dopo aver contemplato allo stesso modo gli altri esseri veri ed essorsene abbondantemente nutrita, l'anima rientra npirinterno del cielo, e se ne ritorna a casa. Subito che arriva, l'auriga conducendo i corsieri alla stalla, sparge d'innanzi ad essi l'ambrosia e versa il nettare. Tale è la vita degli dei. Fra le altre anime, quella che segue il meglio le anime divine e che loro rassomiglia il più, innalza la testa del suo cocchiere nel luogo sovraceleste, e va così, portata dal movimento circolare; ma è turbata dai suoi corsieri, e vede a stento gli esseri. Un'altra ora s'innalza ed ora si abbassa; per la inobbedienza dei suoi corsieri, vede alcuni esseri ed altri no. Le alt»e vengono dietro, bruciando dal desiderio di contemplare la regione superiore, ma non potendolo: sommerse, sono portate intorno, pigiandosi gettandosi l'una sull'altra per cercare di oltrepassarsi. Ne nasce; un tumulto, una lotta e un sudore estremo. Molte sono storpiate per colpa dei cocchieri, molte perdono una gran parte delle penne delle loro ali; e tutte, dopo penosi e inutili scorzi, se ne vanno prive della vista dell'essere, e si pascono d'un alimento opinabile. La causa dei loro sforzi per vedere il campo della verità è che l'alimento conveniente alla parte migliòre dell'anima si trova in questo prato, e la natura delle ali, che innalzano l'anima, se ne nutrisce; ed è una legge d'A \ drastia che qualunque anima, seguendo gli dei, ha veduto alcuno dei veri, resti immune sino all'altro circuito, e se può far questo sempre, sia sempre illesa il danno da cui quest'anima sarà preservata è rincarnazione. Tutti i particolari di questa descrizione sono evidentemente poetici e allegorici. Il luogo sovraceleste dove le Idee sono collocate, non lo è meno del cocchio alato con Tauriga e i due cavalli o la nutrizione delle ali dell'anima con la contemplazione dell'essere: noi sappiamo infatti che la dottrina di Platone è che le Idee non sono in alcun luogo. Che dritto si avrebbe dunque di ammettere che la trascendenza delle Idee non sia anch'essa una circostanza poetica, quando essa non ci è data che nell'immagine della loro collocazione In un luogo fuori del cielo? È certamente un problema di determinare sin dove si estenda, nel mito del Fedro, l'elemento fantastico, e quale sia il concetto filosofico che vi è racchiuso. Io non posso seguire quegl' interpreti che vedono una circostanza poetica e allegorica nella stessa intuizione delle Idee. Questa è ammessa, oltre che nel FEDRO, nel TIMEO e in tutti quei luoghi in cui Platone parla della sua dottrina che la scienza è una reminiscenza, poiché questa dottrina ha appunto per fondamento l'intuizione delle Idee in una vita anteriore. In alcuni di questi luoghi la dottrina della reminiscenza è esposta nella forma più scientifica che possa trovarsi in Platone, mancando, per conseguenza, qualsiasi ragione di supporre che si tratti d'una semplice allego Fedro Tim., Arist. Phys, eoe, Men,, Fedo, ria a meno di escludere a priori la pos3ibilìtà che Platone abb-a ammesso seriamente questa dottrina e le altre che vi sono connesse, ed è data come una delle prove più forti dell'immortalità dell'anima. I più conseguenti tra gl'interpreti che negano che la reminiscenza sia stata una dottrina seria di Platone, ammettono, è vero, che non solo la reminiscenza, l'intuizione delle Idee, la preesistenza, ecc., ma anche la stessa immortalità dell'anima sia in Platone un mito e un semplice SIMBOLO. La dottrina rappresentata da questi simboli è l'identità tra l'essenza dell'anima e il mondo ideale, cioè tra l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e l’essere. Non è qui il luogo di discutere quest'opinione. G. osserva semplicemente che è impossibile a questi interpreti d’assegnare un sol luogo negli scritti di Platone, in cui la dottrina che l'autore SIMBOLEGGIA – cf. Grice, utterer’s meaning -- con l'intuizione delle Idee, l'immortalità dell'anima, ecc., cioè quella dell'identità dell'essere e del pensiero, sia chiaramente esposta, in una forma, non allegorica, ma puramente t^cientifica. L'Idea di Platone è appunto in ciò che differisce da quella di Hegel; questa è al tempo j^tesso un'entità generale e un concedo generale, mentre 1'Idea di Platone è solo un'entità generale, che non è identica al concetto generale, ma è solo V oggetto a cui questo si riferisce. Non vi ha d'altronde alcuna ragione, fondata sull'indole stessa di queste dottrine, che impedisca di ammettere che Platone abbia realmente creduto alla reminiscenza e all'intuizione delle Idee in una vita anteriore. Il problema di cui Platone cerca la soluzione, era lapo^s bilità della coincidenza tra il pensiero e la realtà mila conoscenza a priori, problema che diviene d'un'urgenza speciale nei s stemi costruiti sullo stesso tipo che il sistema platonico, perché secondo essi tutta la scienza è a priori, e inoltre vi ha la più perfetta corrispondenza tra il pensiero e Tessere, questo essendo astratto e ^e nerale come quello, e l'ordine ontologico essendo identificato con r ordine logico. Ora se noi esaminiamo le risposte che si sono date a questa quistione, vale a dire di spiegare questa coincidenza tra la conoscenza a priori e roggetto conosciuto, troviamo che la più parte di esse, compresa la dottrina dell'identità tra Tessere e il pensiero, consistono ad assimilare il fatto al fenomeno familiare in cui questa coincidenza ci pare naturalissima appunto perchè il fenomeno è familiare senza di che Tassimilazione ad esso non potrebbe costituire una spiegazione per un metafisico, vale a dire alla percezione sensibile nella quale, secondo la credenza naturale, vi ha la presenzaimmediata dell'oggetto percepito. Hegel assimila il rapporto tra il pensiero e il suo oggetto alla percezione sensibile solo in quanto ammette la presenza del secondo nel primo, come la credenza naturale ammette la presenza del sentito nella sensazione: T assimilazione che fa Platone è più completa, perchè il rapporto immediato del pensiero con le Idee è per lui una vera intuizione, che non si distingue dalla sensibile quale questa è secondo la credenza naturale se non in quanto la facoltà intuitiva non ò il senso ma Tintelligenza. Certamente vi ha nell'intuizione platonica una circostanza, per cui essa si distingue dalle ipotesi analoghe di altri metafisici, e sembra avvicinarsi a un semplice mito: è che quest'intuizione ha avuto luogo in una vita anteriore. Ma un'intuizione attuale delle Idee sarebbe sembrata a piatone in contraddizione coi fatti: in effetto, si deve Append. Saggio supporre che quest'intuizione è permanente nello spirito? ma in questo caso la scienza sarebbe innata e continuamente presente al pensiero. Si deve supporre invece che lo spirito intuisce un'Idea solo quando ha coscientemente il pensiero corr'spondente a quest'Idea? dico coscientemente, perchè Tipotesi di un'intuizione permanente implicherebbe quella di un pensiero permanente, ma incosciente, di tutte le Idee ma in questo caso non si comprenderebbe perchè l'Idea viene, per dir cosi, a porsi dinnanzi allo spirito intuente precisamente nel momento richiesto dalla connessione logica o psicologica dei concetti. Io credo dunque che non si ha alcuna ragione di negare che Platone abbia realmente ammesso che l'anima ha intuito le Idee in un'altra vita, e che la conoscenza che ne acquista nella vita attuale è una reminiscenza. L'ipotesi della reminiscenza poteva essere un complemento di quella dell'intuizione, perchè anche la prima consiste, come la seconda, nell'assimilazione del fatto che si tratta di spiegare a un fenomeno familiarissimo, uniformandosi cosi anch'essa alla condizione necessaria di ogni spiegazione metafisica. Ma quali sono le condizioni di questa intuizione delle Idee in una vita anteriore? come comprenderne la possibilità? perchè in una vita anteriore è possibile ciò che non lo è in questa? Sono delle quistioni a cui non si potrebbe pretendere da Platone una risposta. È qui che si origina il mito del FEDRO, Platone, volendo rappresentare un fatto le cui circostanze sono irrappresentabili, non poteva darne che una rappresentazione poetica: ma questa, quantunque non fosse che una finzione, dove avere tutta quella verosimiglianza che è necessaria in una finzione poetica. Ora la circostanza più naturale che si presentasse all'immaginazione di Platone, e la quale spiega d'una maniera poeticamente verosimile come :M X? rintuizione delle Idee, non possìbile nella vita attuale, lo è in una vita anteriore, era la situazione delle Lieo in un luogo, allora accessibile all'anima, ma ora inaccessibile. Tutte le altre circostanze del mito, il cocchio alato, la nutrizione dello ali dell'anima, ecc. non sono che degli accessori di quest'idea, cioè di quest'immagine, fondamentale. L'esistenza delle Idee ili un luogo fuori del cielo si presta, come le altre circostanze del mito, ad un senso allegorico: essa significa che le Idee non fanno parte del mondo sensibile, del mondo dei fenomeni, il cielo rappresentando la totalità delle cose senaibili. Del resto Timmanenza, nel mito del Fedro^ oltre che dalla dottrina stessa della reminiscenza la quale suppone che il concetto generale ha per oggetto Tldea, poiché é questo che viene riguardato come la reminiscenza dell'Idea intuita in uaa vita anteriore r b-cì e dalla designazione delle Idee per i nomi V essere, il vero, ecc., è chiaramente dimostrata dal luogo seguente: Ma la belt<à (xdXXogì, come dicevamo, brilla allora tra quelli cioè tra le Idee intuite dall'anima, e venuti in questo mondo, l'abbiamo percepita xax6iXy]'^ap,ev aùxó, risplendente della luce più chiara, per il più acuto dei nostri sensi. La vista è in effetto il più sottile degli organi del corpo; tuttavia essa non percepisce la saggezza mala sola beltà ha avuto questa sorte, di essere più di ogn» altra cosa manifesta ed amabile. La beltà Idea, che l'anima ha intuito, è qui identificata con la beltà che i sensi percepiscono. La bellezza che vediamo qui in questa vita è pure distinta, è vero, da quella che intuiivamo allora quando eravamo in compagnia degli dei: ma noi abbiamo già osservato che il rapporto tra le Idee e il sensibile è al tempo stesso d'identità e di differenza, e che se la trascendenza delle Idee spiega la differenza, non può spiegare l'identità, mentre l'immanenza spiega tanto l'uno quanto l'altra. Veniamo infine alla prova più forte dell'interpretazione trascendentalista, la testimonianza d'Aristotile. Io non mi dissimulo la forza di questa prova, e riconosco che essa costituirà sempre l'ostacolo più grave che incontrerà Tinterpretazione contraria. E certamente quest'ostacolo sarebbe insormontabile, se la testimonianza d'Aristotile fosse così chiara e certa, come suppongono grinteppreti trascendentalisti. Ma essa è ben lungi dall'essere tale. Osserviamo in primo luogo che l'interpretazione d'Aristotile ha bisogno alla sua volta di essere interpretata, e gli stessi equivoci a cui dà luogo l'interpretazione di Platone, s'incontrano naturalmente in quella dell'esposizione che Aristotile fa di Platone. Nesegue che le prove contro l'immanenza delle Idee contenute in questa esposizione sono assai minori in realtà di quante ve ne trovano gl'interpreti trascendentalisti. Noi abbiamo già visto che molte espressioni per DESIGNARE le Idee e i loro rapporti con le cose in cui si pretende di vedere gli argomenti più forti della loro trascendenza, p. e. il x«>?'-^^) 1'? '^^ TioUa, ecc. non hanno necessariamente la portata che loro si attribuisco. La slessa osservazione vale per certe obbiezioni di Aristotile contro la dottrina delle Idee, che secondo gl'interpreti trascendentalisti non sarebbero possibili che nel, :Kripotesi della trascendenza; p. e. quella del terz'uomo. Noi abbiamo visto che questa obbiezione si comprende facilmente anche nelTipotesi dell'immanenza, ciò che è anche provato dal fatto che Platone, nel Parmenide di VELIA, la rivolge contro la propria dottrina immediatamente dopo quella che mostra la difficoltà di concepire come Tuno inerisca simultaneamente nei molti. Una prova simile si ha per il rimprovero che Aristotile fa ripetutamente a Platone di avere raddoppiato inutilmente gli esseri: questo raddoppiamento degli esseri, obbiettato alla dottrina delle Idee, dimostra così poco la loro trascendenza, che noi troviamo la stessa obbiezione rivolta contro la dottrina che ammette le entità matematiche, non separate dalle cose xexoptoiiéva tó5v alo^xdJv, ma nelle cose stesse év Toig alo^yjxorg. Si deve notare inoltre che molti luoghi, in cui Aristotile si rappresenta certamente le Idee come separate dalle eose, non importano pertanto necessariamente che egli attribuisca a Platone questa dottrina. L'Idea platonica, come abbiamo più volte osservato, per quanto può essere un oggetto di rappresentazione, non può essere rappresentata che come separata dalle cose, perché è imsibile di concepire come una sostanza sia al tempo stesso un attributo, e inerisca simultaneamente in una moltitudine di soggetti. Per conseguenza Aristotile poteva ammettere la separazione delle Idee dalle cose e ragionare su questa premessa, anche riconoscendo che i Platonici affermavano a parole il contrario a parole, perchè nessuna rappresentazione reale poteva corrispondere alle loro affermazioni in quanto egli pensa che le Idee, se esse esistessero, non potrebbero esistere che separate dalle cose. É chiaro in alcuni casi che è cosi che si devono intendere effettivamente certe proposizioni in cui Aristotile nega l'inerenza delle Idee nelle eose. Cosi in Met. dice; Né le Idee giovano alla scienza delle altre cose perche non sono sostanze di queste, poiché sarebbero in esse-iiè all'essere, non inerendo nei par ' tecipantf: intatti potrebbe credersi ch'esse sono cause dell'estere delle cose come il bianco, mescolato, è causa a una cosa di esser bianca; ma è facile di confutare questo concclLo, che Eudossio ed alcuni altri hanno proposto, seguendo Anassagora Qui Aristotile mantiene la sua proposizione, che nega l'inerenza delle Idee nelle cose, anche di fronte alla proposizione di Eudossio e degli altri, che l'affermano della maniera più energica: è che egli distingue tra Tipotesi delle Idee considerata in se stessa, vale a dire nelle sue condizioni necessarie, e le affermazioni verbali dei platonici. Similmente in Met. dice: L'Uno non può essere una sostanza, per la stessa ragione per cui nessun altro comune può essere una sostanza. La sostanza, in effetto, non inerisce che a se stessa e a ciò di cui é sostanza. Di più nino non sarà simultaneamente  in molte cose, ma il comune esiste simultaneamente in molte cose. Per cui è chiaro che nessuno degli universali é oltre rcapa i singolari separatamente. Ma quelli che ammettono le Idee in parte dicono bene, cioè quando le separano x^ptCiovisg, s'è vero che sono sostanze; in parte dicono mal^, cioè quando chiamano l'Idea l'uno nei molti. Evidentemente Met.  qui la proposizione l'Uno  non sarà simultaneamente in molte cose non ò una testimonianza sulla dottrina platonica perchè anzi Aristotile rimprovera ai platonici di asserire che l'Idea è l'uno nei molti, ma una deduzione dello stesso Aristotile, che nega Tinerenza dell'Idea nelle cose come logicamente impossibile per le stesse ragioni che noi abbiamo dette, cioè perchè una sostanza non può inerire in un altro  soggetto, e meno ancora in una moltitudine di soggetti allo stesso tempo. Tuttavia vi hanno dei casi in cui questa spiegazione è inapplicabile, e nei quali bisogna riconoscere che, parlando della separazione delle Idee dalle cose, Aristotile non emette un apprezzamento proprio sulle conseguenze logiche dell'ipotesi delTesistenza delle Idee e le condizioni della loro rappresentabilità, ma  attribuisce ai  piaci M.  .Vor. : Bisogaa parlare dell'l'loa  del bcìie o no, ma piuttosto di quel bene coraune ch«» inoriselo in t aiti i bftiìi parlicolari? questo bone, in «ffoltt, parrà giiist amento Pss«^ro  diver:^o dall'Idea. L'Idea iat'atti è neparabile lympiaTÓv! ftde^isleppr se stessa aOiò xaft'aùxc, ma il comune inerisco in tutti i particolari. Non è dunque lo stesso il  comune col soparabile, jxjiohò è impossibile che ciò che è nepHrabile e capace .li caislore per se atesso inerisca in tutti i particolari. Noir/;/;r  ;'"./.!..  la distiu/j.me  (k'l*l.lo.i  .lil bone dal bene comune, '»ltr^ che da que-»l 'impossibilità  ò'inerire al tempo stesso in molte cose, è dedotta anche da un'altra ragione, cioè da ciò che il hene cornane inerisce anche ad un bene mediocre n   IS L'Idea del bene era riguardata come il bene assolato, senz'alcunM  inescolanza di mnl.»,.<^ui  la  necessità della trascendenza dell'Idea si fa derivare  dalla dt»lori)iÌJiazi(»ne che Platone attribuisce ad al'une Idee, di rappresentare l'attributo ad un grado assoluto, mentre esso nella cose non si trova che ad un grado relativo tonici di professare in effetto la dottrina che le Idee sotio separate dalle cose. Nelle Top. dice: Si deve considerare se si faccia qualche affermazione SII  qualche soggetto, dalla quale ne seguirebbe che in questo  soggetto inerirebbero delle proprietà contrarie' come se si affermi che le Idee siano in noi. Kcontnua mostrando le contraddizioni che risulterebbero da questa affermazione, cioè che le Idee sarebbero al tempo stesso immobìli e mosse perchè noi ci moviamo, intelligibili e sensibili perchè le formo delle cose si percepiscono coi sensi. Qui Aristotile sembra  sapporre almeno che Topinionc  più abituale di quelli che ammettono le Idee, o la pili autorevole, sia, non Timmanenza, ma la trascendenza. Foise però questo luogo potrebbe significare solamente, come altri di cui ci occuperemo i a s^guHo, che Aristotile ammette la possibilità delle due interpretazioni contrarie dei sistema delle Idee Ma in alcuni luoghi non può esservi dubbio che Aristotile non attribuisca recisamente ai partigiani delle Idee la dottrina della trascendenza. Fra di essi segnalerò: Quelli in cui le entità ammesse da Platone e dai platonici Idee ed entità matematiche vengono DESIGNATE come separate dalle cose xsxf>?''.'3jJLsva  Te)v  ovxwv,  iG)f  aìaBy^ifov,  ecc.  Quelli in cui la dottrina platonica sui numeri viene distinta dalla  pitagorica, perchè i numeri pitagorici sono nelle cose e  queste constano di essi, ma i numeri platonici sono separati yoif/.axot o xsxo>p'.a^l6VGl Quelli in cui sì distinguono due frazioni nella scuola platonica, di cui runa ammette le entità matematiche nelle cose  V. J/W. Mei. SpJX ì^ e l'altra separate. Si noti che Aristotile obbietta alTopinione che queste entità sono nelle cose, che in questo cago anche le altre entità, le Idee, dovrebbero  essere nelle cose. E dunque incontestabile che vi hanno in Aristotile un certo numero di luoghi in cui le Idee sono chiaramente interpretate come separate dalle cose. Non ne segue però che la sua testimonianza sia assolutamente favorevole alla interpretazione trascendentalista, perchè, a iato di questi luoghi, l'esposizione aristotelica delle dottrine platoniche contiene delle prove cosi  forti della Immanenza delle Idee, che basterebbero, anche nel caso che noi non possedessimo gli scritti di Platone, per rovesciare l'interpretazione tascendentalista, e restituire a queste dottrine il loro significato reale. Abbiamo già utilizzato alcune di queste prove; ma non abbiamo tenuto conto che di quelle la cui evidenza ci sembra al di fuori d'ogni dubbio, e ci siamo astenuti di servirci  di un gran numero di luoghi che, quantunque probanti per se stessi, potevano nondimeno far nascere qualche esitazione, per la contraddizione con gli altri, in cui Aristotile sembra ammettere, o ammette effettivamente, l'interpretazione trascendentalista. Ma cosi facendo, ci siamo privati di molte prove dell'immanenza delle Idee, che sarebbe tanto meno giusto di negligere, che alcuni  tratti della dottrina platonica, i quali dimostrano chiaramente quest'immanenza, risultano più nettamente ancora dall'esposizione di Aristotile che dagli scritti stessi di Platone, o ancte non si trovano che nel solo Aristotile, perchè appartengono alla parte non scritta del platonismo Xypa^a  ÒÓY[iaxa. Tali sono: L'universalità delle Idee. L'Idea è, secondo Aristotile, ciò che si attribuisce a  tutti gl'individui d'una specie 0 di un genere, il comune xoivóv nelle cose particolari, l'universale xaeóXoi>, il predicato SHAGGY HAIRY-COATEDNESS in comune xoiv^  xaxYjYopoójisvov o universalmente xaGóXco xax. Si dirà che questo determinazioni non devono prendersi in un senso strettamente rigoroso, e che tutto ciò significa, non che le Idee siano realmente gli attritributi  generali delle cose, ma che Platone ha trasformato i predicati generali in altrettante sostanze, in modo che queste sostanze astratte abbiano lo stesso contenuto che gli attributi generali delle cose,  ma senza identificarsi con essi. E certamente bisogna ammettere che le espressioni DESIGNANTI Tldea come l'universale non aveano per Aristotile che un significato vago ed incerto. Ma si deve notare che Aristotile non dice solamente dell'Idea che essa è l'universale, il comune, il predicato univer  Mei. su questa distmzione  il  n. Vi.  MeL Mei. Eih, A'ic. FAh. Eud,  MeU Mei., Eth. Nic., A«. Post. ecc.. Eth. Eud., Met. Met. salmente, ma ancora ch'essa è universale, che è comane e che si predica universalmente di tutti. Le ultime forme non sembrano suscettibili, come le  prime del senso improprio che abbiamo detto. Più importante è ancora di SEGNALARE certe obbiezioni conti'O  la sostantifìcazioue degli universali: p. e. Avistocile dice contro Platone: l'universale, o il comune, ecc. non può essere una sostanza, perchè è un attributo, o perchè inerisce in molti. Queste obbiezioni suppongono che i termini Vuninersale, il comune, ecc. si applicano  all'Idea in un senso Rigoroso, perchè esse non valgono che in questo caso. Aggiungiamo infine che V individuo è chiamato, relativamente allldea, il soggetto  Le Idee essenze o sostanze oOaCai delle cose. E una determinazione che Aristotile attribuisce a ogni momento alle Idee. Perciò noi potremmo rivolgere a lui stesso la domanda che egli fa ai platonici: Se le Idee sono le sostanze  delle cose, come sarebbero separate? Met, Questa domanda, s'intende, si rivolgerebbe ad Aristotile come interprete trascendentalista: ma vi hanno delle ragioni per dubitare almeno che tutte le volte ch'egli afferma o suppone che le Idee sono le essenze delle cose, egli si tenga fermamente al punto  Elh, Aie., MeL, €>, Kth. yic,, Fih, End. Vili. MeL MeL Met, Met. Mei, Mei, .•>,i di vista  di quest'interpretazione. La prima è eh'egli identifi(ja continuamente  re.<f»s'enza della filosofìa platonica con Vessenza della sua propria filosofia salvo, beninteso, che nel suo proprio sistema l'essenza non ha che un'esistenza concettuale, e si distingue dalla ma  Cosi  p. e. in Mt't,: Ancora,  se la materia è. perchè è ingenita, molto piti ragionevole è che sia l'essenza, vale a dire ciò che  la materia diviene. Infatti se non è nò questa né quella, non sarà assolutamente niente. Che se ciò è impossibile, è necessario che vi sia oltre il composto Tiapà xò at3voXov la forma (jiOp^Tj'i e la specie £l$oc;ì. Ma se si ammette questa, è dubbio di quali cose si debba ammettere, e di quali no. É chiaro che non è possibile di tutte: non ammetteremo infatti che vi sia una casa oltre  (TCapd) 1© f^ase particolari i platonici, secondo Aristotile, non ammettevano Idee delle cose artilìciali In  3/eM. Ancora vi ha qualche cosa oltre il composto :iapà iò aiivoXov o no? chiamo così la materia e ciò che è con essa la forma. Se non vi ha, tutto ciò che è nella materia è corruttibile. Ma se vi ha, sarà ceriamonte la specie sISol; e la forma pio pcpf/. Questa in quali cose vi sia e  in quali no, è  difficile determinare. In alcuno cose è chiaro infatti che la specie non è separabile ;x(Op'.aiÓv, p. e. nella casa In  Met,  V mentre parla della dottrina della detinizione, o dell'essenza  che ne è l'oggetto:  Se poi le essenze delle cose corruttibili siano separabili xcopiaxatj non è ancora manifesto In Met. spiegando che vi ha identità tra una cosa e la sue essenza, dice che cosi  è anche necessariamente nel sistema delle Jdeo, r-oichè è necessario che il bene in sé, l'animale in sé ecc; siano identici con l'essenza del bene, dell'animale, ecc. L'essenza d'una cosa, quando Aristotile fa l'applicazione del prmci|>ìo nel sistema delle Ideo, non potrebbe avere un altro semso che quando la fa nel suo proprio sistema. Dunque anche nel sistema delle Idee l'essenza è, come  nel suo proprio sistema, un principio intrinseco alla cosa di cui si dice l'essenza. teria solo logicamente, mentre nel  sistema platonico se ne distingue realmente, ed ha come entità distinta unNsistenza  reale. Questa identificazione esige che Tespressiene essenza delle cose, applicata alle Idee, sia presa nel suo significato proprio, e, per conseguenza, che le Idee siano immanenti. Lo stesso  deve dirsi, e a più forte ragione, dell'obbiezione che Aristotile fa ai platonici, che sejuna è la sostanza di tutte le cose cioè di tutte le cose subordinate a un'Idea tutte queste cose saranno una cosa sola, perchè ciò la cui sostanza è una è necessariamente uno. Qui è applicabile la stessa osservazione fatta al numero precedente che vale per tutte le formule platoniche neiresposìzione  aristotelica, cioè che non deve ammettersi che Aristotile dia costantemente alla proposizione le Idee sono le essenze delle cose il suo sigMìficato strettamente letterale, e neanche un senso determinato qualsiasi, perchè il prenderla nel senso letterale, come Aristotile sembra fare nei casi di cui abbiamo parlato implica, necessariamente 1'ammissione dell'immanenza delle Idee, e sarebbero  quindi inesplicabili i luoghi in cui egli mostra di ammettere T interpretazione trascendentalista; e d'altra parte, escluso il suo significato letterale, non ve ne ha alcun altro di cui la proposizione sia suscettibile. La  materia il soggetto delle Idee. In Mei., facendo 1 esposizione della filosofia di Platone, dice La materia soggiacente òiioxstfiévY; a cui si attribuiscono rUno nelle Specie e le  Specie nei sensibili,  MeL la dualità del Grande e Piccolo Conformemente a questa proposizione presa  in un senso strettamente rigoroso Aristotile in diversi luoghi riguarda l'individuo» nel sistema platonico, come il composto dell'Idea e della materia. E cosi che egli fa nei dne primi della terz'ultima nota; e a questi aggiungeremo i seguenti: Mei: <  £ come la materia (se vi hanno delle essenze  oltre i singolari, tanto nell'ipotesi.che l'essenza di tutti gl'individui sia una, come vuole Platone, quanto in quella che siano molte e diverse diviene ciascuna di esse, ed il tutto oóvoXov è l'una e l'altra l'essenza e la materia?  Mei.: Nessuno ha spiegato come il numero sia uno, o come siano uno l'anima e il corpo e in generale l'eidos e la cosa evidentemente questo rimprovero non  potrebbe essere rivolto che ai platonici. Mei, : In atto è l'sISoc, se è separabile (XCDpioxóv), e ciò che è da amendue dall'eldo; e dalla materia, vale a dire l'individuo; la steresi la privazione dell'elòo^, come l'oscurità o la malattia: ma la materia è in potenza. Essa infatti è ciò che può divenire amendue cioè VbIòoq e la steresi Io non vedo come questi luoghi si potrebbero accordare con  l'interpretazione trascendentalista. Osserviamo che il rapporto delle Idee con le cose e la materia delle cose non può essere differente da quello dell'Uno con le Idee e la materia delle Idee. Le Idee devono essere dette e essenze o le forme  delle cose e ciò che ai attribuisce alla materia delle cose, nello stesso senso in cui TUno è detto 1'essenza o la forma delle Idee e ciò che si attribuisce alla materia delle Idee. Per conseguenza, l'immanenza dell'Uno nelle Idee e nella loro materia essendo incontestabile, anche le Idee devono essere immanenti nelle cose e nella loro materia. Il rapporto dei numeri ideali con le cose.  L'immanenza dei numeri anzitutto è supposta dal mottvo che Aristotile assegna alla dottrina che essi sono sostanze e principii delle cose. In  Mei. dice mettendosi al punto di vista dei platonici: Ma iJ corpo ò meno sostanza che la superficie, e la superficie che la linea, e la linea che Tunità e il punto: da queste cose infatti il corpo è determinato opioxat. E queste cose sembrano pot€^  essere senza il corpo, ma non il corpo senza di esse in altri termini, secondo il modo di esprimersi che Aristotile attribuisce il più abitualmente a Platone: soppressa la superficie, o la linea, o il punto ounitA, sarebbe soppresso necessariamente il corpo;  ma soppresso il corpo, non sarebbe soppressa necessariamente la superficie, la linea, Tunità o punto. Perciò, mentre i più antichi  credono che la sostanza e Tessere sia il corpo, e le aitr^ cose affezioni di esso RYLEIAN AGITATION, in  modo che i principi! dei corpi siano i principii di tutti gli esseri; invece i più moderni e riputati più sapienti ammettono che questi principii siano i numeri. E in  Met.: Inoltre sono chiamate sostanze le parti che ineriscono fiópia évjTiapxovxa in tali erse nel fuoco, la terra, gli animali, ecc., che le terminano ópC^ovTa, e le quali soppresse, è soppresso anche il tutto; come p. e. soppressa la superficie, è soppresso, come dicono alcuni, anche il corpo, 0 soppressa la linea, anche la supertìce: ed associ NeUa costruzione dell'esteso per i suoi termini e rinteryallo compreso tra di essi, immaginata allo scopo di ridarre la grandezza al numero, i platonici riguardavano il punto come una naità, Supplemento per comprendere questa conseguenza, la nota seguente. lutamente è il numero che sembra essere tale ad alcuni; niente essere infatti, soppresso questo, e questo termi' nave ópec=tv tutte le cose questo numero riguardato come sostanza non può essere che il numero Idea, perchè i platonici non sostantificano che T Idf a, l'universale. L'immanenza dei numeri è ugualmente supposta a meno che non si vogliano intendere le parole d'Aristotile in un senso molto lontano dal letterale in questa obbiezione che egli fa alla dottrina dei numeri: Non si è poi per niente determinato come i numeri ideali siano cause delle essenze e dell'essere: forse come termini, Eoco come Aless. Afrod. Comui. in Met. ci spiega, certamente secondo Aristotile, perchè i platomci ammettevano che i numeri sono i principii delle cose, e identificavano le Idee con essi: Secondo loro il principio era il più anteriore e il pi'i semplice, o dei corpi erano più anteriori e più semplici i piani, dei piani le linee, e di queste i punti che essi chiamavano unità dello unità non vi era niente di anteriore, e di più semplice. Ora le unità sono numeri: dunque i numeri erano i prinripu di tutti gli esseri. E poiché per loro i principii di tutte le cose erano le Idee, non potendo esservi un principio anteriore ai numeri, non resta, seconde loro, che di ammettere che le Idee sono numeri .Platone chiama una cosa anteriore ad un'altra, quando il concetto della soconda racchiude quello della prima; vale a dire il più astratto era detto da lai auteriore al più concreto. Questo rappono di anteriorità importa per lui una sorta di causalità della oosa-cioò dell' entitàanteriore verso la posteriore; poiché il principio della dialettica platonica è che il più astratto e pii generale è in certo modo la causa del più concreto e più particolare. IL SEGNO dell'anteriorità d'una cosa su di un'altra era che soppressa la prima si sopprimerebbe anche la seconda, mentre soppressa qa..ta, non si sopprimerebbe quella: p. e. ^PP^, /Z^;; ?arobbe soppresso perciò anche l'Uomo, ma soppresso 1 Lomo, non sarebbe soppresso perciò l'Animale. -11k quali i punti delle grandezze? o comer armonia è una proporzione di numeri, così pure V uomo e ogni altra cosa? Ma è chiaro che nel secondo caso i numeri non sarebbero le essenze né le cause della forma. L'essenza infatti sarebbe la proporzione; il numero sarebbe la mateda y>. In diversi luoghi poi Aristotile sembra rappresentarsi i numeri ideali come gli elementi costitutivi delle gr;indezze. In il/e/, l., dico che quelli che ammettono le Idee fanno le grandezze dalla materia e dal numero ideale. S'egli non si rappresentasse effettivamente i numeri come elementi costitutivi della grandezza, non si comprenderebbero delle obbiezioni come le seguenti: Met dopo aver detto che secondo i Pitagorici e Platone V Uno è sostanza per se stesso, cioè nel suo concetto astratto, e non è qualche altra cosa, p. e. qualcuno degli elementi dei Fisici: Ma come da un tal Uno o da più sarà la grandezza? Sarebbe come se si dicesse che la linea è composta di punti.: dopo aver detto che per produrre i numeri, cioè gl'ideali, e le grandezze, alcuni aggiungono airUno in sé un altro elemento, rineguaglianza Né si vede come dairUno e questa né come da un altro numero e questa possano farsi le grandezze. Mei.: Se vi hanno le Idee o i numeri, non saranno causa di niente: certo almeno non del movimento. K poi come da cose senza grandezza sarà la grandezza e il continuo? In alcuni di questi luoghi, a dir vero, non si parla delle grandezze sensibili, ma delle grandezze matemaUche, che erano intermediarie tra le grandezze sensibili e i numeri ideali: ma questa differenza importa poco, perchè, se le Idee fossero trascendenti riguardo alle cose, dovrebbero essere anche trascendenti riguardo alle entità matematiche, Infatti, le stps-e determinazioni che sembrano esigere la trascendenza delle Idee riguardo alle cose aùxè xaG'a'nó^ Xo>ptox'5v, ecc. esigerebbero pure la loro trascendenza riguardo alle entità matematiche; e l'immanenza delle Idee nelle entità matematiche dà luogo alle stesse inconcepibilità che la loro immanenza nelle cose, non esclusa la più grave che è quella dell'inerenza simultanea dell'uno nei molti, poiché anche delle entità matematiche ve ne erano molte, come attesta Aristotile, della stessa specie, vale a dire partecipanti a un'Idea a un numero ideale unica. Si dirà che tutti i luoghi d'Aristotile precedentemente citati, se possono provare che le Idee platoniche sono immanenti, non possono provare però che l'autore se le rappresentasse come tali, perchè bisogna evitare un'aperta contraddizione tra questi luoghi e quelli in cui egli è chiaramente favorevole all'interpretazione trascendentalista; e per conseguenza si deve ammettere che Aristotile riproduce le formule e le locuzioni platoniche, che in se stesse implicano l'immanenza, ma senza dare ad esse alcun significato preciso, anzi riguardandole come non suscettibili di un significato preciso. Ed io riconosco che quest'osservaziene é in gran parte giusta: essa però non mi sembra applicabile a tutti i luoghi citati, notevolmente a quelli in cui Aristotile fa delle obbiez'oni che non hanno valore se non nel caso che le Met, Met. formule platoniche si prendano nel loro significato proprio, implicante rinimanenza. Ma vi hanno anche altri luoghi, in cui r immanenza delle Idee, nel concotto d'Aristotile, è più evidente ancora. Di essi alcuni concernono il rapporto tra le Idee e le cose, altri solamente quello tra le Idee più generali e le più particolari: ma questa differenza per noi ha poca importanza, perchè Aristotile non poteva non comprendere le ragioni di coerenza che esigevano che l'uno dei due rapporti fosse'identico all'altro, e d'altronde le ragioni prò o contro V immanenza delle Idee più generali nelle più particolari erano quelle stesse che valevano prò o contro l'immanenza delle Idee nelle cose. Dei luoghi che concernono il rapporto delle Idee generali con le Idee particolari, la parte più considerevole sono certamente quelli che dimostrano l'immanenza nel concetto stesso d'Aristotile dei due elementi, cioè deirUno o Essere e della Diade indefinita o Non essere, in tutte le altre Idee questi stessi luoghi, la più parte almeno, provano pure l'immanenza di queste due Idee le più universali, che Platone chiama gli elementi, nelle cose stesse. Noi ne abbiamo parlato, e non occorre ritornarvi. Ma vi hanno anche parecchi luoghi, in cui sono le Idee generali indistintamente che vengono riguardate come immanenti nelle Idee particolari. Cosi in Met, l'Idea del genere e quella della differenza si considerano come parti, e l'Idea della specie come il tutto composto di queste parti Altrove invoee lo Idee speoiliche souo oonsideraie come parti deU'idea generica, Met. Noi abbiamo Tisto ohe nel sistema delle Idee immanenti vi hanno necessariamente al tempo stesso fra i Generi e lo Specie fjuesti due rapporti apposti. IWd., dopo aver obbiettava alla dottrina dei due elementi che, se ciascuno di essi è uno di numero come vuole Platone e non semplicemente di specie, non vi saranno altri esseri che gli elementi stessi, agrgiunge che la stessa obbiezione ha luogo quando, oltre noLpd le Idee aventi lo stesso elfiog, si ammette alcun che di separato xexfoptoiiévov vale a dire quando si ammette un'Idea generale oltre le Idee particolari subordinate a un concetto comune: Tobbiezione vale anche allora, perchò nel sistema dell'immanenza è inconcepibile p. e. come, TAnimale essendo unico, possano esservi nondimeno molti animali, TUomo, il Bue, ecc.., dice che se il principio del numero matematico fosse qualche uno, diverso dall' t/7io che è il principio del numero ideale, VUno in se stesso sarebbe ciò che vi avrebbe di comune in questi due, e inoltre si dovrebbe ricercare come VUno potesse essere questi molti. obbietta alla dottrina dei numeri ideali che l'unità che é nella Dualità è anteriore a questa, poiché, soppressa essa, si sopprimerebbe anche questa; e per conseguenza tale unità dovrebbe essere un'Idea d'Idea, essendo anteriore a un'Idea Un'Idea d'Idea significa evidentemente un'Idea più generale, ossia anteriore, a cui partecipa un'altra Idea più particolare, o^^ia posteriore. Ora quest'unità che dovrebbe essere un'Idea deiridea della Dualità, è in questa; perciò Aristotile si rappresenta l'Idea anteriore, cioè la più generale, come inerente nell'Idea posteriore, cioè nella più particolare. E in diversi luoghi le parole ivipapxstv inerire, Oitòlpxstv év essere in vengono impiegate per denotare sia la re Mei. AH. P<rtt. V Iasione delle Idee generiche con le Idee specifiche sfa qaella delle' Idee con le cose. L'immanenza delle Idee nelle cose' é pòi supposta della maniera più evidente dairòtbiezione che Aristotile fa ripetutamente alla sostantiàcazione degli universali, di condurre all'assurdità che una sostanza unica sia molte sostanze. Se si astrarrà il predicato in comune ese ne farà tina sostanza, Socrate sarà moiti animali, egli stesso, TUomo e l'Animale, s'è vero che ciascuna di queste cose significa Una sostanza e un che di unico. Ciò che nessuno degli universali è sostanza è chiaro anche per quésta ragióne, che è impossibile che una sostanza riéulti da sostanze che le ineriscano in atto. Infatti le cose che in atto sono due è impossibile che siano uno in atto? potrà essere uno ciò che è due solo in potenza, come il doppio, ia cui vi hanno in potenza le due metà; è l'atto che separa Per cui, se la sostanza è qualche cosa di unico, essa non potrà risultare da sostanze inerenti; e in questo scuso Democrito ha ragione di ammettere che è impossbile che di due cose se ne faccia una sola o di una due: le sostanze infatti sono secondo lui le grandezze indivisibili Tuttavia la nostra conclusione presenta uria difficoltà: se è impossibile che una sostanza risulti da universali, perchè essi significano delle qualità e non delle sostanze è uu'altra obbiezione che precedentemente ha fatto alla sostantificazione d'egli universali, e se una sostanza non può essere composta di più sostanze in atto, la sostanza sarà qualche cosa d'indecomponibile, e non vi potrà essere de Met,, finizione della sostanza perchè i platonici riguardanola definizione come una decomposizione del definito nei suoi elementi. La stessa obbiezione è anche presentata sotto un'altra forma: La definizione non è T^H discorso unico per la congiunzione delle parti, come l'Iliade, ma perchè si riferisce ad un oggetto unico. Cos'è dunque che fa che l'uomo sia uno, e perchè esso è uno e non più, p. e. l'animale e il bipede, specialmente se vi ha, come alcuni dicono, un animale in sé e un bipede in sé? perchè l'uomo non è questi, e perchè gli uomini non sono perla partecipazione, non di uno, l'Uomo, ma di due, l'Animale e il Bipede? allora 1'uomo l'individuo, sembra non sarebbe Uno, ma più, l'animale e il bipede Perchè ciò che diciamo essere l'oggetto della definizione, è uno, p. e. l'animale bipede, à'è questa la definizione dell'uomo? Perchè ciò è uno e'iibn più, r animale e il bipede? Infatti 1'nonio e il bianco sono più, quando l'uno non inerisce all'kltro; sono uiio, quando l'uno inerisce all'altro, e il soggetto l'uomo ha un'affezione la bianchezza. E allora che ciò diviene ed è uno, l'uomo bianco. Ma nel nostro caso una cosa nou partecipa dell'altra: il genere infatti non sei»bra»partecipare delle differenze; poiché lo stesso parteciperebbe dei contrari, le ditterenze per cui il genere differisce essendo Met. L'obbiezione che la realizzazione degli universali ha per conseguenza che una sostanza sia composta di pili sostanze, ò pure accennata a. Seal. Met. contrarie. E quand'anche ne partecipasse, vi sarebbe sempre la stessa difficoltA, se le differenze sono più, p. e. pedestre, bipede, implume. Perchè tutto ciò è uno e non molti? che esse ineriscano non è una ragione sufficiente, poiché a questo patto da tutte ne risulterà una cosa sola da tutte vuoi dire: da tutte insieme le differenze contrarle che si producono nella divisione, cioè da pedestree volatile, bipede e quadrupede, implume e piumato, ecc., perchè tutte queste differenze ineriscono egualmente nei genere. Forse si troverà che questi due luoghi suppongono Timmanenza del Genere e della Differenza nella Specie, ma non neirindividao. E sia pure ! ma come abbiamo osservato, il rapporto tra le Idee generali e leldoe particolari non potrebbe differire da quello tra le Idee e le cose. Un'altra obbiezione che suppone V immanenza delle Idee nelle cose, è quella dePa Metafìsica, cif è che, se vi hanno le Idee, avranno molto più essere le cose p. e. lo sciente o il mosso che le Idee p. e. la scienza o il movimento in sé, perché le cose hanno più attualità, mentre le Idee sono le loro potenze. Nell'ipotesi deirimmanenza le Idee sarebbero effettivamente le cose in potenza, ma solo in quest'ipotesi, perché il potenziale e l'attuale sono, non due cose separate, ma due stati d'una sola e stessa cosa, stati che possono succedersi nel tempo, come Nel metodo platonico, in cai la definizione è il risaltato della divisione per diootomia Aristotile trova impossibile ohe lo stesso, cioè il genere, partecipi dei oontrarii, perchè egli ragiona sull'ipotesi ohe il genere sia ana sostanza, cioè an'idea: in qaest'ipotesi, il genere partecipando di dae differenze contrarie, si ha l'assordo che ad ana stessa cosa ineriscono dae contrari, Met', il fanciullo è in potenza l’uòmo, o solo iogicatóenfe, c^iflé, secondo Aristotile, la materia è tutte le cose in poteiis^a. Nel secondo ctìso, il jotenziale è Tatiuàle stesso codIbìderato in uno ^tato d'indeterminazione: rra le Idee, se sono immanenti, sono f recisamente le cose stesse allo stato indeterminato, cioè astratto. Infine citerò qu'^sfaltra obbiezione della Phys.: Platone avrebbe dovuto dire com'è che le Idee e i numeri non sono nello spazio, se ciò che ne partecipa è lo Spazio come egli afferma. L'obbiezione é giusta supponendo che il partecipato sia, secondo Platone, neZpartecipante. Ma che significato potrebbe avere neir interpretazione trascendentalista, per cui il partecipato è fuoH del partecipante? Basterebbe questo luogo per mostrare che Aristotile non si rappresenta costantemente le Idee come trascendenti, e che la sua testimonianza sul rapporto tra le Idee e le cose è contradittoria ed incerta. D'altronde lo stesso Aristotile confessa la sua itìcertezza. Cosi in Met. dice: A tutte queste cose cioè ai numeri e alle grandezze è comune il dubbio che vi ha sul rapporto del Genere con le sue Specie, quando si ammettono gli universali; cioè se 1'animale che è in un animale sia Tanimale stesso o un altro diverso dall'animale stesso vale a dire se l'attributo anici Tattavia, malgrado la giastezza dell'ossesvazione d'Aristotile, Platone paò affermare al tempo stesso che lo spazio partecipa alle Idee e che qneste non sono nello spazio, perchè lo spazio riaiiisce nel sao sistema dae fanzioni e dae concetti differenti, qaello di materiale a qaesio panto di vista lo spazio è rigaardato come l'estensione para e quello di luogo. Lo spazio partecipa alle Idee cbihe materia; ma le Idee non sono nello spazio, perchè lo spazio è anche il laogo, e le Idee non sono in un luogo.-malità che e nell^uomo p nel leane ecc. sia l'Idea delranimale ipotesi deirimmanenza o qualche cosa di diverso da quest'Idea ipotesi della trascendenza. Non vi ha alcuna ragione di dubitare, se questo non è separa/o o separabile: xwpioxóv: ma se, come dicono quelli che ammettono tali dottrine, TUno e i numeri idealij sono separati o separabili, non è facile di risolvere questa (luistione, se si può^dire che non è facile ciò che è affatto impossibile. Quando si concepisce l'uno nella diade oin un altro numero qualunque, é l'uno stesso che si concepisce o un altro uno? E in Met.: Se esistono realmente le Idee, e 1'animale è nell'uomo e nel cavallo, deve ammettersi che sia Dell'uno e nell'altro, 0 numericamente uno e lo stesso ipotesi dell'immanenza, o diverso ipotesi della trascendenza. Dalla nozione si vede che è uno; poiché esprime la stessa nozione chi lo atribuisce all'uno e all'altro. Ora se vi ha un uomo in sé, sostanza e separato, è necessario che anche le cose da cui risulta, quali sono l'animalo e il bipede, siano sostanze e separato; iJicchò anche l'animale. ..^-A ^ ì i 1 'Il én ijfii^i'.. l !' i y Come si vede, iMncertezzi d’Aristòìile suV'ry dee più generali ejle Idee più particolari si estende anche, com'è naturale, a quello tra i due elementi e tutte le Idee, poichò i duo elementi non sono che le Idee più generali di tutte. Ciò, malgrado che in altri luoghi sembri indubitabile ch'egli ammetta l'inerenza dei due elementi nelle Idee e nelle còse Vv(^.^I e VtM)M(0 stosso dubbio sulla quistione dell'immanenza o trascttiidenza dei due eie menti è espresso in Met.: dopo aver detto che quellj ohe ammettono che i numeri e gli esseri in generale risultano dagli elementi, non hanno determinato in qual modo il numero risulti da essi, se per la loro mescolanza o per la loro composizione o altrimenti. E poiché, quando una cosa risulta da altre, può risaltarne sia come da cose che le ineriscono, sia oome da cose che Se dùnque questo è uno e lo stesilo iieir uomo e nei cavallo, della stessa maniera che tu sei uno e lo stesso con te stesso, come potrà essere lo stesso in esseri separati? e come non sarà anche separato da F0 stesso V E se parteciperà del bipede e del multtpede, ne seguirà una cosa impossibile; poiché i contrari ineriranno simultaneamente in uno stesso soggetto. Se no cioè se il Genere non partecipa delle Differenze, com'è che potrà dirsi dell'animale che è bipede o che é pedestre? 0 forse queste cose il Genere e le Diflerenze si compongonc» e si congiungono o si mescolano? ma tutto ciò è assurdo sin qui contro l'ipotesi dell'immanenza. Si ammett'^rà invece che l'animale é diverso in ciascun animale particolare? ipotesi della trascendenza. Mavì saranno allora un'infinità di esseri, di cui l'essenza sarà l'animale. E di più l'animale in sé sarà molti cioè vi saranno molti animali in sé, poiché l'animale che é in ciascun animale particolare é sostanza. Sicché ciascuno degli non le ineriscono, in quale di questi due modi il numero viene dagli elementi? Da cose che ineriscono non vengono se non le cose che sono fatte. Viene forse dagli elementi come da un germe? ma niente può uscire dall'indivisibile. O forse ne viene come da un contrario non permanente cioè come una cosa viene dalla sua contraria, quando questa ha cessato di esistere? ma le cose ohe risultano da altre a questo modo, risultano anche da qualche altra cosa permanente cioò da una materia, che è il sustrato dei due contrari, Aristotile cerca una rappresentazione voglio dire una imnKtffuie di ciò che ò irrappresentabile. Met, 7" quelli che ammettono che il numero viene dall'uno e dalla pluralità, Speusippo non hanno determinato il come, e vanno incontro alle stesse difficoltà a cui qualli che ammettono che essio viene dall'uno e dalla dualità indefinita, sia che si tratti di generazione, sia di mescolanza, ecc. Plat. Parmen. VELIA imimali ohe sono ne^i animali particolari -è un «nimale In sé. E questo donde verrà, e come potrà venire dalridea dell'animale? o in che modo sarà possibile quest'animale in sè2 oltre l'Idea dell'animale? Queste stesse difficoltà accadono per le cose sensibili, ed anche WAgglori Le ultime parole ci mostrano che Aristotile era altrettanto incerto sul rapporto tra le Idee e le cose che su quello tra le Idee generali e le Idee particolari. Quest'incertezza d'Aristotile sui concetti fondamentali del suo maestro sembrerà strana: ma non bisogna dimenticare che il sistema platonico appartiene alla stessa classe che quello al cui autore si è attribuito di aver detto che nessuno dei suoi discepoli lo aveva compreso. Qaest'inoertezsa sai rapporto fra le Idee generali e le particolari si vede an^he in Mei. Se non vi ha affatto Genere oltre napoc quelle ohe sono come le specie d'an genere o vi ha, ma come materia di esse, è chiaro ohe la definizione è la nozione che risalta dalle differenze. Qai si fanno due ipotesi, d coi la prima è che non vi siano assolatamente Idee dei generi, e la seconda che queste Idee siano immanenti nelle Idee delle specie, Aristotile ammette perciò tanto la possibilità dell'immanenza quanto quella della trascendenza. Non è per altro necessario a un metafisico di essere un Hegel o un Platone o uno Spinoza per essere non compreso o frainteso da quegli stessi che sembrano nelle condizioni più favorevoli per intenderlo perfettamente. È una sventura che può accadere anche ai metafisici meno lontani dal senso comune, e che è infatti accaduta ai filosofi stessi della scuola del senso comune. La dottrina fondamentale di Reid, che nella percezione noi abbiamo una conoscenza intuitiva degli oggetti esteriori cioè una conoscenza in cui è presente l'oggetto stesso, e non una sua immagine mentale è stata intesa al rovescio da un altro dei più illustri filosofi della scuola scozzese, cioè da Brown, il quale attribuiva invece a Reid la dottrina ordinaria che nella percezione noi abbiamo della Del resto le ragioni dell’incertezza d'Aristotile sonò abbastanza ovvie. Egli vede da una parte che delle entità come le Idee, platoniche non potrebbero concepirsi che separate dalle cose, e che l'ipotesi deirimmanenza è una impossibilitrà logica e una contraddizione; ma vede anche dall'altra porte gli sforzi, benché vani, di Platone per collocare le Idee nelle cofe, identificandole coi loro attributi. Per risolvere i dubbi di Aristotile sarebbe bisognato un'esame sufficiente sui motivi e lo scopo del sistema delle Idee e le condizioni indispensabili per realizzare questo scopo: ma un tale esame avrebbe supposto un grado di riflessione psicologica, che sarebbe vano di attendersi, anche da un Aristotile, in un'epoca in cui lo spirito òomincia appena a prendere se stesso per oggetto. realtà esteriore una semplice rappresentazione. Vi ha qualche analogia tra il caso di Brown e quello di Aristotile, perchè Brown, oltre d'essere un discepolo della scuola stessa di cui Reid fu il capo era in relazioni personali intime con Stewart, il propagatore delle dottrine di Reid Mill crede che l'interpretazione di Brown sia la vera, e sostiene contro Hamilton che la percezione per Reid non è immediata: ma i luoghi di Reid che egli cita per dimostrare il suo assunto-^v. FU. di Hamilton e, X mostrano solamente che secondo Reid la concezione dell'oggetto esteriore, nella percezione è suggerita dalla sensazione, che è il SEGNO NATURALE della presenza dell'oggetto percepito – potched obble -- Senza dubbio, se chiamando la percezione immediata, si vuel dire ch'essa è un atto dello spirito che non è preceduto e occasionato da un altro, la percezione per Reid non è immediata. Ma la quistione non era se sia o no immediata in questo sensOy ma se per Reid sia immediatamente presente nello spirito che percepisce lo stesso oggetto percepito, o solamente la rappresentazione di quest'oggetto, come ammettono la più parte degli altri filosofi – H. P. GRICE THE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION. £ su questo punto che Hamilton Aveva rimproverato con ragione a Brown di aver fraiuteso Reid. IL PITAGORISMO PLATONICO •d. t Alcune dottrine di Platone, per cui Ik nostra srirg^oìite' unica o principale è negli scritti di Aristotile, sam'.bbei'o inesplicabili al semplice puntò dì Vi^tà defila teoria delle Idee, quantunque mescoUce e fuse con le proposizìoni di quelita teoria; e noi non po«»siamo spie«j^arlo, cbe per un sincretismo dei concetti propri dì Platone con quelli del pitagorismo. Queste dottrine sono assolutamente prive di qualsiagii valore filosofico, ei sarebbe impossibile di assegnare ad esse Porigino da cui derivano generalmente i concetti metafisici, vale a dire di dedurle d»«lle illusioni naturali o sofismi a priori del nostro spirito. Invece o^se appariscono ii risultato di sneculazìoni arbiIr-afie e di sofismi, puramente artificiali; e, sotto questo rapporto, escono dall'argomento di questo scritto, che è dt mostrare, hei sistemi che ci p-esenta la storia della filosofia, lo sviluppo della metafisica naturale dello spirito umano. Tuttavia è per noi indispensabile di occuparci anche di queste dottrine: senza di ciò, la nostra in1;erpretazione del sistema platonico lascerebbe dei punti oscuri, che è necessario di chiarire, perchè potrebbero ritorcersi contro di essa. Premettiamo alcuni cenni sulla filosofia pitagorica. Le dottrine principali e più caratteristiche dei Pitagorici consistano in queste due proposizioni: la prima che le rose sono fatte ad imitazione dei numeri e sono esse stesse numeri; la seconda che tutto consta di due elementi contrari, che sene delle astrazioni riguardate come entità sussistenti per se stesse, cioè il Limite tispag, Tcspatvov o Limitato TisTrspaaiiévov che era idenficato con 1'loipari, e rillimitato ineipov, ehe era identificato col Pari. Sulla dottrina che le cose souo numeri Hegel dice; <f Ammiriamo quest'arditezza a distruggere d’un colpo tutto il mondo sensibil»^, e a considerare il pensiero com^^ l'essenza dell'universo. Per m^, io devo confesf^are che non posso ammirare altra cosa che la grandezza di quelito non senso; in quanto al pensiero essenza deiruniverso, è uno di quei concetti che Hegel presta gratuitamente agli altri filosofi, per fare entrare i loro siatemi nel quadro artificiale, in cui egli presenta la storia della filosofia. Sulle dottrine dei Pitagorici devo ripetere l'osservazione fatta sulle dottrine pitagoreggianti di Platone cioè che io non credo che esse possano essere derivate dai sofismi naturali del nostro spirito. Io non vedo cha un mezzo per comprendere in qualche modo la possibilità di dottrine come quelle della filosofia pitagoiica: è di ammette: e nella formazione di queste dottrine^ rn/ione di un processo simile a quello a cui si attrib»ii^ce la Aristotile Mt't, Aristr.ssene ap. Stob., ecc. Ari>;t. Mei., ecc; PI ut. llar. ecc. i'i) Arist. Met, V té formazione dei miti, ò almeno di lina gran parte di essi, cioè r interpretazione in un senso strettamente realista di proposizioni che all'origine non avevano che un senso figurato. Le dottrine religiose potrebbero fornirci parecchi esempi di credenze che hanno avuto evidentemente quest'origine; e certo le condizioni del miluogo in cui si forma la filosofia pitagorica si prestano facilmente all'azione di un tale processo. Questo, oltre che dal legame tra i discepoli di questa filosofia, che erano i membri della società pitagorica, e il carattere semi-religioso di questa società, e dall'ossequio illimitato, che ne seguiva, all'autorità del fondatore personaggio a metà mitologico, ch« i proseliti riguardavano come un semidio, era favorito anche dalla circostanza che la dottrina non si tramanda che oralmente. Noi possiamo dunque supporre che Pitagora si era limitato ad ammettere l'esistenza di grandi analogie tra le cose i numeri, concetto oscuro e non suscettibile di un significato preciso, ma che non era un non senso cosi evidente come la proposizione che le cose SONO numeri; e che questa proposizione non era per lui che un'espressione iperbolica per denotare d'una maniera energica e concisa queste pretese analogie delle cose coi numeri, non che il concetto più giusto, che le ricerche scientifiche della scuola ci danno il dritto di attribuirgli, della presenza in tutti i fenomeni di rapporti numerici regolari, e dell'importanza di questi rapporti per determinare la FILOLAO DI TARANTO fu il primo che mise in iscritto la dottrina pitagorica un secolo e forse più dopo la fondazione della scuola Zeller natura delle cose. Ma in seguito, per un effetto della tendenza naturale a prendere in uu senso strettamente proprio le proposizioni ricevute da un'autorità in cui si ha una fede cieca, si venne insensibilmente nella scuola a dare alla proposizione il suo significato letterale di un'identità assoluta tra i numeri e le cose; quantunque a lato di questa dottrina, per una di quelle incoerenze, di cui i sistemi tradizionalisti, com'era eminentemente il pitagorico, ci presentano frequenti esempi, coesistesse pure r altra, più conforme al pensiero del fondatore della scuola, che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri. Questa spiegazione deve applicarsi naturalmente, non solo alla formula generale che tutto è numero, ma anche alle proposizioni particolari che fanno l'applicazione di questa formula. P. e. le proposizioni il numero due è l'opinione, il numero quattro è la giustizia, all'origine non significano, come vennero intese in seguito, l'identità assoluta del numejo due con Topinione e del numero quattro con la giustizia, ma volevano dire semplicemente: il numero due rappresenta o simlx>leggia l'opinione, e il numero quattro la giustizia; vale a dire affermano soltanto l'esistenza di un'analogia tra questi numeri e queste cose. Aristotile dà pure per motivo alla dottrina dei Pitagorici 2e analogie ch'essi credeno di vedere tra le cose e i numeri Met, e i rapporti numerici regolari che osservano nei fenomeni Met. Tuttavia egli parla anche di un altro motivo, cioè che i numeri sono i primi di tutti gli esseri, sembrando attribuire questo concetto ai Pitagorici stessi. Ma verisimilmente, cosi facendo, egli presta al pitagorismo genuino un concetto che non appartiene che al pitagorismo di Platone e dei Platonici: infatti, che i numeri siano primi degli esseri, è evidentemente una conseguenza del principio platonico che una cosa, cioè un'entità, è anteriore ad un'altra, quando, soppressa la prima, si sopprime anche la seconda: ora non vi ha alcuna ragione per attribuire questo principio ai Pitagorici. I Pitagorici non dicevano solamente che iuiio e numero^ma ancora I numeri dei Pitagorici sono evidentemente delle astrazioni realzzat'. Tuttavia non lo sono d’una maniera cosi assoluta come p. e. le Idee di Platone o quelle di Hegel. In effetto la preposizione che le cose sono numeri può considerassi a duo punti di vista opposti: in quanto riguarda come cose reali delle semplici astrazioni quali sono i numeri, questa proposizione è una realizzazione dì astrazioni; in quanto non accorda ai numeri un'esistenza distinta da quella delle cose, e non pone per consegueuza altro di reale che le cos^ stesse, cioè gli oggetti concreti, essa non lo ò. In una parola, questi numericose dei Pitagorici sono al tempo stesso astratti e concreti questa contraddiziooe è uno degli aspetti iu cui si manifesta la contraddizione originaria contenuta nel loro concetto: coni», numeri, sono astrati; come cose, sono concreti. Ma là dove il regalismo dei Pitagorici si mostra seuz'alcuna ambiguità, ò nella dottrina dei due elementi. Il Limitato e rillimitato, come osserva più volte Aristotile, non designano delle sostanze p. e. aria, act' che tutto e armonia Arist. Mei.; e in questa proposizione la parola armonia ha un significato musicale, e DESIGN l'ottava Zeller All'origine di questa seconda proposizione può applicarsi la stessa spiegazione che abbiamo proposto per la prima; vale a dire il fondatore della dottrina, dicendo che tutto è armonia, intende solamente alfermare l'esistenza di analogie proionde tra la costituzione delle cose e i rapporti dei suoni musicali; l'identificazione assoluta tra le cose e 1'armonia non avvenne cbe in seguito, per un etf'etto della tendenza segna'làta nel testo, a prendere in un senso strettamente letterale le proposizioni venute da un'autorità ciecamente rispettata. Met, Phys, acqua o fuoco, a cui questi termini vengono attribuiti come predicati SHAGGY, ma sono gli stessi attributi limitato e illimitato che vengono riguardati come sostanze. La stessa osservazione vale per l'Impari e il Pari: questi termini non DESIGNANO i numeri impari e i numeri pari, ma delle entità corrispondenti ai concetti astratti dell'impari e del pari; erano, come il Limitato e V Illimitato, non degli attributi, ma dei soggetti. Per questa sostantificazione di semplici astrazioni, la filosofia dei Pitagorici ha una certa aria di somiglianza con quella di Platone. Vi ha però una differenza essenziale tra il realismo di Platone e quel'o dei Pitagorici. In Platone, come In Spinoza o in Hegel, il realismo deriva dai sofismi a priori dello spirito umano, ed è destinato, con la dialettica che ne è il complemento indispensabile, a dare una soluzione ai problema delle cause .efficienti. Invece nel isisitema pitéigorico come in altri sistemi che si sono formati in condizioni analogh<e, vale a dire che sono 1'opera, non del lilkero esame individuale, ma della tradizione e di un dommatismo cieco, per esempio nella filosofia degP Indiani o nella scolastica il realismo è senz'alcuna utilità per la spiegaeione dei fenomeni; e la migliore ipotesi 0he si possa fare per rendersene conto è, io credo, di^rioorrere a un processo simile a quello a cui abbiamo attribuito la dottrina che le cose sono numeri, cioè di ammettere che la realizzazione delle astrazioni ^iw/a^o, 27' limitato^ impari^ pari sia stata lettetto di malintesi sul significato di formule antiche, ricevute con, uik^. spirito ciecamente autoritario, e, come avviene in tal caso, intese d'una maniera troppo rigidamente letterale. ? -j 1 1 . i. o>; ^ ij: L -. ÀiTa dottrhnr dei àné eleménti era legata quella deHe dieci opposizioni, che però non era ammessa che da una parte delia scuola. Queste opposizioni erano: il limite 0 limitalo e Tillimitato, Timpari e il pari, Tuno e il multipk, il destro e il sinistro, il mascolino e il femminino, il riposo e il movimento, il retto e il curvo, la luce e Toscurità, il bene e il male, il quadrato e il rettangolo. Queste d'eci coppie di opposti erano riguardate dai Pitagorici come t principii degli esseri. Aristotile osserva eh'essi non determinavano chiaramente a quale delle quattro cause materia, forma, causa efficiente, causa finale questi principii dovessero ricondursi: ma risuk» dai frammenti di Filolao che li riguardavano come elementi costitutivi del reale. Evidentemente, il concetto racchiuso nella tavola dt^lle dieci opposizioni è la coesistenza da per tutto di cose o di determinazioni contrarie: ma questo concetto è rivestito d'una forma assolutamente arbitraria Perchè fra tutte le opposizioni delle cose si scelgono queste dieci –il decalogo di Grice --, e si elevano al grado di principii ed eUementi degli esseri? Forse questa dottrina è anch'essa, come la più parte delle altre proposizioni metafisiche dei Pitagorici, Talterazione d'una dottrina primitiva più ragionevole, e nel pensiero del primo autore della proposizione, ch« è poi divenuta la dottrina delle dieci opposizioni quale noi la conosciamo, queste oppos'zioni determinate non erano che degli esempi particolari del principio generalo della coesistenza universale degli opposti. In ciascuna delii) dieci opposiaioni, l'uno dei membri era ricondotto al Limitato e Taltro airilliniitato. Speiso, in effetto, l'uno dei due concetti opposti 1'uno, il bene, il riposo, il retto, il quadrato rappresenta qualche cosa di definito, l'oggetto corrispondente al concetto non potendo essere che in un sol modr; e l'altro il multiplo, il male, il movimento, il curvo, il lettangolo qualche cosa d'indefinito, l'oggetto corrispondente al concetto potendo essere in un'infinità di modi. Questa riflessione però non potrebbe applicarsi a tutte le opposizioni masc fem dies sini lux obscuritas; e nella riduzione di queste alla opposiz one fondamentale del Limitato e deirillimitato, i Pitagorici sono inoltre guidati dal concetto che il perfetto deve mettersi dalla parte del Limitato 0 Finito, e l'imperfetto dalla parte dell'Illimitato per r analogia che vi ha tra V idea di perfetto e quella di Met. Mai. Ap. Stob, Arirft. Eth, Nk. il male è, secondo i Pitagorici, deirillimitato, il bene del limitato. Kth. Nic. e Met. in cui l'una delle due serie degli opposti, quella in cui è compreso l'uno, l'impari, il retto, è chiamata la serie dei beni e la serie del bello; Eudemo ap. Simpl. Ph^/s, i Pitagorici e Platone portano nel movimento i' infinito^; Aless. Afrod. in Met., Plutarco Quaest. rom., ecc. per i Pitagorici l'impari è mascolino, il pari femminino; Eudoro ap. Simj)!. I*/iys a i Pitagorici chiamano l'uno dei due elementi impari, mascolino, destro, luce, l'altro pari, femminino, sinistro, oscurità; eco. Filolao nei Fr. ap. Stob. parla, come di elementi costitutivi delle cose, di /imt/afi cioè, propriamente l imita nti.^TlBp OLÌ vovia ed ilUìììitatif al plurale: è ciò che egli non farebbe, se oltre al Limitato e all'Illimitato unico non ammette molte forme di lindtato e d'illimitato. Aristotile (Kth. Nie, dice: si può essere cattivi in mille forme, ma non si può essere buoni che in un sol modo; e appoggia questa proi>osizione sull'autorità dei Pitagorici, che ponevano il bone nella classe del finito e il male in quella dell'infinito. . r ' finito. Infatti la nerie del Limitato è chiamata la serie ouoToix^a del bene e d< 1 btllo. Un'altra proposiz'one iir portante dei Pitagorici, sia per il loro stesso sistema, hia per l'intelligenza dei rapporti di esso con quello di Plhtui«e, è che i numeri vengono dall'Uno. Questa preposizione è troppo naturale, perchè occorrano delle spiegazioni: solo bisogna avvertire che Aristotile applica all'Uno la stessa osservazione ch'egli fa sul Limitato e T Illimitato, vale a dire che rUno non significa per i Pitagorici una sostanza che ha per attributo l'unità^ ma è lo stesso attributo unità q\ìq è riguardato da essi come una sostanza. Questa sostantificazione dell'uno è ur a conseguenza naturale della sostantifìcazif ne dei nurreri: ma nel!'uno il carattere di astrazione realizzata appurisce piùnetto che nei numeri. In questi è alquanto incerto, perchè essi vengono id< nt'ficati con le cose stesse: ma V uno, come prinrip'o ed elemento dei numeri, non può identificarsi con ah una cosa part'colare. Arist. Eth, yic. Eth, Nic. lArist. Mi't. Mot, I Pitagori, è vero, assegnano l'ano all'intelligenza, air anima, ecc.: ma il concetto dell'ano ha per loro evidentemente pii estensione che le cose particolari ch'essi riconducono a questo numero, e non è in quanto principio ed elemento dei numeri ohe l'uno viene identificato con queste cose. Come nota giustamente Zeller, un concetto generalo, nella filosofia dei Pitagorici, riceve in un caso particolare una determinazione speciale, senza ohe perciò questa determinazione appartenga al concetto generale essenzialmente o in tutti i oasi. Questa realizzazione di astrazioni è il punto di contatto più notevole tra il sistema dei Pitagorici e quello di Platone. Ma si deve anche notare un'altra analogia. I principii degli altri filosofi anteriori a Platone sono gli elem« nti materiali di cui le cose sono fatte Pacqua, l'aria, il fuoco, i quattro eh menti di Empedocle di GIRGENTI, gli atomi di Democrito, ecc. o le forze motrici generali della natura il Nous d'Anassagora, TAmore e 1' Odio di Emfedocle di GIRGENTI, ecc: questa o.«servazione si applica anche agli VELINI DI VELIA, perchè l'Uno o Essere di questi filosofi non è che la materia universale delle cose, con questa differenza che le formo diverse, rivestite da questa mat<»ria, sono dichiarate delle semplici apparenze. I principii di Platone invece sono le essenze delle cose, i loro concetti generici e specifici cioè gli oggetti corrispondenti a questi concetti. Ora i numeri pitagorici corrispondono anch'essi ai concetti generali delle cose, e rappresentano le loro essenze. I Pitagorici dicono: la giustizia è il numero quattro, il matrimonio è il numero cinque, Topportunità é il numero sette, V opinione è il numero due, ecc; un tal numero è quello dell'uomo, un tal altro quello del cavallo, ecc. Aristotile, è vero, liconduce i numeri dei Pitagorici tanto al principio essenziale quanto al principio materiale: ma ciò vuol dire semplicemente che, a differenza dei numeri ideali di Platone, che rappresentano le sole forme delle Arist. Met., e Aless. Afrod. in Met. Arist Met., Teofrasto Mei Met, Met, cose, i numeri pitagorici rappresentano le cose stesse, in entrambe le parli che cr stitu'scono il loro concetto, cioè, per esprimerci nella lingua di Platone e d'Aristotile, il composto SINODO della forma e della maleria. L'ultima forma della filosofìa platonica risulta da una fusione dei concetti propri del sistema delle Idee coi concetti fondamentali del pitagorismo, di cui abbiamo parlato. Le dottrine per cui questa seconda forma del sistema differisce dalla prima, sono conosciute col nome di «Ypa^a SÓYfiaxa dottrine non scritte, perchè, quantunque alcune si trovino già nel Timeo, nel loro insieme non sono state esposte da Platone che oralmente, nelle sue conf^rf nze sul Bene. Queste dottrine si riducono ai punti seguenti: Le Idee, e per conseguenza le cose, sono numeri. Le Idee e le cose constano di due elementi, corrispondenti al Limite e Illimitato dei Pitagorici. Le Idee rappresentano la sola forma delle cose. Cosi. per costituire U c(se, concorre con le Idee un altro fattore, la materia: questa è identica allo spazio. Le entità matematiche, ci^ò i numeri che sono Too-getto delTaritmetica e le grandezze geometriche, quantunque s^ano, come le Idee, drgli universali realizzati, 81 distinguono nondimeno dalle Idee propriamente dette, e costituiscono un terzo genere di esseri, differenti al tempo stesso dalle Idee e dalle cose, e intermediari fra le une e le altre. Noi esamineremo successvamcnte queste quattro dottrine. I niitnrri ideali La proposiziono che le Lire, e quindi le cose, sono numeri non ha alcun legame nntu-ale col sistema delle Idee es^a non p tnbbe dcdursi né dalla realizz«izione degli universali né dalla dialetcica, i due punti a cui il sistema ^i riduce; ed ò d'altronde evidente che Platone non sarebbe arrivato a questa dottrina senza l'influeaza della filosofia pitagorica. La teoria delle Idee numeri ci apparisce dunque chiaramente come il risultato di un sincretismo tra la teoria propriamente platonica delle Idee e quella pitagorica dei numeri. Ciò è confermato dalla testimonianza d'Aristotile. Questi comincia V esposizione doli i filosofìa platonica, osservando che in molte cose Platone ni un seguace dei Pitagorici, ma ne ebbo anche alcune che gli furono proprie; e poi, facendo la dis-inzione tra ciò che è proprio a Platone e ciò ch'egli deve ai Pitagorici, la parte che gli attribuisce come propria nella dottrina dei numeri è l'aver posto questi al di là delle cose Trapàxà ataeyjxa, mentre i numeri pitagorici erano le cose stesse. Questa differenza significa che per i Pitagorici i numeri s'identificano immediatamente con le cose particolari, per Platone invece sono delle entità universali, che non s'identificano immediatamente che con le Idee, e con le cose solo mediatamente, in quanto l'essenza dì queste consiste nelle Idee. Aristotile ci attesta inoltre ch3 nella forma primitiva del sistema platonico la dottrina delle Idee non era legata a quella dei numeri, e che la identificazione delle V. per questa dottrina Arist. Mei. «ce. Met. Idee coi numeri avvenne in un perfodo posteriore. Ciò risulta anche, indipendentemente dalla tfstimrnianza di Aristotile, dair esame delle Fcritlure platonkhe. Se hi eccettui 1'Epinomide che del resto è di un'autenticità incerta e il Timeo, nel quale la costiuzione dei corpi per le superficie suppone certamente la dottrina che il reale consiste rei nume/i, non vi ha negli scritti platonici alcuna traccia di questa de ttrina. Vi hanno anzi dei luoghi, in vari dialoghi, che escludono l'identità tra le Idee e i numeri. In tutti i casi in cui è quistione di numeri come entità tranne néW Epinomide, come nella Repuhlica, nel Fedone, nel FlUhy, nel Parmenide, Platone non intende per essi che le determinazioni particolari che costituiscono l'oggetto dell'aritmetica, e non la sostanza stessa delle cose, com'egli farebbe se ammettesse già la teoria delle Idee numeri. Aggiungiamo che in parecchi dei luoghi indicati b. attribuita ai numeri la comhinabilUà, cioè si fanno constare tutti da unità della stessa natura, mentre, conio diremo in seguito, il carattere dei numeri Idee vale a dire dei numeri con cui tutte le Idee sono identificateè V incombinabilità, cioè la composizione di ciascun numero da unità che non sono della stessa natura che quelle di un altro. Né potrebbe dirsi che i numeri di cui è quistione in questi luoghi sono quelli che nell'esposizione aristotelica vengono distinti dai numeri Idee col nome di numeri matematici, e dati come intermediari fra essi e i sensìbili; e che l'autore, oltre questi numeri, potrebbe anche ammftt^re un altro genere di numeri gì'ideali, rappresentanti, non H semplici de terminazioni aritmetiche, ma l'essenzi stns^a delle cos^: è evidente infatti che egli lìon conosce altri numeriche quelli di cui parla. Ciò rinulta anzitutto da l'impiago in tutti questi luoghi del nome numero e di q lelli che DESIGNANO i diversi numeri, come esprimenti, il primo la specie in generale, i secon li la specie riguardata come entità individuale alla maniera di Platone. Se l'autore ammette già due numeri, l'ideale e il matematico, l'espressiono generica il numero non potrebbe significare per lui il solo numero matematico; impiegata per DENOTARE una sola delle due specie del numero, essa DESIGNEREBBE piuttosto l'ideale, perchè i numeri ideali erano riguardati come r essenza tanto dei numeri matematici quanto dei sensibili, e il nome secondo Platone é proprio dell'essenza: similmente l'Unità, la Diade o la Triade non potrebbero significare che l'Unità, la Diade e la Triade ideali, tanto per la stessa ragione, quanto perchè dei numeri matematici dopo la loro distinzione dagli ideali ve ne erano molti della stessa specie si ammettevano molte unità, diadi, triadi, ecc. matematiche. Di più: nei luoghi del Fedone i numeri di cui vi si parla sono chiamati Idee, e posti alio stesso rango delle altre Idee mentre s^ l'autore ammette inoltre i numeri ideali, ai numeri matematici, cioè rappresentanti le semplici determinazioni aritmetiche degli esseri, non ASSEGNEREBBE che la qualità d'intermediari tra le Idee e lecose. In quello della Repubblica questi stessi numeri che rappresentano 1 soli attributi aritmetici sono chiamati l'essenza oOoia e la natura cpóai; dei numeri; ricevono, Mei, Supplem. FiUbo Rep, Parm, VELIA per determinare di quali numeri si tratta, V attributo aùxó;, che, come sappiamo, si^mifica l'Idea, e che Aristotile, nelle sue allusioni «Ile dottrine platoniche, impiega per indicare che il nome a cui si riferisce DENOTA, non le cose né le entità intermediarie, ma la loro Idea; -e vengono opposti ai numeri sensibili in un modo che esclude la possibilità di una terza specie di numeri In quello del Filebo infine si distinguono dne sole scienze sui numeri, quella del volgare, che addiziona unità di natura differente, e quella del filosofo, che non ammetto che unità tutte della stessa natura il numero matematico; non vi ha luogo per una terza scienza, che ammette, come quella del volgare, unità che non sono della stessa natura, ma senza addizionarle il numero ideale. Aristotile fa menzione di cinque caratteri che distinguono i numeri ideali, sia dai numeri matematici sia dai numeri dei Pitagorici: I numeri di Platone sono xwptaioi dalle cose, mentre i numeri dei Pitagorici sono le cos« stesse. I numeri di Platone sono monadici, vale a diro costituiti di vere naità, semplcì e incorporea, meatrc i numeri dei Pitagorici hanno grandezza. Dei numeri matematici ve ne hanno m)lti d.jlla stesm specie (vi hanno molte uiità, diadi, triad-', ecc. matematiche), ma dei numeri ideali ciascuno è uno solo Af^i, , ecc. i numeri stessi, non i numeri aventi corpi visibili e palpabili NUMERIC QUANTIFIER THE THREE GRICES; quei numeri ch« possono pensarsi, ma non mai toccarsi altrimenti. Pàys,, Mei. Mei. <vi ha una sola unità, diade, triade, ecc. ideale. I numeri matematici sono combinabili, cioè composti di unità omogenee, e quindi capaci di addizionarsi fra di loro, ma i numeri ideali sono incombinabili, cioè le unità che compongono uno dì questi numeri non sono omogenee con quelle che ne compongono un altro, e non possono, per conseguenza, addizionarsi con esse. I numeri ideali hanno fra di loro anteriorità e posteriorità, i numeri matematici no. Di questi caratteri il P non ha bisogno di ulteriori spiegazioni: esso vuol dire semplicemente che 1 numeri di Platone sono degli universali realizzati, al contrario di quelli dei I^itagoricì, che sono le cose stesse particolari. Il 2<^ ò legato alla dottrina che le Idee rappresentano la sola forma delle cose senza la materia, e il 3"' e il 4<^ a quella che le entità matematiche si distinguono dalle Idee e sono intermediarie tra di esse e le co3e: per conseguenza noi potrem-) occupircei3 che quando parleremo di queste due dottrine. Per ora ci occuperemo solamente del 5®, cioè à}\V anteriorità e p Miriorità dei numeri ideali. Quest'anteriorità e posteriorità consiste in ciò, che i numeri ideali si generano progressivamente gli uni dagli altri. Per fare questa generazione, Platone riguarda Mei., ecc. Mei. Mei. 1^'anterioritÀ e posteriorità non è propria esclusivamente dei numeri ideali che nel senso che spieghiamo in seguito, e che è quello ordinario e tecnico che (jaesti t<irmini hanno nella filosofia platonica. L'aateriorità o posteriorità di cui in Mei., Eth, Nic. ei Edi. Eud, è tutt'altracosu Sappi; e in quest'altro senso essa conviene certatnante anche ai numeri matematici. ciascuQ numero come una combinazione particolare delrUno e della Dualità indefinita è con questi nomi che vengono DESIGNATI i due elementi delle Idee e delle cose, al punto di vista della dottrina dei numeri Il numero Due nasce dalla moltiplicazione dell'Uno per la Dualità indefinita, e il numero Tre dall'aggiunzioGe dell'Uno al prodotto dell'Uno per la Dualità indefinita; il numero Quattro dalla moltiplicazione del Due per la Dualità indefinita, e il numero Cinque dall'aggiunzione dell'Uno al prodotto del Due per la Dualità indefinita; e co^l di seguito, sempre con questa regola: che il numero pari nasce dal numero equivalente alla sua metà moltiplicato por la Dualità indefinita, e il numero impari dall'aggiunzione dell'Uno al prodotto del numero, equivalente alla metà del numero pari immediatamente inferiore, per la Dualità indefinita. Ogni numero dunque cioè, se il numero ideale è finito, ogni numero, tranne quelli che sono generati gli ultimi ne produce altri due: uno pari, che nasce dal suo raddoppiamento, e uno dispari, che nasce dal suo raddoppiamento e dall'aggiunzione dell'unità. Il numero che produce è detto anteriore, e i numeri che sono prodotti, posteriori. Nella formazione dei numeri posteriori dal numero anteriore, concorrono con esso l'Uno e la Dualità indefinita: ma questi non Sono qualche cosa di esteriore che viene ad aggimngérsi a questo numero, ma Fono gli elementi stessi di questo numero, sicché in realtà i numeri posteriori non vengono prodotti che dal numero anteriore. La Dualità indefinita è chiamata bisectiva, perche si suppone che, nella formazione dei numeri, essa raddoppia le unità del numero anteriore, dividendo in due ciascuna dì queste unità: ciò è per mostrare che le unità che costituiscono i numeri posteriori non vengono d'altronde che dal numero anteriore. Per rendere conto dell'unità soverchia dei numeri dispari si dice che in questi numeri V unità media è lo stesso Uno in sé. Qual è era il significato di questa generazione successiva dei numeri ideali? Noi sappiamo che 1'anteriorità e posteriorità delle Idee; è il movimento dialettico per cui le conseguenze si sviluppano dai principi!, cioè il rapporto tra il principio e la conseguenza essendo identificato a quella tra la causa e 1'eifetto gli effetti dalle cause; e che l'idea anteriore è il Genere, e le Idee posteriori le Specie m cui esso si divide. Ora l'anteriorità e posteriorità dei numeri non può essere altra cosa che r anteriorità e posteriorità delle Idee corrispondenti a questi numeri. I rapporti di filiazione tra i numeri Vedi per questa formazione dei numeri ideali Ari^^t, Afet., eoo. Platone non riguarda un numero impari corno posteriore al numero pari immadiat amente inferiore, ma considera i due numeri oome nati simultaneamente dal numero equivalente alla metà del pari; p. e. il Due e il Tre nascono simultaneamente dall'Uno, il Quattro e il Cinque dal Due, eoo. Cosi tanto le unità ohe oompongono il Due quanto quelle che compongono il Tre vengono riguardate oome immediatamente consecutive all'Uno in sé Het. al contrario di quelle ohe compongono gli altri numeri, le quali non gli succedono che mediatamente e Aristotile rimprovera a Platone di far produrre a un numero, da una stessa materia cioè dalla Dualità indefinita, più numeri, facendolo generare una volta sola, mentre in tutti gli oggetti che si producono, la materia dell'uno non può mai essere la stessa che quella di un altro, e chi introduce nella materia 1' bIòoq deve agire tante volte quanti sono gli oggetti prodotti Met.. Alex. Aphrod. ad Arist, Mat. Arist. Met, rappresentano dunque i rapporti di filiazione tra le Idee secondo il loro nesso dialettico. Questa corrispondenza tra la formazione progressiva dei numeri e lo sviluppo dialettico delle Idee si vedrà subito, gettando uno sguardo sulla tavola seguente, che noi possiamo chiamare l'albero genealogico dei numeri. La serie naturale dei numeri, coììì disposti secondo i loro rapporti di filiazione, rappresenta 1'ordine con cui le Idee corrispondenti si seguirebbero, se si fajcrse una divisione completa, procedendo dal Genere supremo VEnsere o il Bene alle Specie infime per tutti i Generi intermediari. La produzioie dei numeri inferiori dal numero superiore rappresenta la produzione delle Idee particolari dairidea generale: il numero anteriore ha sotto di se due numeri posteriori, perchè la divisione platonica è una dicotomia. Non bisogna credere però che Platone, oell'assegnaro i numeri aUeldee, si tenga scrupolosamente ai concetti su cui ò fondata la dottrina deUa generazione progressiva dai numeri. Egli fa talvolta rappresentare a dei numeri che sono fra di loro ne7 rapporto di anteriorità e posteriorità, delle Idee che non sono fra di loro nel rapporto di genere e specie. Cosi egli assegna all'intelligenza Il numero uno, alla scienza il num3ro due, all'opinione il numero tre e alla sensazione il numero quattro Arist. De an. Met. Ps. Alex, tu Met. Naturalmente ciascuno di questi numeri riceve diversi impieghi e in effetti noi In questa formazione dei numeri è accolto il concetto pitagorico che i numeri procedono dalTuno. Come osserva Aristotile, l'altro elemento V Infinito dei Pitagolici tu ricondotto a una dualità, per rendere possibile questa generazione progressiva dei numeri, senza di cui la fusione tra il sistema dei numeri e il sistema delle Idee non sarebbe stata completa, poiché la dialettica, altrettanto importante per questo sistema che la realizzazione degli universali, non sarebbe stata rappresentata. Fece Platone dell'altra natura una diade, affinchè i numeri, dai primi in fuori, se ne generassero, come da sappiamo che il due è anche il numero della linea, il tre della superficie, il quattro del solido 7V an. e 3fet. 1. c.-e, secondo Xenocrate, l'uno della linea indivisibile v. n.V. L'uno rappresenta anchel' Idea più universale, cioè l'Essere o il Bene, che è (luellaehe gli compete conformemente alla regola che la filiazione dei numeri corrisponde al nesso dialettico delle Idee; e cosi il due, il tre e il quattro devono anche rappresentare delle Idee subordinate a quelle rappresentate dai numeri anteriori e superordinate a quelle rappresentate dai numeri posteriori. Neil'applicazione della dottrina dei numeri, Platone non può evitare lo stesso inconveniente che era accaduto ai Pitagorici Ari6l. MH, cioè di assegnare a uno stesso numero dei concetti affatto differenti: e in eftetto, per quanto quest'attribuzione di un dato numero a un dato concetto fosse arbitraria, essa dove essere pure fondata su <iualche analogia, e accade facilmente che in concetti differenti si trova un'analogia con uno stesso numero. Questa pluralità di significati data a uno stesso numero, oltre alla identificazione di coso differenti, porta necessariamente nel sistema [datonico l'altra inconseguenza che la filiazione dei numeri non corrispondeva esattamente alla filiazione delle Idee: per l'esattezza di questa corrispondenza, sarebbe stato necessario che ciascun numero rappresentasse una sola Idea, quella che nell'albero genealogico delle Idee occupa lo stesso posto che il numero nell'albero genealogico dei numeri.un'effigie, comodamente. Per i numeri primi di cui parla qui Aristotile, bisogna intendere, conformemente airinterpret^zione d'Alessandro d'Afrodisia,! numeri dispari;>Wwe vuol dire: primi con due; e il senso dello parale dai primi in fuori è che i numeri dispari non si generano, per mezzo della Dualità indefinita, così comodomente come i numeri pari. I due elementi ^ono chiamati il Fine Tiépag e V Infilato àTisipov come quelli dei Pitagorici, e identificati, come questi, coi Dispari e il Pari. Per questa rome (cr altre circostanze di cui diremo in seguito, la dottiina platonica mostra un rapporto evidente di paleutela con quella d<i Pitagorici: ma essa presenta pure delle differenze eFsenzialt corrispondenti al punto di vista proprio del sistema delle Idee. Anzitutto i due elementi di Platone sono dei predicati generali comuni a tutti gli esseri: in effetto essi si trovano presenti in tutti gli esseri, e secondo il sistema delle Idee la presenza di una entità in molte cos'^ è la partecipazione in comune di queste cose all'attributo corrispondente all'entità. A que(j) Arkt. Met. Mct. Arisi. Met, il comm. di Aless. Afrod, Phys. Simpl. aMAris^P;<i/s.fol. in,Aristoss. Harmonic, eìam, l. II. sul princ, eoo. Noi sappiamo almeno che quest'identificazione era fatta da Senocrate. Stob. Fxl. P/sys, e Arist. Mctaph. per il riforimonto del secondo di questi due luoghi a Senocrate ciò che diremo di lai al num. sta particolarità, che ha la sua ragione nella dottrina dc'le Idee, se ne può aggiungere un'altra, che ha la sua ragione nella dialettica, ed è che, ch^'airando le due entità elementi, Platone non vuol dire solamente che sono gli elementi costitutivi di tutti gli esseri, ma ancora, per quest'identificazione costante del logico e dell'ontologico su cui è fondata la sua metafisica, che sono gli elementi costitutivi della conoscenza di tutti gli cs^'eri, vale a dire i principii da cui questa conoscenza si deduce. Ma la particolarità più caratteristica della dottrina di Platone è che i due elementi sono riguardati, l'uno come la forma o la specie (slSog) di tutte le Idee e di tutte le cose, e l'altro come la loro materia oxotxsta. Come osservammo altra volta, il concetto di materia ha in Platone due applicazioni essenzialmente differenti: da una parte le Idee sono le forme delle cose, e per costituire le cosp, si aggiunge a queste forme una materia lo spazio; dall'altra parte queste forme che sono Id Idre vengono da due elementi, una /orma e una materia. Cosi quest'ultima materia che si trova nelle Idee si trova naturalmente anche nelle cose, perchè le Idee non sono che nelle cose; ma la prima, cioè lo spazio, è fuori delle Idee, ed è propria solamente delle cose. L'una di queste materie è evidentemente distinta dall'altra: tuttavia, per una di quelle incongruenze di cui è piena questa dottrina dei due elementi, Platone non parla di due matere, ma di una sola l'Infinito, il Grande e Piccolo, Mi't, Met., in cui si trovji la siùt^gaziono di quest'uso della parola olomenti. Supplem. Supplem. il Non essere, ecc. significaDo tanto la materia comnuo alle Idee e alle cose quanto la materia proprie delle cose riconducendo, sf condo il metodo incoerente dei Pitagorici, a uca stfssa entità dei concetti assolutamente distinti. L'elemento formale non è altra cosa che V Idea del Bene. Cosi la modificazione, che la dottrina dei due elementi apporta nella forma primitiva del sistema, consista? nell'introduzirne di questa nuova entità, che con un temine che, per quanto concerne il rapporto dì quest'entità con le Idee, non potrebbe intendersi che in un significato analogico, è chiamata materia, perchè Platone riguarda ancora l'Idea del bene come il genere supremo di cui tutte le altre Idee sono le specie, e per conseguenza dei due elementi non considera come slSog che quello corrispondente a quest'Idea, e si rappresenta la relazione di quest'elemcDlo con l'altro come analoga a qriella della forma con la materia. Platone dà ai due elementi diversi nomi, corrispondenti ai diversi punti di vista della dottrina. L'elemento formale, oltre che il Tiépa^ e il Bene, è chiamato anche l'Essere, perchè è l'Idea generale di tutti gli esseri – a cabbage IZZES a good cabbage – it hazzes GOOD, e, al punto di vista deila teoria dei numeri, l'Uno 3;, perchè è i! principio da cui derivano le Idee-numeri, e i numeri, secondo i Pitagorici, derivano dall'utio. Per giustificare la riduzione dell'elemento formale all'Uno, si dice che ciascuna cosa, in quanto è, è una la d'ssoluzione in molti ne è la morte, e la sua fralvezza consiste nella persistenza in una stessa Supplom. Arisi. Mei., occ. Mct, . forma, e perciò l'Uno è causa alle cose deiresseree dell'esser bene. Di quest'identificazioue dell'Idea suprema con rUno ha potuto anche darsi un'altra ragione, cioè che quest'Idea è l'uno tatto, vale a dire è il punto di partenza dell'evoluzione dell'essere, in cui il tutto esiste come uno. L'Ono è riguardato come elemento dei numeri a un doppio punto di vista, cioè tanto perchè ciascun numero è un tutto unico ciò che è conforme alla funzione di elfio^ che viene assegnata all'Uno, quanto perchè i numeri sono composti di unità ciò chb dà occasione al rimprovero d'Aristotile che l'Uno funge anche da materia. L'Infinito, al punto di vista della dottrina dei numeri, è chiamato la Dualità indefinita 8uag àóptoxoc, per rendere possibile la formazione progressiva dei numeri di cui abbiamo parlato; e il Grande e Piccolo, per mostrare che esso è una dualità, e stabilire cosi un passaggio dal concetto d'infinito a quello di dualità indefinita. Per giustificare questa riduzione dell'Infinito al Grande e Piccolo, si dice che l'infinito si trova tanto nella grandezza quanto nella piccolezza, perchè la quantità proci) Alex. Aphr. ad Mei. MeU Arist. Met, Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys, Arist. Met. Al. Aphr. ad Mei., Simpl. ai Phys., ecc. La riduzione delllllimitato alla Dualità indefinita sì deduce per altro naturalmente dalla sua identità, nella dottrina pitagorica, col Pari, n Pari infatti, come concetto generale, è in certo modo una dualità indeterminata; vale a dire una dualità alle cui unità non si attribuisce un valore determinato, potendo essere dei numeri qualunque. Arist. Met. cede airinfinito tanto nelT aumento quanto nella diminuzione. Naturalmente il Grande e Piccolo non possono essere considerati come elemento se non in quanto 8i riguardano come predicati attribuiti a tutti gli esperi: tuttavia, quantunque la grandezza e la piccolezza che si attribuiscono alle cose particolari s^ano necessariamente una grandezza e una piccolezza finite, Platone riguarda il grande e il piccolo in sé stessi come infiniti, perchè non vi ha alcun limite ne nei gradi della grandezza GRICE I LOVE YOU TO THE MOON AND BACK -- né in quelli della piccolezza. Per indicare il Grande e Piccolo nella sua funzione speciale di elemento dei numeri poiché il Grande e Piccolo é una decominazione generica che DESIGNA tanto V demento materiale dei numeri quanto quello delle grandezze 8'impìega la denominazione più particolare di Molto e Poco. Sul Molto e Poco vale naturalmente la stessa osservazione?he abbiamo fatta sul Grande e Piccolo; vale a dire essi non sono che dei predicati generali dei numeri, ma quantunque il molto e il poco che sodo nei numeri siano necessariamente finiti, pure Platone riguarda il molto e il poco in se stessi come infini imperché tanto l'uno quanto Taltro progrediscono airinfinito. Per indicare che ai tratta, non di due entità, ma di una sola, il Grande e Piccolo è chiamato l'Ineguale: infatti l'ineguagliarza consiste nel più e nel meno, e il grande e il piccolo sono delle nozioni comparative, una cosa dicendosi grande o piccola in quanto é maggiore o minore di un'altra. Arist. Phys., Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phys. Arist. Mei. Alex. Aphr. ad MeU Arist. MeU Alex. Aphr. art MeL, ecc. Uno dei punti fondamentali della dottrina è che i due elementi sono contrari, e Telemenlo materiale rappresenta al tempo stesso la materia e la steresi GRICE NEGATION AND PRIVATION cioè la privazione dell'slSog. Per indicare la seconda funzione, quest'elemento è chiamato il Non essere; e in generale a un nome impiegato per DESIGNARE T uno degli elementi corriponde il suo contrario come DESIGNAZIONE dell'altro elemento. Cosi, T elemento mat'^riale essendo chiamato T Ineguale, T elemento formale riceve il nome di Eguale. Secondo questo principio, all'uno, nome dell'elemento formale, dovrebbe corrispondere, come nome dell'elemento materiale, il multiplo, tuttavia Platone oppone all'Uno il Grande e Piccolo e non il Multiplo, ma considera il Grande e Piccolo come equivalente al Multiplo. In effetto il Grande e Piccolo, come elemento dei numeri, cioè delle Idee, è il Molto e Poco; e il Molto e Poco non è che V espressione del concetto della moltiplicità sotto una forma che Met,, ecc. Arist. Phys,, Met. Met,, Phys,, Phys., ecc. Arist. Met,, Alex. Aphr. ad Met,, ecc. Arist. Met,: i platonici oppongono all'uno T ineguale, riguardando questo come la natura della moltiplicità – H. P. GRICE .ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. L’equivalenza 'tra il Grande e Piccolo e il Multiplo risulta anche dalla dottrina che la Dualità indefinita è la causa della moltiplicità degli esseri Arist. Met, perchè secondo il sistema delle Idee la causa di un attributo delle cose è la partecipazione all'entità corrispondente a quest'attributo, e dalla proposizione che il numero partecipa all'Uno in quanto è alcun che di unico, e alla Dualità indefinita in quanto è una moltitudine Alex. Aphr. ap. Simpl. ad Phyz, -=r4.r I / fi il Diverso n lo n Tf '«<'t''e indica più volte Ln/ Diversità come denominazione dell'elemento materiale. Evidentememe l'elemento formale è ricondotto al concetto dello stesso, perchè i^ bone^olsl tat;trmr" P«'"dell'^sseTn 'o a„u ., P'uraiita di mozzi verso uno st«sso l'isaltato come si vede neffli esseri nro.««{, l IVo^mnU ;,\ organizzati che sono sultare d/ 'T «nitalità. Sembra anche rimate ia fé e«h che l'elemento opTottV^^rc;'.teresTin,.""a e di P^n bulorn ""lei lati aner»H dello Stesso e del Diverso o di runl dt '"P P comprendere come uno degli opposti sia riguardato come la materia e ra' r^J^TÌÌ "dovi unità «.nza moltiphcità né identità senza diversità noi Ile dirp il ,./v7 1 u'versita, noi possiamo dando la moltiplicità e Ja diversità come il so^i^^etto del1 umtà e deindentità. Ma come il Non essere or ll fere e 1?.^!' -™ '-teria. di cui l'Esessere, 1’Ineguale dcvcaov, ecc. deve significare per Pia Phys., M^i^,. Ap. Sinipl. ad Arùt. Phys. tone, non il contrario dell'Essere, delFEguale, ecc., ma ciò che non è V Essere né partecipa, considerato in se stesso, air Essere, ciò che non è V Eguale né partecipa, in se stesso, air Eguale, ecc. In altri termini, Fc dallo cose si sopprime per il pensiero rid-a deir essere, deiregu«le, ecc., ciò che resta, considerato nel suo concetto generale, si chiama Non essere, Ineguale, ecc., e si riguarda comft il sustrato a cui Tldea delTe^sere, deiregualo, ecc. inerisce come una forma. CIÒ non esclude però che il Non essere significhi anche, a un altro punto di vista, il contrario dell'Essere, Tlneguale il contrario deirp:guale, ecc: in eflVjtto Telemento materiale non funge solamente da materia, ma anche da stcresi. Il rapporto di contrarietà stabilito tra i due elementi spiega perché, nel periodo pitagoreggìante, Platone preferisca, per DESIGNARE Tldea supn ma, la denominazione di uno 0 essere a quella di bene: è che, chiamando l'elemento formale il Bene, T elemento materiale dovrebbe essere chiamato il Male; ma il Male non potrebbe afiPatto riguardarsi come la materia degli e-seri. L'incompatibilità delle due funzioni ass^^gnate all'elemento materiale c'indica chiaramente che la dottrina dei Questa supposizione é confermata dall'argomento con cui Platon^ prova l'esistenza del Non essere, cioè che se non esiste il Non essere, tutti gli esseri si ridurrebbero a un solo, l'Essere Met. Infatti il senso di quest'argomento e che, se negli esseri non vi fossero, insieme all'attributo essere, delle detenninaxioni distinte da quest'attributo, non esistere che V attributo essere; sicché la moltiplicità degli esseri e resa possibile dall'esistenpa nelle cose di determinazioni distinte dair attributo essere. Queste determinazioni distinte dall' K-sere che si trovano negli esseri, guardate in astratto, LA DIFFERANCE DI DERRIDA cioè nel loro concetto generale, sì òhiamano Non essere. Anche nel Sofista Platone dice che il Non essere non è il cjntrario dell'Essere, ma semplicemente ciò che è altro che GRICE OTHER THAN l'Essere – Grice on negation, privation, and otherness – Wiggins --.Arist. Mei, -Nf-Hdue elementi è un concetto straniero, clie fiatone si sforza di adattare alla meglio ai concetti propri del suo sistema. La contrarietà dei due elementi è data a Platone dalla dottrina dei Pitagorici. La riduzione dei due elementi air elSog e alla materia ha per oggetto di conciliare il dualismo della nuova dottrina colle esigenze della dialettica GRICE OXONIAN DIALECTIC BOLOGNESE DIALETTICA ALLA BOLOGNESE, cioè della dieresi. Questa suppone, al vertice della piramide ideale, un'Idea unica come genere supremo di tutte le Idee: la nuova dottrina invece ammette, non uno, ma due universali supremi. Per conciliare questi due punti di vista, Platone non riconosce il carattere di genere sommo di tutti gli esseri che all'uno dei due universali supremi; per conseguenza, siccome egli ammette già, nel nuovo assetto che dà al suo sistema, che le cose sono composte di sUo; e di materia, e che il conceìto generale delle cose è rappresentato dalrelSog, cosi trasporta dalle cos^ alle Idee stesse questa distinzione di dòoz e di materia, e riconduce V elemento che deve fungere da genere alTelSo^, e l'altro alla materia. Questa identificazione dei due elementi – TESI E ANTITESI -- dei Pitagorici con TelSo^ e la materia è d'altronde suggerita dai nomi stessi con cui vengono DESIGNATI. Se si prende la parola sISoc nel srnso meno astratto, cioè come indicante la forma visibile degli oggetti materiali, Tiépa? termine ed sUog sono pressoché equivalenti. Come per un'estensione del loro significato più concreto la parola slSog e il suo sinonimo jiopcpi^ MORPHE acquistarono il senso lato che esse hanno nella filosofia di Platone e d'Aristotile, cosi un'estensione analoga poteva essere data alla parola Tiépa^, in modo che i significati filosofici di questi termini venissero a coincidere. Quando l'elSog di cui si tratta non è più la forma visibile degli oggetti, la parola népa^, PERAS HOROS impiegata come sinonimo di sISo^, riceve certamente un significato assai lontano dall'originario: tuttavia, Ttldoc essendo ciò che definisce o de-termina gli esseri, V analogia tra il concetto di definizione o de-terminazione e quello di fine GRICE METIER o termine basta per giustificare il passaggio al nuovo significato. Cosi tiépag PERAS HOROS veniva a significare, ìq un scaso generico, l'eiSog in generale; in un senso speciale, 1'el5og comune di tutti gli ess^^ri; e ciò, non solo per una specializzazione convenzionale del termine, ma anche porche se uépag PERAS, nome comune, significa forma, il Tiépa; PERAS, nome proprio d'un'entità unica, deve significare la forma nel suo concetto generale, cioè il j.ene e di tutte le forme, 1'elSo; dogli elSr]. Il termine Tiépa^ PERAS voltando dire la form^^ il termine àiisipov APEIRON vorrà di) e, e ò che è senza forma, cioè la materia. Aggiungiamo che l'ideotìficaz'one del Tiépag PERAS con l'sldoc comune di tutti gli esseri, vale a dire con 1'Idea del bene, corrisponde anche a un altro significato di cui il termine nipcLQ PERAS è suscettibile, quello di fine – GRICE METIER -- o scopo. Ciò che è stato dett^ trova la sua conferma in Aristotile. Egli in Met. assegna al termine Tiépag PERAS questi significati: la forma della grandezza o dell'oggetto aveiite grandezza; il fine o o^ Svaxa la causa fi(j) Con questo senso qualitalivo de! termine ^TlStpOV coesiste però il senso guanlilafivo, come si vede nella riduzione dell' aitsipov al Grande e Piccolo. Il termine ha anche altre applicazioni, più conformi al suo significato volgare, quello di grandezza superiore a qualsiasi grandezza finita: è ciò che avviene, qn-indo esso DESIGNA designa la materia delle cose, vale a dire lo spazio, o quando si afferma che i sensibili sono infiniti per la materia, cioè per laTlsipOV Arist. ap Simpl. in Artsl. Phys^ in Porfirio, ap; Simpl.PA.VJ., indica un'altra applicazione dello àueipov in un senso quantitativo, e oè che la divisibilità airmtìnito della grandezza dimostra che in ogni grandezza è racchiusa una certa natura d'infinito. 17X Bftlej; r essenza la causa formale. Nataralmente Aristotile trova questi significati nella lingua filosofica dell’epoca, e, tra i suoi predecessori, noi non possiamo attribuire i concetti, che essi suppongono, che a Platone e ai platonici. Lo stesso Aristotile dalla sua parte identifica talvolta il Tcipac PERAS con VAòo^ e V&ntipoy con la materia, e chiama anche Tcépa^ PERAS la causa finale Mei., luogo in cui sembra alludere a un ragionamento dei platonici. La dottrina platonica dei due elementi, malgrado lo espediente a cui si ricorre, di non riguardare come slòo<; che un solo dei due universali supremi, resta sempre evidentemente in contraddizione coi principii della dialettica dieresi, perchè questi richiedono, alla sommità del mondo ideale, non due universali supremi, ma uno solo. La contradizione, è vero, potrebbe essere attenuata ancora da questa rifiessione, che i due universali supremi essendo ricondotti alla forma e alla materia – il composto del sinodo o sintesi -- di tutti gli esseri, la dualità è piuttosto apparente che reale, e non vi ha al fondo che un universale supremo unico, TEssere univeriale, di cui i due elementi sono la forma e la materia. Ma non cesserebbe con tutto ciò Tincoerenza di ammettere dae principii primi, mentre la dialettica esige un solo principio primo, la legge del mondo ideale essendo che ogni plur9 lità si riduca costantemente ad una unità superiore. La «contraddizione è dunque insolubile, ed essa ci indica che la dottrina dei due elementi è una modificaziome posteriore del sistema delle Idee, dovuta a una nuova influenza, indipendentemente dalla qaale questo sistema si era formato. £ noi abbiamo in effetto delle D^ Caelo, Phys., e De getter al. . Phys.; M$t, lo. prove che non lasciano alcun dubbio su questi due punti: cioè, primo, che Platone deve la dottrina dei due eie" menti ai Pitagorici, e, secondo, che questa dottrina è assente dal sistema di Platone nella sua forma primitiva, e segna, insieme alla dottrina dei numeri ideali, un nuovo periodo nella speculazione di questo filosofò. Nella Metafisica, in cui fa l'esposizione della filosofia platonica, Aristotile dice: Dopo le dette filosofie venne quella di Platone, che in molti punti segui questi i Pitagorici, di cui prima ha parlato, ma alcuni altri no ebbe propri, in fuori della filosofia degr ITALICI. E, accennato alle dottrine principali di Platone, cioè la dottrina d«lle Idee, delle entità intermediari», dei due elementi, e la identificazione delle iJee ai numeri, continua con questo confronto tra la filosofia di Platone e la pitagorica, in cui indica i punti comuni lille due filosofie e quelli propri al solo Platone: L'Uno stesso essere sostanza, e non qualche altra cosa a cui si attribuisca V unità, questo dice come i Pitagorici; e ancora come essi, che i numeri siano cause alle altre erse della loro essenza. Ma invece dell'Iofinito come uno porre una dualità, perchè egli fa V Infinito del Grande e Piccolo, ciò gli è proprio: inoltre egli pone i numeri oltre i sensibili, ma quelli dicono i numeri le cose stesse, e non pongono Tentità matematiche intermediarie tra i numeri e le cose. L'aver posto V Uno e i numeri oltre le cose, e non come i Pitagorici, e l'introduzione delle Specie fu per lo studio della dialettica della quale gli antichi non orano partecipi; V aver fatto poi dell'altra natura una dualità fu affinchè i numeri, eccetto i primi, se ne generassero comodamente, come da un sigillo. Risulta dunque dalla testimonianza d'Aristotile che Platone ha imprestato il suo elemento materiale dai Pitagorici, ma apportandovi una modificazione, quella di ricondurre quest'elemento alla dualità del Grande e Piccolo. Senza dubbio, questa non è la sola modificazione importantv^ che Platone apporta alla dottrina pitagorica; Aristotile no passa sotto silenzio un'altra che non ha un'importanza minore forse perchè la riguarda come una conseguenza del sistema delle Idee: è la ri luzione dei due elementi alla forma e alla mater'a universali. Il cangiamen'o risultante da queste e le altre modificazioni, necessitate dall'adattamento della dottrina pitagorica al sistema platonico, è co^i profondo, che nasconde r identità fondamentale della dottrina di Platone con quella dei Pitagorici, e fra le due dottrino sembra non esistere un rapporto più intimo che quello di una semplice analogia. Ma vi ha un punto che non bisogna perdere di vista. Qualunque sia stato il senso originario della proposizione dei Pitagorici che le cose constano di fine e d'infinito, dopo che queste astrazioni fine e infinito cominciarono a riguardarsi come delle sostanze di cui le cose sono composte, la proposizione divenne un enigma incomprensibile, o a dir meglio una formula vuota a cui non era possibile di attaccare alcun senso determinato: per conseguenza Platone poteva riempire questa formula vuo'^a d^i suoi propri concetti, e, usando di quella libertà ch'egli si prende abitualmente coi dati della storia, dare questi concetti per il senso riposto della dottrina pitagorica, taciuto o forsa anche smarrito dai più recenti filosofi di questa scuola che re avevano divulgato le dottrine. In effetto, il pit^igorismo di PUt ne, come vedremo in seguito, non cons'ste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, mn anche ad attribuire a questi i suoi propri concetti. Per altro vi erano nella dottrina pitagorica dei due elementi certi lati a iS\^i3 cui Platone poteva riattaccare il nuovo senso in cui egli prende questa dottrina. L'identificazione del uépag alla forma generale degli esseri e dell'àuetpov alla materia, che è il carattere più essenziale per cui si distingue la dottrina di Platone, trova certamente un addentellato in alcuni concetti dei Pitagorici. Cosi, quantunque Aristotile riconduca tanto Tuno quanti l'altro dei due elementi dei Pitagorici alla materia ciò che egli fa talvolta anche j^er i due elementi di Platone, prendendo strettamente alla lettera la parola elemento tuttavia è TtXTistpov che egli considera specialmente come il principio materiale; e benché l'interpretazione degli autori posteriori che riguardano il Tiépag e l'àTieipov come corrispondenti ala forma e alla materia, sia senza dubbio dovuta a una confusione con la dottrina di Platone, tra le proposizioni conservateci dei Pitagorici ve ne hanno talune che darebbero a questa interpretazione una certa speciosità. Tali sono sovratutto quelle in cui essi si rappresentano V illimitato àustpov che è nelle cose come compreso ientro il limite uépag e limitato da questo: in questa rappresentazione del rapporto tra il Limite e rilliroitato questi due concetti sono assai vic'ni a quelli della forma e della materia. Ma il vero punto di partenza per passare dalla dottrina pitagorica alla propria Platone lo trova n«ll'nnalogia del concetto stesso di limite Ttépa^ con quello di forma, e, po-^Fiamò anche aggiungere, del concetto d'infinito àTtsipov con quello d'indefinito o indeterminatoche per Platone, come per Aristotile, è il (1/ Mei, Met, Arist. Phys, Met, + . m^fmai^tam^m -.ì :;fi.:a^ carattere distintivo della materia Egli poteva inoltre fondarsi, per la riduzione del Tiépag al bene, sul dato che i Pitagorici chiamano la Ferie oDoxotxia del finito la serie dei beni e si noti che non solo il Finito era uno dei prineipii compresi in questa serie, ma era anche ad esso che tntti gli altri venivano ricondotti. In quai.to alle denominazioni di Grande e Piccolo e Dualità indeterminata date all'elemento materiale, noi abbiamo visto com'esso si riattaccavano a qnePe pitagoriche d'Infinito e di Pari. Sulle altre modificazioni della dottrina pitagorica osserveremo: che V identificazione dell'Uno con uno dei due elementi, mentre i Pitagorici lo facevano risultare da amendue e lo chiamavano perciò PARIDISPARI, poteva riattaccarsi alla sua classazfone ncMa auoxotx^a del limitato; e la riduzione dei due elementi alFEssere e al Non essere, al concetto, emergente dalla tavola delle dieci opposizioni, che tutto consta di contrarietà, e che queste si riducono tutte a quella del limitato e deirillimitato infatti in ogni contrarietà Tuno dei termini può considerarsi come positivo e subordinarsi air essere, V altro come negativo GRICE NEGATION AND PRIVATION e subordinarsi al non essere; e nelle opposizioni dei Pitagorici i termini che potevano preferibilmente considerarsi come positivi erano quelli che venivano posti dalla parte del llmHato. Arist. Mei. PhysA, Alex. Aphr. ad Mei,, ecc. Cosi Eudemo attribuisc al non essere, nella dottrina pitagorica, un posto pressoché equivalente a quello che esso ha nella p!atonica: Bene i Pitagorici e Platone portano nel movimento rindefinito e Io imperfetto e il non essere ap. Simpl. ad Arist, Ph?/s.. Qui evidentemente il non essere, come l'imperfetto e Tindefinito, è, per quanto coniarne i Pitagorici, una generalizzazione dei prìncipii della O'JOTOtX^a deirillimitato. Veliamo ora alle prove della posteriorità della dottrina. Questa ri>uUa prima di tutto dagli scritti stessi di Platine. È certo che, quando scrive la Repubblica Platone non ammette ancora la dottrina di una dualità di principi!. Nella Repubblica non vi ha, alla sommità del mondo ideale, che un^entità unica: è Tldea del Bene, sovrana del mondo intelligibile, in cui essa è ciò che il sole è nel mondo visibile, e principio unico dell'essere e del conoscere. Inoltre la dottrina dei due ilem^^nii, quale la concsciamo dairesposizione d'Aristotile, sappone quella dei numeri ideali, perchè Aristotile riguarda come il tratto essenziale e caratteristico del principio materiale di Platone che esso è fatto consitst^re Nello stesso dialogo si dà come un carattere delle cose sensibili» per cui esse sono opposte alle Idee, quello di partecipare al tempo stesso dell'essere e del non essere. Certamente questo non significa che l'essere e il n^n essere sono due elementi di cui le cose sensibili solamente, e non le Idee, sono composte; Platone vuol dire semplicemente che la realtà del sensibile non è una realtà piena, assoluta: ma è evidente che egli non si esprimerebbe cosi, s'egli conosce già la dottrina che l'Es sere e il Non essere sono i due elementi delle Idee e delle cose. Spiegando perchè le cose sensibili partecipano dell'essere e del non esser», dà un altro carattere per cui esse si distinguono dalle Idee, cioè che in esse si trovano al tempo stesso degli attributi contrari. Anche nei Parmenide di VELIA le cose vengono opposte alle Idee, perchè quelle partecipano simultaneamente di attributi contrari, e queste no; e liei Fedone si stabilisce il principio che un'Idei non può mai partecipare a due Idee contrarie MEINONG JUNGLE TRIANGOLO QUADRATO infatti è impossibile, nel metodo di divisione, di subordinare un'Idea a due Idee contrarie. Noi dobbiamo perciò ammettere che questi dialoghi sono anteriori alla dottrina dei due elementi, perchè secondo questa dottrina ciascuna Idea partecipa delle Idee contrarie dell'Essere e del Non essere, dello Stesso e del Diverso, del Finito e dell'Infinito, ecc. vedi ciò che diremo appresso sulle due auoxoDciat di prìncipi! opposti. I m nel Graude e Piccolo: ora, come osserva lo stesso Aristotile, Platone sostital airinfìnito uno dei Pitagorici la daaiità del Grande e Piccolo, per far servire questo principio alla generazione dei numeri ideali Noi sappiamo del resto che la dottrina dei due elementi di cui è quistionein ArÌ8totile, fu esposta da Platone nei suoi discorsi sul Bene, in cui egli diede i risultati delle sue ultime speculazioni. Si potrebbe dire che ciò non esclude la possibilità di una forma anteriore della dottrina, in cui il principio materiale non sarebbe stato ancora considerato come il Grande e Piccolo, e che Platone in seguito avrebbe modificata, mettendola in armonia con le sue nuove dottrine pitagoreggianti. Ma si leggano i luoghi d'Aristotile relativi a questa d'-ttrina, e si vedrà chiaramente che Platone non si è mai servito dei due elementi che come di principii dei numeri, e che Aristotile non conosce altra forma di essa che quella in cui il principio materiale si fa consistere nel Grande e Piccolo. Aggiungiamq che in Met. le speculazioni platoniche sulla materia delle Idee vengono date come una deviazione èxxpoTng dairindirizzo primitivo. Alla dottrina dei duo elementi è legata in Platone, come nei Pitagorici, quella di due serie oooToixCat di principii opposti. Ad essa allude Aristotile in Phys. indicati nelle due note dopo la seguente. Arist. Phys., Simpllc. in Phys, Alcss. Afrod. zk Met., ecc. Mei,, ecc. Mei., Phy4, ecc. Met. Nel primo di questi luoghi d cv»: Alcuni dicono che il movimento è la diversità e rineguaglianza e il non essrre, mentre non vi ha alcuna necessità che gli aggetti si muovano, se sono diversi né se ineguali né s'», non esseri. Il mutamento non è né que.'^t » cose la diversità, rineguaglianza, il non essere né da es-^e piuttosto che dal'e opp-^sto. La ragione per cui hanno riconiotto il movimento a queste cose é perché sembra che il movimento sia qualche cosa d'indefinito, e i principii dell'altri s'^ric fooaxotx^a sono indefiniti perchè privativi; nessuno di essi é infatti un'essenza determiu'ita né una qualità né alcuna delle altre categorie. Lo stessa quasi parola per parola nel luogo della Metafisica. Questi luoghi si riferiscono a Platone, perché sappiamo che Platone riconduce il movimento airelemonto materiale, e che la diversità, rineguaglianza e il non essere sono dellt^ denominazioni di quest'elemento. Inoltre vi ha un luogo d'Eudemo, in cui é certamente quistione della stessa dottrina a cui alludono i due luoghi citati d'Aristotile, e questa dottrina é attribuita esplicitamente a Platone. Ora, quali sono i priocipii dell'altra aDoxoix'-a di cui parla Aristotile? e poiché Z'aZ/ra auaxotx^a suppone una ouaxoixia opposta quali sono i principii della ouaxoixta opposta? Senza dubbio tra i principii dell'altra auaxotxfa Mei. Eudemo ap. Siinpl. ad Arist. Phys.: Platone dice che il movimento è il grande e piccolo e il non essere e l'anomalo e quanti altri riduce alla stessa cosa: ma sembra assurdo dì dire che il movimento sia questo; infatti l'oggetto in cui è presente il movimento si muove, ma è ridicolo che, un oggetto essendo ineguale o anomalo, sia necessario che esso si muova Questo luogo è quello che abbiamo indicato sopia per dimostrare che l'elemento materiale veniva anche chiamato l'anomalo sono la Dvarsità, riaegaagliaaza o il Non essere; poiché, qnaado Aristotile dice: perchè sembra che il movimento sia qualche cosa d'indefinito, e i princìpii d'ìlTaltra ouaxoix^a sono indefiniti, evidentemente e^li intende assegnare come raocione dell'aver ricondotto il movimento alla diversità, all'ineguaglianza e al non essere, r indeterminatezza per cui il movimento somiglia alla diversità, all'ineguaglianza e al non essere. Di più il movimento fa parte anch' esso dei principii dell'altra ot>axoix^a: infatti, sq per ragione della riduzione del movimento al non essere, alla diversità e all'ineguaglianza Aristotile dà la somiglianza che il movimento ha, non coi soli non esser"., diversità e inegualianza, ma coi principii dell'altra oooxoixCa in generale, co è parche la riduzione di una cosa al non essere, la diversità e l'ineguaglianza equivale per Aristotile alla sua classazione tra i principii dell'altra ouoxoixta. Tra i principii dell' € altra ouoxotxCa trovandosi dunque il Movimento, la Diversità, T Ineguaglianza, il Non essere, tra i principii della otioxoix^a opposta devono trovarsi gli opposti, cioè lo Stato, l'Identità lo Stesso, 1'Eguaglianza, 1'Essere. E siccome VesseTe^Veguaglianza^Videniità lo stesso sono dei nomi con cui viene designato l'elemento formale, e il non essere, V ineguaglianza, la diversità dei nomi con cui viene designato Telemento materiale, noi dobbiamo ammettere che i nomi dell'uno dei due elementi figurano anche come principii dell'una delle due ouoxoix^ai, e i nomi dell'altro come principii dell'altra. Ma di là non ne segue che tutti i principii dì una delle due ouoxoix^at figurino anche come nomi dell'elemento corrispondente: infatti il movimento non è un nome deir elemento materiale. Però il movimento, quantunque questo nome non venga applicato a designare l'elemento materiale, è ricondotto, come abbiamo visto, da Platone all'elemento materiale: cosi devono anche classarsi tra i principii dell'una o dell'altra delle due atioxotx^at quelle entità che, senza che i loro nomi vengano impiegati per DESIGNARE – GRICE SHAGGY Smith is happy -- l'uno o l'altro dei due elementi, sono nondimeno ricondotti all'uno o all'altro dei due elementi. A queste entità accenna Ari^^totile in generale in Mei,, con queste parole: Alcune cose assegnano i Platonici ai principii, come il bere e il male, lo stato e il moto; le altre ai numeri. Il male non è un nome delPelemento materiale, ma è, come il movimento, ricondotto airelemento materiale. Che Platone riguardi i diversi nomi ch'egli dà all'uno e all'altro dei due elementi come corrispondenti a dei principii distinti, è una proposizione che non deve sorprenderci: è questa anzi la sola interpretazione che sia conforme allo spirito del sistema delle Idee e alle abitudini della lingua platonica. Un nome, nella sua applicazione metafisica, non DESIGNA altra cosa per Platone che il concetto che esso comunemente SIGNIFICA, realizzato: cosi l'essere e il non essere, l'eguale e l'ineo naie, lo stesso e il diverso, ecc. non possono DESIGNARE per lui che i concetti dell'essere e del non essere, delTeguale e dell'ineguale, dello stesso e del diverso, ecc. realizzati. Ma i concetti dell'essere, dell'eguale, dello stesso, ecc., cosi bene  che quelli del non essere, deirineguale, del diverso, ecc. essendo distinti, ne segue che le entità Er'sere, Eguale, Lo stesso, ecc. cosi bene che Non essere. Ineguale, Diverso, ecc. devono anche essere delle entità distinte. Noi non possiamo dunque ammettere che tra 1'Essere, 1'Eguale, lo Stesso, ecc. da una oltre  il  1. e. Mei.  t parte, e dalPaltra, tra il Non essere, V Ineguale, il Diverso,  ecc. vi sia una distinzione, non reale, ma semplicemente nominale, a meno di supporre che Plaone abbia creduto che ciascuna di queste due serie di nomi SIGNIFICHI uno stesso concetto. La stessa osservazione vale, a più forte ragione, per il movimento, il male e le altre cose che Platone riconduce all'uno o air altro dei due elementi, ma senza dare a questi i nomi corrispondenti: i  concetti del mnle e del movimento essendo distinti tra di loro e dai concetti del non essere, dell'ineguale, del diverso, ecc., il Male e il Movimento devono essere delle entità distinte fra di loro e dalle entità Non essere, Ineguale, Diverso, ecc. Tuttavia la distinzione che Platone stabilisce tra tutte queste entità non gV impedisce di riguardarle al tempo atesso come identiche. Per le entiià  i cui nomi servono a DESIGNARE uno dei due elementi, qucst'identificazione risulta sufficientemente da questa stessa applicazione che viene fatta dei loro nomi. Ma essa non è meno evidente per le altre: roi abbiamo già visto nel luogo citato di Aristotile e in quello d'Eudemo che il movimento è la Diversità, l'Ineguaglianza, il Non essere, il Grande e Piccolo, ecc. Di quest'identità  degli altri principii d'una o-KjToix^a con quelli che figurano come nomi delleh mento corrispondente ai hanno le prove nella più parte dei luoghi d'Aristotile in cui è quistione della relazione évi movimento o del  male con l'elemento materiale. In  Met. dice: ln quanto al movimento, se esso é il grande e piccolo, si muoveranno anche le Idee. Tutte le cose parteciperanno al Phys. Ap.  Simpl,  ad ArisU Phys.  IL male, salvo l'Uno, poiché il male in sé é l'altro elemento. Alcuni dei Platonici vale a dire, per quanto possiamo giudicarne, tutti gli altri tranne Speusippo e i suoi dicono l'Ineguale la natura del male. Ne segue che tutti gli esseri, salvo uno cioè l'Uno stesso, partecip'^ranno al male, ecc. Come si può intendere che delle entità distinte siano al tempo stesso  identiche? Noi ritroviamo qui, mutaiìs mutandis, quello stesso rapporto ambiguo che abbiamo già incontrato tra l'uno e i molti i molti fcono 1'uno e Tuno è i molti. Bisogna rinunziare su questo soggetto a qualsiasi concetto intelligibile. Tutto ciò che possiamo dire di più chiaro è che i diversi principii di ciascuna delle due ooaTotx^at sono riguardati da Platone come degli aspetti diversi egualmente obbiettivi deirelemento corrispondente. L'espressione degli aspetti diversi egualmente obbiettivi è certamente un non senso fra i diversi aspetti di un oggetto è uno solo che noi possiamo riguardare come obbiettivo ma essa è forse la più appropriata per rendere l'oscuro concelto racchiuso in questa dottrina. Ciascuno dei principii dell'una e dell'altra ouoxoixta é certamente  considerato come un attributo d'una universalità assoluta, prosante in tutti gli esseri. In effetto Ih più parte di 'questi principii, per quanto possiamo giudicarne, figurano come nomi dell'uno o 1'altro dei due elementi; ed è evidente che Platone non potrebbe dire che l'Essere o l'Eguale o lo Stesso ecc. è la forma di tutte le Idee, e il Non essere o l'Ineguale o il Diverso ecc. la materia, se  l'Essere, il Non essere, l'Eguale, lo Ineguale, lo Stesso, il Diverso, ecc. non fossero per lui delle determinazioni comuni a tutti gli esseri. In quanto ai principii che, come lo Stato e il Moto, non figurano come nomi degli elementi, la loro universalità assoluta è prorata, oltre che dal'a coerenza della dottrina, dal fatto che gli attributi corrispondenti a questi priiìcipii vengono riguardati come  determinazioni inerenti alla forma o alla materia universali. È ciò che vediamo per il Movimento. Nel Timeo la materia di tutti gli esseri è simboleggiata da una massa in un movimento continuo, e Xenocrate chiama la materia di cui tutte le cose sono fatte àévaov continuamente  fluente Questo stesso concetto era espret^so da Xenocrate sotto forma simbolica, quando chiama 1'Unità 1’intelligenza e la Dualità indefinita l'anima del tutto: 1 elemento materiale è simboleggiato dall'ANIMA, perchè qu^s'a  è, secondo Platone, perpetuamente in movimento, e comunica li suo movimento a tutto le altre cose 1’elemento tv rmaleo il Bene dallintelligenza, erme nel Tiineo, peicbè questa è la sola attività .mpiri.a che operi secondo il principio delle cuse finali. Per altro 1'universalità assoluta di tutte queste entità è infreute alla hro qualità di principii, perchè, couformemente alla dialetira platonica, ciò the è di una  universalità solo relativa CIÒ che è contenuto sotto un'Idea più generale, non potrebbe essere riguardato come principio. Cosi la dottrina MuUaoh Pr. Stob. Ed. Phys. Muli. Xenoor. Fr. Che U movimento sia un attributo universale comune a  tutte le cose, risulta del resto dalla dottrina del divenire continuo dei sensibiU. Per altro non bisogna dimenticare ohe il mofim.nto x{VigoiS ha nella lingua dei filosofi greci un significato molto lato – DYNAMIC vs. STATIC --, essendo press'a poco un sinonimo di cangiamento. Platone chiama anche movimento una relazione transitoria d'una cosa con altre anche che non importi in  essa un cangiamento reale; p. e. l'esser conosciuta è un movimento deUa cosa conosciuta Sof., V delle due ouaxotxtat di principii opposti dà una risposta alla quistione quali siano propriamente le determinazioni delle co^e  che i due universali supremi, cioè la forma e la materia delle Idee, rappresentano; la riunione degli attributi corrispondenti ai principii dell'una o dell' altra ouoxoix^a  ci dà il significato complelo dell'elemento rispettivo. Qufsta dottrina di due serie di principii opposti è evidentemente un'imta/ione di quella corrispondente dei Pitagorici. Cosi noi dobbiamo ammettere che questi opposti non rappresentano solamente le determinazioni universali dell'essere, ma ancora, come quelli dei Pitagorici, le opposizioni fondamentali delle cose. È a ciò che deve  riferirai Tindicazione d'Alessandro d'Afrodisia  che Platone vede nell'Eguale e l'Ineguale o V Uno e la Diade indefinita e i principii degli esseri per se stessi e degli opposti. I principii degli opposti è certamente Fra questi principii opposti, riguardati come attributi comuni a tutti gli esseri, sono, come abbiamo visto, il bene e il male. Elevando il male a principio e attributo universale  delle cose, Platone si mette certamente in opposizione con la forma primitiva del suo sistema: tuttavia quest'opposizione non è cosi grande come potrebbe sembrare a prima vista. Potrebbe credersi infatti ohe egli dia al male una parte eguale a quella del bene. Ma non è cosi. La forma e l'essenza degli esseri è il bene: ne segue che il male non ò che un accidente; se no, perchè l'essenza  delle cose sarebbe il bene piuttosto che il male? Noi abbiamo già osservato che il male non è nemmeno riguardato da Platone come la materia. Evidentemente il concetto di Platone ò che il bene è il tipo che tutti gli esseri tendono a realizzare, ma che nessuno realizza se non. d'una maniera approssimativa. Nel Timeo Dio realizza da per tutto l'Idea del bene, ma per quanto è possibile.  Cosi in tutti gli esseri vi ha a lato del bene il male: ma la regola è il bene, e il male non è che l'eccezione. Ad  MeU Un  espressióne inesatta, almeno in un pnnio, cioè che Platone non poteva rguardare gli altri principi! Delle due o^ozoix'^oLi come derivati dal T Eguale e l'Ineguale  o rUno e la Diade poiché in questo caso non sarebbero stati anch'essi dei principii] ma gli altri dati che  abbiamo su questa dottrina ci autorizzano ad intendere la indicazione d'Alessandro in questo senso, che Platone riconduce le opposizioni fondamentali delle cose ai due elementi delle Idee. Questo concetto dà anche la spiegazione di una dottrina d'Aristotile, che, come tante altre di questo filosofo p. e. la distinzione de4a  forma e della materia, non si comprende che per il rapporto della  sua filosofia con quella di Platone. È la proposizione che tutte le contrarietà si riducono a quella dell'unità e della pluralità p. e. lo stato, l'eguale, lo stesso si riconducono all'unità; il moto, T ineguale; il diverso, alla  pluralità. Questa proposizione, di cui non potrebbe vedersi tilcun legame coi concetti della filosofia d'Aristotile, si riattacca invece della maniera più naturale a quelli d'una  filosofia che, come quella di Platone, fa consistere l'essenza delle cose nei numeri. E in effetto essa è contenuta in germe nella dottrina delle due ouoxoixCai di principii opposti. Questi principii opposti, al punto di vista della teoria dei numeri, erano ricondotti da Platone all'Uno e al Grande e Piccolo, e il Grande e Piccolo, specialmente come elemento dei numeri, cioè come Molto e  Poco, ALTHAM GRICE GEACH equivale alla Pluralità: cosi, siccome le due serie di principii opposti rappresentavano le opposizioni fondamentali degli esseri, cioè le più generali e a cui la più parte delle altre, se non tutte, si riconducono; di là si giun Met. gevà facilmente alla generalizzazione a Aristotile se l'autore di questa generalizzazione è stato Aristotile, e non Platone stesso    che tutti i contrarli si riconducono all'unità e alla pluralità. Una conferma del rapporto di questa dottrina d'Aristotile con la filosofia platonica potrebbe vedersi in questa circostanza, che Aristotile tratta di essa nel libro sul bene, nel quale espone gli diypoLcpoL  SÓYjiaTa di Platone. Probabilmente le due ouaxotxfat di Piatoti» comprendevano, come quelle dei Pitagorici, dieci opposizioni perchè dieci è il numero perfetto, e noi possiamo supporre con qualche verrsimiglianza che fossero le seguenti: Fine: Finito Infinito. Unità Moltiplicità. Dispari Pari. Bene-Male. Stato-Moto. EssereNon  Essere. Lo Stesso Diverso. Egnaìe Ineguale. Regolare-Irregolare òjiaXóv-àv(i)|jiaXov Ordinato Inordinato xaxxóv-àxaxxov. Di queste Alex. Aphrod. in Met. Slmpl in Phys., in De  Anima, Al3s^.  in  Met.,  Filopono in Phys., eco. Arist. Met. Platone, cerne vediamo nel Filébo, ecc., dove riguardare, all'esempio dei Pitagorici, il Fine e il Finito come equivalenti. Naturalmente in quest'opposieione Non essere non significa ciò che non esiste, ma la negazione p. e. non uomo, non bello, non grande e la privazione  p. e. tenebre, silenzio, cecità – h. P. GRICE NEGATION AND PRIVATION. Senza dubbio, Platone preferisce per l'elemento materiale la denominazione di Non essere, perchè, come dice Aristotile, i principii dell’altra Q\}Q\0iyÌ0L sono privativi, e l'elemento materiale equivale al complesso di questi principii. Teofrasto Metaf.: Platone e i Pitagorici pongono Topposlzioue dell'uno e della dualità indefinita: in questa è 1'infinito, opposizioni  la prima metà sono comuni coi Pitagorici. Comparando nel loro insieme la tavola di Platoae e quella dei Pitagorici, la prima si distingue per un carattere più  astratto; e le opposizioni particolari a Platone possono riguardarsi, per la più parte, come delie generalizzazioni di quelle dei Pitagorici. Per giustificare il cangiamento ch'egli apporta nella dottrina dei Pitagorici, Platone poteva  dire che, tra le opposiz'oni delle cose,' quelle che meritavano di essere elevate al grado di principi! ed elementi, erano le più generali. II tratto essenziale, per cui la tavola delle opposizioni di Platone si distingue da quella dei Pitagorici, è che i principii opposti di Platone sono degli attributi universalissiml comuni a tutti gli esseri, e che i principii di ciascuna serie, riuniti, costituiscono  uno dei due elementi di tutte le Idee: le altre differenze dipendono da questa differenza fondamentale. Essa alla sua volta è una conseguenza della dialettica platonica. Le dieci coppie di opposti erano per i Pitagorici i principii  delle cose: ora un principio è, secondo Platone, ciò che occupa il grado più elevato nella scala della generalità – TALE MILETO ACQUA,  e che, come tale, SI  trova al punto di partenza della dialettica, considerando qnesta nella sua marcia descensiva, che è qnella che corrisronde al progresso reale dell'essere. Per conseguenza, delle entità distinte dagli Universali Hnpremi cioò dalla forma e dalla materia di tutte le Ide«, non potrebbero avere, nel sistema di Platone, il carattere di Nel Timeo l'elemento materiale è rappreseatato da una massa  che 81  muove disordinatamente àtoéxxwc ohe il nom:,»i. presenta l'Idea del bene. ^a  pas^ Jar^r^' oS principii  perchè sarebbero loro subordinate in generalità, e deriverebbero da loro: cosi le due oooxotx^at di principii opposti non potevano essere, in questo sistema, che la decomposizione dei due Universali supremi in due serie di attributi egualmente universali e aventi ciascuno una  parte della loro comprensione. Questa modificazione aveva anche V effetto di rendere la dottrina pitagorica delle opposizioni meno arbitraria. I Pitagorici prendevano all'azzardo certe opposizioni, e dichiaravano che esse erano gli elementi costitutivi delle cose: ma come queste oppjsizioni potessero essere gli elementi costitutivi delle cose, e perchè queste precisamente e non altre,  erano delle quistioni che, nella dottrina dei Pitagorici, restavano senza risposta. A questa quistione Platone risponde con IVquivalenza tra le due serie di principii opposti  presa ciascuna nel suo complesso e i due elementi delle Idee Il concetto più nebuloso di questa dottrina di Platone, cioè l'identifìcazione dei diversi principii di ciascuna delle due ouoxotx^at, aveva per lo meno un  addentellato nella dottrina corrispondente dei Pitagorici. Quando questi chiamano rimpari mascolino e il pari femminino, e riguardano la ouoToixta del Finito come quella dei beni e la oDOTO'-x^a dell'infinito come quella dei mali, essi sembrano considerare il bene e il mascolino erme equivalerti h\l'impari e al finito, e  il male e il femminino come equivalenti al pari e all'infinito. L'identificazione, nel sistema pitagorico, di c'aj^cnno dei pr'ncip i dell'una delle due auoTO'-x^at al Fini'o e di quflli dell'altra all'Infinito risulterebbe anche dall’indicazione di alcuni autori che i Pitagorici ch'amavano l'uno dei due elementi impari, maschio, luce, destro, retto, slabile, ecc., e l'altro coi nomi  IM  contraTi. Per Platone quest'identificazione era necessaria, s'egli voleva, ad  imitazione dei Pitagorici, ricondurre questi principii al Fine e air Infinito, e al tempo sti  880 conservare ad essi la loro qualità di principii. In effetto, oltre quest'identificazione, egli non avrebbe avuto che un mezzo per ricondurre ai due elementi, cioè al Fino e all'Infinito, le altre entità facienti parte delle due serie di opposti: quello di riguardare il Fine e l'Infinito come generi, e queste  altre entità come specie. Ma allora queste entità non sarebbero i^tate più dei  principii; poiché, come abbiamo più volte osservato, nf Hi dialettica platonica, ciò che è subordinato a qualche cosa di più generale, non è un principio, ma un corollario – H. P. GRICE LE MASSIME CONVERSAZIONALI COME COROLLARI DELL’IMPERATIVO DELL’AIUTO CONVERSAZIONALE, un essere derivato. Inoltre esse non avrebbero avuto più coi due elementi il rapporto speciale che ammette la filosofia pUagorica, ma semplicemente il rapporto comune che hanno con questi tutte le entità platoniche, tutte le Idee essendo con gli elementi nella relazione di specie a genere. Del resto, senza V identificazione dei principe  di ciascuna ouoTotxta, non si vede come Plafone  avrebbe potuto fare coesistere la dottrina di una moltiplicità di principii con quella dell'unità, almeno con quella dell'unità del principio formai^, indispeuj'abile alla dialettica platonic?», perchè  l'sISo^  supremo ron potrva essere che un. Solo – GRICE L’IMPERATIVO DELL’AIUTO CONVERSAZIONALE. La dottrina delle due ouoxoixiai di principii opposti  -- H. P. GRICE SELF LOVE OTHER LOVE -- suppone evidenteme». to qu»  ll;i  dei  due. elementi: per conseguenza le prove che d mostrano che la seconda delle due dottrine è nata post<  rrormente al sistema delle Idee e della  dialettica, dimos'i-ano qnesta sfessa posteriorità anche per la prima. Sar bbc superflua qualsiasi osser y. Eudoro ap. Simpl. e Porfirio Vita  Pythagorue, vazjone sulla contraddizione  di questa dottrina coi principii della dialettica platonica, e la necessità, che ne segue, di spiegarne l'origine per una fusione dei concetti primitivi di Platone con un elemento straniero, indipendentemente dal quale questi concetti si erano formati. Ma un'osservazione che non possiamo tralasciare è la relazione di questa dottrina con un luogo del Sofista, che senza questa recezione sarebbe  incomprensibile. In questo dialogo l'Essere e il Non  e«8c  e e lo Stesso e il Diverso vengono date come delle Idee d'un'universalità  assoluta, a cui tutte le altre Idee partecipano. Ora, conformemente ai principii della dialettica platonica, non potrebbe esservi che una sola Idea d'una universalità assoluta e a cui tutte le altre paitecipino. Questa incoerenza ci indica dunque che il Sofista è  stato scritto nel periodo pitagoreggiante, e quando Platone ammette già la dottrina delle due ouoToix^at di principii rpposti. E in effetto  l'Essere e il Non essere e lo Stesso e il Diverso fanno certamente parte di queste ouoToix^ai. Noi abbiamo del resto altre prove che dimostrano che, quando Platone Fcriveva il SoJìsta, egli aveva già immaginato la dottrina dei due elementi. Cosi la  più parte degl'interpreti hanno compreso, indipendentemente dalla nuova prova che noi apportiamo, che l'Essere e il Non essere di cui si tratta nel Sofista sono quegli stessi di cui è quistione nella Metafisica di Aristrtile, vale a dire i due  1( menti d^^lle  Idee. Ciò risulta prima di tutto da un'allusione della Met., cioè che Platone ha identificato il Non essere, vale a dire la mataia, con la  natura del falso – H. P. GRICE IT IS FALSE THAT THE KING OF FRANCE IS BALD: questa allusione convii ne perfettamente al Sofista, perchè in questo dialogo Platone sostiene che il discorso e l'opinione falsa hanno per oggetto il Non essere, e sono  i82  TT -^ falsi  ppF  la partecipazione del Non essere. Inoltre la lunga rìi^ressone per dimostrare l'esistenza del Nonessere prova  che quesò'entità occupa noi sistema un posto d'un'importanza speciale: Platone, è vero, dà per iscopo a questa digressione di stabilire resistenza del falso, difendendola dalle obbiezioni capziose dei contemporanei; ma è evidente che questo non è che un pretesto per riattaccare le sue speculazioni alle quistioni del giorno. Aggiungiamo che alla sommità del mondo ideale sta, nel Sofista, non l'Idea del Bene, ma quella dt^lFEssere 3j. Il punto di partenza della dottrina sulla materia delle cose cioè sulla materia e.st'^riore alle Idee e che si aggiunge ad esse per costituire le cose è la costruzione del corporale II corpo si compone delle superficie e  dello Contro l'equivalenza del Non essere del So/;s/a col Non essero della Metafìsica vi sarebbe l'obbiezione che nel So/ìsta il Non essere non potrebbe riguardarsi come un principio primitivo, porcUò vi  si dice che quest'Idea è contenuta sotto quella dal Diverso GRICE WIGGINS NEGATION. Ma quest'obbiezione non ha un gran valore; perchè, siccome tanto il Diverso quanto il Non  essere si trovano in tutte le altro Idee, e per conseguenza anche l'ana nell'altra, cosi il rapporto di contenenza tra le due Idee è reciproco, cioè è altrettanto vero di dire eh > l'Idea del non essere è contenuta sotto quella del diverso perchè del non essere può  predicarsi il diverso quanto di dira cha l'Idaa dBl diverso è contenuta sotto quella del non essere- perche, reciprocamente, del diverso  può predicarsi il non essera. Se l'Idea contenente dovesse riguardarsi, in questo caso, come anlerìore all'Idiia contenuta, vi sarebbe per conseguenza altrettanta ragione di riguardare il Diverso come anteriore al Non essere che di riguardare il Non essere come anteriore al Diverso: cosi il rapporto logico di contenente e contenuto non può importare, in questo caso, il rapporto ontologico  di anteriore e posteriore, spaz'o che es -e racchiudono; le superficie similmente delle linee che le limitano e dello spazio compreso fra queste linee; e le linee dei punti che le limitano e dello spazio compreso tra questi punti. Il punto viene identificato con r unità. Un'esposizione completa di questa costruzione delfesteso non la troviamo, a dir vero, né in Platone né in Aristotile, MA IN GRICE E CODE. Nel Timeo vi ha solamente la composizione del corpo dalle superficie. Ma Aristotile parla spesso dell'opinione che le superficie, le linee e i punti o unità sono sostanze, e che il punto o unità è più sostanza della linea, la linea più della superficie, e la superficie più del corpo, opinione che si deve afribuire a Platone e ai suoi, perchè essa é logrta alla dottrina delle Idee,  e fondata sul motivo che so])presso il punto si sopprimerebbe anche la linea, soppressa questa, la superficie, esoppressa la superficie, il corpo. E evidentemente alla stessa opinione che allude Aristotile, quando respinge la proposizione che i punti e le linee sono la materia dei corpi. Infine Alessandro d'Afrodisia afferma che Platone fa venire i corpi dalle superficie, le superficie dalle  linee, e queste dai punti, che considera come unità; e che è questa la ragione per cui Arist. De gen, De Coeìo  MI,  l'hijs. Met. questo è, come sappiamo, il criterio di cui si serve Platone per stabilire che una cosa è anteriore ai un'altra. Anche Alessandro Afrod. riferisce l'allusione a Platone ad  iJf^/,  ])e  gen, i egli ammette che i numeri sono i princìpi degli esseri ad Mei. Com'è che le  superficie vengono dalle linee e le linee dai punti? Della stessa maniera certamente con cui, nel Timeo, i corpi vengono dalle superficie. La costruzione del corpo nel Titueo in effetto, sarebbe da sé sola incomprensibile: essa non si comprende che come parte di un processo, che ha per risultato di comporre il corpo dello spazio e delle unità che lo definiscono, cioè del numero. Per le  superficie di cui si compongono i corpi bisogna intendere dei piani, e per le linee di cui si compongono le superficie, delle rette. La costruzione del corpo, di cui abbiamo parlato, si applica particolarmente ai corpuscoli elementari; poiché Platone nel periodo pitagoreggiante ammette la fisica corpuscoUre, e ciascuno di questi corpuscoli 6 un poliedro regolare. Vi hanno cinque elementi  corrispondenti ai cinque poliedri rego Quest'indicazione d'Alessandro d'Afrodisia, al fondo, non ci apprende niente di nuovo; perchè la formula d'Aristotile, che il punto o unità è più sostanza della linea, la linea della saporticie e la superfìcie del corpo, signitìca precisamente che il punto o unità è il principio da cui deriva la linea, la linea il principio da cui deriva la superficie, e questa  il principio da cui deriva il corpo, h anteriore secondo Platone, ha più essere che ìì posteriore. Cosi Aristotile menziona pure la proposizione evidentemente dei Platonici ohe i generi sono più sostanze delle specie M. In alcuni dei luoghi citati Met.; Aristotile dà anoh'egli la dottrina che i principii delle cose sono i numeri come una deduzione dall'opinione che le unità e, in generale, i  termini del corpo sono sostanze e più sostanze del corpo stesso. Bisogna anche vedere un'allusione a questa costruzione del corpo per lo spazio e le unità nella domanda che Aristotile rivolge ai Platonici: com'è che i numeri sono cause dell'essere e dell'essenza delle cose? forse quali termini, come i punti delle grandezze? Met.  lari: il corpuscolo della terra che e un cubo, quello del fuoco  che è un tetraedro, quello dell'aria che è un ottaedro, quello dell'acqua che è un icosaedro, e quello dell'etere che è un dodecaedro. Nel Timeo però Platone non ammette ancora che quattro elementi, ed esclude esplicitamente il quinto, cioè il dodecaedro l'etere. La stessa costruzione dei corpi per le superficie, per le linee e per i punti che li limitano è attribuita dagli storici della filosofia    anche ai Pitagorici. E in effetto Alesiandro d'Afrodisia per non parlare d'altri autori meno degni di fede, p. e. Diog. Laerz., i quali confondono sistematicamente le dottrine dei Pitagorici con quelle di Platone dice tanto dei Pitagorici quanto di Platone eh'essi derivano i corpi dalle superficie, le superficie dalle linee, e le linee dai punti riguardati come unità, e che è  perciò che ammettono  che i principii delle cose sono i numi',ri . Inoltre, come nota giustamente Zeller, è a una costruzione pitagorica del corpo simile a quella del Timeo che sembra alludere Aristotile, quando egli dice Met. che i Pitagorici non hanno determinato se è dalle superficie o in qualche altro modo che si è formato il primo corpo l'uno. È dunqu« probabile che nella sua costruzione drl'a grandezza  estesa Platone )ia seguilo i Pitagorici: ma per attribuire questa dottrina ai secondi non si hanno altrettante prove che per atiiibuirla al primo. In quanto alla dottrina che gli tlnienti sono i poliedri regolari, essa ò dovuta certamente ai Pitagorici. Tim.  e, £>mom., Senocrate /'r. TO Mullach, eco. Zeller Filos. dei Greci, Bitter Stor. della filos, ant. trad. frane,, eco. Ad Met. Deducendo il corpo  dallo spazio limìtito dalle unità, Platone ha evidentemente per iscopo di ridurre la materia al semplice spazio e di risolvere il reale nei numeri. A questa deduzione del corpo si riattacca la distinzione della forma e della materia, e la riduzione delle Idee alle sole forme delle cose, separaniole dalla materia. Nella nuova dottrina di Platon  le cose constano dunque di due elementi: l'Idea,  che rappresenta la forma, e lo spazio. Questo concetto, sviluppato con conseguenza, condurrebbe a spiegare con lo stesso processo con cui si spiega la grandezza estesa, o con dei processi analoghi, tutte le altre determinazioni del reale. Che Platone abbia l'atto eifeltivamente cosi, sarebbe arrischiato di affermarlo. Tuttavia alcune proposizioni platoniche potrebbero essere interpretate in  questo senso. Nel Timeo tutte le proprietà sensibili dei corpi salvo, s'intende, la grandezza e la figura sembrano riguardarsi come dei fenomeni  subbiettivi Però io non oserei attribuire recisamente a Platone quest'opinione; perchè Teofrasto dice che per le proposizioni del Timeo che riconducono le proprietà sensibili dei corpi alle impressioni dei nostri sensi, Platone si è messo in  contraddizione con la sua propria dottrina, che conserva a queste proprietà la loro natura obbiettiva: De sensu e/ sé'ns. Nel Ttmeastesfeo poi e tìqWq Le(jgi  i fatti mentali pare ohe vengano identificati col movimento.  //t'p^i  il pensiero e tutti gli atti dello spirito sono dei movimenti dell’ANIMA; Tim,, ecc., Arist. De Anima l'intelligenza è un movimento circolare; tim, le sensazioni sono movimenti. É l'opinione dei più risoluti tra i materialisti moderni di cui non mancano gli antecedenti nelle dottrine dei Fisici Arist. Mei. salvo che il movimento, con cui vengono identificati i fenomeni psichici, è attribuito da Platone alla sostanza anima: ma questa differenza non ha per noi alcuna importanza, perchè Platone riguarda la sostanza anima come una grandezza estesa.  Sa noi congiungiamo queste due dottrine, vale a dire la subhiettività delle qualità sensibili dei corpi e l'identità delle operazioni dello spirito col movimento, noi otteniamo supposto che queste dottrine siano appartenute realche rappresenta la materia. Ciò che importa sopfAtutto di notare per V intelligenza dèi motivi di questa dottrina è che sono propriamente le Idee che, in un senso stretto, vengono identificae ai numeri quantunque Platone dica anche, in un senso meno rigoroso, che le cose sono numeri, perchè IVlemento che si aggiunge alle Ide^ per costituire le cose essendo lo spazio, cioè il vuoto, tutto il realrt si risolve nelle Idee, e per conseguenza nei numeri. Ciò é tanto vero che Aristotile dà come carattere distintivo tra la dottrina dei numeri di Platone e quella dei Pitagorici che per quésti le cose constano di nunaerì e sono esne stesso numeri, ma per quello i numeri sono oltre Tiapac le cose o separati XwptaxoC o xsx<*>P^afIAévot dalle cose A questa distinzfonfe ne è legata un'altra, la quale implica anch'eséa che i numeri sono per Plaione le Idee; cioè che i numeri platonici sono monadici, vale a dire composti di vere unità, mentre le unità che conpongono i numeri pitagorici hanno grandezza. I numeri platonici sono moiiiidici, cioè composti di unità incorportee indivisibili, perchè le Idee costituiscono la soia forma delle co«p, e Testensione viene a queste dall'altro elemento, cioè dallo spazio: le unità che compongono i numeri pitagorici hanno grandezza, perchè questi numeri sono le cose mente a Platone una di queste auddci concezioni, dinnanzi a cui questo filosofo non era solito d'indietreggiare: cioè tutto il reale ridotto all'estensione e al movimento, e per conseguenza, mediante la costruzione della grandezza estesa per lo spazio limitato dalle unità, risoluto nel numero e lo spazio. Tim., Arist. M-.t, Phys,, eoo. Met, Met. De Coelo Mei, «te^se, i composti di forma e materia, e da ciò Aristotile ne conclude che le loro unità sono gli elementi di cai i corpi si compongono, e devono essere anche esse per conseguenza estese e corporee. Questa differenza fra i numeri di Piatone, e quelli dei Pitagorici, cioè che 1 primi sono le Fole forme delle cose e i secondi i composti di forma e di materia, spiega anche perchè Aristotile non estende a Platone Tobbiezione, ch'egli fa ripetutamente ai Pitagorici, che è impossibile che la grandezza estesa si componga di unità. Al numero seguente vedremo un'altra prova di questa proposizione, che sono le Idee, cioè le forme, che vengono riguardate propriamente come numeri: è la distinzione tra le Idee delle grandezze o grandezze ideali e le grandezze matematiche. Di questi due ordini di grandezze le prime sono numeri, perchè rappresentano delle semplici forme, le seconde no, perchè sono costituite dalle forme e dalla materia: per conseguenza le prime sono riguardate come Idee, ma le seconde quantunque siano anch'esse degli Universali come entità intermediarie tra le Idee e le cose. La dottrina che le Idee rappresentano le sole forme delle cosrt è evidentemente in contraddzione coi principii del sistema delle Idee. I termini di cui Platone si serve per designare Vlde& specie, genere, essenza, natura delle cose particolari-o ch'egli aggiunge al nome per indicare che questo si riferisce all'Idea aOxó, aOxò xae^aòxó, 6 Ioti; le prove con cui ne dimostra l'esistenza che quasi tutte si riassumono in questa proposizione: l'oggetto a cui si riferisce il concetto e la conoscenza generale è ridea; la relazione ch'egli stabilisce tra le Idee De Coelo, Met., e le cose che l'Idea è l'uno nei molti, il comune, l'universale, l'astratto xwptoxóv; tutti gli aspetti, in una parola, sotto cui può considerarsi la dottrina delle Idee, non sono che degli sviluppi diversi di questo principio fondamentale: l'Idea è il concetto generale realizzato. Ora il concetto di una cosa non rappresenta la sola forma, ma la cosa stessa, il composto di forma e materia, concepita d'una maniera astratta e generale. Se a questa considerazione ne aggiungiamo un'altra, cioè che la dottrina di una materia che deve aggiungersi alle Idee per costituire le cose non si trova che nel Timeo, e che questa dottrina, peri' identificazione della materia con lo spazio, suppone certamente la dottrina dei numeri, perché questa identificazione non si concepirebbe senza là costruzione del corporale per lo spazio e le uaità che lo limitano, noi veniamo naturalmente a questa conclusione che, sinché Platone non ha oltrepassato il semplice punto di vista del sistema delle Idee, l'Idea ha dovuto rappresentare tanto la forma quanto la materia, cioè, per servirei dell'espressone d'Aristotile, il sinolo, 9 che la separazione delle Idee dalla materia e la loro riduzione a delle semplici forme è una modificazione posteriore del sistema delle Idee, sotto l'influenza d'un motivo straniero all'origine di questo sistema e legato alle AQUINO (vedasi) Summa, /, Quaesi. Alcuni hanno creduto che la specie d'un essere naturale è solamente la forma, e che la materia non la parte della specie. Ma se fosse c^sl, nelle definizioni degli esseri naturali non dovrebbe entrare la materia. Per conseguenza bisogna dire invece che la materia è doppia, cioè la comune e la segnata o individuale: la comune come la carne e l'osso, l'individuale come questa carne e queste ossa. L'intelletto astrae dunque la specie dell'essere naturale dalla materia individuale, ma non dalla materia comune. Cosi astrae la specie dell'uomo da queste carni e queste ossa, che non riguardano la specie, ma sono part deirindividuo; ma non può astrarla dalle carni e dalle ossa. nuove dottrioe pitagoreggiauti. Qual^j ha potato essere questo motivo? La risposta ci è suggerita dal fatto che Platone riconduce ai numeri, non le cose stesse, immediatamente, ma le loro Idee. Platone crede che vi ha qualche cosa negli esseri che è irriduttibile al numero, e gli sembra più facile d'identificare ai numeri le forme astratte dalla materia, che gli esseri stessi, i composti di forma e di materia. Nel Filebo, che è il primo passo di Platone verso il pitagorismo, e in cui si trova il germe di tutt^ le dottrine pitagoieggianti posteriori, si distinguono nelle cose due elementi costitutivi, che corrispondono in certo modo ai numeri ideali e alla materia voglio dire, alla materia delle cose. Il uépa; del i^^Vcfòo non sono i numeri, ma dai rapporti numerici: numero rapporto a numero e misura rapporto a misura. Noi vediamo dunque che Platone non arriva alla dottrina pitagorica che gli esseri sono numeri che a traverso Tidea che la natura degli esseri è costituita da rapporti numerici. Nel JnlebOy il ^épag e TàTieipov non sono ancora identificati alla forma e alla materia: tuttavia il grave e l'acuto, il caldo e il freddo, ecc., che determinati da certi rapporti numerici, crstituiscoiio Tarmonia, le stagioni, ree, rappresentano qualche cosa come la materia, e i rapporti numerici che li determinano, qualche cosa come la forma. La materia-spazio del Timeo e degli (Jtypa^ a eóyfiaxa discende direttamente dalTànstpov del Filebo: è, come questo, l'elemento delle cose irriduttibile al numero. Solamente, nel Filebo quest'elemento è più comprensivo, rappresenta un più gran numero di determinazioni delle Supplera. Supplem. Vili, carte -loo, Còse; nel Timeo e negli i^pa^ct aóYJiaxa è ridotto a ùiì minimum: la differenza tra i due concetti misura il progresso di Platone verso la dottrina pitagorica dei numeri; ma Platone non fece m%i l'ultimo passo, quello d'identificare puramente e semplicemente, come i Pitagorici, le cose coi num »ri. Sembra dalle obbiezioni di Aristotile che ciò che s! trova di più strano nella dottrina dei Pitagorici era che l'estensione e la corporeità si facessero cons stero nel numero. Platone, da un lato, evita in parte qtie«ta difficoltà, facendo d jlla materia uri elemento delle co»<5 distinto dai numeri; e dall'altro lato, riconducendola materia allo spazio, risolve, come i Pitagorici, tutto il reale nei numeri. Separando la materia dai numeri, questi non venivano a rappresentare che le semplici forme. Ma ciò che ha dovuto essere il motivo preponderante per ricondurre ai numeri le forme delle cose piuttosto che le cose stesse, è che la forma sembra potersi ridurre ai rapporti numerici tra i sustrati materiali. Ariptotile infatti, nella sua polemica contro la dottrina delle Idee, confuta il concetto che le Id^e sono numeri perche 1« forme delle coss consistono mn rapporti numerici delle parti componenti; e noi possiamo, per conseguenza, fare rimontire questo concetto allo stesso Platone. Ccriamente dire che le forme delle cose consistono in rapporti numerici non equivale a dire che queste forme sono numeri, cioè che tal forma è il numero due, tal altra il numero t'^e, ecc.: ma Platone trova nella prima di queste due proposizioni un'idèa media Arist. De Coelo Mei, Mei.-. per passare alla seconda. Questo passaggio, fondato sulla sostituzione tra due termini non equivalenti ma semplicemente analoghi, cioè i due concetti di rapporti numerici e di numeri f era senza dubbio un sofisma assai evidente: ma non era che con dei processi cosi poco legittimi che poteva arrivarsi al risultato che le cose sono numeri. Le considerazioni precedenti spiegano perchè non sono le cose stesse, ma le semplici forme delle cose, che vengono ridotte ai numeri: ma perchè le Idee vengono ridotte alle semplici forme delle cose? Evidentemente per identificarle ai numeri. Come spiegheremo in seguito, il risultato a cui tendono le speculazioni pitagoreggianti di Platone è l'identificazione delle sue proprie dottrine con quelle dplla filoso6a pitagorica. Per ottenere questo risultato si mettono in opera al tempo stesso due processi: Tuno è Tintroduzioue nel proprio sistema dei concetti più caratteristici del sistema pitagorico, e Taltro un'interpretazione forzata delle formule del sistema pitagorico per ritrovarvi i concetti più caratterlFtici del proprio sistema. Ora, da una parte, la proposizione generale della filosofìa pitagorica che gli es-teri Fono numeri, e le proposizioni particolari che ne fanno l'applicazione, cioè che Tuomo è un tal numero, un tal altro numero il cavallo, ecc., erano troppo caratteristiche, perchè Platone potesse non accogliere nel suo proprio sistema la stessa proposizione generale e delle proposizioni particolari, se non identiche, analoghp. Queste proposizioni, riferite agli esseri sensibili, non sono per Platone rigorosamente vere, perchè egli vede propriamente nei numeri, non le cose stesse, ma le forme delle cose. Ma nel sistema platonico esse non devono riferirsi agli esseri sensibili, ma alle Idee; perchè gli esseri sono per Platone le Idee, e una t)roposizione che parla dell'uomo, del CAVALLO HORSENESS, ecc. in generale, ha per oggetto Tldea dell'uomo, del CAVALLO HORSENESS, ecc. Cosi, riducendo le Idee a delle semplici forme che sono del resto il solo reale, perchè la materia non è che lo spazio Platone ottiene, da una parte, di far entrare nel suo proprio sistema le proposizioni pitagoriche relative alla identificazione delle cose coi numeri. Dall'altra parte, l'identificazione tra le Idee e i numori è un mezzo indispensabile per ricondurre le formule pitagoriche ai concetti proprii del sistema delle Idee. Attribuendo, com'egli fa è un punto che dimostreremo in seguito agli antichi filo^^ofi p'tagorici la dottrina delle Idee, Platone si fonda naturalmente sull'analogia tra questa dottrina e le dotitrine pitagoriche. Quest'analogia è doppia: primo, i numeri e le altre entità dei Pitagorici sono delle astrazioni realizzate come le Idee platoniche; secondo, i numeri pitagorici rappresentano, non la causa materiale o la motrice, come i principii degli altri filosofi anteriori a Platone, ma, come e Idee platoniche, la specie e il concetto. È dunque nella dottrina d»^i numeri che Platone crede di scoprire la dottrina delle Idee: ma se le Idee non fossero anche per lui identiche ai numeri, questa pretesa scoverta non raggiungerebbe il suo scopo, che è d'identificare la sua propria filosofia con quella dei Pitagorici, o piuttosto dei loro antichi predecessori. 11 legame della dottrina della materia, come un secondo elemento delle cose distinto e separato dalle Idee, con la dottrina dei numeri è dimostrato dalla identificazione della materia con lo spazio, perchè questa suppone la costruzione del corpo per lo spazio e i punti che lo limitano, concetto che evidentemente non poteva nascere che al punto di vista IfiS delle dottrine pitagoriche sui numeri. ciò si pi^rà obbiettare che Platone ha polnto, nel periodo anteriore a quello in cui seguiva le dottrine pitagoriche sai numeri, ammettere la separazione delle Idee dalla materia e questa come un principio distinto, senza ancora ricondurla allo spazio. Ma noi non troviamo né negli scritti di Platone né in quelli d'Aristotile alcuna traccia di una dottrina della materia come principio distinto diversa da quella del Timeo. Dalla lettura d'Aristotile risulta anzi chiaramente l'impressione eh'egli non conosce altra Per altro, che la costruzione della grandezza per i limiti eie spa210 racchiuso appartenga alle ultime speculazioni di Platone, é provato dalle contraddizioni di questa dotttrina coi principii della sua fìsica La costruzione piato nica non potrebln: applicarsi ad altre superficie che a del piani né ad altre linee che a delle rette, e per conseguenza essa suppone la dottrina dei corpusccli poliedrici. Ma questa dottrina richiede necessariamente l'ammissione del vuoto, perchè, come osserva Aristotile D^ Coeìo Vili. , due solidi solamente, cioè il cubo e la piramide, potrebbero riempire ccmpletamente lo spazio. Intanto Platone nega lesi-stenza del vuoto 7im, sSa-c,, Arist. De gen. De Coelo; e questo è uno dei punti fondamentali della sua fisica, come lo mostra sovratutto la teoria dell'impulsione circolare 7im., che ha in questa fisica un'importanza capi(lale, e che Piatone come gli altri filosofi antichi che negano il vuoto ammettere per ispiegare la possibilità del movimento senza il vuoto. Questa incoerenza dimostra che Platone non cominciò ad ammettere la dottrina dei corpi geometrici, e, per conseguenpa, la costruzione del corporale con cui essa è legata, che dopo che le sue idee generali sulla fisica si erano già fissate. Un'altra incoerenza non meno grave è la coesistenza nel Timeo della teoria dei quattro elementi con quella dei corpuscoli geometrici la qnale suppone che vi siano altrettanti elementi che poliedri regolari Più tardi Platone è più conseguente, e ammette coi Pitagorici un quinto elemento. Il carattere provvisorio della dottrina del 7im^o prova ch« la costruzione del corpo dallo spazio e i piani e, quindi, la dottrina della materia-spazio non possono datare da un'epoca molto anteriore a quella in cui fu scritto questo dialogo, nel quale tutti i critici si accordano a vedere una delle ultime composiiioui di Platone. forcmi doJto, dattrina pl^tQi^ca della mHt0rlaHr ben jKvtem della materia come entità sussistente per se stessa e distinta realmente dalla forma che quella che è stata esposta nel Timeo e in cui essa viene idtntiflcata allo spazio. Inoltre una vera materia cioè una materia covici In De gen. et corr,, stabilendo ì! principio che la materia è inseparabile dalle contrarietà il caldo e il freddo, il secco e l'umido e non vi ha una materia X^P^^^Q <lagji elementi, parla delie dottrine opposte a questo principio, e tutto ciò che dice di Platone si riferisce alla descrizione che vi ha nel Timeo della materia come massa informe, prima che essa venga, ricondotta allo tpasio Ció> poi che è scritto nel Timeo non ha niente di definito; poiché, né si dice chiararamente se quello che riceve tutto X^P^C^'Cat dagli elementi né si fa alcun uso di alcun principio tale, quantunque prima si sia detto che vi ha qualche cosa che serve di sustbato agli elementi come l'oro agli oggetti aurei. Siccome questa rappreseniaaione delia materia e in conraddiaione eoo la sua identificazione allo spaaip, Aristotile crede di viti dervi un accenno a un concetto distinto della materia, in cui essa verrebbe riguardata come un sustrato reale e non come un semplice spazio vuoto sustrato che, conformemente alle dottrino esposte nel Timeo, dovrebbe essere X^P^dagli elementi, ma che Platone non determina come tale, poiché egli invece non riconosce altra materia che lo spazio. Questo vago acc»nno del Timeo è tutto ciò che Aristotile trova nei concetti platonici di relativo a una materia X^P^^' inteso, a una materia X^P concepita come alcun che di reale e non come spazio vuoto. In Phys. dice: Perciò perchè lo spazia, pare l' intervallo della grandezza Platone dice nel Timeo che la infiteria e lo spazio sono lo stesso: infatti il partecipante e lo spazio sono una sola e stessa cosa. Quantunque ivi e in quelli che si dicono dogmi non scritti chiami il partecipante diversamente, pure egli stabili che esso è il luogo e lo spazio. E poi: Platone aviebhe dovuto dire perchè le Idee e i numeri non sono nello spazio, se il partecipante é lo spazio, sia che il partecipante sia il grande e piccolo, sia che esso sia la maicria. come scrisse nel Ttmeo; Aristotile non conosce dunque altre dottrine di Platone sulla materia, quale principio distinto dalle Idee e partecipante ad esse, che quella del Timeo e quella dei;li fiYP*9* 5ÓY|iaxa la quali TT" rispondente al concetto ordinarlo della corporeità separata dalle Idee sarebbe inconcepìbile nel sistema platonico. L'essere per Platone sono le Idee; qnindi egli non avrebbe potuto ammettere alcun che di reale che non si risolve in Idee. Nel Timeo può ancora chiamare le Idee Tessere, quantunque con esse coesista nelle cose un altro elemento, perchè quest'altro elemento non è che lo spazio vuoto. Tutto nel sistema di Platone deve essere ricondotto a dei concetti realizzati: nel mondo d^^lle entità platoniche i^n principio che non fosse un concetto realizzato sarebbe cosi strano, come lo sarebbe un concetto realizzato in mezzo agli esseri del nostro mondo, di noi che non ammettiamo che delle esistenze concrete. La materia spazio era conciliabile col sistema dei concetti realizzati, non solo perchè lo spazio non è niente di reale, ma anche per un altra ragione: è che lo Spazio può riguardarsi anch'esso come un concetto realizzato. Trattandosi dello Spazio, V Idea, cioè il concetto realizzato, non si distìngue dalla cosa stessa HORSE FREGE. L' Idea è V uno nei molt^ vale a dire è ciò che vi ha di comune in tutti i particolari che cadono sotto uno stesso concetto generale. Per conseguenza là dove non vi hanno molti, là dove un concetto non si riferisce che ad un solo particolare, la cosa e l’idea, T individuo e la specie, si confondono. Ciò non vuol dire che, se vi fossero Idee d»^gli oggetti concreti unici nella loro specie, quali il sole o la tTra dovrebbero esservene, secondo la definizione dell'Idea: la causa esemplare di ciò che vi ha di costante nella natura le Idee di questi oggetti non si distìnguenon sì distingue dalla prima, che perchè nel Timeo la materia non è ricondotta al Grande e Piccolo. Proclo in Parm, rebbero dagli oggetti stessi. Questi essendo sottoposti alla successione e al cangiamento, il molti è in essi rappresentato dalla moltiplicità dei loro stati successivi; e l'uno nei molti, cioè l'Idea, sarebbe per essi ciò che vi ha d'identico in questi stati successivi. Ma nello Spazio non vi ha né successione né cangiamento: per conseguenza siccome non vi ha che un oggetto unico che corri<4ponda al concetto dello Spazio vale a d<re dello spazio infinito, di cui tutti quelli che in un altro senso del termine Tchi amiamo spazi sono delle parti cosi la Idea dello Spazio e lo Spazio non fanno che una com sola. Perciò Platone, quantunque dica dello Spazio ch'esso è 1'oggetto di un concetto spurio perchè un concetto, nel senso stretto del termine, è la rappresentazione dell'uno nei molti pare lo chiama elòo<; e Yìvo^ . Ma trattandosi della materia voglio dire della vera materia, l'Idea, cioè il concetto realizzato, e la cosa sarebbero necessaiiamento distinte. Ora quale sarebbe, nell'ipotesi di una dottrina della materia diversa dallo spazio, la materia che Platone avrebbe riguardato come un principio distinto dalle Idee e ch'^ bisogna aggiungere ad esse per costituire le cose? La materia reale Si potrebbe dire che l'Idea dello spazio e lo spazio diflerirebl>e:0 in quanto la prima saiebbe, come le altre Idee, al di fuori del Unipo. Ma se si fa dell'astrazione spazio un'entità, non si è obbligati quando si pensa che vi hanno delle cose fuori del tt-mpo-ad ammettere che qm si'entità è nel tempo; né Platone dice mai che lo spazio di cui egli parla nel limeo, considerato in se stesso aùxò xaG'aOxó, sia sottoposto alla condizione del tempo, anzi implicitamente lo esclude, quando fa del tempo una cosa generata e dice che Vera e il satà non devono attribuirsi che alla genesi e al sensibile Tim. 7im, .r'- ù Udea della materia? Non avrebbe potuto essere (a materia reale, perchè tutto nel sistema platonico deve riduwj ad Idee, a concetti realizzati, e per conse^uenza egli avrebbe dovuto ammettere un Idea, un concetto realizzato, anche per questa materia, e allora il principio da cui e dalle Idee le cose verrebbero, sarebbe, non la materia reale, ma ridea della materia. Ma questo principio non ha potuto essere nemmeno Tldea della materia, perchè è evidente che il principio materiale è per Platone un'entità astratta si, ma non generale. Se fosse un'entità generale, non si identificherebbe con lo spazio. Piatene riguarda lo spazio come identico, non al concetto generale dellVstens one corporea realizzato, ma all'estensione reale dei corpi individuali. Questo carattere che distingue la materia delle cose dalle altre astrazioni realizzate del platonismo, di non essere cioè un'entità generale, fa che essa rappresenta, in <iue8to sistema, il principium individuationis. Non vi ha per noi niente di più vano che le discussioni degli scolastici sul principio d'individuazione. È che noi siamo nominalisti, e la ricerca del principio, cioè della causa, dell'individuazione suppone se essa ha un senso, che l'essere sia dapprima generale, e poi s'individualizzi in virtù di questo principio. La quisfone tanto agitata dagh scolast'ci era un legato del platonismo. La cosa individuale è costituita hi condo Platone da un elemento che essa ha in comune con altre cosp, cioè l'Idea, e da M.i, ecc. in cui e|,li riguarda, nel sistema platomco, la forna come equivalente al generale, e Usinolo cioè 1 composto della forma e della materia, come equivalente airindividuale-ciò che non farebbe, se la materia fosse anch'essa un'entità generale come la forma. Uh elemento che le è proprio e inoomutlicabile con aiti^ co -e, cioè la materia -^perchè la materia di un ijorpo, vale a dire lo spazio che esso occupa, è necessariamente distinta dalla materia di tutti gli altri corp^, e per tutte qut\ste materie individuali, cioè per tutte queste porzioni di materia o di sp>«zio, non vi ha un che di comune a cui esse si riducano, lo spazio o la materia non risolvendcisi per Platone, come le altre cose, in un'entità universale: ne segue che la materia spazio è nel siHiema platonico il principio alle cose dell'essere, come dicevano gli scolastici, incomunicabili y cioè dell'essere degl'individui e Lon delle entità comuni. Non è ds^qme da mettere in quistionc ch»^ la materia funga, nel sisteiua platonico, da principiujn individtéationis t la quisiioue che potrebbe farsi sarebbe al più se Platone l'ha e.<plic'itameute riguardata come tale, cioè se egli si è proposto effettivamente il problema della causa dell'individualità, dando a questo problema l'unica soluzione per lui possibile, e che era contenuta implicitamente nella dottrina dei due <lementi, l'uno generale e l'altro indi\iduale, di cui egli compone le cose. Ora a questa quistione dobbiamo rispondere affermativamente. Noi abbiamo visto infatti che, nel Timeo, la ragione per cui l'immagine dell'Idea esiste nello spazio è che essa deve esistere in qualche «Itra cosa, attaccandosi in qualche manieri aU'tsistenza, o non essere assolutamente niente; e che, nel 'spcsizione d'Aristotile, la materia è la ciiUsa dcila moltiplicità degli esseri. GRICE ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING. Si noti che Aristotile dà anche la materia come la causa deila inaici Suppleni. Supplemenco, carta t*m P^ tiplicità delle unità, e che, discutendo il sistema di Speusippo, suppone che sia una necessità per questo filosofo di spiegare, per il principio materiale, la moltitiplicità, tanto delle unità quanto dei punti che per Speusippo differiscono dalle unità: ciò prova che la materia non é solamente la causa per cui Tessere primitivo si scinde in una moltitudine di essenze generali, ma anche per cui ciascun'essenza generale si scinde in una moltitudine di esistenze particolari. La soluzione che Platone da al problema deirindividuazione era la stessa che poi si presenta immediatamente agli scolastici, quando si proposero la prima volta lo stesso problema. Il fatto non è casuale, perchè il realismo e il semi-realismo del medio evo si riattac»cano al platonismo, sia direttamente sia per i vestigi dei concetti platonici che si trovano in Aristotile. La dottrina d’AQUINO sul principio d'individuazione era una riproduzione della platonica, perchè essa si trova in germe in Aristotile, e questo germe era uscito da Platone. Aristotile adotta, come si sa, la dottrina platonica che le cose constano di due elementi, la forma e la materia, salvo che questi due elementi sono per Platone degli esseri reali e realmente distinti, mentre per Aristotile non sono che delle astrazioni mentali e non si distìnguono che logicamente. Aristotile riguarda anch'egli, all'esempio di Platone, la forma eldo^ SPECIES BOEZIO come l'oggetto del concetto generale della cosa, e perciò come l'elemento comune a tutta la specie, e la materia come l'elemento proprio e differenziale dell'individuo in altri termini questa mater'a TOTI TIDE GRICE CODE , che è l'uno dei due elementi in etti te spirito deco'npone la cosa, none per lui la materia comune, come l'alt' o elemento, la forma, è la forma comune, ma è la materia, come dice AQUINO, segnata o Individuale: per conseguenza l'opposizione tra l'elSog in se stesso e il sinodo, cioè il composto dell'elSog e della materia, equivale per Aristotile all'opposizione tra il generale e l'individuale. La distinzione della forma e della materia, per Aristotile, non è che logica: tuttavia come può vedersi in molti dei luoghi indicati nella nota precedente egli esprime spesso questa distinzione in termini più appropriati al realismo platonico che al proprio concettualismo, e, a prendere certi luoghi isolatamente, si direbbe che le sostanze seconde è cosi che veng^ono chiamate la forma e la materia siano per Aristotile delle sostanze nel senso stretto della parola, come la forme e la materia platoniche. Evidentemente Aristotile deve a Platone, non solo la distinzione tra elòo^ e materia, con le due funzioni diverse di elemento generale e di elemento individuale assegnate all'uno e alTalira, ma anche la forma troppo realista in cui egli presenta questa distinzione. È alla scuola di Platone che Aristotile ha appreso a trattare delle semplici astrazioni come degli esseri reali: inoltre i suoi Bcritci sono indirizzati a un pubblico che è stato anche Mei. AJci, Mei. De Coelo, ecc. Sono notevoli sovratutto i due ul imi luoghi: rultim> l'u 1'occasione della quistione sul principio d'individuazione; il pcnuUinio è più vicino ancora di questo e di qualsiasi altro luogo che io ricordi in Aristotile, alla dottrina di AQUINO, e, VU., 'il Sm kfla scuola di Platone, ed egli deve presentare i auoi ooinoetti nella forma più prontamente intellig:iblle e più accettabile per il pubblico per cui scrive. Gli scolastici, anche quelli che non sono francamente realisti, rincariscooo su questa tendenaa d'Aristotile a trattare dei meri concetti come realtà: di ìk le discussioni sul principio d’individuazione. Ora, la forma rappresentando per Aristotile Telemento generico, e la materia l'elemento proprio e differenziale dell'indi-idiwo, gl'interpreti più fedeli d'Aristotile non potevano trovave il i»riiicipio d'individuazione che nella materia. Può parere singolare che i veri realisti, cioè Scoto e 1 aioi, respingessero questa soluzione, quantunque la più vicina a quella di Platone, al quale essi erano i più vicini. Ma non vi ha in ciò niente di sorprendente, perchè una materia che non venga ricondotta a un'entità universale, è, come osservammo, in contradizione coi postulati fondamentali del sistema realista. Ora se si fa anche della materia un'entità universale, essa finisce di essere l'elemento proprio e incomunicabile dell'individuo, e diviene invece, come la riguardano gli scotisti, ciò che vi ha di più elevato nella scala della generalità. Prima di passare all'argomento del numero succes«ivo, aggiungiamo qualche osservazione sui rapporti della dottrina della materia delle cose con le dottrine dei Pitagorici. Questa dottrina, a parte la costruzione della grandezza estesa per lo spazio e i limiti, che non potremmo attribuire con sicurezza ai Pitagorici, poteva Hattaccarsi ai loro concetti sovrututto nei punti seguenti: tanto Platone quanto i Pitagorici riconducono i 7 I lo spazio air STistpov. La costruzione del corpo pf»r lo spazio e i limiti, e anche la decomposizione dello cose nei due elementi forma e materia potevano mettersi in rapporto colla dottrina pitagorica che le cose constano del népag e dello ànstpov. In fine, in certe proposizioni dei Pitagorici il concetto della materia sembra confuso con quello dello spazio. Le entità matematiche sono gli oggetti delle scienze matematiche, in altri termini i concetti, su cui volgono queste scienze, realizzati. Per sci^^nze matematiche bisogna intendere le matematiche pure, cioè l'aritmetica e la geometria, a per entità matematiche quindi i numeri e le grandezze geometriche le figure. In effetto Aristotile non parla mai di altre entità matematiche: di più egli esclude che Platone ne abbia ammesso delle altre, quando gli rimprovera come un'inconseguenza di non aver supposto delle entità simili, come per l'aritmetica e la geometria, anche per Tastro- Arist. Phjs. e Stob. indicati nella nota precedente e Zqììqt FU. ilei Greci. Mei., eco. Mei., eoo. Met,, eoo. 0 PVP maàti tìmiifssi nomia, la prospettiva, l’armonia, in una parola per le matematiche applicate. Le entità matematiche non sono che degli universali sostantilicati come tutte le altre entità della metafisica platonica: ma Platone le distingue dalle Idee, perchè le Idee, nel periodo pitagoreggiabte, sono i numeri ideali, ed egli non riconduce i concetti u>atematici a dei numeri ideali. Il carattere generale per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee, è che ve ne sono molte della stessa specie. L'Unità, U Diade, la Triade, ecc. ideale è una sola; ma vi ha un'infinità di unità, di diadi, di triadi ecc. matematiche Ciò vuol dire evidentemente che nei numeri in cui V’uno, il due, il tre, ecc. sono contenuti più volte, vi hanno altrettante unità, diadi, triadi, ecc. quante volttì bisogna ripetere l’uno, il due, il tre, ecc. per formare questi numeri, e che Platone riguarda tutte queste unità, diadi, triadi, ecc. come altrettante entità distinte. Cosi vi ha dapprima il numero due, poi T altro due che bisogna aggiungere a questo numero per avere il numero quattro, poi Taltro che bisogna aggiungere ancora per avere Jl numero sei, e cosi di seguito. Ciascuno di questi d^e è un'entità matematica: essi sono infiniti, perchè il numero aumenta sino all'infinito; sono della stessa specie, perchè un due non differisce da un altro. Ma questa moltitudine dì due Met, Arisi. Met., An. Pont,, eco. Fiat. Ifep. Fedone, ecc. M^t., ecc. Met,, ecc. Arisi. Met,. non possono essere tutti dei due che per la partecipazione comune ad un'essenza unica: questa è l'Idea del due, che non è altra cosa che il numero ideale Due, p. e. GRICE E STRAWSON, TRE: GRICE, STRAWSON, PEARS. Della stessa maniera le molte unità matematiche non sono tali che per la partecipazione dell'unica Unità ideale; le molte triadi, tetradi, ecc. matematiche, per la partecipazione dell'unica Triade, Tetrade, ecc. ideali. La Unità – GRICE --, la Diade – GRICE e STRAWSON -- , la Triade – GRICE, STRAWSON, e PEARS --, ecc. ideali, in quanto sono le essenze comuni di tutte le unità, le diadi, le triadi, ecc. particolari, sono chiamate l'Unità stessa aùxi^ -- IL CAVALLO ESTESSO HORSENESS, la Diade stessa, la Triade stessa; e perchè è da esse che procedono le molte unità, diadi, triadi, ecc. particolari per la relazione dì anteriorità e posteriorità che vi ha tra il generale e il particolare sono anche chiamate ìsi prima unità, la prima diade, la prima triade, ecc. Tra i numeri ideali e i numeri matematici non vi ha dunque, al fondo, che il rapporto che corre tra le Idee generiche e le Idee specifiche: ma Platone nega ai numeri matematici il nome d'Idee e di Specie, perchè questi nomi, nel periodo pitagoreggiante, non vengono attribuiti che ai numeri ideali. Per ispiegare come nei numeri ideali non ve ne hanno molti della stessa specie, egualmente che nei numeri matematici, Platone mette innanzi un'altra differenza fra le due specie di numeri: è che i numeri matematici sono comhinabiliy cioè si addizionano fra di loro – 7 + 5 = 12, ma i numeri Met., ecc. Mei, ecc. Met. iae ideali sono inconibinabili, cioè non si addizionano fra di loro. Cosi un numero ideale non può riguardarsi, del pari che un numero matematico, come composto dei numeri più piccoli in cui può decomporsi KANT; e per conseguenza, nei numeri ideali in cui il due, il tre, ecc. sono contenuti più volle, non possono distinguersi altrettante Diadi, Triadi, ecc., e considerarsi quali entità per sé come avviene nei numeri matematici. Alla quistione perchè i numeri ideali siano incombinabili Platone risponde che l'addizione suppone l'omogeneità del'e unità che si addizionano, ma dei numeri ideali distinti costituiscono delle specie differenti, e per conseguenza le unità di un numero non sono omogenee con quelle di un altro. Met., ecc. Infatti, se il numero minore fosse una parte del numero maggiore, l'Idea rappresentata dall'uno sarebbe una parte dell'Idea rappresentata dall'altro. P. e. se il Tre fosse una parte del Quattro, e il primo rappresentasse 1'Idea dell'uomo e il secondo quella del CAVALLO – CENTAURO --, PIdea dell'uomo sarebbe una parte di quella del oavallo Arist. Met., ecc. L'obbiezione contenuta è diretta contro la dottrina di Xenoerate, che identificando il numero ideale col matematico, oglìeva necessariamente a quello il carattere per cui Platone lo aveva distinto da questo, e lo fa combinabile. Aristotile Met, accenna anche ad un'altra ragione, per cui, nei numeri ideali, il minore non potrebbe riguardarsi come una parte del maggiore. È che in questo caso sarebbe impossibile la generazione dei numeri quale l'ammette Platone. Se p. e. il Due ideale fosse una parte del Quattro, questo nascerebbe per l'aggiunzione di due altre unità a quelle del Due: ma allora, per generare il Quattro, non dovrebbe rendersi conto ohe dell'origine dello due nuove unità soltanto, e per conseguenza esso non potrebbe generarsi dalla moltiplicazione del Due per la Dualità indefinita. indicati nella nota penultima, e inoltro A/W., eoo. Le entità geometriche sono pure molte ed infinite quelle della stessa specie, come i numeri matematici. – UN QUADRATO HA TRE LATI -- Platone ammette due classi di entità pei concetti delle grandezze, come per quelli dei numeri: le grandezze matematiche e le Idee di queste grandezze. Le grandezze matematiche che sono anch'esse degli universali sostantificati non sono delle semplici forme come le Idee, ma contengono una materia identica, al fondo, alla materia delle cose, cioè allo spazio, poiché non è altro che le dimensioni dello spazio generalmente considerate; per conseguenza, siccome il numero non rappresenta che delle pure forme, esse non vengono identificate a dei numeri. La materia delle linee si chiama W Lungo e Corto' quella dei piani il Largo e Stretto quella dei solidi VAlto e Basso: queste sono delle forme del Grande e Piccolo Dualità indefinita. Cosi nella Dualità indefinita Platone confonde tre concetti differenti, facendola servire al tempo stesso da materia delle Idee, da materia delle cose e da materia delle grandezza matematiche. Questo per Telemento materiale: in quanto all'elemento formale l'elSoc, le grandezze matematiche lo ricevono dai numeri ideali. Le linee vcn Met,, eco. Mei., ecc. oltre indicati nella nota seguente, quelli che indicheremo in seguito in cui le entità matematiche vengono date come intermediarie tra le Idee e i sensibili; ai quali aggiungeremo anche quegli altri in cui Aristotile riguarda le grandezze come posteriori ai numeri ideali o, ciò che è lo stesso, come procedenti da essi Met., ecc.; e in cui dà le Idee come specie, non solo dei sensibili, ma anche delle entità matematiche Mei. A'IU. Vili, ecc., e come cause tanto dei primi quanto delle seconde Met,| eoo. li Ém m gono dal numero ideale Due e dal Lungo e Corto; i piani dal Tre e dal Largo e Stretto; i solidi dal Quattro e dall'Alto e Basso a questi numeri Platone ad un'altra epoca o alcuni dei suoi discepoli sembrano averne sostituiti degli altri; ma ciò non ha per noi alcun'importanza. Il Due ideale dà dunque l'elSo alle linee, il Tre ai piani, il Quattro ai solidi; o, ciò che vale lo stesso, il Due ideale è Velòo(; generale delle linee, il Tre dei piani, il Quattro dei solidi. Ma quantunque Platone chiami questi numeri 1'elòog della linea, del piano e del solido, egli non vuole che si dicano la linea stessa, il piano stesso e il solido stesso: ciò ò evidentemente Arisi. Met. De an., Ps. Aless. in Mct., ecc. Met. L'autore dell'P:puw. sembra riguardare 1'otto come il numero del solido e conseguentemente il quattro come quello del piano. Ps. Aless. in Met. Arisi. Met., De an., ecc. Met. In questo luogo Aristotile distingue due scuole platoniche: l'una riconduce tutti i concetti, anche quelli delle grandezze, alle semplici forme, e per questa il Due ò la linea stessa è la scuola di Xenocrate, che sopprime la distinzione delle entità matematiche dalle Idee, e risolve per conseguenza in numeri ideali anche le grandezze Supplem.- l'altra sono i platonici strettamente ortodossi non ammette che i numeri ideali rappresentino le grandezze stesse, ma solamente il loro elemento formale, e per questa l'sISog della linea, cioè il Due, differisce, per conseguenza, daUa linea stessa È certamente per questa distinzione tra i numeri della linea, del piano e del solido e la linea, il piano e il solido stessi, che Aristotih> domanda se si deve ammettere o no che questi numeri siano delle Idee Met. Ma non può esservi alcun dubbio che i Platonici non li considerassero effettivamente come tali: ciò risulta chiaramente dai indicati nelle note precedenti, ei è incluso nella proposizione di cui in seguito, che le entità matematiche sono intermediarie perchè essi rappresentano la sola forma della linea, del piano e del solido, e non le cose stesse, vale a dire la forma congiunta alla materia. Il numero della linea, del piano e del solido erano i soli numeri ideali, e per conseguenza, le sole Idee, che Platone ammette per le grandezze: e in effetto, queste Idee erano riguardate come le specie, nel senso moderno del termino, delle grandezze matematiche; quantunque tra le une e le altre, piuttosto che il rapporto tra specie ed individui, vi fosse in realtà quello tra generi e specie. Oltre alle grandezze matematiche, ci si parla anche dì un altro genere di grandezze, che Aristotile distingue con la designazione di jwsterlori ai numeri jisxà toò^ àpt0|ioóc Me/. -) o jyosteriori alle Idee jjLSxà xàc; Laéas--. Alessandro d'Afrodisia ad Met. ci spiega che queste grandezze erano la Linea stessa, il Piano stesso e il Solido stesso, che Platone riguarda come i principii da cui procedono le linee, i piani e i solidi matematici, e che, come questi, tra le Idee e le cose, le Idee, tra cui e le grandezze reali tramezzano le grandezze matematiche, non potendo essere ehe i numeri da cui queste procedono e che ne rappresentano l'SiSo^. Del resto questi numeri sono chiamati Idee dallo stesso Aristotile nelle parole che seguono immediatamente: questi che a questo modo riattaccano le entità matematiche alle Idee f,; qui la parola tSéat riferendosi evidentemente ai numeri da cui derivano le grandezze matematiche, dei quali sopra ha parlato. Arist. 3/é^/.l. , Ps. Aless in MetA.XU.ìX. ecc. Arist. Met. Se Platone dice che delle grandezze matematiche ve ne hanno molte della stessa specie, è appunto perchè considera l'siSo^ della linea, del piano, del solido come la specie, nel senso stretto, delle linee, dei piani, dei solidi mAtematioi. Mti tm egli dìstitigtieya dai numeri ideali. Naturalmente la Linea, il Piano e il Solido stessi differivano dalle Idee numeri ideali della linea, del piano e del solido, in ciò, che queste erano le semplici forme, mentre essi comprendeno anche la materia. La Linea stessa era Vslòo<; della linea il numero ideale Due congiunto col Lungo e Corto; il Piano stesso V’el8og del piano il Tre congiunto col Largo e Stretto; il Solido stesso VBlòo^àeì solido il Quattro congiunto eoa TAIto e Ba«so. Per conci Questa spiegazione presenta, a dir vero, una difficoltà, ed è ohe Aristotile parla Met., non di una linea, un piano e un solido, AL SINGOLARE, ma di linee, piani e solidi, AL PLURALE. Tuttavia noi dobbiamo accettarla, perchè essa ci permette di coordinare d'una maniera coerente la dottrina a cui allude Aristotile, all'insieme delle dottrine platoniche sulle entità matematiche. Per conciliare la ipiegaziono d'Alessandro col testo d'Aristotile, non abbiamo bisogno di supporre un'innovazioae di alcuni discepoli, che avrebbero aggiunto alla Linea, Piano e Solido in sé di Platone altre entità dello stesso ordine, alle quali le parole d'Aristotile avrebbero potuto egualmente applicarsi: basta di ammettere che questi intende discutere la dottrina, a cui allude, nel suo oouoetto essenziale, cioè la distinzione tra le grandezze fisxi TOÒ^ aptOfiOÓg e le matematiche, anziché nella forma accidentale ohe Platone ha dato a questo concetto Non è senza ragione se di grandezze fiexà TOÙ^ àpi0|JLOÓC Platone ne ammette queste tre solo: A ohe di esse non potrebbe esservene che una per ciascun'Idea delle grandezze e per ciascuna forma del Grande e Piccolo quale materia delle grandezze; ognuna di esse non essendo, come diciamo in séguito, che un'Idea di grandezza e la forma corrispondente del Grande e Piccolo, pensate, non saparatamente, ma insieme. Ma Aristolile pare non comprendere ciò, perchè inclinato, com'egli è, all'interpretazione trascendoit aliata del sirtema delle Idee, sembra supporre ohe queste entità siano separate dalle loro ldee; e perciò crede arbitrario ohe se ne ammettano di pih o di meno. Quando Aristotile parla della provenienza delle grandezze dalla materia il Lungo e Corto, ecc., egli usa le espressioni gene seguenza, ammettendo una linea, un piano e un solido in se stessi, distinti dagli sISyj della linea, del piano e del soliJo, Platone non introduce delle nuove entità oltre questi eTSyj e la materia: la Linea stessa non è una terza cosa che si ag^iung^e airsISog della linea e alla sua materia; ma non è altro che queste due cose, pensate, non a parte, ma congiuntamente. Questo ci fa comprendere perché, quantunque la linea, il piano e il solido in sè gi distinguano dalle Idee e dalle grandezze matematiche, pure Platone non riconosce che due generi di entità, le Idee e \oi entità matematiche; e infatti quando Aristolile parla dei geneii di entità ammes-e dalla scuola platonica e spesso certamente dà la sua enumerazione come completa egli non fa menzione che di questi due soli. In Met. fa l'obbiezione che nella classazion»^ platonica degli essfTÌ non vi ha alcun posto per le grandezze |jisxà xoò^ àptGfjtoóg, non potendo esse collocarsi né tra le Idee, né tr i le entità matematiche o intt^rmediarìe, né tra i sensibili le tre sole classi ammesse, da Platone. In questo stesso luogo obbietta pure a Platone che egli non ha spivigato Torigine di queste grandezze: questi non l'ha fatto, perché la loro esistenza non segna un nuovo passo nello sviluppo degli esseri, fiche: le grandezze, le linee, le su[)3rficie, i solidi, o anche: la grandezza, la linea, la superficie, il solido, AL SINGOLAREa Met,; per conseguenza ciò i^he egli dice deve applicarsi a tutte le grandezze e non alle sole matematiche, quindi anche alla Linea, alla Superficie e al Solido stessi. Del resto Alessandro d'Afrodisia dà esplicitamente come principio di questi il Lungo e Corto, il Largo e Stretto e l'Alto e Basso. Met., eoe. mtt noTi essendo esse altra cosa che le loro Idee e la materia; ma Aristotile, per la sua propensione air interpretazione trascendentalista, suppone che siano qualche cosa di nuovo, e rimprova quindi a Platone di non avere indicato per queste entità, come per le altre, il processo secondo cui si producono. L'esistenza equivoca dello grandezze lexà xoò? àptOiioóc quali entità distinte ci fa pure comprendere il fatto che Aristotile non ne parla che in qualche luogo isolato oltre i indicati, in De an,, in cui la prima lunghezza, larghezza e profondità pare che denotino la linea, la superficie e il solido in sé, e che e^li anche talvolta per le espressioni generiche /(? grandezze, le lunghezze, le superficie, i solidi, non intende senza dubbio designare che le grandezze matematiche. La linea, il piano e il solido iu sé non sono compresi tra le grandezze matematiche propriamente dette cioè tra quelle che, come diremo in seguito, Platone fa intermediarie tra le Idee e le cose, perchè queste non sono che le specie ultime dei generi linea, piauo e solido. Platone non ammette df lU, e itila per i concetti generici delle fijiure p. e. del poligono o del poliedro, ma solo per quelli delle figure particolari p. e. del triangolo, del quadrato, del cubo, à AV ottaedro. C'ò è senza Mei. nr. r. i5 ofr. i. i-iu. e i. ni. s-ii. Come risalta da Mei,, in cai j' attribuisce ai partigiani delle Mee l'opiaiona cbe non vi ha oXian numero generico oltre 7^2C,o:c la specie dei numeri né alcuna figura generica oltre le sp3CÌ9 delle figura. Lo stesso può desumersi da uà altro luocro, in cui alla dottrina dell'esistenza delle Idee oltre le entità miitcmatiche e i sensibili si dfi per ragione che, se esistessero la sol 3 entità matematiche, i loro principii non sarebbero finiti di numero, ma solo di specie. Se tra le entità matematiche vi fossero anche i concetti generici e non solamente gli spedubbio perchè, se tra le entità geometriche fossero anche rappresentati i concetti generici, egli non potrebbe riguardare l'sISog della linea, del piano e del solido come le specie nel senso stretto, cioè come le specie infime delle linee, dei piani e dei solidi matematici, e dire che queste linee, questi piani e questi solidi sono tutti della stessa specie. Queste proposizioni suppongono che tra le grandezze mAtematiche e le loro Idee corra lo stesso rapporto che tra gì' individui e le loro Idee specifiche: perciò le grandezze matematiche devono essere tra di loro, non subordinate nel grado di generalità, ma tutte cifioi, i principii di queste entità, anche se non si ammettessero che esse sole, sarebbero finiti di numero, non semplicemente di specie perchè è il generale, nel sistema platonico, che è il principio. Quest'esclusione dei concetti generici dei numeri e delle figure dal rango di entità sussistenti per se stesse è fondata su quest'argomento capzioso: che nelle cose in cui vi ha anteriorità e posteriorità cioè che formano una serie i cui termini si seguono con un ordine determinato il comune non è st^jaarabt/e x^ptOTÓv, perchè, se lo fosse, esso sarebbe anteriore a tutti i termini della serie, anche al primo, e per conseguenza vi sarebbe qualche cosa prima della prima Kth, End. Met. ed Klh, Nic. Il sofisma volge sul doppio senso dei termini anteriore e p'isteriore, i quali ora significano la successione dei termini coordinati di una SERIE (p. e. quella dei numeri o dei poligoni – O TIPI DI ANIME GRICE, ora la subordinazione dei concetti secondo il grado della generalità con le altre idee che nella filosofia platonica sono associate a questa subordinazione. Il motivo realo per cui Platone non ha obbiettivato i concetti generici delle figure, ò quello che diciamo in seguito. In quanto a quelli dei numeri, il motivo è ugualmente chiaro: è che facendo un'entità del concello generale di numero e di ogni altro dei concetti a cui i numeri particolari sono subordinali, queste entità o dovrebbero illogicamente identificarsi con certi numeri particolari, o dovrebbero porsi anteriori ai numeri particolari, che cesserebbero cosi di essere i primi di lutti gli esseri, co.ne esige necessariamente la loro identificazione con le Idee. sac coordioate, come grindividui, e tra di esse e le loro Idee non deve esservi alcuna entità di una generalità media, come non ve ne ha tra gì'individui e loro Idee specifiche. In conclusione, ciò che vi ha di particolare nella dottrina delle entità matematiche si riduce in sostanza, per quel che concerne le grandezze geometriche, a non elevare al rango d'Idee, vale a dire di numeri ideali, che le forme dei generi supremi di queste grandezze, cioè della lioea, del piano e del solido in generale: in quanto al piani, ai solidi è alle linee particolari, i loro concetti vengono bensì realizzati, ma non sono ridotti a delle semplici forme, e per conseguenza non si fanno rappresentare da numeri ideali, e se ne fa una classe di entità distinte dalle Idee, che insieme ai numeri matematici vengono ^'esignate col nome di entità matematiche. Cosi quando Platone dico che delle entità che sono l'oggetto della gecmetriu ve n hanno molte della stessa specie, tutto ciò che vi ha di chiaro nel significato di questa proposizione è che non vi ha che una Specie, cioè un'Idea unica, per tutte le linee, una per tutti i piani, una per tutti i solidi, lldea della linea, del piano del solido; e che le linee, i piani, i solidi particolari, studiati dalla giometria, non sono riguardati come Idee. E evidentemente un'inconseguenza, come gli rimprova Aristotile, di non riconoscere nelle diverse figure geometriche altrettante specie distinte: ma siccome le Idee non sono, nel periodo pitagoroggiante, che i numeri ideali, e queste figure non vengono ricondotte a dei numeri, cosi Platone non può vedere in esse delle Idee, e quindi nemmeno delle specie. Le entità matematiche erano dette dai Platonici in Mei. termediarie fra le Idee i sensibili. Ciò si spiega perfettamente per quello che abbiamo detto. Le grandezze matematiche sono intermediarie tra le Idee delle grandezze e le grandezze sensibili, perchè tramezzano, per il loro grado di generalità, tra le une e le altre: sono superordinate alle sensibili, che sono particolari, mentre esse sone generali; e subordinate alle Idee, che sono più generali ancora di esse. Della stessa maniera i numeri matematici tramezzano tra i numeri Idee e i numeri fenomeni. Di più, siccome tra il generale e il particolare vi ha, nella metafisica platonica, il rapporto di principio e cosa derivata (anteriorità e posteriorità), cosi le entità matematiche tramezzano tra le Idee e i sensibili anche sotto un altro rapporto: le grandezze e i numeri matematici essendo subordinati in generalità alle Idee delle grandezze e dei numeri, essi procedono da quelle sono posteriori alle Idee delle grandezze e ai numeri ideali; ed essendo superordinati in generalità alle grandezze e i numeri fenomeni, sono i principii da cui questi pròcedono sono anteriori alle grandezze e i numeri fenomeni. Órinterpreti trascendentalisti danno un' altra spiegazione del posto d'intermediarie tra le Idee e i sensibili, che Platone assegna a queste entità. Secondo questi interpreti, le entità intermediarie sarebbero, per Platone, le Idee nel loro rapporto colla materia, cioè come leggi del mondo sensibile. Platone avrebbe cercati questi intermediari fra le Idee e le cose, perchè, le Idee trascendenti essendo incapaci di esercitare direttamente un'elficienza causale sui fenomeni, vi era bisogno, Mei., ecc. ittaai \ nel suo sistema, di mediatori, per cui la loro influenza si comunica al mondo fenomenico, e li avrebbe trovati nelle entità matematiche, perchè le leggi del mondo fenomenico si riducevano per lui a dei rapporti matematici. Sarebbe superfluo per noi di discutere quest'interpretazione, dopo che abbiamo mostrato Tinsussistenza della base su cui essa è fondata, che è la trascendenza delle Idee. Ma essa solleva una quistione, che non possiamo lasciare senza risposta, cioè: Le entità matematiche sono semplicemente la realizzazione dei concetti matematici, e non rappresentano che le determinazioni delle cose studiate dalParitmitica e dalla geometria; ovvero il pitagorismo di Platone si manifesta anche direttamente in questa parte delle sue dottrine, e tutte le determinazioni delle cose, o, come dicono gì'interpreti di cui abbiamo parlato, le leggi del mondo fenomenico, sono state da lui ricondotte agli oggetti matematici? in modo che tutti gli attributi rìegli esseri vengano nel suo sistema rappresentati tre voUe: nel mondo delle Idee, nel mondo delle cose e in quello delle entità intermediarie? In altri termini, lo entità intermediarie tramezzano soltanto tra gli attributi matematici delle cose e le Idee di questi attributi, ovvero tra il mondo delle cose e il mondo delle Idee nella loro totalità? Per discutere d'una maniera completa questa quistione dovremmo occuparci del Ttépas del Fdebo, perchè è sulla pretesa identità di esso con le entità matematiche che è fondata sovratutto l'opinione che vede in queste entità le leggi del mondo sensibile: ma noi non lo potremmo qui senza fare altrove delle ripetizioni inutili, perchè questo è un argomento che in seguito dovremo trattare. Per ora basta di esaminare la testimoaianz\ d'Aristotile: quando verremo all'interpretazione del Tiépa^ del Filebo, vedremo che non vi sarà luogo a modificare il risultato a cai quest'esame ci avrà condotto. Ora dalla testimonianza d'Aristotile risulta chiaramente che le entità matematiche rappresentano, non tutte le determinazioni degli essf^ri come sarebbe, se esse fos.sero le Ideeo stesse nel loro rapporto con la materia, ma semplicemente le determinazioni matematiche cioè quelle che sono 1'oggetto delle matematiche pure. La dottrina delle entità matematiche consiste unicamente secondo Aristotile nella realizzazione dei concetti matematici. Cosi, quando egli si propone di esaminare questa dottrina platonica, la quistione è da lui formulata in questi termini: i numeri e le grandezze geometriche sono delle sostanze o no? e se sono delle sostanze, esistono negli stessi esseri sensibili o fuori di essi? La negativa della dottrina è per lui questa proposizione: le cose matematiche xà ixaOYjjxaxtxoc non sono separate x(optoxoc o X6xwpt0|iéva. K sul principio d, in cui la discute il più largamente, si limita a combattere la proposizione, attribuita ai platonici ortodossi, che i numeri e le grandezze geometriche e per numero evidentemente egli non intende in questa proposizione che r attributo comune di una collezione qualunque di oggetti sono separati dalie cose, e quella, attribuita ad alcuni dissidenti, che sono delle sostanze inesistenti nelle cose stesse, e a mostrare che i concetti matematici non rappresentano degli esseri sussistenti per se stessi, ma delle proprietà degli oggetti sensibili, che il matematico astrae xtopC^eO per la comodità del suo studio. Non vi ha mai in tutte le allusioni Mct. Mei. /v d Aristotile a questa parte del sistema platonico una parola che supponga che le altre determinazioni degli esseri aiano state ricondotte dai Platonici ai concetti matematici, e che le entità matematiche rappresentino, come i numeri ideali, le forme stesse e le leggi del mondo delle cose. Il contrario è anzi supposto nel modo più evidente in parecchi luoghi, in cui la dottrina dei numeri matematici è posta in confronto con quella dei numeri ideali e con la dottrina pitagorica. Nel 1. ì'ò^ e. 1 enunziando Targomento, dice che prima tratterà delle cose matematiche, senza aggiungere ad esse un'altra natura, per esempio se siano Idee o no, e se siano principii e sostanze degli esseri o no, ma dell^ cose matematiche semplicemente se esistano o non esistano e in qual moie esistano»; poi delle Idee a parte cioè a part^ dwlla tosi che le identifica coi numeri; e in terzo luogo dei numeri ideali. Il senso ddle parole è ceriamente coire si vede dalle materie trattate nel libro e dall'ordine m cui si seguono che prima discuterà la dottrina dellt^ entità matematiche, cioè quella che attribuisce bensì alle cose matematiche una esistenza reale ne fa delle sostanze, ma non aggiunge ad esse un'altra natura non fa loro rappresentare d^lle determinazioni d^gli esseri differenti dalle matematiche come fa la dottrina dei numeri ideali la quale riconduce a delle co^e matematiche, cioè ai numeri, le Idee e la sostanza d^^llc cose. Parlando delle diverse ipotesi metafìsiche sui numeri, dice: Ancora questi numeri possono essere o separati xwptaxou^ dalle cose l'ipofsi platonica, o non separ.it", ma negli stessi sensibili l'ipot^^si pitagorica, noi però della maniera che abbiamo visto precedentement-i cioè non secondo l'ipotesi, attribuita a dei platonici dissidenti, che i numeri matematici sono sostanze, ma inesistenti nelle cose stesse, ma in modo che gli esseri sensibili risultino dai numeri in essi inerenti. Qui la dottrina pitagorica sui numeri è distinta da quella dei platonici che ammettono i numeri matematici nelle cose stesse, perchè secondo quella le cose risultano dai numeri cioè i numeri costituiscono l'essenza delle cose, secondo questa no: ma se i numeri matematici non rappresentassero unicamente le determinazioni aritmetiche desrli esseri, ma fossero le Idee nel loro rapporto con la materia 0 le leggi e le forme del mondo fenomenico, questa distinzione non potrebbe farsi, perchè, in tal caso, anche pei platonici che ammettono i numeri matematici nelle cose stesse, queste risulterebbero dai numeri matematici: Si potrebbe pure intorno ai numeri insistere sulla quistione perché si debba credere alla loro esistenza. PiT chi ammette le Idee, forniscono qunlche causa agli es eri, s'è vero che ciascun numero è un'Idea, e che le Idee sono cause in qualsiasi modo agli altri esseri della loro esistenza; teoria che noi lasciamo ai suoi partigiani. Ma per chi non è di quest'opinione, perchè vede le difficoltà intorno alle Idee, e perciò non fa queste numeri, ma fa il numero matematico, perchè credere a' l'esistenza di questo numero, e in che esso è utile alle altre C3se? Né quelli infatti che lo ammettono dicono che questo numero sia causa di alcuna cosa solamente ne fanno una certa natura esistente per se stessa in altri termini non fanno altro che realizzare l'astrazione numero né si vede di che sia causa; in effetto, tutti i teoremi dell'aritmetica si riferiscono, come si è detto, ai sensibili vale a dire: tutta l'utilità che si attribuisce a questo numero è di spiegare la conoscenza, poiché si I pretende che le matematiche devono avere per oggetto delle entità generali; ma questa pretesa é vana, perchè queste scienze si riferiscono invece agli oggetti particolari Quelli che ammettono le Idee e dicono che esse SODO SONO numeri, astraendo tutto ciò che è uno nei molti, si sforzano di mostrare come e perche ciascuno di questi uni esista I Pitagorici, perchè loro sembra che molte affezioni dei numeri ineriscono nei sensibili, ammisero che le cose seno numeri, non però separati, ma che le cose stesse constano di numeri. E perchè ciò? perchè le affezioni dei numeri si trovano nell'armonia, nel cielo e in molte altre cose. Ma quelli che ammettono solamente V esistenza del numero matematico non possono dire niente di simile, secondo le loro ipotesi; ma si pi-etende che, senza questi condizione, la scienza dei numeri noti sarebbe possibile. Questo luogo afferma cosi esplicitamente che i numeri matematici sono la semplice sostantificazione degl’attributi matematici, e non costituiscono le leggi e le forme del reale né come inerenti nelle cose stesse, quali i numeri dei Pitagorici e i numeri ideali di Platone nell’interpretazione di G., né come cause esemplari, quali questi numeri neir interpretazione trascendentali-^ta, preferita da Aristotile che grinterpreti i quali vedono nelle entità matematiche le Idee nel loro rapporto con la materia non potrebbero che cercare di attenuarne la portata, osservando che qui Aristotile parla, non della dottrina stessa di Platone, ma di quella di un platonico dissidente a cui egli attribuisce di non ammettere altre entità che le matematiche, cioè di Speusippo. Ma anche quest'osservazione non potrebbe giovare molto alla loro tesi, poiché Aristotile riguarda evidentemente le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle di Platone; salvo che Speusippo non fa queste entità intermediarie fra le Idee e le cose e vede nei numeri matematici i primi di tutti gli esseri. Ma da questa differenza non potrebbe seguirne un divario nel significato delle entità matematiche tale da impedirci di applicare alla dottrina dei platonici in generale sui numeri matematici ciò che risulta, dal luogocitato, su quella di Speusippo. Anzi, i numeri matematici occupando nel sistema di Speusippo il posto che i numeri ideali occupavano in quello di Platone, Speusippo avrebbe avuto più motivi che Platone di dare ad essi un significato pitagorico, facendo loro rappresentare h^ leggi e le forme del mondo reale, e non le semplici determinazioni aritmetiche. E del resto questa stessa inutilità delle entità matematiche alle cose, che Aristotile, nel luogo citato e altrove, rimprovera a Speusippo, è da lui rimproverata anche ai platonici ortodossi, che fanno quest'entità intermediarie tra le Idee e le cose; mentre, so le entità intermediarie fossero le Idee nel loro rapporto con la materia^ esse avrebbero un'efficacia più reale delle Idee stesse trascendenti, e più utilità, per cnnseguenza, per la spiegazione delle cose. Questa differenza tra la dottrina dei numeri ideali e quella dei numeri matematici, e in generale, delle entità matematiche, cioè che la prima implica una teoria del reale alla pitagorica, riducendo ai numeri le forme e le leggi delle cose, mentre la seconda non è che la sostantificazione delle proprietà studiate dall'aritmetica Met,, ecc. Supplem. n. Mei. Met. lU. lo. e dalla gec nutria, muKa anche chiaramente dal rapporto che si stabilisce tra qiu ste entità e le scienze matematiche. Noi abbiamo visto che le entità matematiche sono gii og'getti a cui si riferiscono la scienza dei numeri e delle grandezze; e Aristotile assegna questo motivo alla dottrina, che la possibilità delle matematiche cioè delTaritraetica e della geometria suppone i numeri matematici e le grandezze come separabili xwptaxa, cioè come sostanze. Quelli che ammettono il numero matematico come separato xcoptaióv, è perchè le proposizioni non si riferiscono ai sensibili, ma intanto ciò che dicono è vero e persuade lo spirito, che credono che il numero sia, e sia separato xwptaxóv, e similmente le grandezze matematiche p. È un'applicazione della prova delle Idee dalle scienze. Evidentemente su questo fondamento non potrebbe stabilirsi una teoria secoado cui i numeri e le grandezze costituirebbero le leggi del mondo reale, ma semplicemente la realizzazione dei concetti dei numeri e delle granlezze. Ciò poi che si deve notare è che la funzione di essere gli oggetti a cui si riferiscono le scienze matematiche – L’ANIMA L’OGGETO DELLA PSICOLOGIA, viene assegnata alle entità matematiche in contrapposto ai numeri ideali Cosi Aristotile domanda s(5 bisogni ammettere altre sostanze oltre le sensibili, e se un solo genere o più di queste sostanzt^, come quelli che ammettono le Idee e le entità intermediarie, alle quali dicono riferirsi le scienze matematiche. E osserva che, se le Idee sono numeri, è necessario di stabilire un altro genere di numero, a cui si riferisca Taritmetìca, e tutte quelle entità che alcuni chiamano intermediarie. L'aritmetica non può riferirsi al nimero ideale, perchè esso rappre M^i, senta, non le semplici proprietà aritmetiche delle cose, ma le leggi e le forme del mondo real; e si riferisce al numero matematico, appunto perchè questo rappresenta, non le leggi e le forme del mondo reale, ma le semplici proprietà aritmetiche delle cose. Per conseguenza Aristotile dice dei filosofi che ammettono il solo numero matematico per i quali questo num^^ro non è, come per Platone, che la semplice sostantificazione degli attributi matematici ch'essi parlano delle cose matematiche matematicamente; mentre rimprovera a quelli che identificano il numero matematico coll'ideale e perciò gli fanno rappresentare dei concetti che oltrepassano la scienza dei numeri di parlare delle cose matematiche non matematicamente, e di sopprimere in realtà il numero matematico, perchè fanno delle supposizioni loro proprie e non matematiche. Un'altra prova dell'equivalenza dei numeri matematici dì Platone coi numeri di cui parla 1'aritmetica, si ha nei caratteri per cui egli distingue i numeri matematici e gl'ideali. Questi sono, come sappiamo, la combinabilità e V incombinabilità. Attribuendo l'una ai numeri matematici e l'altra ai numeri ideali, Platone evidentemente vuol significare che i primi sono i numeri stessi di cui sì tratta nell'aritmetica, mentre i secondi ne diflìeris^ono. È ciò che Aristotile ci indica in vari luoghi, p. e. in Met., in cui parla delle diverse ipotesi possibili sulle entità numeri, cosi: o i numeri sono differenti di specie, e qualsiasi unità è incombiriabile con qualsiasi altra; o tutte le unità sono combinabili l'una qualunque con un'altra qualunque, come dicono Mei. i Platonici essere 11 numero matematico nel nurnero matematico infatti nessuna unità differisce da un'altra è evidente che qui il numero matematico vuol dire, non le entità che Platone designa con questo nome, ma i numeri nel senso ordinario, di cui tratta la matematica; o le unità di ciascun numero sono combinabili tra loro – 7 + 5 = 12, ma incombinabili con quelle di cascun altro è l'ipotesi platonica sui numeri ideali; ovvero infine un numero è quale abbiamo detto il primo, un altro quale Tultimo, e un'altro quale dicono i matematici. Altrove Met. dice: Se le unità sono incombinabili, e incombinabili Tuna qualunque con un'altra qualunque, non è possibile che questo numero s'a il matematico; poiché il numero matematico è costituito di unità senza differenza, e tutto ciò che si dimostra di esso senza dubbio dai matematici gli conviene come tale. Non è sorprendente che Platone abbia visto nell'incombinabilità il carattere distintivo per eccellenza del numero ideale da quello a cui si riferisce Taritmetica, la combinabilità dei numeri a cui essa si riferisce essendo il postulato fondamentale di questa scienza, che ha appunto per oggetto la combinazione di questi numeri. Ma se i numeri matematici fossero le leggi dtl mondo sensibile e le Idee nel loro rapporto colla materia, essi dovrebbero essere incombinabili come gì'ideali: noi abbiamo visto infatti che questi sono ineombinabili,.perchè un'Idea non è una parte delle altre Idee; ora anche una legge della natura nalvo l'inerenza del generale nel particolare, che esiste pure nelle Idee non è una parte delle altre leggi della natura. lullne, il valore puramente aritmetico e geometrico delle entità matematiche è dimostrato da un'obbiezione che Aristotele fa ripetutamente alla dottrina. Per le stesse ragioni, egli dice, per cui vi hanno delle grandezze e dei numeri, intermediari tra gl'ideali e i sensibili, dovrebbero anche esservi un alro cielo ed altri astri oltre i sensibili e le loro Idee; e sim Imento delle entità intermediarie tra le Idee e i sensibili per gli oggetti dell'ottica GRICE WARNOCK VISVM e dell'armonia; e sensi ei oggetti dei sensi ed animali intermediari tra gl'ideali e i corruttibili; e una sanità intermediaria tra la sanità in sé e la sanità reale; e UN TERZO UOMO intermediario tra 1'uomo in sé e gli uomini particolari; e in generale per tutte le cose di cui vi hanno Idee dovrebbero esservi delle entità intermediarie tra le cose stesse e le loro Idee. È chiaro che quest'obbiezione suppone che le entità matematiche rappresentano, non tutte le determinazioni del reale, ma solo le matematiche cioè quelle studiate dall'aritmetica e la geometria, e che il loro titolo d'intermediarie significa che esse tramezzano, non tra le cose e le Idee nella loro totalità, ma tra gli attributi aritmetici e geometrici delle cose e le Idee di questi attributi. Se esse tramezzassero tra le cose e le Idee nella loro totalità, e fossero le Idee stesse come leggi del mondo sensibile, Aristotile non potrebbe rimproverare alla dottrina di non ammettere per le altre cose, come per le grandezze e i numeri, un che d'intermediario tra l'Idea e il fenomeno, poiché il mondo delle entità intermediarie sarebbe già, in quest'ipotesi, un'altra ripetizione del mondo delle cose, come quello delle Idee. Stabilito il significato puramente matematico delle entità intermediarie, possiamo passare ai motivi della dottrina. Il concetto che deve servirci di guida è la dipendenza di questa dottrina da quella dei numeri ideali. Met. Questa dipendenza ci è att'^sfcata da Aristotile. Eicordiamo il luogo citito di M^t, Se le Idee sono numeri, sarà necessario di apparecchiare un altro genere di numero circa cui V aritmetica, e tutte quelle entità che alcuni ch'amano interm'^diarie. La quistione si riduce dunque per noi a comprendere: perchè Platone ha distinto i numeri matematici cioè quelli che sono rogs:etto dell'artmetìca dai numeri ideali cioè da quelli con cui venivano identificate le Idee, e li ha loro subordinati come più particolari; e perchè non ha risoluto in numeri anche le grandezze geometriche come avrebbe dovuto seguire dal principio generale che gli esseri sono numeri, ma solo ls3 forme dei generi supremi di queste grandezze. La dottrina pitagorica dei numeri, rìg'damcnte interpretata, avrebbe certamente condotto a fare una cosa sola delle Idee numeri coi numeri aritmetici: è li in effetto che arriva Xenocrate, il filosofo che, tra i platonici pitagoreggianti, è il più vicino al pitagorismo genuino. Tuttavia non è sorprendente che Platone abbia indietreggiato dinnanzi a questa conseguenza logica dellafusione del sistema del'e Idee coi concetti pitagorici. Anche tra i veri Pitagorici, pochi verisimilmente avrebbero acconsentito a prendere la formula che le cose sino numeri nel senso che gli esseri non sono altra cosa che i loro attributi aritmetici, che, per esempio, quando si dice che la giustizia è il numero quattro, il matrimonio il numero cinque, L’ANIMA IL NUMERO SEI, ciò voleva dire precisamente che la giùstizia è identica perfettamente all'attributo comune a una collezione qualunque di quattro oggetti, il matrimonio di cinque, l'auima di sei. La sostantificazione platonica degli universali veniva poi al accrescere le assurdità di una tale lnterpretazione. Se, p. e., Tldea deiruomo è il numero tre, bisogna intendere per ciò che il complesso degli attributi comuni a tutti gli uomini, considerato come uno e lo stesso in tutti, è Tattributo comune a tutti i gruppi di tre oggetti, considerato anch'esso come uno e lo stesso in tutti? o semplicemente che V entità chiamata il Tre in sé rappresenta al tempo stesso l'Idea dell'uomo e la esenza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, quantunque queste siano due cose per se stesse distinte? Ma in questo secondo caso, per la stessa ragione per cui si fa un'entità distinta dell'Idea dell'uomo, dovrebbe anche farsi un'enttà distinta dell'essenza comune di tutti i gruppi di tre oggetti, cioè del tre matematico, l'esigenza necessaria del sistema delle Idee essendo che ciascun universale venga separato e se ne faccia un'entità esistente per se stessa. Noi comprendiamo dunque perfettamente la necessità, in cui Platone si è trovato, di ricorrere all'ipotesi poco naturale di un altro numero distinto da quello che è l'oggetto dell'aritmetica. Senza dubbio, quando, dopo aver affermato che le cose sono numeri, si soggiunge che questi numeri non sono quelli con cui ha da fare l'aritmetica, la soc'ìnia proposizione ha tutta 1'aria di essere una sconfessione della prima; dei numeri differenti dalle determinazioni delle cose che studia l'aritmetica – NUMERICAL QUANTIFIERS THE THREE GRICES --, non essendo, a parlar propriamente, dei numeri. Cosi la distinzione tra i numeri ideali e i numeri matematici ci dà un'altra prova di un fatto, che noi abbiamo notato a proposito della riduzione ai numeri della sola forma delle cose, cioè che il pitagorismo di Platone non è andato sino ad accettare l'identificazione pura e semplice delle cose coi numeri che egli trova nelle formule pitagoriche. Ma l'allontanamento di Platone dai Pitagorici non t^ .r^-mt-jt^^. f ^Vtvl poteva esser tale da metterlo in aperta contraddizione con le loro proposizioni. È ciò le sarebbe avvenuto, se la distinzione del numero ideale dal matematico fosse assoluta, Qaando i Pitagorici rappresentavano le cose per dei numeri, identificano, almeno verbalmente, i concetti delle cose con quelli dei numeri: essi dicevano, p. e., il numero quattro è la giustizia, il sette il tempo opportuno, L’UNO LA MENTE, il due l'opinione; e questi concetti dei numeri, con cui quelli delle cose venivano identificati, non erano evidentemente per loro che i concetti stessi che i NOMI dei numeri esprimevano, quando designano le semplici determinazioni aritmetiche. Il quattroy il sette, il due non erano per loro dei TERMINI EQUIVOCI – GRICE ON BETWEEN -- , quando indicano i numeri della giustizia, del tempo opportuno e dell'opinione, e quando venivano impiegati semplicemente per denotare i gruppi di quattro, di sette e di due oggetti. I GRUPPO DEI SEI AUSTIN HAMPSHIRE WOOZLEY AUSTIN’S THURSDAY EVENING MEETINGS AT ALL SOULS – I had been born on the wrong side of the tracks to attend. Grice. Per conseguenza i numeri ideali di Platone dovevano rappresentare i concetti astratti e generali dei numeri, a cui le stesse determinazioni aritmetiche erano subordinate; dovevano essere, in altri termini, i numeri in sé, le essenze dei numeri, per la cui partecipazione gli stessi numeri matematici sono chiamati uno, due, tre, ecc. Cosi Platone identifica – LA SCALA DI URMSON -- in un certo modo, nel tempo stesso che li distingue, ì numeri ideali e i numeri matematici. In eff'etto il rapporto che vi ha fra i due numeri, è quello di anteriorità e posteriorità ì numeri ideali, cioè quelli con cui egli identifica i concetti obbiettivati delle cose, sono i primi numeri, perchè il primo è l' in sé aùxó; i numeri matematici sono loro posteriori, perchè il partecipante è posteriore al PARTECIPATO – GRICE CIRCLE --: ora il posteriore non è chel'an Al, Afrod. in Arist. Met. terirre astesso, a un grado ulteriore di determinazione o di concretizzazione. Da questa relazione che Plarore stabilisce tra i numeri matematici e i numeri ideali segue V altro punto capitale della dottrina. Secondo i principii della dialettica platonica, 1'anteriore e IL PARTECIPATO è l'uno, il posteriore e il partecipante, il multiplo. Il separàbile x^pioTÓv è il comune, Vuno nei molti: ora Platone dai numeri matematici separa xwpCIJei le essenze stesse dei numeri i numeri ideali, per la cui partecipazione il due, il tre, il quattro, ecc. matematici sono chiamati due, tre, quattro, ecc.: per conseguenza il due, il tre, il quattro, ecc. ideali, in relazione al due, al tre, al quattro, ecc. matematica, da cui si separano, devono essere ciascuno Vuno nei molti. Di là la proposizione che dei numeri matematici vere hanno molti della stessa specie, cioè che vi ha una moltitudine di unità – THERE IS A NUMBER OF SHEEP IN THE FIED. REALLY? I SEE ONLY ONE --, di dualità, di trinità, ecc. matematiche, altrettante quante volte 1'uno, il due, il tre, ecc. si ripetono nel numero infinito. Non bisogna credere tuttavia che il numero ideale sia ciò che vi ha di comune nei molti numeri matematici ad esso subordinati; che l'Unità o la Duulità ideali siano alle unità o dualità matematiche ciò che la specie è agli individui o il genere alle specie. Se il numero ideale racchiudesse nella sua comprensione tutto ciò che vi ha di comune nei numeri matematici di cui esso è l'uno nei molti, la distinzione tra le due sorta di numeri non avrebbe più alcun siguificato; perchè in questo caso i numeri ideali non sarebbero che le essenze o i concetti generali dei numeri matematici. Il numero ideale comprende dunque, non la totalità delle note comuni ai numeri matematici subordinati, ma una parte solamente di queste note – AUSTIN FREGE -- -, non è il concetto comune dei numeri matematici, ma qualche cosa di più indeterminato. È ciò che Platone ci indica, quando fa deìVincombinibilità il carattere distintivo dei numeri matematici dai numeri ideali. Se i numeri ideali fossero i concetti comuni, nel senso stretto – GRICE NARROW BROAD ALLEGED SENSES OF “OR” -- , dei numeri matematici, essi dovrebbero essere combinabili come questi. Per Tincombinabilità del numeri ideali non bisogna iotendere la presenza in questi numeri d'un attributo positivo contrario a quello dei numeri matematici, cioè alla combinabilità, ma solo Tassenza di questo carattere dei numeri matematici. Essa significa dunque che, tra le NOTE – NOTA -- del numero matematico di cui deve farsi astrazione per concepire il numero ideale, vi ha la combinabilità; che questa è una determinazione nuova, che, nella concnHizzazione progressiva deir essire si aggiunge al numero ideale, per formare il numero matematico – GRICE TO THE MILL. Mill on numbers. Il pensiero di Platone è, al fondo, che il Secondo Aristotile. Platone avrebbe ammesso che le unità dei diversi numeri ideali sono dtJTeren^t fra di loro e non semplicemente non Identiche; e, per conseguenza, che questi numeri sono gli xxvix fuori degli altri, e non semplicemente che non sono contenuti zV^yxmvie^W – CONTENUTO PEACOCKE -- altri come 1 matematici vedi il. indicati nelle note a carta Ma, malgrado l'autorità di Aristotile, io non posso ammettere che Platone sia caduco in una contraddizione si evidente, qual è di fare dei numeri Ideali delle essenze di cui i numeri matematici partecipano, ed actribuire al tempo stesso ad essi dei caratteri positivi opposti a quelli dei numeri matematici. Il partecipato può, anzi deve, mancare di certi attributi del partecipante, perché esso è più astratto e questo più concreto; ma è impossibile che abbia degli attributi positivi contrarli, perchè non è che una parte della sua comprensione o NON DENOTAZIONE, MA CONNOTAZIONE. Nel sistema delle Idee, la negazione dell'identità non importa necessariamente l’atfermazione della differenza né la negazione della contenenza di una cosa in un'altra L’affermazione dell' esteriorità dell'una cosa all'altra. Per formarsi un concetto più astratto, bisogna escludere – DISIMPLICATE --certe note – DROP – DROP ENTAILMENT -- dei concetti più concreti in cui esso è compreso, ma questa esclusione non importa 1'inclusione di note positive contrarie. Ora le entità platoniche non sono che i concetti realizzata Platone può dunque negare di un'entità pia astratta certe de?numero su cui volge T aritmetica vale a dire ciò che noi chiamiamo numero non è che un caso particolare del numero; che i numeri in se stessi, essenze comuni delle Idee e dei numeri matematici, sono alcun che di uno e lo stesso nelle noe e negli altri, e di più generale» che le une e che gli altri; che vi ha, al di sotto delle difierenze, un'identità fondamentale tra le determinazioni aritmetiche e le forme degli esseri, e il punto di coincidenza in cui queste e quelle convergono e s'i dentificano, sono i numeri ideali. Semplicemente Platone non può dare espressamente le Idee cioè le forme degli esseri come V altro caso particolare del numero: la fusione del sstema delle Idee con la dottrina pitagorica dei numeri esige che le Idee siano identificate coi numeri in se stessi, non con un numero particolare; n^l secondo caso i concetti delle cose non sMdentificherebbero, terminazioni di un'altra entità più concreta in cui quella è compresa, senza intendere perciò affermare di essa delle determinazioni contrarie. Egli può, p, e., negare dell'animale in sé le note proprie dell'uomo, senza affermarne perciò quelle del bruto – THERE ARE ANGELS GRICE --; negare dell'essere in sé le note proprie del mosso, senza affermarne perciò quelle del quieto – NEGARE ESSISTENZA NELL’ALLUCINAZIONE DI HAMLET --. Senza dubbio è impossibile di concepire un animale che non è nò uomo né bruto – THERE ARE ANGELS GRICE --, un essere che non è né mosso né quieto – THE ROOT SQUARE OF FOUR -- , delle cose che non sono né identiche né differenti, né contenute l'una neiraltra né Tuna fuori dell'altra: ma io non pretendo che le entità platoniche siano concepibili. Il difetto dell'interpretazione d'Aristotile – WHO CANNOT SEE HORSENESS GRICE -- del sistema platonico – GRICE/CODE IZZING HAZZING ARISTOELIANISM PLATONISM -- è la sua tendenza a rappresentarsi, più che é possibile, le entità astratte del maestro sul modello delle cose sensibili e immaginabili: le Idee – GRICE MEINONG JUNGLE SQUARE TRIANGLE -- non sono, secondo lui, che dei sensibili eterni, come gli dei del volgare non sono che degli uomini eterni AJet. Di là la sua propensione –SANZIO LA STANZA LA SCUOLA D’ATENE -- all'interpretazione trascendentalista; di là il concepire, eh' egli fa, le Idee come delle forme immobili e inattive. Per un effetto della stessa tendenza, degli attributi indicanti la semplice assenza di certe determinazioni, sono intesi da lui come se significassero la presenza delle determinazioni contrarie. come nelle formule pitagoriche, coi concetti dei numeri, e inoltre i numeri -I«lee e i numeri aritmetici sarebbero due corse assolu'amenfe distìnte, ciò che la subordinazione dei numeri matematici agl'ideali ha appunto per rggetto di evitare. In quanto all'altra parte della nostra quistione, cioè perchè Platone non risolve in numeri anche le grandezze geometriche, nri vi abbiamo già dato una risposta assai ovvia: è che il numero ideale rappresenta la sola forma delle cose, menare le grandezze matematiche rappresentavano tanto la forma quanto la materia delle grandezze reali. Noi abbiamo visto infatti ch^ le grandf^zze matematiche si compongono d'un elJog che esse ricevono dai numeri ideali, e d'una materia che non è altra cosa che Testensione in lunghezza, in super-» ficie e in volume. Dall'altra parte abbiamo visto pure che il numero platonico si distingue dal numero pitagorico perchè monadico, e che questa distinzione significa che il numero pit«»gorico ha grandezza, vale a dire delle cose rappresenta anche l'estensione, mentre II numero platonico – L’AMORE PLATONICO L’AMORE SOCRATICO -- e senza grandezza, cioè rappresenta la forma separata dalla materia o dalT estensione termini equipollenti, perchè la materia delle cose, è per Platone lo spazio. Ma questa risposta che abbiamo data provoca naturalmente un'altra quistione: perchè Platone non ha ridotto le grandezze matematiche a delle semplici forme come gli altri concetti obbietivati della sua metafisica? Evidentemente Platone ritiene V elemento materia indispensabile a costituire il concetto della grandezza. L'Idea platonica rappresenta, è vero, la sola forma: ma di questa forma egli ne fa l'essenza stessa, il concetto completo della cosa. E ciò che risulta dai termini per cui egli designa le Idee, dalle prove con cui ne dimostrala esistenza, e in una parola da tutti i dati che abbiamo per determinare la natura dell'Idea platonica. Se questa non rappresenta il concetto nella sua integrità, Platone non le darebbe il nome stesso d^lla cosa, con Taggiunzione delle parole aOxó, oìoxt, ecc., che indicano appunto che l'Idea è l'attributo o l'insieme di attributi connotato dal nome – THE HORSE ITSELF – HORSENESS -- ; non la chiamerebbe il genere e la specie EQVVS de Saussure, l'essenza e la natura; non la riguarderebbe come l'oggetto a cui si riferisce il concetto di CAVALLO e la definizione – YOU NAME IT ; non direbbe che è l'universale – GRICE UNIVERSALS AND MEANING, l'uno nei molti – MULTIPLICITY GRICE, ecc. Anche per Aristotile, la cui dottrina sulla forma e la materia non è che la riproduzione di quella di Platone, salvo la differenza tra il concettualismo dell'uno e il realismo dell'altro – NOMINALISM Bete noire -- , l'elSo^ la forma equivale all'oùaCa o xò -zi y]v elvai – GRICE CODE ti to ti -- l'essenza e al Xóyoc il concetto. Se dunque l^ent'tà corrispondenti alle grandezze geometriche ne rappresentassero la sola forma, Platone dovrebbe ammettere che la forma – SPECIES EIDOS IDEA BOEZIO --, per se sola, esaurisce il concetto o l'essenza di queste grandezze. Ma sarebbe strano che l'essenza della grandezza nel senso che i logici danno alla parola essenza non fosse grandezza essa stessa poiché, non bisogna dimenticarlo, la differenza tra il numero platonico e il numero pitagorico è che questo ha grandezza e quello no; che l'attributo estensione SINONIMO GRICE STRAWSO, per Platone, di materia non entra nel concetto della forma geometrica, la cui definizione è: uà' estensione circoscritta. Senza dubbio, è anche strano che l'rstensione EXTENSIONALISM GRICE non faccia parte del concetto dell'uomo; del dente, dell'albero, del CAVALLO, e in una parola di tutti gli oggetti OBBLE estesi. Vi ha tuttavia tra gli oggetti che hanno grandezza e le grandezze in se stesse una differenza importante. Quando Platone sopprime l'attributo estensione INTENSIONALISM dal concetto delruomo, del dente o dell'albero, o DEL CAVLLO de Saussure ALBERO, egli può credere che ne V Il ' restì ancora qualche cosa, e chiamare quosto resto l'essenza dell'uomo, del dente, de'Talbero de Saussure --, del CAVALLO, perchè, oltre Testensione, la nozione di un oggetto esteso comprende tanti altri attributi: le altre qualità sensibili, le energie di cui è dotato, la funzione o lo scopo a cui è destinato -- METIER -- è sovratutto per quest'ultimo attributo che Platone definisce le cose TIGERS TIGERISE; ma se si toglie T» stensione dal concetto della grandezza geometrica, è evidente che non resta assolutamente niente, perchè una grandezza geometrica non é che una porzione limitata dell'estensione. Quest'impossibilità assoluta di dare per oggetto ai concetti delle grandezz», geometriche delle entità in cui l'attributo estensione non sia rappresentato, era un fatto di cui Platone aveva un'esperienza continua: la geometria che era una delle scieaze di cui egli si occupa con specialità essendo lo studio dei rapporti di misura delle grandezze estese – IL PI 3.14 DEL CIRCOLO --, come potrebbe questa scienza riferirsi ad oggetti senza estensione, e non suscettibili, per conseguenza, dì rapporti di misura? – CIRCONSFERENZA DI RADIO INFINITO – linea retta -- La dottrina sulle grandezze, come quella sui numeri matematici, è dunque un effetto dell'adesione incompleta che Platone fa alla dottrina pitflgorica dtii numeri: l'incoerenza di distinguere le grandezzf^ matematiche, quantunque entità universali anch'esse, dalle Idee non è che un aspetto della contraddizione insolubile in cui egli necessariamente s'inviluppa, riducendo ai numero la sola forma delle cose, mentre è in esso che n^ fa consistere l'essenza. Ma quantunque Piatone si rifiutasse a risolvere le grandezze in numeri, egli non puo tuttavia sottrarsi all'esigenza imperiosa della logica, che gl'impone, s'è vero che il reale consiste nel numero – cf. H. P. Grice on J. L. Austin, Frege, ARIMMETICA --, a ricondurre tutto al numeri ideali. Per conseguenza fgli fa risultare le grandezze dai nnmeri ideali che ne costituiscono le forme (sISyj) e dalla materia Dualità indefinita. Ora secondo i principii del sistema delle Idee, queste forme (sISyj) delle grandezze, che Platone rappresenta per dei numeri, devono essere necessariamente più elevate in generalità delle grandezze stese, cioè delle entità composte di forma e di materia e che egli chiama matematiche. Platone non può ad un concetto di grandezza far corrispondere al tempo stesso due entità: un'entità matematica, composta di forma e di materia, e una forma pura, rappresentata da un numero ideale. Ciò è perchè, nel sistema delle Idee, tra il più astratti e il più concreto, in altre parole, tra ciò che si separa xwptl^sxatj e ciò da cui si separa, vi ha la relaziona dell'universale al particolare, deWuno ai molfL Cosi, le entità rappresentanti le forme pure essendo più astratte delle entità rappresentanti i composti di forma e di materia, quelle devono essere più universali e queste più piirtìcolari; in nitri termini i concetti a cui si fanno corrispondere delle Idee-numeri devono essere, non gli stessi concetti a cui si fanno corrispondere dcìlle entità matematiche, cioè composte di forma e di materia, ma altri, a cui questi siano subordinati in generalità. E siccome i concetti, corrispondenti alle entità matematiche, sono alla loro volta più generali che le cose di cui essi sono i concetti, noi possiamo pure esprimere lo stesso fatto dicendo: che le grandezz'^ matematiche devrono essere intermediarie cioè devono tramezzare in generalità, e perciò anche occupare^n posti medio nella sequenza logica degli esseri anteriorità e posteriorità -tra le idee delle grandezze e le grandezze sensibili. Platone divide duugue i concetti delle grandezze in Arist. De An. due classi, a cui fa corrispondere due dififerenti sorta di entità: ai più particolari assegna le entità matematiche, composte di forma e di materia, e ai più generali le Idee-numeri, che sono delle semplici forme. Ma cosi facendo, va naturalmente incontro ad un'evidente incoerenza, cioè di obbiettiva re di alcuni concetti il «iwo/o, il crmposto di forma e di materia, e di altri la sola forma. Perciò egli non ammette che altrettanti numeri ideali per le gTtndezze quante sono le specie del Grande e Piccolo che servono loro di materia: è che cosi l'incoerenza viene in un certo modo evitata, poiché, unendo ciascuno di questi numeri alla specie corrispondentKi del Grande e Piccolo, si ha il concetto obbiettivato nella sua integrità forma e materia ciò che Platone chiama la linea stessa, il piano stesso, il solido stesso, mentre, se si aggiungessero alcii numeri, si avrebbero necessariamente delle forme senza materia. Questo ci spiega perchè vi hanno delle Idee-numeri pei generi supremi delle grandezze, ma non ve ne hanno pei generi intermedi fra di essi e le specie ultime. In quanto airesclusione di questi generi intermedi anche dal rango di entità matematiche, noi ne abbiamo già notato il perchè: è V assimilazione del rapporto tra le grandezze matematiche e le loro Idee al rapporto tra gli individui e le loro Idee specifiche; assimilazione che è, alla sua volta, una cr nsegurnza della distinzione delle entità matematiche dalle Idee, Platone non potendo ammettere questa distinzione senza negare a queste entità la qualità di specie, e riguardare come loro specie le Idee infime a cui le subordina. Nella dottrina delle entità matematiche bisogna distinguere evidentemente due parti, che si sono formate in due periodi distinti della speculazione platonica. L'uua è Tobbiettirazione dei concetti dei numeri e delle grandezze geometriche: essa è nata dal punto di vista puramente platonico, essendo una sempMce applicazione della teoria delle Idee, ed è per conseguenza anteriore air epoca del sincretismo con le dottrine pitagoriche. L'altra è la distinzione di questi concetti obbiettivati da quelli a cui si riserba il nome d'Idee, e il posto loro assegnato d'intermediari fra queste e le cose: essa suppone la teoria dei numeri id»*ah, e non può esser nata perciò che nel periodo pitagoreggiante. Ciò è provato, oltre che dalla natura stessa di questa parte della dottrina, dal luogo citato della Metafisica, in cui Aristotile dà la teoria delle entità intermediarie come una conseguenza della identificazione delle Idee coi numeri; e se ne ha la conferma negli stessi dialoghi di Platone. È evidente in effetto che nella classe delle Idee o delle Specie l'autore comprende, pressoché dapertutto ov'è quis'^ione della dottrina delle Idee, non una parte solamente ma la totalità dei suoi concetti obbiettivati, e talvolta anche e'^plicitamente, come nei luoghi del Fedone indicati al n. I, quelli che in Aristotile sono classati tra le entità matematiche. Le modificazioni apportate alla dottrina primitiva sugli oggeui matematici, per distinguerli dalle Idee-numeri e loro subordinarli, si riducono in sostanza, oltre alla restrizione arbitraria deiruso del termine Idea e sinonimi, a tre punti: per quel che riguarda i numeri, la moltiplicità delle unità, diadi, triadi, ecc. matematiche, e la derivazione di queste dall'unica unità, diade, triade, ecc. ideali; per quel che riguarda le grandezze, la Carmen., Fedone, Filebo, Rep. Sof. Tim., ecc. riduzione degli siStj della linra, del piano e del solido, e di essi soli, a numeri ideali. In quanto al primo punto, ch'esso sia stato una modificazione posteriore della dottrina primitiva di Platone, risulta da parecchi luoghi, in cui, pailandò chiaramente del numero matenatico, cioè di quello che è IVgoetto drir aritmetica, egli non ammette senza dubbio che una sola unità, una sola dualità, fcc. In quanto agli altri due punti, per ist«bilire la loro pofcteriorità, non rccorrono altre prove che quelle esposta al n. I, che dimostrano la posteriorità della teoria dei numeri ideali. Qui noteremo soltanto che ciò che i luo;2:hi di Platone, di cni ivi si tratta, profano d'una maniera immediata, é sovratutto la posteriorità della dottrina delle entità intermediarie. Infatti, se essi dimostrano che r autore non conrsce ancora quella dei numeri ileal', è specialmente perchè le entità numeri, ruppresentanti i semplici attributi aritmetici delle cose, e corrlspondeuti quindi ai numeri matematici dell'esposizione aristotelica, sono in questi luoghi riguardate come le Idee e le essenze dei numeri, e per conseguenza come i primi numeri, escuiendosi cosi V’esistenza di altri numeri anteriori carte. Fedinw jol e, lo4, Rep., ecc. Si è cre.lato di ritrovare la (listinzioae delle entità matematiche daUe Idee sulla Une del 1. W^eWok Repubblica. Ivi Platone divide l'intelligjibile ed il visibile in due parti, ohe stanno fra di loro, per l'evMenza o la verità, come tutto l'intelligibile sta a tutto il visibile. Alle due parti del visibile corrispondono le due forme inferiori della conoscenza, a cui Platone dà il nome comune di opinione – CICERONE AUSTIN THE LINE: alle due parti dell'intelligibile le due forme superiori, che egli chiama intelligenza. Le due parti del visibile sono le cose reali e le loro immagini: alla prima corrisponde la fede, alla seconda rimmaginazione slxaaia. Delle due parti dell'intelligibile l'un» è quella che s'investiga pella dialettica; l'altra è quella che s'investiga Il pÌtagorl«ino nel Tiiiiet e nel Fifeb» Risulta dall'esposizione pr ccleate che le altre dottrine di Platone oltre quel'e di cui abbiamo parlato al per le scienze matematiche, che, oltr.ì la scienza dei numeri e la geometria, comprendono l'astronomia e l'armonia. Queste due parti dell'intelligibile sono determinate da Platone, non per se stesse, ma per il metodo con cui si procede nel loro studio; così i loro caratteri distintivi sono: Nello studio della seconda parte quella che è l'oggetto delle scienze matematiche lo spirito procede bensì col metodo deduttivo, come in quello della prima, ma la dimostrazione è incompleta, perchè il punto di partenza delle sue deduzioni sono delle semplici ipotesi: nello studio della prima parte quella ohe è l'oggetto della DIALETTICA, al contrario, il metodo è assolutamente dimostrativo, perchè il principio è, non una sdmplice ipotesi come in quello della seconda, ma una verità d'una CERTEZZA GRICE CERTAINTY AND UNCERTAINTY assoluta. Nello studio della seconda parte, quantunque il vero oggetto del pensiero sia l'universale in se stesso il quadrato %le^%o^ la diagonale ^ie^ia^ i numeri . siedasi, pure ciò che esso prende immediatamente per oggetto sono delle cose particolari e sensibili; nello studio della prima parte invece, il pensiero non ha altro oggetto che l'universale, le Specie essendo il principio, il mezzo e il termine di tutta la dimostrazione per queste differenza tra il metodo dialettico e quello delle matematiche. Alla prima parte dell'intelligibile, tra le forme della conoscanza, corrispoa la la scienza, alla seconda la raziocina zìo ne Stavoia. Le quattro forme della conoscenza, corrispondenti alle parti dell'intelligibile e del sensibile, partecipano dell'evidanza nella stessa misura in cui gli oggetti, a cui corrispondono, partecipano della verità. La prima parte dell'intelligibile sono, non potrebbe esservi alcun dubbio, le Idee: la seconda parte é stata identificata con le entità matematiche; ma questa identificazione presenta delle difficoltà insormontabili, quali sono le seguenti: Le entità matematiche non sono che i numeri e le grandezze geometriche; mentre la seconda parte dell'intelligibile comprende anohe, oltre gli oggetti dalla soienza dal naoiari e dalla e che consistono in sostanza in questi tre concetti: la realizzazione degli universali, LA DIALETTICA, e il bene genere supremo o forma comune di tatti gli esseri geometria, quelli deU'astronomia e dell'armoaia. Dirà l'interprete trasoendentaUsta, per risolvere questa difficoltà, che le entità matematiche rappresentano le leggi del mondo fenomenico, e per conseguenza costituiscono anche l'oggetto dell'astronomia e dell'Armonia? Ma allora Platone dovrebbe dare la seconda parte dell'intelligibile per oggetto, non, com'egli fa, a certe scienze speciali ma a tutte le scienze del reale, perchè tutte hanno per oggetto le leggi del mondo fenomenico. E in questo caso, siccome le stesse scienze avrebbero anche per oggetto le Idee- per il principio generale che la scienza si riferisce all'Idea, le due parti dell'intelligibile non potrebbero venire distinte per le scienze di cui sono l'oggetto. Il carattere per cui le entità matematiche si distinguono dalle Idee è che ve ne hanno molte della stessa specie. Nella sua applicazione ai numeri, questa proposizione significa che vi ha un'infinità di unità, di diadi, di triadi, ecc. matematiche. Ma nella Repubblica Platone non ammette, come concetto realizzato, che una sola unità, l'Uno stesso e per conseguenza pure una sola Diade, una sola Triade, ecc Ciò risulta anche da tutto il contesto in cui l'Uno e gli altri numeri sono classati tra gli oggetti, che il senso vede confusi 001 loro contrari, ma che l'intelligenza separa, vedendo ciascuno dei contrari come uno. L'uno e i numeri di cai è quistione nei luoghi indicati, siccome sono dati come l'oggetto dell'aritmetica, sarebbero quelli formanti, con gli altri concetti matematici, la seconda parte dell'intelligibile se questa equivale alle entità matematiche: per conseguenza dovrebbero essese identici ai numeri matematici dell'esposizione aristotelica. Ma questa identità, come .1 è visto, non esiste; e la differenza è d'un'importanza capitale, trattandosi del carattere delle entità matematiche per cui esse venivano distinte dalle Idee. La distinzione degU oggetti matematici dalle Idee importa la loro subordinazione ad esse come intermediari fra esse e le cose, e questa lappone, come risulta da tutta la nostra esposizione di questa parte della filosofia platonica, la dottrina dei numen ideali. Ma noi mostrammo al n. I (cju-te ohe, quando sono il prodotto di una fusione, avvenuta in un periodo ulteriore della sua specuUz'one, dei concetti propri a Platone stesso quelli che abbiamo indicati con quelli Platone scrive la Repubblica egli non conosce ancora questa dottrina. E si noti che gli argomenti con cui l'abbiamo provato acquistano una forza particolare contro qaelli che nella seconda parte dell'intelligibile veleno le entità matematiche. In effetto essi non potrebbero revocare in dubbio la premessa da cai partono questi argomenti, cioè che i numeri, di cai è quistione nella Hepubblica sono i matematici, vale a dire quelli rapprasentanti i semplici attributi aritmetici; questi numeri essendo, secondo la loro tesi, distinti dalle Idee e ad esse opposti come appartenenti a un'altra sezione del mondo intelligibile. Ma se si conviene che questi numeri sono i matematici, si de^e pure convenire che 1'autore non ammette ancora i numeri ideali, poiché, se li avesse già ammessi, egli non avrebbe potuto riguardare i numeri matematici come i numeri stessi e le essenza dei numeri carte. Le due parti dell'intelligibile si distinguono in qaanto l'una è l'oggetto della scienza dialettica, e l'altra di un'altra scienza, egualmente deduttiva, ma d'un'evidenzi inferiore. Ora quest'esclusione dal dominio della dialettica non potrebbe convenire agli oggetti delle matematiche, considerati coma eatità. Essi soao dei concetti obbiettivati simili a tutti gli altri dalla mìtafisici platonica. Qaesti concetti hanno dei gradi differenti di generalità, e per conseguenza il metodo di divisii»ne deve applicarsi anche ad essi Platone, è vero, dei numeri e della grandazze, dopoché ne fa delle entità intermediarie, non realizza che i concetti specifici; ma ciò non esclude l'applicazione del matoio dialettico, i concetti generici occorrenti, che non si trovano tra le stesse entità intermediarie, trovandosi nelle Idee a cili esse sono subordinate. Infina l'unità di metodo, che è uno dei carattari essenziali a qaesta forma di metafisica, esige che anche questi concetti entrino, con tutti gli altri, nel sistema universale, e si deducano, eoa lo stesso processo, dall'Idea suprema. E nel fatto Platone, tra gli o^jgatti sa cui volge la dialettica, comprende, in diversi luoghi, i concetti matematici. Nel Filebo riferendosi a in cai oppone la scianza dialettioA, che ha per oggetto ciò che esiste sempre ed è sempre allo stesso modo, a quella che ha per oggetto ciò che è generato, -, dèi Pitagorici. Di queste dottrine alcane quelle dei numeri ideali e dei due elementi delle Idee non sono che lo dottrine principali dei Pitagorici con le modificadioe di aver distinto due soienze, l'ana circa le cose che Dascono e periscono, l'altra circa quelle che non nascono né periscono e sono sempre allo stesso modo, e pone tra gli oggetti della seconda, cioè della dialettica, IL CERCHIO GRICE stesso e la sfera stessa, Neil' Kit ti' demo I geometri, gli astronomi, gli aritmetici sono pure dei cacciatori, perchè non fanno le figire, ma vanno alla ricerca di quelle che esistono; e siccome non sanno usarne, ma solamente scoprirle, quelli tra di loro che non sono insensati abbandonano le loro scoverte ai dialettici, perchè sa ne servano. Neil'Ephiomidy che, se non è di Platone, è certamente di u]\ discepolo dell'antica accademia: Bisogna che il consenso, <?he è uno, di tutte cosa, d'ogni figura, ogni costituzione di numero, ogni ragiono d'armonia e di rivoluzione degli astri, si manifesti a quello ohe imparerà secondo il vero metodo; e si manifesterà, se chi impara guarda all'unità; perchè la riflessione gli scoprirà che un sol legame unisce naturalmente tutte cose questo legame unico di tutte le cose non è che il legame dialettico, che riconduce ogni moltiplicità all'unità, e per cui tutte le Idee formano un slitema. Hep. Nella Repubblica poi non può esservi dubbio che i numeri oggetto dell'aritmetica e le grandezze geometriche non siano inclusi nella parte dell'intelligibila ohe s'investiga par la dialettica. Da Una parte in effetto ci si dica che l'oggetto della dialettica è l'essenza di ciasou>ia cosa; ciascuna cosa stessa aùxò Ixaoxov; l'essere ov, oOofa , e quei luoghi in cui alle discipline, la cui destinazione neil'educazione platonica è di preparare alla dialettica, si dà per iscopo di operare l'evoluzione dello spirito all'essere; il vero. Dall'altra parte si prescrive a qualli che devono occupara le prima caricha dello stato, di studiare il calcolo per contemplare l'ei-ianza dai numeri; e le entità a cui si riferiscono l'aritmetica e la geometria ricevono anch'eise l'attributo stesso aùxóg' il quadrato CERCHIO GRICE slesso e la diagonale sles^a^ a, d, e 1' uno stesso e i numeri slessi, e sono anch'esse chiamate essere M3; 0\}QÌ0L, hìh b, e,) e verità, e, zionì necessitate dal loro aggiustamento al sistema platonico; le altre quelle della materia delle cose e delle entità intermeiìarie sono un effetto dell'adesione. Aggiungiamo che l'ufficio assegnato alla dialettica è la definizione di ciascuna cosa, e i numeri e le figure non potrebbero non essere compresi tra le cose a definire. Questa inclusione degli oggetti a cui si riferiscono le matematiche tra quelli in cui versa la dialettica, si vede pure chiaramente dove si raccomanda che le discipline 1'aritmetica, la geometria, l'astronomia, l'armonia che sono state studiate isolatamente nella fanoiullezza, siano più tardi presentate nell'insieme, per dare una veduta d'insieme s^C 0'JVO'|»Lv dell'a 'finitiX e delle discipline fra di loro e della natura dell'essere, tessere sono i concetti realizzati; e questa 0'JVO']^t^ dell'affinità della natura dell'essere non è che la considerazione dialettica di questi concetti, come lo provano anche le parole che seguono immediatamente: Con ciò si sperimaata massimamente l'ingegno dialettico o no; chi è O'ivOTlTixó^ è dialettico, chi non lo è no. Notiamo che i luoghi citati sono tutti nel libro, che è una continuazione della digressione cha comincia sulla fine colla bipartizione del visibile e dell'intelligibila. Ohe cosa bisogna dunque intendere per la parte dell'intelligibiie che s'investiga per la scienza matematicha? Non altro che le verità studiate da queste scienze. Quantunque Platone non faccia di queste yerità delle entità sussistenti per se stesse coma le Idee, pure, siccome le considera d'una maniera obbiettiva, egli può opporle alle Idee come un'altra spacie dall'intalligibile. Dall'altro canto le Idee possono e-jsare opposte alle verità dalle matematiche, perchè esse non sono che le verità della dialettica obbiettivamente considerate: la dialettica infatti non è che un seguito di proposisùoni esistenziali, logicamenta legate tra di loro, di cui ciascuna pone, cioè afi'arma, un'Idea, e il cui logama logico non è altra cosa che il legama ontologico fra le Idea stesse atfermate. Questa distinzione dalle verità scientifiche in dialettiche e matematiche si rapparta dalla maniera più naturale all'oggetto della Ròpuhblica, che è di dare una nozione generale del metodo dialettico, indicanio le soniglianz3 e la differenza tra le scienza matematiche e la scianza dialettica ban inteso, considerato -i completa che Platoae fa alla doitrina pitagorica dei numeri. Ci resta a parlare dei motivi di questa evoluzione verso il pitagorismo. nella loro formo, non nella loro materia: che avrebbe da fare con quest'oggetto la distinzione delle entità platoniche in Idea ed entità matematiche? Se la dae parti dell'iatellìgile fossero queste, né si comprenderebbe perchè Platone, parlando dei rapporti tra il meto io dialettico e il metodo matematico, abbia messo innanzi questa distinzione; né perchè, avendola messo innanzi, quando poi si tratta di determinare che cosa !iano le due parti distinte dell'intelligibile, non parli che dolle difterenze tra le matematiche e la dialettica. Le stesse differenze obbiettive assegnate tra le due parti dell'intelligibile non sono che quelle fra i due metodi scientifici, considerate obbiettivamente: per consegaanza esse convengono perfettamente come differenze tra le Idee le verità della dialettica e le verità delle scienze matematiche, ma niente affatto tra le Idee e la entità matematiche. Qaando Platone dica che la parta dell'intelligibile che s'investiga pella dialettica ha un'evidenza superiore che quella che s'investiga per la geometria e scienze affini, egli non fa che ripetere, in un'altra forma, che 1'evidenza della dialettica supera quella di queste scienze: ciò è tanto vero che dopo che Socrate ha spiegato le differenze del mato lo dialettico dal metematico, tra cui la pia saliente che quello non ha, come questo, per principii delle ipotesi – MA LA IPOSTASI GRICE e per conseguenza ha un grado superiore di certezza, Glaucone risponde: Comprendo: mi sembri volere stabilire che la parte dell'essere e dell'intelligibile che contempliamo per la dialettica è più evidente di quella che per le chiamate arti, a cui sono principii le ipotesi – e non le IPOSTASI, e quelli che contemplano queste cose vale adire ciò di cui trattano queste ar/i, quantunque contemplino, con coi sensi, ma col pensiero, pure non ti paiono avere intelligenza intorno ad esse, perchè le loro ricerche partono da ipotesi NON IPOSTASI, non risalendo al principio. Lo stesso significato al fondo ha l'altra differenza che Platone stabilisce fra le due parti dell'intelligibile, cioè che quella che s'investiga per la dialettica partecipa della verità più di quella che s'investiga per le matematiche: ciò vuol dire semplicemente che le verità della dialettica sono più certe ohe le verità delle matematiche. Alle entità matematiche Platone non avrebbe assegnato meno verità che alle Idee: verità in questo caso non avrebbe potuto significare che Noi dobbiamo prima di tutto stabilire un punto di fatto, che può gettare la più gran luce su questi molivi, e senza tener conto del quale non si avrebbe del pitartfa/ noi sappiamo che Platone ammette, quantunque questo sia per noi un non senso, dei gradi differenti di realtà; ma alle entità matematiche, che esse siano la semplice sostantificazione degli attributi matematici, oche rappresentino le leggi dei fenomeni, non potrebbe assegnarsi un grado relativo di realtà, ma solo la realtà assolata come alle Idee, perchè eterne e immutabili Arist. Met,, ecc. come qneste. E d«l resto Platone non chiamerebbe, come abbiamo visto ch'egli fa, i concetti realizzati dei numeri e dalle grandezze essere e verità, s'egli non assegnasse ad essi che una realtà relativa. Platone stabilisce anche tra le due specie d'intelligibili un'altra relazione: quelli che s'investigano per le matematiche sono da lui riguardati come immagini di qaelli che s'iuvestigano per la dialettica. Ciò risulta già dalla divisione del visibile in cose ed immagini; tanto più se si riflette che tra le due parti del visibile e delKintelligibile, considerate luna rispetto all'altra, deve esservi lo stesso rapporto che vi ha tra il visibile e l'intelligibile, e che il primo è, secondo Platone, un'immagine del secondo. Ma la prova più esplicita se ne ha dove descrive rascensione nella regione superiore, e spiega il significUo di questo simbolo, il rapporto tra le scienze matematiche e la dialettica essendo ivi comparato a quello tra Tintuizione delle immagini e l'intuizione delle cose stesse. Questa relazione con le Idee, bisogna confessarlo, converrebbe assai bene alle entità intermediarie, specialmente nell'interpretazione trascendentalista – H. P. Grice/A. Code, PLATONISMO, ARISTOTELISMO – Izzing/Hazzing -- , secondo cui esse tramezzano, non tra i soli attributi matematici delle cose e le loro Idee, ma tra tutto il mondo sensibile e tutto il mondo ideale. Ma essa conviene egualmente alle verità matematiche. Ciò è per le stesse ragioni per cui Platone fa delle m^cmatìche la propedeutica della dialettica. IL PORTALE DELLA ACCADEMIA Lasciate ogni ignoranza voi ch’entrate I caratteri della scienza per Platone sono: l'astrattezza e universalità dell'oggetto, e rincatenamento de<luttivo. Tra le scienze finite, egli non trova realizzati questi due caratteri, quantunque d'una maniera imperfetta, che nelle matematiche d'una maniera imperfetta, perchè le verità matematiche, benché astratte e universali come le Idee, non sono, come queste, degli oggetti sussistenti per se stessi: e perchè la e atena delle loro deduzioni, oltre che non ha un valore ontologico, ma semplicemente logico, non parte dal principio o IPOSTASI, ma da ipotesi. Per conseguenza Platone vede gorìsmo platonico che un'idea incompleta. E che, come abbiamo accennato, il pitagorismo di Platone non consiste solamente ad appropriarsi i concetti dei Pitagorici, ma anche ad attribuire a questi i suoi propri concetti. È ciò che vediamo nel Filebo: ivi attribuisce loro nelle matematiche Un tipo, quantunque Imperfetto, su cui Io spirito può formai-si V ideale della scienza assoluta, cioè della dialettica, e nelle loro verità considerate tanto ciascuna in se stessa quanto nella loro connessione un simulacro delle verità di questa scienza, vale a diro del mondo delle Idee. Nell'allegoria della caverna, in cui sono rappresentate le diverse parti del visibile e dell'intelligibile e le forme corrispondenti della conoscenza, il rapporto d'immagine a realtà ha tre significati distinti, perchè net'li oggetti rappresentati questo rapporto è triplice. Esso esiste: tra le due parti del visibile, tra il visibile e l'intelligibile, tra l'intelligibile matematico e rintelligibile dialettico. Le ombre della caverna corlispondono alla parte più oscura del visibile, cioè alle immagini propriamente dette: esse simboleggiano, non le cose stesse che noi chiamiamo reali, ma le loro apparenze sensibili, Platone non accordati lo cosi alla percezione sensibile che è rappresentata dallo stato di prigionia nella caverna che un valore subbiettivo. Le cose che noi chiamiamo reali sono simboleggiate dagli oggetti che portano i passanti lungo il muro tra il fuoco e i prigionieri, e di cui le ombre si proiettano nella caverna: cosi questi oggetti sono anch'essi delle immagini, perché le cose reali sono immagini delle Idee. in cui essi sono chiamati StJwXa, e le ombre di questi slòooXa, percepite dai prigionieri nelU caverna, sono contrapposte alle ombre degli esseri, guardale dopo l'uscita dalla caverna, prima di poter guardare gli esseri stessi: le ombre del giusto o i simulacri àYaX|xaTa di cui sono l’ombre. Uopo la liberazione, il progresso del prigioniero nella conoscenza delle cose comprende due stadi. Nel primo si volge verso il fuoco, e {«uarda gl’oggetti di cui prima vede le ombre qualli che sono chiamati sl5a)Xa e il fuoco stesso simbolo del sole. Nel secondo esce dalla caverna, e ascende nella regione superiore, e questo stadio comprende alla sua volta due gradi, perchè prima guarda l’ombre e l’immagini la dottrina delle Idee e la dialettica. Questo metodo, il dialettico, è, dice Socrate, un dono degli dei agl’uomini, inviato per mezzo di qualche Prometeo con una sorta di splendidissimo fuf co. Gli antichi, che erano migliori di noi e più vicini agli dei, ci hanno tramandato come un oracolo che le cose che si d cono e-sere eternamente, constando deir unità e della pluralità, e avendo in sé per natura il fine e Pinfìnito; bisogna perciò, nella riceica di ciascun oggetto, stabilire sempre un'Idea unica per tutto e si può ritrovarla perchè vi esiste; scoverta questa, cercare se dopo Tuna ve ne ha due o, se non due, qualche altro numero; e ciascun uno di questi esaminare ancora così, sinché si veda, non solo che l'uno primitivo é uno e molti ed infiniti, ma acche quanti è; e non applicare alla moltitudine l'Idea delTinfinitn, prima di vedere in essa ogni numero che s'interpone tra rinfinito e l'uno; allora solamente lasciare ciascuno di tutti gli uni andare a disperdersi nell'infinito. Gli dei, come ho detto, ci hanno trasmesso questo metodo di esaminare, d'imparare e di scambievolmente istruirci. Questi antichi, i quali ci hanno tramandalo degli esseri reali, poi questi esseri stessi. Queste ombre ed immagini degli esseri reali simboleggiano gì'intelligibili delle matematiche, e gli esseri reali le Idea. Nella liberazione dello spirito o la sua marcia ascendente nella verità, le scienze matematiche hanno due fun^ionl, coi rispondenti, Tuna al primo stadio del progresso del prigioniero dopo la sua liberazione la conversione dalle ombre verso il fuoco e j^li sI5(oXa, e l'altro al primo grado del secondo stadio l'intuizione delle ombre ed immagini degli esseri reali nell'ascensione nella regione superiore. Platone attribuisce a queste scienze anche la prima funzione, cioè di convertire lo spirito dall'apparenza le ombre alla realtj\ sensibile pli St5(oXa, perchè esse danno un'idea più giusta del mondo esteriore, rettificando lo illusioni della percezione, come fa la astronomia, che al cielo apparente sostituisce il cielo reale. Supplera. carta che le cose consfano dell'unità e della pluralità, ed hanno in sé per natura il fine e l'infinito, sono evidentemente i Pitagorici, o piuttosto gli antecessori di questi filose fi -perchè naturalmente Platone non potrebbe attribuire le Idee e la dialettica ai Pitagorici contemporanei, di cui si leggevano gli scritti. Altrove nel i^<«6eo stesso Platone appoggia su questa tradizione di origine divina, di cui ha parlato nel luogo citato, la sua dottrina sul népa^ e l'ac;:eipov, quale egli l'espone in questo dialogo. Noi siamo dunque fondati ad ammettere che Platone dà la sua propria filosofia, qual es3a ò divenuta dopo il sincretismo coi concetti pitagorici, per una restaurazione dell'antico pitagorismo, o di una sapienza prepitagorica di cui i Pitagorici non conservavano che delle tracce alterate. Attribuendo agli antecessori dei Pitagorici la dottrina delle Idee, egli attribuisce loro implicitamente quella dei numeri separati xoipiczol. Di più nel Timeo egli mette in bocca a un pitagorico, oltre alla dottrina delle Idee, quella dei due elementi con le modificazioni ch'essa subisce nel suo proprio sistema nell'epoca in cui il sincretismo coi concetti pitagorici, verso cui nel Filibeo non ha fatto ancora che il primo passo, è già compiuto, e la distinzione di forma Idea e materia con la riduzione di questa allo spazio. In quanto alle altre modificazioni ch'egli apporta alle dottrine pitagoriche la formazione, progressiva dei numeri, la distinzione del numero che rappresenta le essenze delle cose dal matematico, ecc., noi non abbiamo in verità la prova specifica che Platone le abbia attribuite al pitagorismo originario. Ma sappiamo che un filosofo della sua scuola, Speusippo, intitola e dei numeri pitagorici un saggio in cui egli espone la sua propria dottrina sui numeri, dando, per conseguenza, questa pella dottrina pitagorica. La pretesa di Platone e dei Platonici che il loro sistema fosse la riproduzione dell'antico pitagorismo di CROTONE, spiega come, nel concetto degli autori posteriori, le due filosofie finiscono per confondersi: la più parte di questi in effetto attribuiscono ai Pitagorici le dottrine proprie di Platone e per cui la sua filosofia si distingue dalla loro, le Idee, i numeri separati concep'ti come dei paradigmi, comform'imente all'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, e l'opposizione dell'Uno e della Dualità indefinita con la funzione assegnata a quello di principio formale e a questa di materiale. È notevole che questa confusione tra le dottrine platoniche e pitagoriche comincia già negli stessi discepoli immediati d'Aristotile: cosi l'opposizione dell'Unità e della Dualità indeterminata con le proprietà piìi caratteristiche che Platone assegna a quest'ultima è attribuita ai Pitagorici anche da Teofrasto Met. Quest'avvicinamento ai Pitagorici non è, nella vita speculativa di Platone, un fatto isolato. Si sa che nei suoi scritti egli non espone mai le sue dottrine nel suo proprio nome: egli le mette in bocca a Socrate, a Parmende dei VELIA e ai VELINI, a un pitagorico. Non bisogna credere che questa non sia che una finzione poetica: senza dubbio, quando gli autori antichi trattano i lamblico Theol. arithm. ed. Ast. Zeller Nella piìi parte dei dialoghi. Nel Parmenide di VELIA Nel Sofisia e nel Politico, Nel Timeo. L'air ghi di Platore coire documenti storici, e, fond^ndosi feulJa sua testinr.oDiaMza, attribuiscono il sistema dHlc Idre a Socrate, a Parmenide di VELIA, ai Pitagorici, cshi rivelano il difetto di senso critico proprio della loro epoca; ma non è meno evidente perciò che la maniera naturale di ermi: rendere Piatene è quella di questi autori, e che è ersi, vale a dire coire un testimonio attendibile sulle opinioni attribuite ai p^rsonagu^i dei suoi dialoghi, che egli vuole essere compreso. Una prova di ciò è la cura che ba, in parecchi dialoghi, dMiidicare le fonti da cui ha attinto. Queste in certi casi sono immaginate con l'intenzione evidente di spiegare come dei fatti generalmente ignorati siano potuti v.'uire a conoscenza delFautore. Cosi nel Parmenide di VELIA il colloquio tra Socrate e Parmenide di VELIA a cui si mette in bocca, della maniera più esplicita, la dottrina delle Idee, è narrato da un fratello uterino di Platone, Antìfoiite, il quale Pavrebbc appreso da un suo amico, testimonio auricolare e amico di Zenone di VELIA, l’amato di Parmenide di VELIA. Per questo dialogo -cosi importante per comprendere il rapporto che Platone intende stabilire tra la propria filosofia e quella dei VELINI che Tautora voglia che sì dia ad esso un valore storico è anche dimof^trato dalla menzione che f4 in altri dialoghi della conversazioue di Socrate con Parmenide di VELIA. L'incompatibilità tra le opÌDÌoni conosciute dei VELINI e il aistema delle Idee non è per la fantasia di Platone un ostacolo insormontabile: le dottrine es^ o^te nei poemi di Senofane e di Parneuide di VELIA non sono, secondo Platone, che dei miti, e per comprendere il vero pensiero di il principio del Parmenide di VELIA, Teeleto e, SìtUla e. Sof, qu sti filosofi, non è alla lettera che dobbiamo fermarci, ma cercare, più oltre, ciò che essi non esprimono, ma sr^ttlntendono. Da questi fatti emerge con evidenza un fatto general^: è lo sforzo di Platone di riattaccare il proprio sistema alle tradiz'oni filosofiche del popolo greco – e ITALO, la sua pretesa di dare la proprha filosofìa, non come una rivoluzione, ma come una restaurazione. E lo stesso procedimento dì cui <»gli si serve per accreditare le dottrine politiche e sociali insegnate nella Repubblica, Le istituzioni inculcate in que«<t' opera non sono, pretende Platone, che quelle stesse che all'origine ha a^uto il popolo ateniese – GRICE ATHENIAN DIALECTIC ROMAN DIALECTIC OXONIAN DIALECTIC: ciò si r 1 »,va da una storia una guerra anticamente combattuta tra gli Ateliesi e i popoli della Teet, a. Su che ha potuto fondarsi Platone per attribuire le Idee ai VELINI? Sovratutto, senza dubbio, sulla loro dottrina che l'essere vero è eterno c«l immutabile. Aristotile /? Coelo, dopo aver parlato di queHt'opioionc di Parmenide di VELIA e di Melisso di VELIA, osserva che se anche per il re8ti> dicono bene, si deva credere però che essi non parlano da fisici. In elfctto esservi delle cose non generate e assolutamente immobili spetta ad una considerazione diversa e anteriore che la fisica; ma essi, perchè nienr, e altro credevano esservi che la sostanza delle cose sensibili, avendo compreso per i primi che esìstono certe nature ta^i cioè non generate e assolutamente immobili, se vi ba qualche scienza o intelligenza, le pro,>osizioai adattate a queste nature trasportarono alle cose di qui Verisimilmente noi abbiamo in questo luogo un pensiero di Platone riveduto e corretto da Aristotile si notino le parole se vi ha qualche 8 -lenza o intelligenza, che ricordano le prove per dimostrare l'esistenza delle Idee. Platone non avrebbe detto della filosofia di VELINI di non ammettere che la realtà sensibile, e trasportare a questa ciò che non é vero che di una realtà sovrasen^ibile, ma solamente dei loro mUi, Per il rapporto che Platone ha potuto stabilire tra le proposizioni degli Eleati e il sistema delle Idee, è anche notevole l'argomentazione di Parmenide per provare; l'unità dell'essere, che Teofrasto ap, Si/np. in Phi/s, riassume cosi: oltre all'essere non vi sarebbe cheli non essere; mail non essere è niente favolosa Atlantide scritta nei libri sacri degli Egiziani e che quei preti raccontarono a Solone. Platone ci presenta dappertutto, in filosofia come in politica e in religione, la strana alleanza di un genio eminentemente innovatore con delle tendenze che noi non siamo abituati a trovare che associate ad uno stretto conservatorismo. Rispattoso delle antiche tradizioni; convinto che ogn'innovazione nelle idee e nei costumi è il pericolo pii grave da cui la società deve guardarsi; non eonosceado il dogma moderno del progresso, e vedendo nella libertà e neiroriginalità deirindividuo piuttosto un agente di corruzion e che di miglioramento sociale; e sotto l'impero deirillusione del mondo antico che il bene è, no a neiravvenire, ma nel passato; non è sorprendente ch'egli abbia fatto dunque l'essere è uno. Su quest’argomentazione Aristotile nota in Phys, che, per poter cont^ludere, si dovrebbe intendere in essa per essere V essere separabile ciò che corrisponde a1 concetto astratto di essere considerato in se stesso in altri termini l'Idea platonica dell'essere. Timeo e Crizia Gran tore, discepolo di Platone, aflerma che il racconto sugli Atiantini e sulla identità della istituzioni della Repubblica con le istituzioni antiche di Atene è una pura storia; e racconta che, per vincere l'incredulità dei contemporanei, Platone manda la sua narrazione agli Egiziani, i quali attestavano la verità dei fatti, alfermando che essi si trovavano inscritti in colonne tuttora esistenti Proclo Comm. in Plotonis Timaenm ed. Basii. in Mullach Cranioris Fragmenta Fragm. T. FU. e, Fedro e, lim, Ugii, ecc. Rep. Leggi, ecc. Rep.Uggì, ecc. Le altre forme dello stato sono, secondo Platone, una degenerazione progressiva della forma perfetta cioè quella di cui traccia il disegno nella Repubblica, Rep, Vili, e Arist. Politica. o;:ni sforzo per conciliare colla tradizione le sue idée auducemente rivoluz'onarie. Questo sterzo di Platone di riattaccarsi hi passato non è per altro wn fatto uu'co nella storia della metafisica. E in questo senso che spinge naturalmente il metafisico la solitudine int-llettua'e in cui Io lascia il carattere paradosastfco delle sue dottrine. Nelle scienze speciali, il pensatore più oripnale non può aspirare che ad accrescere, più o meno, il patrimonio comune dello conoscenze: di più, per quanto egli voglia rinnovare radicalmente le nostre nozioni sulle cose, egli divide con gli altri uomini certi nozioni fondamentali ch^ costituiscono ciò che 8i chiama il senso comune. Ma il metafisico pretende di rifare di fondo in colmo, con un piano interam^ntc nuovo, tutto il sistema delle conoscenze umane; le sue dottrini sono, in un punto o io un altro, in aperta contraddÌ7Ìone con le credenze naturali – GRICE STRAWSON PEARS THE NATURE OF METAPHYSICS; il suo mondo rf-ale non é il mondo reale degli altri uomini; ciò che questi chiamano realtà, per lui è un'apparenza, un fenomeno; la vera realtà non è conosciuta che da lui solo. A lui supposro che il suo sistema fosso vero potrebbe applicarsi con più ragione ciò che Omero dice di Tir sii agl'inferni, e che Platone applica al vero uomo di stato: egli solo pensa, gli altri non sono che dt Ile ombre erranti GRICE HAROLD WILSON Non è naturale ch'egli cerchi Odiss. Menoiie loo a. Una condizione della possessione delia conoscenza fìlosotìca è, (XiC'i Schelling Lezioni sul metodj degli ^ludi accademici Lea. 4, una chiara e viva concezione delia nullità di ogni conoscenza semplicemente finita la conoscenza finita e la conoscenza non liiosofica, e la filosofìa è, s'intende, quella di Sclieliing. E 2i\trove D^^i fnodo assoluto di conoicere negli Scritti filosofici tradotti da Benard: Bisogna aprirsi vigorosamente un accesso sino ad essa alla intuizione intellettuale o co'W I" dei compagni e de^H antecessori negli altri filosofi, sforzandosi di diminuire il suo isolamento e di accorciare in qualche modo la distanza che lo separa dagli altri uomini? Ed è notevole che è, nei metafisici che si allontanano il più dal punto di vista comune che questo sforzo di riattaccare il proprio sistema alle tradizioni filosofiche apparisce più energico; p. e., tra i moderni, in Leibnitz e in Hegel. Si sa che Tautore delle monadi e deir armonia prestabilita si da per un eclettico. Io ho lungamente riflettuto, egli dice, sugli antichi m sui moderni, e trovo che pressoché tutte le opinioni adottate sono suscettibili di un buon senso. Nel suo sistema si trovano riunita la poca realtà sostanziale delle cose sensibili della scesi; la riduzione di tutto alle armonie o numeri, idee e percezioni della scuola di CROTONE e dell’ACCADEMIA; V uno e anche uno tutto di Parmenide di VELIA e di Plotino, senza Fpinozìsmo; la connessione del PORTICO, compatibile colla spontiineità degli altri; la filosofia vitale dei Cabalisti ed Ermttiji che mettono del sentimento da per tutto; le tV^rme ed entelechie del LIZIO e degli Scolastici; e con tutto ciò la spiegazione meccanica di tutti i fenomeni particolari secondo Democratico e i noscenza fiIosoHca, ed isolarsi da tutti i iati dal sapere comune, a tal punto che alcuna v a, alcun sentiero, non possa condurre da questo ad essa. Qui comincia la filosofìa Vera Seconda Introduzicne alla filos. delio spirito pa. CU, rispondendo alle obbiezioni contro il sistema di Hegel, assimila quesi; c obbiezioni essendo fatte eia un punto di vista che non ò l'hegeliano a quelle che sarebbero fatte da un essere che non pensa, perche, egli dice, il pensiero non filosofico cioè non hegeliano non ò un pensiero, Citato da Schelling Delia success, dei sUt. flìos. e della maniera di trattare la storia delta fllos, negli Scritti pfvsoflci tradotti da Benard %'. moderni; ecc.: si è mancato dagli altri filosofi per inno spirito di setta, limitandosi per la reiezione degli nitri. Si sanno egualmente le idee di Hegel sulla storia della filosofia: La stoiia della filosofia mostra nei diversi sistemi che sono apparsi una sola e stessa filosofia che ha percorso diffrerenti gradi, ed essa prova che i principii particolari di ciascun sistema non sono che delle parti d'un solo e sttsso tutto iche è il sistema di Hegel. L'ultima filosofia nrirordinc del tempo ò il risultato di tutte le filoscfie precedenti, e deve per conseguenza contenerne i principii Senza dubbio il tradizlonaliamo dì Hegel con cui, tra i filosofi moderni, la comparazione e la più ovvia rfsta ben al di sotto di quello di Platone. Hrgel si limita ad interpretare arbitrariamente le filosofie del passato e a falsarne il carattere, per mostrare che ciascuna di esse è un momento della propria filosofia e che è perciò al tempo stesso vera, perchè è una parte della vera, e falsa, perchè, essendo una parte, pretende di essere il tutto; ma non va sino ad attribuire agli antichi filosofi il suo proprio sistema, e, quel che è più, non adotta le loro dottrine. Ma l’isolamento di Hegel non è cosi completo come quello di Platone: i suoi contemporanei erano già abituati a una filosofia che aspira a riprodurre nelle sue concezioni Tordine stesso delle cose; egli aveva avuto prima di sé Schelling e Fichte per non parlare di altri minori, come Novali?, Bardili, ecc., e, prima di questi, Spinoza, Cartesio con la più parte Op, omn. Dutens Introd. alVEncicL degli altri filosofi che gli sono succeduti coi quali aveva comuoe l'apriorismo, lo stesso Platone, 1 neoplatonici i qunli avevano proclamato il principio dell'identità dell'essere e del pensiero, i realisti del medioevo, e co.; nei limiti stessi della verità storica, Hegel poteva trovare molti precursori. Invece, se vi ha un filosofo di cui possa dirsi ciò che GIOBERTI dice in generale del genio speculativo, dì eas.^r^ quasi prolessin^. maire creata, questo è prima d'ogni altro Platone. Li sua filosofia è nel contrasto più spiccato con quella di tutti i suoi predecessori: egli aborda il problema delle cause efficienti da un lato interamente nuovo, che nessuno prima di lui aveva mai intravisto; e se anch'egli ha cercato, come i suoi predecessori, l'elemento permanente delle cose, non è come cfsì nella materia che lo ha trovato, ma nella forma. Certo anche Platone è fii>Ilo dei passato, e ne riceve l'eredità: da Eraclito prende il principio del divenire; da Socrate la definizione; ai matematici deve r’idea del metodo dimostrativo; prima di lui la scuola di VELIA aveano visto nel mondo dei sensi l'apparenza cangiante di una realtà immutabile; il concetto teleologico era stato adombrato da Socrate e da Ippncratc, ed era contenuto virtualmente nelle dottrino di Anassagora, di Eraclito e di altri fisici; la sua dottrina sull'anima è una sistematizzazione dell'antico animi^ui^; la sua etica uno sviluppo dell'etica di Socrate; la sua fisica una continuazione della fisica anteriore. Ma nessuno degli elementi der sistema delle Idee, né la real'zzaziono degli unirversali, né il metodo a priori, come metodo scientifico universalee tanto meno perciò la dialettica, Inlrod. allo stud. della filos, Milano quale metodo di dedurre i concetti non trova alcun riscontro nelle filosofie del passati. Bisogna pure tener conto, se si vuol paragonare Platone con Hegel – come Grice paragona Kant con Aristotele KANTOTLE E HEGELPLATO, ARISKANT E PLATHEGEL, della diffcrenza tra T epoca del secondo e quella del  primo, scarda necessariamente di senso storico, e in cui i documenti sul pensiero dei filosofi che si tratta d'interpretare, o mancano affatto come pei primi pitagorici, o non potevano avere quella precisione di lingua e quell'abbondanza di sviluppi, che sono il prodotto della maturità della coltura. Ciò che dobbiamo infino, notare é che questo bisogno di ritrovare nelle filosofie precedenti  i principii della propria filosofia e in questa quelli delle filosofie precedenti è, in Platone come in Hegel e negli altri filosofi che hanno seguito la stessa forma di metafisica, una conseguenza logica del'c loro teorie sulla conoscenza. La forma di metafisica dì cui parliamo consiste nella obbiettivazionc dei concetti, e nella ricostruzione a priori del n ale, deducendo progressivamente questi  concetti obbicttivati gli uni dagli altri con un metodo regolare determinato, che non é eh", la legge stessa secondo cui le cose si sviluppano. Essa ammette cosi tra il pensiero conoscente e l'oggetto conosciuto una corrispondenza tale, che, oltrepassando di gran lunga quella che noi siamo abituati a vedere tra il pmsiero e le cose, esige, come tutti i fatti con cui non siamo familiari, una  spiegazione; e le ipotesi a cui si ricorre per dare questa spiegazione, sono tali generalmente che e'sc rendono più completo ancora, dopo la loro adozione, in questa metafisica, questo parallelismo primitivo fra il pensiero e le cose, che si tratta di spiegare. Queste ipotesi, limitandoci a parlare di Platone e di Hegel, sono, come si sa, pel secondo l'identità deiressere e del pensiero cioè del   pensiero generale e deir essere generale, 0 pel primo, l'intuizione delle Idee in una vita anteriore e la conseguenio reminiscenza. Conoscere, per Platone, è  ricordarsi;  per Hegel, è l'evoluzione doA pensiero per una forza interna e secondo una legge di sviluppo che gli è propria. Nell'una e nell'altra ipotesi, la scienza ci ò in qualche modo innata; epsa prf esiste nell'anima, per dir cosi,  allo stato latente, e non ha che r d estrirsecars'. Con queste premesse, come Platone o Hegel potrebbero ammettere che il proprio sistema, cioò la scienza stessa poiché tutta la scienza, la vera scienza, per essi, è il sistema delle Ideesia esclusivamente la loro creazione individuale? che gli altri uomini non l'hanno mai connsciuto, né in tutto nò in parte? chu tutta la filosofia anteriore non  è che una continua aberrazioro? che la verità è u ti privilegio proprio, e che al di fuori d^lla loro filosofi  i personale non vi ha che l'errore? Con queste premesse anzi  l'eMstenza dell'errore e dell'ignoranza diviene incomprensibile; la verità dovrebbe essere il patrimonio comune di tutti gli uomini. E qui possiamo osservare, per incidente, come le ipotesi metafisiche vadano stranamente al di là del loro scopo. Un'ipotesi che vuole spiegare perchè esiste il bene la concezione teleologica del mondo dà luogo alla insolubile difficoltà: qu«l è^l'origine del male? Un'ipotesi che vuole spiegare comò possa esistere la verità e la scienza, mette i suoi autori in faccia a un'altra quistione più imbarazzante: come può esistere l'errore e l'ignoranza? La nuova quistione in cui s'imbatte  il realista dialettico nella sua spiegazione della coincidenza tra il pensiero e la realtà – GRICE LANGUAGE THOUGHT AND REALITY è cosi poco suscettibile di una soluzione radicalo che quella in cui s'imbatte il teleologista: ma come questi cerca almeno di attenuare la sua difficoltà, falsando il  bilanC'o dei beni e dei mali nel monlo, cosi quegli cerca di fittenuare la sua, falsan^^o  quello della verirà e dell'errore, della scienza e dell'ignoranza. Di là lo sforzo d ir uno di giustificare il passato dei suoi errori e delle sue ignoranze corrispondente a qu'^llo dell'altro di giustificare la natura dei suoi mali e delle sue imperfezioni; e per conseguenza, l'accostannento alle filosofie del passato, attribuendo ad  e^se i concetti della propria filosofia o anche accogliendo in  qu<^sta i concetti di e^se. Gl'impulsi che spingevano Platone a riattaccarsi allo tradizioni filosofiche era naturale che si dirigessero di preferenza verso il pitagorisrno. Vi erano vari motivi che agivano in questo senso. Primo, Talta riputazione di sapienza, di cui. godeva necessariamente una vasta associazione dedita ai Uvori scientifici, come quella a cui app'irtenevano i filos'^fi    pitairorici; poi, l'analogia delle idee al punto dì vista politico, sociale, morale, religioso, a cui possiamo nuche aggiungere la comunità degli studi matematici e l'importanza pressoché eguale che entrambe le filosofie attribuivano a questa scienza. Ma il motivo preponderaot», senza dubbio, deve cercarsi nell'affinità delle due filosofie, maggiore di quella che la platonica ha con qualsiasi altra delle ant che. Quefiit'affiniià, come abbiamo notato, consiste specialmente in questi due punti: I princìpii dei  Pitagorici i numeri, gli elementi e, sino ad un certo punto, lo due auaxotx^ai di contrari sono delle astrazioni realizziate, come quelli di Platone. Essi rappresentano sovratutto, non la causa materiale o motrice, come quelli degli altri filosofi anteriori a Platone, ma la specie  o il concetto, come lo entità platoniche. Aggiungiamo infine la mancanza, sino ad un'epoca recente, di documenti scritti sulla filosofia dei Pitagorici; la loro predilezione pella lingua simbolica; il secreto che mantenevano su certe proposizioni questo simbolismo e questo secreto concernevano altri punti che le loro dottrine filosofiche; ma ciò basta per dare qualche credito air opinione che tutta la filosofia dei Pitagorici non sta in ciò che essi ne pubblicano, e che questo stesso non dove essere preso alla lettera  Era quanto occorre pcrchò Platone potesse appl'care a tutto suo agio il suo metodo fantastico d'interpretazione. Il pitagorismo nel Timeo. Nel Timeo, alcune delle dottrine del periodo pitagoreggiante sono esposte apertamente, altro involto in una forma simbolica. Delle prime la separazione della materia dalle Idee e la sua ridujzione allo spazio, e la composizione dei corpuscoli elementari ci siamo occupati nel numero procedente: qui parleremo delle seconde. L'argomento del Timeo è la narrazione dell'origine del mondo, e il supposto narratore è un filosofo pitagorico, da cui il dialogo prende il nome. Il mondo ha avuto un'origine nel tempo: esso è stato formato da un artefice demiurgo che contempla le Idee come modelli e si serve di una materia preesistente. Al priucipio la materia era agitata da un movimento confuso e disordinato; non vi erano in alcuna parte delle forme regolari e costanti; Dio il demiurgo fa passare le cose dal disordine alPordine, «effettuando da pf*r tutto ciò che era il migliore OTTIMO PARETO. Egli stesso forma Tanima, gli elementi, il cielo, il tempo, gli astri e la terra; poi co Zeller manda agli altri dei, ch'egli aveva prodotti, di produrre alla loro volta gl’animali mortali. Questi, ricevuta da lui la parte immortale delTanima, che egli compose a somiglianza dell'anima del mondo, ne eseguirono il comando, imitando l'azione creatrice del loro demiurgo e padre, e formarono i  corpi degli animali propriamente detti e delle piante che sono anch'esse una sorta di animali, e la parte mortale dell'anima. Timeo mostra, in ogni opera particolare degli autori del mondo, le ragioni provvidenziali che vi hanno presieduto, e l'aggiustamento dei mezzi ad uno scopo determinato: gli dei, in effetto, sono stati obbligati di servirsi delle cause materiali, fatali nella loro azione e ribelli, sino ad un certo punto, alTaziono ordinatrice, ma hanno realizzato, per quanto è stato pos<<ibile, il bene in tutto ciò che hanno prodotto. Se si ammette Timmanenza delle Idee, è evidente che il racconto di Timeo non può essere proso alla lettera. Dio non avrebbe potuto creare il mondo senza creare allo stesso tempo lo Idre, perchè queste non  «^ono  altrove che nej monio  stesso, di cui costituiscono l'elemento  formale: il mondo attuale ordinato è stato preceduto da un mondo disordinato, il demiurgo ha annientato le idee a cui prima la materia partecipa, e ne ha prodotto, al  loro posto, delle altre. Perchè la cosmogonia del Timeo potes»e essere presa alla lettera, bisogna ammettere dunque che le Idee, che Platone dà costantcmcnte come eterne e se si  comprendono bpne i privici pii della sua dialettica come necessarie, possano C'is^re prodotte ed annientate. Ma indipendentemente da quest'ordine di considerazioni, che il racconto cosmogonico del Timeo non sia che un semplice mito e che esso non debba essere inteso letteralmente, noi ne abbiamo dello prove abbondanti, sia nel Timeo stesso, sia nel v»;ll complesso dclFopera di  Platone, e nello testimonianze dei suoi dincepoli. Ecco le più importanti: L'antropomorfismo grossolano che recrna in tutto il racconto. Le operazioni del demiurgo e dello altre divinità che hanno concorso con lui  alla proiuziono dol mondo, sono rappresentate come perfetta mento simili a quelle di un fabbro.  P. e. ecco come Dio ha prodotto le ossa: Dopo aver vagliato della terra pura  e molle, egli la impastò, inzeppandola di midolla; in seguito mise questa mescolanza nel fuoco, poi laimmers» nclTacqua; poi nuovamente nel fuoco e nuovamente neH'acqaa; e facendola passare più volte dall'uno  nlTaltro di questi due elementi, fece si che es«^a  non potesjjc ossero disciolra né dall'uno né dalTaltro. L'impossiblità di prendere sul serio simili rappresentazioni ò de  Tuliima evidenza, quando questo processo tutto meccanico attribuito al creatore si applica ad oggetti nssolutimente insuscettibili come sono le entità astratte della metafisica platonica. E ciò che avviene nella composizione delTanima, che il demiurgo forma, mese alando dentrii un vaso Tessenza indivisibile riiea con la divisibile la materia e con lo Stesso e il Diverso. L'intervento  miracoloso del demiurgo, che é un vero Deus ex machina. Egli non spiega la sua aziono nel mondo che all'origine; in seguito questo basta a se stesso, e nrn ha bisogno d irintervento di alcun agente straniero. Il carattere dei principii filosofici è la generalità e la costanza della loro azione: al racconto mosaico – GRICE FIAT LUX -- della creazione in sei giorni i filosofi creazion'sti sostituirono la dottrina della  creazione continua. Il mito concentra tutto in un punto del tempo: una legge generale  diviene, in esso, un fatto particoUre. Bisogna anche notare ciò che si dice del demiurgo, quando questi ha già rappresentata la parte che |?li  é spettata nella creazione: E quello che aveva ordinate tutte queste cose resta nel suo stato, secondo la sua abitudine e ciò vuol dire  che il demiurgo cessa di operare, rientrando nella sua quiete abituale. L'azione del demiurgo apparisce dunque come un fatto isolato ed eccezionale, non solo rapporto al mondo in cui si é esercitata, ma rapporto al soggetto stesso che Tha esercitata. Le incoerenze evidenti nelle circostanse principali del racconto. La più sai 'ente é il movimento della materia, prima della nascita del  tempo. Per risolvere questa contraddizione si é preteso che il demiurgo crea, non il tfmpo, ma il tempo ordinato: ma Platone dice chiaramente che il presente, il passato e il futuro sono forme del tempo creato dal demiurgo. Il movimoLto disordinato anteriore alla formazione del cosmos, e, per conseguenza, dell'anima, é anche in contraddizione col principio platonico, ammesso nel  Timeo stesFO, che l'anima é il principio del movimento. Inoltre, se come si stabilisce, e come risulta necessariamente dai principii del sistema delle idee, il divenire ^éveotc nasce dal concorso delle idee e della materia, come sarà esso possibile prima deirazione del demiurgo, che ha fatto partecipare la materia alle ideo? Da questa contraddizione ne viene un'altra pm esplicita ancora.  Gli elementi ora si fanno creati, ora increati. Da una parte infatti essi devono esseie creati, primo perchè racchiude no il principio ideale, e, come .1 Proclo in Tim. abbiamo detto, la partecipazione alle Idee è, secondo il 7imeo, Topera del creatore; e poi perchè la spiegazione teleologica si estende anche ad essi, e anch'essi devono per consegneiìza essere il prodotto dell'intelligenza. Ma  da un'altra | arte devono esistere g à nella ^ì^bok; anteriore alla creazione, poiché il movimento disordinato prima della formazione del osmos  non può avere per sustrato la materia indeterminata questa per Platone non è che il semplice spazio ma la materia divenuta dei corpi particolari per la sua circoscrizione cioè per la circoscrizione dello spazio dentro superficie determinate. Aggiungiamo infine, per limitarci alle incoerenze più notevoli, che la supposizione di un essere intelligcnte distinto dall'anima il demiurgo è in contraddzionc col principio, ammesso nel Timeo eripetiit-ì nel Snjista e nel Filebo, che non può esservi intelligenza genz-anima. I punti cnt)itali della cosmogonia del Timeo sono questi due: T origine del mondo nel tempo, e un principia iot'^lligetite, separato da esso e distinto dairanima il demiurgo, che l'ha prodotto: ora nell'uno e nell'altro punto il Timeo è in contraddizione col complesso dell'opera platonica. In quanto al Dera-urgo, esso non si trova che nel solo Cosi nel Sofista e nelle Laggì gli elementi sono prodotti dnU'anima. Quando verremo alla spiegazione del significato del mito, si vedrà perchè è al soggetto  degli elementi che si  manit'esta sovratutto la contraddizione inerente al concetto I una  Y^veot-C antenore alla formazione del mondo e, per conseguenza, alla partecipazione della materia alle Idee. Timeo: di più le dottrine esposte negli altri scritti di Platone non Usciano alcun posto per un Dio tsascend^'ute come il Demiurgo del Timeo, Certamente la dottrina costante di Platone è che  la divinità è la causa prima di tutto ben inteso, considerando il tutto come un complessD di fenomeni, e la causazione come un rapporto tra questi fenomeni; ma la divinità none, per lui, ch6 Tanima cosmica. Secondo le Leggi ciò che prova l'esistenza della  divinità è che il movimento di ciò che muove se stesso cioè delPanima è il principio di tutti i movimenti;  e che, per con»<ogueiiza,  le cose che appartengono air anima, come rintelligenza, la preveggenza, Tart^,  ecc., sono anteriori a quelle che appartengono ai corpi, e Tauima è la causa prim i dei beni e dei mali, delle cose belle e brutte, giuste ed ingiuste, e, in una parola, di tutt^ le cos« . Nel Fitebo, Tintelligeazaè T uno dei quattro generi in cui gli esseri sono stati divisi, quello che è la causa di tutti gli altri: ma c-'sa non è che una facoltà delT anima cosmica, perchè la mente e la sapienza non possono esistere altrove che nell'anima. Nel T'udrò si dimostra che Tanima non può avere un'origine perchè essa è il principio di tutte le cose: infatti se il principio venisse da qualche cosi, non verrebbe dal principio, e alloca non sarebbe vero che tutte le cose vengono dal principio. Nel Sofida Dio è detto  l'autore degli aniunli, le piante, l'acqua, il fuoci, in una parola, di tutti le così che si dicono prodotte dalla natura; ma per questo Di) si deve intendere V anima del mondo, conformemente al principio precedentemente -stabiliio, che l'intelligenza non può trovarsi 2«4che in uu 'anima. Nel mito del Politico s? parla pure di un demiurgo del mondo; ma questo demiurgo «ppartieoe al genere  ciò che muove se stesso, va'e h dire al genere anima. ìicW Epinomide, infine, il mondo è prodotto come nel Timeo; ma quello che l'ha prodotti non è un dio trascendente, ma Tanìma, quella stessa che anima il cielo e gli astri e li muove : l'anima è la causa di tutte le cose, la buona delle buone, la cattiva delle cattive. L'autore deW Epinomide ò per noi, sino ad un certo punto, indifferente  che esso sfa Platone o uno dei suoi discepoli afferma espressamente che non vi ha alcun altro essere incorporeo che l'anima; e non riconosce altre divinità  a part*^ le supers'izioni relative ai demoni aerei, acquei ed  eterei che il cielo e gli astri, cioè le loro anime in effetto, dopo aver detto che andrà ad esporre le vsue dottrine angli dei, egli non paria che di questi; il Dio supremo, il Dio  per eccellenza, è il cif^lo o il mondo, che noi dobbiamo ppccialmente onorare e adorare, com^i fanno fitti gli altri dei e demoni. Ma vi ha di più: il Demiurgo del Timeo no w è solamente in contraddizione colle dottrioe sulla niente e la divinità, ma colla stessa dottrina fondamentale di Platone, vale a diro il sistema delle Idee. Questo esigo che tutto ciò che esiste sia ricondotto alle Idee;  ma non può esservi Idea del Demiu'-go. Infatti, ammetteremo che egli, creando il mondo, ha creato anche l'elemento ideale del mondo? Ma allora è un principio sup^ir ore alle Idee. Ammetteremo solamente ch'egli è stato la causa della individuazione delle Idee? Ma se, perchè le Idee s'individuassero, è stata necessaria V azione del Demiurgo, come avrebbe potuto Tldea del Demiurgo  individuarsi? Quest'osservazione, sia detto di passaggio, può servire a mostrare la poca consistenza deiropinione di quei critici, i quali ammettono che il mito del T/m^oha per oggetto di supplire alPinsufficienza del sistema, rappresentando d'una maniera fantastica il passaggio dall'ideale al fenomenico, che Platone non poteva, per i presupposti stessi della sua metafisica, spiegare  scientificamente. Essi obbliano che quando si è introdotto un creatore personale del mondo e una materia in movimento preesistente che non sono certamente delle entità generali si è già fatto questo difficile pa^ssaggio dall'Idea al fenomeno  cioè airindividuale che si sarebbe trattato di spiegare. Aggiungiamo che, se il Derainurgo del Timeo fosse un convincimento reale di Platone,  esso occuperebbe evidentemente nel sistema, essendo irriduttibile alle Idee, il posto di un primo principio: intanto Platone non ammette altri primi principii, prima del sincretismo con le dottrine pitagoriche, che V Idea del Bene, e dopo, che quest'Idea stessa, cioè l'Uno, e la materia o Dualità indefinita. In quanto all'origine del mondo nel tempo, la contraddÌ7.ione del Timeo con gli altri  scritti di Platone è sovratutto manifesta al soggetto dell'anima. La dottrina costante di Platone è che l'anima è, non solo immortale, ma eterna, ch'essa non avrà mai fine e non ha avuto mai cominciamento  P^i* il mondo stesso, cioè per il Fedro, Rcp., Meno, F^do, eoo. corpo, la contraddizione non è cosi aperta, perchè in altri scritti del periodo pitag'oroggiante, come noi Timeo e per  motivi analoghi, la relazioQC tra l'universo visibile e i principii da cui es9'> deriva è rappresentata simbolicamente come un'efficienza nel  t-.mpo. Così il motivo principRle, se non Punico, per attribuire a Platone la dottrina dell'eternità del mondo è che essa è una conseguenza necessaria dell'eternità delle Idee. Tuttavia questa dottrina si trova d'una maniera abbastanza esplicita in più  luoghi dei dialoghi, co»ne neìFiltbo, nel Convito, ed è presupposta nella definizione dell'Idea conser\ataci da Proclo in Parmen. VELIA: la causa esemplare di ciò che vi ha di perpetuo nella  natura. K^ I discepoli immediati di Platone intendono la cosmogonia del Timeo in un senso allegorico. Platone, es-ii d'cono, non ignora che il mondo è eterno e non ha avuto cominciamento; la  genesi de3critta nel Timeo non è che un artifizio di metodo a cui egli ha ricorso per far comprendere più chiaramente i suoi concetti; la produzione nel tempo simboleggia l'or.iine logico tra ciò che vi ha nell'essere di primitivo e ciò che di derivato. Quest'interpretazione è attribuita a Crantore, a Senocrate, a  Le ccMe che ai dicono essere eternamente constano di uno e di molti e hanno in sé per natura la tìnità e T intìnità r, carte. Queste cose a  cui si attribuisce l'eternità non sono le Idee pure, ma le Idee già individuale, perchè qui T"intìnità designa la moltitudine intìnila degl'individui. La generazione è un che di sempiterno e d'immortale nel genere mortale Il genere umano è esistito ed esisterà in ogni tempo. Speusippo, e ai discepoli di Platone in generale. Aristotile la rigetta, e vuole che Porigine nel tempo sia intera letteralmente: ma è evidente che, in questo caso, l’opinione dei discepoli fedeli d' Platone, rimasti sino aiPultimo in intimità intellettuale col maestro, e che ne dividono il punto di vista, deve avere per noi più peso che quella di un discepolo che ha abbandonato la scuola – SCHIFFER’S APOSTASY circostanza importante, perchè Piatone ha certamente scritto il Timeo negli ultimi anni  della sua vita ed è divenuto un acre avversario, e che del resto mostra abbastanza, per le sue esitazioni e i suoi equivoci nell'interpretazione del sistema delle Idee, di non essersi mai posto sufficientemente al punto di vista del maestro. Anche Teofrasto, discepolo d'Aristotile, pensa che forse la cosmogonia del Timeo deve intendersi nel senso allegorico voluto dai discepoli di Platone. Una circostanza che dà  più autorità alla loro interpretazione è che anch'essi fanno uso del metodo simbolico del maestro, rappresentando la dipendenza logica del derivato dal primitivo come un'origine del mondo nel tempo. Questo per l'origine nel tempo. In quanto all'altro punto fondamentale della cosmogonia del TimeOy cioè il creatore personale, noi non abbiamo conci) Arist. De Coelo; Simpl. ad Arist, De Coelo comm. a questo luogo; Schol, cod, Reg, ed. Brandis; Schol, cod, Coisl. ed. Brandis; Proclo in Tim, A. ed. Basii.; Plutarco Psicogonia. Teofrasto Fr. ed. Didot. Il luogo indicato d'Aristotile relativo a quest'interpretazione. Cnelo comincia con queste parole: Il sussidio ohe cercano di darsi alcuni di quelli che fanno il mondo incorruttibile ma generato, non è vero. Essi dicono di aver parlato della generazione del mondo come i geometri che descrivono le figure ^ eco. 1 tro di esso delle testimoDianze cosi esplicite dui discepoli fedeli di Platone. Ma ia compenso Aristotile, non solo non conta il Demiurgo del Timeo tra i principii della filosofia platonica, ma non dice mai una parola che gli si rif-risca: anzi le sue parole implicitamente escludono resistenza di questa dottrina o altra simile tra quelle del suo maestro. Se Platone e la sua scuola avessero preso il Demiurgo sul serio, sarebbe un obblio in molti casi assolutamente inesplicabile, per esempio quando è qui8ti'>ne della eausa etficiente in Platone o de! perchè della partecipazione alle Idee, come in De generaf. et corr., Met. Il silenzio d'Aristotile è tanto più significante che, se il demiurgo dove riguardarsi come una dottrina reale di Platone, esso non costituirebbe un semplice accessorio, Chiapponi crede ohe Aristotile alluda al Demiurgo del Timeo in Met,, con le parole: T( y^P ^oit xó IpyaJófisvov Tzpòz T:à€ ESéag ànopXsTiov; che egli traduce con quejàte: Che cosa è quest'artefice che contempla le Idee? e parafrasa con queste altre: che vale il dire ohe vi ha un demiurgo il quMe opera secondo gli eterni paradimmi ohe gli stanno dinnanzi? Ma bisogna tradurre invece: ohi è che opera guardando le Idee? e il senso è, non, come vuole Chiapponi, che Tartefice che contempla le Idee non vale niente, ma che vi ha bisogno di un'artefice che contemplasse le Idee. È ciò che prova tutto il contesto. Aristotile vi dice: Dire ohe le Idee sono degli esemplari non spiega come le cose ne vengano, e non è ohe un vaniloquio e una metafora poetica, poiché bisognerebbe per ispiegare come la cose vengano dall’idee qualcuno che guarda l’idee e fa le cose a loro imitazione. In effetto, continua Aristotile, la semplice esistenza d’un esemplare non può essere la causa d’una cosa essere o divenire simile a quest'esemplare, una cosa potendo egualmente essere o divenire simile ad un'altra tanto se questa esiste quanto se non esiste. ma una parte principale del sistema, speci ilmente nelrinterpretazione trascendentalista, in cui sarebbe la sola soluzione che questi avrebbe tentata del problema della partecipazione cioè della somiglianza delle cose alle Idee. Infine, ch^ la cosmogonia del Timeo non sia che una semplice allegoria, è ciò che V autore stesso ci fa comprendere assai chiaramente. Così Timeo fa precedere il suo racconto da questo proemio: In ogni cosa il punto principale è di comiaciare con un cominciamento conforme alla natura. Bisogna, rispetto air immagine cioè al mondo sensibile e al modello le Idee, fare una distinzione, cioè che i di-jc^rsi devono avere dell'aifìnità con gli oggetti di cui trattano; co4 quando si pirla di un oggetto stabile, solido ed evidente le Ilee, occorrono dei discorsi stabili ed inconcussi, che, per quanto è possibile, non possano essere scossi né confutati, e non lascino nit^nte a desiderare sotto questo ripporto; ma quando si parla invece di ciò che è fatto a somiglianza di quello e non é che un'immagine, bastano dei discorsi verisimili e proporzionati a qa<*lli cioè che siano a quelli nella stessa proporzione in cui Timmagine è al modello. Come il divenire è aire-^sere, cosila fedeèalla verità vale a dire, come il fenomeno il divenire è un'immagine dell'Idea dell'essere, cosi la fede cioè, evidentemente, la credenza che ha per oggetto un discorso verisimile, come quello ch'egli fa suirorigine del mondo è un'immagine della verità. Se dunque, o Socrate, dopo che tanti hanno detto tante cose sugli dei e sull'origine dell'universo, io non posso proferire un discorso rigoroso e del tutto coerente con se stesso, tu non devi esserne sorpreso; se non è meno verisimile che alcun altro, si deve esserne contenti, ricordando che io che parlo e voi che giudicate siamo degli uomini, sicché su queste cose conviene appagarsi della verisimiglianza del milo |iu8o€, e non richiedere di più. Questo carattere allegorico del racconto cosmogonico di Timeo Piatone lo fa intravedere tanto sul Tuno quanto sull'altro dei due punti capitali di questo racconto il Demiurgo e V origine nel tempo. e Timeo dice: E difficile di scoprire Fautore e il padre di quest'universo, e scopertolo, è impossibile di parlarne a tutti. Le ultime parole sono un'allu-iione evidente alla massima pitagorica che tutto non è da dirsi a tutti significano che ciò che Timeo dice del padre e dell'autore dell'universo questi appellattivi, nel Tirrno^ designai)0 naturalmente il Demiurgo none che exoterico^ cioè non è che un'espression» popolare di una dottrina rrcondita, su cui Timpo intende mantenere il secreto verso i non iniziati. Il luogo e' tato: P] quello che aveva ordinato tutte queste cose resta nel suo stato, secondo la sua abitudine, indica pure che la rappresentazione antropomorfistica del Timeo del principio creatore e della sua azione creatrice non è che un simbolo. Esso significa infatti che un'azione che si svolge nel tempo, o poiché il tempo si dice creato dal Demiurgo che implica la successione e il cangiamento, è in contraddizione con la natura di questo principio, a cui compete, invece di una tale attività, la permanenza nello stesMo stato, l'immutabilità, che è l'attributo delle entità della metafisica platonica. Un'altra indicazione che ArÌ9tos36ne ap Diog. Notiamo col Martin ohe la frase greca è ambigua: essa può significare o che il creatore resta nello stesso stato mentre pròduce il mondo, o che vi ritorna dopo aver agito nella prodazione del mondo Martin Timeo. Quest'ambiguità potrebbe essere voluta: il secondo senso corrisponde al significato apparente del mito, il primo al recondito. il Demiurgo non deve essere preso alla lettera, è la sua scomparsa là dove Platone parla, non più da mitologo, ma da filosofo. Ivi egli non ammette che tre cose, Vesaere le Idee, il luogo e la genesi: il Demiurgo è assente da questa classificazione generale degli esseri, e non può trovarvi alcun posto. Anzi la restrizione del significato della parola essere alle Idee esclude nettamente la possibilità di un'esistenza qualsiasi irriduttibile alle Idee, come sarebbe, il Demiurgo. Di più nel primo dei due luoghi indicati l'Idea è riguardata come la causa efficiente e il padre dell'u^iiver^o sensibile, prendendo cosi il posto del creatore personale. Aggiungiamo, infine, l'avvertenza di Timeo ch'egli non parlerà del principio o dei principii di tutte le cose, perchè ciò non gli è permesso dal metodo se;i'UÌto nel suo discorso: è evid'^nte eh, se il Demiurgo fosse una dottrina reale, sarebbe il principio, o uno dei principii, di tutte l«» cose. Il carattere simbolico delT origine del mondo nel tempo, poi, è indicato della maniera più chiara, in cui il tempo, creato dal Demiurgo, è chiamato «immagine eterna dell'eternità >>il tempo è la condizione di ciò che cangia, l'e'ernità di ciò che è esente dal cangiamento. Questo luogo deve mettersi in connessione con quello che viene un po'dopo, in cui si dice che il tempo ò nato insieme col mondo, e che il modello cioè le Idee è per tutta la eternità, e il mondo è esistito, esi4e ed esisterà per tutto il Notiamo però che Timeo non vuol dire ch'egli non parlerà affatto dei principii delle cose; infatti soggiunge che si limiterà, come disse al principio, al discorso verisimile, indicando cosi che è secondo la loro natura roalo ch'egli non ne parlerà, ma che, benché non ne dirà il vero, ne dirà il verisimile. tempo. Dicendo che il tempo e, per coasegueiiza, il mondo sono eterni e non per tanto creiti, Plato le significa anche il sen-»o reale del simbolo, cioè una processione ab aeterno, ìq cui tra le erse procedenti e il principio da cui procedono Tanteriorità e posteriorità non è che logica. Si é creduto che Felemento rappresentativo della cosmogonia del Timeo consista unicamente nella produzione nel teuapo, e che il contenuto filosofico del m^to sia, per conseguenza, che il mondo procede eternamente da Dio, cioè da un'intelligenza creatrice. Ma questa interpretazione prima di tutto lascia intatta la difficoltà principale. Se il mondo t'osse creato da Dio, [questi creerebbe anche le Idee, perchè esse non sono che l'elemento permanente e sostanziale del mond^. Ma noi non possiamo ammettere che le Idee sono create: primo perchè, secondo Timeo esse preesistono, come paradigmi, alla creazione cronologicamente se la creazione nel tempo deve prendersi alla letera, logicamente se essa è il simbolo di una processione ab aeterno poi perchè le Idee sono per Piatone le cause ultime, e i loro elementi i principi! ultimi, delle cose; e infine perchè ciò che è necessario non può essere creato, e Pldea è necessaria, di questa necessità assoluta che consiste in ciò che la sua non esistenza è logicamente impossibile e implica Il luogo del Tiìneo in cui si stabilisce che il mondo è un'immagine è tradotto cosi da CICERONE: ex quo effìcitur ut flit necesse huuc, quem oernimus, mundum, simulacrum aeternum esse alieuius ((eterni y,. CICERONE, iJe univers, Le parole aeternitm e<l aeterni non hanno le loro corrispondenti nel testo greco, almeno in quello che noi possediamo. Noi non sappiamo se CICERONE le legge nel suo testo; ma ad ogni modo il pensiero espresso nella sua tradazione di questo luogo non ò ohe quello implicitamente contenuto e. contraddizione. In questa interpretazione inoltre restano ancora tutte le difficoltà relative al Demiurgo: la impossibilità di un essere che non si risolva in Idee; il silenzio d'Aristotile; le opinioni di Platone sulla divinità; il principio che Pintelligenza non può trovarsi che nell’anima; ecc. Ma oltre alle difficoltà che la creazione ab aeterno con un creatore personale ha in comune con quella nel tempo, essa ne ha un'altra che le è particolare. Platone non conosce altra causazione a parte l'anteriorità e posteriorità tra le Ide»», che non potrebbe chiamarsi una causazione che in un senso analogico che quella che avviene nel tempo ed è una successione. Per lui, come per Aristotile, causa efficiente, vuol dire causa motrice; e la causa prima, il primo motore. L'anima è la causa prima di tutte le cose, perchè essa produce il movimento primitivo, da cui vengono tutti gli altri, e tutti i cangiamenti dipendono dal movimento. La dottrina sulla causalità dell'anima, che è la sola causa iperfisica nel senso proprio della parola causa che noi possiamo con prove attribuire a Platone, ci mostra anche che egli concepisce le cause al di là dell'esperienza, più che è possibile, sul tipo di quelle dell'esperienza; la maniera in cui Pani ma produce il movimento essendo assimilata ai casi più familiari di produzione del movimento che Platone, è vero, fa produrre le Idee le une dalle altre, e tutte, in definitiva, dall'Idea del Bene; ma ciò non toglio che ogni Idea sia senza causa esterna ed esista per se stessa, perchè l'Idea producente è immanente nelle Idee prodotte, e per conseguenza queste hanno in se stesse la ragione della loro esisteaza. Filebo e Sof. Leggi. [ ci presenta l'osservazione, poiché essa non metto in movimento i corpi che per la comunicazione del proprio movimento. Interpretando la cosmogonia del Timeo corno una creazione ab ae(er>no, noi attribuiremmo dunque a PJaton'ì dei concetti sulla causalità che gli sono assolutamente stranieri e che del resto noi non potremmo attribuire ad alcun filosofo d Ila sua epocao di un'epoca vicina, non comparendo essi nella storia della filosofia greca che coi neopitagorici e i neoplatonici. Un grave inconveniente di questa interpretazione è poi di attribuire a Platone u»»a doitrina chVgli non ha mai esposta apertimente, (ioè svestita dalla sua forma simbolica. Evidentemente noi dobbiamo cercare nel contenuto filosofico del mito di 7/mf>o una dottrina che noi sappiamo gìh essere appartenuti certament • n Plotone: un'interpretazione che non soddisfa a (ju-sta con-h'zione, nrn solo è poco sicura, ma è intrinsecamente inverosimile, non essendo ammissibile ch'egli abbia esposto solamente sotto la forma enigmatica del simbolo una dottrina tanto importante quanto è quella contenuta nel mito del Timeo, che ha Fenza dubbio per oggetto le cause ultime dell'universo. I risultati a cui si*imo già pervenuti ci indicano in qual dìrc'/Aone bisogna cercare. Non potendo trovarci nel Timeo né la dottrina di una creazirne nel tempo, né quella di una creazione ab atferno, ne segue che non può in a'cun modo trovarvs" la doitrina di un creatorevaie a dire di un creatore personale e che, per conseguenza, il Demiurgo del Tiìneo non può essere che la personificazione di un principio astratto. Di più l'azione del Demiurgo |er la produzione del mondo non pot-ndo realmente in-en-h r-'i e aiie un'efficieiua nel tempo, e non potendo nemmeno r«ppi esentare un'effioienza senza idea di successione che è un concetto straniero a Platone e alla sua epoca; ne segue che noi non possiamo vedervi in alcun modo un'efficienza causale nel senso proprio del termine, e che essa perciò non può essere che il simbolo di questa efficienza causale in un senso analogico, che nel sistema delle Idee è denotata coi termini tecnici anteriorità e posteriorità. Ora non vi hanno che due ipotesi che corrispondano a queste condizioni: o il Demiurgo rappresenta le Idee nel loro complesso, e la massa in movimento disordinato anteriore alla creazione la materia delle cose priva della pariecipazione del'e Id^e; ovvero essi rappresentano i due princip'i o elementi delle Idee e delle cose, cioè il primo il Bene o Uno, e l'altra la materia delle Idee e delle crs) o Dualità indefinita. Ma di queste due ipotesi la prima deve escludersi, perchè il Demiurgo non sarebbe una rappresentazione conveniene del mondo ideale. Esso non lo potrebbe essere che se le Idee fossero pensieri, ciò, che data la loro immanenza, non potrebbe avere altro senso che l'identità dell'essere e del pensiero: ma questa è una dottrina, come spiegheremo altrove, che non possiamo attribuire a Platone. Resta dunque la seconda ipotesi. Platone ci dà nel Timeo una spiegazione teleolrgica del mondo. La teleologia di Platone è una teleologia immanente^ la cau^^a della finalità deUe co'^e essendo un principio astratto risiedente nel C, cose stesse: ma questa teleologia diviene nel Timeo una teleologia trascendente, nella quale, cioè, la finalita interiore deIle cose appariFce l'elfcttuazione del piano d'un fig'nte personale. L'ai Supplem. legoria del Timeo consiste dunque essenzialmente in ciò che la causa impersonale e astratta del bene, cioè Tldea stessa del Bene, è rappresentata come una causa concreta e personale. Questa personificazione dell’Idea del Bene non è un semplice giuoco deirimmaginazion^, ma ha per Piatone un alto valore didattico e infatti Aristotile e i suoi commentatori ci rapportano che, secondo i discepoli di Platone, questi ha rappresentato il mondo come creato in grazia dell'insegnamento, JtfiaoxaXCag yL^P^ Per dilucidare Tldea del Bene, cioè il concetto teleologico, ch'egli pone alla base della spiegazione del mondo, Platone ricorre ad una similitudine. Egli dice: l'universo non ha la ragione della sua esistenza che in se stesso, nella sua necessità interiore; ma, considerato nel tutto così bene che nelle parti, esso é costituito come se fosse Pattnazione di un disegno intelligente; per conseguenza, siccome la causa dell'esistenza di ciascuna cosa e di tutte le sue proprietà écome è detto nel Fedone che il meglio è che essa sia e sia tale, noi dobbiamo, per comprendere il perchè di una cosa e della sua maniera di essere, immaginare che questa cosa è 1'opera d'un autore intelligente, e spiegare il disegno sapiente secondo cui è stata formata. Il carattere delPallegoria essendo di trasformare l'astratto in concreto, anche l'altro principio diviene nel Timeo da un'entità astratta, una realtà concreta, ed è rappresentato perciò come una materia determinata preesistente a cui si applica l'attività del Demiurgo La materia premondana del Timfo, priva delle Idee e in un movimento confuso e disordinato, è una rappresentazione assai chiara dell'elemento materiale nella sua doppia funzione di materia delh cose, qnella che Platone identifica allo spazio, e di materia delle Idee e, per conseguenza, anche delle cose stesse -perchè questo è, come d'ceTeofrasto Met. rinforme e il disordinato: questa mnterìa è rappresentata come agitata da un continuo movimento, perchè uno dei concetti che entrano nella significazione del principio materiale è il movimento, per cui Xenocrate chiama, come abbiamo detto, questo principio àsvaov sempre fluente, e lo simboleggia per l'anima. Nella genesi premondana del Timeo possiamo pure trovare rappresentati tutti gli altri concetti della ouoxoix^a dell'infinito: essa è l'tìTieipov, sia nel senso qualitativo, cioè d'inde fim7o perhè non vi era in essa alcuna forma definita sia nel senso proprio e quantitativo perchè la variabilità in essa era illimitata oltre alla divisibilità all'infinito della materia e del movimento; è l'Ineguale, il Diverso e l'Anomalo, perchè allora non vi era la ripetizione costante delle stesse forme, come nell'attuale Ari-it. De Coalo, Simplic, SchoL cod. Heg, e Schol, rod. Cohl., i l indicati neUa nota a carta. pure il l. di Plutarco Piicog, Suppiem. carta. nel mito del Politico che e più ancora ricorda evidentemente il mito del Timeo le parole: Il dio che 1'ha formato non volendo che il mondo per la degenerazione progressiva dalla primitiva imitazione pia esatta del governo del suo demiurgo e padre si dissolva e s'immerga nel luogo della dissomiglianza che è inJlnitOj ritornato al governo di esso ecc. Il luogo infinito della dissomiglianza in cui il monio s'immergerebbe per la sua dissoluzione, è quello stesso in cui era immerso anteriormente alla sua formazione cioè alla formazione del cosmo. mondo ordioato; è il principio del male, perchè i) male, nel mondo attuale, è una sopravvivenza del disordine primitivo, che il Demiurgo non ha potuto che incompletamente ricondurre all'ordine; è il Non essere, perchè questo equivale alla stef-esi, cioè alla GRICE NEGATIO ET PRIVATIO privazione della forma; infine è la MoUiplfcità senza unità, perchè Tunità, Tindividualità, è costituita dalla forma. Se Tuno dei due principii del mondo che compariscono nel ThneOj cioè il Demiurgo, rappresentasse le Idee, l'altro dovrebbe rappresentare, come abbiamo detto, la materia delle cose ciò che si aggiunge alle Idee per costituire le cose, cioè, come si ammette già in questo dialogo, la semplice estensione: ma in questo caso esso non comprenderebbe tante altre determinazioni oltre all'estensione, e non sarebbe la genesi precosmica che ci descrive Timeo. Questa interpretazione, indicataci dalle considerazioni generali precedenti, è confermata da un esame particolareggiato del t«»sto. Il significato del simbolo traspare abbastanza chiaramente dal cominciamento del racconto di Timeo. Diciamo per qual causa il costruttore della genesi e di quest'universo li ha costruiti. Esso era òwono, e nel buono non vi ha mai invidia di alcuna cosa; straniero a questo sentimento, volle che tutto fosse, per quanto era possibile, simile a se stesso. Quegli che da uomini sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accett<»rà giustamente. In il Politico. Tim. e Polit. L'efficienza dell'Idea del Buono è di rendere le cose simili a se stessa, tiuesla essendo in generale la causalità dell'Idea. ft 11 il effetto, volendo Dio che f(»^se tutto buono e niente vi fo-se di cattivo, per quinto era possibile; trovato tutto ciò che era visibile, non queto, ma agitato da un movimento confuso e disordinalo, dal disordine lo ridusse all'ordine, stimando che questo era meglio. Ora non era né è possibile aìVottimo fare altro che il più bello. l'autore dell universo cioè il demiurgo è chiamato l’ottima delle cause; e l'ottimo degl’esseri eterni (àst ovxow) e intelligibili. Quest'ultimo luogo è decisivo, perchè d’una parte gl’esseri eterni (àel ovTa) e gl’esseri intelligibili significano nel linguaggio abituale di Platone, le Idee; e d’un'altra parte, il massimanumte buono OTTIMO PARETO è per lui l’idea del buono, il supremo grado di un attributo spettando all'Idea stessa corrispondente all'attributo. In tnt'o il racconto poi l'aspetto del Demiurgo che Timeo motte in rilievo, è che esso è la causa d(»l bene, cioè della finalità dellf cose: esso è essenzialmente, com'è chiamato, il demiurgo deir ottimo PARETO e del più bello, perchè questo è il punto di coincidenza con l'Idea del Bene, su cui l'allegoria è fondata. Le immagini con cui l'Idea del Bene è rappresentata nel Timeo non sono senza esempi negli altri scritti di Platone. Nella Rep. Dio ha generato l'Idea del letto, e per questo Dio non possiamo intendere che l'Idea del Bene, perchè è e^sa che dà h,\U altre Idee l'essere e la i Tiiiì, e, Fedone eco Titn. Jx'ep, Fedone, ecc. Arisi. FAh, Xu; Fth. Kud. Vili. IH, Mor. T. TU, Timeo, ecc. essenza Itep. e le Idee non hanno potuto essere prodotte da un dio propriamente detto, cioè da una causa personale. il B5ne è detto il padre del sole, e implicitamente perciò di tutto T universo visibile. Nel Tee.teto «vi hanno du'^ paradigmi nell'essere, Tuno divino e felicitisi mo, Taltro senza Dìo e miserrimo. Questi due paradigmi sono senza dubbio le due Idee universalissime, cioè i due elementi, perchè Platone riguarda l'universale come un paradigma rapporto ai particolari che gli sono subordinati. Anche Xenocrate rappresentava 1'Uno o il Bene per Tintelligenza, e lo chiama Giove, il primo dio e padre degli dei padre degli dei è detto il Demiurgo nel Timeo. Non bisogna dimenticare che il nome di Dio dato all'Idea del Bene none che una semplice metafora una metafora è il germe d'un'allegoria, perchè, quest'Idea essendo l'essenza o la forma comune di tutti gli esseri, essa non potrebbe identificarsi con Tintelligenza senza ammettere questa proposizione priva di senso, che la forma o Tessenza comune di tutti gli esseri è Tintelligenza; e quand'anche nelle Idee platoniche si vedessero i pensieri della divinità, l'Idea del Bene sarebbe uno dei pensieri divini, ma non la divinità stessa che è il soggetto di questi pensieri. Ma ciò che non la-»cia alcun dubbio sulla nostra inter Prima ha detto: è necessario che vi sia sempre qualche cosa contraria al Bene; ciò che è un'alt ja prova che, all'epoca in cui scrive il TeetelOy Platone ammette già la dottrina dei due prinoipii opposti La qualitìoa sentir Dio data al principio materiale e privativo ha un equivalente nel Timeo, in cui della genesi anteriore alla formazione del cosmos si dice che essa si trova nello stato in cui deve trovarsi ciò da cui Dio è assente. Stobeo EcU Phys., rrctaz'ore è che eFsa è quella dei discepoli immediati dì Platone. Secondo Simplicio ad Arist. De Coeìoì. Xenocr^te e i platonici in generale dicono che per la produzione deiruniverso, nel TYmco, non deve intendersi una produzione nel tempo, ma che essa ha per oggetti d'indicare Tordine d»lle cose che nell'universo sono più prime e più composte. Le cose più prime vuol dire i primi principii; in esso, che questi prinMpii non sono del'e cause esteriori, ma inerirle mo n », l mìniis'jessoinfine rop,)o<i^ioie tri le cos», più prime e le più composte è la prova più chiara che essi Sino gli elementi di tutte le cos', cioè TUno e la Dualità indettai ta. Questa interpretazione é attributi aXeiocrate anche n '.Hi Scolio cod. Coisl.: Platone, facendo il mondo prodotto, non ha inteso parlare d'uia prò luzoiie reale, rna «in gra^'a deirinsegnamento ha detto che il moad) è stato prodotto dalla materia preesistente e dall'sldos. Qui i princpi del mondo di cui si tratta nel Timeo, sono idt^.nt'fieati con r slSog e la materia: V sleog e la materia sono, U sappiamo, 1'Uno e la Dualità indefinita. Più esplicita ancora è la testimonian/a di Teofrasto snllMdentità dt^l, Demiurgo con l'Idea de) bene: Platone dopo che alla filr»8ofia prima si diede alla storia della natura, e ammise due principii, V uno come materia il 7iav5£X£s, 1'altro come causa e movente, e a questo dà la natura di dio e del bene Fr. Teofrasto sa che il Demiurgo deve identificarsi con rid»a d^l bene, ma prende sul snMo il simbolismo del Timeo. Altrove Me/. Teofrasto st^isso sembra identificare la genesi anteriore al mondo con la Dualità indefinita, perchè, dopo aver detto che Platon3 ha ammesso due principii contrari!, TUno e la Dualità indefinita, e che questa è l'infiaito, Tinform'^, il disordinnt^, soggiunge: per cui Dio non potrebbe tutto ricondurre -. air OTTIMO PARETO, ma solo per quanto gli è possìbile. Queste parole alludono evidentemente ai concetto, tante volte ripetuto nel Timeo, che il Demiurgo non ha potuto, per la resistenza della materia cioè della massa in movimento disordinato che gli è servita di materiale nella costruzione del mondo -attuare il bene chu d'una maniera iQcompleta. Quest'identificazione della genesi premondana del Timeo con la Dualità indefinita spiega pure il fatto che questa in un preteso scritto di Pitagora è chiamata anche Chao^, perchè le proposizioni attribuite a Pitagora sulla Daalità indefinita non sono che quelle di Platone e i platonici. Nella crea/ione del mondo nel Timeo, coi Demiurgo concorrono gli dei generati. Bisogna perciò distinguere nel mito due parti, quella che si riferisse al primo, e quella che si riferisce ai secondi. Nell'una Tallegoria consìste tanto nella creazione nel tempo quanto nella natura personale attribuita all'uno dei principii delle cose. Nell'altra invece la concezione delle forze creatrici come persone non è una semplice allegoria, e questa si riduce in sostanza a rappresentare come avvenuta in un punto del tempo, all'origine delle cose, l'azione continua della divinità n^l governo del mondo. Il significato reale di questa parte del mito non è dunque che la dottrina conosciuta di Platone, che la divinità, cioè V anima del mondo, é la causa prima di tutti i fenomeni. La parte che nella creazione spetta al Demiurgo e quella che spetta agli dei generati sono nettamente delimitate: questi creano ciò che ua-ce e periscp, quello ciò che è im V. i 1. indicati a carta Siriano citato in ZeUer Filoz, dei Greci ed. . peribile e, per conseguenza, eterno questa distinzione è formulata as.«ai charamente nell'allocuzione del Demiurgo agli dei Venerati. L'oggetto principale della ccsmogrn'a del Ti^nco di dilucidare la crncfzione teleologica del mondo. In Plafone vi hanno, come nota giustamente Janet, due teorie della finalità: l'una Immanente, che suppone una causa impersonale la partecipazione dell'Idea del bene, l'altra trascendrnte, che suppone una causa personale. La prima abbraccia nella sua spiegazione tutto ciò che es'ste; la seconda non si applica che a ciò che ha un'origine nel tempo, perchè la causa personale ch'essa suppone è 1'anma, e lefficienza di questa si svolge nel tempo, Platone non avendo ancora l'idea di una causa efficente o jroduttr.ce, nel senso proprio dei termiui, che non preceda nel tempo la cosa prodotta. Siccome il concetto di ui:a finalità tra<5cendente è più chiaro che quello di una finalità immanente, cosi Platone si serve del primo per rischiarare il secondo. Di là la finzione del Demiurgo. Ma questa causa personale fittizia non viene adibita che per ciò che l'anima non può produrre: prodotte le cose eterne, e tra esse l'anima, l'opera del Demiurgo è terminata, perchè con l'anima si ha già, all'oggetto di rischiarare il concetto teleologico per l'intn duzione di cause personali, una causa reale, e non si ha più quindi bisogno di una causa fitiizia. Pt r lo scopo di Platone una causa reale vai meglio di una fittizia, perchè con essa la spiegazione teleologica delle cose viene, non solo resa più chiara, ma anche confermata, il principio che le cose procedono da una causa intelligente avendo, secondo Platone, come noi vediamo nel /^^e/one, per conseguenza necessaria qneDo delle cause fin«lf. I motivi per cni Platone nel Timeo preferisce di esporre le sue dottrine sotto nna forma simbolica, Fono di due ordini: gli uni tcngoco alla finzione che l'espositore è un filosofo pitagorico, gli altri alla natura stcesa di queste dottrine. Timeo, facendo il mondo generato, parla da pitagorico. I pitagorici, e in generale tutti i filosofie i teologi prima di Platone, parlano dfl mondo come originato nel tempo, e ne descrivono la formazione II modo di esposizione del Timeo é dunque richiesto anzitutto dalla verisimiglianza della finzione di questo dialogo: Platone espone i suoi concetti sui principii delle cose sotto la forma tradizionale del racconto cosmogonico, sia per conformarsi alle dottrine della scuola a cui appartiene il personaggio da cui fa esporre que;>ti concetti, sia perchè questa forma è come una marca della veneranda antichità, e le dottrine, ch'egli attribuisce a TIMEO, provengono, a quanto pretende Platone, da una tradizione antichissima. Ma lo scopo di Platone non è semplicemente di dare alla sua finzione una più grande verisimfgiìanza storica: facendo trasparire chiarameate il carattere puramente exoreri^o ed allegorico del racconto cosmogonico di Timeo, Piatone in^eade al tempo gtesso indicare che la cosmogonia dei Pitagorici non è che un'espressione exoterica di una dottrina più filosofica; che essi hanuo reilmente ammessa, cime lui, Teternità Filebo Non bisogna dimantioare ohe le finzioni drammatiche dei dialoghi platonici non sono deUe semplici finzioni poetiche, ma l'autore intende attribuire realmente ai personaggi di questi dialoghi le dottrine ch'egli mette loro in bocca. del mondo noi sappiamo ch'egli pretende stabilire Tidentità delle dottrine degli antichi pitagorici con le sue proprie; e che l'orìgine dell'universo nel tempo è per essi, come p»T lui, un simbolo significante la processione ab aeterno delle cose dai loro principii. L'ogg'itto principale d»lla cosmogonia del Timeo è di dare una spiegazione teleologica del monlo. Il concetto teleologico era sconosciuto ai Pitagorici; ma data l'importanza di questo concetto nella sua filosofici, egli noa può rinunziare a ritrovarlo anche in quella degli antichi Pitagorici, di cui vuole stabilire r identità con la propria. I Pitagorici insegnano che tutto è stato prodotto da Dio. Platone prende per punto di part^nzi quest'Idola a-xe^soria della loro cosmogonia, ne fa l'idea prlncpale, la sviluppa facendola servire di base a una concezione finalistica dell'universo, e trasfigurata cosi la cosmogonia reale dei Pitagorici, l'attribuisce ai discepoli fedeli dei preiecassori di questi Secondo Stobeo, Pitagora dice il mondo generato par un artifìcio logico xax'èJltvoCav, ma non cronologicamente xaià XP^ Ciò vaol dire, come bene spiega Zeller, che i Pitagorici, parlando dolla formazione del mondo, non hanno voluto insagnare che la dipendenza logica del derivato riguardo al primitivo, e non un'origine nel tempo. Stobeo riporta anche un frammanto. cartamante apocrifo, di Filolao, che afferma che il mondo è esistito sempre, e molti autori antichi attribuiscono a Pitagora questa dottrina Zeller Jh'ilos. dei Greci. Che l'opinione, secondo cui l'origine del mondo nel tempo, di cui hann u parlato i Pitagorici, non è una dottrina reale di questi filosofi, esista gi^i all'epoca di Aristotile, risalta dal luogo della Met. Né vi ha \^ojri a dubitare se i Pitagorici facciano o no la generazione; dicono infatti chiarameate y, ecc. Filolao dice ohe Dio ha fatto il limite e l'illimitato. Siriano in Afet. SchoL 1 filosofi, interpretandola come un semplice simbolo dì una speculazione superiore, il cui contenuto coincide con le sue proprie dottrine sui principii delle cose. Fors'anche Timeo non è, nell'intendimento di Platone, il rappresentante soltanto del pitagorismo, ma di tutti gli antichi filosofi e teologi, che avevano attribuito alla divinità o alla mente o ad un altro principio analogo la prima origine deiruniverso; e il Demiurgo del Timeo noi corrisponde solamente al dio creatore dei Pitagorici, ma a tutto ciò che Platone trova nelle tradizioni dei Greci e dei barbari suscettibile di essere interpretato -secondo il metodo arbitrario d'interpretazione che gli ò propriocome un'allegoria dell'Idea del bene. È a ciò che fa pensare Aristotile, quando dice che, se si tien dietro al pensiero d'Anassagora, nella sua conseguenza logici, piuttosto che a quello ch'egli ha espressammte detto, si riesce a fargli amm3ttere per principii V’Uno corrspondente al Nous e la materia indegnità, come i platonici; quando assimila lo stesso Anassagora ed Empedocle di GIRGENTI questi persihe ha posti l'Amicizia tra gli elementi e Ferecide con altri teologi e i Magi ai platonici che ammettono il Bene come principio; quando attribuisce non solo ad Anassagora, ma ad Ermotimo, a Parmenide di VELIA ed Esiodo perchè entrambi pongono, egli dice, come principio l'Amore e ad Empeiocle di GIRGENTI di amin3ttìre p^r principio la causa del bene ed anche, in un certo senso. Si notino le parole del Timeo dopo avere spiegato il motivo per cui Dio ha creato U m3ado (oioj la parte sipaziona della sua bontà: Qaegli che da uomini sapienti accetterà questo principio potissimo della genesi e del mondo, lo accatterà giunta n ante. Met. Met. il bene in se slesso. Visto lo sforzo di Platone di ritrovare i su'>i concetti nelle tradizioni dell'antica sapienza, quenti ravvlc namenti delle dottrina dei suoi predecessori con le sue proprie si troveranno certamente più naturali in lui che in Aristotile. Il principio del bene non potendo essere, secondo le sue idee sui rapporti della propria filosofia col passata, affatto ignorato dair antichità, egli ve lo trova involto in oscuri simboli. Dire che Dio o l'intelligenza o qualche altra cosa di simile è il principio delle cose è, al suo punto di vista, affermare implicitamente la d xtriiia della finalità; di più, le cosmogonie degli antichi non fot^uido essere intese letteralmente, per il loro carattere evidentemente mitico e per r assurdità di un'origiu», del mondo uel t.unpo, e quest'origine, per consegnenza, non potendo significare che il rapporto logico tra i principii e le cose derivate, le cans». ptTsmali o sem-personali, a cui i Pitagorici e gli aliri antichi sapienti hanno attribuito la formazione dell'universo, non possono essere, egli pensa, che delle personificazioni, più o meno coscienti, di un principio astratto, e questo, non altro che l'Idea del bene. Aggiungiamo infine che, per la forma simbolica ed exoterica del Timeo, Platone vuol mostrare eh' egli si accoria con gli antichi Pitagorici, non meno per il fondo dello dottrine, che per la f<)rma esteriore della lo^o esposizione. Il carattere estremamente paradoss astice della filosofia pitagorica, unito alle altre ragioni acni abbiamo accennato al principio di questo numero, hanno dovuto far nascere bei presto l'idea che le dottrine conosciu'^^e dei Pitigorlci noi eraio che dei sìmboli di spe Met, Carta . Uir culazioni più alte: Platone dove farsi promotore dì quest'opinione, s'egli voleva giustificare la sua interpretazione del pitagorismo, tendente a indeutificare questa filosofia con la propria. Esponendo le proprie teorìe sotto il velo deirallegorìa, egli usa dunque un processo, che fa parte del concetto che si aveva e che egli voleva che si avesse del pitagorismo, e si dava cosi anch'esso l'aria di un pitagorico. In quanto ai motivi dipendenti dalla natura stessa delle dottrine, noi vi abbiamo in parte accennato, attribuendo il modo di esposizione del Timeo, sull'autorità di Aristotile e dei suoi commentatori, a un artifizio metodico in graz'a dell'insegnamento (5t5aoxaXCas xapw) dcHa teoria della finalità. Ma qaesto motivo cosi enunciato perde gran parte della sua forzi. Il vero si è eh. Platone nel Timeo esprime la teoria della finalità antropomorfisticamente, p?rchè Tespressione naturale del punto di vista teleologico è 1'antropomorfismo. I concetti che Alla finzione del Timeo, di attribuire le dottrine esporle nel dialogo a un filosofo pitagorico, è legato anche l'aspetto sotto cui vi è presentato di preferenza il rapporto tra le Idee e le cosa. Quest'aspetto è l'esemplarità delle Idee: siccome la formula pia iu uso presso i Pitagorici, per indicare la relazione tra i numuri ole cose, è che queste sono fatte ad imitazione di quelli Arist. Met., e le Idee platoniche corrispondono ai numeri pitagorici, Platone deve rappresentare le Idee sovratutto come modelli, per avere più facile la transizione dal sistema pitagorico dei numari a quello delle Idee. Egli ha tantd più interesse a mettere in rilievo questo carattere comune tra i numeri pitagorici e le Idee, cioè l'esemplarità, che dalla formula pitagorica che le cose sono fatte ad imitazione dei numeri può dedursi il carattere precipuo per cui i numeri di Platone, cioè le Idee, si distinguono da quelli del pitagorismo storico, vale a dire la loro distinzione dalle cose, l'essere X^p'-oioC dai sensibiU. Platone deve esporre sono tali, che è impossibile di esprimerli altrimenti che sotto forma analogica. Il concetto teleologico è un concetto essenzialmente antropomorfista, un'as«imilazione, più o meno cosciente, delle operazioni della natura a quelle dell'uomo: spiegare i fenomeni per le loro cause finali è necessariamente attribuire alla natura un disegno e delle intenzioni come all'uomo. Il metafisico teologo, che ammette una finalità trascendente, trasporta seriamente nelle forze della natura questo disegno e queste intenzioni: ma quando si ammette invece una finalità immanente, cioè quando la spiegazione teleoloj;ica non è al tempo stes30 una spiegazione», teologica, noi abbiamo allora un concetto puramente analogico, che ci dice che la natura, quantunque non abb'a realmente né d'segno né intenzione, tuttavia sì comporta nelle sue operazioni come se avesse un dis'^gno e delle intenzioni. Sarebbe dunque impossibile di far comprendere il punto di vista teleologico, senza quest'analogia delle azioni a cui presiede un dise^^no cosciente: noi potremmo anche dire che se questa finalità incosciente o immanente dei metafisici non teologi costituisce una spiegazione delle cose, ciò avviene appunto spiegare non essenio altro per la metafisica che assimilare ai fenomeni più familiari per q'iesti vaga personificazione delle forze della natura ch'essa suggerisce airimmagìnazione, quantunqiie si rifiuti di ammetterla apertamente come tesi filolofica. Cosi sì avrebb3 forse ragione di domandarsi se la trasformaz'one fantastica del Timeo dell'Idea del bjue in un Demiurgo che produce il bene con intelligenza, sia S3mplicemente p3r Platone un artifizio metodico dovuto alla necessità di ricorrere a delle analogie di questa natura p3r far comprendere il punto di vista teleologie ->, o se di più Platone, pur vedendo nella personfìcazione dell'Idea del bene una semplice allegoria, si compiaccia di qu*^8to rivestimento fantastico dei snoi concetti astratti, perchè vi trova una soddisfazione più completa a questo bis'^gno dello spirito, su cui è fondata la spiegazione teleologica, di assimilare le opere della natura alle azioni delPao no. Non vi ha dubb o infatti che il punto di vista tele Jìgico in Platone sia s!:re^tamente legato al punto di vista teologico, ei è verisimile che la deduzione del Fedone, in cui la teoria delle cause finali è presentata come una conseguenza della causalità universale deiriotellìgenza, rappresenti il processo reale del punsero platonico, che è andato, come sembra più naturale, dal punto di vista teologico al teleologico, anziché da questo a quello. Ma quando i discepoli di Platone dicevano che la generazione del mondo nel r/meo era sta^a fatta 5i5aaxaXix; Xapiv, Vf^risimilmente essi non avevano soltanto in vista la dihicidazione del concetto della finalità per la pn-sonificazione dell'Idea del bene. Per la concezione djlPaltro principio, detcrminato d'una manieri purammte scientifica, n^n vi ha meno difficoltà q,\ì^ p^r quella d.5l Bene. Uno dei lati piìi n5b ilo^i del oncet'io deirelemento materiale è, com 5 abb'amo osservato, ch'esco è consi ierato al tempo sesso come la materia e come la sten»s'. In quanto è la steresi, es^o e il contrario deirelemento formale: non è senza forma, ma ha la forma opp-»s a; è Tineguale, il disordinato, il male, ec3. C)m^ ciò puì essere la materia di cui gli esseri sono fatti, se per materia s'intende quello che resta della cosa arrazion facendo della forma, e non un materiale preesinte it^ co n^> quello di cui si servono gli artefici per prò lurre le loro opere? Evidentemente, di queste due maniere di rappresentarsi la materia, è solo la prima che Jcorrisponde al concetto di materia, filosoficamente determinato; ma per far entrare in questo concetto anche la steresi, Platone è obbligato a sostituirle la seconda, e a rappresentare, per conseguenza, l'unione dei due elementi come un fatto avvenuto nel tempo. Sembra che noa fosse solamente nel Timeo che Platone si servisse di questa rappresentazione. Almeno, Aristotile gli attribuisce la proposizione che il Due, il primo numero generato, viene dall'Ineguale eguagliato, rimproverandogli che l'essere ineguale e l'essere eguagliato sono dunque due stati successivi dell'Ineguale, e che per conseguenza non è semplicemente commessi dicono, in grazia della contemplazione xoO Gscrtp^oai Ivsxsv -questa espressione corrisponde evidentemente al St^aaxaXia; x^P'-v del De Coelo che i platonici fanno la generazioae dei numeri Met.. Può arguirsi da ciò che, anche nella generazione dei numeri, Piatone Jrappreseatava talvolta 1'anteriorità e posteriorità fra i principii e le coie derivate quasi come un'anteriorità e posteriorità cronologica. È forse a tali rappresentazioni che allude la proposizione, attribuitagli pire da Aristotile Met., che bisogna partire da un'ipotesi f^lsa, come i geom3tri che suppongono d'un piede una linea che realmente non è d'un piede: questa proposizione, in effetto, si riferisce senza dubbio a una certa rappresentazione della materia, poiché Aristotile Inda come ua'illazioned3l principio, ara:Ti3S4o nel Sofista, che la materia il Non essere è la natura del falso. Il Timeo non ò la sola opara di Platoaa in cai il mondo si faccia generato. Nel mito del Politico si parla pure d'an demiurgo e padre dell'universo come nel Timeo Polit. Un'altra delle dottrine legate al pitagorismo platonico, indicata oscurainente nel Timeo ed espressa anch'essa sotto forma mitica e simbolica, è quella della il mondo deve tutti i beni a qaallo che l'ha formato, e tutti i mali alla deformità anteriore, o piuttosto al principio materiale, ohe era partecipe di mólto disordine prima di essere ricondotto dal demiurgo e padre del mondo all'ordine presente anche la n. 2 a carta La coincidenza di queste proposizioni coimito del Timeo è troppo colpente, par non vadarvi un'allusione a questo: che il Politico sia degli ultimi scritti di Platone ò provato d'altronde dalla sua posteriorità al Sofista, che contiene già la dottrina del Non essere. Ancha neìV K pino m irle se questo dialogo è di Platone il mondo è generato, ma il suo autore, coma abbiamo già notato, è l'anima del mondo stesso, e non un dio trascendente carta. Nelle Lefffji, infine, l'anima è la pia antica di tutte le cose generate: essa è nata innanzi a tutti i corpi, e le cose che appartengono all'anima, come la preveggenza, l'intelligenza, l'arte, la volontà, i ragionamenti, le opinioni vere, sono nate prima di quelle che appartengono al corpo, come la lunghezza, la larghezza e la profondità, il molle e il duro, il grave e il leggiero, e in una parolaia forza dei corpi, perchè l'anima è la causa prima di tutte le cose. Siccome questi scritti appartengono indubbiamente, come il Timeo, al pariodo pitag^raggiaate, noi po-isiam) concluderne che Platone, a quest'epoca, per conformarsi alle dottrine pitagoricha o piuttosto a ciò che egli ritene un'espressione exoterica e allegorica delle dottrine raali dell'antico pitagorismo rappresenta l'universo come originato nel tempo, non vedendo naturalmente in quast'origine nel tempo oha un semplice simbolo. 'SeìV Epinomide e nelle Lefigi l'anima apparisce come anteriore anche ai corpi che, secondo la dottrina reale di Piai ona, non hanno avuto mai cominciamanto il mondo come un tatto, la terra e gli astri, e come la loro causa efficiente, perchè la conservazione del cielo e dei grandi corpi che sono in esso, la Iopj persiste iza nella forma attuale e il legame che tiene unite le loro parti, sono dovuti, secondo Platone, all'anima; rappresentandosi cosi miticamente l'azione continua di questa com3 un fatto avv'enito in ui punto del tempo. Aristotile infatti allude alla dottrina che il cielo si conserva e permane eternamente per l'aziona dell'anima quelformazìone deiranima. Neirinterpretaz'cne di questa dottrina, l'importante è per noi di determinare il significato delle entità, che miticamente vengono rappresentate come gl'ingredienti di cui il Demiurgo compone l'anima. Ecco quali sono questi ingredierii: DelTessenza indivisibile e sempre la stessa e di quella che diviene divisibile nei corpi compose il Demiurgo una terza specie di essenza intermedia, la quale, anche lispetto ulla natura dello stesso e a quella del divirsr, compose intermedia tra r indivisibile di essi e il divisibile per i corpi; e prese queste tre cose (ciré, come rif-ulta chiaramente da ciò che segue, lo Stesso, il Diverso e l'essenza int^^rmedia, ccmposta dall'esFenza indivisibile e dalla divisibile, le mescolò tutte in una sprcie unica, adattando per forza allo Stesso la natura del Diverso refrattaria alla mescolanza. E avendo mescolato insieme con V essenza (cioè, evidentemente, Tesseuza intermecìia, e delle tre cose fattane una sola, questo tutto nuovamente, divise in tante parti quante bisogna, tutte composte dello Stesso, del Diverso e delFessei'za. Le difficoltà dell'interpictazione di questo luogo si l'anima a cui è dovuto il suo movimento De Coelo; e noi non possiamo attribuire questa dottrina che a Platone, perchè egli solo, prima di Aristotile, ha ammesso un'anima cosmica, forza motrice del cielo, e la perpetuità dell'universo. Ciò è confermato dal Timeo. Nel primo di questi luoghi si dice ohe i corpi degli astri vennero legati con legami animati; e nell'altro si parla d'uno sforzo del contorno del mondo per congiungersi con se stesso, che preme tutti i corpi che esso contiene, e non lascia alcun vuoto tra di loro: evidentemente Platone ha immaginato questo sforzo per i«piegare la coesione tra le parti materiali dell'universo, e, secondo i suoi principii, egli non ha potuto attribuirlo che all'azione dell'anima. Timeo m>mmm> 1 J! i ' i' friducono in sostanza a sapere: che cosa sì debba intendere per Vessenza indivisibile e per lessema divisibile; e che per la natura dello stesso e quella d» 1 diverso. In quanto alla prima quistione, é evidente che Vessenza indivisibile e sempre la stessa nella LINGUA PLATONICA è ridea: non lo ò mono che per il hu> contrapposto, r essenza divisibile, deve intendersi la materfaspazio Platone dice: T essenza che diviene divisibile nei corpi, perchè lo spazio per se stesso non è fisicamente divisibile; non lo diviene che in quanto costituisce la materia delle cose. Ma V Ide^ designata dalle parole essenza indivisibile e sempre la stessa, è tutto il mondo ideale, o é semplicemente V Llea specifica, la forma eterna e generale, deiranima? Se si comprende il senso della partecipazione platonica, l'anitra non potrebbe partecipare a tutte le Idee se non aVa condizione che essa fos^e tutte le cos-, identificandosi col tutto. Ma la dottrina che l'anima è identica al tutt^ dottrina a cui non si potrebbe dare altro seis) intelligibile che quello di Hegel e dell'interpretazione di Teichmuller, cioè l'identità del soggetto e dell'oggetto, di pensiero e dell'essere -non si trova mai apertamente in Platone: ben più, noi mostreremo eh'essa sarebbe inconciliabile con la sua dialettica. Per V essema indivisibile noi dobbiamo dunque intendere l'Idea o la forma dell'anima; e la composizione dell'anima dalla mescolanza dell'essenza indivisibile e d^^lla divisibile non rappresenta se non il concetto che essa risulta, come tutte le altre cose, dall'Idea o forma e dalla materia. Perchè intendere infatti il luogo in quistione in un senso che attribuirebbe a Platone una dottrina che noi non sappiamo se gli sia appartenuta, quando si può indendeila in uno che non gli attribuisce altre dottrine se non quelle che noi sappiamo certamente essergli appartenute? In quanto «Ho Stf sso e al Diverso, noi abbiamo visto altrove i motivi che si hanno, indipententemente dalla intorprrfizione di questo luogo del Timeo, per ammettere che essi erano dei principii compresi nelle due odotoiX£at di contrari, che Platone identifica ai due elementi, e delie denominaz'oni di questi elementi stessi, come l'Uno e la Dualità indeterminata, l'Es^^ere e il Non essere, l'Eguale e Tlneguale, ecc. Ma ciò che prova d'una maniera indubitabile che la cosa è cosi, é l'autorità d'Aristotile, il quale afferma che Platone nel T'imeo compose l'anima dagli elementi e per elementi Aristotile intende costantemente l'Uno o E >tsere e la materia a fine di spiegare la conos -enza conformemente al principio dei fisici che il simile si conosce dal simile. All'autorità d'Aristotile possiamo aggiungere anche quella di Xenocrate, il quale, secondo Plurarco, interpretando la composizione dell'anima nel Timeo, vede negli elementi di cui essa è stata composta i due elementi dei numeri, cioè 1'Uno e la Dualità indeterminata. Supplem. Supplem. carte De Anima per questa spiegazione Tim. Plutarco Psicogonia. Secondo Plutarco, Xenocrate aggiunge all'Uno e alla Dualità indeterminata lo Stesso e il Diverso come principii della quiete e del movimento: cosi egli avrebbe riguardato lo Stesso e il Diverso come due altri principii dell'anima distinti dall'Uno e dalla Dualità indeterminata. Ma vi ha qui senza dubbio un'inesattezza di Plutarco o^dell'autore secontlo cai egli riferisce l'opinione di Xenocrate Eudoro, come basta a provarlo il fatto ohe Platone e i platonici identificano, ì Platone, chiamaDdo lo Stesso indivisibile e il Diverso divisibile^ non intende identificarli con V essenza indiviisibile e l'essenza divisibile di cui prima ha parlato: egli vuol dire che l'anima è per la sua composi/ione intermedia tra il divisibile e Tindivisibile, non solo avuto riguardo ai fattori immediati da cui essa risalta l'Idea carta, la quiete e il movimento, e per conseguenza anche i loro principii il principio d'una casa essendo nel sistema delle Idee il concetto universale, obbiettivato, a cui la cosa è subordinata ai due elementi delle Idee numeri Xenocrate, sempre secondo Plutarco, avrebbe inteso per l'essenza indivisibile rUno e per l'essenza divisibile la Dualità indeterminata: con tutto ciò la sua interpretazione concorderebbe, nel punto es43nziale, con la nostra, perchè l'importante è di riconoscere che gli elementi, di cui è composta l'anima, non sono altra cosa che quelli di cui qualsiasi altro essere è composto. Semplicemente, mentre secondo la nostra interpretazione Platone avrebbe considerato nell'anima, come in tutti gli altri esseri, una doppia composizione, quella dall'Uno e la Dualità indeterminata, e quella dall'Idea e la materia, secondo l'interpretazione ohe Plutarco attribuisce a Xenocrate, egli non ne avrebbe considerato che una sola, la prim-i. Plutarco riferisce anche, secondo Euforo, un'altra interpretazione, che rimonterebbe a Crantore. Secondo questa, Platone ha composto l'anima dalla natura intelligibile, dalla materia, e dall'identità e la diversità, di cui tutte le cose partecipano; e ciò, conformemente a quello che dice Aristotile (j unA.), perchè l'anima, par poter conosoare tutto, deve essere composta di tutte cose. In questa interpretazione la natura intelligibile non è, come in quella di alcuni critici moderni, tutto il mondo ideale, ma la sola Idea o forma de 1'anima: è cosi che la comprende certamente Plutarco, perchè egli dice che questa interpretazione si riduce a comporre l'anima, come tutte le altre cose, dalla specie o forma e la materia Psicog. L'interpretazione di Crantor# è identica in sostanza alla nostra, parche per la Identità e la Diversità s'intendano i due elomenti delle Idea e delle cose, ciò che è necessario di fare, perchè le interpretazioni di Xepocrate e di Aristotile dovevano pare avere qualche fondamento. r e la materia';, ma anche ai fattori più remoti i due elementi. L'uno dei due elementi è chiamato indivisibile, perchè è l'Unità; l'altro, divisibile per i corpi, perchè uoa delle sue funzioni è di essere la materia dell'i cose quantunque questa denominazione gli convenga sotto questo rispetto soltanto, e non sotto l'altro, cioè come materia delle Idee E ioutilc di discutere l'opinione di quei critici che per lo Stesso e il Diverso intendono le Idee e la materia: contro di essa vale, oltre a ciò che è stato detto ora, quello che si disse sopra a proposito dell'interpretazione dell'essenza indivisibi'c e l'essenza divisibile. Contro questi'interpretazione dell'essenza indivisibile e l'essenza divisibile cioè quella che vede nell'una il mondo ideale e nell'altra la materia ora possiamo aggiungere che, se l'anima venisse composta di tutte le Idee, sarebbe superfluo, per ispiegaro la conoscenza, di comporla anche dei due elementi. Componendo l'anima dello Stesso e del Diverso e della terza essenza intermedia, ch'egli ha già composto dell'Idra e della materia, Platone sembra riguardare quest'essenza come distinta dall'essmza dell'anima, e come un semplice ingrcdicnt'; nella composizione di essa, e lo Stesso e il Diverso come degli clementi estranei all'essenza intermedia, che bisogna aggiungere a questa per avere l'essenza dell'anima. Ma in realtà l'essenza intermedia, composta dalla indivisibile e dalla divisibile, non è altra cosa che l'essenza stessa dell'anima ed è perciò che Platone la chiama semplicemente Vessenza, e lo Stesso e il Diverso non sono fuori dell'essenza intermedia, mane sono gli elementi. Semplicemente la forma simbolica scelta da Platone di una mescolanza in una caldaia; non può rappresentare d'una maniera adequata il concetto della partecipazione. Lo stesso – H. P. Grice on Wiggins, SAMENESS -- e il diverso, i I cioè le due Idee più uaiverjali a cui tutte le altre partecipano, sono le determinazioni generali che 1'anima ha in comune con tutti gli altri esseri: a queste determinazioni comuni bisogna aggiungere il proprio, il ditferenziale, dell'anima, che ne fa un'essenza particolare distinta dalle altre. Ma questo proprio, questo differenziale, non può considerarsi come separato dall'essenza deiranima ed esistente per se senza le determinazioni comuni che esso d'ffcr'^nzia, perchè nel sistema delle Id^^e ciò che si separa, facendosene un'entità per se, è la specie e il genere, ma non la difft^renza: ne segue che Platone non può rappresentare la partecipazione dell'anima agli Universali supremi che per l'immagine della loro mescolanza con essa. Anche nel Sofista la partecipazione d'un'Idea alle altre sotto cui essa è contenuta è chiamata una mescolanza di quest'Idea con (juestc altre. Platone dà all'essenza dell'anima un posto intermedio fra i suoi ingredienti, perchè egli assegna alle cose una natura intermedia tra le entità da cui esse risultano: ma evidentemente con ciò egli intende indicare inoltre che, in virtù della sua stessa composizione, .ranima ha un carattere medio tra l'indivisibile e il divisibile: non è assolutamente indivisibile com-; l'Idea e l'Uno, perchè estesa e quindi composta di parti, ni assolutamente divisibile come la materia, perchè indis.solubile e incorruttibile. Alla nostra interpretazione della comprsizione dell'anima nel Timeo può farsi l'obbiezione che Plutarco fa a quella di Crantore, cioè che l'anima esseado composta allo stesso modo che tutte l’altre cose, non si li) Sof. i-KJ , ecc. il Timeo Atesso Psiojii, Vede come questa composizione convenga ad essa più che alle altre. La risposta è che, esponendo! particolarmente la composizione dell'anima, Platone non ha per iscopo d'indicare ch'essa ha un'origine e dei principii speciali: il suo scopo è invece, primo, come osserva Aristotile, di fare un'applicazione dal principio che il simile si conosce dal simile; e poi, siccome le rappresentazioni ordinarie del Zim^o, intese letteralmenle, implicherebbero la trascendenza, di contrapporre ad esse un'altra rappreseutazione, in cui il concetto dell'immanenza sia energicamente espresso, qual è quella della mescolanza. IL pitagorismo nel Filebo, Il pitagorismo del Ihlébo consiste in sostanza nella dottrina sul limite itépag e l'illimitato àTisipov. In questo dialogo Piatone divide tutto ciò che esiste in tre generi: il limite o limitato, r illimitato e il composto dell'uno e dell'altro. Il genere dell'illimitato comprende tutte le qualità che Piatone noa prende solamsnle dai Pitagorici la formula che le cose sono composte di limite e d'illimitato, ma anche quella eh 3 esse constano di uno e di molti FU, e Supplemento. Ma qui il pitap^orismo di Platone è rolla forma anziché nella sostanza: egli non vuol dire, com3 i Pitagorici e come egli stesso in un parici^ ulteriore dilla sua speculazione, che l'unità e la pluralitìi sono degli elementi di cai l3 cotì3 sono composte, ma che tutto è al tempo stesso uno e malti, cioè che ciascuna Idea generale contiene una moltiplicità d'Idee particolari. Con questa formula dunque egli non innova niente nelle sue dottriije primitive; semplicemente le esprime in una forma che dà ad esse un sembiante di affinità con quelle d'di Pitagorici Un'altra evidente aflfettazione di pitagorismo vi ha nel FUfho, quando il metodo dialettico, cioè la divisione per goniri e p3r ispecie, è presentato come una ricerca di numeri: anche qui il pitagorismo è puramente verbale, e non importa alcun avvicinamento reale alle dottrine dei Pitagorici, carta ;j oaos suscettibili di una variabilità all'infinito, tan^.o nelr aumento quanto nella diminuz-one: tali sono il caldo e il freddo, il forte e il piano, il secco e rumido, il veloce e il tardo, il molto e il poco, il grande e il piccolo, ecc. Siccome queste qualità non vengono attribuite che in un senso comparativo chiamando un corpo caldo o freddo, noi vogliamo diic che esso è più caldo o più freddo di altri corpi; eh amando un movimento veloce o tardo, che esso è più veloce o più tardo di altri moviment'; ecc. così Platone si serve, per denotare queste qualità, di termini comparativi: più caldo e più freddo, più veloce e più tardo, ma: gioie e minor % più o meno numeroso, ecc., e dà come carattere generale dell'illimitato l'ammettere il più e il meno. Dalla natura comparativa dello qualità del genero deirillimitato segue che esse si esprimono per una coppia di termini oppost», uno positivo, che indica il comparativo di maggioranza, e uno negativo, che indica il comparativo di minoranza: il termine caldo, attribuito a un corpo, significa che esso è più ca^do di altri corpi, che in relazione ad esso si chiamano freddi; il termine velocp, attribuito a un movimento, significa che esso è più veloce di altri movimenti, c\v\ in relazione ad cs-^o si chiamano tardi; ecc. Verisimilmente (luesto concetto, che gli attributi, appartenenti alla classe deirillimitato. da cui risultano gli e^^seri, racchiudono in sé una dualità di ternoioi contrari, è anche un'imitazione della dottrina pitagorica che tutto consta di contrarietà. Al irenere del limite appartengono i rappoiti numeiici o, più generalmente, metrici: l'eguale, il doppio, il triplo, ecc. Dall'applicazione dei rapporti numerici o metrici, cioè del limite, alle qualità dell'illimitato nasco il terzo genere composto del limite e deirillimitato: p. e. certi rapporti metric', applicati al cahifo o al freddo, daranno luogo alla temperatura particolare delle varie divisioni del tempo; altri rapporti metrici, applicati all'acuto e al grave, daranno luogo agli accordi musicali; ecc. Questa temperatura e questi accordi appartengono, per conseguenza, al terzo genere Il pensiero di Platone è evidentemento che nelle cose, o, più propriamente, nei loro attributi, bisogna distinguere due elementi due elementi concettuali, ma che, secondo le abitudini della speculazione platonica, vengono elevati ad entità sussistenti p^r sé: una qualità astratta, il cui concetto ^i ottiene per la soppressione di qualsiasi grado determinato, e che è suscettibile di ricevere un'infinita varietà di gradi, che crescono e decrescono sino all'infinito; e il grado che questa qualità ricevo in un caso determinato, e la cui espressione e, per conseguenza, il cui concetto, sono dati da un rapporto metrico cioè riferendosi a una certa unità di misura. Siccome non è possibile di deterniinare il grado cho per mezzo del rapporto metrico, cosi questo secondo elemento genericamente considerato, si riduce a una relazióne fra quantità: l'eguale, il doppio, ecc., e in una parola, come dice Platone, tutto ciò che è numero rapporto a numero e misura rapporto a mfsura vale a dire ogni rapporto di un numero con un altro numero e di una misura con un'altra misura. Certamente le qualità che Platone comprende nel genere dell'illimitato, non assumono mai, nella realtà, che un grado finito; e, considerate in se stesse, non bisogna concepirle come elevate a un grado infinito ciò che non potrebbe accordarsi con la loro funzione di elementi delle cose reali, e che per altro sarebln ft/, e a, luogo c-ilalo a cario u !! una contraddizione nei termininè come il complesso di tutti i gradi finiti, crescenti e decrescenti all'infinito, con cui esse si trovano negli oggetti particolari; ma devono pensarsi facendo astrazione da qualsiasi grado e misura determinati, perchè il grado e la misura è un alti-o elemento che si aggiunge ad esse per formare gli attributi particolari delle cose, e d\altronde un'entit/i platonica non é il complesso degli attributi omonimi degli oggetti particolari, ma l'attributo in se stesso, cioè nel suo concetto astratto e generale. Tuttavia queste qualità vengono ricondotte air illimitato, perchè non vi ha alcun limite neiraumento e ntUa diminuzione dei gradi di cui sono suscettibili: è un'osservazione analoga a quella che abbiamo fatta sul Grande e Piccolo e il Molto e Poco degli ìyP*"?* 8ÓY|Aa'ca. Per completare il concetlo àA limite, dobbiamo ae:giringere che, applicandosi alle qualità della categoria dell'inimitato, esso non dà a queste semplicemente un grado e una misura, ma un grado e una misura convenienti: in efl^etto la misura, nel Filebo, è uno degli aspetti in cui si mostra l'Idea del bene. I rapporti numerici, che costituiscono il limite, non fissano solamente il grado, in cui gli attributi del genere dcU' illimitato, considerati d^ una maniera assoluta, devono attuarsi nelle cose particolari; ma determinano anche le relazioni quantitative tra gli e'ementi di cui queste sono composte, introducendovi della proporzione e dcirarmonia. In questo senso, essi si applicano specialmente ai termini opposti deiriUimitato, l'uno relativamente all'altro: perciò si dice che il limite fa cessare la discensione tra i due contrari, e li rende proporzionati e accordati o!Ì[i(^(t)va per mezzo dei numero. Cosi tutto ciò che vi ha di bello nella natura e per conseguenza tutti gli esseri conformi al loro tipo, perchè il buono e il bello 1% per Platone, la forma delle forme risultano da una contemperazione armonica di contrari: p. e. le divisioni dell'anno da quella del caldo e del freldo; 1'armonia musicale da quella delT acuto e del grave; ecc. Questo concetto non è forse senza legame con la dottrina pitagorica che tutto r annonìa. Ai tre «generi di cui abbiamo parlato sin qui Platone ne aggiunge un quarto: è la causa elìiciente-degli altri e della mescolanza del lìmite e dell'illimitato. Questo quarto geu'ìre è costituiti, come dimostreremo in seguito, dall'intelligenza e dall'anima. Platone comincia per dividere tutti gli esseri che Fono nell'universo in tre generi, benché poi parli anche di un quaito, perchè questo rientra in uno dei tre primi: in effetto l'anima e l'intelligenza devono essere composte, come tutte le altre cose, di limite e di illimitato. La difiicoltà dell'interpretazione dì questa dottrina del Flkho è che il limite e l'illimitato, di cui è quistione in questo dialogo, non potrebbero identificarsi con nessuno dei concetti della filosofia platonica, sia tra quelli che troviamo negli altri scrìtti di Platone, sia tra quelli che conosciamo per l'esposizione d'Aristotile. Molti interpreti, è vero, identificano l'illimitato con la materia; in quanto al lìmite, alcuni vedono in esào le Idee, altri le entità matematiche o intermediarie. Ma tutte queste opinioni presentino delle impossibilità evidenti, che noi indicheremo, corninriando dairillìmitato. L'illimitato del Jùlebo ha senza dubbio una grande analogia con la materia degli àypacpa SóYiJtaia: anche questa è chiamata TaTis'.pov; inoltre essa è ricondotta al grande e piccolo, e IMlimitato del Filebo è definito la natura che riceve il più e il meno. Ma a lato a <iaestc somiglianze vi ha una differenza important'^ ed essenziale: il Grande e Piccolo degli ótypac^a Òó^iiolzol è un concetto semplice, un'entità unica; rillimitato del Filebo è un'unità articolata, cioè in esso sotto Tunità generica il più e il meno è compresa una moltitudine di specie il più caldo e il più freddo, il più veloce e il più tardo, il più acuto e il più grave, ecc. Ciò che corrisponde al Grande e Piccolo è il concetto generico dclP illimitato del Filebo: ma quello non si divide, come questo, In più specie particolari; dalla determinazione o concretizzazione del Grando o Piccolo risultano immediatamente le Idee, cioè le essenze sreneriche e specifiche delle cose, non delle specie particolari di grande e piccolo. Al Grande e Piccolo, 6 vero, è anche ricondotta ima pluralità di concetti distinti, cia<^cuno dei quali si considera come un'entità per se, cioè l'una dcUe due a'iaTotyjai di contrarli: ma questi concetti sono, per quanto poFs'amo giudicarne, affatto diversi da quelli che costituiscono le specie deirillimitato nel Filebo; ben più, il carattere delle due dottrine differisce nei punti più essenziali. Primo, i concetti delle due ouoxoix^ai di contrari sono dei principii, cioè non sono subordinati ad alcun concetto superiore; le specie deirillimitato nel Filebo, invece, sono necessariamente delle cose derivate dall'illimitato in sé stesso, cioè nel suo cmeetto generico, il rapporto tra il principio e la cosa derivata equivalendo, nella dialettica platonica, a quello tra il genorale e Jl particolare – GRICE STRAWSON AUSTIN ROWE. Secondo, quelli il Non essere, il Diverso, il Multiplo, ecc. sono tutti di una universalità assoluta; queste il più caldo e il più freddo, il più secco e il più umido, il più acuto e il più grave, ecc. non valgono ciascuna che per una categoria particolare di fenòmeni. In quelli, infine, un concetto della classe dell'illimitato ha il suo contrar'o nel concetto corrispondente di quella del limitato; le spese dell'illimitato del /«/cfto racchiudono invece la contrarietà in se stesse, esprimendosi ciascuna per una coppia di termini opposti. Passando ora al limite, ecco le difficoltà principali che si oppongono alla sua identificazione con le Idee: 1® Il mondo ideale è Tinsieme di tutti i concetti delle cose, obbiettivati; il limito del non comprende che una certa classe di df'terminazioni matematiche. Tuttavia, ^iccome le Idre, rell'uliimo periodo della sppculazionc platonica, Fono stute ricondotte a dei numeri, si è creduto che il I mite del Filebo equivalga a questi numeri, eoe agl'idea' i. Ma Platone non ha ricondotto le Idee a dei rapporti numerici, quali sono quelli che nel Filebo vengono chiamati lìmite, ma semplicemente a dei numeri: anche il limite del File\o consiste, se si vuole, in numeri, ma questi numeri sono proporzionali^ non cardinali come i numeri ideali. Come dice Aristotile Mei., da ciò che la dualità è la prima cosa a cui può attribuirsi il doppio, non no segue che il doppio hia la stessa cosa che la dualità. Lungi che le Idee numeri possano equivalere a dei relativi, come quelli che costitni-jc^no il lin.ite del Filebo, Platone anzi, nell'ultitno perodod-lla sua speculazinn<, esclude i relativi dal mondo dello Idee, e quandi anche i concetti d 1limite del Filebo, Le idee Fono le essenze delle cose: ma l'essenza d'una cesa evidentemente non è esaurita dai rapporti numerici, che corrono tra gli elementi di cui questa è Arist. Met, composta. Non lo t> nlmeno, sé quésti rapporti si considerano d'una maniera astratta, come vengono considerati nel Fdebo: per avere Tessenza della cosa, si dovrebbero fare entrare nel concetto del rapporto numerico gli elementi stessi, i sustrati, tra cui esso sussiste. Per esempio, se Tarmonia è un rapporto numerico tra i suoni, l'essenza dell'armonia sarà i suoni con questo rapporto numerico, non il solo rapporto numerico astratto. Platone, è vero, ncH'ultima forma della sua filosofìa, toglie dairidea o essenza la materia, e la riduce alla sola forma: ma questa materia non ò che lo spazìo, o Testensione. Ora l'illimitato del Mlebo comprende assai più determinazioni che la semplice estensione: esso ne comprende anche assai più che la materia nel senso più lato, cioè quale uno dei due elementi delle Idee e delle cose. Il limite e Tillimitato, nel Filebo, sono dati, non solo come elementi delle cose, ma anche come elementi delle Idee. Come potrebbe dunque il limite identificarsi con le Idee, di cui non è che un elemento? Nel Filebo, Tillimitato òcTisipov non fa parte del limite, gli è anzi opposto come un altro elemento degli esseri. Dunque il limite non può equivalere alle Idee, perchè queste, secondo l'esposizione aristotelica, constano anche dall' ótTieipov. Siccome il limite del Pllébo consiste io determinazioni matematiche, la sua identificazione con le entità matematiche ha più plausibilità; ma anch'essa incontra dello difficoltà insuperabili: Anche contro di essa vale la prima obbiezione che abbiamo fatto alla identificazione con le Idee; vale a dire che i concetti del \Fi7e6o sono dei rapporti numerici, mentre i numeri matematici che sono le sole entità matematiche a cui questi concetti possono assimilarsi sono dei numeri nel senso stretto, cioè cardinali. I numeri matematici non sono che i nostri concetti dei numeri, sostantificati, cioè questi attributi co ' ninni delltì diversa collezioni di oggetti, che noi chiamiamo numeri, considerat', nella loro astrattezza, come s'i<»s'stonti per se stessi. Il valore di questi numeri è, in un certo senso, assoluto, vale a dire, lo stesso numero ])uò valere, qualunque sìa la natura degli oorgetti numerabili: non vi ha dunque per ciascuno di c^si qualche cosa che sìa il suo correlativo necessario, come per i rapporti numerici e metrici che costituiscono il limite del Fdebo. Ciascuno di questi ha un valore relativo a una specie determinata dell'illimitato, che è quindi il suo contrapposto e il suo complemento necessario. Se tale rapporto numerico vale, per esempio, per rarmonìa, ed ha perciò come relativo il grave e l’acuto, per le stagioni varrA, non lo stesso rapporto, ma un altro, che^avrà p^r corrMatìvo il caldo e il freddo. In una parola il limite e l'illimitato/ e le specie detcrminate dclruno e dell'altro/ sono dei concetti che si suppongono recìprocamente. Se i numeri matematici fo«s-ro, non semplicemente, come noi ammettiamo, i nosfi roncpfì dei numeri sostantificati, ma le leggi del mondo fenomenico e le Idee nel loro rapporto con la materia, secondo un'interpretazione che noi abbiamo già discussa, anch'essi supporrebbero, è vero, un opposto come correlativo necessario: quest'opposto sarebbe la materia, perche essi non potrebbero rappresentare, come le Idee 0 Itf Supplem. carta. Supp.\ Stesse, che la semplice foi-ma. Ma allora, perchè il limite del FiUho corrispondesse ai numeri matematici, Tillimitato dovrebbe corrispondere al semplice spazio, poiché le entità intermediarie, essendo posteriori alle Idee supposto, come vu'^le quest'interpretazione, ch'esse tramezzassero tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo reale non potrebbero essere meno comprensive Ji queste. Il limite, nel Filébo, è un elemento delle Idee. Ma le entità matematiche non ci sono mai date per elementi delle Idee: ciò sarebbe anzi in antitesi colla loro qualità di eatità intermediarie tra le Idee e le cose. L'elemento infatti è anteriore alla cosa di cui è elemento, mentre le entità intermediarie sono invece posteriori alle Idee. Perchè Platone puo riguardare l’entità matematiche come uno dei quattro generi in cui vengono divisi tutti gli esseri, e?se dovrebbero costituire per lui una classe di entità distinta dagli altri concetti obbiettivati, in altri termini, egli dovrebbe ammettere già la distinzione tra le Ide« e le entità matematiche. Ma quando scrive il Fileòo, Platone non conosce ancora questa distinzione: in questo dialogo in effetti tutti i concetti obbiettivati in generale sono chiamati Idee e riguardati come oggetti della dialettica mentre dopo la distinzione tra entità matematiche e Idee, il metodo dialettico non si applica che a queste, perchè dei numeri e delle figure vengono realizzati i concetti specifici soltanto e non i genenci Supplem. carte Supplem., carta. Che nel Fiìeho anche i concetti matematici siano oompresi nella sfera della dialettica, si vede pure da, in cui dopo aver distinto le matematiche dallo altre arti e 1'aritmetica Di più, li distinzione delle entità matematiche dalle Idee Importa il posto, assegnato a quelle, di intermediarie tra qucHte e le cose, ciò che suppone la dottrina dei numeri ideali: ma Platone, nel Filebo, parla come se egli non conosce ancora questa dottrina Delle entità intermediarie, inoltre, ve ne sono molte della stessa specie: VI ha una specie, cioè un'Idea, unica della diade, della triade, ecc., ma molte diadi, triadi, ecc. matematiche. Ma, nel FtYeòo, ciascuno dei concetti compreM nella categoria del limite, cioè 1'eguale, il doppia, ecc., è evidentemente riguardato come un'entità unica, perche Platone dà questi concetti come i molti in cui si divide il Limite dopo aver detto che mostrerà come tanto il limite quanto r illimitato sono al tempo stesso uno e molti Supplem. Aggiungiamo infine che nei concetti del limite del Filebo la moltiplicifà viene ricondotta ad una unità supcriore, ciò che, come abbiamo osservato, non avviene nei numeri matematici. e la geometria dei filosofi da quelle del volgare, dice che la dialettica è la scienza che conosce tutte le scienze di cui ha parlato. La dialettica per Platone comprende in un certo senso tutte le altre scienze, perchè ogni scienza è virtualmente compresa nella conoscenza delle essenz3 delle cose, che è l'oggetto della dialettica. Supplem. Supplem. carte FiO specie si del limile che dell'illimitato sono insomma dello Idee, benché IMatone, quando dice che le cose che si dicono essere eternamonie cioè le Idee constano di limite o d'illimitato, non riguardi propriamente come Idee che i concetti del terzo genere, vale a dire di quello che risulta dalla mescolanza del limite con l'illimitato. Ciò è perchè lo scopo della dottrina del Filebo è di comporre gli esseri di questi duo elementi, ad imitazione dei Pitagorici, e perciò l'iatone non può riguardare propriamente come esseri che i Composti, e non gli elomenti stessi. Se Platone coutnsse tra i Inttori del reale Io entità matcraaticho, sarebbe inesplicabile com'egli passi invece sotto silenzio le Idee. Per evitare questa difficoltà, gl'interpreti che vedono nel limite le entità matem«tieh<», ammettono che le Idee sono comprese nel quarto genero, quello che Platone chiama causa della mescolanza del limite e dell'illimitato e della generazione, ed anche causa di tutte le cose cioè d-^gli altri tre generi, e semplicemente causa. E in effetto le Idee sono per Platone delle cause, e nel Fe^/one vengono anche chiamate cause della generazione e della corruzione; e nel Filcho stesso l'Idea del bene è detta la causa per cui la vita mescolata di piacere e di saggezza e gradevolissima, pregevole e buona, ed anche la causa di tutto ciò che vi ha nella mescolanza del piacere con la saggezza. Ma il termine cau«a, attribuito alle Idee, non ha lo stesso senso che quando Platone l'applica al quarto genere del Filebo. Questo termine non conviene alle Idee che in un senso lato, come sinonimo di principio: le Idee sono cause delle cose, in quanto queste sono ciò che sono per la partecipazione di quelle. Invece, quando si tratta del quarto genere del Mlcbo, la causa deve intendersi nel senso stretto; essa vuol dire: un fenòmenocioè un'«s'stenza sottoposta al tempo e a tutte le altre condizioni d'^irindividuaMtà che è la condzione di un altro tVnomeno e lo spiega. Cosi Platone deduce l'esistenza del quarto genere del Filebo dal principio che ciò che diviene deve divenire per una causa: ora l'ipotesi delle Idee non è dedotta da questo principio, nò se sì guarda ai motivi reali della teoria, nò se si guarda alle prove su cui Platone la stabilisce. Quando poi ci si dice che la causa equivale a ciò che fa Ttio'.oOv e l'effetto a ciò che è fatto uoio'jjisvov, è chiaro che per questa causa dobbiamo intendere una causa attiva, un agente: quest'agente di più deve essere personale, perchè ciò che è classato CLASSATO CLASSIFICATO SEGNATO SIGNIFICATO nel quarto genere ò chiamato l'opifice dr|[iiou(5Yo0v delle cose classate CLASSIFICATVM SIGNATUM SIGNIFICATVM negli altri tre Il genere della causa, nel Fi/ebo, corrisponde a ciò che Platone altrove chiama la causa prima, e talvolta anche semplicemente la causa, di tutte le cose, vale a dire Tanima del mondo. Che il quarto genere del Filebo consista unicanipnte nell'anima e neirintelligenza la quale non esiste altrove che nell'anima -si rileva della maniera più evidente dall'esame particolareggiato che Platone fa di questo genere, perchè, dopo aver detto che va ad esaminarlo più lungamente, non parla poi che di osse: dimostra (he la mente governa il tutto, perchè questa proposizione è degna dell'aspetto del mondo, del sole, della luna, delle stelle e di tutte le rivoluzioni celesti, e perchè, come noi prendiamo }>li elementi del nostro corpo dal corpo dell'universo, cosi l'anima non può venirci d'altronde che da un'anima cosmica; e conclude che del (juarto genero, che è in tutte le cose, questa parte che ci dà l'anima, ohe ripara la salute nelle malattie, ecc. non deve stimarsi la Fapicoza tutta quanta e di tutte le forme, e che nelTuniverso vi ha molto illimitato, sufìiciente limite, e una causa che presiede ad essi, la quale orna e dispone ;;]i anni, el stagioni, i mesi, ed è chiamata a buon dritto mente e sapienza. Por fare rientrare, malgrado ciò. I.t'init Si«) H-b, Sl»U b, h'itiaohiUh' '.W e rt.V»SJ b, mn d, S>. V UO e. In senguito Platone dic3 che l'^telligenza èdel genere deUa causa di tutto cose, ei anche che essa è affino alla i- nel quarto gciiertì anche le Id^x;, alcu li d^^l'iaterpre ti che identificano il limite con le entità matematiche, Affermano che per Platone le Idee e il Nous in fondo coincidono: ma questa proposizione, come abbiamo osservato altrove, non sarebbe intelligibile che nella dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, dottrina che non possiamo attribuire a Platone. Aggiungiamo che la classe delle entità matematiche contiene, oltre i numeri matematici, anche le grandezze (le quali non procedono da questi numeri, come ha creduto qualche interprete, ma immediatamente dagl'ideali; cosi se il limite del Filebo fa identico ai primi, non si comprende nemmeno perchè Platone non conti fra gli elementi costitutivi del reale anche le seconde. Quelli che identificano il limite con le entità matematiche sono i sostenitori dell'interpretazione trascendentalista del sistema delle Idee. Ciò è naturale, perche lo scopo di quest'identificazione ò di appoggiare la tesi che le entità matematiche sono le leggi e le forme del mondo fenomenico, e questa tesi suppone elio queste entità siano intermediarie nel senso che esse tramezzino. causa e pressoché dello stosso genere, donde potrebbe inferirsi che r inteUigenza e 1'anima non sono isoli oggetti compresi nel qaarto genere, e che anzi esse non sono aggregate a questo genere che d'una maniera un po' forzata ed impropria. Ma in questi luoghi Platona parla dell'intelligenza umana, perchè ri^ponde alla quistione a qual genere appartenga la saggezza che ò uno dei due ingredienti della vita mescolata cioè della vita felice; ed esita S3 possa classarla rigorosamente nel genere della causa del tutto, perchè questo è propriamente costituito dall'intelligenza e l'anima cosmiche. Supplem. carte, non tra le Idee di certi attributi e questi attributi stessi nelle cose sensibili, ma tra la totalità del mondo ideale e la totalità del mondo sensibile. Ora questa interpretazione delle entità intermediarie suppone alla sua volta la trascendenza delle Idee; perchè è, ci si dice, per l'impotenza delle Idee trascendenti a esercitare una causalità reale sulle cose, che Platone è stato condotto ad immaginare queste entità, affinchè esse servissero da mediatori, in modo che Tinliuenza delle Idee potesse comunicarsi per il loro mezzo al mondo sensibile. Ma se le Idee sono trascendenti, anche le entità matematiche devono essere trascendenti. Le entità matematiche sono dei predicati universali sostantificaii della stessa maniera – HAIRY-COATEDNESS HORSENESS SHAGGINESS che le Idee; per conseguenza le stesse inconcepibilità che risultano dall'immanenza delle Idee risultano egualmente dall'immanenza delle entità matematiche: le stesse espressioni indicanti la relazione tra le cose e le Idee, in cui si vedono le prove più forti della trascendenza di queste, servono pure ad indicare la relazione tra le cose e le entità matematiche; i concetti realizzati dei numeri e delle figure, della stessa maniera che le Idee del bello, del buono, del giusto, ecc., vengono riguardati come degl'ideali a cui le cose non si conformano che d'una maniera approssimativa; se è evidente in certi luoghi d'Aristotile ch'egli si rappresenta le Idee come poste fuori delle cose, non è meno evidente, negli stessi o in altri luoghi, ch'egli si rap0) Supplem. carta Ji'p., Fedone, Met., eco. Supplem. carta Fileho, Hep., Arist. Met., eoo. M«~ presenta cosi. anche le entità matematiche; e in una paroU, tutte le ragioni che si avrebbero per ammettere la trascendenza delle une, varrebbero egualmente per ammettere la trascendenza delle altre. Intanto il limite del Filebo, come convengono gli stessi interpreti trascendentalisti, è immanente, è un elemento delle cos«^ stesso. È impossibile dunque che esso sia identico aUt», entità matematiche. Per dotare le entità matematiche dell'efficienza causale che, nella loro inerpretazione, manca alle Llf*e, e farle supplire cosi a questo difetto del sistema, che, secondo loro, è il motivo della dottrini d^^lle entità intermediarie, grinterpreii trascendentalisti sono obbligati a misconoscere la loro natura di semplici predicati jicnerali sostantificati, e le identificano con l'anima del mondo Cosi quelli che vedono nA limite d^^l /^</eò> le entità matematiche, è necessario che facciano del limite e della causa che, come abbiamo mostrato, non è che l'anima del mondo una sola e stessa cosa, mentre Platone ne fi due generi distinti e d'altronde la causa non potrebbe non essere distinta dalle cose di cui è la causa. E bisogna notare che Piatone stabilisce espressamente e dimostra che il SYjiiLovYpoOv, vale a dire il quarto genero, è altro necessariamente dagli oggetti compresi nei tre primi generi. Met., ecc. Nella più parte di questi luoghi» è vero, Aristotile distingue due frazioni nella scuola platonica, di cui 1'una avrebbe ammesso le entità intermediarie o matematiche fuori delle yo»©. © t'altra nelle cose stesse. Ma una divergenza anaIoga di opinioni è da lui attribuita ai platonici anche intorno alle Idee, quando oppone ni resto della scuola quelli che, come Eudossio, assimilavano la parusia delle Idee nelle cose a quella di una sostanza colorante nell'oggetto colorato Supplemento carte Il limite del Filebo non può dunque identificarsi né con le le Idee né con le entità matematiche: noi abbiamo visto inoltre che nemmeno l'illimitato equivale alla materia degli àypa^a S^yiiaxa Sùcome questi concetti non trovano il loro equivalente in alcun altro dellt^ opere stesse di Platone 0 dell'espo-iizione aristotelica, ed é d'altronde evidente la loro affinità con quelli della scuola pitagorica, noi siamo fondati perciò a vedere in questa dottrina del Filebo un primo tentativo dell'autore di avvicinare la propria filosofia a quella dei Pitagorici. Sappiamo infatti che il pitagorismo di Platone, anziché essere dovuto a un'influenza che questo filosofo abbia passivamente subita, é stato piuttosto qualche cosa di voluto, di cercato: non é quindi sorprendente che la sua forma definitiva sia stata preceduta da un primo passi, in cui ravvicinamento tra le due filosofie non è così stretto come diverrà in seguito. Non é dubbia, da uu'a'tra parte, Tanteriorità del Filebo al periodo del sincretismo con le dottrine p taj^oriche, che noi conosciamo dall'esposizione d'Aristotile: all'epoca del Filebo Platone non conosce ancora la dottrina dei numeri ideali, e nemmeno della matova, sia perchè questa suppone quella, sia perchè il limite e l'illimitato del Filebo diff'eriseono da quelli dell'esposizione d'Aristotile, e se Platone conosce già la dottrina dei due elementi degli aypa^a dÓYfiaxa, Cj^li non darebbe ai due elementi del Fdebo u:\ì stessi nomi. Che il pitagorismo del Filebo non sia stato che un primo passo, risulta poi abbastanza dal confronto dei concetti di questo dialogo con quelli degli òcYpa-^a 8ÓY[xaxa. Limitandoci alla dottrina dei due ele Supplem., carte. carte carta menti perchè sareb superfluo di notare che la proposizione che la natura degli esseri è dominata e determinata da rapporti numerici, è meno pitagorica della proposizione che gli esseri sono numeri, osserviamo: che negli Xypacpa SÓYiiaxa il limite e Tillimitato sono ciascuno un'entità unica, come nella filosofia pitagorica, mentre nel Filebo sono due generi divisi in una moltitudine di specie; che le coppie dei concetti opposti della classe dell'illimitato, corrispondenti alle due ouoxoix^at di principii contrarli dei Pitagorici, hanno con questi poca analogia, mentre le due aooxoixCai degli àypacpa Sóyiiaxa sono identiche in parte a quella di Pitagorici, e per il resto possono, per quanto ne sappiamo, riguardarseae come una generalizzazione; che i concetti dello due ouoxoixfai degli Sl-^^ol^cl SÓYfxaxa sono dei principii come quelli delle due ouoxoix^oli dei Pitagorici, mentre le coppie di opposti del Mlebo sono subordinate airillimitato in se stesso; infine, che nel Fi/eòo l'opposizione è nel seno stesso dell'illimitato, mentre negli atypacpa Sóyixaxa è invece, come nella dottrina pitagorica, tra un principio della classe del limite e un altro di quella dell'illimitato. Ma malgrado le diflerenze profonde tra le dottrine pitagoreggiaati degli fiypacpa Sóyjiaxae quelle del ^l/e&o, tuttavia la più parte delle prime hanno evideutementc un antecedente e un addentellato nelle seconde. Indipendentemente dall'idea generale che le cose constano di liuiite e d'illimitato, è da notare: che il grande e piccolo, a cui negli àypacpa 8ÓY|iaxa è ricondotto il secondo dei due elementi, procedo in linea retta dal più e meno, che nel Filebo è il carattere generale e aistintivo della natura dell'illimitato; e che la distinzione del limite e dell'illimitato del Filebo, con la carta. riduzione del primo a dei rapporti numerici, è assai vicina alla distinzione di forma e di materia del Timeo e delTesposizione aristotelica, e la riduzione della prima a dei numeri. Se ricordiamo V osservazione già fatta, che il concetto che le forme sono numeri sembra supporre quello che esse possono ridursi a rapporti numerici tra i sustrati materiali, vedremo più chiaramente il legame tra la dottrina dei numeri ideali e il limite del Filebo. Il pitagori($iuo nei discepoli di Platone Quest'argomento ha per noi tanto più interesse, che le innovazioni dei platonici dissidenti riguardano, non il sistema delle Idee in se stesso, ma la fusione di questo sistema coi concetti pitagorici. Di queste innovazioni le più importanti, anzi le sole importanti, per quanto possiamo giudicarne dalK^ indicazioni d'Aristotile, sono quelle di Speusippo e di Xenocrate, e concernono sovratutto la dottrina sui numeri matematici, la loro relazione con le Idee e le cose. Aristotile in effetto parla spesso di tre dottrine dei platonici sui numeri. Alcuni distinguono il numero ideale e il numero matematico èia dottrina dello stesso Platone; altri ammettono che il numero ideale è lo stesso che il matematico; altri infine non ammettono che il numero matematico. Delle due Sapplem. carta Supplem. carta carta Queste dottrine sono le sole di cui parla Aristotile: di più in parecchi luoghi in cui egli enumera queste tre opinioni sui numer: Met. ultime dottrine a cui allude Aristotile, la prima è quella di Xenocrate, e la seconda quella di Speusippo. Malgrado la cronologia, noi cominceremo per esporre le idee del primo, che si è meno allontanato dal platonismo ortodosso. Xenocrate. La dottrina dell'identità del numero ideale col matematico equivale al fondo, com«3 osserva Aristotile, alla soppressione del numero matematico di Platone. In questa dottrina in efletto non vi ha più posto per le molte diadi, triadi, ecc. matematiche, che Platone subordina alla Diade, Triade, e ce. ideali. La Diade, Triade, ecc. ideali sono dette anche matematiche, perchè esse rappresentano al tempo stesso le Idee degli esseri p. e. dell'uomo, delPanimale, ecc. e gli attributi aritsi vede eh egli intende fare una enumerazione completa delle opinioni dei platonici, e ch^ non conosce una quarta opinione. Tuttavia alcuni storici hanno veduto un'allusione ad una quarta opinione in queste parole della Met,: Aìtri crede il primo numero, quello della Specie, uno essere: alcuni invece, che questo stesso sia il matematico. Le parole indicherebbero, secondo questi storici, un'altra dottrina dei platonici sui numeri, la quale non ammette che il solo numero ideale. Ma esse non indicano in realtà che la dottrina stessa di Piatone, nella quale il primo numero, cioè l'ideale, ó solamente ideale, e perciò uno, e non in un certo mwlo doppio, come nella dottrina in cui il primo numero è al tempo stesso ideale e matematico. Oltre che questo ò il solo senso grammaticalmente possibile, l'ipotesi di una dottrina dei platonici sui numeri, la quale non ammette che il numero ideale, e rigetterebbe assolutamente il matematico, è per se stessa inconcepibile, sia perchè anche i concetti matematici devono essere, ne sistema delle Idee, realizzati, sia perchò il numero ideale non potrebbe affatto riguardarsi come numero, se esso non rappresentasse pure ini certo modo le determinazioni aritmetiche delle cose come la nella dottrina di Platone, in cui i numeri ideali sono anche le Idee dei numeri matematici. per questa dottrina Arist. Met. luetici. Ma anche quelle di Platone rappresentavano gli Attributi aritmetici, perchè i numeri ideali, per lui, erano le Idee e le essenze dei numeri matematici. La differenza dei numeri di Xenocrate dai numeri ideali di Platone è che questi sono iìicomhinahili, mentre Xenocrate, sopprimeado la distinzione tra il numero ideale e il matematico, aopprime anche necessariamente il carattere distintivo per eccellenza fra i due numeri, e fa perciò il iinmero ideale comhinqbiU. Aristotile infatti parla rMla dottrina di alcuni platonici sui numeri ideali, in cui le unità di un numero sono simili e combinabili con quelle di un altro, il numero minore fa parte del numero magj>iore, e tutti i numeri s'no a dieci equivalgono alla Decade in se stessa -le due ultime propoisizioni evidentemente non sono che altre espressioni della prima, cioè della combinabilità Ora questa dottrina è certamente quella che noi attribuiamo a Xenocrate, sia perchè la combinabilità d^i numeri ideali suppone il rigetto della distinzione tra questi numeri e i matematici, sia perchè Aristotile attribuisce ai filosofi a cui egli allude la dottrina delle linee indivisibili , eh, secondo la testimonianza concorde delle antiche autorità, appart'ene a Xenocrate. Met. Mullach. Fragm. pkilos. graec. Anche Platone parla della linea indivisibile Arlst. Mei.: ma nella dottrina di cui è quistione in Met. la linea indivisibile viene rappresentata per un numero particolare l'unità il commento del pseudo Alessandro e di Siriano in Ar\&i^ Met, , mentre per Platone non vi ha certamente che un sol ì 'r t M Soppressi i uumerì intermediari, la coerenza del sìstema esige la soppressione delle entità intermediarie in generale, cioè anche delle grandezze matematiche. E in effetto ai partigiani dell'identità tra il numero ideale e il matematico Aristotile attribuisce pure la riduzione delle grandezze a dei numeri ideali. Cosi in Met., per indicare le tre scuole in cui si dividono i platonici, platonici ortodossi, scuola di Xenocrate e scuola di Speusippo, dice: alcuni dividono le sostanze separabili cioè le entità della filosofia platonica in due generi; altri pongono in ima sola natura le Specie e le entità matematiche non semplicemente i numeri matematici; e altri non ammettono che le sole entità matematiche., rimproverando ai platonici che ammettono la combinabilità dei numeri ideali, di restringere il numero alla decade, rappresentando tutte le loro entità per i soli primi dieci numeri, dice che per loro anche le grandezze vanno sino ad un certo numero, prima la linea indivisibile, poi la diade e poi ancora queste cioè arcora grandezze sino alla decade. È evidentemente a questa dottrina che noi attribuiamo a Xenocrate, che allude pure nrl 1, in cui riferisce Topinione di alcuni filosofi che nei concetti delle grandezze non fanno entrare che la sola forma, escludendone la materia, e riducono per conseguenza le grandezze a dei numeri questi filosofi non posano essere che dei platonici, perchè i pitagorici non conoscono la distinzione di forma e materia, e divide i partigiani delle Idee in due scuole, di cui V una ammette che il numero per tutte le linee la diade, perch.. li suo sistema non ammette, e non potrebb» ammettere, che tre Idee di grandezze, della Linea, del Piano e del Solido. Due è la linea stessa, e Taltra che è, non la linea stessa, ma ridea della linea. Platone distingue le Idee-numeri delle grandezze cioè della linea, del piauo e del solido dalle grandezze stesse, perchè le prime non rappresentano che la sola forma, mentre le seconde, per lui, comprendono anche la materia:Xenocrate invece, sopprimendo le grandezz 5 matematiche, non ammette, per le grandezze come per tutte le altre cose, altri concetti realizzatl che quelli che rappresentano le semplici forme, e possono per coseguenza ridursi a dei numeri; cosi non essemdovi più nel suo sistema dei concetti realizzati di grindez^e che includano anche la materia, le Idee i numeri ideali delle grandezze  non si distinguono piìi per lui dalle grandezze stesse. Per attribuire a Xenocrate la dottrina delPidentità del numero ideale col matematico e quindi anche la riduzione delle grandezze ai numeri più che sulle testimonianze incerte dei commentatori di Aristotile di cui alcuni, come Siriano e Filopono ad Met,, attribuiscono effettivamente questa dottrina a Xenocrate, ma Tattribuiscono  anche a Speusippo noi ci fondiamo sul legame che essa ha, nell'esposizione d'Aristotile, con quella delle linee e, più generalmente, delle grandezze, indivisibili. E ciò che abbiamo visto nel luogo indicato Supplem, n. Ili, e. IpS-lgC. MeL Xenocrate non ammette soltanto delle linee indivisibili, ma delle grandezze indivisibili in generale Stob. Ed. Phys., Simpl. in  Ari&t»  Phys,  A, ecc. L'ipotesi delle linee indivisibili era stata già emessa da Platone: Xenocrate sembra non aver fatto altro che riprendere quest'ipotesi d'una maniera definitiva, appog^^iarla su delle prove numerose Arist. De liti, insecabilib.  Phys  IH., De general, Simpl. tu Arist, Phys, Philop. in Arist, Phys, Themist. Paraphras, Phys, Arist, ecc., e legandola con  MeL , e lo  ^te^^o si rileva pure da 1.  , in  cui, dopo ave; distint) le diverse dottrine dei platonici sui numeri quella che ammette un numero ideale e un numero matematico, quella che identifica i due numeri, e quella che ammette il solo numero matematico continua: Similmente sulle lunghezze, i piani e i S'alili. Alcuni distinguono i matMuatici e quelli |xexà Tàc;  Idéa^ ; dì coloro che dicono altrimenti, gli uni parlano degli oggetti matematici matematicamente, quelli che non fanno le Id'e numf^ri né dicono esservi le Idee,; gli altri parlano pure degli og^^etn matematici, ma non  matematicamente, poiché per loro né ogni grandezza può dividersi in grandezze, ne qualswogliano unità possono formare una dualità. I filosofi a cui Aristotile rimprovera di non parlare degli oggHti matematici matematicamente, perchè ammettono delle grandezza, indivisibili, sono senza dubbio quegli stessi, che, sopprimendo le entità intermediarie, riducono le gandezze a di numeri: in effetto anche quf^st'altra opiaioue sulle grandezze deve essere menzionata a lato di quelle di Platone l'altra ipotesi platonica dei coi pascoli elementari, comporne una teoria completa delle grandezze indivisibili Platone aveva immaginato la linea indivisibile per sostituirla al punto, cb'egli non potiva ammettere come entità, perchè, come osserva Aristotile MalA. il commento d'Aless. d'Afrod. \ non gli sarebbe stato possibile di dedurlo da qualche forma del Grande e Piccolo quale materia delle entità geometriche. Per Xenocrate il motivo di sostituire la linea indivisibile al punto non può essere precisamente lo stesso, perchè le sue entità matematiche, che non souD che dei numeri, non racchiudono la materia: ma per non fare del punto un'entità ha potuto bastargli questa considìrazione, che esso non potrebbe comporsi, cjme le {irandezze e ogni altro reale nel suo sistema, d'Idea forma e di materia. Platone. Supplem. Speusippo, secondo l'interpretaaiona aristotelica del suo sistema.e di Speusippo; e d'altronde le parole similmente sulle lunghezze, i piani e i solidi ci indicano chiaramente che le tre opinionf, di cui é quistione in questo luogo, dei platonici sulle grandezze corrispondono alle tre, di cui sopra, sui numeri. Ag^^iungiamo che l'obbiezione che qualsivogliano unità non formano una dualità, ha di mira certamente i numeri-Idee: ma qui serve ad appoggiare la proposizione che i filosofi contro cui essa è diretta, parlano degli oggetti matematici non matematicamente; dunque per questi i numeri ideali s'identificano coi matvinitici. La tiioria di Xenocrate, eh ì i numeri a cui si riducono g i esseri sono gli stessi che i matematici, è evidentemente più pitagorica che l'ipotesi platonica di un numero ideale differente dal matematico, perchè i numeri di cui parlano i Pitagorici sono, come ossserva Aristotile, i numeri matematici. La riduzione delle grandezze a semplici numeri è anch'essa un nuovo passo verso i Pitagorici, perchè questi non ammettono, come Platone, che le grandezze siano subordinate ai numeri, ma le identificano, come ogni altra cosa, ai numeri stessi. Un'altra imitizione evidente del pitagorismo è la restrizione del numero alla decade, perchè i Pitagorici consideravano i numeri seguenti come una semplice ripetizione dei primi dieci Già Piatone, come c'informa Arist'^tile, non aveva fatto il numero ideale che sino a dieci: ma noi non dobbiamo intendere perciò che egli non ammette che i soli primi dieci numeri, perchè lo stesso Aridì Mei, Mef, Ilierocl. In carm. aur,, Arist. MeL\. Philop. De an„. Phjys, stotìle dà questa dottrina come particolare, fra tutti ì partigiani dei numeri ideali, a quelli per cui questi numeri erano combinabili, e, per consegueaza, identici ai matematici cioè alla scuola di Xenocrate. Il senso deirindicazione d'Aristotile nel luogo della Fisica sembra dunque piuttosto che nella formazione dei numeri ideali Platone si è fermato alla decade, ma senza decidere se dovessero ammettersi o no anche i numeri seguenti. L'incertezza di Platone e dei suoi su questo punto ci è attestato in quest'altro luogo della Met.: Quelli che ammettono le Idee dicono che le Idee sono numeri: ma dei numeri parlano, ora come se fossero infiniti, ora come se terminassero alla decade. Qaest'incerteza si spiega per due esigenze contrari» del sistema. Da una parte, lo sforzo di Platone di accostarsi ai Pitagorici avrebbe dovuto avere per conseguenza di limitare il numero alla decada. Ma d'altra parte, la fusione della dottrina dei numeri coi principi! della dialettica, manifestantesi sovratutto nella loro generazione progressiva gli uni dagli altri che, come sappiamo, rappresenta la dieresi delle Idee, richiede che a ciascun'Idea corrispondesse un numero distinto, e, quindi, che i numeri ideali fossero altrettanti quante le Idee. Xenocrate, sacrificando il bisogno di accordare la teoria dei numeri con la dialettica a quello deirimitazione pitagorica, ci mostra la stessa tendenza che nelle altre dottrine che gli sono particolari. Cosi Timpressione d'insieme che risulta dalle innovazioni di Xenocrate è insomma ch'egli si è avvicinato ancora di più ai Pitagorici. Un'altra prova del pitagorismo più accentuato di questo Met., luogo già indicato. il filosofo è che egli, come c'informa Teofrasto fi, ha fatto degli sforzi più d'ogni altro platonico nell'applicazione della teoria dei numeri alle cose. Fra questi possiamo contare la celebre definizione dell'anima un numero che muove se stesso, quantunque essa non sia altra cosa che la definizione di Platone ciò che muove se stesso; unita al concetto generale dello stesso Platone, che gli esseri sono numeri. Speusippo, Fra le dottrine dei platonici, enumerate da Aristotile, sui numeri e gli oggetti della matematica, una è quella secondo cui non vi sarebbero altre entità che le matematiche. Confrontando fra di loro i luoghi in cui si allude a questa dottrina, e segnatamente quelli che riportiamo nella nota, si vede che è quistione del sistema di Speusìppo. I concetti principali che caratterizzano questo sistema, secondo  Aristotile, sono: 1® Non vi hanno, come abbiamo detto, altre entità che le matematiche; vale a dire Speusippo non ammette le Idee, e non realizza altri concetti che quelli dei numeri matematici e delle grandezze geometriche. i! .Mei, Fr. Mullach Fragm phil. graec. per questa dottrina Arist. Metaph. ecc. Mei.: Ancora, oltre i sensibili, alcuni credono che non vi sia alcuna sostanza; altri piò, e  massimamente le eterne, come Platone le Specie e le entità matematiche, due sostanze, e terza la sostanza dei corpi sensibili. Speusippo ammette pure più sostanze, a cominciare dairUno; e principii di ciascuna sostanza altro dei numeri e altro delle grandezze; poi dell'anima; e cosi moltiplica le sostanze. Non attribuisce a Speusippo, come a Platone, le Specie. La sola sostanza iperfica che gli attribuisce, oltre ai numeri e alle grandezze, è l'anima, o piuttosto il principio dell'anima: questo è menzionato a lato dei numeri e delle grandezze e dei loro principii, non perchè sia un Universale, un concetto realizzato, come questi, ma perchè ò anch'esso una sostanza sovrasensibile. Alcuni I -i : I   il i i '. T i I numeri matematici sono i primi degli esseri; poi vengono, nell'ordine dì anteriorità e posteriorità nel senso platonico, le grandezze geometriche; infine gli esseri fisici, le cose. L'Uno è il primo principio, come per Platone, ma non è identico al Bene, che gli è posteriore. Come, negli animali e nelle piante, il bello e il perfetto non si trovano nel germe, ma appariscono in ciò che ne deriva; poi dicono che le Specie e i numeri hanno la stessa natura, e che le altre cose ne derivano, cioè le linee e le superficie sino alla sostanza del cielo e ai sensibili, Qui si trat!.a evidentemente delia dottrina di Xenocrate; cosi numeri vuol dire i numeri matematici; per conseguenza sopra, parlando di Speusippo, questa parola ha pure lo stesso senso. Met,: Quelli che ammettono per primo numero il matematico, e cosi sempre un'altra contigua sostanza, e principii diversi  di ciascuna, fanno la sostanza del tufo senza legame S7lStao5t.tt)dy) una sostanza intatti niente giova ad un'altra, sia che esista sia che non esista e molti principii; ma gli esseri non vogliono essere mal governati. Non è un bene il principato di molti; uno solo sia il principe. Quelli che ammettono per primo numero il matematico, non possono essere che Cfuelli per cui non vi hanno, secondo Aristotile, altre entitA  che le  matematiche. In effetto, oltre a questa, Aristoti e non conta che altre due dottrine sui numeri e gli oggetti della  matematica: quella di Platone, per cui il primo numero è l’ideale; e quella di Xenocrate, che ammette un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico. Met. Met. Si potrà inoltre domandar»»  da chi non sia troppo facile a credere,  perchè in tutto il numero e, in generale, negli esseri matematici niente giovino Inno ali altro l'anteriore e il posteriore. Infatti, anche non esistendo il numero, esisterebbeio nondimeno le grandezze, per quelli che ammettono lo sole entità matematiche, e queste non esistendo, esisterebbero l'anima e i corpi sensibili. Ma. da quel che si vede, la natura non sembra sconnessa  è7l£tao5ta)5r|^  come una c«ittiva  tragedia. Ciò non accade a quelli che ammettono le Idee ecc. Met,. cosi, nel tutto, il buono e il bello non sono nel principio, ma nascono nel progresso dell'essere. Questo si sviluppa, come un organismo, procedendo da uno Ftato più indetrmiDato e più imperfetto a uno stato sempre più determinato e più perfetto. Delle tre classi di esseri ammesse da Speusippo numeri, grandezze gvometriche e erse, Vanteriore non giova niente alla posteriore. I numeri non sono le cause degli altri esseri: anche non esistendo i numeri, esisterebbero le grandezze geometriche, e non esistendo i numeri e le grandezze gecmetriche, esisterebbero le cose. L'entità matematiche non hanno, per Speusippo come per Platone, che un significato puramente matematico; in altri  termini, i numeri non rappresentano che le determinazioni aritmetiche delle cose, e le grandezze le geometriche. In effetto : Aristotile fa consistere essenzialmente la dottrina delle entità matematiche di Speusippo, tonr.e quella di Platone, nella sostantificazione degli attributi matematici aritmetici e geometrici, nelr essere questi considerali come separabili o separati dallo cose fx^P-^  xsxwptoiiéva. Speusippo dà, com«i Platone, le entità matematiche piM gli oggetti delle scienze matematiche aritmetica e geometria: per con-i: Met. Met. Met,  Sapplem. carte. Gli altri luoghi d'Aristotile ivi citati, meno Met,, si riferiscono certamente anche alla dottrina di Speusippo, perchè, come abbiamo osservato, Aristotile riguarda le entità matematiche di questo lìlosofo come  equivalenti a quelle degli altri piatonioi. Met. e gli altri luoghi d'Aristotilr citati, i quali devono riferirsi anche alla dottrina di Speusippo, meno Met. ohe non le si posi I i^ seguenza esse nou sono che la realizzazione dei concetti di queste scienze, la sostantificazione delle propri<»tà delle cose che queste scienze studiano. La prova che stabilisce l'esistenza di tali entità è che le matematiche  non devono riferirsi agli oggetti sensibili, ma a delle lealtà astratte, universali ed eterne; ed Aristotile riguarda anche questa prova come il motivo reale della dottrina. È evidente che su questa base non potrebbe fondarsi una teoria che vede nei numeri le essenze o le leggi delle cose, ma solo la realizzazione delle astrazioni numeri. Aristotile oppone Speusippo a Xenocrate, in quanto  quegli parla delle cosa matematiche matematicamente e il suo numero é veramente matematico, mentre questi ne parla non matematicamente, e sopprime in realtà il numero matematico. La ragione precipua di quest'opposizione è che i numeri matematici di Xenocrate sono gli stessi che gK ideali, e non si limitano quindi, come quelli di Speusippo, a'ia rappresentazione dei semplici attributi ariimetici. Il luogo citato a carta prova chiaramente che i numeri di Speusippo non costituiscono 1'essenza delle cose come potrebbe credersi che sia in una dottrina, che non ammette, secondo Aristotile, altre entità che le matematiche, né come paradigmi, quali le Idee nelTinterpretazione traII sono riferire, perchè parlano delle entità matematiche come intermediarie. Mot. ecc. Ili, Carta Met. scendentalista, né come inerenti nelle cose stesse, quali le Idee nella nostra interpretazione o i numeri pitagorici E lo stesso risulta dai luoghi, anch'essi già citati, in cui ci si dice che, delle diverse classi di sostanze ammesse da Speusippo, le anteriori non giovano per niente alle posteriori, e che le cose esìsterebbero anche non esistendo i numeri e le grandezze, o Infine, Aristotile riguarda le entità matematiche di Speusippo come equivalenti a quelle d^gli altri platonici: per conseguenza anche le altre prove per cui abbiamo stabilito il significato puramente matematico delle entità matematiche di Platone, valgono pure indirettamente per quelle di Speusippo. L'anteriorità d^i numeri sulle grandezza, e delle entità matematiche sulle cosi signific i, secondo  le abitudini della filosofia platonica: i'^ che i concetti delle grandezze contengono, nella loro comprensione, quelli dei numeri, e i concetti delle cose quelli dei numeri e delle grandezze; e  2^ che le grandezze procedono dai numeri, e le cose dai numeri e dalle grandezze. Ma in Platone il rapporto di anteriorità e posteriorità implica che il posteriore si deduce dall'anteriore, ciò che  importa, come sappiamo, che questo è in un certo modo la cau«a di quello, perchè l'essenza della dialettica platonica consiste nella identificazione del rapporto logico fra il principio e la conseguenza col rapporto ontologico tra la causa e l'effetto. In Speusippo invece le tre classi di sostanze da luì ammesse non si deducono Tuna dall'altra: le grandezze non si deducono dai numeri, né le cose dai numeri e dalle grandezze. E cosi che dobbiamo com Met. tól >Oji prendere la proposizione citata d’Aristotile, secondo cui la classe posteriore esisterebbe, anche non esistendo la classe anteriore. Ciò basta perchè Aristotile possa dire che Je sostanze di una classe non sono la causa di quelle delle' altre, benché la loro anteriorità e posteriorità implichi necessariamente, come abbiamo detto, che le posteriori procedano, come di regola, dalle anteriori. Il principio di Speusippo che V essere si sviluppa andando da uno stato più indeterminato e più imperfetto a uno stato più determinato e più perfetto è inutile di osservare che questo sviluppo non è un  progresso nel tempo, ma una successione puramente logica noa è in sostanza che quello della dialettica platonica  che la legge dell'essere è di arricchirsi progressivamente di nuov^ determinazioni, di passare continuamr'nte da uno stato più astratto a uno stato più concreto. Ma hcnza dubbio Speusippo applica particolarmente questo principio alle sue tre classi di sostanze, per indicare ch'esse formano una serie logica al tempo stesso ed ontologica, iu modo che il passaggio da un termine all'altro  importa un progresso nella determinazione dei concetti e de^li esseri corrispondenti a questi concetti, e nel tempo stesso una processione del più determinato dal più inletermiaato. L'altra  applicazione particolare che fa Speusippo del principio, cioè la non identità dell'Uno col Bene e U possteriorità di qu<»sto, non è che un corollario del significato puramente matematico del numero e  della sua anteriorità sugli altri esseri; l'identificazione platonica del Bene con 1'Uno supponendo evidentemente che gli altri attributi delle cose siano ricondotti al numero. Ma vi ha, nella filosofia di Speusippo, un punto d'un'im «io ohe diremo sulla iine di questo numera. I i portanza capitale è il preteso abbandono della teoria delle Idee su cui alla testimonianza d'Aristotile possono opporsi delle prove contrarie, che mi sembrano prevalenti. La prova più forte, e che anche da sé sola sarebbe decisiva, sta nell'inverosimiglianza intrinseca delle stesse affermazioni d'Aristotile. Se noi ammettiamo che questi ci espone esattamente le dottrine di Speusippo, il sistema di questo filosofo sarebbe il più insolubile dei problemi che ci presenti la storia della filosofia. Perchè  Speusippo avrebbe rigettato le Idee? Per le difficoltà, dice Aristotile, che si oppongono al sistema. Ma queste difficoltà consistono nelle inconcepibilità inerenti alla realizzazione degli universali. Allora, perchè avrebbe ammesso le entità matematiche? queste non sono anch'esse degli universali realizzati? L'ammissione delle entità matematiche non suppone il principio che 1'astratto  è' realmente separabile xtopwTóv, che la vera realtà è, non il particolare, ma l'universale? Se si ammette che ai concetti dei numeri  e delle figure corrispoadono dei Numeri e delle Figure astratte e generali, che coerenza vi sarebbe poi a non ammettere che anche ai concetti degl’ltr’ttributi delle cose corrispondono altr’entità egualmente astratte e generali? Se l’entità matematiche di Speusippo rappresentassero l'essenza stessa delle cose, si puo rispondere che esse bastavano alla realizzazione del principio che 1'essere si risolve in entità universali: ma poiché, come abbiamo dimostrato, esse non rappresentano che le determinazioni aritmetiche e geometriche, per lo stesso motivo per cui di queste determinazioni si fanno degli esseri reali sussistenti per se stessi, anche  lo altre determinazioni delle cose devono  Met. essere elevate ad esseri reali e sussistenti per se stessi. Ma vi ha di più: la realizzazione dei concetti non ha un motivo e uno scopo, che unita al metodo dialettico, cioè al metodo deduttivo applicato alla scoverta di quisti concetti realizzati. E per quest'unione, come sappiamo, che il realismo divieue una soluzione del problema delle cause  efficienti, perchè il rapporto tra principio e conseguenza, dopo che questo principio e questa conseguenza da semplici nozioni mentali sono scati trasformati in entità sussistenti per se stesse, diviene un rapporto tra causa ed effetto. Ora quale è stata, nell'ipotesi della verità dell’esposizione aristotelice, V attitudine di Speusippo verso il metodo dialettico? Ha egli rinunziato a questo  metodo?  Ma, in questo caso, perchè avrebbe ammesso delle realtà universali? Lo ha applicato ni soli concetti dei numeri e delle grandezze geometriche? Ma il metodo dialettico, come ogni altro sistema dei metafisici sulle cause effìcient', potrebbe avere altro oggetto che una spiegazione radicale e universale del mondo reale? e d'altronde, ammesso il metodo della dieresi, avrebbe  potuto esso ricevere soltanto  un'applicazione parziale, e non abbracciare la totalità dei concetti generici e specifici? o avere in una parte solamente della sfera della sua applicazione il valore obbieltivo ch'esso ha nella metafisica platonica, e nel resto un valore puramente logico? Da un altro canto, noi abbiamo dei motivi di credere che Speusippo, lungi di aver abbandonato la  dialettica  platonica, come metodo scientifico universale, è anzi verso questa parte che ha rivolto a preferenza le sue speculazioni. In effetto, egli è stato il primo, come dice Diodoro, che ha contemplato nelle scienze ciò che vi ha di comune, e insieme le ha congiunte, per quanto è stato possibile, Tuna con l'altra; e nei suoi Dialoghi sui simili ha cercato le affinità degli esseri della natura a lui  conospiuti, applicando particolarmente la dieresi platonica a quella parte del reale che più ne sembra suscettibile, cioè il mondo vivente. E che la dieresi fosse anche per Speusippo un metodo deduttivo, noi dobbiamo inferirlo dal suo apriorismo, anch'egli ammettendo, come Platone, che la ragione deve sforzarsi di ritrovare tutte le verità, partendo da quelle che sono evidenti per se  stesse, e ricavandone gradatamente le altre come conseguenze. Se dunque Speu Ap. Diog. Laert. per la portata di» quest'indicazione Platone Pep, Proclo Comment. in prim^ Fitclid. elementor, ed. graeo. in Mullaoh i'Y. . Filopono, commentando un  l. dell'Ana?.  Post,, in cui Aristotile parla dell'opinione che Eudemo attribuisce a Speusippo che per definire una cosa bisogna anche  conoscere tutte le altre, dice che Speusippo rigetta la definizione e la divisione. Ma è questa senza dubbio un'erronea inferenza di Filopono dal luogo stesso commentato. L'opinione di Speusippo non è, come ha ben avvertito Bitter trad. frane, che un principio dello stefcso Platone. La conoscenza per/'^ffa  d'un'Idea  suppone, secondo i principii  della dialettica platonica, la conoscenza  di tutto il mondo ideale. Infatti quest'Idea deve essere dedotta dall'Idea suprema, passando gradatamente per tutte le Idee intermediarie. Di più questo processo discensivo del metodo dialettico ha bisogno di essere preceduto da un altro processo ascensivo, per la scoverta delle Idee di più in più generali, a cui l'Idea di cui si tratta è subordinata. (Plat.  Rep.). Cosi, siccome questa scoverta  d'un'Idea generale è tirata dalla conoscenza di tutte le Idee particolari che le sono subordinate, perchè non è che la generalizzazione di tutte queste Idee, ne segue ohe l'ascensione all'Idea più generale, e per conseguenza an »9  ippo ha ammesso il metodo dialettico, s'egli ha Sconosciuto inoltre Tcsigtenza di entità universali; come credere che, dopo aver accettato tutti i presupposti  delTidealismo platonico, dopo essersi addossate tutte le gravi difficoltà del sistema, che sono le inconcepibilità della realtà degli universali e l'impossibilità di applicare effettivamente il metodo dialettico come metodo dimostrativo, abbia rinunziato a fare un'applicazione coerente dei principii, che sola poteva dare al sistema un valore iilosofico? A ciò dobbiamo aggiungere che, senza  la supposizione che Speusippo ammette anche le Idee, non si comprenderebbe una particolarità del suo sistema, su cui tanto iusiste Aristotile, cioè inutilità dei numeri e, in generale, delle entità matematiche, alle cose. Questa inutilità non è un semplice apprezzamento d'Aristotile, come p. e. quella delle Idee dì Filatone vale a dire le entità matematiche df Speusippo non sono inutili nel  senso che il valore loro assegnato nella spiegazione delle co^e è chimerico; ma essa risulta evidentemente dalle proposiz'oni stesse dell'autore si notino sovratutto le parole della Mei.: Né quegli stesso che lo ammette dice che esso, cioè il numero matematico, sia causa di alcuna cosa. Se Speusippo ammette le Idee, noi comprendiamo perfettamente come il suo numero non ohe la  diioensione da essa a na'altra Idea qualunque, cioè una definizione di quest'Idea, ottenuta col metodo di divisione praticato in tutto il suo rigore, richiede necessariamente che tutte le altre Idee siano conosciute. Se Speusippo rigetta la definizione, certamente egU non avrebbe fatta la collezione di quelle di Platone; e del resto essa è implicitamente ammessa neUa sua proposizione riferita  da Simplicio a l ArLt. Categ.oA  f  Mullach  Fr. Speus.: si dicono omonime le cose di cui irnome è «omnne, ma la definizione ò diversa. sìa causa di niente, òondè, in generale, le sue entità matematiche non giovino in niente alle cose, e perchè queste esisterebbero, anche se esse non  esistessero: è che ammesse le Idee, cioè le Idee degli esseri reali, questi si trovano completamente  spiegati, e ogni altra entità è superflua se i platonici ammettevano anche le entità matematiche, era perchè la coerenza del sistema delle Idee esige che tutti gli universali fossero sostantificati. Ma se h^  sole entità ammesse da Speusippo sono le matematiche sia che faccia loro rappresentare le sole determinazioni matematiche, sia che vi riconduca anche le altre determinazioni delle cose    che scopo e che motivo potrebbe avere per lui tale ipotesi, poiché essa non è fatta servire alla spiegazione del reale? Queste prove intrinseche sono fiancheggiate da altre prove estrinseche. Vi ha prima di tutto rinverosimiglianza che quello tra i discepoli di Platone, a cui dove premere più che ad ogni altro la gloria del maestro, designato senza dubbio dallo stesso Platone a succedergli neirinsegnaraento, ed egli stesso designante a suo successore un altro partigiano delle Idee Xenocrate, abbia rigettato la dottrina fondamentale della filosofìa platonica, e che costituisce il carattere e il punto di connessione della scuola. Poi, la testimonianza di Dio0)  Mei. Met. MeU . ni. Bitter. Storia della fllos, ant.. trad. frano,: Noi siamo ora in un tempo in cui la carica del professorato sembra essere stata trasmessa dai primi maestri ai seguenti Diog. L.; e la continuazione della scuola accademica tiene verisimilmente alla poisessione del giardino dell'aeea lemia che aveva già posseduto Platone Plat. De  exiU :n grène Laerzio e dì CICERONE, che affermano che Speusippo è rimasto fedele alle dottrine del maestro; Tindicazione di Stobeo ch'egli ha posto la natura dell'anima èv lòécf, xoO  tcocvtt) Staoxaxou potrebbe obbiettarsi che qui il  termine lòéoL non va preso necessariamente  nel senso tecnico della filosofia  platonica; ma è questo il senso che esso ha nella definizione dell’anima di Posidonio, la quale, nella parte che c'interessa, è certaniente imprestata a Speusippo; l'informazione d’Asclepio ch'egli ha nmmesso una sostanza distinta per tutti i smiii  ciò vuol  dire che di tutto ciò che é uno nei molti ha fatti un'entità distinta; quella stessa inesatta d'alcuni commentatori d'Aristotile che gli attribuiscono come a Xenocrate la dottrina d'un solo numero, al tempo stesso ideale e matematico essa si spiega per l'affinità di questa dottrina con quella reale di Speusippo, perchè i Numeri matemateci contenevano le Idee delle cose, come i generi le specie. Aggiungiamo infine che le affermazioni d'Aristotile si mostrano incerte ei anche contraddittorie,  poiché al tempo stesso che attribuisce a Speusippo di rigettare le Idee, gli attribuisce pure dì ammettere che le Idee non sono  Acad. Kcl Plut. Psicog. Anche Speusippo dice esservi molte sostanze: altra dice essere delle grandezze, e altra dei numeri, e in tutti i st«n7t, e ancora altra la sostanza della mente, e altra dell'anima, e altra del punto, e altra della linea, e altra deUa superficie.  Schol. Arist. a. ed. Brandis. Siriano ad Met., Filopono allo stesso luogo, Scìiolia in Aristotelem A ed. Brandis in Mullaoh Fragm phiì,  graec. nùmeri, proposizione che implica evidentemente ch'egli ammette le Idee. Un error? d'Aristotile nell'iatepretaziooc di questo punto del sistema di Speusippo non sembrerà tanto strano, se si rifletce alla difficoità che vi ha, tutte le volte in cui è  quistione degli universali o altre astrazioni dei metafisici, a comprendere se un filosofo dà loro un'esistenza reale o semplicemente logica. È un fatto di cui lo stesso Aristotile può fornirci un  esempio. Certamente, per lui, la forma e la materia non sono distinte che logicamente; eppure quant', senza contare gli oppositori del Rinascimento, che rendeno Aristotile responsabile degl’orrori degli scolastici, noa l'hanno inteso come se egli ammette tra di esse una distinzione reale, e le riguarda come vere sostanze, nel senso che noi diamo a questo termine? Viceversa alcuni fra i più francamente realisti degli scolastici sono stati compresi talvolta come se il loro realismo si riduce, in sostanza a questa proposizione, a cui niun nominalista contradice, che i generi e le specie  non sono semplici concezioni del nostro spirito, ma hanno un fondamento nella natura, eoe nelle affinità reali degli esseri. E passando ai filosofi Met, Quelli che non fanno le Idee numeri, né esservi dicono le Idee. Met.: Quelli che non credono esservi le Idee, né assolutamente né come essenti certi numeri. Met. Per quello che eosl non crede, perchè vede le difficoltà circa le Idee, sicché  perciò non le fa numeri, ma fa il numero matematico p. e. su Scoto Jourdain Filos. di AQUINO. Dum. per il senso che quest'autore dà alla parola reaUsmo, e CONTI Storia della fllos. Alcuni anche come Weber, Stor» della  filos»  europ. moderni, uno dei hiìgliori storici della filosofia, il bitter, non dà espressamente Spinoza per un nominalista? E quanti tra i lettori di Taine hanno  compreso che questi è un filosofo realista alla scolastica? Il malinteso d'Aristotile si spiega, in ultima analisi, pelle stesse ragioni che la sua preferenza per l'interpretazione trascendentalista delle Idee di Platone. È impossibile, come abbiamo osservato, di formarsi una rappresentazione qualsiasi di entità sussistenti per sé stesse quali le Idee platoniche, altrimenti che come separate dagli oggetti reali. Per conseguenza, se noi ammettiamo che Speusippo, ammaestrato dairesperienza della falsa interpretazione che si da, da Aristotile e da altri, del sistema del maestro, abbia energicamente insistito sull'immanenza delle specie nelle cose; noi comprenderemo facilmente come Aristotile, pella stessa ragione per cui, dalla evidente sussistenza per se stesse delle specie dì Platone,  conclude che esse erano trascendenti, abbia potuto concludere, dall'evidente immanenza delle specie di Speusippo, che esse non erano sussistenti per se stesse. Ciò che pare più difficile a comprendere è l'interpretazione, malgrado ciò, degli oggetti matematici come entità reali separate, naturalmente, dalle cose: ma,  per la novità  della  dottrina, Speusippo dove insistere  sulVanieriorità  dì questi oggetti sulle cose reali, non meno che sull'immanenza delle specie. Ora l’anteriorità, nel senso platonico, importa evidentemente un'esistenza dell'anteriore distìnta e indipendente da quella del posteriore. danno Scoto per un oonoettaaliita o un semi-nommaiiita. Stor. della fidos. trad. frano. Vi  ha un altro punto, nella filosofia di Speusippo, su cui l'impressione che risulta  dall'esposizione d'Aristotile, ha bisogno di essere rettificata, o almeno completata: è la relazione tra i numeri e lo cose. Noi abbiamo dimostrato, fondandoci su Aristotile, che i numeri di Speusippo non sono, come i numeri matematici di Platone, che i concetti i nostri concetti dei numeri, realizzati: ma ciò non toglie che la teoria dei numeri abbia in Speusippo, come negli altri platonici,  un carattere pitagorico. In questi concetti realizzati, come in tutti gli altri della metafisica platonica e come nei semplici concetti di cui parlano i logici, bisogna distinguere la comprensione e l’estensione: i numeri di Speusippo rappresentano le semplici determinazioni aritmetiche delle cose, considerati nella loro comprensione ma considerati nella loro estensione, rappresentano le cose  stesse, perchè sono gli Universali supremi, in cui queste sono contenute. Ciò risulta già dair anteriorità dei numeri sulle grandezze e le cose. In efletto l’anteriorità e posteriorità, nel senso platonico, non importa solamente che il concetto deiranteriore è una parte di quello del posteriore, ma ancora che il posteriore è contenuto nell’anteriore come in un genere. E che anche in Speusippo  il rapporto di anteriorità e posteriorità debba essere inteso nello stesso senso, è confermato da un'obbiezione che Aristotile fa alla sua dottrina sulla materia delle grandezze, cioè che se vi ha una materia distinta per ciascuna classe di grandezze linee, superficie e solidi e questa materie si seffuono, vale a dire stanno fra di loro nel rapporto di anteriorità e posteriorità, allora la superfìcie  sarà una linea e il solido una superficie. Lo stesso risulta pure dalle  Af«(. 1. xm.  iz. s. 62 /Il'» indicazioni che attribuiscono ai nùmerì  Una causalità sulle cose. Aristotile dice di Spensippo, come degli altri platonici, ch'egli fa dei numeri le carne prime degli esseri; e noi sappiamo da Jamblico ch'egli ha chiamato la decade il più efficaze e perfezionmte cfootxwxotxiQv xal  xeXeoxixwxocTTjv degli esseri, e una forma per se stessa autrice degli effetti del mx>ndo xtov xoo[iot(5v  à:ioxeX60|idxa)v  xexvtxóv. La causalità dr'Ue entità platoniche sta nella derivazione dei particolari dal generale a cui sono subordinati: le Idee sono le cause delle cose, e le Idee generiche delle Idee specifiche; è uello stesso senso che i numeri possono essere cause. Infine,  questa snperordinazione dei numeri alle cose come generi in cui queste sono contenute, è lina conseguenza della loro esemplarità. Secondo Jamblico, Speusippo ha anche chiamato la decade il paradigma più perfetto  x(p  xou  navxò^  tioit^x^  9e(ji  è evidentemente un'addizione di Jamblico; e secondo Aristotile, il punto, per lui, non è Y unità stessa, ma è quale Tunità, e la viateria  delle grandezze cioè lo spazio non è la pluralità stessa la materia dei numeri, ma è quale la pluralità. Ciò che nel platonismo è riguardato come paradigma, è il generale nel suo rapporto al particolare: le Specie sono i paradigmi delle cose, e i  Ge Met. Questo luogo sembra in contraddizione con gli altri già citati, in cui si nega che i numeri di Speusippo siano cause degli altri esseri. Essi  si conciliano, ammeltando, come abbiamo fatto, che quando nega ai numeri di Speusippo la causalità sulle altre cose, Aristotile vuol dire che nel suo sistema le altre cose non si deducono dai numeri, come avviene in quello di Piatone. ciò che  diremo  sulla  fine  di  questo  numero. TheoU arithm. ed. Ast.  Met. neri delle Specie; cosi è in questo rapporto che i numeri di Speu«iippo  devono essere con le gran lezzo e con le cose. Ma, i numeri essendo, per Speusippo, i generi delle cose, ne segue che anche per lui le cose sono, in un certo modo, dei numeri. Questa deduzione, infatti, è confermata da un luogo di Teofrasto, in cui Speusippo è compreso tra i platonici che fanno risultare le cose dai numeri e dai loro elementi. E una conferma ancora più esplicita si trova  in  Jambitco. Questi c'informa che Speusippo assegna alle cose particolari dei numeri distinti, come i Pitagorici e Platone: Tuno era il punto, il due la linea, il tre il triangolo e il numero della superfìcie, il quattro la piramide e il numero del solido. Evidentemente noi dobbiamo distinguere tra questi numeri cose e i numeri matematici. I numeri matematici sono i numeri in se stessi, le  cose sono numeri per la partecipazione dei numeri in se stessi, poiché, secondo i principi! della filosofìa platonica, le cose ricevono la loro essenza e la loro denominazione dalle Idee, cioè dalle entità universali, a cui partecipano. Questa distinzione tra i numeri matematici e i numeri cose corrisponde in certo modo alla distinzione abituale tra i numeri astratti e i numeri concreti: n o potremmo per conseguenza servirci di questi stessi termini per indicare le due sorta di numeri di Speusippo. I numeri astratti sono i numeri matematici; le cose sono questi numeri, concretizzati, h' essatesi sviluppa secondo Speusippo, noi lo sappiamo, procedendo dall'astratto al concreto: esso è prima numero, poi diviene graadezza. Met. Fr,  Theol. arithm., infine cosa. Sicché gli esseri  particolari possono considerarsi sotto tre aspetti, secondo il grado di determinatezza dei loro concetti. Ciascun essere, a un primo grado del suo sviluppo logico, è un numero matematico, e per conseguenza, considerato a questo grado di determinatezza del suo concetto, è un numero; al secondo grado del suo sviluppo logico é una grandezza geometrica, e per conseguenza, considerato  al grado corrispondente di determinatezza del suo concetto, è una grandezza  alTultimo grado del suo sviluppo logico e considerato nel suo concetto completamente determinato, è, inene, una cosa. Le grandezze geometriche sono i numeri a un primo grado di concretizzazione cioè con nuove determinazioni che mancano ai numeri astratti questi stessi numeri, a un grado ulteriore di  concretizzazione cioè arricchiti ancora di altre determinazioni, sono le cose. Il rapporto tra i numeri-cose e i numeri astratti, cioè matematici, è dunque identico, in sostanza, a quello tra i Generi e le Specie, p. e. tra V Animale e V Uomo: le cose non sono i numeri in se stessi, come l’uomo non è l'animale in se stesso, l’animale astratto – URMSON: THERE’s an animal in the backyard: not my aunt or an ant, but a middle-sized mammal – stereotipo Rosch; ma esse sono numeri, come l'uomo è animale. Evidentemente secondo Speusippo, come le cose, anche le Idee delle cose devono essere numeri. In effetto, assegnando le cose ai diversi numeri, egli deve prenderle per CLASSI SETS GRICE; vale a dire tutte le cose d'una stessa CLASSE devono essere per lui  rappresentate danno stesso numero cosi l'uno non è solamente QUESTO demostrativo punto, ma il punto in generale; il due, solamente QUESTA – THIS THAT YONDER DTHAT -- linea, ma la linea in generale. BRADLEY THISNESS GRICE DOSSIER Ora siccome le proposizioni che hanno per soggetto tutta una CLASSE, secondo i principi! della filosofia platonica, si riferiscono  propriamente all'Idea, ne segue che il numero assegnato ad una CLASSE non è che il numero dell'Idea corrispondente a questa CLASSE. Ne segue ancora che i numeri matematci devono essere anteriori, non solo alle cose stcss'^,  ma  anche alle Idee delle cose. Se infatti si dice d'una certa CLASSE,  p. e. l'uomo, l'animale, ecc., ch'essa è un certo numero, p  e. il quattro, ciò vuol dire  che il numero matematico corrispondente è un elemento astratto comune a tutti gì'individui O MEMBRI della  CLASSE. Ma tutto ciò che è comune a tutti gl'individui della CLASSE è compreso nell'Idea della CLASSE  p. e. l'Uomo o l'Animale in sé comprende tutte le note comuni a tutti gli uomini o a tutti gli animali THE ONE AT A TIME SAILOR THE ALTOGETHER SAILOR -- ; per conseguenza questo numero matematico o deve essere la stessa cosa che quest'Idea ciò che è impossibile, perché i numeri in sé di Speusippo differiscono da quelli di Platone in quanto non s' identificano con le Idee  o deve essere un che di più astratto che quest'Idea e contenuto in essa, cioè nella sua comprensione. Quest'anteriorità dei numeri matematici sulle Idee, o meglio  sulle Idee delle cose poiché i Numeri e le Grandezze in sé sono anch'essi in sostanzi delle Idee è del resto compresa implicitamente nelle proposizioni di Speusippo che i numeri sono i primi di tutti gli esseri, ch'essi sono le cause prime degli esseri, e che il primo numero è il mate N^lla proposizione, venente probabilmente dallo ttesgo gpeulippo, ohe le Idee non sono numeri in Arigt.   Met,, per numeri deve intenderai i numeri in se stessi, oioè i matematici.  Arist. M9t,  Met,  matico. Inoltre essa può desumersi dairanalogia del rapporto tra i numeri matematici e le grandezze in se stesse, cioè le Idee delle grandezze; essendo evidente, quando Aristotile parla deiranteriorità dei numeri sulle grandezze, che per queste grandezze intende, non le particolari, i fenomeni, ma  le generali, le entità. li sistema di Speusippo consiste essenzialmente in una nuova relazione stabìlita fra i numeri ideali cioè con cui le Idee e le cose s'identificano e i numeri matematici. Per distinguere i numeri-cose dai numeri dell'aritmetica Platone aveva ricorso al concetto arbitrario che il numero in se stesso differisce dal numero di cui parlano i matematici, e a quello non meno  arbitrario che le entità matematiche sono intermediarie fra le Ideo e i sensibili. Xenocrate, per evitare questi due inconvenienti, abolisce la distinzione tra i due  numeri, lasciando cosi intatto il paradosso pitagorico che identifica i concetti del'e cose coi concetti stessi dei numeri, quelli di cui è quistione neiraritmetica. Speusippo di^tingup, come Platone, i numeri cose, i numeri ideali,  da quelli deir aritmetica; ma facendo il contrario di quello che aveva fatto Platone, dichiara anteriore il numero matematico, e  r ideale posteriore. La dottrina di Speusippo ha due vantaggi su quella di Platone: il primo di riconoscere che il numero in se stesso, cioè  n^l suo concetto, non può essere che quello dei matematici; e l'altro di dare l'anteriorità tra i due numeri a quello che è  realmente più astratto, essendo dell'ultima evidenza che gli attributi aritmetici delle cose sono meno comprensivi, Met. Il namero matemntioo è chiamato il primo numero, in rapporto ai numeri o«n cui s'identifloano le Idee e le cose, ai numeri contriti. J hanno meno determinazioni, che le loro essenze stesse, cioè le totalità dei loro attributi. Del resto, per questa modificazione apportata  al pitagorismo platonico, Speusippo trova un addentellato nella dottrina stessa del suo maestro. Come infatti, nel sistema di Platone, uno stesso numero poteva essere al tempo stesso più entità distinte? inconveniente che Aristotile rimprovera pure alla dottrina dei pitagorici. Se il numero era comune a tutte, non dove essere, per conseguenza, separabile da loro e loro anteriore? Ben più,  Speusippo non fa altro che spingersi più avanti nella stessa via per cui si era messo Platone. Questi si era allontanato dalla pura dottrina pitagorica, vedendo nei numeri, non le cose slesse, ma le sole forme delle cose; Speusippo, non le forme, ma alcun che di più astratto ancora, di meno comprensivo. Vediamo ora le altre modificazioni che Speusippo apporta al pitagorismo platonico,  in conseguenza della nuova relazione, da lui stabilita, dei numeri con le Idee e le cose. Cominciamo dai caratteri dei numeri in sé. Primo, i numeri in sé di Speusippo sono combinabili, perchè questo è il carattere dei numeri matematici. Secondo, Speusippo abbandona la generazione progressiva dei numeri gli uni dagli altri 2j, perchè questa rappre(t> Arist. MeL Met,, in cui Aristotile  rimprovera a quelli ohe ammettono le sole entità matematiche, che per loro, non solo fra le diverse classi di esseri da loro ammessi, ma anche fra gli stessi numeri matematici ixepi zoi  àpi^\iO\)  Tiavxóg, l'anteriore non giova per niente al posteriore contrariamente a queUo ohe avveniva nel sistema di Platone. Qui le parole anteriore e posteriore hanno al tempo stesso un doppio  significato come nelVEth, End. Vm., seooado ohe si applicano a Sptusippo o senta il movimento dialettico delle Idee, la derivazione delle più particolari dalle più generali, e i numeri in t^è per Speusippo non s'identificano più coi Generi e le Specie delle cose. Terzo infine, nei numeri matematici di Speusippo nou ve ne hanno molti della stessa specie, come in quelli di  Platone, perchè  qupsta particolarità della dottrina platonica era legata al posto, assegnato alle entità matematiche, d'intermediarie tra lo Sp^ce e le cose. I due elementi di Speusippo sono l'Unità e la Pluralità. Egli non riduce più i'demento contrario all'Uno alla Dualità indefinita, perchè lo scopo di questa dottrina di Platone era sovratutto di eftet»uare la generazione a Platone alla cai dottrina sui numeri  viene implicitamente opposta «juella di Speusippo. Applicate a Platone, hanno il significato tecnico che loro si dà nella dialettica platonica; applicale a Speusippo, non possono significare che l'ordine dei termini di una serie progressiva qualunque, qual è quella dei numeri matematici. Arist. Met. rimprovera a Speusippo di non distinguere, come Platone, una prima diade, una prima  triade, eoe danna parte, e dall'altra molte diadi, molte triadi, ecc. Dunque Speusippo o ha ammesso solamente una diade unica, una triade unica, ecc., o solamente molte diadi, molte triadi, ecc. senza subordmarle a un'altra diade, a un'altra triade, ecc. antoriori  Ora la seconda ipotesi è inammissibile, perchè, secondo i principii di tutta la scuola platonica, ogni nioltiplicità suppone un'unità  superiore, a cui deve essere ricondotta Afelaf., in cui non si fa il no ne di Speusippo, ma SI parla di quei filisofi che non identificano l'uno col bene e fanno questo posteriore a quello, opinione che, come sappiamo, è quella di Speusippo  e ohe del  resto, nello stesso paragr. è legata all'altra, certamente pure di Speusippo, che le prime sostanze sono i numeri matematici. anche per la  dottrina che stabilisce come elementi l'Unità e la Pluralità Met. ecc. f -  progressiva dei numeri che Speusippo ha abbandonata. L'Unità naturalmente è l'essenza Oi^sia la forma, la Pluralità la materia. Speusippo identifica senza dubbio, ad imitazione di Platone, la prima al limite o limitato e la seconda aWiltimiiato. Aristotile riguarda l'Unità e la Pluralità ora con e principii dei soli  numeri matematici, ora come principii di tutti gli esseri. Di queste due versioni noi dobbiamo amm»^ttere la seconda, tanto perchè la dottrina dei due elementi, nella scuola platonica, ha per iscopo di fondere il sistema dello Idee con le dottrime pitagoriche, e i due elementi dei pitagorici erano gii elementi di luite le cose; quanto perchè l'unità di sistema, che è una delle condizioni delle dottrine metafisiche fondate sulla realizzazione dei concetti e sulla dialettica cioè sulla deduzione progressiva di questi concetti realizzati gli uni dagli tìtn, esige che Speusippo deduce tutte le sue entità da un principio unico come etdog comune di tutte il principio contn»rio essendo conside-rato come la  materia. Le proposizioni d'Aristotile che si trovano in contraddizione con la  versione che noi accettiamo tra cui la principale è quella che Speusippo stabiliva dei principii distinti per ciascuna delle diverse clast^i di sostanze da lui ammesse non sono difficili a spiegarsi. Evidentemente 1'Unità e la Pluralità, quantunque loro venga data la funzione di elementi comuni di tutti gli esseri, sono particolar Supplem. carta  Met,  Mei. eco. Met, carta mente adattate a  quella di elementi dei numeri; e in effetto, gli elementi di tutti gli esseri essendo delle entità d’una universalità assoluta, e i numeri  matematici essendo, tra gli esseri, i più astratti e che abbracciano tutti gli altri nella loro estensione, ne seguiva che questi elementi non potevano essere altra cosa che gli Universali supremi dei numeri matematici. Ma Aristotile considera i numeri    matematici di Speusippo come trascendenti, cioè come separati; per conseguenza la parusia delrUnità e della Pluralità in questi numeri non importa, per Ini, come por Speusippo, la loro parusia in tutti gli altri esseri. Cohi egli non può riconoscere la loro funzione di elementi costitutivi, cioè d'ingredienti, degli esseri, che nella sfera dei numeri matematici. Da un altro canto egli non tiene  alcun conto della loro causalità sugli altri esseri, perchè questa, che non è altra cosa che il legame dialettico tra il principio e le cose dedotte dal principio, è una sorta di causalità che non può ricondursi ad alcuna delle quattro specie di cause riconosciute da Aristotile. Cosi egli non può vedere neir Unità e la Pluralità, rispetto agli altri esseri oltre i numeri matematici, il carattere di  principii, in nessuno dei sensi di questo termine. Potrebbe credersi che per ragioni analoghe Aristotile dovrebbe vedere nell'Uno e la Dualità indefinita di Platone i principii dei soli numeri ideali e non degli altri esseri. Ma vi ha fra i primi numeri di Platone e quelli di Speusippo una differenza importante. I primi numeri di Platone sono identici alle Idee, e la dottrina che le Idee sono le   cause di tutti gli esseri tiene troppo posto nella filosofia platonica. perchè Aristotile potesse Don tenerne conto, non considerando i principii di queste cause come principii ancora dei loro effetti. Al contrario i numeri di Speusippo appariscono cosi poco le cause delle entità posteriori, che queste, come dice Aristotile, esisterebbero, anche se quelli non esistessero proposizione che esprime  esattamente la dottrina di Speusippo, come vedremo sulla fine di questo numero. Un'altra differenza che, quantunque abbia in se stessa poca importanza, ne acquista molta agli occhi d'Aristotile, è il modo in cui nel sistema platonico le grandezze vengono dedotte, facendole risultare dai numeri e dalla materia. Aristotile mette in antitesi questa dottrina con quella di Speusippo, che fa la  natura sconnessa come una cattiva tragedia perchè, come ha detto nel numero precedente, le cose esisterebbero non esistendo le entità matematiche, e non esistendo i numeri esiterebbero le grandezze. La derivazione logica del realismo dialettico non ha per Aristotile alcun valore come derivazione reale: egli dà quindi più importanza al suo simbolo materiale, che la esprime come la produzione di un tutto per i suoi elementi, e vi vede il nesso ontologico fra le diverse classi di entità, che non trova nel sistema di Speusippo. Non vi ha dubbio d'altronde che, quando Aristotile parla di principii distinti per le diverse classi di sostanze ammesse da Speusippo, questa  parolaprmctpu non abbia un significato differente da quello tecnico che essa e il suo sinonimo elementi  hanno nella filosofia platonica, vale a dire di concetti realizzati della generalità più elevata, da cui tutti ^\\ altri, più particolari e compresi flotto di essi, sono dedotti. Cosi per i principii delle gran Met. Met. r-M dezze Aristotile intende certamente il punto e lo spazio con cui, coroe vedremo in seguito, Speusippo costruiva la grandezza estesa: è ciò che risulta dalla Metafisica, dove il  moflo in cui le grandezze vengono dal punto e dallo spazio è assimilato a quello in cui i numeri vengono dall'unità e dalia pluralità. Ora evidentemente il punto non può essere considerato come r elSog generale delle grandezze Aristotile ne riguarda lo spazio come la materia. In quanto poi al princìpio distinto deiranima, di cui si  parla il. 4, per esso non può intendersi che il sustrato  iperfisico dei fenomeni psichici ammrsso da tutti i filosofi animisti, la parola anima designando il complesso di questi fenomeni secondo il senso, affatto naturalista, che questa parola ha nella filosofia dello stesso Aristotile e non la sostanza anima. GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY Sarebbe infatti incomprensibile che Speusippo avess'^. separato Tanima dal sistema aniversale degli esseri, rinunziando, per un'inconcepibile  eccezione, a coordinarne ridea con quelle delle altre cose sotto un'Idea più generale: è ciò intanto che significherebbero le parole: nu principio distinto dell'anima, se il termine jormcipio dove prendersi nel senso tecnico della filosofia platonica che sopra abbiamo spiegato. Del resto, si vede chiaramf^nte dalle allusioni di Aristotile, che fra tutti i principii in generale, attribuiti  a Speusippo nel senso vago in erti il termine è impiegato dallo stesso Aristotile, il carattere di elementi nel significato platonico nen appartiene che all'Unità e alla Pluralità. Potrà sembrare strano che Platone chiami  i due Universali supremi elementi, e 1'uno Vessenza o la forma, l'altro la materia, delle Idee e delle cose. Questi nomi  M.--7i ìnplìcherebbero che queste due astrAzìoni, le più povere di contenuto di tutte le astrazioni realizzate della metafìsica platonica, esauriscano, nella sua totalità, la sostanza di tutte le cose, che basti il loro concorso a costituire, integralmente, gli esseri, e che i  concetti delle cose non con<tino che dei loro concetti. Ma noi comprendiamo quest'apparente paradosso, mettendoci al punto di vista della dialettica platonica: siccome tutte le Idee si deducono dalle due Idee più generali o meglio, dall'Idea più generale, perchè l'elemento materiale non è, nella dialettica platonica, che un vero principio, pep dir cosi, inerte come la nostra materia, e il  principio attivo, veramente produttore, non è che V slòoc,; cosi tutto è implicitamente contenuto in queste due Idee, e l'universalità d'agli esseri, con tutti gli attributi che li costituiscono, risulta realmente, in un certo modo, dalla loro unione. Naturalmente quest'osservazione deve applicarsi anche alla dottrina di Speusippo: quando Speusippo chiama l'Unità e la Pluralità gl’elementi, eia  prima Vessenza, l'altra la materia, degli esseri, ciò suppone che l'Unità e la Pluralità costituiscono, per lui, la sostanza desili esperi, che questi sono implicitamente contenuti in quelle, e, per con«»eofiiPnza, che tutte le Idee de;»li  es<?eri  Numeri, Grandezze e Idee delle cose si deducono dall'Unità e la Pluralità o piuttosto dalla sola Unità, perchè la Pluralità è la materia, e il vero  principio dialettico non è che l'slòo(;. Lo stesso risulta dalTappellativo di principii. Arici per il nome di elementi dato all'Unità o alla Pluralità,  i 1. indicati nella carta meno quello in cui questo nome non è impiegato. Per que:4ti  nomi   i  l. indie, carta stotile, è vero, osa questo tertnine in un senso vago, ma che, trattandosi di entità platonich', non potrebbe uscire, in sostaozH, da questi  due significati, cioè, l'uno, di elementi costitutivi, d'ingredienti, per dir cosi, delle cose, e Tallro che è proprianiente quello della dialettica platonica di cause prime, di esseri primitivi, da cui gli altri procedono. Tuttavia non vi ha dubbio che in alcuni caii egli non chiami gli elementi di Speusippo />rmct/>u in questo secondo senso: è cosi che fa quando attribuisce ad essi al tempo stesso la doppia qualità di elementi e di principii p. e.: quelli che dicono l'uno principio, essenza cu elemento di tutte le cose; e tutti quelli che dicono 1'uno f^lemento e principio degli esseri, e più chiaramente ancora, quando allude alla dottrina di Speusippo che il bene e 1'essere non sono identici al principio, ma gli sono posteriori, tanto più che egli oppone questa dottrina alla sua propria e    a quelle dei teologri e di altri filnsofi che fanno della divinità o di un esHfr^ analooo U causa prima delle cc.se nel senso dialettico, 1'appellativo di principio non conviene propriamente choi all'Uno PRIMI PRINCIPIO two principles a contradiction --; e  infatti è a quest^elemento che lo dà a preferenza Aristotile – arche UNO – cf. IMPERATIVO – general principles of rational discourse – GRICE --,  nei luoghi indicati e altrove- Dallaa Priorità dei numeri matematici sugli altri esseri, e dall i loro non identità con le Idee e le cose, ne segu'^  che i due elementi  -i quali non possono essere che gli attributi universali della classe più astratti di esseri, per conseguenza dei numeri materaaviei non hanno in Speusippo che un significato Met. matematico. Cosi l'Uno non è il  bene VNVM BONVM PVLCHRVM VERVM -- né Tessere probabilmente il bene e il  male e Tessere e il non essere fanno parte delle due auoxotx^at  di contrari, di cui stiamo per parlare, e che Speusippo non identifica, come Plalone, ai due elementi, ma loro subordinavané può identificarsi con alcun altro dei principii che esso rappresenta nella dottrina di Platone cioè lo stato,  l'eguale, lo stesso,  ecc,  tranne, naturalmente, il «èpa;. Il simile potremmo dire della Pluralità. Noi sappiamo da un luogo  delTJ^^A. Nic. che Speusippo ammette, come i Pitagorici e come Platone, la dottrina delle due auoxoixtat di contrari]; ma questo luogo non ci apprende niente sul carattere della dottrina  propria di Speusippo, tranne che chiama Met. In effetto, quantunque Speusippo  facesse scendere l'Idea del bene dal grado di PRIMO PRINCIPIO, e mettesse al suo posto, al vertice della piramide ideale,  l'Unità matematica, egli non poteva rinunziare però interamente al concetto platonico della supremazia del bene nella natura, cioè, in sostanza, al concetto teleologico. Che egli non 1'abbia fatto noi possiamo desumerlo infatti dagli stessi luoghi indicati d'Aristotile  sulla non identità del bene col PRIMO PRINCIPIO Met., Siccome le due ouaxoixfat sono formate di concetti della generalità più elevata, aggregandovi il bene, egli avrebbe conservato almeno all'antico principio platonico, per quanto era possibile nella sua propria dialettica, una specie d'universalità. Che il bene non abbia più nella dialettica di Speusippo la funzione di principio,  nemmeno delle sole Idee delle cose, si desume anche da uno dei motivi, attribuitogli da Aristotile Met., per allontanarsi dalla dottrina di Platone: è che se il bene fosse identico all'uno, le specie essendo numeri, tutte le specie, tutti gli animali e le piante – cabbages are good -- , sarebbero del beni. Inconveniente che resterebbe anche se le specie non fossero numeri e il bene, senza  identificarsi con l'uno, fosse tuttavia il principio delle specie delle Idee delle cose. k~ 1^ runa deile due serie, pure come i Pitagorici, la serie dei beni, e vi  ^comprende l'Unità e, per conseguenza, nell'altra la Pluralità. Evidentemente, dalla funzione deirUnità e la Pluralità di principi di tutti gli esseri, ne segue che tutte le altre opposizioni delle due ouoxotX^at dovessero ricondursi a  quest'opposizione primitiva, subordinando, in ciascuna, V uno dei termini all'unità, identica al limitato, e l'altro alla pluralità, identica alTillimitato. Questa riduzione delle altre coppie di opposti alla primitiva era in Platone, come sappiamo, una vera identificazione; ma in Speusippo non poteva essere che una semplice subordinazione identica, al fondo, a quella delle specie al genere.  Queste coppie, in effetto, che dovevano rappresentare le opposizioni fondamentali del reale, cioè le più universali e a cui tutte le altre o la più parte possono subordinarsi, non avrebbero potuto, evidentemente, ridursi ai due semplici concetti dell'unità e della pluralità, nel significato puramente matematico. Verisimilmente Speusippo impresta le opposizioni delle sue auaxotx^ai una parte  da Platone, e il resto dai Pitagorici: è almeno ciò che potrebbe inferirsi da un luogo della Met. in cui si attribuisce ad alcuni filosofi che vedono nei numeri e, in generale, nelle entità matematiche, le cause della natura, di contare nella ouoTotxCa  dei beni l' impari, il retto, l’eguale, il quadrato. Questa indicazione sembra doversi riferire a Ciò solo mettono in chiaro, ohe il bene esiste, e  ohe della ooaxoixia del bello sono V impari, il retto, l'eguale, le potenze àt òuvoc^isig, cioè i quadrati di certi numeri. Se, come congetturiamo da questo luogo, Speusippo comprende in una delle due ouaTOtX^at il quadrato naturalmente in quella del limitato, esso e il suo opposto l'oblungo éTspó|iy)X£g dovrebbero evidentemente Speusippo, perchè nò i Pitagorici, né Platone, né, per quanto pappiamo, altri platonici, tranne Speusippo, riguard^ivano come cause delle cose le entità matematiche in generale, cioè, non solamente i numeri, ma anche le grandezze geometriche, Alla dottrina che gli rlementi sono TUnità e la Pluralità e non la Dualità indefinita è legala, in Aristotile, quella che le grandezze vengono dal punto e dallo spaz'O, la quale, per conseguenza, noi  dobbiamo attribuire anch'essa a Speusippo. Non si tratta, evidentemente, che di una leggiera variante delia costruzione platonica della grandezza estesa: i solidi risultano dallo spazio racchiuso e dalle superficie che lo racchiudono; le superficie dallo spazio e dalle linee che lo circoscrivono; le linee dallo spazio, cioè dall'intervallo, e dai punti da cui sono limitate. Solamente, mentre  Platone non aveva applicata questa costruzione che alle granprendersi, in questa sua dottrina, non nel significato puramente geometrico, ma in uno più largo, in cui quest'opposizione potesse applicarsi anche ai numeri forse della stessa maniera che nel Teeteto. Bel resto G. crede che tutta questa parte della Met. allude alle dottrine di Speusippo Vi si parla infatti d'una teoria dei numeri,  alla pitagorica, e non potrebbe essere quistione degli stessi pitagorici, perchè, in questa teoria, il rapporto tra i numeri e le cose è la partecipazione xoiVCDvCa, e la conclusione di tutto il capitolo è che gì oggetti matematici non sono i principii e non sono X^P^^ <iai sensibili. Di più, la dottrina di cui si parla viene distinta da quella dei numeri ideali: non potrebbe dunque essere che la  dottrina dei numeri matematici, come cause delle cose, !a quale non avremmo alcun motivo di attribuire ad altra scuola platonica che a quella di Speusippo. Met. dezzé Cullerete e particolari, cioè ai corpi, Speusippo invece Tapplica immediatamente alle grandezze astratte e generali, cioè alle geometriche Vi ha però tra la dottrina di Platone e quella di Speusippo una differenza, dipendente dalla modificazione che queliti apporta alla teoria dei numeri. Platone non fa risultare propriamente le linee dallo spazio e dai punti poiché egli non ammette il punto come entità reale ma dallo spazio e dalle monadi, benché in questa costruzione le monadi fungessero in sostanza da veri punti; Speusippo invece non poteva identificare più il punto con V unità, perchè gli  esseri, per lui, non erano più identici ai numeri in se stessi. Ma questa differenza era ben sottile, le unità di Platone, danna parte, in quanto servivano alla formazione delle grandezze estese, non potendo riguardarsi come vere unità nè ideali né matematiche, e dall'altra parte, il punto di Speusippo, venendo dalrUnità, ed essendo, per consegu<»nza, non in verità una unità asfraffa, ma una  unità concreta. Quanto Aristotile Per conseguenza la parola spazio, trattandosi della dottrina di Speusippo, deve prendersi in un senso un po'differente da quello ch'esso ha nella dottrina di Platone. Lo spazio del Timeo, dovendo servire alla produzione di oggetti individuali, è anch'esso un oggetto individuale, cioè il tutto di cui gli spazi particolari, finiti, sono delle parti. Lo spazio di  Speusippo invece, in quanto almeno serve alla produzione di entità generali, deve essere un'entità generale anch'esso, quella di cui tutto ciò a cui diamo il nome di spazio, sia lo spazio totale, infinito, sia uno spazio finito, è una partioolariazazione nel senso in cui le cose lo sono delle Idee. Quale materia dell'esteso, lo spazio non è chiamato da Speusippo xónog, come da Platone, ma StdaTTìjJia (v. >/«M,, forse perchè esso non è lo spazio esteso in tutte e tre le ditensioni che in una sola delle  tne classi di entità  linee, superficie e solidi che egli costruisce. Arist. Met. parla della dottrina che la superfìcie, la linea, il punto e r unità, o semplicemente la superficie, la linea e il punto, sono sostanze e più sostanze del corpo stesso; certao^ente egli non allude alla sola costruzione dell'esteso che noi attribuiamo a Speusippo, ma a quella, in generale, della scnrla platonica. Tuttavia,  se  l'entità, da cui e dallo spazio procedevano le linee, è da lui chiamata un punto, ciò sembra supporre che alcuno dei filosofi che ammetteno questa costruzione avesse già dato questa entità esplicitamente come punto Senza dubbio Speusippo vede anche in questa costruzione dell'esteso, come aveva dovuto fare pure Platone il punto essendo ricondotto all'unità o limite, e lo spazio alla  pluralità o tVZimiYa^o un'applicazicne del principio pitagorico che le cose constano del limite e àeW illimitato. Non ci resta, infine, che ad esaminare quali modificazioni ha potuto apportare nella dialettica platonica la nuova relazione che Speusippo stabiliva tra i numeri, da una parte, e le Idee e le cose, dall'altra oltre alla detronizzazione dell'Idea del bene, di cui abbiamo già parlato.  Dalla dottrina che V Uno e la Pluralità sono gli elementi di tutti gli esseri, non che dal bisogno dell'unità sistematica, necessaria al tipo di metafisica a cui appartiene il sistema di Speusippo, segue che, come abbiamo detto, tutt(5 le entità di questo filosofo devono secondo lui, dedursi dall'Uno e la Pluralità, o, più  propriamente, dall'Uno, perchè nella dialettica platonica modificata per  la fusione del sistema delle Idee coi concetti pitagoricij il vero principio, in sostanza, è quello dei due elementi che funge da  slSog. In altri termini, tutte le Idee, secondo Speusippo, quelle dei numeri. Supplem. carta  quelle delle grandezze geometriche e quelle delle cose, devono nascere dalla dieresi progressiva deir Uno. A quest'oggetto, Speusippo non avrebbe potuto servirsi che deir  uno o dell'altro di questi due processi. Cioè o di dedurre s'intendr>, col metodo di divisione prima dall'Uno i Numeri, e poi da ciascun Numero le Grandezze e le Idee deMe cose ad esso subordinate. Ovvero -siccome tutto ciò che esiste è al tempo stesso un numero, una grandezza e una cosa di dividere gli esseri, nella loro universalità, tre volte, ciascuna ad uno di questi tre diversi punti  di vihta, cioè come numeri, come grandezze e come cose, partendo in ciascuna di queste tre divisiodairUno come sIòoq generale di tutti gli esseri, sia riguardati quali numeri, sia quali grandezze, sia quali cose. A questo modo si avrebbero tre SCALE dialeit'che distinte, ma convergenti alla loro «emmHà nell'Udo, rappresentanti ciascuna la totalità degli esseri: quelU delle Idee dei  numeri, quella delle Idee delle grandezze e quella delle Idee delle cose. Di questi due processi Speusippo non ha potu'o seguire il primo, perchè, se nel suo sistema le grandezze si deducessero dai numeri e le cose dai numeri e dalle gran-i»  zze, Aristotile non potrebbe dire che le cose esisterebbero anche non esistendo le entità matematiche, e le grandezze anche non esistendo i jnumeri.    D'altvon'^e è solo il secondo di questi due processi che perii»ettcva di nou violebtare troppo apertamente le affinità reali delle cose. Noi dobbiamo dunque ammettere che secondo Speusippo le Idee di cose cioè  delie cose concrete, dei numeri all'ultimo gradì di concntlz '.azione s' deducevano progressivamente, alla maniera di Platone, dalle Idee di cose più  generali, a partire dall'Uno,  da cui cohi queste Idee provenivano direttamente, e non a traverso quelle dei numeri e delle grandezze. Così Aristotile ha ragione di dire che ciascuna delle tre classi di entità esisterebbe anche se le altre non esistessero Tuttavia, se le tre classi di entità non si deducevano l'una dall'altra, ciò non impediva che vi fosse tra di loro quella derivazione logica e, per conseguenza, anche  ontologica, necessaria per chiamarle anteriori e posteriori. Questa derivazione, nel sistema di Speusippo, era un risultato non cercato del principio platonico che tutto ciò che esiste è logicamente impossibile che non esista, e tutto ciò che non esiste logicamente impossibile che esista. I numeri sono una  i|orta di generi relativamente alle cose e alle grandezze, che ne sarebbero come delle specie. Ora, in conseguenza di questo principio, ciascuno di questi generi si concretizza necessariamente nelle sue specie esistenti e in queste sole specie. E questo carattere che, unito all'esistenza pure necessaria del genereche, in virtù dello stesso principio, compete anche ai numeri di Speusippo e all'essere questa data anteriormente a qu«»lla delle specie, fa della dieresi platonica una  derivazione logica e, mediante la realizzazione dei concetti, anche ontologica. Speusippo può dunque, per le stesse ragioni, considerare come una derivazione logica ed ontologica benché in questo caso non si applichi il metodo di divisione anche il passaggio dai numeri alle grandezze e alle cose. Per le grandezze relativamente alle cose vale lo stesso che abbiamo detto per i numeri  relativamente alle grandezze e alle cose. E cosi che Speusippo può stabilire, tra le sue tre classi di sostanze, un'anteriorità e posteriorità conforme al significato che questi termini hanno nella filosofia platonica. Quest'anteriorità e posteriorità, esistente tra le tre sfere in cui egli divide il reale, esiste, a più forte ragione nell^interno di ciascuna sfera; e ciò che riassume il sistema di  Speusippo, come del resto anche quello di Platone, è Tidea di uno sviluppo estra-temporale, che va sempre da uno stato più indeterminato a uno stato più determinato, e di cui egli vede Timmagine nello sviluppo delle piante e degl’animali. Arist. Met. Quantunque nel corso  del saggio G. tocca parecchi punti delle dottrine di Platone sull’anima, giove forse di presentare queste dottrine nel loro insieme, malgrado che ciò debba colarci delle ripetizioni inevitabili. Il nostro scr^po na turai ment'. Non è di fare un'esposizione di questa parte della filosofia di Platone. Ci basta d'indicare i punti più rilevanti per mettere in luce il significato reale delle dottrine platoniche contro l’interpretazioni erronee e più o meno arbitrarie che se ne sono date. Il sistema di Platone sull’anima è l’animismo antico, sviluppato con più conseguenza che in alcun altro filosofo, e trasportato cosi, dalPuomo e gli altri esseri animati dell'esperienza, all'universo, considerato anch'esso come un essere ANIMATO. Il carattere dell'animismo antico è che l'anima è riguardata, non solo come una sostanza, ma come una sostanza analoga a quelle dell'osservazione, cioè materiale o semi-materiale. Questo concetto dell'anima si trova, quasi senza eccezione, in tutti i filosofi greci prima d'Aristotile. Quelli fra di essi che noi pos3Ìamo considerare come i rappresentanti dello spiritualismo antico, come  oltre a Platone, Anassagora, non sono spiritualisti nel nostro senso, perchè non hanno idea d'una sostanza assolutamente immateriale, cioè che non occupa uno spazio. Da  un'altra parte i rappresentanti più genuini del materialismo, come Democrito, non sono materialisti nel senso moderno, perchè anch'essi riguardano l'anima come una sostanza distinta dal corpo, benché materiale come questo. Un materialismo rigoroso, cioè che non ammette il dualismo d'anima e di corpo, non si trova, prima d'Aristotile, che in alcuni pensatori isolati e d'una importanza secondaria: Ippone secondo cui l'anima era acqua e il seme era la prima anima, Crizia che identifica l'anima col sangue, e gli autori sconosciuti della dottrina che l'anima è l'armonia del corpo, sono forse i soli, tra i filosofi ricordati da Aristotile, che noi possiamo riguardare come materialisti, nel senso moderno e rigoroso del termine. Anche dopo Aristotile, in cui a parte la sua dottrina  sul Nous apparisce per la prima volta il concetto scientifico dell'anima poiché per lui la distinzione dell'anima e del corpo si riduce a quella della forma e della materia, il concetto dominante continua ad essere quello della sostanzialità, e noi lo ritroviamo anche in LUCREZIO, che si rappresenta l'anima come una sostanza sottile, che è diffusa in tutto il corpo, e di cui la parte dominante,  cioè L’ANIMO o la mente, abita nel cuore. Arist. De An.; Plat. Fedo. De rer. nat. Le dottrine platoniche sull'anima entrano dunque perfittamente nell'ordine di idee dell'epoca, anzi generalmente del mondo antico. Cosi Platone non sente il bisogno di provare a I CHURCHLAND, ma afterma come un principio che nes  uno potrebbe contestargli, questo presupposto fondamentale di tutta  la teoria: che l'essere animato è composto di due sostanze, un'anima e un corpo; che LA VITA risulta dall'unione di queste due sostanze, e la morte dalla loro separazione. Tuttavia sulla base di questo dualismo egli fonda una dottrina che, tra quelle del doppio materialismo antico, è la più conforme ai concetti del moderno spiritualismo, riguardando 1'anima e la materia cioè il substratum  di tutti i corpi come due sostanze diverse e radicalmente opposte. Ma con ciò Platone non fa che sviluppare logicamente il concetto fondamentale d'ogni animismo. Questo è che il principio della vita e della coscienza deve essere qualche cosa di distìnto dalle sostanze che costituiscono il corpo, poiché è impossibile di comprendere che una stessa sostanza passi dallo stato di vivente e  di cosciente a quello di non vivente e di non coscientt – GRICE HUMAN PERSON -- ,  e viceversa . Ora, se è cosi, sarà pure incomprensibile una conversione reciproca tra la sostanza anima e una sostanza materiale qualsiasi: per conseguenza, tutte le sostanze materiali essendo, secondo Platone, convertibili 1'una nell'altra, non vi sarà nell'universo che una sola dualità irriduttibile e  veramenie fondamentale, quella dello spirito -- MIND WHAT’S THE MATTER? NEVER MIND A JOURNAL OF PSYCHOLOGY AND PHILOSOPHY -- e della  materia. Nondimeno sarebbe un errore fare di Platone un campione dello spiritualismo nel senso moderno. Egli resta ancora, in sostanza, sul terreno del doppio. Fedo, Gorffio,  Epinom ] maUrialismo primitivo: ranima,  secondo lui, è estesa e si muove, e non afferma senza restrizione che non può essere oggetto dei sensi esterni. Il movimento deir anima é una conseguenza logica della sua semi-materialità: l'anima infatti è il principio motore dei corpi perchè il movimento spontaneo è il carattere distintivo deir essere animato – ANIME TUNE, e non si comprendo come una sostanza materiale o quasi  materiale possa muovere se non comunicando il proprio movimento. Così Platone applica all'anima stessa la definizione che converrebbe all'essere animato, ciò che muove se stesso -- AUTOMOBILE, vedendo nell'attributo della spontaneità del movimento un'espressione più completa dell'essenza dell'anima che in quello della coscienza – GRICE I AM THINKING OF HITLER, MIND --,  forse perchè gli sembra che il movimento spontaneo implica necessariamente la coscienza, mentre questa non implica quello. Il movimento spontaneo non solo è 1'attributo essenziale dell'anima, ma si trova in essa continuamente, perchè da una parte LA VITA, negli esseri animati che noi osserviamo sulla terra, consiste in un movimento incessante, la cui sorgente secondo Platone  non può trovarsi che neli' anima, e da un'altra parte gl’astri il cui movimento spontaneo prova che sono anch'essi degli esseri animati non cessano mai nemmeno essi di muoversi. Il doppio materialismo in Platone dà luogo ad una dottrina, che non è senza analogia, almeno se si prende strettamente Tim. Append, Lefjgi e Fedro Tim., Fedro, ecc. alla lettera, con quella del moderni  materialisti estremi dell'IDENTITA dei fatti PSICHICI  e aei movimenti organici che ne sono la causa: il pensiero e tutti i fatti  PSICHICI in generale sono per Platone dei movimenti dell'anima, proposizione che, intesa in un senso rigoroso, risolverebbe il subbiettivo nell'obbiettivo, e potrebbe avere per iscopo di far consistere tut!;o il reale nell'estensione e le sue modificazioni, per  poi ridurlo più facilmente allo spazio limitato dalle unità, per conseguenza al numero. Tuttavia la proposizione non deve forse prendersi nel suo senso rigoroso: essa potrebbe significare semplicemente che i movimenti deil'anima sono la causa del pensiero e degli altri fatti PSICHICI. Ma anche in questo caso si avrebbe evidentemente una sorta di dottrina seoii-materialista, che  spiegherebbe anch'essa i fenomeni della coscienza per quelli del mondo obbiettivo, e non differirebbe dal materialismo propriamente detto, che perchè ai movimenti dell'organismo verrebbero sostituiti quelli di questa specie di maieria  imponderabile, invisibile e impalpabile, che è, secondo Platone, l'anima. Il concetto che l'anima muove gli organi per impulsione, cioè comunicando loro il proprio movimento, ci fa comprendere quello della sua tri-partizione. Platone crede evidentemente che i movimenti vitali si propagano a partire da certi centri indipendenti fra di loro. Questi sono, almeno sovratutto, il cervello, il cuore e il fegato – GRICE LOOSE LIVER. Cosi egli divide l'anima in tre parti separate, dando loro per sedi le tre cavità del corpo in cui soao  contenuti'questi r^ a.  carta Leggi, Fedro,  Arisi. ni.  . rie  an,  f'ì It organi dottrina ammessi pure da Ippocrate, e che poi fa adottata da Galeno. La parte deiranima che è il substratura dell'intelligenza il Xoyioxixóv abita nella cavità cranica; quella in cui risiedono la collera e il coraggio il 0D|xós  è alloggiata nella cavità toracica – IL TORSO DEL BELVEDERE --; la terza a cui  appartengono gli appetiti sensuali, la più parte dei quali sono in rapporto eoa le funzioni della nutrizione (r  èTTiGDfAYjiixóvì  è alloggiata  nella cavità addominale, nella regione posta tra il diaframma e l’ombelico. L'esame psicologico viene a confermare questa tri-partizione dell'anima, fondata senza dubbio su una base fisiologica; poiché le attività PSICHICHE corrispondenti alle tre partì manifestano, per la contrarietà delle loro tendenze, ch'esse apparrengono a dei soggetti distinti. Al concetto delia sostanzialità dell'anima è unita seneralmente la dottrina della sua sopravvivenza, e spesso anche quella della sua preesistenzi. Tanto la sopravvivenza quanto la preesistenza sono per Platone illimitate: Tanima, secondo lui, non è solamente immortale, ma eterna.  Questa dottrina del nostro filosofo è, come quella deir opposizione radicale tra lo spirito e la materia. uno sviluppo perfettamente logico del principio dell'animismo. L'ipotesi della sostanza anima, come sappiamo, è destinata a spiegare il passaggio della materia dallo statD di VITA  e di cìseienza – GRICE I AM THINKING OF HITLER MIND REVIEW OF PSYCHOLOGY AND PHILOSOPHY -- allo stato coatrario, e viceversa: siccome ci sembra incomprensibile che una stessa sostanza si trovi alternativamente in questi due stati contrari per l'induzione istintiva, tirata dalle nostre esperienze più familiari, che l'essenza delle cose non Galeno De placitis Hippocratii et Platonis. Tineo Rep, può cangiare, ne concludiamo che questo passaggio è dovuto a un'altra  sostanza distinta, che è il substratum della VITA e della coscienza – PERSONAL IDENTITY,  e che ora si unisce alla materia, ora se ne depara. Ma se si ammette che questa sostanza supposta, cioè la sostanza anima, è soggetta ossa stessa alla nascita e alla morte, si va incontro alla stessa difficoltà che si è voluto evitare con la sua supposizione, cioè rincomprensibilità che una stessa  sostanza da vivente e cosciente diventi non vivente e non cosciente, e viceversa: infatti, una creazione e un annientamento assoluti essendo inconcepibili, rincominciare ad esistere, per l'anima, non potrebbe essere che una trasformazione di qualche sostanza preesistente, che acquisterebbe le nuove proprietà della vita e della coscienza che sono quelle che caratterizzano l'animaj, e il  cessare di esistere un'altra trasformazione della stessa sostanza, che perderebbe le nuove proprietà acquistate. Le ragioni stesse per cui si suppone una sostanza anima, conducono dunque ad ammettere che questa sostanza non può cominciare ad esistere né cessare di esistere. Queste ragioni, a dir vero, non proverebbero rigorósamente l'eternità dell'anima individuale, ma quella della  sostanza deiranima, di cui una certa individualità determinata potrebbe essere uno stato transitorio GRICE HUMAN PERSON. Ma la forma più naturale, anzi la sola naturale, che possa rivestire il concetto della preesistenza e sopravvivenza della sostanza dell'anima è evidentemente ia preesistenza e la sopravvivenza dell'anima individuale PERSONAL IDENTITY. L'identità dell'anima, infatti, suppone l'identità della coscienza; per conseguenza alla persistenza dell'anima deve corrispondere la persistenza della coscienza; ora noi non possiamo concepire che la coscienza persista cioè che la stessa coscienza continui ad esistere se non conservando la sua  individualità. La dottrina platonica deirimmortalità, anzi dclTeternità, delTanima ha dunque una basa logica  perfettamente naturale quantunque d'un'evidenza illusoria, come lutti i sofismi a priori del nostro spirito: ma Platone, per dimostrare quest'immortalità, si serve di sofismi artificiali y che evidentemente non possono essere dei motivi reali della dottrina. Ciò si spiega per la natura incosciente del processo logico di  cui questa dottrina ò la conclusione. II concetto della sostanza anima non  suppone necessariamente una deduzione dal principio generale che le sostanze non possono cangiare nelle loro proprietà essenziali, e meno ancora un'induzione co«c^6/^^e dalle nostre esperienze più familiari che ci suggeriscono questo principio gener.ile. La spiegazione della vita e della morte per la unione e la separazione della sostanza anima sembra evidente perchè permette di  assimilare questi fenomeni alle esperienze più familiari, che mostrano che le cose non cangiano nella loro natura – FISICI CHIMICHI , ma solo nei  loro rapporti reciproci di posizione: ma si può non aver coscienza del processo di assimilazione, ma solo del suo risultato, cioè delT evidenza della spiegazione, la quale ^Jembra perciò un’evidenza intrinseca. Così pure T ipotesi che la  sostanza anima non muore né nasce sembra evidente, perchè permette un'assimiliazione più compieta, che V ipotesi contraria, alle stesse esperienze più familiari da cui si è conclusa V esistenza di questa sostanza; ma si può anche in questo caso aver coscienza solamente deirevidenzx dell'ipotesi, e non del processo d'assi in ilazonc di cui quest'evidenza è il risultato. Non è du ique  sorprenientj che Platone, per dimostrare,  l  i nmortalità dell'anima, invece che delle prove Itali.  cioi>  dt^i sofismi naturali  su cui questa dottrina è fonlati, si serva di sofismi puramente artificiali incapaci per se stessi di determinare uoa convinzione: egli non ammette la dottrina che in virtù della sua evidenza intrinseca cioè per un'inferenza incosciente; cosi si comprenle com% e  rcando  di dimostrarla agli altri, al passaggio reale per cui é pervenuto alla sua conclusione, del  quale non ha cosnenza, egli sostituisca dei passaggi fittizi. Tuttavia si sarebbe ingiusti verso alcuni degli argomenti di Platone, riguardandoli come semplici sofismi artificiali: essi sono oltre quello della reminiscenza, quello del Fedro e l'ultimo del Fedone, il solo che Platone dia come decisivo. Il  primo di questi due argomenti conclude l'eternità dell'anima da (io che essa è il principio motore. Alla Qaest'argomento è riportato, nella sia parte essenziale,  a carte Fedone  Ogni anima è immortale, poiché ciò ohe sempre si maove è immortale, ma ciò che muove altro ed è mosso da altro, avendo un termine del movimento, ha un termino della vita. Solo dunque ciò che muova sa  stos^o, poiché mai non manca a se stesso, non ca^sa  mai di miov^er-ii,  aazl  a quante altre cosa sono mossa è la sorgente e il principio del movimento. Ora il principio è non generato, poiché è necessario che tutto ciò che si genera sia generato dal principio, ma qaasto da nessuna cosa: se infatti il principio fosse generato da qualche cosa, tutte le cose non sarebbero geaerate dal principio.  Ma poiché non é generato, è anche necessario che esso sia incorruttibile, poiché, se il principio venisse a mancare, né esso potrebbe nascere da qualche cosa, né altra cosa da esso. Cosi dunque il principio del movimento é ciò che muove so stesso: questo poi non può né nascere né morire; altrimenti tutto il cialo e ogni generazione si fermerebbero necessariamente, né si avrebbe mai  donde, ricuperato il moto, potessero rinascere. Ciò ohe è mosso da se stesso apparendoci essere immortale, se alcuno T' conclusione sì  giunge per dei passaggi che, quantunque non siaoo perfettamente logici, non'sono però arbitrari: dal concetto che l'anima è il principio motore suggerito dalla esperienza più familiare, che ci dà come carattere distintivo deir essere animato la spontaneità    dei movimento, se si suppone la necessità d'una causa prima per l'inconcepibilità di un regresso all'infinito nella ricerca delle cause, è naturale d'inferirne che questa causa prima è Tanima cosmica. Di là ne segae rigorosamente che quert'auima non ha avuto cominciamento: inoltre il più logico é di supporre che  e^isa non avrà nemmeno fine perchè nella supposizione contraria    bisognerebbe ammettere o che, estinto il principio del movimento, Tufliverso cada nell'immobilità, o che air anima cosmica estinta succeda, nel governo del mondo, un'altra anima cosmica, la quale avendo avuto cominciamento, si avrebbe l'incoerenza di fare dell'anima cosmica ora una coìsl sen/.a cominciamento e una causa prima, e ora una cosa di-i venuta e avente una causa.  Concluso  che V anima comica è senza cominciamento e senza fine, è naturale d’estendere questa conclusione alle anime individuali, che ne differiscono di grado, ma non di natura. L'ultimo argomento del Fedone s'impernia nella proposizione che ciò che apporta la vita dovunque si trova non può ricevere la morte: essa è 1'espressione del motivo reale della dottrina dell'immortalità,  che è il le^'^ame locrico dirà ohe qaeata è  l'e^^enza e la defiaiziona dall'animi, noa se ne pentirà. Infatti ogni corpo, a cui il movimanto viene dal di fuori è inanimato; ma quello che lo ha da se ste^o, è animato coms' se questa sia la natura dell'anima. Ma se è ooil, non esservi altro che muova se stesso sj non l'animi, per nesa^sità l'anima è non generata e immortale. Fedro che vi ha tra  la spiegazione animista cioè che la vita e la morte sono dovute alla unione e alla separazione d'una sostanza distinta che e il substratum della vita e della coscienzae il concetto che la vita e la coscienza devono essere inseparabili da una tale sostanza. Se Platone prendesse la proposizione o meglio il concetto eh' essa indica, senza esprimerlo sufficientemente come principio, r argomento  sarebbe naturale: la parte artificiale del sofisma è la pretesa dimostrazione di ciò cho egli dovrebbe invece dare, e che effettivamente ammette, come una verità intuitiva. Le sorti dell'anima dopo la morte formano il soggetto della più parte dei miti di Platone che bisogna distinguere dai simboli, quali il Demiurgo e la cosmogonia del Timeo, o la contcmplaz'one delle Idee nel luogo  iperuranio SUPRALUNARIO del Fedro: in questi miti è difficile di fare le parti tra ciò che è un convincimento serio dall'autore e ciò che per lui stesso è una congettura più o meno verisimile o anche una semplice finzione; ma è certo ch'egli ha fede nel concetto generale che vi campeggia, cioè i premi e le pene in un'esistenza futura. Platone accoglie la dottrina, insegnata nei misteri,  della trasmigrazione delle anime; e generalizzando questo dato tradizionale quantunque, oltre al ritorno in questo mondo, reincarnandosi in corpi d'uomini o d'animali, parli anche del soggiorno delle anime in altri luoghi di premio o di punizione INFERNO OGNI SPERANZA giungle al concetto che l'anima è sempre congiunta ad un corpo, animando successiva FedoAii liep. Gora. U-ij.  mente cirpi differenti secondo lo stati di perfezione o d'imperfezione a cui è pervenuta Leggi ma altrove, in dialoghi verisimilmente anteriori, parla d'iioo stato dell'anima ìq cui è libera da qualsiasi corpo, p. e. nel Fedone lU  e, ìq  cui una tale esistenza è promessa durante Teteruità a quelli che si sono purificati sufficientemente per la filosofia. É  inn^^gabile che la dottrina della  metempsicosi, sovratutto in questa forma, per quanto possa sembrare strana a uà filosofo moderno, ha un valore filolofico superiore che quella deir esistenza eterna dell'anima dopo la morte in ui mondo as^olutameote immateriale, poiché ossa lega par sempre il principio spirituale alia natura, continuando ad ass^ffnarffli, in tutte le epoche della saa  esi -utenza, la sua fuizione propria, senza di cui è un'ipotesi seaza motivo e senza scopo, di forza animatrice e VIVIFICATRICE della materia. La dottrina dell'immortalità dell'anima in rapporto a quella della sua tripartizione solleva un problema, a cui Platone dà delle soluzioni differenti: sono immortali tutte e tre le parti, ovvero una sola, che sarebbe come il substratum della personalità? PERSONAL IDENTITY HUMAN PERSON GRICE Nel Fedito e ammessa la prima delle due soluzioni; ma la dottrina definitiva di Platone, che troviamo nella RepubblLia e nel Timeo, è l'immortalità del solo XoYiaxixóv nel Fedone sembra Il Timeo è certamente una delle ultime opere di Platone, perchè appartiene al periodo del sincretismo con le dottrine pitagoriche. Anche nel Politico, ohe possiamo pure  riguardare come uno degli ultimi dialoghi Suppl. Carta si distingaono la parte immortale dell'anima, cioè la razionale – GRICE HUMAN PERSON -- e la mortale ohe Platone non ammetta la dottrina della tripartizione. La soluzione del Fedro é quella che esiggono i motivi fiksofici della dottrina dell'immortalità, poiché 1'anima è immortale perchè è la sostanza che ò il principio della VITA GRICE LIFE, e sostanze e  principii della VITA sono anche le parti inferiori. I motivi etici e Fontimentali della dottrina dell'immortalità esiggono invrce Tnltra soluzione, po'chè le speranze dell'altra vita li chiedono uno  j-t^to  d'IT anima in cui sia cs':'nte dalle passioni e dai bisogni del corpo, e in cui per conseguenza le parti inferiori – GRICE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- resterebbero senza  funzione. Forse Platone, negando 1'immortalità delle parti inferioii, intendi rifiutare solamente ad esse la persistenza dell'esistenza individuale, non quella della sostanza. Questa ò una conseguenza inevitabile dei presupposti di tutta la dot^rirn; e infatti i discepoli immediati di Platone insegnano 1'immortalità, non del solo XoY'.aiixóv, ma dì lut*:a TaMima. L'immoitilità e preesistmza  dell'anima si lega col sistema delle Id^e per la dottrina della intuizione delle Idee in un'altra vita e della remiirscenza. Noi abbiamo notato come il problema di spiegare la coincidenza tra il p3nsitU'o e la realtà nelU conoscenza a priori divenga più urgenti nel realismo dialettico: e infatti in quasi tutti i sistemi appartenenti a questo tipo oltre il sistema adi Platone, in quelli di Hegel, di  Schelling, di Spinoza 4 noi troviamo delle ipotesi destinate alla soluzione di questo problema. Fra le tre ipotesi pòssibili, cioè o che l'oggetto determina il pensiero, o che il pensiero determ'na l'oggetto, Olimpiodori Gommoni. in Platon. Phaedo. ap. Cousin  Journnl des saranls HI o che  VI  ha identità tra Toggetto e il pensiero, solamente la prima e l'ultima sono compatibili col realismo dialettico: col sistema platonico non è compatibile che la prima, cioè queììadeW intuizione razionale, perchè le Idee di Platone non sono dri peusieri, come quelle di Hegel  ma delle realtà puramente obbiettive. Noi abbiamo pure indicato perchè alla dottrina meao mistica di un'intuizione m questa vita Platone preferisca quella deirintuizione m una vita anteriore e della reminiscenza di  questa intuizione. Non ci resta d’aggiungere che un osservazione, cioè che, quantunque il processo reale del pensiero di Platone sia stato evidentemente dalla dottrina dell’immortalità e preesistenza a quella della reminiscenza, e non al contrario, non è strano chVgli riguardi la reminiscenza come una prova della preesistenza ed immortalità: quest'argomento, al suo punto di vista, e un  ragionamento perfettamente naturale è il solo di quelli del Fedone, oltre l'ultimo, ch'egli crede rigoroso, almeno come prova della preesistenza perchè egli vede nella reminiscenza, e quindi nella pree' sistenza che essa suppone, l'unica spiegazione possibile della conoscenza a priori. Passando all'anima cosmica, cominceremo ricordando che essa è V unica divinità ammessa da Platone.  Il Demiurgo del Timeo è un simbolo che rappresenta l'I0) Saggio Sappi, ili. Sappi. carte Fedo. Meno. Fedo Sappi.carta dea del Bene Il nome di dio dato al Bene e ad altre Idee e da Xenocrate tnche al principio materiale, e quello dì divino dato a tutte le Idee in generale, è evidente che non devono prendersi nel senso proprio, perchè  Platone non può avere Tintcnzione di personificare le  sue astrazioni realizzate, che non sono che gli attributi generali delle cose, considerati cerne sussistenti per se stess*. La parola divino, in questo come in tanti altri casi non significa che l'eccellenza dell'oggetto a cui si applica: quando insieme ali'idea della superiorità, viei e evocata vagamente rjuella della personalità, dair aggettivo divino Platone passa al sostan  Sapplem. carte  il nana.  seg. Questo para essere generalmente il caso in tatti i laoghi in cui Platone chiama dei delle Idee altre che quella del Bene. Nel Parmenide si chiamano dei gli esseri ideali in cui risiedono come attributi la scienza in sé e la padronanza in sé la scienza e la padronanza devono essere attributi e devono inerire in qualche sostanza nel mondo delle Idee come in quello dei fenomeni. Sulla fine  del TimeOf  dove il mondo è chiamato dio sensibile immagine del dio intelligibile n,  questo dio intelligibile è certamente l'animale che contiene tutti gli animali intelligibili, di cui, cioè l'Idea dell'animale, parche è a sua somiglianza che il mondo è stato fatto. Nel principio dell'allocuzione del Demiurgo alle divinità generate, dei di del cioè figli di dei, opere di cui io sono l'artefice e il  padre Tim., la parola dei, la seconda volta, deve denotare altre Idee oltre quella del Bene rappresentata dal Demiurgo: noi pensiamo naturalmente all'Idea dell'animale il dio intelligibile di cui sopraì e alle altre Idee meno estere a cui gli dei individui sono subordinati. Anche in cui il mondo semovente e animato, prodotto dal Demiurgo, è chiamato un simulacro degji dei eterni è naturale  d'intendere per questi dei eterni delle Idee, più o meno generali, di esseri animati, di cui il mondo è la realizzazione, 2«0  tivo dio, senza che intenda perciò assegnare alle astrazioni che decora di questo nome, una funzione analoga, anche lontanamente, a quella degli esseri personali d'una forma qualsiasi della filosofìa teologica. In quanto all'Idea del Bene, abbiamo osservato che Platone  non può chiamarla dio che perchè vede in essa il primo principio delle cose la stessa ragione spiega naturalmente perchè Xenocrate possa estendere questo nome anche al principio materiale. Al nostro punto di vitata moderno sembrerà strano che la divinità, nt-l senso proprio, non sìa per Platone che un principio derivato. Per un filosofo moderno Dio è Vassoliito, e perciò egli troverebbe assurdo di supporre un principio superiore a Dio stesso: ma questo concetto dell'assoluto, come carattere essenziale della divinità, manca ancora, come vedremo in seguito, in Platone, e in generale nella filosofia teologica antica non si sviluppa che d'una maniera incompleta. Il teismo in Platone è ass'so sulle sue basi naturali. Vi  hanno secondo lui due prove della divinità: la prova teleologica, tirata sovratutto dalla regolari à dei movimenti deg^i  astri, e quella fondata sul concetto chcì l'anima è il principio del movimento    si  Dio è per Platone il principio motore e ordinatore dell'univerjo-U doppia furi/Jone che li divinità, come princi Fedro, Lefiffi, Epinom., ecc. Filebo Sot\&la, Fedoni e, Timeo Sappi.carte, Leuai, Oo3, Kpbijmidc, ecc.cipio esplicativo dei  fenomeni, ha nella filosofia teologica amica, e possiamo anche aggiungere, nella teologia naturale. Vi hanno in Platone due dottrine della finalità, 1'una immanenie e 1'altra trascendente. La prima consiste ad ammettere che il Bene è V Idea delle Idee, il tipo universale su cui tutti gli esseri  sono costruiti, e che esso esiste per una necessità primitiva, tale che la sua non e.^istenza sarebbe  inconcepibile e contradittoria. La seconda spiega la finalità d.^gli oggetti materiali e che hanno avuto un cominciamento vedendo in essi degli efl'ctti d'una causa personale, agente con un piano e per ano scopo. Queste due dottrine non sono incompatibili, perchè non vi ha contraddizione ad ammettere al tempo stesso che è una necessità logica che i fenomeni si producano in grazia  d'uno scopo, e che tra gli antecedenti dei fenomeu' che si producono cosi ve ne hanno alcuni inacc'ssìbilì aircsperienz^;  e se si ammette questa seconda ipotesi, non solo non  iV contradditorio, ma è naturale di supporre che gli antecedenti di cui si tratta devono essere tali da spiegare la natura dei loro conseguenti. É vero però che una volta che la finalità viene spiegata per la sua necessità  logica, un'altra spiegazione non potrà più riguardarsi come indispensabile. Ma ciò non toglie che l'analogia suggerisca, anche in questo caso, delle cause personali: semplicemente non si potrà più pretendere che il ricorso a queste cause sia necessario, e l'argomento teleologico, per conseguenza, non potrà più aspirare al valore di una prova completa Suppl. carta Il concetto che Tanima  è la forza motrice si sviluppa in Platone nella dottrina che essa è la causa prima di tutti i fenomeni, e in lui troviamo già, quantunque in una forma meno precisa che in Aristotile – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY --, Vargomento della causa prima per provare la divinità. La dottrina che Tanima e la causa prima implica quella dtilla sua durata infinita, almeno  nel passato. Tuttavia nel Timeo le sì dà un'origine nel tempo, come all'universo in generale; ma noi abbiamo visto che la cosmogonia del Timeo è un semplice simbolo, che rappresmta la derivazione logica di tutte le cose dai due primi principìi, I Bene e la Materia. Nelle Leggi si parla pure dcirnnima come generata anteriormente a tutte le altre coso, di cui è la causa prim?iì: è ch^,  come abbiamo osservato, Platone, dandosi per un pitagorico, vuol conformarsi alia dottrina, secondo lui exoterica, dei Pitagorici, che attribuiva al mond) un'origine nel tempo benché la loro dottrina reale fosse che esso è eterno. L'insieme della teoria PSICOLOGICA di Platone e il sistema delle Idee che suppone Teternità e la necessità dell'ordine attuale del mondo esiggono  indispensabilmente la dottrina deireternità dell'anima, insegnata, del resto, nel Fedro e in altri dialoghi. Ai motivi filosofici della credenza nella divinila e alle sue funzioni corrispondenti si aggiungono come per la credenza nell'immortalità dell'anima individuale i motivi etici e sentimentali e le funzioni che corrispon Suppl. caria Sappi., carte Sappi., carte Sappi. carta, dono a questi.  Platone si diffonde a dimostrare che gli dei hanno cura delle cose umane, non meno delle piccole che delle grandi. Che i nostri aflfari siano piccoli 0 grandi agli occhi degli dei, non può convenire ad essi di negligerli, perchè la negligenza, l'inerzia, la mollezza non possono appartenere a dio, a cui bisogna attribuire l'eminenza in ogni virtù. D'altronde le cose piccole sono più facili a  curare che le grandi riflessione notevole, perchè ci mostra quanto Platone è lontano dal concetto delT onnipotenza. La provvidenza divina ha sovratutto per oggetto che ciascuno abbia la sorte che merita, mettendo V anima che è divenuta migliore in un posto migliore, e la peggiore in uno peggiore: del divenire poi ciascuno di noi migliore o peggiore ne ha lasciato le cause alla nostra  volontà; ordinariamente infatti ciascuno diviene di animo quale desidera di essere. Non bisogna credere però, come dicono i più, che Dio è causa di tutte le cose: egli è buono, e per conseguenza può essere causa dei soli beni, ma non dei mali. Vi hanno due sorta di anime, l'una buona (EUDAEMON) e l'altra cattiva: i movimenti tendenti al bene sono prodotti dall'anima buona, quelli  teadenti al male dalla cattiva. Quella che governa l'universo è l’anima buona: tuttavia Platone afferma che la somma dei mali sorpassa quella dei beni, ciò che, tenuto conto delle proposizioni precedenti, non permette di atI Le(jiii Leggi Leggi Leggi o. Qaesto concetto è espresso simbolicamente aeUa scelta delle anime nel mito salla fine della Repubblico, R$p. e. Leggi  Kptnom. Leggi,  R^u  tribuire a Dio che una potenza molto limitata. Platone combatte le idee della religione popolare che  e<^Vi erodo indegne della divinità, p. e. che gli dei si svisano sotto forme diverse – AQUILA -- ingannando gli uomini, che vi hanno fra di essi delle ingiurie ENEA e delle inimicizie reciproche, che i cattivi possono propiziarseli con doni ed adulazioni, ecc. Naturalmente, sarebbe  vano di cercare in Platone i concetti della spiritualità e della seinplicifà di Dio. La divinità, cioè l'anima cosmica, è una specie del genere anima: essa ha dunque la stessa natura spmìmateriale dell'anima dell'uomo e degli altri esseri ANIMATI, vale a dire è estesa, si muove continuamente if)), e muove i corpi comunicando loro il proprio movimento. Da ciò che precede si vrd anche che  mancano nella teologia platonica i concetti di r|uplla che abbiamo chiamato teologia trascendenfale, cioè le dottrine che Dio è immutabile e fuori del tempo, e che è V infinito 0 r assoluto {cioè che tutti i suoi attributi si elevano a un grado infinito o assoluto. Il Dio di Platone, lungi di essere immutabile, è, come abbiamo detto, in un movimento continuo: inoltre egli ragiona, prevede, PROVEDE si  ricorda, ecc.  (8>;  d'altronde Platone non avrebbe potuto immaginare una coscienza che non consiste in muta\i ^  h'ep. Kep. e. Le(j(ji  Tlm,  Ar. De an.,  ecc. T'na., Fnlro, Ar.  ì>e , ecc. Legni Fedro, Arisi, De an. GRICE 1. menti, perche per lui i fatti della coscienza non sono che movimenti dell'animi. Il concetto che Dio è l'assoluto 0 l'infioito implica quelli della sua  potenza e causalità infinite. l^a  la causalità e la potenza del Dio di Platone trovano un limite nella materia e negli altri esseri spirituali tra cui l'anima cattiva, che sono egualmente primitivi che lui: di più la sua efficienza si riduce unicamente all'azione motrice, e  <|ue9ta non può esercitarla, come l'uomo o qualsiasi altro essere corporeo, che a contatto e per impulsione. Uisulta pure dall'esposizione precedente che la teologia di Platone è un dualismo radicale, in cui Dio e la materia o,  meglio, la sostanza del mondo sono, non solo due sostanze distinte, come in quasi tutti i sistemi della filosofia teologica antica, ma due sostanze egualmente primitive, coeterne e inconvertibili l’una nell’altra. Non è foi-ae inutile di osservare che, siccome Dio e le Idee sono due cose  interamente differenti, questo dualismo non ha niente di contrario alla  immanenza delle Idee nel mondo, né al monismo della prima forma del sistema platonico, in cui l'Idea del Bene è il tutto allo stato implicito. Per la stessa ragione esso non ha niente di comune col dualismo della forma posteriore, in cui al Bene si aggiunge, come altro /.i li. I luoghi ivi citati sall'id3nlità del pensiero al movimento si riferiscono o  esclusivjun ante o anche all'anima dei mondo. Suppl. e la p. prec. Oltre alla sua azione motrioa per impulsione, Platone sembra attribaire all'anima – GRICE SCRATCHES HEAD -- cosmica uno sforzo per mantenere la coesione dell'universo e dei corpi celesti e la periistenza della loro forma Suppl. Questo sforzo non è in verità un'azione motrice, ma è  evidentemente immaginato, come questa, sul tipo della nostra azione mnscolare GRICE SCRATCH HEAD.  2<s:ì principio primo, k Materia, nò vi ha fra questi due daaliami alcuna relazione logica. L'influenza reciproca tra LA PSICOLOGIA platonica e la sua teologia è evidente Al dualismo antropologico tra l'anima e il corpo corrisponde il dualismo cosmologico tra Do e il mondo  materiale: alla indipendenza deli'anima cosmica dalla materia e alla sua primordialità e inconvertibilità con essa, richieste dalla sua funzione di causa prima, corrispondono l'indpendenza della PSICHE umana dalle condizioni SOMATICHE e la sua esenzione dalla nascita e dalla morte. Ciò che vi ha di  più oscuro nelle idee di Platone sulanima è il carattere vago del suo concetto  dell'individuahtà PSICHICA. Noi abbiamo visto che l'anima individuale è composta secondo lui di tre parti, ciascuna delle qaali costituisce in realtà un'anima distinta. Qualche cosa di simile SI ha nella sua dottrina dell'anima cosmica. Riguardando il mondo come un grande individuo animato egli concepisce l'anima che lo VIVIFICA come unica, come quella di qualsiasi altro  individuo  animato. Quest'anima è per lui la divinità: ma la sua unità non importa, per lui come per gli altri filosofi greci che ammettono un'anima del mondo, il monoteismo, almeno rigoroso. Egli riguarda pure come indiTidui animati la terra e tutti  gli astri, sì i pianeti che le stelle fisse, e attribuisce quindi un'anima a ciascuno di questi corpi. Ognuaa di queste anime è considerata naturalmente   come una divinità particolare Filebo, Tim. o.  eoo ecc. j b  . ihd. Platone chiama dei non, olo I'anima del mondo e qnelle dei ' H lQollr3 egli ammette dei DEMONI ACKRILL, esseri d'una divinità imperfetta tra cui ve ne hanno anche dei malefìci -- KAKODAEMONIA. Ora per !e anicne della terra e degli astri, è evidente che, secondo Platone, esse non esìstono al di fuori delTamica  cosmica, di cui sono come delle parti. Infatti nel Timeo il Demiurgo non costruisce che V anima del mondo e quelle degli animali mortali: degli astri non costruisce che i corpi, quantunque 1'autore li dia espressamente come esseri animati; e che vi siano altro anime oltre quelle che il Demiurgo ha COSTRUITE GRICE CONSTRUCT, è escluso dal luogo in cui si dice dopo che si è  narrata la formazione degli animali divini, cioè degli astri che egli ha composto V anima degli animali mortali coi residui degr ingredienti con cui aveva composto V anima del mondo – SCHIFFER REMNANTS OF MEANING. Un'altra prova, anche più decisiva, è la divisione dell'anima cosmica nel cerchio della natura dello stesso che rappresenta il movimento diurno del cielo e i  cerchi della natura del diverso che rai)presentano le orbite dei pianeti: se i movimenti planetari sono at corpi celesti, ma anche il mondo slesso e gli stessi corpi celesti. Questa estensione dell'attributo della divinità dall'anima, a cui propriamente appartiene, all'essere animato – ZOE BIO è troppo ovvia, per poter farsene un argomento contro il dualismo di Platone, che risulta nettamente  dalla sostantifioazione del principio spirituale e dalla opposizione radicale tra esso e la materia. Platone Fedro, Conv, to/r/t, K^iinom., Plutarco de h. ut Oslr. e de orarul. de^ feci li  Tim. Tim. Tim, tribuitì airanima cosmica, siccome il principio del movimento di ciascun pianeta deve essere la sua anima particolare, le anime particolari dei pianeti non possono essere che delle parti  deiranimii cosmica, (/aes'a è dunque per Platone un individuo superiore che contifne n I suo seno altri individui inferiori. Noi non troviamo alcuna difficoltà ad ammettere, nA  mondo fisico, delle individualità di ordine divergo, in modo che un individuo di grado superiore contenda in se stesso degl'iii'iividui di grado inferiore  p. e. l'organismo e le cellule che lo costituiscono. CUTTING A WORM IN TWO – FAIRBANK -- . Platone suppono che qualche cosa di analogo si dia anche nel mondo PSICHICO: egli non troverebbe niente di strano nel concetto di Haeekel GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY -- e di altri filosofi contemporanei, che riguardano V anima di un organismo vivent:^  come la risultante delle anime delle sue cellule. A dir vero  Platone non può riguardare r anima cosmica come una risultante delle anime degli astri: queste, rapporto alla  prima, piuttosto che agli elementi che compongono un tutto, potrebbero paragonarsi a dei rami divergenti da un tronco comune, o a dei punti  emer;2:enti in una superficie, ciascuno dei quali costituisce un'unità distinta, quantunque sia al tempo stesso una parte di un'unità più  comprensiva. Questo concetto d'un individuo PSICHICO che  contiene altri individui psichici, in Platone come negli altri filosofi antichi in cui lo troviamo, per quanto poco naturale in se stesso, e una conaeguenza logica d'un'idea naturalissima al punto di vista della concezione animista della natura, cioè che in (jucsto grande individuo vivente che ò luaiverso, vi hanno delle parti -- MEREOLOGIA, vale a dire i grandi corpi che si m?iovono in esso, che manifestando una vita sino al un certo punto indipendente, devono riguardarsi anch'essi come individii viventi. Se si suppone che LA VITA e i movimenti di un essere animato sono prodotti dall'anima che lo VIVIFICA, siccome le vite e i movimenti degl'individui inferiori fanno parte della vita e <lei movimenti deiriiiiividuo più vasto che li contiene, sarà logico di concluderne che le anime dei primi fanno parte dell'anima del secondo, estendendo al concetto dell'individualità PSICHICA la relatività che vi ha in quello delPindividualltà fisica. A questo punto di vista le anime stesse degli animali propriamente detti non potranno riguardarsi come assolutamente distinte dalla grande anima del  tutto: cosi secondo il Fllebo la nostra anima ci viene da quella dell'universo, come se ne fosse una parte, che le condizioni della vita terrestre (2 hanno isolata, ma che prima era congiunta al tutto con legami più intimi, benché avesse già un'esistenza individuale, perchè l'eternità d^lPanima importa, come abbiamo detto, la persistenza dell'individuo, e non semplicemente della sostanza. Vi hanno in Platone, come abbiamo già osservato due spiegazioni del mondo, corrispondenti a due concetti differenti della causa efficiente. L'una è la dottrina dell'anima cosmica: essa è una varietà della  filosofia f.v^mtiva dello spirito umano, e corrisponde al concetto spontaneo della causalità – DECAPITATION WILLED HIS DEATH -- ,  che ci fa considerare come causazioni efficienti le sequenze tra fenomeni  -- SPOTS ‘MEAN’ MEASLES -- che ci sono le più familiari. L'altra è il realismo dialettico, che introduce fra i concetti un nesso logico continuo, e, mediante Fileho T/anìmadeH'aomo e degli altri animali b a abitato negli astri, parteoipando al governo del mondo, o, purificata, ritorna ad abitarvi. Tim. e Fedro  T^«n  \« r : la loro i'<alizzaziond, dà a  questo nesso logico il valore di un nesso ontologico, cioè trasforma il rapporto tra principio e conseguenza in un rapporto tra causa ed effetto. L'uno di questi due generi di spiegazione non esclude l'altro, perchè non vi ha alcuna incompatibilità tra i due concetti della causalità su cui sono fondati. Il realista dialettico non può non ammettere anch'egli, oltre alla nuova specie di causazione   che egli introduce cioè la filiazione tra i concetti realizzati, quest'altra specie di causazione che tutti ammettiamo, e che si riduce a una successione costante tra fenomeni. Le tendenze istintive del nostro spirito lo spingeranno a immaginare, in queste sucessioni costanti tra i fenomeni che egli non può non ammettere, de^li antecedenti tali che possano spiegare ì loro conseguenti, cioè che  ne siano delle cause produttrici o efficienti: questo processo di efficienza causale può coesistere con quello del realismo dialettico, perchè Tuno produce dei fenomeni concreti e individuali, mentre Taltro non produce che delle entità astratte, cioè le forme e le leggi generali di questi fenomeni. Il realista dialettico considera, è vero, le sue entità astratte come le cause dei fenomeni di cui  sono le forme e le l^ggì generali: ma questa causazione non sarebbe incompatibile con quella dei loro antecedenti fenomenali cioè che sono dei fatti o degli esseri individuali e concreti che neir ipotesi, sconosciuta a qualsiasi realista dialettico, che le entità astratte fossero fuori dei fenomeni come neir interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche. Le entità astratte, secondo il  realista dialettico, sono cause dei fenomeni, non in quanto li producono, ma in quanto sono delle condizioni senza di cui essi non potrebbero esistere, costituendo la loro essenza la loro vera realtà – REBEL WITHOUT A CAUSE OR METIER. Ma se fossero fuori dei fenomeni, Im 11 «ii"ii -O WsT"^'M non potrebbero esserne le cause che produoendoli – GRICE ENGINEER: in questo  caso la loro causalità e quella degli antecedenti fenomenali (ammessi a titolo di cause efficienti, com'è evidentemente Tanima del mondo di Platone si escluderebbero a vicenda, e bisognerebbe scegliere tra Tuna e l'altra ipotesi. Potrà sembrare tuttavia che, se la spiegazione del realismo dialettico e quella della filosofia istintiva non sono incompatibili in quanto Tuna esclude l'altra, lo  sono però in quanto Tuna rende l'altra superflua. Le due spiegazioni, in effetto, s’applicano agli stessi fatti tutti  i fenomeni in generale; ma qnando un fatto si è già spiegato, è perfettamente  inutile di cercarne un'altra  spiegazione. Questo ragionamento sarebbe valevole, se Tuna o l'altra delle due spiegazioni – GRICE METHOD PHYSIOLOGICAL PHYSIS -- potesse sembrare  soddisfacente, anche ad un metafisico; ma esse non lo possono né l'una né l'altra. Limitandoci a Platone, è facile di mostrare che la sua dottrina dell'anima del mondo anche senza tener conto delle difficoltà inerenti a quest'ipotesi non può dare che una soddisfazione incompleta a questo bisogno di conoscere le cause per cui tali ipotesi sono immaginate. Prima di tutto un'ipotesi sulle  cause, per essere una spiegazione completamente soddisfacente dei fenomeni, dovrebbe essere tale da poterne dedurre la natura degli effetti, cioè da poter concludere, come conseguenza dell'ipotesi, che i fenomeni devono essere cosi – THE BRIDGE COLLAPSED --  come sono in realtà, e non altrimenti. Ma r anima del mondo  può spiegare solamente perchè esiste il movimento e  perchè vi ha un ordine nella natura ciò che il metafisico GRICE chiama METIER o  finalità: essa non spiega perchè hanno luogo precisameute questi movimentì e perche esiste precisamente quest'ordine, che noi osserviamo nel mondo reale noi non sappiamo, p. e-, perchè l'anima del mondo, da cui, secondo Platone, sono prodotti gli animali, le piante e tutti  i corpi che vediamo sulla  terrfl. produce queste specie piuttosto che altre, pure dotate di METIER o tìnalità, ma più o meno differenti TIGERS TIGERISE. Di più, nei limiti stessi dentro cui si restringe questa spiegazione, per il fatto stesso che è desunta dall'ipotesi di agenti trascendenti, a cui non si può attribuire che un modo d'azione in gran parte diverso da quello degl’agenti dell'esperienza, essa non può assimilare completamente il modo di produzione dei fenomeni alle causazioDi che ci sono le più familiari, ciò \he sarebbe necessario perchè la spiegazione fosse completamente soddisfacente p. e. Platone attribuisce airanima del  mondo la percezione degl’oggetti (2>, ma senza i nostri organi dei sensi: è quanto basta per rendere il suo modo d'azione incomprensibile. Un'altra oscurità viene alla spiegazione animista dalla sostantitìcazione dell'anima. La conseguenza dì questa è, come abbiamo visto, che l'anima muove il corpo per il proprio movimento, ciò che, importando che il movimento che essa produce  immediatamente non è quello voluto, ma un altro non voluto ne saputo, allontana l'ipotesi animista dal tipo su cui è modellata, cioè la nostra aziono volontaria secondo il modo più familiare di rappresentarcela, e ne diminuisce quindi il valore esplicativo. Dall'altra parte, il realismo dialettico piuttosto che una spiegazione è, come abbiamo detto, un sembiante di spiegazione: quand'  ^che  il  siti) Sof. Tim. Leggi, ecc. Stema fosse vero, es^o no:i  darebbe una soddisfazione reale al nostro bisogno di conoscere le cause efficienti, ma a queste cause che aspiriamo a cuioecere, sostituirebbe un succedaneo. L'insufficienza delle due spiegazioni, «{uella del realismo dialettico e quella della filosofia istintiva, ci dà ragione del fatto che non vi ha un sistema, in cui la prima di  queste spiegazioni non sia accompagnata dall'altra, Tra le varie forne della filosofia istintiva, quella che era più in armonia col sistema dell 1 Idee pUtonich^, era la teologica. Il sustrato della filosofia di Platone è una concezione del mondo che abbiamo chiamato organicista, cioè domiuata dai concetti desunti dall'osservazione degli esseri viventi, ein cui l’essere vivente stesso è elevato  a tipo di tutti glesseri in generale. L'infiiunza di questa eonce/ione organichta del mondo sul sistema delle Idee si osserva nell'ipotesi delle Idee stesse e sovratutto nei due tratti caratteristici della dialettica platonica, cioè la dieresi, e TI. dea del Bene elevata a forma universale e principio primo di tutti gli esseri. Questa stessa concezione conduce per una doppia via alla dottrina dell'anima  cosmica: cioè assimilando il mondo e i corpi celesti agli esseri viventi, e suggerendo una spiegazione teleologica dell'universo, che, se consiste in concetti chiari e non in una vaga e incosciente personlfieaz'one di ciò che si sa essere impersonale, non può non essere al tempo stesso. la stos-ja  nota Sappi. caria  2:?T. -J.ST . /\ -ar Jf-» m una spiegazione teologica. Naturalmente questa  spiegazione teleologica delle cose per un agente personale è suggerita più immediatamente dal posto e la funzione deir Idea del Bene nella dialettica se non è essa piuttosto che li ha suggeriti. Cosi le due parti della metafìsica di Platone, cioè la teoria delle Idee e quella dell'anima, lungi di essere in contraddizione, si completano e si chiamano Tuna con l'altra. Noi abbiamo visto pure la  dipendenza reciproca tra le dottrine di Platone suir anima cosmica e quelle sull'anima individuale, Quantunque Tanima sia un essere meta-emplrico -- GRICE NO ASCRIPTION WITHOUT MANIFESTATION -- e la causa prima deh' universo fenomenale, è evidente che nella grande divisione degli esseri di cui è quistione nella filosofia platonica, essa deve classarsi insieme coi fenomeni. Al punto di vista del sistema delle Idee, la distinzione più profonda è quella tra l'astratto e il concreto, tra Tuniversale e l'Individuale. Cosi vi hanno da una parte le entità astratte e universali che nella prima forma della filosofia platonica sono considerate tutte come Idee, e nella seconda forma si distinguono in Idee ed entità matematiche -e da un'altra parte le cose concrete e  individuali. Le prime sono riguardate come la vera realtà, le seconde come fenomeni – contrary to Hamlet: figments of your imagination. Non vi ha fra queste due classi alcun termine medio, e V anima, non esseado un'entità astratta ma una sostanzi concreta, deve far parte evidentemente della seconda. Ne segue che il rapporto dell'anima con le Idee non può essere Sappi. sopra, carta  diverso da quello che le altre cose fenomenali hanno con esse. Questo è, come sappiamo, che in tutte le cose appartenenti a una stessa classe è presente un'Idea unica/ che non è che la sostantifìcazione dell'attributo o somma d'attributi comune a tutta la classe. Per conseguenza in tutte le sostanze che si chiamano anima è presente una Idea unica, V Idea dell'anima, come in tutti gli esseri che si chiamano uomo, animale, cavallo GRICE HORSENESS circle albero, ecc. è presente l'Idea unica dell'uomo HORSE CIRCLENESS,  dell'animale, dell'albero, ecc. Naturalmente l'Idea dell'anima, come tutte le altre ANIMITA SOULNESS,  ha i suo posto determinato nella gerarchia del mondo idealei vale a dire essa è contenuta in un'Idea più generale, questa in un'altra ancora  più generale, e cosi di seguito, sicché si giunga al contenente universale, che è l'Idea del Bene – a GOOD SOULD ASQUITH WAS: l'Idea dell'anima dunque, e quindi 1'anima stessa, parteciperà a tutte queste Idee di più in più generali a cui è subordinata. Se la classe generale anima cuotiene altre classi inferiori, che bisogna distinguere per difierenze essenziali, l'Idea generale dell'anima  conterrà altre Idee meno generali, corrispondenti ciascun a a ciascuna di queste classi inferiori. Ma tutte le anime individuali, compresa l'anima cosmica, che è anch'essa un essere individuale e concreto, e non un'entità astratta e generale, non potranno partecipare che all'Idea che è l'obbiettivazlone del loro concetto comune, e alle Idee più generali che sono 1' obbiettivazione dei concetti  più estesi in cui esso è contenuto: V anima avendo un'essenza particolare e distinta da tutte le altre cose, a quest'essenza deve corrispondere un'Idea pariicolare e distinta da tutte le altre Idee. Vi hanno tuttavia degl'interpreti che pretendono che l'anima non partecipa a un'Idea unica, cioè l'Idea speciale dell'anima, ma a tutto il mondo ideale. Questa interpretazione misconosce il concetto  tbndamentale della dottrina di Platone sul!'anima, cioè che questa è una srstanza distinta, e non, p. e., la forma del corpo, come per Aristotile – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY. E:«sa potrebbe avere un senso, se ranima cosmica fosse per Platone la forma deiruoiverso: ma con una tale ipotesi ^li si presterebbe gratuitamente un concetto, che non troviamo rò  in lui nò in alcun altro d<i  filosofi antichi, compresi i panteisti, che hanno ammesso un'anima del mondo, perche lutti presuppongono Panimismo, cioè la teoria della sostanza anima, quantunque questa secondo alcuni sa convertibile colle sostanze materiali, secondo altri, come Platone, inconvertibile. I/interpretazione in verità può anche avere un altro senso, indipendente da (|uest'ipotesi;  sarebbe la dottrina dcir identità dell'essere e del pensiero: ma anche questa, come vedremo nel  n.  Ili, non può prestarsi a Platone che gratuitamente. Il concetto che l'anima partecipa a tutto il mondo ideale si fonda su un'interpretazione arbitraria della composizione dell'anima cosmica nel Timeo, che abbiamo discusso nel Supplcm. Ivi abbiamo visto che la composizione dell'anima non difìeri^ce da quoli.i delle altre erse nel porlo lo pita^oreggiante della filosofia platonica. Oltre che dt-lla sua Idea speciale e della materia, essasi compone anche dri due clementi, l'Uno e la Dualtà indefinita, eh" nel Tinieo sono chiamati lo Stesso e il Diverso – GRICE WIGGINS DIAPHORON. Ma anche questa seconda composizione non è particolare all'anima; perchè tutte le Idee e  tuite le cose, nel periodo pitagoreggiaute, sono composti dei due elementi: ciò  i». ri. Sappi. che è particolare all'anima non è che la sua applicazione gnoseologica, cioè la spiegazione della possibilità della conoscenza per l'identità degli elementi del soggetto conoscente e degli oggetti conoscibili. Secondo alcuni interpreti V anima sarebbe per Platone un'entità  intermediaria e, siccome le entità intermediarie sono le entità matematiche, anche un'entità matematica. Questo concetto, che rimonta ai neoplatonici.è fondato sull'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche, quantunque, come suole avvenire quando si tratta delle opinioni stabilite, esso si dia spesso come una prova di  quest'interpretazione stessa di cui è una conspguenza. Nell'interpretazione  trascendentalista, come abbiamo osservato, la causalità universale delle Idee verso i fenomeni è incompatibile con quella dell'anima: per risolvere questa contraddizione si suppone che le Idee non siano che le cause remote dei fenomeni, ed agiscano sul mondo sensibile per l'intermediario dell'anima, che sarebbe la causa prossima. Questa fanzione dell'anima di intermediaria fra le Idee e le cose sembra più necessaria nella forma dell'interpretazione trascendentalista preferita dai critici moderni, secondo cui le Idee sarebbero, non dei pensieri dell'intelligenza creatrice, ma  delle sostanze obbiettive separate dalle cose: in questo caso infatti ogni efficienza diretta delle Idee diviene incomprensibile, e si crede perciò indispensabile Pintervento di un principio attivo come l'anima, per mezzo di cui possa esercitarsi la loro influenza sui fenomeni. Ora, se l'anima è una sostanza intermediaria fra le Idee e le cose, essa deve essere anche un'entità matematica, perchè nel sistema platonico, come sappiamo da Aristotile, il posto d'intei mediar! fra le Idee e le cose non è assegnato che alle entità matematiche. Per noire poi dei concetti cosi disparati quali sono quelli dell'anima e delle entità matemati'^he, si ricorre come termine medio a quest'altro concetto che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile perchè, Platone riguardando il mondo come un essere vivente, si crede di poter identificare le leggi dei fenomeni alle funzioni di un essere vivente,  e queste alTaniroa che lo vivifica. Che le entità matematiche, infine, siano le Idee nel loro rapporto colla materia o le leggi del mondo sensibile, sarebbe provato dal  FiZeò^, il TzépoLz di cui si tratta in questo dialogo, equivalendo,  secondo questi interpreti, ai Numeri matematici dell'esposizione aristotelica. Cosi questa costruzione è fondata sui presupposti seguenti: Che le Idee siano fuori delle cose. Noi l'abbiamo confutato nel Suppl. Che le entità matematiche rappresentano tutti gli attributi delle cose, e sono intermediarie in quanto tramezzano tra le Idee e le cose considerate nell’insieme dei loro attributi. Noi  abbiamo visto invece nel Supplem. che esse non rappresentano che i soli attributi aritmetici e geometrici delle cose, e che non tramezzano che tra i numeri ideali, in quanto costituiscono le Idee cioè i concetti obbiettivati più generali dì questi attributi, e questi attributi nelle cose stesse, cioè individualizzati. Questo presupposto è il punto di partenza per identificare l'anima, come principio  mediatore, alle entità matematiche, ed è contenuto implicitamonte nella sopposiz'one che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia o le leggi del mondo sensibile. Che il  TzépoL(;  del Filébo equivalga ai Numeri matematici, ciò che proverebbe vista l'evidente immanenza del épas che questi numeri sono nelle cose stesse altro presupposto implicato nella  supposizione che le entità matematiche sono le Idee nel loro rapporto con la materia 0 le leggi del mondo sensibile. Noi abbiamo visto che questa equivalenza tra il népa^  del /^ilebo e i Numeri matematici è inammissibile, e che la supposizione che i Numeri matematici e in generale le Entità matematiche sono nelle cose, è in contraddizione col 1^ presupposto che è il fondamento  ultimo di tutta la costruzione, cioè che le Idee sono fuori delle cose. Che le leggi del mondo sensibile possano identificarsi con Tanima cosmica. Questa identificazione è una assurdità, perchè l'anima per Platone è una sostanza distinta: essa sarebbe tutto al più possibile se 1' anima fosse per lui, come p. e. per Aristotile, una semplice astrazione, designante l'insieme delle funzioni della  vita. Inoltre essa implica l'identità del népa^ del Filebo e dell'anima, mentre Platone ne fa due generi assolutamente distinti. Evidentemenle gP interpreti trascendentalisti delle Idee platoniche devono avere una ben misera idea di Platone come pensatore, per potergli attribuire il cumulo di non sensi espresso in questa proposizione che l'anima è identica agli oggetti matematici e ai rapporti  numerici e metrici del Tispag del Filebo. L'anima per Platone è, lo sappiamo, una sostanza particolare, invisibile almeno per gli uomini ma estesa, in un movimento continuo, muovente la materia per la comunicazione del proprio movimento, e avente col corpo ch'essa anima determinati rapporti di posizione reciproca. Il népa; e le entità matematiche non sono che certi attribuii delle cose, considerati come esistenti per gè stessi, come tutte le altre entità della metafisica platonica. L'anima del mondo dunque e il mondo stesso sono due sostanze distiiite ed esteriori l'una all'altra; il Tiépag, al contrario, come sono costretti ad ammetterlo gli steFsi interpreti trascendentalisti, e quindi anche le entità matematiche, poiché gli equivalgono, esistono negli oggetti stessi che compongono Jl mondo, non sono un'altra cosa che viene ad aggiungersi a questi cggelt», ma un loro elemento concettuale, distinto realmente dagli altri, ma come in un tutto una parte si distingue dalle altre. Il Tiépag e le entità matematiche sono degli astratti, l'anima del mondo è una realtà concreta; quelli sono degli universali, questa è un essere individuale; i primi sono esenti dal cangiamento, come tutte le astrazioni realizzate di Platone e di qualsiasi altro realista dialettico, la seconda è il tipo più completo del divenire eraclitico. L'identificazione di concetti cosi disparati farebbe cosi poco vero. Noi abbiamo visto che le tre parti deU' anima  umana sono alloggiate nelle tre cavità del corpo. Sull'anima del sole Platone fra tre ipotesi Leggi: o sta dentro il sole come la nostra anima dentro il nostro corpo, o lo spinge dal di fuori «tando in un altro corpo, ovvero lo conduce essendo essa stessa senza corpo ciò che, secondo i prinoipii di Platone, implica pure la supposizione che lo spinge dal di fuori. Simile non solo nel divino Platone, come lo chiamano, certamente per un omaggio puramente convenzionale, gl'interpreti trascendentalista', ma in qualsiasi filosofo a cui possa farsi la modesta lode che sa quello che dice che quand'anche essa fosse l'interpretazione più naturale dei testi, noi dovremmo rigettarla, e preferirne qualunque altra possibile, purché avesse un senso qualsiasi, anche il meno ovvio. Ma questa identificazione, lungi di essere l'interpretazione più naturale dei testi, è interamente gratuita ed arbitraria. L'identità dell'anima col Tiépa; non potrebbe essere provata che dal Filebo perchè il concetto del Jiépag è particolare al solo Filébo\ ma noi abbiamo visto che in questo dialogo gli esseri sono divisi in quattro generi, e che del Tcépa; e dell'anima si fanno due generi distinti. Né Aristotile né alcun altro autore, che possa considerarsi come una fonte storica par la filosofia platonica, parla dell'identità  dell'anima con gli oggetti matematici 0 di alcun altro concetto simile. Le proposizioni in cui l'anima o la sua attività é mesm in rapporto coi numeri, non possono pro\rare l'identità, o anche un legame speciale, tra essa e i numeri matematici, perché non sono evidentemente che delle applicazioni della dottrina generale del picagorismo e del platonismo pitagoreggiante che ress3nza di  tutte le cose consiste nei numeri. Xenocrate definisce l'anima: un nume roche muove se stesso; ma qu^jsta definizione non è che la fusione di due concetti che noi conosciamo suU' essenza dell'anima, l'uno che essa é un numero, come quella di tutte le altre cose nel periodo pitagoregglante, e 1'altro che è ciò che muove S3  stesio. Vi ha d'altron le un'altra ra Sappi carte Sappi  >^ hi gione  per cui il numero, con cui Xeocrate identifica Tanima, non potrebbe essere il numero matematico, quale entità diStinta dal numero ideale e intermediaria: è che egli non distingue più il numero ideale e il matematico, e non ammette più, quindi, le entità matematiche come intermediarie. Platone, come ci riferisce Aristotile fin De an. [CITATO DA GRICE}, ha ammesso che r intelligenza è il numero uno, la scienza il numero due, r opinione il numero della superficie, e il senso il numero del solido: ma si vede da questo luogo stesso che questi numeri non sono che dei numeri ideali, perchè i numeri della soperficie e del solido rappresentano le Idee a cui sono subordinati tutte le superficie e tutti i solidi matematici, e Asistotile afferma inoltre espliciUmente che i numeri di cui si tratta sono la stessa cosa che le Idee. La costruzione dell'anima nel Timeo su cui si fonda sovratutto V interpretazione che discutiamo, non è più probante, in sostanza, delle proposizioni precedenti. Le prove che vi si vedono sono: L'anima, si dice, è composta del mondo ideale e della materia: se ne conclude che essa deve equivalere agli oggetti matematici, poiché questi sono  Idee rannodate con la materia, cioè come leggi del mondo sensibile Noi abbiamo visto che non vi ha alcuna ragione per ammettere che Tanima è composta del mondo ideale, poiché, dovendo essa avere un'Idea propria, il più naturale è d'intendere per Vessenza indivisibile^ non tutte le Idee, ma l'Idea dell'anima, e in quanto allo Stesso^ questo non può essere che l'uno dei due elementi. Sappi Sappi Sappi Sappi. Ma quand'anche V anima fosse composta di tutte le Idee, non se ne potrebbe concludere la sua equivalenza con le entità matematiche. Questa conclusione suppone che queste entità partecipano a tutte le Idee, tramezzando tra esse eie cose considerate nell'insieme dei loro attributi. Noi sappiamo invece che le entità matematiche, non avendo per contenuto che  gli attributi matematici delle cose, partecipano ai numeri ideali solo in quanto essi rappresentano le Idee di questi attributi, e non tramezzano che tra queste Idee e questi attributi nelle cose, cioè individualizzati. L'anima ha una natura media tra V essenza indivisibile, cioè le Idee, e l'essenza divisibile, cioè la materia: ciò confermerebbe che essa equivale alle entità matematiche, poiché  le entità intermediarie non sono che le matematiche Questa prova è fondata, come la precedente, sui duo presupposti erronei che 1'anima è composta di tutte le Idee, e che le entità matematiche tramezzano tra la totalità delle Idee e le cose considerate nella totalità dei loro attributi. Inoltre essa conclude affrettatamente dalla somiglianza dei termini alla identità dei concetti, supponendo come una cosa che va da sé che l'anima deve essere media nello stesso senso in cui lo sono le entità intermediarie ch3 conosciamo da Aristotile, e trascurando come di nessun rilievo la differenza che queste sono medie tra le Idee e le cose sensibili, mentre l'anima non sarebbe media che tra le Idee e la materia cioè uno dei principi! da cui risultano le cose sensibili. Qaesta differenza è invece d'un'impor-]i Sappi Sappi, fcanza capitale, perchè le entità intermediarie che ci fa conoscere Aristotile sono dette tali, in quanto sono posteriori alle'Idee> anteriori alle cose sensibili, o a un punto di vista^l^seniplicemente logico in quanto hanno un grado di generalità medio fra le Idee e le cose sensibili, essendo comprese sotto le une come più particolari, e comprendendo le altre  come più generali. Ma è evidente che Platone non può voler dire che l'anima è posteriore alle Idee e anteriore alla materia, o che è compresa sotto le Idee, essendone più particolare, e comprende la materia, essendone più generale. In qual senso Tanima sia media tra il principio ideale e la materia ci è indicato dal Timeo smesso, dove ciò che nasce il fenomeno è chiamato la natura media tra e ò in cui nasce la materia e ciò a somiglianza di cui nasce ridea. L'anima, come le altre cose individuali, ha una natura media tra Tldea e la materia, perchè tutte le cose individuali sono composte dell'Idea e della materia, e un composto deve avere delle qualità medie tra quelle degli elementi che lo compongono. L'anima cosmica deve equivalere agli oggetti matematici, perchè essa comprende in sé i rapporti armonici «matematici del sistema astronomico infatti essa è divisa in parti proporzionali ai numeri del diagramma musicale, e poi in cerchi rappresentanti le rivoluzioni degli astri, e di cui quelli che rappresentano le orbite dei pianeti sono proporzionali ai numeri fondamentali del diagramma stesso Tim. Ma che l'anima comprenda in sé dei rapporti armonici e matematici non è una ragione per identifìearla colle entità matemaé tlche. Sì avrebbe lo stesso dritto d’identificare con esse gl’elementi materiali, perchè formano una proporzione geometrica e sono distinti  per mezzo di figure e di numeri. Non vi ha, nell'uno e nelì'altro caso, che un'applicazione dei principii generali del pitagorismo. Sj dirà che ciò che prova che V anima cosmica  equivale alle entità matematiche, non è solamente che essa comprendejn se dei rapporti armonici e matematici, ma che questi sono quelli del sistema astronomico. Ma la corrispondenza di questi rapporti nell'anima e neiruniverso, quand'anche fosse compita, non potrebbe significare la loro identità, nel senso stretto d^lla parola; e d'altronde questa corrispondenza si spiega sufficientemente al punto di vista dell'animismo, l'anima di un essere, in tutte le forme di questa dottrina, essendo, con più o meno esattezza, un duplicato dell'essere stesso. L'interpretazione teistica del sislema delle Idee Secondo alcuni Dio equivale per Platone al Bene, 0 all'insieme di tutte le Idee, o all'uno e all'altro, perchè il Bene comprenderebbe in sé Tinsieme di tutte le Idee. Queste opinioni si fondano sull'interpretazione delle Idee platoniche-anche oggi la più diffusa tra le persone colte, quantunque abbandonata dalla più parte dei critici- che vede in esse i pensieri eterni della divinità creatrice, di Sappi carta Tim. Tim cui Tuoi verso sarebbe la realizzazione. Questa interpretazione della doftrina delle Idee è stata da noi implicitamente confutati nel Supplemento, dove abbiamo stabilito invece che le Id^  non sono che gli attributi generali delle cose, considerati come delle realtà sussistenti per se stesse, e di cui ciascuno, uno in se stesso, esiste simultaneamente, senza moltiplicarsi e senza dividersi, in tutti gli oggetti a cui viene attribuito. Tuttavia, siccome nel Supplemento stesso, in cui abbiamo esaminato i motivi dell'interpretazione trascendentalista, abbiamo tenuto conto sovratutto di quelli su cui è fondata la forma di quest'interpretazione che considera le Idee come delle forme puramente obbiettive, giove forse di esaminare a parte quelli su cui si basa Taltra forma, cioè la teistica, ciò che potrà servire di complemento alla dimostrazione della nostra interpretazione. Dopo ciò che abbiamo detto nel Supplemento si spiega facilmente parche  airinterpretazione teistica  sia stata dai critici moderni preferita T altra forma deirinterpretazione trascendentalista. Questa comprende almeno il tratto più caratteristico e più  evidente della dottrina delle Idee, cioè che e'^sa sono delle entità astratte, gli attributi generali delle cose considerati come sostanze, quantunque fraintenda la dottrina in un altro punto importante, cioè ammettendo che questi attributi generali delle cose non sono quelli delle cose stesse, ma un loro duplicato. Ma l'Interpretazione teistica la fraintende anche nel primo punto, e per conseguenza non vi ha un luogo di Platone con cui non sia nella contraddizione più aperta. Una delle determinazioni più importanti delle Idee, oltre quelle che dimostrano immediatamente che sono gli attributi delle cose  Hosfcautificati, è che vengono riguardate come il solo essere varo, e le cose individuali come un semplice fenomeno, Anch’essa è più manifestamente incompatibile con Tinterpretazione teistica che con l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista: alla difficoltà che ha in comune con la seconda, cioè di ammettere un'altra realtà distinta e separata dall'essere véro^ la prima ne  aggiunge un'altra più evidente, cioè che le Idee, che non sarebbero che dei possibili concepiti dall'intelligenza creatrice, verrebbero riguardate come più reali delle cose, che ne sarebbero la realizzazione. SI aggiunga che T interpretazione teistica ha contro di sé, non solo le prove dell'immanenza delle Idee, ma anche le più importanti delle prove contro di questa, quali sono la sostanzialità  delle Idee che, come abbiamo osservato, è il motivo principale dell' Interpretaztone trascendentalista, la testimonianza d'Aristotile, e i miti del Timeo e del Fedro in cui le Idee sono rappresentate come degli oggetti separati dal mondo ma distinti pure dal pensiero che li contempla. Lo stesso vantaggio dell'interpretazione teistica, di dare all'ipotesi delle Idee uno scopo, che le manca  assolutamente nell'interpretazione più ricevuta, costituisce, in ultima analisi, un altro argomento contro di essa, perchè, se le Idee fossero I pensieri dell'intelligenza creatrice, sarebbero le cause efficienti delle cose, nel significato proprio e naturale della causa efficiente il sistema delle Idee, secondo la interpretazione teistica, non essendo che un caso della filosofia istintiva del nostro   spirito. Ora ciò è escluso dalla testimonianza d'Aristotile, che nega alle Idee ogni causalità nel senso proprio, e afferma che Platone non ha ricercato che la causa formale e la causa  mate Sappi carta riale O- Arrstotile, nella sua esposizione della lllosofìa platonica, non fa parola deiranima del mondo, e tiene conto unicamente del sistema delle Idee. La testimonianza d'Aristotile è  confermata, in sostanza, d’un esame attento della dialettica platonica, che ci mostra che le Idee sono causp, ma in un senso analogico e molto lontano dalla nozione spontanea che ci formiamo della causalità; e d'altronde, in questo senso stesso, esse sono cause le une delle altre, ma non dei fenomeni. Alle prove contro l'interpretazione teistica fondate sulla dottrina stessa delle Idee, «e  ne aggiungono altre fondate su altri concetti della filosofia platonica, cioè che Piatone non ammette altra divinità che l'anima cosmica, che l'intelligenza secondo lui non si trova altrove che nell'anima, che egli non conosce altra causazione, nel senso proprio, che quella che consiste in una successione, ecc. Le due forme dell'interpretazione trascendentalista delle Idee platoniche ci danno  gli esempi più colpenti delle due maniere più abituali di trattare la storia della filosofia: l'una che pretende fondarsi su un esame scrupoloso dei testi, ma per difetto di sìntesi e di un concetto esatto dei motivi e della genesi della speCQlazione metafisica, non riesce a dare ai sistemi un significato intelligibile; Taltra che pretende costruire i sistemi, ed è interamente arbitraria.  Naturalmente   T esempio della seconda maniera è l'interpretazione teistica. L'oggetto di questa seconda parte di questo Met, E plemento non è un eFame completo dell'interpretazione teistica. Esso importerebbe delle ripetizioni inutili, perchè bisognerebbe ritornare sulle prove dell'immanenza delle Idee che abbiamo date nel Supplemento. Qui ci limiteremo dunque a discutere le prove su cui e fondata quest'interpretazione. Siccome l'immanenza delle Idee ci sembra sufficientemente stabilita, se queste prove fossero coacludenti, dovremmo confessare che vi ha in Platone una contraddizione insolubile. Noi mostreremo che questa contraddizione non esiste, e che le proposizioni di Platone su cui si basa l'interpretazione teistica, si spiegano anche, e d'una maniera più sodlisfacpnte, nella nostra interpretazione. I motivi precipui, se non unici, dell'interpretazione teistica possono ridursi ai seguenti: Il significato che U parola idea ha nelle lingue moderne. Noi abbiamo osservat'^,  dopo tanti altri, che NELLA LINGUA GRECA lÒi%  non ha questo significato. Se si riflette che gl’errori del volgare influiscono spesso anche suUe memi dei pensatori, non si trova strano che    questo equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] sul significato della parola idea figura anch'esso tra i motivi dell'interpretazione teistica. E hso, a dir vero, non ha potuto contribuire che alla sua diffusione, ma non alla sua ergine, essendo anzi quest'interpretazione che ha determinato IL PASSAGGIO DAL SIGNIFICATO antico del termine al suo significato moderno – GRICE: INTROJECT OURSELVES IN PLATHEGEL’S SHOES -- Certamente l'interprete teistico non ignora che idea non significa pensiero – cf. Grice: way of things, way of ideas, way of words, what Speranza calls Lockeian reminiscences ----, ma quando egli dice che le Idee platoniche sono i pensieri dt>ll i divinità, una gran parte del pubblico a cui si rivolge trova naturalissimo che un'idea deve esci Sappi. caria sere il  peDsiero di qualcuno, e si sa che, nelle quistioni filosofiche, il successo delle opinioni non dipende solamente dal suffragio dei dotti. II teismo di Platone e la sua dottrJna  cLe la divinità è la causa prima di tutti i fenomeni. Siccome per Platone le cause delle cose sono le Idee e la causa di tutto é l'Idea del Bene, se ne conclude che Dio deve essere identico a tutte le Idee o alPIdea del   Bene Noi abbiamo osservato che vi hanno nella filosofia platonica DUE SENSI – GRICE MODIFIED OCCAM’S RAZOR -- della parola causa, corrispondenti a due spiegazioni del mondo, simultanee ma assolutamente distinte. In un senso, la causa VUOL DIRE la causa efficiente, nel significato proprio del termine, quello che esso ha nella filosofia istintiva dello spirto umano. É in  questo senso che la causa prima è la divinità. Il secondo senso della parola causa è quello che essa ha nel realismo  dialettico, e non è che T  obbiettivazione del rapporto logico fra i concetti realizzati.  É in questo senso che la causa di tutto è Pldea del Bene. Le Idee, a parlar propriamente, non sono cause delle cose in questo secondo senso, ma nemmeno nel primo. La causa, nel primo  senso, è esteriore airefletto, mentre le Ide«i sono nelle cose, ne sono l’elemento costante e veramente reale, da cui dipende il loro essere e la loro essenza. Il senso in cui le Idee sono cause delle cose, se non è precisamente identico al secondo senso, cioè a qu«^llo che è Tobbiettivazione del rapporto tra il principio e la conseguenza, può però ricondursi con esso a un concetto comune,  perchè in entrambi i casi è il generale che viene riguajdato come causa, e i particolari subordinati come effetti. L'interprete teistico confonde questi sensi evidentemente distinti della causa in Platone, perchè non comprende né l'immanenza delle  Idee ne il vero significato della  dialettica. Il nome di dio che Platone dà al Bene e ad altre Idee, e quello di divino che dà a tutte le Idee in  generale. Il Bene è chiamato dio nella Repubblica, dove dice che Dio ha prodotto Tldea del letto e ogni altra Idea. Ma qualunque sia la maniera d'interpretare le Idee platoniche, non può vedersi in questa deificazione del Bene che una semplice metafora, poiché il Bene è evidentemente un'Idea come tutte le altre, e non differisce dalle altre che perchè occupa il primo posto nella gerarchia  del mondo ideale – GRICE VALUE-ORIENTED CABBAGE =df good cabbage --, cioè perché è la più universale dì tutte, e per conseguenza, secondo i principii della dialettica platonica, quella da cui tutte le altre si deducono – GRICE CONVERSATIONAL MOVE = df GOOD CONVERSATIONAL MOVE, not mendacious, a contribution at all in the imperative, Make your contribution such as is a good one.  L'Idea del Bene, in qualsiasi interpretazione delle Idee, non può essere che Tastrazione bene cioè l'attributo comune a tutte le cose che si dìcono buone, esistente sotto una forma o sotto un'altra: se si ammette che queste astrazioni che Platone chiama Idee non hanno che un'esistenza mentale, e sono i pensieri dell'intelligenza divina, l'Idea del Bene  sarà un pensiero dell'intelligenza divina, ma non l'intelligenza divina stessa che è il substratum o il complesso di questi pensieri. Si dirà che l'Idea del Bene comprende in sé l'insieme di tutte le Idee, e che è perciò che Platone può identificarla con l'intelligenza divina. Ma l'Idea del Bene non può contenere le altre Idee che come un concetto generale contiene i concetti più particolari  subordinati, cioè in estensione, e non in comprensione, ciò che sarebbe necessario perchè potesse riguardarsi come equivalente a tutto il mondo ideale. Nel secondo caso Sappi il cooteouto dell'Idea del Bene sarebbe tuti'altro che quello del concetto astratto di 6ew^; mentre è evidente che le Idee platoniche, che esse esistano nelle cose o fuori delle cose, che siano delle realtà obbiettive  o dei semplici pensieri, non potrebbero avere, in ogni caso, altro contenuto che quello dei concetti astratti che loro corrispondono. Delle Idee altre che il  B.3ne sono chiamate dio nel Timeo die e nel Parmenide. Nel primo di questi luoghi  II mondo è detto dio sensibile immagine del dio intelligibile, e l'interprete teistico ne conclude che, questo dio intelligibile essendo il modello del  mondo. Dìo è per Platone la stessa cosa che l'insieme delle Idee. Ma l'altro luogo del Timeo stesso, in cui il mondo è chiamato simulacro degli dei eterni, mostra che questa conclusione è affrettata, e che Platone chiama dio anche delle Idee particolari, la cui personificazione nell'interpretazione, teistica è altrettanto impossibile che nella nostra, perchè non sarebbero secondo essa che dei  pensieri particolari della divinità. Un'osservazione analoga vale pel luogo del Parmenide. Ivi è chiamato dio il soggetto in cui risiedono la scienza in sé e la padronanza in sè, donde potrebbe concludersi che le Idee secondo Platone risiedono in Dio. Ma in seguito, invece di un sogifetto unico, si parla di più soggetti, cioè di dei al plurale, co che esclude che la scienza e la padronanza in  sé risiedano nel Dio di cui è quistiooe n^W interpretazione teistica, che è naturalmente uno solo. lu quanto all'epiteto divino dato alle Idee in genera'o, esso non é per Platone e quest'uso del tcrmme non gli è particolare che questo Suppl., un sinonimo di eccellente – you’r so divine -- , E ciò che si vede chiaramente nel Fedone a l'armonia è divina, la lira e le corde sono terrestri e affini  al mortale,  l' anima è DIVINISSIMA nell'ipotesi che sia l'armonia del corpo, è più divina del corpo nella stessa ipotesi, Fedro e il divino è il bello, il saggio, il buono e tutto ciò che è tale, Bep. sono chiamati divini tanto le Idee quanto il filosofo che le contempla, e ia tanti altri luoghi, in cui nessuno potrebbe essere tentato d'intendere per divino un attributo o un'appartenenza della  divinità. Il Demiurgo del Timeo. Il racconto del TimeOj se si prende alla  lettera, è una prova dell'altra forma dell'interpretazione  trascendentalista, perchè ci si parla di un demiurgo che ha costruito il mondo contemplando le Idee come modelli. Ma l'interprete teistico osserva con ragione che questa non è filosofia, ma mitologia: egli ne conclude che la distinzione tra il demiurgo che contempla e il modello che è contemplato è una semplice immagine che non deve prendersi alla lettera, e che in realtà il demiurgo contempla il modello in se  stesso, in altri termini che le Idee sono i pensieri del demiurgo, cioè dell'intelligenza creatrice. Ma se, non contenti del significato apparente del racconto del Timeo, si crede necessario di cercargliene uno riposto, non bisogna preferire quello che sembra all'interprete stesso più soddisfacente come dottrina filosofica, ma quello che è indicato dalle proposizioni del Timeo stesso, dall'insieme delle dottrine di Platone e dalla testimonianza dei suoi discepoli immediati e dei loro contemporanei. Ora noi abbiamo visto che queste indicazioni concordano nel mostrarci che il Demiurgo non è un essere realmente personale, ma la personificazione di un'entità astratta 1 cioè un simbolo dell'Idea del Bene, e che la cosmogonia del Timeo è un'allegoria della derivazione delle cose dai due primi principii. L'opinione deirinterprete teistico è senza dubbio più filosofica e più intelHgibMe che quelle dei sostenitori dell'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, che prendono il Demiurgo alla lettera, considerandolo sia come un elemento filosofico dei sistema platonico sia come un semplice elemento rappresentativo cioè privo, per Fautore stesso, che lo ammette, di  qualsiasi valore filosofico - situazione psicologica che non è certamente facile a concepire: ma questo vantaggio relativo non può bastare a provarla, quantunque basti per vedere nella cosmogonia del Timeo uno dei motivi precipui dall'interpretazione teistica. L'arduità del sistema delle Idee e la familiarità del concettualismo e della filosofia teologica. Ciò fa che, sfuggendo il significato  reale del primo, si cerca di dargliene uno riconducendolo ai secondi. Quantunque, un pensiero astratto e generale è altrettanto inconcepibile che un essere astratto e generale, vi ha però tra le due ipotesi questa  dififerenza, che la prima è ammessa da quasi tutti i filosofi e tutte le persone colte, ed è un prodotto spontaneo dei sofismi a priori del nostro spirito, mentre la seconda non ha  avuto, almeno nella filosofia moderna, che un numero molto esiguo di partigiani, ed èia meno naturale delle spiegazioni del mondo escogitate dai metafisici. All'epoca di Platone l'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] dell'interprete teistico di prendere un'entità astratta per un pensiero astratto non sarebbe stato cosi facile come ora, non solo perchè la teoria dei concetti verisimilmente non era ancora Sappi. stabilita, ma anche perchè Aristotile, a quanto sappiamo, è il primo che abbia ammesso la dottrina dell'immutabilità di Dio, e per conseguenza quella dell'eternità dei pensieri divini, che dà al Dio della filosofia teologica moderna tanto più se si riguarda come una pura intelligenza una certa aria di somiglianza col mondo ideale di Platone, specialmente interpretato alla maniera trascendentalista. L'altro elemento della dottrina delle Idee, cioè la dialettica, non è meno arduo che l'ipotesi delle Idee stesse. Quest'arduità della dialettica è dovuta, oltre che alla difformità del concetto di causalità su cui essa è fondata, dall'idea spontanea della causalità, alla maniera imperfetta in cui applica questo concetto. Aggiungiamo che nella supposizione della trascendenza delle Idee ammessa da quasi tutti gl'interpreti essa diviene necesssariamenle incomprensibile. Da queste difficoltà di comprendere la dialettica, senza di cui la dottrina delle Idee è una ipotesi senza motivo e senza scopo, nasce naturalmente il tentativo di trasformarla in una varietà della filosofia istintiva cioè fondata sul concetto spontaneo della causalità, come dalle inconcepibilità del realismo nasce quello di trasformarla in un sistema concettualista. Questi due tentativi riuniti costituiscono il motivo principale dell'interpretazione teistica. Ma per mostrare su quali deboli basi si fondi questa interpretazione, sarà meglio di esaminare le prove che ne dà uno dei suoi principali sostenitori, cioè Fouillée, nella Filosofia di Platone. Fouillée, a dir vero, non ammette che le Idee non siano altra cosa Sappi. carte rflS?. •nj "Tj r f 1' ì chA ì peDsitri deirintellfgeDza divina; egli conviene che ÌQ qaest'ipotesi non sarebbero che dei semplici possibili concepiti da Dio, e Platone non potrebbe chiamarle delle realtà: ovitog ovxa. Secondo lui le Idee sono primitivamente le perfezioni divine rimedio peggiore del male, perchè che cosa può significare che il circolo, il leone, il cavallo, p. e, o l'albero in se stessif cioè come semplici complessi degli attributi generali che costituiscono queste specie, sono delle perfezioni di Dio? Ma per conseguenza sono anche i pensieri divini, perchè Dio ha coscienza di se stesso e delle determinazioni che inviluppa il suo eesere. Ma questo concetto del Fcuillèe non può impedirci di dare la sua arg(mentazione come efemjio deirargomentazione dr gl'interpreti teistici in generale, perchè è evidente che egli si serve di tutti gli argomenti che crede i più propri a dimostrare Tinterpretazione teistica, sia che provino che le Idee tono le perfezioni divine, sia che provino che Fono i pensieri divini. L'argomentazione del Fouillèe può dividersi in due parti: gli argomenti della prima parte sono dei luoghi del Timeo, con cui egli cerca di provare che le Idee non sono separate dal Demiurgo, ma sono nel Demiurgo stesso, cioè in Dio; quelli della seconda parte sono dei luoghi raccolti dagli altri dialoghi. Noi esamineremo questij argomentì a uno per uno. II modello, dice Fouillèe, è ciò che vi ha di più perfetto, è uno ed è vivente, cioè è un animale intelligibile. Egli ne conclude che non vi ha alcuna differenza tra esso e Dio// modello è ciò che vi ha di più perfetto. Ma Platone definisce forse Dio, come Cartesio: Tessere perfettissimo? Noi abbiamo osservato che l'idea della filosofia teologica moderna che Dio è l'infinito o l'assoluto, cioè che possiede tutti gli attributi che giudichiamo dèlie péi^fezioni a un grado infinito o assoluto, è un coticetto chS non si trova in Platone quantunque le sue dottrine sitila divinità occupino un posto elevato nei gradi dello sviluppo di cui questo concetto è il termine ultimo uè in generale nella filosofia teologica antica. Nei luoghi del Timeo a cui allude Fouillèe per perfetto bisogna intendere completo. Platone dice che il mondo è statò fatto a somiglianza dell'Idea universale di animale, comprendente in sé tutte le Idee generiche e specifiche degli animali. Per conseguenza egli chiama il modello del mondo l'animale intelligibile perfetto o completo, perchè comprende tutti gli animali intelligibili cioè tutte 16 Idee degli animali Egli sembra chiamarlo pure Il più perfetto degli esseri intelligibili e non semplicemente deglf animali intelligibili: ciò è perchè l'Idea universale df animale con tutte le Ide3 generiche e specifiche degli animali contengono in sé, in qualche modo, tutto il mondo ideale senza di che Platone non potrebbe riguar latte come il modello del mondo. Questi concetti nou hanno niente di comune con l’essere perfettissima del moderni filosofi spiritualisti Il mtodello è uno. Questo argomento potrebbe valere contro l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, che ammette, o dovrebbe ammettere, che le Idee sono separate le une dalle altre, come dalle cose. Nella nostra interpretazione il mondo ideale non è una moltiplicità Senza unità, ma un'unità multipla, perchè l'Idea generale risiede nelle Idee partici) Tim, Tira. Sappi. carta -. colarì, ed è, ìmplieltanlente, queste Idee stesse Infine il modello è vivente. Ma Platone dice solamente che è ridea universale delPanimale con le altre Idee degli animali che essa comprende. Qaesto potrebbe prendersi in tre sensi, corrispondenti alle tre interpretazioni delle Idee in generale. Queste Idee, nella nostra interpretazione, sono gl'insiemi degli attributi comuni a tutti gli animali e a ciascun genere e ciascuna specie particolare di animali, esistenti negli stessi animali reali. Nell'interpretazione trascendentalista seguita dalla più parte dei critici moderni,sarebbero questi stessi insiemi di attributi, ma fuori degli animali r>ali. Neirioterpretazione teistica, infine, i pensieri divini degli animali, e, secondo Fouillèe, anche le perfezione divine corrispondenti. Di questi tre sensi FouUlèe non potrebbe ammettere T ultimo che arbitriariamente; e del resto non è quello ch'egli attribjsce alle parole di Platone. Il testo stesso del Timeo identifica il Demiurgo e il modello. Infatti Platone d'ce: Esente da invidia, Dio volle che tutte le cose fossero, per quanto era possibile, simili a se stesso. Ma Platone dice ancora: Simili alle Idee, al Vivente intelligibile. Dunque Dio è egli stesso questo Vivente che abbraccia in sé le Idee Ma, come si vede da tutto il contesto, il Demiurgo volle chetuttJ le cose fossero simili a se stesso, in quanto egli era buono, e volle che tutte le cose fossero buone. Questa proposizioae presentarebbe un senso soddisfacente, anche prendendo il Demiurgo e i paradigmi alla lettera, e considerandoli come due cose distinte. Non si è contenti del senso letterale? ma allora questo luogo ci permette d'identificare il Demiurgo, non all'insieme delle Idee, ma all'Idea del Bene, porche ciò ch'^ renda le cose buone, rendendole simili a se stesso, noa è l'insieme delle Idee, ma l'Idea del Bene. Fouilièe, a dir vero, crede che questo luogo identifichi il Demiurgo tanto all'insieme delle Idee quanto all'Idea del Bene, perchè queste due cose per lui si equivalgono. Ma noi abbiamo osservato che quest'equivalenza ò impossibile anche nei presupposti deirinterpretazìone teistica, perchè il contenuto dell'Idea del Bene, come di tutte le altre, non può essere, in qualsiasi interpretazione, che quello stesso del concetto corrispondente. Per confermare l'identità tra il Demiurgo e 1'Idea del Bene, Fouillèe aggiunge che, se Platone chiama Dio buono, e perchè è il Bene stesso; infatti «si oserà sostenere che Dio è buono per la sua partecipazione a qualche cosa dì superiore cioè all'Idea del Bene distinta da Dio stesso? Senza dubbio: Platone osa sostenere ciò e tante altre dottrine egualmente incompatibili colconcetto moderno che Dio è l'assoluto, p. e. che vi hanno molti dei, che la divinità non ha creato la materia, che la sua potenza è limitata, ecc., e tutti i filosofi antichi osano sostenere cDme lui tali dottrine ed altre, secondo il teismo moderno, non meno indegne della divinità. Fouillèe cita il Timeo luogo che abbiamo riportato e spiegato nel Supplemento carta, e lo commenta cosi: Non ssmbra che Platone abbia voluto confutare anticipatamente quelli che moltiplicano gli esseri senza necessità, obbliando che l'unità è il termine della dialettica? Due dei che non differissero che Sappi carte carta aue«to Sappi. carte per La loro funzione di modello o di artigiano, supporrebbero al di sopra di loro un dìo unico, che li abbraccerebbe T uno e T altro nella sua comprensione. Ma Platone in questo luogo non parla di due dei, ma solamente di due Idee dell'animale: egli dice che due Idee dell'animale sarebbero impossibili, perche supporrebbero al di sopra di loro un'Idea unica deir animale che le conterrebbe tutte e due. Del resto né è una conseguenza dei principi! della dialettica platonica che due del supporrebbero al di sopra di loro un dio unico che li abbraccerebbe runo e Taltro, né j Platone, nella supposizione che combatte Fouillèe, potrebbe riguardare il modello come un dio altrimenti che per metafora. Platone, enumerando le cose che egli ammette, non parla che di tre, le Idee, lo spazio e la genesi, e non di una quarta, che dovrebbe essere il Demiurgo. E cosi che fa. Fouillèe cita questi luoghi, e ne conclude che, poiché il Demiurgo manca nella enumerazione, esso deve essere identico a una delle tre cose enumerate, cioè alle Idee. Questo é senza dubbio il migliore degli argomeati ch'egli impiega per dimostrare Tidentità tra il modello e il Demiurgo. Ma esso non é probante che nella sua parte negativa, cioè contro quegrinterpreti che, come Martin, prendono il Timeo alla lettera e ammettono che Platine ha pensato realmente che il mondo e stato costrait'> da un artefice che ha copiato un modello. Contro la sua parte positiva, cioè che il senso riposto del Timeo é che le Idee esistono in Dio, valgono le osservazioni che abbiamo fatto sopra, sul 4 motivo dell'interpretazione teistica, e sarebbe inutile di ripeterle. Fouillèe osserva pure sul secondo dei luoghi indicati che il modello deve essere identico al Demiurgo, perché in questo luogo le Idee vengono riguardate come le cause delle cose, e paragonate al padre lo spazio essendo paragonato alla madre, e la genesi al figlio. Quest'argomento non può valere anch'esso che contro l'altra forma dell'interpretazione trascendentalista, secondo cui le Idee non potrebbero essere che dei semplici esemplari, e la loro causalità sulle cose é assolutamente incomprensibile. Nel Timeo Piatone dice: Dio impiega tutte queste cause per ausiliarie, ma mise egli stesso il bene in tutte le cose generate. É per ciò che bisogna distinguere du^ sorta di cause, Tuna necessaria e l'altra divina, e noi dobbiamo cercare in ogni cosa la causa divina. Fouillèe commenta: Platone non distingue due cause divine, 1'una efficiente cioè il Demiurgo, l'altra esemplare o finale cioè il modello; egli non ne pone che una, l'Idea Ma in questo luogo non é quistione della causalità delle Idee. Le cause che si distinguono in due generi sono le cause fenomenali, cioè facienti parte dell'universo come complesso di tutte le esir stenze individuali. Confrontando questo luogo con due altri del Timeo stesso in cui é espresso evidentemente lo stesso concetto, si vede che per le cause divine bisogna inteudere quelle che producono con intelligenza il buono e il bello; le cause necessarie sono naturalmente gli agenti materiali. In questa bipartizione delle cause le Idee non vanno né nell'una né neir altra Sappi. C»oarta. Sttppl., carta, benché la parusìa delle Idee vi sia necessariamente tanto nelle cause dell’una quanto in quelle dell'altra, poiché tanto gli agenti materiali quanto gli agenti spiritaali sono la realizzazione delle Idee e agiscono secondo le necessità ideali. Fra le cause divine é compreso il Demiurgo, che, se si prende alla lettera, è anch' esso una causa, come abbiamo detto, fenomenale, essendo eviient3mente un individuo, e non un'entità astratta. Secondo noi il Demiurgo non deve prendersi alla lettera, e simboleggi i V Ide% del Bene: per conseguenzi le cause divine, oltre le cau^e intelligenti cioè le divinità generate, significano anche, allegoricamente, la causalità del Bene. Questo però non ci costringe ad oltrepassare V ordine causale nei fenomeni, perchè la causalità del Bene non è in sostanza che la teleologia immanente nella natura. Siccome anche le cause intelligenti, nel senso proprio, agiscono teleologicamente, le cause divine equivalgono alle cause finali, come le cause necessarie alle cause meccaniche. Questa divisione delle cause in due generi non è dunque che quella abituale a tutti i teleologisti, e non giustifica per niente la conclusione del Fouillèe. L'ultimo degli argomenti del Fouillèe tratti dal Timeo k che non vi ha per Platone, egli dice, che un solo Dio intelligibile, padre e modello del dio sensibile cioè del mondo mentre, se il Demiurgo e il mondo ideale fossero distinti, ve ne sarebbero due. Per provare ciò egli cita il Timeo: É cosi che il Dio che esiste da ogni tempo, avea concepito il Dio che doveva Sappi. nascere, e ìa conclusione del dialogo, in cui il mohdo è chiamato dio sensibile, immagine del dio intelligibile. Il primo di questi luoghi proverebbe che vi ha un solo dio che esiste sempre e non due, cioè il Demiurgo e il modello; il secondo proverebbe al tempo stesso che vi ha un sol dio intelligibile ciò che è la stessa cosa che un sol dio c?ie esiste sempre, e che questo dio non è altra cosa che il modello. Dunque il Demiurgo e rinsieme delle Idee sono una sola e slessa cosa Sa questo ragionamento si può osservare prima di tutto che nel secondo luogo il significato del dio intelligibile è tìrcoscritto per designare unicamente il modello, si dalla parola immagine che dalla parola stessa intelligibile che nella lingua di Platone non significa che l'Idea; per conseguenza da questo luogo non potrebbe concludersi che, oltre questo dio intelligibile, Platone non ha potato ammettere un altro dio, anch'esso distinto dal dio sensibile, cioè il Demiurgo. Ma ciò che rovescia tutto il ragionamento è l'osservazione che qui Platone non può deificare il modello, considerato come uno cioè V animale intelligibile che comprende tutti gli animali intelligibili, che nello stesso senso in cui altrove deifica i modelli, considerati come più, cioè per semplice metafora. Passiamo agli argomenti tratti dagli altri dialoghi: lo Nel 6« della repubblica il Bene ci è rappresentato come principio sostanziale delle Idee e come causa efficiente degli oggetti sensibili. Naturalmente Fouillèe ne conclude che il Bene per Platone non è altra cosa che Dio Vi ha appena bisogno di osservare che que e. questo Sappi, .ini 8t*argomento non è che un caso dell'equivoco EQUIVOCO [H. P. Grice: aequi-vocality thesis] gfà ìadi^ cato deiridijer prete teistico, di scambiare la causa nel senso del realismo dialettico con la causa nel senso che gli è pili familiare, cioè rantropomorfìstìco. Nella stessa Repubblica si dice che Dio ha prodotto 1'Idea del letto e tutte le altre Idee Ma ne'.rinterpretazione del Fouillòe com'è che Dio potrebbe produrre le Idee? se Dio non è secondo lui che Tinsieme delle Idee stesse? La proposizione che Dio ha prodotto le Idee potrebbe avere un senso nella forma dell'interpretazione teistica che non è quella ammessa da Fouillèe, secondo cui Dio sarebbe il substratum e la sorgente delle Idee, cioè dei suoi pensieri eterni, press' a poco come, secondo lo psicologo spiritualista, la sostanza me è il substratum e la sorgente dei fenomeni della nostra coscienza. Ma in questo senso o in qualsiasi altro è assolutamente incompatibile con le dottrine di Platone, ohe considera evidentemente le Idee come i principii ultimi sia che dobbiamo intendere per esse delle entità astratte sia dei semplici pensieri. L'interprete teistico dirà che Platone riguarda l'Idea del Bene come la causa di tutte le altre, e che Dio è appunto per lui l'Idea del Bene. Noi conveniamo con V interprete teistico che il Dio della Repubblica, che produce 1'Idea del letto e lo altre Idee, non può es3ere che l'Idea del Bene. Ma aggiungiamo che questa deificazione dell'Idea del Bene non può essere che una metafora tanto nella nostra interpretazione quanto nella sua, poiché secondo questa ebsa non potrebbe essere che uno dei pensieri della dici) Sappi. vinità, e la perFonificazione di un pensiero è altrettanto inconcepibile che quella di un'entità astratta. Fouillèe ammette anch'egli che questo Dio che produce l'Idea del letto e le altre Idee è la stessa cosa che il Bene, e ne dà come prova che esso è chiamato in seguito il re, espressione che si applica pure al Bene. Su questa prova basterà di ripetere l'osservazione precedente e l'altra dell'incongruenza del Fouillèe di ammettere che V insieme delle Idee equivalente per lui al Bene sia la causa delle Idee stesse. Nel Fedro si dice che dio é divino perché è con le Idee Ma dio é con le Idee in quanto le contempla nel luogo iperuranio – supralunario GRICE. Anche le anime che sono al seguito degli dei le contemplano, senza che siano perciò i loro pensieri. Nel CONVITO l’idea del bello é chiamata il bello stesso divino e si dice che chi la contempla d viene am'co di Dio. Fouillèe intende che quest'idea è la beltà del divino, e che chi la contempla diviene amico del divino perché il bello è identico al bene e per conseguenza al divino. Ma è evidente che l’idea del bello non può essere chiamata divina che nello stesso senso in cui sono chiamate divine l’altre idee. Quando nel Filebo le Idee del CERCHIO GRICE e della sfera sono chiamate il cerchio e la sfera stessa divina, dovremo intendere che queste Idee sono degli attributi di Dio? Secondo gl'interpreti teistici in generale, queste Idee sarebbero dei pensieri particolari della divinità: ma pare carta e. Supplem. cario a. òOo ad essi naturale che i pensieri che Dio ha del CERCHIO e della sfera siano chiamati IL CERCHIO divino e la sfera divina? Inoltre un pensiero di Dio è tutt'altra cosa che un attributo di Dio. f ouillèe dirà che le Idee del CERCHIO e della sfera sono anche delle perfezioni divine e non semplicemente dei pensieri divini. Noi potremo discutere questa proposizione, quardo Fouillèe o altri ci farà comprendere che cosa significa Aggiungiamo, suir altra parte deir argomento, che Platone stesso ci spiega sufficientemente, e senza che resti alcun bisogno della spiegaeione del Fouillèe, perchè chi contempla l'Idea del Bello diviene amico di Dio o piuttosto amato da Dio, esocpar^s: è perchè partorisce e nutrisce la vera virtù, e non delle immagini di virtù, avendo visto il vero cioè il Bello in se stesso, tipo della virtù e di tutto ciò che è bello, e non un'immagine. Nel Teeteto la virtù, che è l'imitazione del Bene, è definita la somiglianza con Dio Dunque, secondo Fouillèe, se non ammettesse che il Bene è identico a Dio, Platone non potrebbe dire, come qualsiasi altro teista, filosofo 0 non filosofo, che il virtuoso è amato da Dio, o che gli somiglia? Notiamo che nel luogo del Teeteto a cui allude Fouillèe Platone noa dice che la virtù si definisce la somiglianza con Dio, ma semplicemente che divenire giusto, santo e prudente è rendersi simile a Dio. Nelle Leggi Dio è chiamato il il principio, il fine e il mezzo di tutte le cose. Dunque egli è il Bene, poiché è il Bene il principio primo e il fine Cont\ e. ultimo Ma la proposizione citata da Fouillèe che d'altronde lo stesso autore afferma ricevere da un'antica tradizione potrebbe provare tutto al più che il sistema teologico di Platone è il panteismo. Da ciò non potrebbe concludersi niente sulla dottrina delle Idee, perchè queste due parti della filosofia platonica sono, come abbiamo osservato, assolutamente distinte. Del resto Platone non dice Dio é ma Dio tiene exei it principio, il fine e il mezzo di tutte le cose, proposizione naturalissima in qualsiasi forma, alquanto evoluta, della filosofia teologica. La tua intelb'genza non è il bene, dice Filebo a Socrate - Si, la mia forse, o Filebo, ma per V intelligenza vera e divina, io non penso che sia cosi. - E il migliore argomento che Tinterprete teistico possa impiegare per provare che T Idea del Bene è identica a Dio. Infatti in questo luogo Socrate sembra affermare che Tintelligenza divina è i! Bene stesso. Ma la propozione potrebbe anche avere nn altro senso, cioè che la semplice intelligenza è insufficiente alla felicità nostra, ma è sufficiente a quella di Dio. Infatti il bene nel Filebe è considerato sovratutto nel suo aspetto subbiettivo, cioè come felicità degli esseri viventi, V argomento del dialogo essendo appunto di ricercare in che consiste la felicità. Lo stesso luogo citato fa parte della conclusione di una discussione per cui si mostra che né una vita di pura intelligenza né una vita di puro piacere basta a costituire la felicità, ma per ciò è necessaria una vita mescolata di piacere e d'intelligenza. La rii FUcbo sposta di Socrate a Filebo avrebbe dunque qaesto significato natnraliFSì'mo, di una riserva fatta in favore dell'intelligenza divina, cioè che Dio è felice, quantunque non viva che una vita di pura intelligenza. Questo significato sarebbe confermato da ciò che si dice in seguito, che non solo non è verisimile, ma è anche sconveniente, di ammettere che la divinità provi del piacere e del dolore. Ora Tinsieme del dialogo non permette di dubitare che il senso delle parole di Socrate non sia effettivamente uesto. Quello preferito dall'interprete teistico è incompatibile col contenuto dell'Idea del bene che è evidentemente un attributo delle cose, di cui la felicità degli esseri viventi possa essere un caso particolare e con la sua immanenza, cosi chiara in qaesto dialogo, che noi vi abbiamo visto a buon dritto una delle prove più forti dell'immanenza delle Idee in generale. Aggiungiamo che esso è anche incompatibile coi presupposti dell'interpretazione teistica, perchè secondo questi l'idea del bene non potrebbe essere che uno dei pensieri della divinità, ma non l'intelligenza divina, che è il soggetto 0 r insieme di qiesti pensieri. Sappi. carte. Alcuni interpreti che seguono l'altra forma dell'interpretasione trascendentalista, credono, fondandosi su questo luogo del Filebo f che il Bene per Platone non sia Dio, ma la ragione immanente nel mondo, a cui egli non intende attribuire propriamente la personalità. Questo senso è anche, se si pnò dir cosi, più impossibile che quello dell'interprete teistico. Questi almeno, identificando il Bene con l'intelligenza divina, è coerente allo spirito Iella sua interpretazione, che vedo nelle Ideo platoniche delle con8 Dopo aver posto nel Filebo Tindeterminato, la determinazione o le Idee, e il genere misto, Platone dice che bisogna porre la causa di tutte queste cose. Dio sarebbe dunque la causa delle Idee e della materia La base di quest'argomento che del resto Fouillèe non propone senza esitazione è il concetto, di cui abbiamo visto l'inammissibilità, che il Tiépag del Fihbo che egli chiama la determinazione, sia identico alle Idee, e r^TiELpov alla materia. Tuttavia, siccome il Ttépag e l'dcTieipov sono anche, come abbiamo mostrato, gli elementi delle Idee, alcuno potrebbe giungere per questa via, con qualche apparenza di ragione, alla stessa conclusione del Fouillèe, cioè che la causa vale a dire Dio, è causa anche delle Idee. Ma questi non potrebbe essere l'interprete teistico, perchè il iispag e V ànstpov sono e>identemente gli elementi delle cose reali, e non oezioni dello spirito. Ma per l'interprete trascendentalista che considera le Idee come delle forme obbiettive, quantunque esistenti in un altro moido, come l'Idea del Bene può essere la stessa cosa che la Ragione? Per lui come per noi le Idee non sono che gli attributi omonimi dello cose sostantificati, per noi nelle cose stesse, per lui fuori delle cose. La ragione è dunque un attributo di tutti gli oggetti che chiamiamo buoni? e siccome per Platone tutto ciò che esiste è buono perchè egli vede nell'Idea del Bene la forma universale e la identitìca a quella dell'Essere, tutto ciò che esiste per Platone che non è un ilozoista, partecipa dunque alla ragione? È evidente che l'interprete trascendentalista non attribuirebbe a un filosofo moderno un non senso simile; ma a Platone gli è lecito di attribuire tutti i non sensi, perchè effettivamente, secondo la sua interpretazione, la filosofìa platonica non potrebbe spiegarsi che per una tendenza irresistibile verso le proposizioni prive di senso. Suppl., carte. Suppl. vili, carta Suppl. carta possono riguardarsi come f le menti anche delle Idee che nella nostra interpretazione, che identifica in qualche modo le Idee con le cose, ma non in un'interpretazione che ne fa dei pensieri o delle perfezioni della divinità. Per altro, noi torniamo a domandare a Fouillèe com'è possibile che Dio sia causa delle Idee, mentre non è che le Idee stesse. Aggiungiamo tralasciando per amore di brevità tante altre osservazioni non meno ovvie che la causa non potrebbe essere causa anche delle Idee perchè non lo è che delle cose divenute mentre le Idee sono eterne, perchè la sua efficienza è assimilata alla nostra attività sul mondo esterno, e perchè essa non é evidentemente che l'anima del mondo, che non può produrre che del movimento, e per la comunicazione del movimento proprio. L'anima, nel suo viaggio al seguito di Dio, contempla la scienza in sé, non questa scienza seggetta al cangiamento, ma quella che si trova nell'essere vero. L'Idea della scienza è dunque compresa in Dio. E d'altra parte il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Ide ch'essa racchiude. Le Idee divengono così dei pensieri divini Ma che cosa prova al Fouillèe che l'essere vero in cui si trova la scienza in sé, è Dio? L' essere vero 3 èoxtv 6v ovxcog in linci FU. Sappi. La causa è ciò che fa, e gli eifetti le cose che sono fatte {Filebo). La causa è anche chiamata. Ropilice 5Yj|xtoupYo0v) degli altri tre generi FU. Dio, per oonseguenjsa, seconao l'iaterprete teistico, farebb', anzi fabbricherebbe, i propri pensieri. Suppl. questo SujìjìL Fedro guaggio platonico lingua platonica desi'gna l'Idea, e per conseguenza qui non può significare che l'Idea di sostanza di cui la scienza in sé è l'attributo, perché ciò che è sostanza nel mondo à.\\e cose deve essere sostanza anche nel mondo delle Idee, e ciò che è attributo in quello deve essere attributo anche in questo. Quando poi Fouillèe afferma che il Parmenide c'insegna che la scienza in sé ha per oggetto le Idee, la sua proposizione è incontestabile, ma quando aggiunge che essa racchiude, non fa che un'asserzione interamente gratuita, perchè Platone non lo dice né nel Parmenide né altrove. E dio e non l'uomo che è la misura di tutte h». cose Leggi llGc. Cosi per Platone il principio e il fondamento della verità è Dio Ma le parole precise di Platone sono: Dio é la misura di tutte le cose molto più che alcun uomo. Dunque secondo Fouillèe anche l'uomo sarebbe per Platone principio e fondamento della verità, quantunque meno che Die, proposizione che è un non senso tanto se si ammette che la verità è oggettiva quanto se si ammette che è soggettiva come pretende Protagora; perchè, se è oggettiva, come l'uomo potrebbe esserne principio e fondamento? e se è soggettiva, come Dio potrebbe esserlo più che l'uomo? La proposizione che Dio è la misura di tutte le cose, in quanto essa ha uoa portata gnoselogica, può significare, in Platone, non che il vero e il falso dipendono da Dio, ma semplicemente che in Dio vi ha un criterio infallibile del vero e del falso, perchè noi dobbiamo interpretare questa proposizione conformemente alle sue dottrine conosciute, e secondo queste è il pensiero che è deter Parmen. minato dalle cose teoria dell'intuizione e della reminiscenza, non seno le cose che sono determinate dal pensiero. li' Aristotile parla di alcuni che hanno detto che Vanima e il luogo delle specie xójiog stSwv. Fouillèe ne conclude che Platone chiama V intelligenza divina il luogo deMe Idee, perché quest'espressione che troviamo in Aristotele è, egli dice, evidentemente platonica. Noi diciamo invece che è evidentemente antiplatonica é una conseguenza delle prove dell' immanenza delle Idee date nel Supplem., e appartiene probabilmente ai Cinici, che contrapponevano al realismo di Platone il concettualismo, affermando che gli universali non esistono che nel pensiero. Ili Ite Idee e il pensiero Secondo un'interpretazione di Platone, che rimonta ad Hegel, ed è stata ripresa e sviluppata da un critico contemporaneo, Teichmuller, la reminiscenza, l'intuizione delle Idee in una vita anteriore, V immortalità dell'anima e le altre dottrine connesse non devono intendersi nel senso letterale, ma sono dei simboli d'una teoria gnoseologica ed ontologica, in cui Platone avrebbe preceduto Hegel. Questa è che, nel pensiero filosofico, il soggetto conoscente s'identifica con V oggetto cono De an. Zeller Filos. dei Greci trad. franc. sciuto, cioè con le Idee; che questo pensiero costituisce l'essenza intima dell'anima, ed è, per conseguenza, universale, e quindi eterno, come il suo oggetto; infine che esso è il momento ultimo dello sviluppo eterno dell'essere, TAssoluto, che comprende ogni cosa, e in cui tutti i contrari si unificano. L'immortalità dell'anima simboleggerebbe l'eteroarsi dello spirito, quando rientra nella sua vera essenza, identica al mondo ideale, e ha luogo cosi la conoscenza filosofica. L' intuizione delle Idee in una vita anteriore significherebbe la presenza delle Idee nel pensiero: essa é rappresentata come la percez'one di un oggetto esteriore, perchè è il solo caso, nell'esperienza, in cui l'oggetto sia presente immediatamente al soggetto, e trasportata in una vita anteriore, perchè ressenza universale dell'anima, da cui deriva l'anima individuale, si rappresenta come V antica natura àpxaia cpOoi^ di questa. La reminiscenza, infine, significherebbe che la conoscenza è a priori, e che lo spirito la ritrac dalla sua antica natura, identica alle Idee conosciute. Ma perchè Platone, come dice uno di que8t' interpreti, ha insegnato il vero mediante il falso? Perchè, invece di esporre la sua dottrina apertamente, ha preferito d'invilupparla in oscuri simboli? Ciò é stato, ci si dice, per due ragioni. Primo, la verità nella sua forma pura è inaccessibile ai molti; a questi, affinchè ne partecipino in qualche modo, è necessario di presentarla sotto un involucro fantastico, in forma di miti e di allegorìe. Secondo, Platone era convinto che la religione é il vincolo più forte dell'ordinamento so VERA (vedasi) Platone e VimmortaUtà dulVaniina] ciale; perciò ha cercato di mettere d'accordo, almeno in apparenza, il pensiero filosofico con le credenze religiose, e tra le altre naturalmente con la più efficace di tutte, cioè quella deirimmortalità. L'obbiezione più ovvia che si presenta prima facie contro quest'interpretazione è V inverosimiglianza della situazione psicologica ch'essa suppone in Platone. Quest'arte di dire una cosa e intenderne un'altra, qualunque siano le frasi di cui si rivesta per darle un'apparenza speciosa, è sempre una maschera che si mette al pensiero, una diplomazia che il filosofo usa verso gli altri 0 verso se stesso. Noi comprendiamo questo stato di spirito in un professore moderno, che nrn vuole alienarsi il favore di chi sta in alto urtando troppo rudemente delle idee che fanno parte di un ordine stabilito, 0 in un dottore protestante, che deve fare il sermone della festa di pasqua, ma non ammette la venta storica del racconto degli evangeli sulla resurrezione. Anche quel nobile carattere di filosofo che fu Spinoza parla, nel senso in cui questa lingua pretende attribuirsi a Platone, oltre che dell'immortalità dell'anima, di Dio, del figlio di Dio, dell'amore di Dio, ecc., parole che nel suo sistema non sono che una decorazione: ma dobbiamo noi maravigliarci di ciò quando, malgrado questo velo prudente di cui ricopre le sue dottrine, che un teista ha tutta la ragione di riguardare come atee, lo vediamo diventare 1'oggetto della riprovazione universale? Ma in Piatone, e al so»-getto dell'iminortalità dell'anima, questa diplomazia sarebbe stata seuza motivo. Oltre che la mitologia dei Greci non accorda all'anima, dopo la morte, che un'ombra d'esistenza, oggetto piuttosto di timore che di speranza, e a cui non era legato alcun interesse etico, la credenza all'immortalità, o semplicemente alla sopravvivenza, non sarebbe stata riguardata, almeno all'epoca di Platone, come una condizione di ortodossia. Come sappiamo da Platone stesso, i suoi contemporanei che consideravano come un dovere il culto degli dei dello stato erano generalmente scettici riguardo alle antiche tradizioni sui premi e le pene dell'alira vita; i più pensano che l'anima, appena uscita dal corpo, si dissipa e si annienta; e Socrate nella Repubblica di Platone) eccita la sorpresa del suo interlocutore, quando afferma che è immortale. Platone non si sarebbe dunque trovato in urto con la coscienza popolare, s'egli non avesse accolto tra le sue dottrine, o avesse anche rigettato, implicitamente o esplicitamente, la credenza in un'altra vita: tanto meno, per fare atto di ossequio alla fede dei suoi connazionali, avrebbe potuto credersi in obbligo d'insegnare e di dimostrare V immortalità dell’anima, nel senso rigoroso, e la sua eternità. Ma supponiamo che 1'epoca di Platone fosse tale da imporre a un filosofo un ossequio apparente a queste dottrine: che cosa dovremmo aspettarci da lui, supposto ciò? ch'egli mette in luce i soli punti in cui i suoi concetti filosofici s’accordassero coi concetti popolari, lasciando nell'ombra quelli in cui ne difterissero. Platone dovrebbe dunque limitarsi in questo caso, come Ci) Zeller, Filos. della Grecia Introd. gener. o. L'antropologia, V. anche, sul timore dell'altra vita, Q-ayau La morale d’Epicuro, pel paganesimo In generale, e Platone stesso Jiep. Jiep. Fedo.Spinoza e come Hegel nei casi analoghi, a cercare delle formule ambigue, che, quand'anche più adattate alle credenze popolari, potessero pure applicarsi, anche forzandole alquanto, ai concetti filosofici. Egli non insisterebbe quindi sul lato etico e sentimentale della credenza all'immortalità: non parlerebbe dei premi e delle pene nell'esistenza futura; non farebbe esprimere continuamente ai suoi personaggi le speranze della felicità che attende nell'altro mondo il saggio che si è purificato dalle passioni, e il timore della morte da cui la sicurezza di un'altra vita deve liberarli; sovratutto non metterebbe in bocca queste speranze a un caro morente, col pensiero sottinteso che sono delle illusioni quasi per una irrisione a ciò che vi ha di più umano nel sentimento religioso, nelle persone e nella circostanza in cui è il più umano di rispettarlo Tutto ciò che vi ha nelle idee sull'altra vita di mitico e di saperstizioso, nel senso stretto di questi termini, non sarebbe meno fuori di luogo; p. e., nel Fedone, i fantasmi che vagano attorno ai sepolcri, e la descrizione del soggiorno futuro dei buoni nell'alta superficie della terra di cui noi abitiamo una cavità e dei cattivi neo-li abissi che sono nel suo interno; perchè qual signifi Fedo. lOTcOUc,TiìYì, Meno Teet. Fedro Gorgia Rep, Legtji ecc. il Fedone, pure il Fedone cato potrebbe darsi a queste circostanze come simboli della dottrina filosofica? Infine Platone non darebbe delle dimostrazioni dell'immortalità ed è stato il primo a farlo, o almeno queste dimostrazioni dovrebbero essere ambigue lome l'immortalità stessa, cioè, mentre apparentemente proverebbero 1'immortalità personale, dovrebbero essere suscettibfli di essere interpretate, nel loro senso reale, come prove delle dottrine che essa simboleggia; mentre è evidente che le dimostrazioni platoniche concludono univocamente, cioè alla sola immortalità personale, e, per quanto si torturino, non si riuscirà mai a far loro dimostrare l'eternità dell'essenza universale dell'anima o 1'identità del soggetto e dell'oggetto. Ora possiamo noi concepire un filosofo della sinistra hegeliana, che cerchi di dimostrare, senza equivoco, la verità la verità storica, come sopra dei racconti degli evangeli? Un'altra testimonianza in favore della sincerità di Platone nella dottrina dell'immortalità dell'anirna è il feuo atteggiamento in faccia alla religione in generale che, conformemente all'interpretazione hegeliana dell'immortalità, non potrebbe essere per lui che un sistema di miti, a cui bisogna tributare un ossequio esteriore – GRICE 39 ARTICLES -- e cercare di farne dei simboli di verità filosofiche. Platone non si contenta di fare atto di adesione, reale o apparente, alle idee religiose dei suoi connazionali, ma cerca di migliorarle, di correggerle, e di assi Vedi queste prove nel Fedone, Meno, Fedro, Repubblica. Un’analisi di questi luoghi ingrosserebbe inutilmente il saggio, e d'altronde niente potrebbe sostituire l'impressione di evidenza che risulta dalla loro lettura. i i" ierle su una base filosofica. É ciò che fa per le idee sulla divinità, che egli fonda sulla dottrina deir anima cosmica, ed eleva si al punto di vista morale che metafisico, combattendo le superstizioni popolari incompatibili coi nuovi concetti da lui insegnati. Lo stesso fa pure per le idee sulla vita futura, sovratutto in due punti: elevando la credenza popolare nella sopravvivenza e la preesistenza al concetto rigoroso conseguenza logica deiranimismo di una durata senza cominciamento e senza fine, che cerca, oltre che di fondare su prove razionali, di legare alle altre parti del suo sistema filosofico, cioè alla dottrina delle Idee e a quella dell'anima cosmica; e basando la metempsicosi e le altre credenze sul destino futuro dell'anima sul concetto di una ricompensa morale, che manca nei dati tradizionali, benché egli non fa in ciò che aiutare un movimento cominciato prima di lui, e a cui doveano cooperare tutti gli spiriti religiosamente Tra gli argomenti deU'immortalità dell'anima, oltre quello per la reminiscenza, sono fondati pure sulla dottrina delle Idee 1'ultimo del Fedone riportato in parte nel Suppl, carte e quello per l'affinità dell'anima con le Idee carta Seoondo i primi Pitagorici le migra«ioni delle anime non erano regolate da ragioni di giustizia, ma era l'azzardo che determina un'anima ad entrare in un corpo piuttosto ohe in un altro Martin Studi sul Timeo. diù avanzati della sua epoca. Ma da un filosofo incredulo, quand'anche non prenda apertamente, in faccia alla religione, la posizione d'avversario, non potremmo aspettarci che Tindiffereoza religiosa, o al più un'adesione passiva naturalmente esteriore alle credenze stabilite: ma egli non opporrà, come fa Platone, a queste credenze delle idee religiose più elevate, non sarà un riformatore, perchè questi non si trovano che tra i credenti più fervidi. Ci si dice, è vero, che Platone non si limita a velare prudentemente la sua irreligiosità, ma si giova della religione come strumento politico, credendo utile e necessario che il Demo fosse ingannato. Con questa supposizione il seguace dell'interpretazione hegeliana può credere di evitare le inverosimiglianze precedenti, ma andando incontro in compenso ad altre non minori! La più colossale è naturalmente che un filosofo, prima, creda le proprie idee dannose e le contrarie utili, e poi di buona voglia e non per prudenza come nella supposizione precedenle si metta il bavaglio sulle proprie dottrine, non solo, ma predichi invece di esse -- noi non parliamo di un filosofo salariato -- le dottrine contrarie. Ammettiamo tuttavìa che questo prodigio sia possibile: è certo che potremmo attendercelo da chiunque altro piuttosto che da Platone. Non vi ha sistema in cui dovrebbe esservi meno bisogno di un codice religioso, come strumento di polizia (POLITEIA) e di moralità, che in quello di Platone e, in generale, dei moralisti usciti da Socrate. In questo sistema, che stabilisce come principio fondamentale dell'etica che la virtù e la felicità sono identiche, dovrebbe bastare, per la polizia (POLITEIA) e la moralità, la filosofia soia-se per moralizzare è necessario di far credere che si può essere al tempo stesso santi URMSON e prrfetti egoisti. Ma si dirà che la filosofìa non può penetrare nella moltitudine, ed è a questa che sono destinati T’immortalila dell'anima e gli altri miti. Ma è per la moltitudine che ha scritto Platone? È ad essa che sono indirizzati gli argomenti deirimmorlalità dell'anima, di cui alcuni, e i soli che l'autore creda decisivi, fondati sulla dottrina delle Idee, cioè la più astrusa che si trovi in tutta la storia della metafisica? O si deve ammettere che Platone maschera il suo pensiero anche innanzi agl'iniziati, per paura che trapelasse ai profani? Ma ciò significa eh'egli ha voluto soffocare, per una specie di infanticidio intellettuale, la verta appena nata nel suo spirito a meno che si chiami verità quella che insegna mediante il falso, ma con l'intenzione che nessuno potesse apprenderla. Noi non diremo che questo sarebbe un fatto senza esempio nella storia della filosofia e della letteratura in generale, perchè, ammessa la sua possibilità, con qual dritto potremmo affermare che tutto ciò che un filosofo teista qualunque ha scritto o detto su Dio e sull'anima non è stata una finzione, prudente o filantropica, e un'allegoria simboleggiante, per esempio, per quanto riguarda Dio, la Realtà inconoscibile, o la finalità immanente nella natura, o l'ordine morale del mondo dovuto a cause naturali come nella dottrina buddista del karma, che, per quanto strana, non è almeno un non senso come l'identità del soggetto e dell'oggetto, e per quanto riguarda l'immortalità dell'anima, oltre all'identità del soggetto e dell'oggetto e all'immortalità della specie, l'indistruttibilità della forza di cui la psiche è una forma transitoria, o la persistenza della sensibilità negli atomi che compongono il nostro i corpo e tutta la materia? Del resto, che si ammetta come motivo di Platone una diplomazia prudente o una santa impostura, questo motivo non potrebbe spiegare che l'immortalità dell'anima, la metempsicosi e gli altri miti ch'egli ha in comune con la religione: ma come spiegare la reminiscenza e l'intuizione delle Idee in una vita anteriore? Esse suppongono l'immortalità dell'anima, ma questa non le suppone, né è incompatibile con la dottrina che tutte e tre rappresentano: questa identificazione del per s'ero col suo oggetto, possibile in unospirito d'una durata limitata, perchè infatti diverrebbe impossibile, se questa durata si prolungasse indefinitamente? Una conseguenza necessaria dì quest'interpretazione dell'immortalità è di sopprimere completamente la dottrina di Platone sull'anima, cioè metà della sua metafis'ca. Il concetto fondamentale della parte di questa dottrina che si riferisce all'anima individuale, è il dualismo tra anima e corpo, in altri termini l'anima considerata come sostanza distinta: ora questo concetto è incompatibi'e cfn l'interpretazione dell'immortalità come simbolo dell't-ternarsi del pensiero nella conoFcenza filosefica. L'immortalità dell'anima non potrebbe simboleggiare l'eterniià del pensiero cioè del pensiero speculativo che se questo fosse, come è iof' tti per Hegel e per Spinoza, Tesscnza dell'anima: ma per Platone il pensiero non è che un attributo dell'anima; la sua essenza – RES COGITANS -- , cioè la sua sostanza, è un che di esteso, che è il suhstratum dei suoi movimenti, compresi quelli che si chiamano sentire, pensare, ecc., -- concetti psicologici GRICE – della teoria dell’anima o psicologia razioale -- cerne le sostanze materiali sono il subsiratum dei loro movimenti e di tutti gli altri fenomeni del mondo esteriore. Il dualismo tra anima m e corpo, 0 la fi08tan2Ìalità dell'anima, nrn pnò essere dunque in quest'interpretazione che un 8«>mpliie mito che cosa simboleggerà? come l'immortalità, la metempsicosi, la reminiscenza, ecc. Se è un mito la sostanzialità dell'anima, sarà anche un mito la sua grandezza spaziale, il suo movimento e per conseguenza la definizione che è ciò the muove te stesso, la dottrina che muove – ANIMA – il corpo comunicandogli il proprio movimento – HOFFMANN COPPELIA--, quella che occupa nel corpo un posto determinato, quella della sua tripartizione, e, in breve, di tutto CIO che L’ACCADEMIA dice dell'anima non resta una parola che dice sul serio e se questi miti sono dei simboli, e noi vogliamo interpretarli, il nostro imbarazzo non è minore di quello dell’ACCADEMIA stessa, quando, dopo avere spiegato allegoricamente il mito di Borea che rapisce Oritia, si vede nella necessità di spiegare della stessa maniera gl'ippocentauri, la chimera, i Pegasi – “which was ridden by Bellerophon” – Grice, “Vacuous Names” -- , le gorgoni e una moltitudine d'altri mostri, che per essere spiegati allegoricamente, esiggono una certa sapienza rustica e una gran perdita di tempo. Le dottrine sull’anima cosmica cioè sul divino non doveno essere prese sul serio più che quelle sull'anima individuale. Se infatti Platone parla dell'immortalità per nn ossrquio apparente alle credenze popolari, o perchè la crede una favola necessaria all'ordine sociale, come non ammettere che era per lo stesso motivo che parla di dio e della provvidenza? Di più la dotti-ina sull'anima cosmica suppone lo stesso dualismo incompatibile coll’intrcrpreta Fedro zìone hegeliana deirimmortalità su cui è fondata quella suiranima individuale: la prima è descritta, come la seconda, come una sostanza distinta dalla materia, estesa, in movimento, causa del movimento della materia per la comunicazione del proprio movimento, ecc. Si dirà che qui il mitico sta nel dualismo e negli altri concetti che ne dipendono, mentre la vera dottrina di Platone era un panteismo ilozoista, in cui Dio era concepito come Tanima del mondo, ma senza che questa fosse sostantificata e separata dalla materia. Ma oltre che questa forma di panteismo è quasi totalmente sconosciuta all'antichità perchè, come abbiamo visto, quasi tutti i panteisti antichi pensano, come i dualisti, che l'anima del mondo è una sostanza distinta dal corpo del mondo con qual dritto potremmo ammettere che la dottrina di Platone era il panteismo, quando egli insegna invece il dualismo? Coerentemente all'interpretazione hegeliana dell'immortalità, tutto ciò che Platone ha detto della divinità, o dell'anima del mondo, noi non dobbiamo intenderlo che come un simbolo, e non possiamo attribuirgli altro Dio che la sfera totale delle Idee che, secondo quest'interpretazione sarebbero anche dei pensieri, o il pensiero assoluto, che sarebbe l'ultimo momento dell'evoluzione del mondo ideale. Intanto tutti questi concetti di Platone sull'anima, sia cosmica sia individuale, hanno tutti i caratteri di una seria dottrina filosofica, e noi non potremmo aspettarci di trovarli in una semplice finzione. Noi noteremo: La naturalezza di questi concetti, cioè il fondamento che ^fi essi hanDo, come tutti ì concetti metafis'ci, nei sofismi naturali o a priori del nostro spirito. Platone ha anche stabilito il teismo sulle sue vere basi, che sono la spiegazione teleologica del mondo per uca teleologia cosciente e quella del movimento per Tanima. Il concetto della scstanzfaltà dell'anima, o del dualismo tra anima e corpo, fa parte anch'esso, come i precedenti, della metafisica naturale del nostro spirito, e la dottrina dell'eternità dell'anima e della sua distinzione radicale dalla materia, che Platone ne ha dedotto, è la forma più conseguente di questo concetto. Le dimostrazioni dell'immortalità sono, é vero, sofistiche; ma quelle dell'esistenza delle Idee non lo sono altrettanto? e d'altronde l'argomento del Fedro e quello fondato sulla reminiscenza non sono dei semplici sofismi artificiali, e V ultimo del Fedone accenna al processo logico quantunque il più delle volte incosciente per cui si passa dal dualismo all'idea dell'immortalità. Il carattere rigoroso di certi concetti che Platone sembra essere stato il primo ad ammettere. Tale é, oltre quello dell'eternità dell'anima, quello di Dio come causa prima, che è uno sviluppo rlell'idfa che Tanin a è il jrncipio motore, altrettanto rigoroso che Taltro dt^l dualismo tra anima e corpo. La coerenza fra tutte le parti della dottriua. Questa non consiste so'ameate nell'assenza d'incompatibilità delle une con le altre, ma nella loro solidarietà, nella conseguenza con cui tutte si sviluppano a partire da un primo principio. Data la sostanzialità de' l'anima, ne vengono naturalmente, se non tutte con necessità logica, queste conseguenze: che essa è estesa, che si muove e muove il corpo per il proprio movimento ammesso che essa è la forza motrice, che questo proprio movimento è contiuuo, che occupa nel corpo una posizione determinata, che è divisa in più parti separate data una certa ipotesi fisiologica, che è immortale ed è eterna, che è radicalmente distinta dalla materia, ecc. La metempsicosi, quantunque non sia una conseguenza dell'eternità dell'anima, è la maniera più naturale di concepire la sua sopravvivenza e preesistenza, perchè aFsegna all'anima per tutta la sua durata la funzione di principio di vita, per cui essa è stata immaginata. In quanto all'intuizione delle Idee in un'efì utenza anteriore e alla reminiscenza, abbiamo osservato che, tra le ipotesi per ispiegare la coincidenza tra il pensieio e la realtà, l'unica compatìbile con le Idee platoniche era l'intuizione razionale, e che vi erano dei motivi per pieferire all'intuizione in questa vita stessa quella in una vita anteriore. Il dualismo tra anima e corpo si riflette in quello tra Dio e il mondo. Di più con la stessa conseguenza con cui sviluppa il dualismo antropologico, spingendolo alla dottrina dell'immortalità, Platone sviluppa anche il dualismo teologico, che in luiè radicale cioè è un dualismo nel senso stretto, la convertibilità reciproca tra la sostanza dell’anima cosmica e le sostanze nrìateriali, che troviamo nfi panteisti antichi, essendo altrettanto incompatibile, che la mortalità dell'anima individuale, col principio stesso del dualismo, cioè r imposFibilità che il cosciente verga dall'incosciente e, viceversa, questo da quello. Una conseguenza di questo dualismo teologico radicale è pure il concetto di Dio come causa prima, V idea di causa prima non potendo aver luogo nella forma antica del panteismo. L'assiomaticità che il principio fondamentale di tutta la dottrina, cioè il dialisnro tra l'anima e il corpo, dove avere agli occhi di un contemporaneo di Platone. Non solo esso è un risultato immediato dei sofismi a priori del nostro spirito, ma è ammesso quasi senza recezione oltre che dalla credenza popolare da tutti i fitosofi anteriori e da tutti i pensatori antichi in generale Tutti questi caratteri delle dottrine platoniche sull'anima a cui dobbiamo aggiungere la costanza con cui sono irsegnate dall'autore costituiscono altrettante prove intrinseche della loro veridicità: vedendovi delle finzioni, ci metteremmo in contraddizione coi più semplici canoni della logica dell'ipotesi, perchè invocheremmo una causa ipotetica per ispiegare un fatto che sì spiega abbastanza per le cause che sappiamo certamente essere esistite cioè i sofismi naturali del nostro spirito e il getìio eminentemente metafisico di Platone, e di più questa causa ipotetica è insufficiente a spiegare l'effetto, poichè una semplice finzione non da luogo a un sistema di concetti, in cui troviam tutta quella solidità che può trovarsi in una COSTRUZIONE metafisica – Cfr. Grice, Logical construction, rutina metafisica -- Ma si pretende che l'immortalità dell'anima è incompatibile con la dottrina fondamentale di Platone, cioè quella delle Idee. Platone, si dice, non avrebbe potuto ammettere l'eternità delle anime individuali, che facendo di esse altrettante Idee: per lui infatti l'eterno non è che l'universale; i su'^i principii non sono individuali, come nell'atomismo o nel sistema delle monadi; nel suo sistema l'elemento essenziale del mondo è 1'universale, e l'individuo è l'elemento accidentale, e non può avere, per conseguenza, che un'esistenza transitoria. É il solo argomento contro l'immortalità platonica che abbia qualche speciosità, perchè Platone in effetto mette più volte in opposizionfi ciò che è sempre, cioè le Ide»», e ciò che nasce e perisce, cioè le cose individuali, donde è facile di concludere che ogni cosa individuale per lui deve essere soggetta alla nascita e alla morte. Non bisogna però accordare a Teichmùller, come hanno fatto alcuni critici, pur non accettando la sua conclusione centro l'immortalità, che questa è in contraddizione coi principii stessi del sistema delle Idee. La contraddizione non è che con certe formule dì cui Platone si serve per mettere in contrasto le Idee e le cose per uoa delle loro diflerenze più ovvie ben inteso, se queste formule si prendono in un senso assolutamente rigoroso L'eternità delle Idee e la peribilità degl'individui non sono per Platone una conseguenza del principio che ciò che vi ha di sostanziale nel mondo deve essere eterno e ciò che vi ha di accidentale peribile. Tanto l'una quanto l'altra non sono per lui che un risultato deiresperienza: questa ci mostra che le specie sono stabili, mentre grindividiii nascono e periscono; per questa tendenza innata del nostro spirito alle generalizzazioni eccessive, che è secondo Baiu uua conseguenza dell'attività inerente air organismo, egli ne conclude, come sembra il più caturale prima delle scoverte della scienza moderna, che questa stabilità ò assoluta, ciré che esse sono eterne ed immutabili, proposizione la cui traduzione in lingua realista è che le Idee esistono sempre e sono sempre le stesse. Questa deduzione dalTesperienza non può escludere che egli concluda, per altre deduzioni, che vi hanno, oltre alle Idee, altre cose eterne benché non potrebbe dire anche di queste che sono sempre, perchè ogni esistenza individuale non si classa per lui neire, s, sere, ma, nel diveìiire. Ma che le stesse formule che sembrano in contraddizione con l'eternità dell'anima non devono prendersi in un senso assolutamente rigoroso, si vede da ciò, che in questo caso esse sarebbero anche in contraddizione con se stesse, perchè negherebbero implicitamente V eternità delle stesse Idee: se infatti ogni esistenza individuale, senza eccezione, è soggetta alla nascita e alla morte, anche la terra, gli astri e il cielo, che Platone considera come un individuo vivente, saranno soggetti alla nascita e alla morte, ciò che è la negazioue dell'eternità dell'ordine attuale del mondo, di cui l'eternità delle Idee è l'espressione metafisica. In molti casi, per altro, in cui Platone sembra opporre le Idee eterne e gl'individui che V. Bttin Lofjk'o l. e. . nascono e periscono, non abbiamo aVuna ragione di vedere altra cosa che l'opposizione solita tra 1'essere e il divenire da cui non si potrebbe niente concludere contro l'immortalità dell'anima, poiché il divenire continuo delle cose non è più incompatibile con essa che con la persistenza, anche per un sol giorno, di qualsiasi oggetto individuale L'espressione xò ov àsC ciò che è sempre oxà ovxa às{ le cose che sono sempre, per designare le Idee, non implicano necessariamente che le cose opposte alle Idee, cioè le individuali, hanno tutte una durata limitata, perchè di quelle aventi una durata illimitata Platone non direbbe che sono sempre, ma che f^empre divengono. Nella più farle dei casi p. e. quando è opposto a 5v l'essere, ily^Tvótisvov equivale evidentemente alla ysvsai; il divenire che indica in Platone il complesso delle cofc fenomeniche, perchè soggette a un divenire continuo, e nei dobbiamo tradurre, non cib che nasce, ma semplicemente ciò che diviene cioè con un'espressione più vaga, non significante che il cangiamento continuo a cui, secondo Eraclito e secondo Platone, le cose sono sottoposte. Quando a fix^oiiB^ov Platone aggiunge y.at àTioXX'Jjjtsvov e che peri"sce , non è necessario ch'egli pensi perciò ad altroche alla dottrina stessa del divenire, perchè, se è vero, come dice Eraclito, che tutto scorre, come un fiume, e niente permane, sarà vero, non solo che tutto continua<1) V. Tim. Ffdo. Conr, FU. Kep, Glie, eco. Come nel Tim. e neUa /»*<'i). d. i'à) Sof. e, liep, Tim. eoe. Tim. Rep. FU, Conr. anche Jfep. Coììv, FU. mente diviene, ma anche che tutto continuimente perisce, l'esistenza degli oggetti elie noi cliiamiamo durevoli, risolvendosi in una successione di stati differenti, di cui ciascuno sparisce appena che è apparso, erme le orde del fiume, a cui le cose si paragonano. Ma in quei casi stessi in cui p'^r ciò che é sempre dobbiamo intendere semplicemente quello che ha una durata illimitata facendo astrazione dalT esenz^'one da q«a!s'asi divenire implicata nella parola è, e per co che diviene e ciò che perisce quello che, pur avendo una certa permanenza, incomincia ad esistere e finisce di es'stere – GRICE MYRO HUMAN PERSON, basta, per ispiegare come questa opposi/Jone possa rappresentare per Platone quella tra le Idee eie cfseindivi.Juali, che la nascita e la morte sia in queste la regola, e l'esenzione dall'una e dall'altra Teccez'one. Anche Aristotile LIZIO, quando parla delle dottrine platoniche, chiama le cose individuali i corrutiibili c^Bapid, e h» oppone, come tali, alle cose eterne, cioè alle Idee; ma ciò non gli E a questa decomposizione delle cose in una successione di fenomeni fuggitivi, che Platone sembra alludere, quando dice nel Sofista che gli amici delle Idee dividono gli esseri, ammessi dai Fisici, in minime parli xaxdc 0|JllXpà fitaBpa'JOVxeg), chiamandoli non essenza, ma una certa genesi fluente. Come si T3de dall'opposizione tra V essere e il divenire Plalone si serve della dottrina di Eraclito per negare alle cose individuali una vera realtà. Per conseguenza egli deve preferire di presentarle sotto un aspetto in cui sembrino prive di qualsiasi sostanzialità, e quindi di qualsiasi permanenza, la sostanza nelle cose essendo appunto il permanente. Come, p. e., nel Conv, e nel FU. Met. impedisce di domandare ai platonici in che le Idee giovino sia ai sensibili eterni hia a quelli che nascono e periscono, e di afl'ermare, al comìnciamento della sua esposizione del sistema di Platone, che questi ha fatto un'Idea di tutto ciò che vi ha di uno nei molti tanto nelle cose di qui cioè le terrestri quanto nelle eterne cioè le celesti. Con lo stesso dritto con cui il seguace dell'interpretazione hegeliana può, con una certa apparenza di rigore logico, fondandoci su certe locuzioni di Platone, concludere che l'anima per lui è mortale, altri potrebbe concludt re, fondandosi su altre locuzioni, che essa si vede o si tocca o si percepisce per qualche altro dei nostri sensi. Infatti allo stesso modo che ciò che é aempre e ciò che nasce e perisce egli oppone anche, e non meno frequentemente. Vinteli igibilt, e il sensibile: ora in quest'opposizione V intelligibile non è evidentemente che Tldea; dunque, si conclude, Tanima, non essendo un'Idea, non può essere per Piatone che qualche cosa di sensibile. Il vero motivo per cui si nega la sincerità della dottrina di Platone dell'inimortalità dell'anima, è che si Afet, Met, T,m. Sof, Fedro Fedo, lòQ-7Qe, Jeep. eco. anche Arist. Met. Per l'accordo e il legame della dottrina dell'anima in generale con quella delle Idee rimandiamo a ciò che abbiamo detto nel n. carte, Ivi noi parliamo della dottrina dell'anima cosmica; ma questa è legata strettamente con quella dell' anima individuale. Vuol trovare nel nostro filosofo quella di Hegel dell'identità del pensiero col suo oggetto. Questa dottrina sarebbe incompatibile con quelle della reminiscenza e delrintuizione delle Idee in una vita anteriore, (d tsso suppongono Timmortalità dell'anitra: inoltre, non riuscendosi a trovarla, nelle opere platoniche, esposta in una forma puramente filosofica, si cerca di vedervela involta in m'ti e in allegorie, quali sarebbero l'immortalità deiranima e quelle due altre dottrine che la suppongono. Ma non solo la dottrina hegeliana non si trova, in Platone, esposta in una forma filosofica, ma vi gi trova invfce la dottrina contraria, cioè il punto di vif-ta ordinario, secondo cui il pensiero e le cose crstituiscono una dualità irriduttibile di termini radicalmente diff'erenti e irreconciliabilmente opposti. La dottrina che il pcLsiero, nella conoscenza filosofica, s'ident'fica col suo oggetto, implica quella che le Idee sono pensieri. Se le Idee non fofsero pensieri per se stesse, esse non potreblero divenire pensieri nostri, juando entrano nella stVra della nostra conoscenza. Ma le Idee di Platone, a diflerenza di quelle di Hegel, sono delle entità puramente obbiettive. Esse non sono che le cose stesse, considerate nel loro elemento sostanz'ale, cioè spogliate di tutto ciò che Platone riguarda, nell'essere, come accidentale L'Idea d'una cosa è Veasenza di questa cosa, e le Idee in generale sono anche chiamate gli esseri e le cose. Il movimento, lo stato, Vesserey ecc. significa l'Idea del movimento, dello stato, V. carte dell'essere, ecc.; le entità d'^l Tispa^ e dell' àTistpov del i^t7e6o elementi delle Idee euniversali sostantificati GRICE SOSTANTIFICAZIONE come le Idee stesse sono le une il più caldo e il più freddo, il più secco e il piì umido, il forte e il piano, il grave e y acuto, ecc., le altre V eguale, il doppio, ecc., e le cose risultano dalla loro mescolanza; la Beltà che l'anima ha intuito, quando era in compagnia degli Dei, è questa stessa beltà che ora percepiamo con la vista (3ì; ridea del bene è identificata colla felicità degli esseri viventi, e chiamata L’OTTIMO PARETO negli esseri e il più felice ddVessere. Certamente le Idee non sono le cose che trasfigurate; ma i processi per trasformare le cose in Idee le lasciano, quali erano, dei semplici oggetti, non ne fanno dei pensieri. Il primo di questi processi è l'astrazione GRICE HORSENESS. L'Idea dell'uomo è un uomo astratto o indeterminato, cioè avente gli attributi comuni a tutta la specie, ma senza le particolarità proprie di uno o di alcuni individui. Per 'ttenore quest'Idea basta perciò di separare xwpt^^eiv in un uomo ciò che è comune con tutti gli altri uomini da ciò de non lo è: il risultato di questa separazione si chiama l’uomo, senz'altro, o, per far comprendere che ron si tratta di un uomo determinato, ma dell'uomo indeterminato o astratto, l'uomo stesso aOióc, l'uomo .s/fs.<fo p<r se stesso aOxòg xaO'aOxóv, ciò che è S eoTv uomo, l'uomo separabile xwpioTÓ?, ecc. Il NOME uomo designa propriamente quest'uomo astratto, od è esso il vero oggetto della defini carte zìoae deiruomo; il norrìe e la definizione non s’applicano a^li uomini individui, che perchè sono delle particolarizzazioni o delle determinazioni dell'uomo inaeterminato. L'Id^^a non è dunque che un astratto (cioè, conie dice Taine, un estratto, una porzione, di un oggetto concreto, considerato come esÌ5»tente per se stesso: essa non è propriamente, come suoi dirsi, il concetto, ma l'oggetto del concetto – the concept of a horse is not a horse, realizzato; il suo contenuto è quello stesso del concetto, ma questo contenuto che nel concetto esiste sotto la forma del pensiero, in essa esiste sotto quella della realtà, deirobbiettività. É perchè le Idee platoniche sono Tobbiettivazione delle «strazioni, cioè dei contenuti dei concetti, e niente di più, che Platone può esprimere compendiosamente la sua dottrina, affermando che l'astratto è reale p. e., come dice nel Fedone, che il giusto, il buono, il bello è qualche cosa, o, come dice nel Timeo, che gli slòri intelligibili delle cose esistono realmente e non sono dei semplici nomi. L'altro processo per trasformare le cose in Idee è la generalizzazione. L'Idea deiruomo non è solamente T uomo astratto, ma è anche l'uomo universale, e la sua antitesi è qualchenomo, eì molti nomini singolari. Per noi dì universale, come di astratto, non vi hanno che dei nomi, e per il concettualista, che dei pensieri; ma gli universali di Platone sono degli universali in re, e semplicemente in re: sono le specie e i generi, ciò a cui si applica la dieresi; e il contrario e il letto Idee, in opposizione ai contrari e ai letti particolari, V. Suppl. Sappi. vengono chiamati il contrario e il letto nella natura. Ciascuno di questi universali essendo, non la totalità degli individui d'uoa classa, ma una sostanza unica che rappresenta questa totalità, il processo di generalizzazione per cui dalle cose si giunge alle Idee, è un processo di unificazione. Esso si chiama o'jvaYoiyi^, cioè riunione, riduzione del multiplo alTuno; e consiste a sostituire, per eia cuna classe, un individuo unico – the one at a time grasshopper – one at a time sailor -- alla moltitudine degl'individui offerti dall'esperienza, riguardandolo come la vera realtà, di cui questi sono il fenomeno. É quanto basta per ottenere l'Idea platonicaben inteso che questo proces-o di unificazione suppone già quello di aFtraz'one, cioè la elim-nazione di tutte le particolarità che differenziano il multiplo: cosi, per esprimere la dottrina delle Idee, Platone dice: uno è il bello, uno é il giusto, ecc.; o dopo aver detto che vi hanno molti belli, molti buoni, ecc. che ciò che si è posto come molti sì deve porre nuovamente come uno il bello stesso, il buono stesso, ecc. Questo è dunque l'Idea platonica, considerata in se stessa: un individuo astratto, a cui si riduce la moltitudine degl'individui di ciascuna class'», e per rappresentarsi il quale si fa astrazione da tutto ciò che non è comune a tutti gì' [HAIRY-COATED] individui. Per completare la dottrina, non si ha che ad aggiungere la relazione tra quest'individuo astratto – THE ALTOGETHER SAILOR --- e grindividui concreti cioè ad aggiungerla espressamente, perchè essa è data implicitamente nella auvaYWYr^. Questa relazione V. carte è espressa compendiosaraente nella formula V uno nei molti, e designata dai termìai temici napojjta e|xiOsgig . L'Idea è il comune – THE MEAN MR MUSTARD --, ciò chi si predìca di tutti i singolari come uno e Jo stesso in tutti, ciò per la cui presema o partecipazione le erse sono ciò che hi dicono esspre belli per la presenza o partecipazione dell'Idea del bello, uomini, dell'Idea dell 'uomo, ecc., e che per questa sua presenza o partecipazione in comune è la causa agli oggetti simili dell'esser simili. La grandezza che è in tutti gli oggetti grandi, la bellezza che è in tutti gli oggetti belli, ecc., è una sola e stessa grandezza, una sola e stessa bellezzi, ecc., e queste sono le Idee del grande, del bello, ecc.; l'Idea della figura è la figura che é la stessa in tutte le figure; V 1" dea del simulacro è il simulacro unico che è in tutti i simulacri. Tutte queste proposizioni e le altre simili non dicono in sostanza se non che 1'astratto è uno di numero; che gli astratti, che si possono isolare nei diversi individui d'una classe, per la soppressione dei caratteri particolari e la conservazione dei soli attributi generali, non sono semplicemente eguali, ma identici; che non sono molti e distinti fra di loro, ma si risolvono in un essere unico. In un solo individuo astratto, che si ritrova, uno e lo stesso, in tutti gl'individui concreti. Noi possiamo dunque cosi definire 1' carta idea platonica: un individuo astratto cioè non avente che i caratteri generali della classe, che è presente simultaneamente in tutti gl'indiNÌdui, e che, per quef-ta Fua presccza simultarea in molt% pare molti ceso stesso, benché in realtà mn sia che uno. Quando i due processi per trasformare le cose in Idee si applicano alle cose considerate nella loro successione, si ha la determinazione deiridea come ciò che vi ha di costante e di perpetuo nella natura. Con le Idee sono descritte come degli oggetti etorni e immutabili, e opposte alle cose che nascono e periscono, e non sono mai ma ontinuamente divengono. Ciò vuol dire che l'Idea e l'elemento permanente del divenire, che nel flusso continuo dei fenomeni le Specie sono stabili, che 1'individuo astratto si ritrova, sempre uno e lo stesso, nella sucessione degV individui concreti; e a questo punto di vista la dottrina delle Idee è espressa dalla propos'zione che la forma di ciascuno degli esseri cioè di ciascuna specie di esseri é sempre la stessa eadem nnmero. Se si fa astrazione dalla loro inerenza nelle cose, si ha il concetto delle Idee come paradigmi – GRICE FLEW PARADIGM CASE ARGUMENT FREE WILL URMSON -- , cioè come modelli a cui la natura si conforma costantemente nelle sue produzioni. E Taspitto, il più appariscente, della dottrina delle Idee, a cui si ferma l'interprete irascendentalista, ed é co:i che sovratutto sono presentate da Aristotile – GRICE CODE IZZING HAZZING ARISTOTELIANISM PLATONISM -- . Ma che le Idee siano dei semplici oggetti, è altrettanto evidente quando si tiene conto delia loro immanenza m. ai9 nelle cose che quando se ne fa astrazione: nel pn'mo caso sono un elemento delle cose, o piuttosto le cose stesse considerate astrattamente; nel secondo, ne sono i duplicati. Secondo Aristotile, le Idee non dift'eriscono dalle cose che per la loro eternità; sono dei sensibili eterni, come gli dei del volgare sono degli uomini eterni. La loro essenza non differisce da quella delle cose; nelle une e n^lle altre il concetto è uno e lo stesso. Le fanno i platonici della stessa specie che 1 sensibili; non fanno che aggiurgere la parola aùió. Cosi, per significare che i platonici non ammettono una Idea della casa, Aristotile dee che non vi ha, secondo essi, uca casa oltre Tiapa le case particolari; e obbietta che, secondo i loro principii, si dovrà ammettere UN TERZO UOMO oltre V ucmo sensibile e T uomo ideale, e che, come vi hanno delle entità intermediarie per le grandezze e pei numeri, vi sarà un altro cielo oltre il cielo sensibile e altri animali medi fra gli an' Le Idee dei generi, e specialmente dei due generi supremi l'Uno e la Dualità indefinita, sono chiamate elemuuti detjli esseri. Met. Un altro carattere differenziale è l'immobilità: cosi, secondo il primo luogo citato, Id entità matematiche differiscono dai sensibili perchè eterne ed immobili come le Idae, dalli liee perchè ve ne hanno molte della stessa spacie. Ma probabilmente Aristotile riguarda l'immobilità come data implicitamente nell'eternità perchè la eternità delle Idee platoniche è l'assenza della condizione del tempo. Met, Eth. Xic. Met. li' mali stessi e gli animali corruttibili Nel periodo pitagoreggiaiite si flggiunf:e una nuova astrazione a quella per cui si ottiene )1 concetto geneja'e o piuttosto il contenuto di questo concetto; si sopprime, cioè, la materia, e si fa dell'Idra una semplice foima. Questo teryo processo per ottenere Tld a ci mostra d'una maniera ancora più evideLtc ch'essa ncn è che un'entità puramente obbiettiva. La foima infatti non esiste altrove che nella materia; e in efiTetto noi sappiamo dal Timeo e da Aristotile che ciò che partecipa alle Idee è la materia, che es.'-a è il loro substratum o il soggetto di cui si predicano –GRICE CORRELAZIONE R CORRELAZIONE D – concetto di verita, e che l'individuo è un composto della materia e de'l'Idea; e siccome la materia per Platine è identica allo spaz'o, Arisvtile ne inferisce anche che le Idee s'ovrcbbiro essrre nello spfz'o. Senza dubb'o, se Platone amnwttesse la dottrina dell'identità dell'essere e del pen»ievo, nonholo le Idee, ma anche le cose fu lumeijali dovr^bbeio essere per lui dei pensieri. E allora, astraendo il comune dalle cose, unificandolo, contemplando queste cose sub specie aeternifatis GRICE TIMELESS -- secondo il concetto d'Aristoii'e the le Idee sono dei sensib li eterni, separando le loro forme dalla materia, siccome le cose sarebbero anche dei pensieri, se ne tirerebbero, non del semplici o\^^eW, ma degli oggetti che sarebbero al u mpo stesso dei pensieri. Ma siccome Piatone no i dice mai che le cose sono anche dei pensieri, e gli u >mini pensano generalmente che non sono che delie cose, noi dobbiamo ammettere ch'e Met, -gli divide, su questo soggetto, il punto di vista comune; e perciò che Tldea platonica, tirata dalle cose mediante i processi che abbiamo indicati, non è un oggetto che é al tempo slesso un jensiero, ma un semplice oggetto, che non si distingue dagli nini, quali gli uomini abitualmente se li rappresentano, che perchè è astratto, unico nella sua specie, eterno, e una semplice forma senza materia. Altre prove della semplice obbiettività delle Idee si avranno, esaminando le determinazioni che loro vengono attribuite per se stesse, o anche nel loro rapporto con le cose, ma indipendentemente del processo per cui il loro concetto e ricavato da quello delle cose. Le Idee sono per Platone V essere o gli esseìH, e Aristotile le chiama continuamente sostanze. Questa sostanzialità si vede altrettanto dagli attributi delle sostanze sensibili che vengono loro negati p. e. quando Platone le chiama l'essenza senza colore, senza figura, impalpabile, o quando Aristotile e gli amici delle Idee del Sb/?s^a pretendono che Fono assolutamente immobili e prive della facoltà di agire e di patire, che da quelli che vengono loro conservati p. e. quando Platone afferma, Met. Nella Met. le chiama le sostanze immobili; ed obbietta che, nell'ipotesi delle Idee, in una sostanza vi saranno più sostanze perchè una cosa o un'Idea partecipa a più Idee Fedro 2Alc. fi contro rinterpretazione degli amici delle Idee, che l’essere vero pensa, vive, ha un'anima e si muove. Essa si vede pure dal loro rapporto con le cose rie Idee sodo la realtà, e le cose le immagini e le apparenze; eia parusia è assimilata alla presenza di una sostanza materiale in un'altra. Nel periodo pitagoreggiante le Idee sono identificate ai numeri che certamente sono degli oggetti, per quanto 1'antitesi tra soggetto ed oggetto può applicarsi a delle astrazioni; e composte di forma e di materia come le cose. Insieme a queste determinaz'oni e ale alire che ci mostrano le Idee come semplici oggetti, non ne incontriamo alcuna che ce le mostri erme pensieri. Cosi, siccome al punto di vista comune che d'altronde è il solo intelligibile l'essere un oggetto è incompatibile con 1'essere un pensiero, non trovando mai in Platone una proposzione che, in un caso particolare o come priifcipio generale, escluda questa incompatibilità, noi dobbiamo ammettere ch'essa esiste anche per lui, e vedere nelle determinazioni delle Idee come degli ogg« fi la negazione implcita della dottrina che sono dei pensieri. Noi non possiamo immaginare altra prova più completa delie precedenti che una proposizione in cui Platone nega espressamente la dottrina dell’identità dell'essere e del pensiero. E ciò ch'egli avrebbe certamente fatto. E d'altronde questi numeri a cui s'identificano le Idee, sono essi stessi identificati ai punti che sono i termini delle grandezze, e considerati come gli elementi costitutivi di queste. carte. 'i; 'f'^^vr^f^-^f --^p-r ee fosFe venuto dopo Hegel. Ma siccome Platone, e chicchessia alla sua epoca, ignora che, fra le pseudo-idee che avrebbero immaginato 1 met. fisici, vi sarebbe stata ridentità deiressere e del pensiero, sarebbe assurdo di cercare in lui questa prova assolutamente completa. E non per tanto noi troviairo nel 7V?rwiew/c?e qualche cosa che vi si avvicina. E la confuta2ione del'a proposizione di Socrate, quando questi, battuto dalle obbiezioni del filosofo di VELIA contro la partecipazione, abbandona la realtà degli universali, e fa la supposizione che le specie non sono che dei pensieri, e vov possono esistere altrove che nelle anime queste parole dimostrano che la supposizione di Socrate non è l'identità dell'essere e del pensiero, ma semplicemente il ccncettualismo. Che dunque V, dice Parmenide di VELIA, ciascuno di questi pensieri è uno, ma è il pensiero di niente? Ciò è impossibile E il pensiero di qualche cosa? Si Di qualche cosa che esiste o che non esiste? --IL RE DI FRANCIA GRICE PEGASUS MEINONG JUNGLE Che esiste Non è di qualche cosa d’uno, che questo pensiero pensa in tutti gli oggetti, come una certa forma reale? Si E non sarà una Specie GRICE SPECIFY PERPISCUOUS questa qualche cosa che si pensa essere una, essendo sempre la stessa in tutti gli oggetti? Anche questo sembra necessario Ma che? non è necessario, poiché le altre cose partecipano alle Specie, o che ogni cosa consti di pensieri e tutto pensi, o che le cose non pensino essendo dei pensieri? Le proposizione non significano essendo dei significati CUMMINS» In questo luogo abbiamo la propos'zione che le cose sono dei pensieri o, ciò che è lo stesso, constano di pensieri presentata come una assurdità, perchè implicante o che tutte le cose pensino, o che non pensino mentre sono dei pensieri; e considerata pure come assurda, perchè conducente a questa proposizioue, quella non formulata esplicitamente, ma sottii'tesa nel ragionamento di Parmenide VELIA che le Specie, essendo dei pensieri, sono al tempo stesso Vuno nei molti negli oggetti reali; e quindi anche la supposizione di Socrate, da cui essa è dedotta, che le Specie sono dei pensieri. Che fa infatti Parmenide di VELIA? Dimostra a Socrate che la proposizione che 1 concettualisti oppongono alla teoria delle Idee, cioè che esse sono dei pensieri siccome un pensiero generale ha per oggetto secondo la mariera di argomentare abituale a Platone un essere generale implica, quantunque il concettualista non lo comprenda, che questi pensieri, a cui egli pretende ridurre gli universali, devono essere al tempo stesso degli universali in re; donde la conseguenza assurda che tutto il reale si ribclve in pensieri, e quindi ciò che mostra più palpabilmente la sua assurdità che le cose o pensano, o sono prive del pensiero essendo pensieri. L'interprete che attribuisce a Platone l'identità dell'essere e del pensiero, alla prova schiacciante contro la sua interpretazione ccntenuta in questo luogo del Parmenide di VELIA, non potrebbe dare che una risposta: cioè che in questo dialrgo Platone o meglio, l'interlocutore che rappresenta il suo pensiero, cioè Parmenide di VELIA mostra che l'ipotesi delle Idee e tutte le supposizioni che possono farsi sul rapporto tra le Idee e le cose, fra cui quella che l'Idea è Vuno nei molti eh' egli ammette in tutti i suoi scritti, conducono o sembrano condurre a delle conseguenze assurde, e non pertanto ^gli mantiene tanto la dottrina delle Idee quando quella che un’Idea è presente simultaneancnte, una e la f-t'ssa, in tutti gli individui della specie; cosi egli potrebbe mantenere anche la dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, quantunque mostri che anche da questa derivano o piuttosto sembrano derivare delle assurdità. Ma vi ha fra i due casi Tiiia diffneiza ìmyortaite. Noi dobbiamo guardarci dal credei e che le obbiezioni di PartneDide di VELIA contro le Idee abbiano per Platone lo ^trsso valore logico che vi troviamo noi stessi. L'obbiezioi e contro la partecipazione, per noi, è petfettàmente concludente, mentre quella del luogo di cui ora parliamo, contro la proposizione concettualista di Socrate, è patentemente sofistica, perchè le assurdità che si pretende far derivare da questa proposizione, non ne derivano che animrssa la validità dei soliti argomenti di Platone per dimostrare resistenza delle Idee. Ma tul valore di queste due obbiezioni Platone dove pensale precisamente il contrario di ne i. La prima, come tutte le altre dirette contro le Idee concepite secondo il sistema realista rreno forse quella che scmbia dirij:ere contro l'interpretazione irayc(7id(niolista della sua dottrina, dove parere a Platone necepsariamentc sofistica, poiché egli mantiene, malgrado essa, il suo realismo senza dubbio egli dove considerarla come fondata sovra una concezione inesatta delle Idee e del loro rapporto con le cose, per cui si pretende, avrebbe forse detto come Cartesio, immaginare ciò che non sì può se non intendere; la seconda invece dove parergli Tunica fra tutte meno forse Teccezone di cui sopra che fosse concludente, poiché l'impiega, come l'arma più forte di cui potesse avvalerci, e ntro la negazione dei suoi oppositori, cioè il concettualismo. L'assurdo a cui Parmenide di VELIA riduce la supposizione di Socrate, era dunque ij i. per Platone realm^ìnt^. un assurdo; e il seguace dell'iaterpreta/.ioue hegelia la gli attribuisce una dottrina ch'egli ha condannata, nel modo più esplicito possibile in cui un filosofo possa condantiare una dottrina che gli è sconosciuta. Veniamo ora al pun'o che è direttamente in quis'ione, cioè alla dottrina, non dell'identità dell'essere e dol pensiero, ma dell' identità dell' e^^sere e del nostro pensiero, dell'oorgeto conosciuto le Idee e della conoscenza. Quand'anche il segnncc dell'interpretazione hegeliana potesse provare che Platone ha ammesso la prima dottrina, egli non proveribbe ancora che ha affimi sso la seconia: al contrario, provando che non ha ammesso quella, si è provato pure che non ha ammesso questa, (ssendo evidente, come abbiamo not^ìto, che se le Idee non sono per se stesse dei pensieri, non possono divenire dei nostri pen^^ieri. Ma alle prove precedenti che, dimostrando che le Idee non sono per Platone che dei semplici oggetti, dimostrano pure indiret'amente che per lui non può esservi identità fra la conoscenza e l'oggetto conosciuto, noi possiamo aggiungere delle pròve dirette. Vi ha prima di tutto la prova negativa, cioè l'assenza di proposizioni in cui Platone affermi apertamente quest'identità; e a questo riguardo sono notevoli i luoghi in cui parla dei caratteri che distinguono la scienza dall'opinione, poche quest' identtà, se 1'avesse ammessa, sarebbe stata certamente uno di questi caratteri, la presenza immediata dell'oggetto al soggetto conoscente essendo necessariamente per lo spirito uma V. Sappi. B carte specialmente Meno. e Tim. . / li : I. no il tipo supremo della certezza. Tra le prove positive daremo il primo posto ai luoghi numerosi in cui Platone riguarda evidentemente come farebbe chiunque altro tranne un h'^geliano la conoscenza e l'oggetto conosciuto come due cose affatto distinte e separate. G. cita quelli che li sembrano più importanti. Sulla fine del Cratilo dice .^,he, se tutto diviene, il bello slensoj il buono s'esso, ecc. non potranno essere conosciuti da alcuno, perché, mentre la potenza conoscitiva tenterebbe di a^mgerli, essi diverrebbero altri difficoltà che non potrebbe aver luogo nella dottrina delTidentiià; e mostra che, neiripotesi di Eraclito, non vi sarà né il conoscente cioè la conoscenza né il conosciuto due cose distinte. Nel Filebo la distinzione tra la conoscenza e l'oggetto conosciuto é affermata quando dice che 1'intelligenza e la saggezza non consistono che nelle conoscenze intorno all'essere reale le Idee Tiepl xò òv ovitog, perchè intorno a ciò che non ha alcuna stabilità il diveirre coTie potrebbe esservi in noi qualche cosa di stabile?», ma Io stabile, il puro, il vero, il sincero, GRICE IL CIRCOLO non può aver luogo in noi che intorno a ciò che è sempre nello stesso stato, della stessa maniera e senz'alcuna mescolanza. Questa distinzione è affermata pure dove si tratta dei quattro generi in cui gli esseri vengono divisi, poiché 1'intelligenza, cioè la causa, è un quarto genere oltre i tre primi, e si dice espressamente ch'essa è laltra che le Laogo riportato CÒS3 appartenenti agli altri tre generi cioè gli esseri, cose e Idee, e il Tiépa; e l'^Tisipov che ne sono gli elementi. Nella Repubblica a la scienza e il suo o2:s:etto sono n'o-iarlati come due cose diverse e correlative, come la sete e la bevanda, la fame e il cibo, il maggiore e il miuore, il doppio e la metà, il più veloce e il pili tardo, ecc.; e si nega che la scienza e in generale un correlativo sia tale quale è l’oggetto a cui si riferisce, p. e. che la scienza del salubre e delTinsalubre sia essa stessa s«lub e e insalubre, e quella del buono e del cattivo buona e cattiva mentre è evidente vlie, nell'ipotesi dell'identità della conoscenza col suo oggetto, la scienza del salubre, essendo il salubre stesso, non potrebbe non essere salubre, e cosi pure quella del buono buona, ecc. Nel Carmide Socrate obbietta al suo interlocutore che la scienza è dì qualche offffetto, che è altro che la scienza stessa, p. e. la logistica è del pari e dell'impari, che sono altri che la logistica, la statica del grave e del leggiero, che sono altri che la statica; e gli dimostra che non è possibile una scienza che abbia se stessa per oggetto intanto, se la conoscenza fosse identica all'oggetto conosciuto, la conseguenza necessaria sarebbe che la scienza non avrebbe per oggetto che se stessa. La scienza, dice Socrate per dimostrare quest'impassibilità, è relativa a 0)Sappi. carta Luogo riportato, in parte, a caria L qualche cosa, come il mag^gìore è relativo al minore, Il doppio alla metà, il piti al meno, il più grave al più leggiero, ecc. proposizione che g'k incontrammo nel luogo della Repubblica cosi una scienza che avrebbe se stessa per oggetto sarebbe come un maggiore che fosse maggiore di se stesso, un doppio che fosse il doppio di se stesso, un p'ù che fosse p'ù che se scesso, ecc., con le conseguenze contraddittorie implicate in ciascuna di queste ipotesi. Essa sarebbe pure, aggiunge Sccrate, com’^. una vìpta che vedrebbe se stes^a e come un udito che udrebbe se stesso, ciò che supporrebbe che la vista avrebbe colore e l'udito avrebbe voce confutazione che converrebbe perfettamente alla dottrina deiridentità della conoscenza e dell'oggetto conosciuto, perchè secondo questa la conoscenza racchiuderebbe in se stessa il suo oggetto, come, nelle comparazioni di Platone, Tudiro la voce e la vista il colore. Si dirà che il Carmide non ha uno scopo dommatico, ma è un semplice esercizio dialetiico; ma Platone non dinbbe, anche in un esercizio dialettico, delle preposizioni in contraddizione colle proprie dottrina. Nel Sofista lo straniero di VELIA che in questo dialogo rappresenta le dottrine dolTautore stabilisce, contro gli amici delle Specie che il conoscere è un'azione, e Pesser conosciuto una passione, e per conseguenza un movimento questo conosciuto che, come tale, subisce uaa passione e un movimenta, è la essenza^ cioè le Idee: ciò importa, primo, la distinzione fra i due termini antitetici, l'ageote, cioè lo spirito che conosce, e il paziente, cioè le Idee che sono conosciute; e secondo, che la conoscenza dellcs I lee è uà cangiae ha luogo quindi nel tempo, mentre essa, secondo la dottrina che si vorrebbe attribuire a Platone, essendo identica al suo oggetto, dovrebbe essere etrrna cioè fuori del tempo come quest'oggetto sfesso. Nel Tteteto i pensieri sono rappresentati come delle effigie degli oggetti su tavolette di cera esistenti nelle anime, e fra queste effigie vi sono quelle del cinque HiessOy del sette stesso, del dodici stesso, e in generale dei numeri astratti che, secondo i principii di Platone, non possono essere che delle Idee, o almeno delle entità matematiche queste, nel periodo pitagoreggìante, si distinguono dalle Idee, ma non sono in sostanza che Idee come le altre, e non differiscono dalle altre che perchè non se ne fanno dei numeri ideali. Questa rappresentazione implica evidentemente il concetto che il pensiero, anche quando ha per oggetto le Idee, lungi d'identificarsi con la cona pensata, ne è una semplice immagine O FANTASMA GRICE DE INTERPRETATIONE. L'esteriorità delle Idee al nostro pensiero è provata pure dalle espressioni, cosi fiequenti sovratutto nella Repubblica che nel senso proprio denotano la percezione visuale -- IDEA, VIDEOR, VISVM --, ma che Platone impiega per designare la conoscenza delle Idee – I SEE HORSENESS; p. e. vedere il bello in se steFSo Rep, rivolgere V ott'mo nell'anima allo spettacolo dell'ottimo negli esseri cioè dell'Idea del bene lò., dirigrrein su l'occhio dell'anima – HUMPTY DUMPTY BETTER EYES THAN MOST -- e guardare ciò che dà la luce a tutte le cose cioè ancora l'Idea del bene, ecc. Quand'anche queste Rep Conv Fedo. Sof, Meno, Crai, FiU, Tim, eco. espressioni volessero inteadersi come indicanti la prsenza immediata delle Idee al pensiero come, secondo la credenza naturale, l'oggetto percepito è presente immediatamrnte a'ia percezione sensibile dottrina che non possiamo attribuire a Platone che quando si tratta della conoscenza primitiva delle Idee in una vita anteriore, resterebbe sempre la distinzione tra lo spirito conoscente e le Idee conosciute, perchè la percezione sensibile, sia secondo il concetto del volgare sia secondo quello del filosofo, implica la dualità di soggetto ed oggetto come due termini opposti e al di fuori Tuno dell'altro. Un'altra prova della distinzione fra il pensiero e la conoscenza dell'Idea e l'Idea stessi sono gli argomenti p<»r dimostrare l'esistenza delle Idee, tirati dalla scienza e dal concetto. Questi argomenti suppongono che l'Idea è l'oggetto a cui si riferisce la conoscenza scientifica e il concetto, comi le cose particolari sono l'oggetto a cui si riferiscono le coio^cenz^ e i pensieri particolari: da ciò che il concetto e la conoscenza scientifica si riferiscono a qualche cosa di astratto e generale, se ne conclude che vi hanno delle entità astratte e generali. Se Platone ammettesse che il nostro pensiero s'identifica con le Idee, la sua argomentazione, evidentemente, dovrebbe essere condotta altrimenti: egli dovrebbe sovratutto fermare, come base della sua argo V. Sappi. B, n. Ili, carte. Aristotil3 obbietta ad uqo di qaesti argomenti sembra, il secondo riportato a carta 18j ch3 sesoado esi^oyi dovrebbero essere Idee anche delle cose paribili cioè digl'ialivldai, perchò di qaeste esiste ancora un a>i(asma cioè un'immagine nella nostra mente dopo che Q^iò sono parile, V. Mit, lmentazìone, il principio che il pensiero è identico air essere; stabilito questo principio, dall'esistenza di pensieri astratti e generali che è stata sempre considerata come un fatto di coscienza ne seguirebbe naturalmente quella di esseri astratti e generali. E noi vediamo infatti in Hegel che la dottrina che è messa in rilievo non è che l'identità dell'essere e del pensiero: la realtà degli universali quantunque non abbia per lui meno importanza non è stabilita espressamente, ma data implicitamente in questa dottrina; e a molti parrà forse un paradosso che Hegel sia un realista. Aggiungiamo infine che l'identità del nostro pensiero con le Idee sarebbe incompatibile con certe proposizioni di Platone, quantunque non implichino, come le precedenti, la distinzione tra il pensiero e il suo oggetto. Tali sono: La composizione dell'anima dai due elementi nel Timeo essa ha per iscopo di spiegare la possibilità della, conoscenza cioè in sostanza la coincidenza tra il pensiero e la realtà, e sarebbe quindi un'ipotesi completamente inutile data l'identità del pensiero col suo oggetto. Il principio ammesso nel Fedone che l'anima, come ogni altra cosa, non può accogliere in sé le Idee opposte, mentre, nella dottrina dell'identità dell'essere e del pensiero, essa comprenderebbe necessariamente tutti i contrari. La dottrina del Timeo e delle Leggi che il pensiero é un movimento e si tratta il più spesso del nous, il cui oggetto sono le Idee essa implica che il pensiero, a V. Tim. e Sappi. C, carte ( Fedo.. V. Sappi. lì, carte Leggi Tim. Arist. De an. vente per oggetto le Idee, è un semplice fenomeno, che si svolge nel tempo; mentre, neiripotesi delPidentitàdel pensiero con l'essere, il pensiero il vero pensiero, cioè quello che ha per oggetto le Idee è un'Idea che comprende ia se tutte le altre, e, per conseguenza, eterna come le altre. Ricordiamo pure la proposizione del Teeteto che IL PENSIERO E UN DISCORSO DELL’ANIMA CON SE STESSA essa è incompatibile con l'identità dell'essere e dtl pensiero per la stessa ragione che la dottrina precedente. Tra le prove contro l'identità deir essese e del pensiero cioè del nostro pensiero non contiamo l'intuizione delle Idee in una vita anteriore e la reminiscenza, perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana direbbe che sono dei semplici 7niti\ che noi prendiamo a torto per dottrine reali. Ora, che cosa può opporre quest'interprete alle prove precedenti? Nessuna afiTermazione esplicita di Platone, ma solo delle proposizioni che, interpretate più o meno forzatamente, possono riguardarsi come delle allusioni alla dottrina ch'egli pretende attribuirgli. Cosi il luogo della Repubblica in cui si dice che per conoscere la vera natura dell'anima bisogna guardare alla sua yfZoso/?a, significherà, secondo lui, che se si vuol riconoscere rfssenza dell'anima e sollevarsi dalla sua temporanea e mortale manifestazione, si deve filosofare, poiché la filosofia sola ha per oggetto 1'eterno, il mondo ideale, che è identico alla natura dell'anima. Il }ur>go del Timeo, che ci esorta a rendere simile Tintelligenza air intelligibile, per conseguire il fine della vita più perfetta propostaci dagli dei, vorià dire che il fine ultimo dello sviluppo dello spirito e di tutto V es. TeiohmiiUer Quistione platonica Ma Platone non dice che l'essenza dell'anima consiste nella filosofia, ma sempUcemente che qaesta ci dà un indizio di ciò che l'auiina è nella sua vera natura, cioè nella sua parte eterna il XoYlOTlVwóVi sciolta dall'unione con con le due parti inferiori e ritornata all'eccellenza del suo stato originario quando contemplavate Idee in compagnia degli dei. Ecco il luogo in quistione: Né crederemo che tale sia l'anima nella sua verissima natura da aver molta varietà e dissomiglianza e differenza con se stessa cioè che sia un comporto di parti eterogenee e non qualche cosa di semplice. Non è facile che sia eterno il composto di molti né formato della più bella composizione, come ora ci apparve l'anima che ha mostrato composta di tre parti – THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL --, che hanno fra di loro tendenze contrarie. La detta ragione la prova precedente dell'immortalità e le altre provano che l'anima è immortale. Ma per conoscere quale essa sia nella verità, non si deve guardarla deformata dalla comunione col corpo e cogl’altri mah, quale ora la vediamo; ma quale è, divenata pura cioè liberata dal corpo e dalle due parti inferiori, e dagli altri mali che derivano dalla comunione con essi, tale bisogni guardarla diligentemente colla ragione; e allora si trova molto più bella, e si conosce più chiaramente la giustizia e tutte le altre cose di cui abbiamo parlato. Ora abbiamo detto la verità intorno ad essa, ma quale appare nel presente. Come quelli che vedessero il marino Glauco difficilmente potrebbero riconoscere la sua antica natura, perchè l’antiche parti del suo corpo sono state le une spezzate, l’altre corrose e totalmente sfigurate dalle onde, e ne sono formate delle nuove di conchiglie, d'alghe e di sassi – cf GRICE WIGGINS THESEUS --, sicché più somiglia a una fiera anziché parer tale quale era per natura; cosi noi vediamo l'anima sfigurata da mali innumerevoli. Ma ciò a cui bisogna guardare, o Glaucone, è la sua filosofia cioè il suo amore del sapere; bisogna considerare quali cose e-jsa attinge, di quali cose ricerca il commercio, come quella che è affine al divino, immortale e sempre essente cioè alle Idee questa affinità dell'anima, cioè della parte razionale che è la sua vera na sere sta oeir identifìcazione del soggetto e dell'oggetto OBBLE, che ha luogo nella conoscenza filosofica. Nella morte filosofica del Fedone, per cui l’anima si distacca, per tura, coll’idee, proverebbe, come nel Fedone la sua semplicità, e quale diverrebbe datasi tutta a perseguire un tale oggetto tutta, perchè si è separata dalle due parti inferiori, ed elevata per questo slancio dal pelago in cui ora è immersa, e scossi i ciottoli e le conchiglie, che ora ha d'attorno molte e rudi e piene di terra e di sassi, come quella che si pasce di terra nei conviti chiamati felici la filosofia ci fa presentire quale diverrebbe 1'anima, ridotta alla sola parte razionale che è la vera essenzza dell'anima, che degl’accidenti transitorie datasi tutta quanta alla contemplazione dell’idee, come nella sua antica natura cioè nello stato originario da cni è decaduta. E allora potrebbe vedersi la vera natura d’essa, e se sia multiforme cioè composta o uniforme semplice ed in qual guisa essa stia e come Rep. CHIAPELLI (vedasi), L’interpretazione panteistica di Platone Platone dice. Bisogna correggere lo rivoluzioni che s’operano nella nostra testa GRICE PUTNAM MEANINGS AIN’T IN THE HEAD quelle del XoYtOTtxóv turbate sin dalla nostra nascita, studiando l’armonie e i movimenti dell'universo, e rendere simile égo|iotd)oat ciò che pensa a ciò che è pensato, secondo l'antica natura, e resolo simile, conseguire il fine della vita ottima proposta agl’uomini dagli dei e per il presente e pell'avvenire, Rendere simile è ben altro che rendere identico; ed è inoltre completamente arbitrario di dare al fine di cui parla Platone il significato hegeliano di momento ultimo del processo eterno dell'anima e dell'universo. Prima Timeo ha detto, è vero che chi s’abbandona alle passioni sensuali non può avere che dell’opinioni mortali, e diviene perciò egli stesso, pi^ che è possibile, mortale, ma chi è dedito alla scienza, se consegue la verità, è necessario che abbia pensieri divini e immortali, e per che non perda nessuna parte dell'immortalità, per quanto è possibile alla natura umana di parteciparne. È forse ciò che può trovarsi in tutti gli scritti di Platone di più favorevole all'interpretazione dell'immortalità che vede in essa 1'eternarsi quanto è possibile, dal coi pò, e pensa essa stessa per se stessa gl’esseri stessi per se stessi, si vedrà il vero significato dell'immortalità platonica, cioè il rientrare dell'anima nella sua essenza intima, il suo ritorno all'unità primitiva del soggetto SOBBLE e dell'oggetto OBBLE. Ai luoghi del Convito, in cui è quistione dell'immortalità conseguita pella generazione e pella contemplazione dell' Idea del bello, si da il senso che non vi ha per del pensiero pella sua identificazione col mondo ideale. Ma questa immortalità metaforica, che consiste nell'avere pensieri immortali, non può essere per Platone, per dir cosi, che una giunta alla vera immortalità, e non può escludere questa, insegnata in tutto il dialogo e in questo lufgo stesso, comesi vede dalle ultime parole per il presente e pell’avvenire, Teichmiiller capovolge il vero rapporto tra la morte filosofica e la dottrina dell'immortalità. Egli vede nella seconda un'immagine della prima interpretata come un eternarsi del pensiero e nna identificazione d’esso col suo oggetto, mentre per Platone è la prima che è un'immagine della seconda. La filosofia, dice Platone, ò un esercitarsi a morire o a vivere come se si fosse morto. Che cosa è, infatti, la morte? È il distacco dell'anima dal corpo, in modo che l'anima esista essa stessa per se stessa separatamente dal corpo, e il corpo esso stesso per se stesso separatamente dalla anima. Ora il filosofo distacca, quanto più è possibile, l'anima dal corpo, e aspira a vivere coll'anima sola: infatti egli disdegna i piaceri del corpo, e non prende cura d’esso che per quanto vi è costretto dalla necessità; di più egli non fa gran caso della conoscenza delle cose pegl’organi dei sensi, ma cerca di conoscerle pella sola ragione, contemplando coll'anima stessa per se stessa le cose stesse per se stesse, cioè l’dee L'espressione l’anima stessa per se stessa aOiY) xaO'aOTT^V e l’altre simili che s'incontrano ad ogni tratto dov'è quistione della morte filosofica, siccome aOxò^ xaO'aOxóv nella lingua dell’ACCADEMIA significa l’idee, farebbero pensare al concetto del seguace dell'interpretazione hegeliana, che la morte filosofica è una sopranima altra immortalità che la dialettica, e quella che le è comune eoa tutte l’altre cose, cioè la permanenza dell'idea nel nascere e il perire dell’individui. Senza pressione dell'individualità e un rientrare dell'anima nella sua essenza intima, cioè nella sua idea; l'anima stessa per se stessa che pensa gl’esseri stessi per se stessi vorrebbe dire, secondo questo concetto, che la conoscenza del mondo ideale non compete all'anima come esistenza individuale ma come idea. Mao evidente che queste espressioni nel nostro caso non significano che il dualismo di Platone, cioè la sua dottrina animista: l'anima stessa per se stessa vuol dire l'anima sola, distaccata dal corpo, come il corpo stesso per se stesso vuol dire il corpo solo, separato dall'anima. La morte filosofica non è solo un'immagine dell'immortalità, cioè della vita avvenire, ma è anche una preparazione a questa: essa è intatti una purificazione xaOapot^, e solo le anime che si sono purificate, cioè quelle dei filosofi, saranno ricevute, dopo la loro uscita dal corpo, nel soggiorno degli dei, dove conseguiranno infine ciò che hanno tanto amato quaggiù, vale a dire la sapienza, che non è possibile, pell'ostacolo del corpo, di conseguire in questa vita. Perciò, parlando della morte o catarsi filosofica, Socrate fa l'apologia di se stesso, che non è dolente di morire, ma intraprende con buona speranza il viaggio che gl’è imposto, come quegli che ha l'anima preparata, perchè purificata dalla filosofia. Fedone Convito. Dopo aver detto che il mortale non ottiene l'immortalità che pellla generazione per cui la specie si perpetua, Socrate aggiunge che l'individuo stesso non si conserva che per un processo simile a quello per cui si conserva la specie. Infatti, per tutto il tempo della sua vita, ciascun animale non è mai lo stesso, ma diviene sempre nuovo e sempre perisce e nei peli dubbio, oltre che dei luoghi isolati, il seguace dell'inteipretazione hegeliana potrà anche invocare in suo ape nelle carni e nelle ossa e nel sangue e in una parola in tutto il corpo. Qualche cosa di simile avviene anche nell'anima: l’abitudini, i costumi, l’opinioni, gl’appetiti, i piaceri, i dolori, i timori, le conoscenze medesime non persistono mai gli stessi, ma nascono e periscono; solamente ciò che nasce è simile a ciò che è perito, sicché sembra lo stesso. Cosi si conserva il mortale, non perchè sia sempre assolutamente lo stesso, come il divino, ma perchè il simile si sostituisce sempre al simile. Per questo mezzo il mortale partecipa all'immortalità, e il corpo e tutte l’altre cose; l'immortale altrimenti Secondo il seguace dell'interpretazione hegeliana fra queste altre cose mortali come il corpo bisogna comprendere anche l'anima, perchè questo processo di sostituzione del simile al simile, per cui il mortale si conserva, è applicato da Platone anche all'anima. Ma Platone, che è un animista, cioè ammette una sostanza anima, un substratum, distinta dalle sue modificazioni, non può applicare questo precesso che alle modificazioni dell'anima, ma non al loro substratum: egli non affermerebbe evidentemente che questo si conserva, come il corpo – cf. GRICE PERSONAL IDENTITY – soul/body --, I was hit by a cricket bat -- per un ricambio di sostanza, per cui alle molecole vecchie se ne sostituiscono altre simili. Le parole e lidie le altre cose alludono dunque alle conoscenze, l’abitudini, i costumi, ecc., di cui sopra ha parlato, in una parola alle modificazioni dell'anima, ma non possono alludere all'anima stessa. Ciò è confermato dall’ultime parole l’immortale altrimenti, che devono intendersi come una riserva in favore dell'anima Invece di àGavaTOV S'àXXyj l'immortale altrimenti, Teichmiiller legge àSóvaxov e' àXXir impossibile altrimenti; ma è la prima lezione che si trova in quasi tutti i codici. Poi Socrate dice parlando della contemplazione dell'idea del bello come fine dell'amore che chi guarda il bello con quell'occhio con cui esso è visibile, diviene anch'egli, s’altro uomo mai, immortale. Ciò significa, pel seguace dell'interpretazione hegeliana, che l'immortalità nell’ACCADEMIA consiste nella contempla poggio certe proposizioni costanti di Platone, quali Tafzione del mondo ideale, cioè nell’identificazione dello spirito con esso; e per confermare questo significato, egli potrà anche t'ondarsi sulla proposizione precedente di Socrate che l'amore è il desiderio dell'immortalità, concludendone che, poiché Platone assegna come fine all'amore ora l'immortalità e ora la contemplazione dell'idea, queste due cose per lui devono essere identiche. Ma il desiderio dell'immortalità in cui Platone fa consistere l'amore viene appagato per lui non colla contemplazione dell'idea del bello ma, per quelli che sono fecondi nel corpo, colla generazione – WE’ll make hay when the sun shines, we’ll make love when it rains --, e per quelli che sono fecondi nello spirito, colla perpetuazione del pensiero mediante la tradizione e l'insegnamento, Del resto, dicendo che chi comtempla l'idea del bello diviene immortale, Socrate non afferma che l'immortalità consiste nella contemplazione dell'idea, ma che ne è una conseguenza; e la ragione per cui ne è una conseguenza, basta a provare che l'immortalità di cui si tratta non é che quella insegnata dalla religione: chi guarda l'idea del bello, dice Socrate, siccome si motte in rapporto col vero bello, e non con immagini del bello, partorirà e alimenterà la vera virtù, e non dell’immagini della virtù ANDREIA, e perciò diverrà amico di Dio, e immortale, s’altro uomo mai, anche lui. È vero però che l'immortalità accordata a chi contempla l'idea del bello non può essere l'immortalità nel senso ordinario, perchè questa non è un favore elio dio d spensa a chi gli piace né un premio concesso ai soli virtuosi, ma una necessità inerente alla natura stessa dell'anima –PATER PSYCHE ED EROS EROS E PSYCHE CANOVA -- che deve essere senza cominciamonto e senza fine, perchè né potrebbe, come ogni altra cosa, crearsi o annichilarsi, e nemmeno venire da qualche forma della materia o tramutarsi in essa, essendo radicalmente distinta dalla materia Per quest'immortalità, che è il privilegio di pochi eletti, non possiamo intendere che l'esenzione dalla metempsicosi e la deificazione, che il Fedone promette ai soli filosofi, e il Timeo a tutti gl’uomini che hanno domato le passioni e sono vissuti nella giustizia. GÌ' Indiani chiamano anch'essi immortalità amrita lo stato di felicità NIRVANA a cui giungono i santi perfetti, in cui l'anima è liberata compietamente dal male ed esente da trasmigrazioni susseguenti Colebrooke iSaggi sulla flos. dcijl'Jnd, trad. frane, finità dell’anima coll’idee ch'egli interpreterà per un'identità di natura, e l’immortalità accordata alla Fedone e Rep. Ma. per Platone essa non è invece che una vaga analogia. Nel Fedone i punti di somiglianza dell'anima coll’idee che provano quest'affinità sono che l'anima è invisibile come l’idee, mentre il corpo é visibile. Quando l'anima considera le cose col corpo, cioè per mezzo dei sensi, il corpo la costringe a prendere per oggetto le cose che non sono mai le stesse: allora vaga essa stessa, si conturba e barcolla come ubbriaca, perchè tali sono le cose con cui é in rapporto. Quando invece considera le cose per se stessa (aOxYj xaO'aOxT^v), prende per oggetto ciò che è sempre allo stesso modo (a)oaùxo)g ^X®^)? allora cessa dal vagare, ed è relativamente a quest'oggetto cioè all’idee sempre la stessa e allo stesso modo dei xaxà xaùxà xal (boaùxco^), perchè tali sono le cose con cui è in rapporto; e questo stato dell'anima si chiama intelligenza GRICE HART HOLLOWAY LANGUAGE AND INTELLIGENCE. Dunque Ta^iima somiglia più a ciò che è sempre allo stesso modo cbaa'Jxw^ cioè all’idee, e il corpo a ciò che cangia sempre, Siccome in questo luogo vengono applicate all'anima dell’espressioni che per il solito s'applicano all’idee, aOxYi xaG'aOxr^v, xaxà xaòxot, <boaÓXWg, il seguace dell'interpretazione hegeliana potrà dire che qui l'anima è identificata all’idee, perchè, nella conoscenza filosofica, il soggetto conoscente s'identifica, per Platone, coll'oggetto conosciuto. Ma è evidente che non si tratta d'altro che dell'opposizione, abituale a Platone tra la mutabilità dell'opinione AUSTIN DOXA che ha per oggetto le cose sensibili AUSTEN SENSE AND SENSIBILITY, AQUINO INTELLECT AND INTELLIGIBILITY quelle che l'anima considera col corpo e l’immutabilità della scienza che ha per oggetto l’idee, le cose che l'anima considera per se stessa: l'espressione àsì xaxà xaOxà xal waaÙXWg applicata all'anima significa questa specie d'immutabilità, che ha, secondo Platone, dell'affinità coll'immutabilità assoluta che è propria dell’idee in quanto ad aÙXY] xaO'aOxr^v, n’abbiamo già parlato. Nell'associazione dell’anima col corpo, quella comanda – GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- e questo ubbidisce, Ma é proprio del divino in cui Platone comprende, come sappiamo, l’idee di dominare, e del mortale d’essere dominato. Dunque l'anima somigb a pia al divino, e il corpo al mortale Oltre a questi punti di somiglianza tra l'anima e l’idee, Platone accenna anche a un altro indizio della sola parte razionale, doode coccludrrà che, poiché la ragione è universale o impersonale, l'immortalità appartiene, non all’anima individuale – NARDI PADOVA -- , ma all'essenza comune dell’anima, e eovratutto cei te dottrine erroneamente attribuitegli, quali l'identità di Dio o della ragione coll’idee per dimostrare la quale si serve naturalmente degli stessi argomenti dell'interprete teistico, per quanto non sono incompatibili coll’immanenza dell’idee, la composizione dell'anima da tutte l’dee nel Tìiwifo intendendo pell’isnenza indivisibile e pello sfesso l’idee nella loro totalità, eia proposizione che l'anima è il luogo delle specie, riferitaci dal LIZIO, e attribuita, anche da qualche suo commentatore, ai flaton'ci. Infine, egli potrà avvalersi di certe espressioni del nostro filosofo, che, prese per se sole e interpretate d'una maniera rigidamente letterale, sembrerebbero supporre la dottrina eh' egli pretende atloro affinità: è la tendenza innata dell'anima alla conoscenza dell'universale, cioè dell’idee Fedo. e Rep. Questa indica che è alfine con esse, secondo il principio che il simile si conosce dal simile. Perchè il seguace dell'interpretazione hegeliana trova rosi semplice che, tra le facoltà dell'anima, Ja sola ragione sia universale? Unicamente perchè é la dottrina di Hegel e d’alcuni altri metafisici. È evidente che una ragione universale cioè una e la stessa in tutti gl’uomini è un non senso cosi perfetto che un'immaginazione o una sensibilità o un'emozionalità, ecc. universali. Semplicemente, alcun metafisico non ha mai parlato di queste. Suppl. Filopono ad Arisi, De Atì. fol. K, M, trlbuirgli, quali il termine Xó^ot concetti – GRICE CONCEPTUAL ANALYSIS WOW -- applicato all’idee nel Fedone, la frase dello atesso dialocro, in cui sì dice che noi troviamo l'esssenza cioè acquistiamo la conoscenza dell’idee perché è nostra, e i tsrmini che in senso tecnico indicano la partecipazione degl’oggetti individuali all’idee, impiegati qualche volta per denotare il rapporto che ha con esse il soggetto coaoscente. Ma è evidente che non sono queste le vere ragioni su cui si fonda la sua interpretazione. La vera ragione è che egli ritiene che un sistema come quello di Platone non si comprende che, in cui questo luogo è riportato per intero. S’esistono il bello, il buono – IL CERCHIO -- e ogni essenza tale, e ad essa riferiamo gl’oggetti percepiti dai sensi, ad essa che prima c’era presente e che ritroviamo essendo nostra OTiap^ODaav TipÓTSpov àvsopCoxovTS^ if]]Ji£X&pav 0^5aav. La nostra anima esiste prima della nostra nascita. Naturalmente la frase in quistione non significa che la reminiscenza: l'essenza è detta nostra perchè prima c’era presente perchè l'anima, nel suo stato originario, ne gode come di cosa propria, n’ha l'intuito permanente. Sof.: col corpo noi comunicare xciVCDveiv colla genesi, coll'anima pella ragione coll'essenza reale. Rep l'anima che deve partecipare (jiexaXrjCpsoOai sufficientemente e perfettamente dell'essere: le altre arti le matematiche che abbiamo detto parteci^me è7iiXa|i3dv£39ai in qua'che modo all'essere. Tim,z^h\ il sole fu creato affinchè gl’animali a cui ciò convenisse partecipassero liexdoxoO del numero Tutto ciò che può concludersi da questi luoghi è che Platone non impiega sempre i termini in quislione nel senso tecnico. Quando dice nel Fedro che ciascuu'anìma imita il carattere del dio di cui è stata al seguito per quanto l'uomD può partecipare |ji£xaaX£t'v di dio, possiamo noi intendere: per quanto dio può esistere nell'uomo come un suo attributo o come un suo pensiero per analogia a quello di Hegel col quale effettivamente ha una stretta affinità, e perciò crede necessario di prestare al primo i concetti propri del secondo. Ma dopo ciò che abhiamo detto ci sarà facile di mostrare che il sistema platonico non solo si comprende senza i concetti hegeliani, ma si comprende anche meglio, ed é con essi che sarebbe invece difficile a comprendere. L'opinione che l’idee platoniche sono pensieri si deve certamente, o'tre che all’influenza dell'interpretazione teistica, a un'inferenza dal sistema hegeliano, in cui la realtà degl’universali è presentata come una conseguenza dell'identità dell'essere e del pensiero vi hanno dei pensieri generali, dunque, il pensiero essendo identico all'essere, questi pensieri generali sono pure degl’esseri generali. Da ciò si conclude che la prima delle due dottrine è logicamente connessa colla seconda, e che perciò, trovandosi in Platone l'una, deve trovarsi in lui anche l'altra. Ma questa conclusione è evidentemente affrettata. Noi abbiamo visto ch', a lato dei sistemi di Schelling e di Hegel, in cui gl’astratti sono riguardati al tempo stesso come delle realtà e come dei pensieri, v’hanno altri sistemi realisti, quali quelli di Spinoza e di Taine senza contare i realisti scolastici, in cui essi sono riguardati unicamente come realtà, cioè come entità puramente oggettive. La storia del realismo ci prova dunque che esso è indipendente dalla dottrina dell’identità dell'essere e del pensiero. Ciò è confermato dall'esame dei motivi di questa forma dì metafìsica. La realizzazione degl’universali — Grice, “Universals and Meaning” --, unita al metodo dalettico nel senso che noi diamo a questo termine quando parliamo di realismo dialettico, ha per Iacopo, come sappiamo, di trasformare il rapporto logico tra principio e conseguenza nel rapporto ontologico tra causa ed effetto, per ottenere una nuova applicazione del concetto di causalità efficiente. Questo scopo esige che l’astrazioni, tra cui il metodo dialettico introduce il rapporto di principii e conseguenze, si considerino come realtà, ma non che si considerino al tempo stesso come pensieri. A questa spiegazione del mondo a cui mira il realismo dialettico, nei sistemi di Schelling e di Hegel se ne aggiunge un'altra indipendente d’essa, e che può riguardarsi come una varietà della metafisica istintiva del nostro spirito cioè quella che è l'applicazione spontanea e immediata del concetto di causalità efficiente: è la spiegazione idealista, cioè l'attività immanente del pensiero elevata a tipo universale del modo essenziale di produzione dei fenomeni. La spiegazione idealista suppone che le cose siano riguardate come rappresentazioni GRICE SCHOPENHAUER ENGLAND CRICKET; e, perchè questa spiegazione sia compatibile col realismo, bisogna che si vedano nelle cose delle rappresentazioni permanenti di uno spirito eterno ed universale, in modo che la loro qualità di rappresentazioni si concilii in qualche modo colla loro obbiettività -- OBBLE. Allora si ha l'idealismo obbiettivo. L'idealismo obbiettivo MEINONG ONTOLOGICAL JUNGLE desert landscapes cherrytrees in winter -- è dunque un'applicazione, non solo del concetto di causalità efficiente in quanto eleva l'attività del pensiero a tipo universale di causazione, ma anche di quello di cosa in sé: il presupposto da cui esso parte, cioè che le C0S3 soao delle rappresentazioni permanenti di uno spirito eterno ed universale, ha infatti per oggetto di conciliare il risultato della riflessione filosofica che le cose sono rappresentazioni nel senso lato di questa parola che comprende anche la percezione, colla credenza naturale del genere umano che esse soio degl’oggetti perma lenti e di una realtà a:JS)luta, cioè indipendente dal sogrgetto percepente. Quando il seguace dell’interpretazione hegeliana attribuisce a Platone la dottrina che l’idee sono pensieri, gl’attribuisce anche implicitamente questa dottrina sulla cosa in sé che è il presupposto della spiegazione idealista nel senso proprio della parola idealismo, in cui noi naturalmente non l’applicheremmo al sistema platonico dell’idee. Ma, mentre nella filosofia antica vediamo rappresentati tutti i tipi di metafisica relativi al semplice concetto di causa efficiente le prime forme dell'antropomorfismo di cui abbiamo parlato l'apriorismo, il realismo dialettico, noi non vi troviamo invece nò questa né alcuna delle altre dottrine relative a quello di cosa in sé. È cosi vano di cercare nella filosofia greca l’idealismo obbiettivo o la dottrina che abbiamo detto esserne il presupposto come lo sarebbe di cercarvi il panpsichismo o la dottrina delle monadi nel senso non leibnizinno, cioè di sostanze o forze semplici e inestese, ma ditter^nti dallo spirito. Ciò è perchè la riflessione scientifica non ha distrutto ancora, nel mondo antico, il concetto spontaneo della cosa, che non è che l’obbiettivazione delle nostre sensazoni. In tutti i filosofi antichi, in generale, e penz'alcuna eccezione, noi non troviamo che il realismo vafura/e, e non mai il realismo trasformato: nella soppressione delle qualità sensibili nessuno è andato mai al di là d’AQUINO (vedasi), e la più parte non giungevano nemmeno sia là. L'idealismo obbiettivo, come tutte le altie dottrine metafisiche relative alla cosa in sé, non si concepisce che nella filosofia moderna, perchè suppone questo punto di vista che si è imposto mano mano al pensiero mo'^erno, sino a diventare un luogo comune, che le cose, quali noi le percepiamo, non esistono che' pella percezione e nella percezione. Uno dei fondamenti dello scetticismo antico è, è vero, il dubbio sul NOUMENO e la realtà obbiettiva – GRICE SPERANZA -- : ma per cercare di conciliare la relatività del mondo esteriore al soggetto conoscente colla sua obbiettività, come fa l'idealismo obbiettivo, o sostituire, come fa il realismo trasformato, alla realtà sensibile un'altra realtà superiore ai sensi – GRICE ASKING FOR THE MOON --, conoscibile o inconoscibile, non basta il semplice dubbio sulla realtà assoluta degl’oggetti quali noi li percepiamo, ma è necepsario che si ammetta già, come una verità incontestabile, che essi, come tali, non esistono che pella percezione, e non sono che relativi al soggetto conoscente. Certamente la relatività dell'oggetto al soggetto percepente, come proposizione dommatica, non è completamente straniera alla filosofia greca: noi la troviamo, prima dello stesso Platone, nella tesi di Protagora, di cui è evidentemente la base, che l'uomo è la misura di tutte le cose, e che la verità è ciò che pare a ciascuno che sia. Ma la tesi di Protagora, che d'altre nde non sembra aver lasciato molti proseliti, ci mostra, pella sua esorbitanza stessa, questo carattere sofistico, nel senso moderno della parola, vale a dire questa assenza evidente di sincerità, che vediamo generalmente nelle proposizioni gnoseologiche dei Sofisti quali, oltre questa di Protagora, quel'a di LEONZIO (vedasi) che non vi ha niente, o se vi ha qualche cosa, è inconoscibile, o almeno inesprimibile, quella d’Eutidemo che ogni attributo conviene egualmente ad ogni soggetto, quella dì Licofrone che non ammette alcuna unione Platone Teeteto Arist. Met. Platone CratUo Arist. Phys. di UQ soggetto con un predicato, percLè l'uno non può essere molli, ecc.. Noi ci spieghiamo, del resto, perfettamente perchè la filosofia antica non abbia mai oltrepassato, in sostanza, il realismo naturale: la dottrina della subbiettività di tutti i dati dei nostri sensi non ha potuto stabilirsi nella filosofia moderna, che perchè è la conseguenza inevitabile del concetto scientifico moderno della materia -- semplice ipotesi d’alcuni filosofi nell'antichità --, che la spoglia delle qualità secondarie, la subbiettività di queste trascinando necessariamente quella delle qualità primarie, che divengono, senza d’esse, assolutamente irrappresentabili. Ma, accordato anche che Platone puo ammettere la dottrina che le idee sono pensieri – Grice on The Fregean Fregeian sense – GEDANKE --, e quindi pure quella, che vi è implicata, che le cose sono rappresentazioni, resta a mostrare all'interpretazione hegeliana come essa puo conciliarsi, negli altri punti, colla dialettica platonica. Essa non attribuisce semplicemente a Platone la dottrina che le idee sono pensieri, e l'altra che, nella conoscenza filosofica, il nostro pensiero s'identifica colle idee, ma quella dell’identità del soggetto e dell'oggetto, cioè che è il nostro spirito, nella sua essenza, e non solamente il nostro pensiero speculativo, che s'identifica coll'universo, nella sua essenza, vale a dire colla totalità del mondo ideale. Per distinguere questa terza dottrina dalla seconda, noi supporremo che Platone ammette realmente che l’idee sono pensieri e che, nell'atto della conoscenza filosofica, questi pensieri sono presenti immediatamente al nostro spirito. V. lo studio sìiììsl dottriua di Jiosm ini suWeS' senza della materia fase, cioè noi ne abbiamo coscienza. S'egli non ammette che ciò, siccome questi pensieri, quantunque, nella conoscenza filosofica, entranno a far parte della nostra coscienza, esistenno per se stessi indipendentemente dalla nostra coscienza, come, nell'ipotesi della percezione immediata, gl’oggetti esteriori, quantunque, nell'atto della percezione – cfr. Grice, The Causal Theory of Perception -- , sono percezioni nostre, esistono per se stessi indipendentemente dalla nostra percezione. Cosi in questa dottrina che supponiamo ammessa da Platone, piuttosto che l'identità dell'essere e del pensiero, dovremmo vedere una forma dell'intuizione razionale, nella quale, come nella visione in Dio dì Malebranche, gl’oggetti intuiti, invece che delle realtà puramente obbiettive, sono dei pensieri. Ma che s’accordi o no chela dottrina dell’ACCADEMIA, in questo caso, è suscetftbile d’essere chiamata identità dell'essere e del pensiero (del nostro pensiero), ciò che è certo è che non potrebbe affatto chiamarsi identità del soggetto e dell’oggetto – H. P. Grice, Sobbles and Obbles --, né potrebbe vedersi simboleggiata nell'eternità dell' anima, perchè ciò che s'identificherebbe con l'oggetto e che si eternerebbe non sarebbe il soggetto stesso, cioè lo spirito nella sua essenza, ma un suo atto o fenomeno particolare, il pensiero filosofico. Per poter attribuire all’ACCADEMIA l'identità del soggetto e dell'oggetto e interpretare la sua doitrina dell' immortalità dell'anima come 1' eternar.M del pensiero nella conoscenza filsofica, sarebbe dunque necessario ch'egli avesse ammesso, consolo che le idee sone pensieri e che ques:i pc ubicri divengono, nella conoscenza filosofica, pensieri nostri, ma ancora che la conoscenza filosofica costituisce l'essenza del nostro spirito, e che questa essenza del nostro spirito è identica all'essenza dell’universo, cioè a ciò che vi ha in questo di costante e di generale (vale a dire che nella conoscenza filosofica egli avrebbe dovuto riguardare come essenza del nostro spirito, non semplicemente, come puo siipporsi, la coscienza o intuizione che abbiamo dell’idee, ma anche l’idee stesse che intuiamo o di cui abbiamo coscienza). È evidente che queste due proposizioni sono considerate da tutti come dell’assurdità impossibili a trovarsi in un filosofo qualsiasi, e che nessuno ardirebbe di attribuirle a Platone, se non si sa che sono insegnate da Hegel e dal suo predecessore Schelling. Ma, per attribuirle all’ACCADEMIA, bisogna vedere se queste proposizioni, che nei due sistemi tedeschi hanno un significato per quanto può dirsi d’una proposizione metafisica che ha un SIGNIFICATO – cfr. Grice/Strawson/Pears, “Metaphysics” --, possono averne ancora uno nel sistema platonico. In Hegel la conoscenza filosofica può costituire l'essenza dello spirito, perchè essa è nel suo sistema il termine ultimo della serie d’idee che cf stituisconolo spirito, e nel termine ultimo di uoa serie, secondo uno dei principij della sua dialettica, anzi in generale d'ogni dialettica (nel nostro senso), sì ritrovano tutti gl’altri termini della serie stessa. Questa essenza dello spirito poi piò iìeotifiea'-si on l'essenza di tutto l’universo cioè con tutto il mondo ideale, perchè l’ultimo termine della serie d'idee che costituiscono la sfera dello spirito, é pure, secondo Hegel, l'ultimo termine della serie totale dell’idee, e deve quindi, per il principio dialettico poc'anzi invocato, comprendere in sé tutto il resto del mondo ideale. Si pretende che anche per Platone la conoscenza filosofica è l’ultimo momento dello sviluppo dello spirito e di quello di tutto l'universo (questo sviluppo dobbiamo intenderlo nel senso hegeliano, cioè come una successione di termini, procedenti l'uno dall'altro, e la cui processione e successione non sono che logiche). Ma bisogna vedere se queste psivole ultimo momento dello sviluppo dello spirito e ultimo momento dello sviluppo dell’universo co\ sottinteso che 1’ultimo momento dello sviluppo dello spirito deve comi rendere tutti gl’altri momenti dello spirito, e l'ultimo momento dello sviluppo dell'universo tutti gl’altri momenti dell'universo, cioè tutte l’altre Id(e the ccstiiuiscono, con esso, l’idea assoluta bisogna vedere, dico, se queste parole hanno ancora un senso, trasportate dal sistema di Hegel a quello dell’ACCADEMIA. Nella dialettica dell’ACCADEMIA, come in quella di Hegel, nell’ultimo termine d'una serie devono ritiovarsi tutti i termini precedenti della serie stessa: ma può, nella dialettica dell’ACCADEMIA, esservi, come in quella di Hegel, per tutta una sezione del mondo ideale (p. e. lo spinto, l'organismo, ecc.) un termine finale unico, in cui si ritroviEO tutte l’altri parti di questa sezione? e per tutto il mondo ideale nel suo insieme, un altro termine finale unico, in cui si ritrovino tutte l’altre parti del mondo ideale, cicè tutte le altre idee che costituitcono, con esso, il sistema totale dell’idee. Questo é possibile nella dialettica hegeliana, perchè secondo essa vi ha, nello sviluppo dell’idee, oltre a un movimento d’espansione, per cui l’idee si scindono e si moltiplicano (passaggio dalla tesi all'antitesi), un movimento suiseguente di concentrazione, per cui ritornano all'unità (passaggio dalla tesi e l'antitesi alla sintesi). Ma nella dialettica platonica non è possibile, perchè in essa l’idee non si sviluppano che dividendosi. Il movimento è sempre di scissione, e Don \i La mai i movimento contrario, cioè il ritorno all'unità. Alla fine dello sviluppo d’una sezione del mondo ideale, o del mondo ideale nel suo insieme, non vi ha così, pell’ACCADEMIA, un termine unico, ma una moltiplicità di termini distinti e separati. L’unità non esiste che al punto di partenza deirevoluzfone, questa consiste in una moltiplicazione progressiva, e al punto d'arrivo la moltiplicità è massima. Airultimo momento dello sviluppo dello spirito non pcFsiamo dunque trrvarr, nella dialettica platonica, che la specie ultima dello spirito, o, se essa s’applica, non allo spirito stesso, ma alle sue attività, la specie ultima del fenomeno dello spirito. Che si tratta di una sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale – H. P. Grice, SUPRALUNARIO -- nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gl’altri non può essere per L’ACCADEMIA che il più astratto di tutti, e non può ccmpiecderli che virtualmente. I termini più concreti, anche nel senso hegeliano, più ricchi di detern»ii azicn^ sono i più particolari, e questi non possono comprendere che quelli di più in più generali a cui sono subordinati. L'assoluto, che comprende ogni cosa e in cui tutti i contrari si unificano, non potrebbe essere dunque nel sistema dell’ACCADEMIA, che l’idea più astrata, la più povera di determinazioni e, per dir ersi, la meno attuale di tutte, cioè quella del bene o dell'essere (Cfr. H. P. Grice, Mutliplicity of Being). Se, per una metafora ardita, chiamiamo quest'assoluto divino (come del resto fa la stessa ACCADEMIA), noi possiamo dire, applicando una locuzione di Schelling, che vi ha nel sistema dell’ACCADEMIA il divinum IMPLICITVM ma n^n il divinum EXPLICITVM. Sfar, della flos. olenu, T =as t-j-u. mBOSBmammaSK che riempisce la teoria vengono considerate del primo caso del secondo caso in quest'ultimo caso t. II il posto determinato nota, incompatibile non quello inc«'mpatibile con quello che riempisse la tesi Tdngonn considerati del secondo caso/del primo caso in questo primo caso il posto determinati (e non semp'icemente che se ne dal primo (e non semplicemente ti edipee) dal primo, che se ne deduce), R tre gravi spposizioni a tre gravi opposizioni le necessità la necessità dobbiamo sforzarvi/dobbiamo sforzarci quali forme viventi/quali forzo viventi il luogo che riporteremo nella luogo che riporteremo in una nota iio^a seguente. noi diremo asiratti/noi diremmo astratti); gli assiomi gli :i-:siomi delle prime e preceduto terzalt. si noti l'analogia gli Appartiene in non im e^ao gl’appartiene in non tm« porta degli astratti ma contemplato di fatti più particolari dei fatti generali teoria nominalista tuttociò che mi sembra più valido non leggere queste parole senso più ristretto/senso più stretto come un'immaginazione come un'immagine della prima e proceduto %ì noti l'analogia o gli porta dagl’astratti contemplato di fatti particolari dei fatti generali teoria nominalista ma di direzioni opposte gl’oggetti visibili ma le direzioni opposte oggetti sensibili ERRATA CORRIGE Rep. in pìiil, prino. del gradino in phil prim, nel gradino / i^wif elementi delle idee I due elementi, An. Sot\ non è rappresentata Tesisi enea Am4l, Post. L’idee •rmine di diinoblrazione Idea dal genere puramente dialettico Sof. e non è presentata l'esistenza Anol. Posi. le idee termine dimostrazione Idea del genere puramente deduttivo Met. CATEG. – H. P. Grice and J. L. Austin -- An. Post, Catefi. An, Post ma anche della cosa stessa ma cause della cosa stessa Fth End.Vili.Klh. Knd. Vili. Met. Met. dauno più essere hanno più essere Il principio e la causa Il principio e la causa delle entità più universali dalle entità più universali, nota cioè che queste che abbiano Kpist.e i suoi inodi Eth, è che queste «24 che abbiamo Epht. e suoi modi Eth, e 2. o l'estensione a uno più astratto dipendente naturare JJio e della natura propteraque tutte cose nota pure rationis es Schol. dell'essenza di Dio la constanllfieazione da cui le forniamo abbiamo per causa runa il fenomeno, nei molti; realeà distinte l'estensione a uno stato più astrai lo dipende naturae Dio o della natura proptereaque tHttu le cose pure rationis est Schei. dall'essenza di Dio a sostantificazione da cai le formiamo abbiano per causa . -r> runa, il fenomenonei moUii; realtà distinte dall'animale, dall'essere vivente dell'animale, dell'essere vivente Ò'M) V iXuanto dice temporanietà eoslitaiscono App. II nazione astratta <ii molli commenti inonimo Met. quando dice temporaneità costituiscano nozione astratta di molti commenti monismo che ciò che non esiste prima che ciò che è nato non esiste della nascita e non esiste prima della nascita e non esi più è nato dopo la morte sterà più dopo la morte Stob. dei loro sistemi Coelo Phys, Stob. Ed,Phys, flueretiue Stof. del loro sistema Jh' Coelo Phìjs. Stah, KcL Pliya, ecc. Auireqae ectirae lecticae Pys. Vili, Gi'H i't corr. Phya.Vili, Gen. et corr testo nei rapporti di spazio nei loro rapporti di spazio i domini religiosi/i dommi religiosi questi domini questi dommi n. Stab. KcL Stob. Ed. Eth. Eud.Vili. Plut. Eth, Eud. Plut. De De h, et ()sii\ ap. Is. et Osir. Tutte è uno Tutto è uno Top. Top. perc(»rso nella varietà secondo Cratilo non leggerlo conduce gl'eleati a negare o movimento senza causa o del movimento senza causa gli Ebati/gl’eleati Ssvocpavr^v Ssvot^ocvrjV por corso nelle varietà secondo Eraclito nel-cepirsi conducesse a negare Generante et corrente sappone General, et cornipf, supporre a sankya, la raisfschiha la sànìi,/a, la cckesilui. Timeo Arist. De Coe Ti.neo Arisi, i^a Coeio lo Nella rait-esika p.il vedanta il yógi p. Nelle VponiAafli nutra esplicato fenomeni meccanici omogenea queste proprietà In questo stato CI della concezione meccanico della concezione moocanìca la nostra asserzione la nostra attenzione giungendo ai ceatri giungendo ai centri il trasporto del a H trasporto dell'onda p. ex si forte a il bisdgno si forte è il bisogno Nella roiseschiìiii la yedanta l'yogi Negli l'panichdd ifouira esplicito processi meccanici omogea questa proprietà n questo stato a un certo grado della cultura a un grado interiore dello sviluppo dell<a cultura Darwin ha dato Darwin ne ha dato i'rìtkn ffct giudizio paragr. 6rt/ic« dt^/ f/é<«dè5to viventi allora non viventi, allora che rassomiglia, ai che rassomigli notare di ratliludine Tentare l'attitudine }iota l'analogia dalle l'analogia delle ed avventizio; la materia ed avventizio, la materia esistenza presente la sua esistenza l'uno con l'altro coi cangiamenti con cui coi cangiamenti anteriori con cui come il S. Ambrogio come AMBROGIO (vedasi) dopo esservi riscaldato dopo di esservi riscaldato ha i due ordini tra i due ordini suppongano suppongono dilferenli deiranimismo differenti dall'animismo esistenza poesente la sua esistenza l'uno per l'altro ci trova p. ljUlt. si trova problemi fisiologici problemi biologici Tale, in effetto/Tal è in effetto riflettuta; p. e. dall'aoqaa riflettuta p. e. dall'acqua vai^esika del Fedone convenire, come della ragione ammettersi, come domanda: Chi sa di essi chi che domanda: Chi sa dirmi chi sono io? cf. Grice, Personal Identity. le concezioni Cartesio sulla sostanza in ultima analisi ult. è immanente perchè di qualunque cosa perchè, qualunque cosa carta i flutti, la spuma, i flutti, la spuma nelogismo neologismo vaisechika di Fedone convenire come, detta ragione ammettersi come nandava sono io? le eonoezioni, Cartesio nella sostanza in ottima analisi è immanante quando e&si designano le ecc., quando essi designano le idee, i termini denotazione Met. Ad aÙTÓ, aùxò xaG'aOxó, la più parte, di Aless. Afrod.e questi sono le idee tsto Rep. nel Filebo non da capo proporzionata alla vista proporzionato alla vista ha, ma non ò ha, ma non è testo p'oggetto l'oggetto dei primi indicati dei luoghi indicati dei secondo; diremo del secondo diremo con causa con causa i. Vili; quar Idee: 2^ I termini V. detonazione Met. Ad aÙTÓ, xaO'auxd, la più al parte di Aless. Aprod. e questi sono idee Rep. nel Fibbo È perciò Cor. Siccome siccome belli e ìq tutti gl’oggetti non leggere queste parole ciascuno nuovamente in uno nel bue, eco è 1. 6risoluzione il grande slessoj ecc.) è precisamente questa vengono proposte insomma coi molti, generiche e le specifiche prima, ma presente della misura necessario di un'Idea non è una connessione neces non una connessione necessaria saria significa al tempo stesso significa dunque al tem|iu stesso nuovamente in uno nel bue è riduzione il grande stesso) e precisamente questa vengano proposte insomcoi molli, generiche e specifiche prima, presente della scienza neoestrario dell'Idea S il letture e in tale nasce? nei lunghi citati il lettore e in un tale nasce nei luoghi citati la possessione dell'attributo possedere un attributo argomento procedente argomento precedente Dunque nelle altre Dunque nelle altre cose né uno né due né una né due e. 6se fossero simili e dissimili se fossero simili o dissimili 14 àTiaXXsxxéov àTraXXaxxéov È vero. Affinchè È vero Affinchè queste spiegazioni queste altre spiegazioni a un soggetto particolare a un oggetto particolare dalla prova dalle proveche indicano i rapporti che indicano il rapporto non potrebbe esistere non potrebbe esistere veramente pia prezioso nella mescolanza pi i prezioso nella mescolanza; ohe esso è la causa della bontà di questa mescolanza. Tuttavia Platone non può e.un mondo di idee, di entità astratte e generali Tim. a generalizzare Timeo Fedone Fedone X03ptaTÓv producono le loro copie/producano le loro copie e i suoi deterivati/e i suoi derivati nel concetto comune come nel concetto comune perchè noi sogniamo perchè cosi sogniamo sestult. dei periodi degl’astri degl’altri periodi degl’astri e si pascono e si pascono poi xsxoptajiéva x£xwpto|i£va e. come le prime come le prime, Platone non può un mondo d'idee Tim, di generalizzare Timto a Fedone b YVWoGYjoófJtsvov) Fedone Xcopoaxóv parlato implica, e essenze parlato, implica le essenze tra le cose i numeri tra le cose e i numeri primi degl’esseri i primi degl’esseri i Met. Dell’idee; è il movimento dell’idee è il movimento I due elementi col Dispari non leggerlo propria delle cose lo Stesso non è né in queste cose l'indefinitezza A queste quistioni M i principii degl’esseri V. due elementi coi Dispari (oxoixs^a proprie delie co.se lo stesso non è né queste cose, l'indeterminatezza A questa quistione i principi degli esseri 11oapi-<tale ammettere per provare; è niente 24 e'. Basii. i una yévso'.^ o immanente capitale ammette per provare alt. è niente Basii, di una yévsotf e. P.I. immanente non è semplicemente com'essi non è semplicemente, com'ossi dicono, dicono la perpetuità doiruniverso e la perpetuità della forma att ualo dell'universo ouo» gono più o meno numeroso più e meno numeroso come relativo come correlativo et le o. ne sistema delle Idee nel sistema delle Idee Met, non leggerlo forma forma ci è attestato/ci è attestata delle ooqa matematicho n o potremmo Met., da cui sono limitale di queste tre divisio, a di Platone di Spinoza supplem. C. V la loro vera realtà l suo posto cuotiene dih avanzati le Idee). L'espressione non vi ha mai i R. delle cose matematiche noi potremmo Met. tosto da cui sono limitato Co) Da questo processo non potrebbero venirne che dei poliedri, perchè esso non applicabile, tra i solidi, che ai poliedri, tra le superficÌ3, che ai piani, tra le linee, che alle rette: ma siccome per i platonici i corpi erano composti di poliedri regolari, esso rende conto suttìcientemente delle gran«iezze reali, di queste tre divisioni di Platone di Spinoza e la loro vera realtà il suo posto contiene più avanzati le Idea. L'espressione non vi ha mai il IL REALISMO DIALETTICO Perchè si realizzano le astrazioni? Spiegazioni correnti e precisazione della quistione. Il realismo, in quanto è una spiegazione del mondo (realismo dialettico), ha lo scopo di identificare il rapporto logico tra il principio e la conseguenza al rapporto ontologico tra la causa efficiente e 1' effetto Origine del realismo degti scolastici Realismo (realizzazione dei concetti) di Taine Il suo metodo dialettico cioè di dedurre i concetti realizzati L'idea fondamentale di questo sistema è l’identifìcazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Platone. Cenni generali sulla filosofìa di Platone. Apriorismo di Platone Suo metodo puramente deduttivo Importanza capitale attribuita al metodo; universalità della filosofia e sua sistematicità Affinità del metodo dialettico col metodo matematico Caratteri prepri del metodo dialettico, per cui differisce dal matematico Tutte le altre Idee si deducono da quella del Bene L'Idea del Bene non è solo il principio logico, ma anche il principio ontologico (la causa produttrice) delle altre Idee, e non ne è il principio ontologico che in quanto ne è il principio logico La deduzione progressiva delle Idee le une dalle altre é una derivazione reale delle Idee che si deducono da quelle da cui si deducono. L'Idea del Bene è la più generale di tutte. Contenuto di quest'Idea Metodo di divisione e gerarchia delle Idee. Teoria della definizione La dieresi è una deduzione in cui l’Idea divisa funge da principio, e le Idee in cui si divide da conseguenza Come la dieresi è una deduzione, e come si trovino in essa i caratteri distintivi del metodo dialettico di cui al Il metodo indiretto del Parmenide E con questo metodo che deve dimostrarsi il primo principio cioè l'Idea del Bene Un'Idea generale non è solo il principio logico, ma anche onfoZo^rico la causa, delle Idee più particolari in cui si divide. L'ohbiettivazione dei concetti – GRICE THE CONCEPTION OF VALUE -- e il metodo dialettico hanno per iscopo l'identificazione del rapporto tra il principio e la conseguenza a quello tra la causa efficiente e l’effetto. Il sistema di Spinoza Idea generale della filosofia di Spinoza Il concetto del parallelismo psico-fisico e suoi sviluppi Metodo puramente deduttivo Identità dello sviluppo logico e dello sviluppo ontologico Le cose considerale sua specie aeternitatis L'essere, secondo Spinoza, è una serie di astrazioni realizzate che derivano logicamente e ontologicamente le une dalle altre, in modo che il rapporto tra il principio e la conseguenza é identico con quello tra la causa efficiente e l'effetto. Differenze e omologia fra tutti questi sistemi Come il realismo dialettico deriva dalla tendenza naturale del nostro spirito da cui derivano tutti gl’altri concetti metafisici. NIHIL ORITUR, NIHIL INTERIT Tendenza naturale a supporre che il reale nella sua essenza é immutabile I fisici greci in generale Dottrine di GIRGENTI e di Anassagora Il sistema degl’atomisti Dottrine dei fisici che ammetteno una sostanza unica Dottrina d’Eraclito dell’identità dei contrari Dottrinadi VELIA Spiegazioni meccaniche dei fisici in generale Dottrine di BRUNO e TELESIO La teoria meccanica (cioè la riduzione di tutti i fenomeni a quelli meccanici) nella scienza Applicazione della teoria alla costituzione della materia Ancora della teoria meccanica Applicazione ai fenomeni psichici Spiegazione meccanica dei fenomeni della vita. Il principio della persistenza delle co- nelle stesse proprietà nell’atomismo metafisico, nei sistemi monisti, nel realismo, nel criticismo Dottrine di Herbart e Corico Dottrina dell’identità della causa e dell'effetto IL CONCETTO DELL'ANIMA L'animismo sostantificazione dell’anima è il prodotto d'una tendenza naturale dello spirito umano. Le prove della sostanzialità dell’amaterialiià dell’anima nella forma primitiva dell'animismo, L'animismo è anch'esso un' applicazione del principio dell'immutabilità dell'essenza delle cose Le concezioni moniste si fondano su questo principio egualmente che le dualiste – GRICE BROAD BROADISM E per esso che deve spiegarsi anche l'animismo dell'uomo primitivo Il concetto dell'immortalità dell'anima GRICE SHROPSHIRE e quello della sua immaterialità sono degli sviluppi naturali della teoria animista. Il substratum, supposto indisponsabiie, dei fenomeni psichici non è che il fantasma [RYLE GHOST IN THE MACHINE] del corpo. La terza forma dell'animismo, cioè la dottrina che la sostanza dello spirito è un fatto psichico permanente che è il substratum di tutti gli altri nima. carte IMMANENZA DELLE IDEE PLATONICHE Prove di quest'Immanenza I termini designanti le Idee in generale I termini designanti ciascon'Idea. carte Il concetto e la conoscenza generale si riferiscono all'Idea La definizione e la dieresi, che hanno per oggetto le Idee, si riferiscono alle cose considerate d'una maniera generale ed astratta L'Idea è l'universale, ciò che è lo stesso in tutti gl'individui del genere La TiapouoCa, la fiéGegtg e le altre espressioni dell'inerenza nelle Idee nelle cose Contenenza reciproca tra le Idee generiche e le Idee specifiche Gli elementi delle Idee sono anche gli elementi delle cose Tutto il reale si risolve nelle Idee X. L'essere non è fuori del divenire, ma nel divenire stesso. Discussione degl’argomenti contro l' immanenza La sostanzialità dell’idee La distinzione fra l’idee e le cose interpretata come una separazione L’idee considerate come esemplari a cui le cose non si conformano che approssimativamente Le allegorie del Fedro e del Timeo La tesHmonianza d'Aristotile. Cenni snlle dottrine dei Pitagorici e sul pitagorismo di Platone in generale I numeri ideali I due elementi La forma e la materia dell’idee La forma e la materia delle cose Le entitli matematiche come intermediarie fra l’Idee e le cose Il pitagorismo nel Timeo e nel Filebo Motivi deirevoluzione di Platone verso il pitagorismo Il pitagorismo nel Timeo Carattere simbolico della cosmogonia del Timeo e suo significato. Il pitagorismo nel Filebo il limite e l’illimitato di questo dialogo il pitagorismo nei discepoli di Platone Le tre dottrine dei platonici sui numeri carta La dottrina di Xenocrate carte La dottrina di Speusippo L'anima e suo rapporto coll’idee e coi fenomeni l'anima individuale carte l’anima cosmica e. carte L'interpretaasione teistica del sistema dell’idee che l’idee sono i pensieri della divinità creatrice L’idee e il pensiero Interpretazione di Hegel e Teichmiiller dell'immortalità dell'anima e altre dottrine connesse Platone non ammette l'identità dell'essere e del pensiero, e la sua idea è un'entità puramente obbiettiva – cf. H. P. Grice, “Obbles”. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza, Grice in defence of a dogma, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guicciardini: la ragione della conversazione e la ragion di stato – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dele cose dello stato – filosofia toscana – filosofia fiorentina – la scuola di Firenze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “Political philosophy is never practiced by philosophers – not even at Oxford. Witness the contents of my colleague Warnock’s super-editor of Waldron’s volume on Political Philosophy for Oxford: POLITICAL  PHILOSOPHY    EDITED BY  ANTHONY QUINTON    OXFORD READINGS IN PHILOSOPHY    OXFORD READINGS IN PHILOSOPHY    Series Editor G. J. Warnock    POLITICAL PHILOSOPHY    Oxford University Press, Walton Street, Oxford OX2 6DP  OXFORD CONTENTS    INTRODUCTION THE USE OF POLITICAL THEORY Plamenawz POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY Partridge    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS?  Hart    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’  Benn    AUTHORITY Peters Winch    THE PUBLIC INTEREST Barry    LIBERTY AND EQUALITY  Carritt    Two CONCEPTS OF LIBERTY  Berlin    Two CONCEPTS OF DEMOCRACY  Schumpeter    JUSTICE AND THE COMMON GOOD Barry    NOTES ON THE CONTRIBUTORS    BIBLIOGRAPHY    INDEX OF NAMES INTRODUCTION The easiest and most uncontroversial way of defining political  philosophy is as the common topic of a series of famous books: Plato’s Republic, Aristotle’s Politics, MACHIAVELLI’s Prince, Hobbes’s  Leviathan, Locke’s Treatises on Civil Government, Rousseau’s Contrat  Social, Hegel’s Philosophy of Right, The Communist Manifesto and Mill’s Liberty. Such an enumeration, at any rate, defines a major continuing strand in the history of Western thought, a great tradition of large-scale reflection about politics. But a backward-looking list of this kind is really no longer adequate to define political philosophy as a going concern. What has changed the subject is the great increase in  methodological self-consciousness among recent philosophers which has led them to accept a more limited conception of their  powers and, in consequence, of their responsibilities. A comparatively definite place has now been marked out for philosophy within the total range of man’s intellectual activities. It is generally thought to stand in a very different relation to other modes of thought from that in which they stand to each other. Where they are substantive, concerned with some aspect or region of the world, it is conceptual and critical, concerned with them rather than with the reality they investigate. It should be conceived not as just another mode of thought alongside them but rather as superimposed reflectively on them. Very briefly, philosophy has the task of classifying and  analysing the terms, statements and arguments of the substantive, first-order disciplines. In the light of a conceptual interpretation of philosophy the works  that make up the great tradition of political thought are methodologically very impure. They are only to a small, though commonly  crucial, extent works of philosophy in the strict sense. Besides conceptual reasonings of the approved sort they contain two main kinds of ingredient. First, there are factual or descriptive accounts of  political institutions and activities which may be collected under the general heading of political science. Secondly, there are recommendations about the ideal ends that political activity should pursue and about the way political institutions should be designed in order to serve these ends which may be called ideology. A good deal of past political science has been somewhat formal or legalistic; taking the rules which are the professed determinants of  the working of political institutions, in particular the formal constitutions of sovereign states, at their face value and dealing only as something of an afterthought with the deviations from these rules  that occur in actual practice. A further limiting tendency has been the custom of political science of treating the political life of society as comparatively autonomous. Both of these restrictions have been largely removed by the development of political sociology which  investigates political behaviour as it actually occurs and seeks to connect it with the general, non-political life of society, witlt class-stratification, the economy, religious allegiances and so on. Both the political-science and ideological components of works in  the great tradition of political theory were of high generality. The  details of local government or the hierarchical arrangement of courts did not figure in them. Nor did the type of very concrete issue to be found in a pamphlet or leading article about the reform ofa particular  law or the reconstruction of some part of the whole institutional  apparatus. But by current standards they are too all-inclusive to count  as works of political philosophy, strictly so-called, and their all-inclusiveness has not been much imitated in recent years. A sign of this change in the way the subject is conceived has been the  apparent petering-out of the great tradition. Surveys of the history of  political thought either come to an end with Marx and Mill in the mid-nineteenth century or they wind up with apologetic chapters on the major ideological movements of the most recent period and on the  highly engaged, rhetorical and practical thinking of the more articulate political leaders. But an occasional magnificent dinosaur stalks on to the scene, such as Hayek’s Constitution of Liberty, seemingly impervious to the effects of natural selection. Analytic philosophers have paid little attention to those problems of political theory that do fall within their recognized field of interest. Russell has been an active political ideologist, and, in his book Power, something of a political sociologist, but he has been very explicit about the distinction between his work in these capacities and his work asa  philosopher proper. It has been widely held, indeed, that there really is no such subject as political philosophy apart from the negative business of revealing the conceptual errors and methodological misunderstandings of those who have addressed themselves in a very  general way to political issues. For an example of this see Weldon’s  Vocabulary of Politics. A solid testimony to the width of this conviction has been the near-unanimity with which analytic philosophers have,  until very recently, avoided the subject altogether. Of course the great  tradition of political thought remains an important object of study in its own right. But to study its members is only marginally to continue  the work they were doing. Many teachers of political philosophy are in  fact students of the history of very general, theoretical, political ideas. But this no more makes them political philosophers than close attendance at the bull-ring makes an aficionado into a bull-fighter. The application of philosophical analysis to the fundamental concepts and styles of reasoning that occur in political discourse remains an open possibility. But until very recently the only extended  example of it has been the excellent Consent, Freedom and Political  Obligation of Plamenatz. In the first sentence of the introduction Plamenatz wrote: ‘the purpose of this essay is to provide definitions of a number of  words generally used by political thinkers’. The publication of a substantial general survey of political theory from an analytic point of view, Social Principles and the Democratic State by Benn  and Peters, was a sign of renewed interest and the suggestion has been confirmed by the appearance of Barry’s  Political Argument, perhaps the most uncompromisingly analytic  treatment of politics yct published. The first task of an analytic philosophy of politics is to distinguish  the two main varieties of substantive political discourse: the factual  statements of political science and the evaluative affirmations of  ideology. Few would deny that such a distinction can be drawn, however critical they may be of the reasoning associated with it and the  irrationalistic conclusions about valuation that have often been  derived from it. Within each of these domains there are characteristic  concepts of a very general sort whose application is a matter of  frequent dispute. Philosophical analysis, it might be hoped, could  help the disputants to a better understanding of each other’s positions  and even, in some cases, of their own.   The central concept of political science is that of the state. Cor-  relative with the state is law. Positive law must have a state or sovereign  as its source and it is the first duty of a state to produce and maintain  law. A satisfactory account of the nature of law must trace its com-  plicated relations to morality which serves both to supply law witha  content and to be a standard for criticism of it. The traditional natural  law theory is an attempt to expound this relationship.   The most general concepts of ideology are those of the major political values which are the more or less commonly recognized ends  of government: liberty, justice, security, prosperity and, perhaps,  democracy. It is by reference to such ends that particular schemes of  political institutions are recommended in preference to others. The  central problem of traditional political theory has been a kind of  generalized limiting case of the problem of justifying a particular  institutional scheme. This is the problem of political obligation which  is that of why, or under what circumstances, an individual should obey  any state at all, acknowledge any obligation to obey those who seek to  determine what he shall do, attribute any authority to those who claim  to be his rulers.   A theory of political obligation, by giving a rational answer to the  question ‘why should I obey the state’, must inevitably, itmight seem,  be ideology rather than analysis. But analysis can at least be used to  examine the form of arguments purporting to justify the state. Equally  ideological must be the endorsement of any major political value or  ideal as an end which governments ought to pursue. As it turns out  analysis and justification are harder to keep apart than formal  methodology might suggest, here even more than in other parts of  philosophy. Concepts of political ends are what have been called  essentially contested concepts (cf. W. B. Gallie in Proceedings of the  Aristotelian Society, 1955-61, pp. 167-98). The adherents of competing  ideologies try to interpret terms such as liberty and justice in such a way  that they apply to the realization of their own ideals. The methodo-  logical aim of a strictly neutral analysis of political terms, even of  the most general terms of political science, is hard to realize in practice  if the results are not to be trivial.   Some have argued, in the spirit of Popper’s remark that if the Soviet  Union is a democracy then he is against democracy, that the words in  which political discussion. is carried on do not matter and that a  political philosophy which regards the clarification of political terms  as its main task must thus be a waste of time and energy. This view is,  I think, doubtly mistaken. In the first place disputes that have some  ultimately verbal element are extremely influential. Furthermore the  verbal element in disputes is not generally so easy to identify and  dismiss as the Popperian example might suggest. And even in that  example the dispute is not merely verbal. Adherents of both liberal  and communist conceptions of democracy would agree that any  adequate conception of it must start from the notion of government by  the people. They disagree on the extent to which their competing views  are better adjusted to this basic and agreed requirement.  The first two selections in this anthology are of the same broadly  methodological character as this section of the introduction. Mr  Plamenatz defends a moderately traditional view of the nature of  political theory which he defines as systematic thinking about the  purposes of government. Professor Partridge argues that analysis  cannot be kept wholly free from all ideological taint.    2. The state, law and morality   In the second of his Treatises on Civil Government Locke introduces  something that he calls the executive power of the law of nature. It has  three parts: the legislative power of deciding what the correct rules of  conduct are, the judicial power of applying these rules to particular  pieces of conduct and the penal power of administering sanctions to  those who have broken the rules. The function of this moderately com-  plicated idea in his theory is, in effect, to define the concept of the  state and, by implication, of the political generally. For it is by the  transfer of this executive power from free, natural individuals to a  common sovereign that a natural society is turned into a civil, or  politically organized, society.   It is not necessary to suppose that the transformation of natural into  civil society was brought about by some historically identifiable act of  transfer to find Locke’s notion a useful one. The executive power of the  law of nature can be used to distinguish political societies, as those in  which it is formally centralized, from non-political ones, in which itis  informally distributed amongst all individuals. There are two signifi-  cant implications of this use of the idea. The first is that it identifies the  essential functions of the state as those of maintaining law and order,  the second that it sees them as the responsibility of a state to the extent  that they are not left to individuals to exercise for themselves but are  remitted to a special person or set of people within the society asa  whole. To see the preservation of law and order as the essential  function of the state is not to regard it as the state’s only function. Nor  is it to say that a state could survive in practice if that was all it did.  The defence of societies from their external enemies is as ancient and  important a function of states as their defence from internal ones. Nor  does the requirement of centralization strictly imply that government  is, of necessity, oligarchical, though, in fact, no doubt, all governments  have been. But even in the most direct and Rousseau-like of demo-  cracies there would be a distinction between the weekly meeting during  which for an hour or two the citizens were acting in their sovereign  capacity as legislators and judges and the remainder of the week during which they would obey, or disobey, the rules they had them-  selves laid down.   Two more recent definitions presuppose the Lockean concept of the  state but significantly extend it. The first of these is Austin’s well-  known definition of sovereignty. A sovereign, according to Austin, is  a determinate human superior, not in a habit of obedience to a like  superior, who receives habitual obedience from the bulk of a given  society. Austin defines law as the command of a sovereign so conceived.  Secondly there is Max Weber’s definition of the state. ‘A compulsory   olitical association with continuing organization’ he says ‘will be  called a state if and in so far as its administrative staff successfully  upholds a claim to the monopoly of the legitimate use of physical force  in the enforcement of its order’. Both Austin and Weber hold that a  large measure of effectiveness in imposing its rules is necessary toa  state. Weber adds that the means by which this effectiveness is secured  is wielding the only physical force that is generally recognized as  legitimate. Putting these definitions together we may say that a society is  political, or has a state, if it contains a centralized agency for the  promulgation, application and enforcement of rules of conduct, if  these rules are generally obeyed and if only these rules are generally  recognized as legitimately sanctioned by physical force.   One point of these definitions is to distinguish the state conceived as  a politically organized society, as when we speak of nation-states, from  the state conceived as the rule-enforcing element within such a society.  If a society has a state within it in the second sense, then it is a state in  the first sense. In colloquial terms a country is one thing, a government  another, but what makes a collection of people into a country is the  fact that they all have the same government. We can speak of nations  that are not politically organized societies. Nationalism isan endeavour  to make states and nations coincide, initiated in circumstances where  they do not. We tend to think of the government as more particularly  the executive or administrative arm of the state as a whole. It remains  important to distinguish state from society just because some thinkers  have striven energetically to obliterate the difference between them. A  society is a collection of people who interact, persistently and in  characteristically human ways, cooperating and communicating with  each’ other. A society will persist only if there are generally accepted  rules of conduct but these need not be defined and enforced by any  centralized agency. At any rate social rules do not logically entail a  state even if they practically require one in most circumstances. Anarchism is not a self-contradiction, but at worst impracticable or  intolerable.   Law, in the most ordinary sense of the word, is a product of the  sovereign state. Theories of sovereignty can be understood as present-  ing criteria with which to decide about the rules prevailing in a society  which are laws proper, as contrasted with the private regulations of a  club, a family or a firm on the one hand and the prescriptions of  morality on the other. A familiar tradition in political theory dis-  tinguishes law in this sense as positive law from natural law. Many  theorists who derive political obligation from a contract, most notably  Locke, maintain that what in the end justifies obedience to the state is  its protection of the rights possessed by individuals under natural law.  Some adherents of natural law have gone further, saying that if arule  is in conflict with natural law it cannot be a positive law at all; but  perhaps their point could be less extravagantly made by regarding an  enactment contrary to natural law as giving a reason for withholding  obedience from the state responsible which may be overridden by  reasons for the opposite course.   One origin for the doctrine of natural law is the idea that God stands  to mankind at large in the relation of a monarch to his subjects. The  same analogy can, however, be turned upside down, as in the doctrine  of the divine right of kings, to show that there are no limits to the rights  of monarchs. The comparable relation of a father to his children is  ambiguous in the same way in its implications. It can be used as a  natural model for the right ordering of states but it can also be  exploited to argue that fathers, like sovereigns, owe their right to  obedience to the services they perform for those who obey them.   In an age like the present, with its apparently irreducible plurality of  conflicting moral beliefs, the doctrine of natural law has lost much of  its appeal. But there is a minimum interpretation in which only those  who take the service of the state to be the highest conceivable duty for  man could possibly reject it. Itcan be taken to say simply that there are  moral considerations by which the state’s claim to authority must be  judged. Unless one holds with Hegel that private morality is a crude,  primitive anticipation of the higher morality of positive law or,  attaching no meaning to moral discourse, abstains from it altogether,  one cannot consistently oppose this position.   A feature of natural law doctrine that has been much objected to,  notably by Bentham, is its claim that there are imprescriptible natural  rights, rights possessed by all men whose infringement by the state  strictly entails the forfeiture of the state’s authority. Utilitarians deny that any specific moral principle is absolutely and unqualifiedly  valid in the way that this kind of natural right is held to be. They  would say that to ascribe a right to a man is to say that there is some-  thing that he ought to be allowed to do. A rightis natural if itis moral  and not positively conferred by a state. Now what people ought to be  allowed to do varies with the circumstances. It is always possible to  conceive circumstances in which it would be morally reasonable, in the  best interests of all concerned, to abridge freedom of speech or  movement or occupation.   Some analytic philosophers have made curiously heavy weather of  the word ‘natural’ in the phrase ‘natural rights’, taking it to imply  that the possession of these rights is deducible from the nature of man.  The nature of man is the set of defining characteristics in virtue of  having which things are identified as being men. These characteristics  are in fact empirical and so no conclusions about what men ought to  be allowed to do can be extricated from the concept itself. This is  rather laborious. ‘Natural’ here means simply ‘non-legal’. Natural  rights are those which men have by reason of being men and not in  virtue of their membership ina particular politically organized society  with its prevailing system of legal rights.   In practice there is a good deal of correspondence between the  content of positive law and natural law, if this is understood as the  broad moral consensus of the citizens. Unless the state in question  is very efficiently tyrannous, indeed, there must be, since if a state’s  positive law is morally repugnant to most ofits citizens they will havea  reason for disobeying it and in doing so they will remove the effective-  ness which is one of the state’s essential characteristics.   But there is always some divergence between positive law and the  generally accepted hard core of morality. In the first place much of  the moral consensus cannot be or need not be or should not be legally  enforced. It cannot be enforced if offences are very hard to detect (for  example, indulgence in sadistic fantasy). It need not be if the informal  sanctions of morality are sufficient to maintain good behaviour (for  example, ordinary politeness). It should not be if the type of conduct  involved derives most or all of its value from the fact that it is freely  undertaken.   Secondly, positive law needs, for a number of reasons, to be very  precise, something seldom true of the moral consensus. Thirdly, since  positive law needs to be stable it cannot be adjusted to correspond  with every apparent shift of the moral consensus. It follows that it  will be slow to adjust itself to real shifts. A final point is that the most    INTRODUCTION 9    generally interesting decisions and regulations of modern states  concern issues of a broadly economically distributive kind which do  not fall clearly within the moral concensus. The main political divisions  of a modern industrial society concern the proportion of the national  income that shall be taken and spent by the state and the objects on  which it should be spent. Complex conflicts of justice and efficiency,  of benevolence and personal freedom arise here which are the main  topic of everyday political controversy. One virtue of democratic  systems is that they provide machinery for the resolution of these  conflicts of interest and principle by pacificatory compromise and  without resort to violence.   Two items in this anthology deal with subjects discussed in this  section. Professor Hart argues that the existence of at least one  natural right must be admitted if it is allowed that there are any  moral rights at all. Mr Benn conducts a wide survey of the uses to  which the concept of sovereignty has been put.    3. Political obligation   The problem of political obligation—why should I, or anyone, obey  the state—has always been the fundamental problem of political  philosophy. The question it raises must be distinguished from. two  others with which it can easily be confused and it is also somewhat  ambiguous itself. First, to ask why I should obey the state is not to ask  why I do, though one answer to the latter question (viz. because I think  I ought to) raises the former. People obey governments and abide by  the law to a very great extent, no doubt, from force of habit and  because it does not often occur to them to do anything else. When the  possibility of disobedience does-occur to them, in cases where there is  an obvious clash between the demands of the state and private interests  or moral conviction, they are restrained by fear of the probable con-  sequences of disobedience. But people may also be prompted to obey  the state by the conviction that they are morally obliged to do so. To  inquire into the justification of this belief is to confront the problem  of political obligation.   The other question with which that of the justification of obedience  is often confused is that of how the state and its laws came into exist-  ence in the first place. The two issues look so very different at first  glance that it may be hard to understand how they can ever have been  run together. One explanation is that many obligations arise from  something that has happened in the past: from a positive undertaking,  for example, as in a marriage ceremony, or from the coming into    10 POLITICAL PHILOSOPHY    existence of a particular state of affairs, as when a man recognizes his  responsibility for injuries caused by his carelessness or for children  brought into the world by his sexual activities.   A related point, emphasized by Hume, is that people generally  regard prescription or customary acceptanceas the solidest foundation  ofa right, though this may be less true now than it was in the eighteenth  century. Another consideration is that when the state was created, if  there ever was such a moment, the question of whether to obey was a  live issue for everyone involved. More generally the confusion between  the two questions is assisted by the habit of describing the problem  of political obligation as concerned with the origins or foundations of the  state, a mode of expression which can be interpreted historically or  justificatorily. At any rate the two questions are entirely distinct. As  Hume argued, even if the first states did originate in a contractual  agreement between their members this has no bearing on our situation  now: we do not inherit our ancestors’ promissory obligations, and the  states we live under originated for the most part in violent seizure of  power.   With the question why I should obey the state extricated from others  with which it may be confused, we can go on to consider what precisely  it means. It has usually been taken to ask how it is that I am undera  moral obligation to obey the state. But this is not the only meaning it can  have, nor is it the most fruitful one. Morality, strictly so called, has  no proprietary hold over the word ‘ought’. We can also ask what  makes it reasonable, sensible or prudent for me to obey the state. This  goes to the opposite extreme from the narrowly moral interpretation  of the question and might seem to invite only such obvious and un-  illuminating answers as that I am likely to be sent to prison if I do not  obey. But between the two extremes there is a third possibility. We may  ask: what makes it a generally good or desirable thing for me, or  anyone, to obey the state? Here the rationality of political obedience  is identified neither with its moral obligatoriness nor with its con-  duciveness to strictly personal interest and advantage. A great deal of  what we ought to do is reasonable in this sense without being either  morally obligatory or immediately advantageous.   There are three main kinds of solution to the problem of political  obligation. First, there are what I shall call intrinsic theories, which  derive the rationality or obligatoriness of obedience from the intrinsic  character of the state. Secondly, at the other extreme, are extrinsic  theories, which justify the state by reference, direct or indirect, to the  purposes it serves, to the valuable consequences which flow from its    INTRODUCTION 11    possession of effective power. Finally, there are organic theories,  which transform the problem by arguing that it implies a mistaken,  ‘abstract’ conception of the relations between the state and the  individual citizen.   The simplest of intrinsic theories is traditionalism, the view that the  state ought to be obeyed because it always has been, Hume’s pre-  scription in its most elementary form. A historically important variant  is the divine right theory which holds that we should obey the state  because God has commanded us to do so. The theory of divine right  can take a legitimist form, in which the criterion of divine author-  ization is something other than the possession of effective power, or  it can be conformist, enjoining obedience to the powers that be  whoever they are and however they acquired their position.   A more intellectually appetizing kind of intrinsic theory is the  doctrine of aristocracy, which attributes intrinsic authority to the  best people, picked out by their wisdom, ancient lineage, heroic  qualities (as in fascism) or even wealth. In practice intrinsic theories  soon lose their formal purity since any rational argument to justify  obedience to traditional rulers, or to the best people, must rest on the  pre-eminent capacity of the recommended rulers for realizing ends  desired or valued by those called upon to obey them. This fate of  intrinsic theories shows their affinity to deontological accounts of  morally right action, which are liable to the same loss of identity.  According to the deontologist such moral principles of right action  as that one should keep promises or tell the truth are self-evident to  the moral intelligence. They do not need justification in terms of the  valuable results of general adherence to them and are only harmed and  enfeebled if such justification is attempted. They do not need it since  they retain their validity in cases where good results do not accrue:  one should keep a promise even though no-one will be better off for  one’s doing so. If such principles are made dependent on the  production of good consequences, it is argued, morality is degraded  into calculating expediency. But few deontologists are brazen enough  to insist that a trivial promise should be kept whatever happens, that  one should leave someone drowning in a lonely spot to his fate in  order to make a promised appearance at a tea-party. A rigidly de-  ontological theory of political obligation, one that holds the  principle that one should obey the state to be simply a self-evident  truth, is conceivable. But this will not be very plausible unless ‘state’  is redefined in terms which guarantee that only rulers who rule well  qualify for the descriptuon.    12 POLITICAL PHILOSOPHY    Extrinsic theories are the political correlates of teleological accounts  of morally right action which define a right action as one from which it  is reasonable to expect good consequences. In the doctrine of the  social contract, the most famous of extrinsic theories, the connexion  between obligation and good consequences is indirect. According to  the contractarian I ought to obey the state because I have somehow  promised or undertaken to do so. But the commitment from which my  obligation arises is not conceived as arbitrary, purposeless and un-  conditional. It is entered into for the sake of some ultimate end (for  example, security in Hobbes’s version, the protection of natural  rights in Locke’s). Its binding force is conditional on the effectiveness  of the state in realizing the end in question. For this reason a contract  theory can never be absolutist. It cannot, in the manner of some  intrinsic theories, assign unlimited authority to the state. Political  obligation may always lapse and the state’s authority be forfeited if  the conditions of the contract are not satisfied.   Two main objections to the contract theory should be mentioned.  First, since most people give no explicit undertaking to obey the state,  there is a difficulty about identifying the thing they do which is to be  interpreted as their making an implicit promise to obey. There is a  dilemma here. If the supposedly contractual act is not voluntary, such  as passively benefiting from the protection of the armed forces, it  cannot be regarded as a promise. If it is voluntary, such as voting in  an election, failure to perform it is not generally recognized as  relieving a man from his obligations as a citizen. Secondly, there is  Hume’s favourite objection that the good ends for which the promise  was made are sufficient to justify obedience to the state by themselves  and without the intermediary of a highly speculative act of moral com-  mitment. This leads to the conceptually more economical view of  utilitarianism, that obedience to the state is justified on directly  teleological grounds as a necessary condition of the general welfare,  the advantage of society at large.   The organic theory of political obligation is implied by the doctrine  of a general or real will advanced by Rousseau and Hegel. The theories  considered so far, intrinsic and extrinsic, conceive the fundamental  political situation as one in which some men, the citizens, are seen as  quite distinct from and wholly subordinate to others, the state. This,  the organic theorist maintains, is at any rate unnecessary and un-  desirable and perhaps, metaphysically considered, is an illusion. In  any properly constituted political system, perhaps in any effectively  functioning one, the state is or represents the better selves of the    INTRODUCTION 13    citizens, their real, general, impersonal, moral will as contrasted with  their private, particular, irrationally self-regarding will. In a political  system so conceived the citizens in obeying the state are following the  promptings of their real or better natures, subjecting their irrational  and self-interested passions to the control of their social and moral  reason. Rousseau thought that an organic and genuinely obligatory  political system was hard to attain, possible only in communities with  small populations and directly democratic institutions. Hegel believed  that it was approximated to in every effective state, to the extent at  least that it was historically possible that it should be. Rousseau’s  hyperdemocratic ideal seems as impossible of achievement as Hegel’s  bland redescription of the facts of political life seems unrealistically  complacent.   The analytic philosopher of politics does not give the general  problem of political obligation so central a place in the subject as his  traditional predecessors. It has the merit of raising conceptual  questions about arguments designed to establish the rightness of  action and of drawing attention to the difference between power, the  ability to secure obedience, and authority, the right to expect it. But  of more interest than the problem they have in common are the  different values which theorists of political obligation, to the extent  that their reasoning is teleological, see itas the state’s justifying function  to serve. The problem of political obligation represents the citizeri as  confronted by a single absolute choice between obedience and  resistance, between conformity and treason. Even in the least demo-  cratic societies the scope of an individual’s political action is seldom  so brutally circumscribed. Whether or not he has the formal right to  vote, to organize political associations and to convert others to his  way of thinking, he will have many means at his disposal for bringing  pressure to bear on the government, its acts, its composition, its  institutional form. The values that are relevant to the ultimate choice  between submission and rebellion are also relevant to a much more  extensive range of political choices. It is more profitable to consider  the ends of government on their own, detached from their traditional  involvement with a single extreme issue of political action.   The selections in this anthology from Professor Peters and Mr  Winch make up a debate about the correct interpretation of the  concept of authority which it is the aim of theories of political  obligation to explain. The paper by Mr Barry, in defending the  concept of the public interest, considers issues raised by Rousseau’s  notion of the general will.    14 POLITICAL PHILOSOPHY    4.The ends of government   An ideology prescribes ends for government. It lays down certain  ends as those to be pursued through political activity and through  political institutions. The simplest kind of ideology describes an  ideal society or utopia in which the ideologist’s values are fully  realized. Here the ideological aim is quite explicit. At the other  extreme a theory of political obligation can serve an ideological  purpose more indirectly. In it the preferred ends will appear as  necessary conditions for justifying the state’s authority.   There are objections to both procedures. Utopias, concentrating  on the long-range goal of political endeavour, neglect the problems  that arise about getting to the destination. Not all of these problems  are practical. The realization of one part of the ideal may bring un-  expected results in its train which obstruct the realization of the  remainder. One ideological defect of theories of political obligation  was pointed out at the end of the last section. The scope of an  individual’s political action is not confined to deciding whether or  not to obey the state. He can usually bring some influence to bear on  its selection of policies, its composition and its institutional form,  even in societies that are not formally democratic. Another defect is  that the essential conditions of political obligation, though they will be  included in one’s ideals, are not usually wholly coincident with them.  Only if I take the wildly extreme position of refusing to admit an  obligation to obey any government but a wholly ideal one will the  conditions of political obligation and the principles of political action  in general be identical.   The first task of the political philosopher in this field, and on one  view his whole responsibility there, is to clarify the concepts of  political ends. In the light of such a clarification he can critically  examine the arguments that are used to support the choice of political  ends. The conflicting conceptions that prevail of the political ends he  is concerned with express ideological disagreements and this makes  it hard to operate with strict neutrality and detachment. Opposing  ideologists try to pre-empt words like liberty, justice and democracy for  the type of political arrangement they favour. The political philo-  sopher can keep himself from being embroiled only if he confines  himself to articulating the way in which different ideological groups  use the terms in which they proclaim their ideals.   A plain example of this kind of ideological competition over a  concept is provided by liberty. The negative conception of liberty  favoured by liberal individualists is repudiated by collectivists in the    INTRODUCTION 15    interests of positive liberty. Negative liberty is absence of interference  by states, groups or individuals with the activities of individual men.  For interference to be an infringement of liberty it must be directed  against activities those interfered with actually want to carry out, it  must be intended to have this effect and it must work through dis-  incentives serious enough to be proper objects of fear. Positive liberty,  being commonly defined as the ability to do what I really want to do,  turns out to be very much like my ability to do what I ideally ought to  want to do. The conflict is not resolved by simply giving different  names to the two kinds of liberty and recognizing that one party  favours the one and its opponents the other. For both parties agree  that liberty ultimately consists in being able to do what you want to  do. But they disagree as to what this is and about how weare to find out  what it is.   There is a similar distinction between competing concepts of  democracy. Here, however, it is the positive conception that is the  more traditional: the view of Rousseau thata state is democratic to the  extent that its acts express the common will of its citizens. The  opposite view conceives democracy as a peaceful way of getting rid of  governments with which the majority of the citizens are dissatisfied  rather than as a means for the direct realization of their political aims.  Both parties agree that democracy is in some sense government by the  people. As for the rest of Lincoln’s formula: all government claims  to be for the people and all government is of the people—of whom else  could it be?) They disagree about how this agreed purpose is best  brought about.   There is some slight analogy between these opposed views of liberty  and democracy and two views about the nature of justice. The negative  view would be that the state ought not to treat its citizens differently  unless there is some relevant difference between them. Its positive  opposite number is that the state should seek to eliminate or com-  pensate for the natural inequalities of advantage that there are  amongst them. It could be argued that there is no real difference here,  since what one side sees as a natural inequality which the state ought  to do something about the other side could recognize as a relevant  difference justifying difference of treatment.   The most elementary form of justice is the impartial administration  of the law. This can be represented as a kind of equality since it  involves no account being taken in the judicial treatment of citizens of  those differences between them that are not mentioned in the law itself.  But laws that are justly administered can still be unjust in themselves    16 POLITICAL PHILOSOPHY    if the differences of judicial treatment they prescribe are in some way  unreasonable. While few would deny that equality is one principle,  perhaps the fundamental principle, of justice, few would maintain  that it is the whole of justice. The principle of equal treatment must  be qualified by the recognition that people have different needs and,  because of the services they have done, different deserts. Justice  might seem to be the most comprehensive of political ends, with the  possible exception of the common good, but on any definition it can  come into collision with other widely shared values. Unequal dis-  tribution of income or property may be defended on the ground that  it promotes general economic welfare. By according privileges to a  naturally well-endowed minority it calls forth specially productive  effort. Those who favour the maintenance of some productive in-  equalities—and there are, as the practice of professedly egalitarian  societies suggests, few who would wish to exclude them altogether—  are reluctant to say they approve a measure of injustice, But in this  they are perhaps as unreasonable as those who find it hard to admit  that the penal institutions of society are designed to reduce the liberty  of evildoers.   Everyone agrees that it is an essential function of the state to  preserve the security of its citizens. Hobbes held its preservation by  a sovereign to be the sufficient condition of justified obedience to him,  thus placing it above all other political values. Later political theorists  have taken a less gloomy view of the costs of achieving it and have been  prepared to accept some risk to security for the sake of other political  ends. The general agreement there is about itaccounts for the fact that  it poses no serious conceptual problems.   One political value that has not yet been mentioned has had a ve  large influence on the course of political history but is seldom  emphasized in works of political theory. This is prosperity. In so far  as it does occur in theory it is as a slightly embarrassing aspect of the  common good. No doubt its somewhat unspiritual character is  responsible for this neglect. Until fairly recent times governments  have taken no very direct part in its pursuit. They have confined them-  selves to legal regulation of the conditions of economic activity by  controlling the currency, levying customs duties, limiting hours of  work, granting monopolies and so forth. Only in the last century have  they undertaken the direct management of productive enterprises and,  as a result of more extensive economic knowledge, taken up the  positive planning of the economy. The explicit ideological motive for  much of this extension of the state’s control of economic life has been    INTRODUCTION 17    socialistic, and has been based on considerations of justice rather  than of prosperity. A major problem here is to determine how largea  part of the common good material prosperity is. The ideology of  laisser-faire maintains that the common good will be most fully  realized in a society with a freely competitive economic system. But  the economic theory on which this ideology is based includes the  concept of social cost which applies to deprivations inflicted on the  community by the competitive pursuit of wealth which the market  mechanism does not correct.   The simplest way of recommending a political value is to assert  that men have a self-evident natural right that it should be secured  to them. The doctrine of axiomatic natural laws drew much of its  appeal from its connexion with the idea that the principles of morality  are divine commands. With the recession of that idea arguments of  a teleological kind have come to be generally relied on. In some cases  these arguments are utilitarian in the narrow, traditional sense. Such  is the inference that liberty is good because the kind of restraint in  whose absence it consists is unpleasant. On the other hand, in his  famous defence of liberty John Stuart Mill, a professed utilitarian,  recommended it as the indispensable condition for the discovery of  new truths and the preservation of old ones, without stopping to con-  sider the bearing of truth on utility in the sense of happiness.   Political theorists have very often fastened on one political end or  other as supremely valuable and have argued that everything a reason-  able man would consider good will be achieved by its pursuit. In doing  so they have been led to extend the concept of their prime value so  that it covers things far outside the original field of its application.  Socialists have represented poverty as a kind of unfreedom while  conservatives have objected to limitations of the privileges of wealth  as cases of injustice. But there is no need to assume that all political  ends are ultimately identical, that in pursuing any of them to the  limit we must in the end realize all the others. It certainly seems that  there are direct conflicts between them. Liberty and equality are often  at odds with one another, as are liberty and security, or prosperity  and justice. If the concepts of political ends are clearly articulated  and understood, an effective kind of rational discussion about them  is possible which has no real point if they are all so stretched that  they run into one another.   Four of the selections of this anthology concern the ends of govern-  ment. Professor Berlin discusses positive and negative conceptions of  liberty, Professor Schumpeter positive and negative conceptions of    18 POLITICAL PHILOSOPHY    democracy. Mr Carritt examines the relations, and particularly the  tensions, between liberty and equality, as Mr Barry does in the cases of  justice and the common good.  THE USE OF POLITICAL THEORY PLAMENATZ  EVEN IN OXFORD, which more perhaps than any other place in the  English-speaking world is the home of political theory or philosophy, it is often said that the subject is dead or sadly diminished in importance. I happen to have a professional interest in assuming  that it is still alive, and as likely to remain so as any other subject as  long as man continues to be a speculative and enterprising animal. J  do not think I am biased; I do not think I need to be. The importance  of the subject seems to me so obvious, and the reasons for questioning  that importance so muddled, that I do not look upon myself as  defending a lost or difficult cause. Political philosophy is dead, I have  heard men say, killed by the logical positivists and their successors  who have shown that many of the problems which exercised the great  political thinkers of the past were spurious, resting on confusions of  thought and the misuse of language. Apply the solvent of linguistic  analysis to these pretentious systems, they say, and when the dross  has melted away, little that is valuable remains. I think that this isa  mistake, and I want to explain why I think so.   I admit that the great political thinkers have raised many spurious   roblems, that they have been confused and have misused language. I  believe that those who study their theories ought to subject them to  close and rigorous criticism. J believe that they made many mistakes;  but I do not believe that they were mistaken in trying to do what they  did. I do not believe that the progress of science and philosophy has  left no room for their kind of activity.   By political theory 1 do not mean explanations of how governments  function; 1 mean systematic thinking about the purposes of government. Perhaps it would be better to speak of political philosophy  rather than of political theory, keeping the second expression for what   From Political Studies, Vol. 8 (Clarendon Press, 1960) pp. 37-47. Reprinted by    permission of the author and the Clarendon Press.  ‘This article is based ona lecture given at the University of Exeter on 13 March 1959. purport to be explanations of the facts. If I have not done this, it is  because the word philosophy is nowadays used in a narrower sense  than it used to be, especially in English-speaking countries. The  political theory that I wish to speak about is emphatically not linguistic  analysis. It is a form of practical philosophy; it is practical philo-  sophy as it relates to government. I want to argue that it is a serious  and difficult intellectual activity, and that the need for it, in modern  times, is as great as ever it was—indeed much greater. It is not aneed  which disappears with the progress of science (and especially of the  social sciences), and is in no way weakened by the achievements of  contemporary philosophy.   It is not a less urgent need than it was; it is only a need less easily  satisfied.    ‘    I]    The belief that political theory or philosophy is dead rests on several  misconceptions.   1. In the past, political theory has often been a mixture of two  activities: it has sought to explain how government functions or how  it arose or why it is obeyed, and it has also put forward opinions  about what government should aim at and how it should be organized  to achieve those aims. These two quite different activities have not  always been kept distinct. Indeed, the Utilitarians were among the  first to insist that they ought to be so kept, though they did not always  take their own advice. Both these activities are useful. But, for reasons  which are not far to seek, the fact that they have so often been confused  has brought discredit on one of them much more than on the other.  In this scientific age, the explanation of what actually happens is  always respectable. We must have theories about how this or that form  of government functions; we must even have theories about govern-  ment in general, we must take notice of what is common to all forms  of government. These are all theories that can be verified; they are  attempts, more or less successful, to extend our knowledge. But, it  is said, theories about what government should aim at and how it  should be organized do not extend our knowledge; they merely  express preferences, while pretending to do much more. They vary  from age to age, from country to country, from party to party, from  person to person. It is conceded that they affect action and that  therefore we need to know what they are and how they arise. But it  is also taken for granted that what they are matters less than how they  affect men’s behaviour; that it is more important to inquire into    THE USE OF POLITICAL THEORY 21    their origins and consequences than to study them for their own sake.  They have to be studied because people have in fact taken them  seriously and been influenced by them, but reasonable men can do  without them.   There has been in recent times some resentment of, and contempt  for, political philosophy. It is said of it that it not only pretends  to give us knowledge but also stands in the way of our getting it.  Durkheim, in his Rules of Sociological Method, argued that political  theorists, in order to reach the conclusions they want to reach, define  the terms they use in such a way as to make it seem to follow from  their definitions of the state or of law or even of human nature that  government should aimat this rather than thatand should be organized  in one way rather than another. Political theorists, it is said, have   roduced concepts which stand in the way of a scientific explanation  of the facts because their real (though unacknowledged) function is to  justify what the theorists happen to think desirable.   It is certainly true that political theory or philosophy does not  produce the same kind of knowledge as political science, and itis also  true that it has stood in the way of political science.’ But even if  political philosophy has stood in the way of political science, that is  no reason for dismissing it as fantasy or the mere airing of preferences.  It is only a reason for distinguishing it from intellectual activities  of other kinds.   2. What has gone by the name of political philosophy in the past  has been shown to be remarkably confused. This has caused some  people impressed by the confusion to speak as if what the political  thinkers of the past attempted were not worth doing, and as if the only  useful function of political philosophy were to dissipate confusion.  Political philosophy, they say, is properly the analysis of political  concepts.   I do not deny the need for this analysis, and though I should wish to  use the expression political philosophy in a wider sense, I do not quarrel  with its being used thus narrowly. But if this is to be called political  philosophy, there still remains another intellectual activity, which is  neither political science nor political philosophy, which is more  important than the second and not less important than the first,  and which is likely to endure when political philosophy, in this narrow  sense, has lost what importance it now has. I should not wish to   11 think this second charge exaggerated: I suspect that it was much more ignorance    than the failure to distinguish between explanation and advocacy which impeded the  progress of political science. But I am not concerned to argue this point.    22 JOHN PLAMENATZ    quarrel about names. If, for instance, Mr. Weldon had wanted to do  no more than make a narrow use of the expression political philosophy,  I should neither have followed his example nor condemned him for  trying to set it. But I suspect that he wanted to do more than this; I  suspect that he wanted to suggest that, apart from political philo-  sophy, as he understood and practised it, and political science, there  was nothing important, difficult, and useful to be done by rigorous  and systematic theorists in the field of politics.   Political philosophy, understood in Mr. Weldon’s sense, is not  likely to remain important for long. At the moment, because political  thinkers still use ambiguous concepts, the careful analysis of these  concepts is still needed to show that many traditional problems are  spurious, arising only because the men who put them have fallen  victims to the confusions and intricacies of language. Since these  concepts are often borrowed from, or shared with, other studies  traditionally known as philosophy, the philosopher is better placed  than other people to show how they generate spurious problems. This  is an important service which the philosopher, in the narrow sense,  can still do for the student of politics. But those who practise this  kind of political philosophy should notice their own limitations.  When they show us what confusions of thought there are in Rousseau’s  doctrine of the general will or in Hegel’s doctrine of the state,  we have cause to be grateful to them. They see the nonsense in these  doctrines, and they explain what makes it nonsense. So far their work  is useful. If, however, they go further, they risk doing harm. They  are too ready to assume that where they have seen nonsense there is  no sense which they have not seen. Just as it takes some skill in  linguistic analysis to see the nonsense in Rousseau, so perhaps it takes  some knowledge of sociology and psychology to see the sense in him.   The philosopher in this narrow sense already does no service to  the natural scientist. He studies scientific method as the scientist  does not study it; and there is therefore a sense in which he under-  stands what the scientist does better than the scientist himself under-  stands it. He knows better than the natural scientist how science  differs from other kinds of intellectual activity. Yet he has nothing  to teach the scientist, for what he knows about science that the  scientist does not know is not knowledge needed to make a good  scientist. The philosopher does not help the natural scientist to either  his ideas or his methods. And so it will eventually be with the political  scientist; the time will come when he will need no more help from the  analytical philosopher. He needs him, even now, only to rescue him    THE USE OF POLITICAL THEORY 23    from confusions of thought; he does not need him, any more than the  natural scientist does, to produce the ideas he uses to explain the  events he studies.   3. The great variety of theories about what government should  aim at and how it should be organized has discredited these theories.  It is said of them that they do no more than expound the preferences  of their makers, and that in any case they are socially determined.   I do not see the force of these objections. What does the variety  of these theories prove about them? That they are not true? But if they  expound preferences, the objection is out of place. Itis unreasonable  to argue that they are not scientific, and then to object to them that  they are not true. They are neither true nor false.   Does the variety of these theories prove them unimportant? In just  what sense? Will anyone deny that they have had a large influence on  the course of history? The fact that they have not served as blue-prints  for the reconstruction of society is no evidence that they have not been  important. They have powerfully affected men’s images of themselves  and of society, and have profoundly influenced their behaviour.   Does the variety of these theories prove that we no longer need  them? I do not see that it does. What are we to have in their place?  Political science? But its function is not the same. It does notattempt  what these theories attempt. Why then should it supersede them? And  we can say the same of political philosophy as Mr. Weldon understood  it. Its function is different. It does not satisfy the same need. And  just as political science and the analysis of political concepts do  not satisfy this need, so they do not remove it. It is still there, no  matter how active and successful they may be.   Are these theories unimportant because they are socially deter-  mined? The production of such theories is an activity of man in  society, and is therefore affected by his other social activities. All  social activities limit one another. What men can do or even imagine  in one direction is limited and affected by what they can do and  imagine in other directions. We may agree that a theory like Marxism  could not have been produced in the Dark Ages. But then neither  could the steam engine have been produced then. The feasible and  the imaginable are limited by the actual. This is as true of industry  and science as of political theory.   We soon get into difficulties if, like Marx, we treat political theory  as of secondary importance. Marx called it a form of ideology or  false consciousness, contrasting it with science, which gives us real  knowledge; and he looked forward to the day when we should have    24 JOHN PLAMENATZ    true social science and be able to dispense with ideology. Yet he could  not help attributing great importance to ideology. A class, to be  politically effective, must have an ideology; and unless it is politically  effective it has no active role to play in history. Ideology is illusion,  and yet, unless men had these illusions, the course of social evolution  would not be what it is.   We have here an example of a type of simple and false reasoning to  which many people—and sometimes even philosophers—are still  prone. They show that one kind of theory is mistaken by its producers  for another kind, and then conclude that the second kind supersedes  the first. Marx’s version of it is this: the makers of ideology mistake  it for science, and therefore when science shall have come into its  own, there will be no room for ideology.   Marx made one kind of mistake, Burke made another. He thought  that political theory, except when it justifies the established order  is harmful. That, at least, is to admit its importance. Yet Burke,  because he did not see clearly the function of political theory, mis-  understood the French revolution. He saw the revolution as a disaster  caused by people’s being misled by the philosophers. Its immediate  cause was that the unprivileged classes were making new claims on  society, claims which could not be met unless society was greatly  changed. The philosophers did not create the conditions that disposed  the unprivileged to make these claims; their task was rather to  formulate the claims, toexpound them systematically, and to condemn  the old society which could not meet them. It was useless to rail at  the philosophers for disturbing society. It is true that there was no  overt demand for the theories they produced. There never is a  demand for such theories in advance of their appearance. But there  was a readiness to accept them when they appeared. There was, in that  sense, a need for them. Burke’s mistake was in not understanding this  need, and Marx’s in speaking as if the need would disappear when  the social studies had become scientific.   It may be true that the need is more difficult to satisfy the more  the social studies become scientific. It may also be true that, because  of the discredit into which traditional political theory has fallen,  the need is less widely recognized, especially among intellectuals,  than it used to be. The old political theorists did so many things  which they ought not to have done that we are tempted to conclude  that there is no longer a need to do anything that they did. We may  admire their fantasies, and yet say that the ime for fantasy is over.  We may say: By all means, let us state our preferences if we feel so    THE USE OF POLITICAL THEORY 25    inclined ; let us make explicit the rules of conduct and the ideals which  we accept. But this is something altogether more modest than what the  old political theorists attempted.   There is some truth in this way of thinking, but it falls so far short of  the whole truth as to be profoundly misleading. I want to explain  why this is so.    Ill    In primitive societies, custom and prejudice are perhaps sufficient  guides to conduct. And by prejudice I mean here what Burke meant by  it; I mean a belief about right conduct which the believer takes on  trust. In primitive societies, men can perhaps do without a systematic  practical philosophy, just as they can do without a dogmatic religion.  In the eyes of a sophisticated student of a primitive society, the customs  and beliefs belonging to it may forma coherent whole; he may see how  they fit together to make it the peaceful and contented society which it  is. But in the eyes of the primitive man, they are not a coherent but  only a familiar whole; he does not see how they fit together, he merely  lives comfortably with his neighbours and with himself because in fact  they do fit together.   The sophisticated man needs more than a set of customs and  prejudices which are in fact coherent, though he does not see that they  are; he needs a practical philosophy. He lives in a changing society,  and he is socially mobile in that society; he is not exposed to change  which is so slow that he cannot perceive it. He lives in a society where  men strive deliberately to change their institutions. If he is not to  feel lost in society, he needs to be able to take his bearings in it; which  involves more than understanding what society is like and how it is  changing. It also involves having a coherent set of values and knowing  how to use them to estimate what is happening; it involves having a  practical philosophy, which cannot, in the modern world, be adequate  unless it is also a social and political philosophy.   In the past practical philosophy was rooted in religion and meta-  physics; men derived, or purported to derive, their beliefs about  how they should behave and how government should be organized  from God’s intentions for man or from the nature of the world or  from man’s being a rational creature. But many of the teachings of  religion and metaphysics have been undermined by science or by  logic; they have been shown to be incompatible with the facts or to  rest on confusions of thought and bad argument. Not all religious    26 JOHN PLAMENATZ    and metaphysical doctrines have been directly controverted; for  many have referred to an order of realities supposed to be beyond  the realm of ordinary experience, with which alone science is con-  cerned. They are beyond the reach of science, and logic cannot touch  them if they are self-consistent. Yet the spread of science disposes  many people to reject even these doctrines. They reject not only what  science can show to be false, they also reject what science does not  show to be true. Though there is, perhaps, nothing irrational about  having both unverifiable and verifiable beliefs about the world,   rovided the first beliefs do not conflict with the second, many  people find it difficult to do this, and feel the need to reject all  beliefs for which there is no evidence. They may, of course, reject  them consciously, and yet also behave as if they believed them; which  is irrational. But that possibility does not concern us.   With the decay of religion and metaphysics there has gone a de-  preciation of the practical philosophies so long connected with them.  There has even been a change of attitude to the moral principles  contained in these philosophies. Let me give an example to illustrate  my meaning. ‘All men are equal in the sight of God’ is a statement  about God’s feelings and intentions for man; it purports to be a  statement of fact. It is not, on the face of it, a value-judgement; it  is descriptive and not prescriptive, and yet it is unverifiable. Connected  with this statement are beliefs about how men should behave. These  beliefs do not follow logically from the bare statement about God’s  feelings and intentions; they follow only if it is assumed (as of course  it always is) that men ought to behave in ways that further God’s  intentions for them. Though, when a man ceases to believe in God,  he is not committed to rejecting these beliefs, since they do not follow  logically from the statement that God has certain intentions, he is  inclined to feel less strongly about them. It is only when these beliefs  are put before him in some other connexion, as parts of some other  intellectual structure, that he is again disposed to accept them as  fervently as he did before.   The attempt to derive moral principles from theology or meta-  physics is a time-honoured way of putting them forward as principles  which all men everywhere do or ought to accept. Therefore, when  this manoeuvre is rejected, so too is the idea that there are universal  principles. It is admitted that there-always are moral principles and  that there always will be, it is admitted that the study of what they  are and how they arise is valuable. But the task of elaborating a  systematic practical philosophy is depreciated, it is what the theo-    THE USE OF POLITICAL THEORY 27    logians and metaphysicians used to do. It is what they still do, though  with less conviction now than when their labours were not greeted  with scepticism. The task made sense to them; but how can it make  sense to men thoroughly imbued with the scientific spirit?   Now, this attitude to practical philosophy is quite irrational. The  need for it is there, whether or not it is possible to derive universal  principles from beliefs about God or the world or man; it is there,  whether or not it can be shown that there are principles which men do  or ought to accept everywhere. Man today, much more than in the  past, must get his own bearings in the world; he must make himself  at home in the world, for he can no longer be at home in it merely by  conforming to the conventions and acquiring the prejudices of his  station in society. Indeed, he no longer has a station, as his ancestors  did; he is much more socially mobile in a much more quickly  changing society.   Self-conscious, sophisticated man’s conception of himself does not  consist only of what he knows about himself or thinks he knows; it  consists also of what he aspires to be. Admittedly, he is not what he  aspires to be; he is what he is. But the kind of image he has of himself  depends largely on what he aspires to be. He does not get his aspira-  tions from the sciences, not even the social sciences; he gets them,  directly or indirectly, from practical philosophy, whether or not  that philosophy is tied to religion or to metaphysics. He cannot live  from hand to mouth, following custom and accepting all current  prejudices as they come. He lives in a kind of society which makes him  critical and self-critical. To be happy, he must have aspirations,  and must also feel that he can live up to them; he must be true to  some image of himself. If he wants what he cannot get, or wants in-  compatible things, or has ambitions that bring him into conflict  with other men, he cannot be happy.   Not everyone is capable of acquiring for himself a coherent prac-  tical philosophy. Not everyone feels the need for it. There are doubt-  less some people—and who knows how many they are?—who are  quite content to drift through life. There are others who need guidance  but are incapable of philosophy. They seek guidance from churches,  from political parties, and from other organizations, and also from  friends. There are still others who make for themselves a practical  philosophy without engaging in controversy or adding anything to  the stock of ideas and arguments. But some there must be who do  the systematic thinking which goes to the making of practical philo-  sophies. They are not scientists; their business is not to explain what    28 JOHN PLAMENATZ    happens in the world. And they are not philosophers in the rather  narrow contemporary sense; their business is not to explain how  we use language or how we get knowledge or what exactly it is that  we are doing when we pass moral or aesthetic judgements or when we  make decisions. They are philosophers in a quite different sense: they  try to produce a coherent system of principles and to establish what  needs to be done to enable men to live in conformity with them. They  do not merely examine and compare the principles, showing where  they are incompatible and explaining their consequences; they do not,  like honest shopkeepers, display a large variety of goods, describing  them all accurately and leaving it to the customer to choose what  pleases him best. They produce a hierarchy of principles, and try to  explain how men should use them to make their choices. This is how  they help to provide them with a practical philosophy.   If the producers of these theories were like honest shopkeepers,  if they were mere purveyors of ideas, they could not meet the need  which it is their function to meet. If their business were merely to  explain what this or that principle amounts to, how it fits in with  other principles, and what is likely to happen when it is acted upon;  if their business were to offer a large variety of principles, or even  philosophies, for consideration, inviting every man to make his own  choice among them, they would only bewilder and annoy. But they are  not mere purveyors of ideas; they are preachers and propagandists.  They are people who have, or who believe they have, discovered how  men should live; and they will not be listened to unless they speak  with conviction. They need not all speak with one voice, but each of  them must take his stand. This is a condition of their effectiveness.  If every missionary were to explain several different religions to his  listeners, leaving it to them to make a choice, religion would take  no hold. A man must already be committed before he can do much to  help other people to commit themselves. As it is with missionaries,  so it is with philosophers of this kind. Their business is to help people  commit themselves. Freedom of thought is preserved, not because  each thinker offers several theories for inspection and choice, but  because different thinkers offer different theories with equal con-  viction. It is not the variety of strongly held convictions among the  intellectual ¢dlite which is bewildering and depressing; it is the  lack of conviction among them. Strong convictions attract and repel;  they do not leave people indifferent. They encourage those who have  the ability to do so to make up their own minds, to know where they  stand. They do what science and linguistic analysis cannot do.    THE USE OF POLITICAL THEORY 29    It is not enough that practical philosophies should be strongly  held; they should also be well thought out and realistic. They should  aim at self-consistency and at taking account of the facts.! The more  thoughtful they are, the more they encourage thought in the persons  who take stock of them. It does not matter that very few people should  swallow them whole. Whoever considers them seriously will usually  want to do more than establish their merits and defects, he will also  want to construct a practical philosophy for himself, and the more  they challenge thought in him, the more thoughtful that philosophy  will be.   The more men live in societies which change quickly, the more  mobile they are in those societies, and the more accustomed to the  idea that they can, by taking thought, change their social environment  to come closer to their ideals, the greater the part of social and poli-  tical thought in practical philosophy. Its business is to relate a  coherent body of principles to government; its business is to tell us  what government should do to realize those principles and how it  should be organized to do it. Political theory, as distinct from  political science, is not fantasy or the parading of prejudices; nor  is it an intellectual game. Still less is it linguistic analysis. It is an  elaborate, rigorous, difficult, and useful undertaking. It is as much  needed as any of the sciences. Its purpose is not to tell us how things  happen in the world, inside our minds or outside them; its purpose  is to help us decide what to do and how to go about doing it. To  achieve that purpose, it must be systematic, self-consistent, and real-  istic. We learn to cope with the world, not by collecting principles at  random, but by acquiring a coherent practical philosophy, which we  acquire largely in the process of considering other philosophies of  the same kind.    Practical bisenee gS is deeply affected by psychology and the social sciences.  Though we do not logically derive our values bent what we know (or think we know)  about ourselves and our social environment, we do change them as we change our  minds about the facts. No one has done more than Freud to change our standards of  sexual morality. Though these changed standards do not follow logically from his  psychological theories, people who accept the theories are more disposed than they  would otherwise be to accept the standards. But this detracts nothing from the im-   ortance or the distinctive Beir of practical philosophy. Art, too, is deeply affected   y science and by practical philosophy, and yet it is an activity of a quite different  kind which seems unimportant only to people who do not understand what it is. The  more our standards are liable to change, the greater our need for practical philosophy.  The greater our need, not just to understand how they have changed, but to introduce  order among them. The need for practical philosophy is part of man’s need to be his  own master, to make up his own mind how he shall live and what he shall be.    30 JOHN PLAMENATZ    No doubt only a small minority acquire, or are capable of acquir-  ing, a coherent practical philosophy. But then only a small minority  are capable of becoming scientists. We do not show that an activity is  unnecessary or useless by showing that onlya few persons engage in it.    IV    It may well be that no practical philosophy, and therefore no  political theory, is universally acceptable. There may be no set of  principles of which we can say: if men understood these principles,  and also understood what human nature is and might be, they would  accept them. I suspect that Marx and Engels believed the contrary.  They denied that a practical philosophy can be derived logically  from theology or from the nature of man, but they believed, none  the less, that the fundamental rules and values of the classless society  are universally acceptable, in the sense that men who understand  what man and society are and might become do accept them. They  expected the morality of classless societies to be everywhere the  same and unchanging.   To defend my thesis I need not go as far as Marx and Engels went.  I say only that the need for practical philosophy exists in all sophis-  ticated societies. Just as sophisticated man is a scientist and an artist  and an analytical philosopher, so too is he a practical philosopher  and a political theorist. Most men, of course, are not so, but some  are. Modern society creates a need for what they do which can neither  be destroyed nor met by science and analytical philosophy.   There is nothing illiberal about practical philosophy and political  theory, thus conceived. Admittedly, they are indoctrination; they are  not the mere sorting out of ideas and their implications. But there need  be no monopoly of indoctrination. In a liberal society there are some  principles common to all or most of the political theories currentin it.  There is both community and variety of beliefs. But the beliefs held  in common are as much open to question as the others. For society to  remain liberal, it is not necessary that these beliefs should not be  questioned; all that is needed is that they should be widely accepted.  The more men differ, and the longer they have been accustomed to  differing, the more likely they are to accept principles which make it  possible for those who differ to live peacefully together. The principles  commonly accepted are not more strongly held than the others; they  are merely held along with the others. The Catholic or the Protestant  who believes in toleration is not a liberal first and a Catholic or a    THE USE OF POLITICAL THEORY 31    Protestant afterwards, nor is he a less fervent believer than he would  be if he were intolerant. So it is also with political creeds; they are not  the less strongly held merely because those who hold them are  tolerant.    U  POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY!    P. H. PARTRIDGE    My object is to comment upon what seem to me to be some typical  trends in current English and American political theory, having in  mind the view that has recently been constantly asserted, that political  theory has been in decline or may even have expired during the last  few decades.? I will argue that the report of death, even of decline,  is grossly exaggerated, that in fact the present period is unusually  fertile in thinking about politics that is not only original and  important, but is also, at any rate in many significant respects, entirely  in the traditions of ‘classical’ political theory. That is one half of  my thesis; the other half is that during the past few years some very  important shifts in interest, approach, and emphasis have certainly  occurred; and I shall make some suggestions about the character of  these shifts, and the reasons for them.   Unfortunately, those who have beer; announcing die decay or death  of classical political theory have as a rule taken less trouble to  establish the fact of death or decay than to assert its causes. I do not  know what kind or amount of evidence is necessary to prove that  political theory has declined in volume or quality, but the assertion  does not seem to be very plausible on its face. For one thing, changes  of this somewhat radical kind do not occur quite so dramatically as   From Political Studies, Vol. 9 (Clarendon Press, 1961), pp. 217-35. Reprinted by  permission of the author and the Clarendon Press.    'The writer is very deeply indebted to Professor Wilfrid Harrison for many sug-  gestions for the improvement of the form of this article.    'This is a selection from some of the more recent books and articles which have  discussed the present condition of political theory: A. Cobban. ‘The Decline of  Political Theory’ (Pol. Sa. Q., vol. Ixviii, no. 3, cae J. C. Rees, ‘The Limitations of  Political Theory’ (Pol. Studies, vol. ii, no. 3, 1954); P. Laslett (ed.), Philosophy, Politics and  Society (1956); G. C. Field, ‘What is Political Theory?’ (Proc. Arist. Society, vol. liv);  G. E. G. Catlin, ‘Political Theory: What is It?’ (Pol. Sc. Q., vol Ixxi, no. 1. 1957):  D. Braybrooke, ‘The Expanding Universe of Political Philosophy’ (Review of Metaphysics,  vol. xi, no. 4, 1958); J. P. Plamenatz, ‘The Use of Political Theory’ (Pol. Studtes, vol.  vii, no. 1, 1960); H. R. Greaves, ‘Political Theory Today’ (Pol. Sc. Quarterly, vol.  Ixxv, no. 1, 1960); A. Brecht, Political Theory (1950); H. V. Jaffa, ‘The Case Against  Political Theory’ (Journal of Politics, vol. 22. no. 2. 1960); L. Strauss, What is Political  Philosophy, and Other Studies (1959).    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 33    this one is sometimes supposed to have occurred. Or, again, if we call  to mind the very large number of books that have dealt quite recently  with such central problems as the nature and conditions of democracy,  the group theory of political action and structure, and the theory  of bureaucracy, one might have thought that there has never beena  time when so much theoretical speculation about politics has been  going on. Clearly, when writers nevertheless maintain that political  theory is in decline, they must have something else in mind. Hence,  we should perhaps begin by considering briefly what are some of the  different things that political theory has meant, what different sorts  of thinking about politics the name has been applied to. Some kinds  may have become unfashionable, while others have continued to  flourish.    I   Classical political theory has usually been a mixture of different  kinds of inquiry or speculation. One could distinguish three different  impulses—philosophical, sociological, ideological. This paper will  be mainly about the third, but I want to say something first about  all three. The political speculation of Plato, Hobbes, Locke, or Hegel  is philosophical chiefly because each of these writers has tried to  connect his conclusions about political organization, or about the  ‘ends’ of political life, with a wider philosophical system. He has  tried to derive political and social conclusions from more general  beliefs about the nature of reality, to show that every sphere of  reality, including the political, possesses certain common features  or ‘categories’, that all these spheres can be spoken about in the same  logical language, that, in short, political conclusions follow from or  are supported by more general logical and metaphysical principles.  And one obvious reason for the current impression that classical  political theory is in decay is that there is not so much of this sort  of argument now: many philosophers now insist that one cannot  deduce the ‘rightness’ or ‘rationality’ of a form of political organiz-  ation, or of a political policy, from more ultimate principles. For  example, that section of Weldon’s Vocabulary of Politics which deals  with what he calls ‘foundations’ has this main philosophical purpose.   As I have said, one special form of the traditional connexion  between philosophy and politics starts from the conception that it is  the task of philosophy to exhibit what is common between the social  and other ‘spheres’ of reality. Historically, of course, this has been  a most important link between philosophy and politics; for instance,    34 P. H. PARTRIDGE    philosophical atomism has lent support to social individualism, the  dialectic and the concrete universal are as important in Hegel’s social  theory as in the more philosophical parts of his work; and more  recently some of the earlier political pluralists gained some support  from the criticisms of philosophical monism developed by William  James and others.   But clearly, a great deal of political theory has not been philoso-  phical in this sense. Although de Tocqueville or Graham Wallas  discussed some of the problems that political philosophers also  discussed, their political views were not systematically connected  with a philosophical position. A lot of de Tocqueville’s writing we  should now describe as sociological; he asserts generalizations,  including causal generalizations, about the behaviour of social  phenomena. Naturally, this is not only true of the de Tocquevilles,  Bagehots or Maines; even in the writings of the political philosophers  in the more technical sense, there is much sociological general-  ization—Hobbes is a notable example. Political philosophy was, of  course, one of the parents of contemporary sociology. And no one  doubts that the development of sociology as a specialized, altogether  more rigorous, subject has also affected general political and social  speculation.   By the ideological impulse I mean merely the form of political  thinking in which the emphasis falls neither on philosophical analysis  and deduction, nor on sociological generalization, but on moral  reflection—on elaborating and advocating conceptions of the good  life, and of describing the forms of social action and organization  necessary for their achievement. Of course one cannot draw a sharp  line between ideological and philosophical political writing: almost  all political philosophy has been ‘practical philosophy’ in that it has  had the practical object of persuading readers of the ‘rationality’ or  moral superiority of some specific form of social organization. Even  the Leviathan has such a practical aim, although Hobbes’s practical  conclusions are.grounded upon philosophical and other argument  which has usually been taken to be of greater interest than the  practical purpose. But Rousseau, unlike Hobbes and Hegel, was not  primarily a philosopher. The Social Contract introduces some general  distinctions and conceptions of a philosophical kind, the significance  and limitations of which were more developed by later writers, includ-  ing Green and Bosanquet. But one would not expect much to be said  about Rousseau in a history of philosophy—not, at least, in one  written by an Englishman. In his case it would be very easy to detach    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 35    and stress the ideological element. In fact, this is what seems to have  happened: the image or model of democratic society drawn from the  Social Contract has been very much more influential historically than  any philosophical conceptualization or argument that the book  contains.   But no matter how we choose to classify any theorist, I think it will  be agreed that we can distinguish these three different impulses and  interests, and these three ‘orders’ of political thinking. Nor will any-  one dispute that one very powerful interest throughout the course  of European social thinking has been the ‘ideological’—moral  argument about ends and ways of life, and about the institutional  conditions of the good life.    IJ   Possibly each one of these impulses has grown weaker in recent  years. Undoubtedly the progress of detailed empirical political and  social inquiry has shaken the habit of speculative sociological general -  ization of the ‘philosophical’ kind, the concoction of what Dahl has  called ‘macrotheory’ in politics. Part of what is to be found in  classical political philosophy has now been absorbed into political  science and sociology. Again, many philosophers now reject the  conception of philosophy, and of the resulting connexion between  philosophy and politics, on which most of classical political philo-  sophy (in the strict sense) rests. I cannot here discuss the technical  reasons for the rejection: I shall make just one remark—addressed  to many political writers who have been lamenting the decay of  traditional political philosophy: this lament is idle if you have no  answer to the technical philosophical arguments which can be dep-  loyed against the practice of supporting conclusions about the  ‘functions’ of the State or about the rational ordering of social life  by resting upon ‘higher’ or ‘more ultimate’ logical and philosophical  principles.   But does it follow that these philosophical arguments have  produced a decay of philosophical political theorizing? I should  argue that there has not been such a decay. While philosophers have  been disclaiming competence in political discussion, political scient-  ists have been delighted to accept their disclaimer; and it can be  argued that what is now happening is only an example of the familiar  separation of a distinct subject from the parent philosophical stem.    ‘See his review article on de Jouvenel’s Sovereignty—‘Political Theory: Truth and  Consequences’ (World Politics, vol xi, no 1, 1958).    36 P. H. PARTRIDGE    Political science, like economics, and other sciences, has reached  the point where the specialists must themselves deal with the very  general matters, including conceptual analysis, popularly or tradi-  tionally called ‘philosophical’; and they do so at a level of sophistic-  ation and complexity which the philosopher qua philosopher could  hardly approach. The boundaries between philosophy and politics  are being redrawn. A number of twentieth-century philosophers have  drawn a very sharp line indeed between ‘philosophical’ questions  (or conceptual analysis) and ‘empirical’ questions; between ‘second  order’ and ‘first order’ statements about politics. By and large, the  political scientists have been sensible enough to see that the drawing  of this sharp boundary is hopelessly disabling for the study of social  theory, and have ignored it. On the other hand, the philosophers who  have imposed it have been left in occupation of only a wafer-thin  slice of the territory of politics—as The Vocabulary of Politics clearly  demonstrates.   The philosophical impulse, in fact, is not the most important part  of our inquiry; technical philosophy, after all, has only a limited  influence; many of the most important political theorists of the last  three centuries were not much influenced, or not influenced at all, by  the technical philosophy of their own time. The philosophical impulse  or influence is only one of those which have sustained political  speculation; others have been equally or even more important. This  brings me, then, to the ‘ideological impulse’ with which, in one way  or another, the rest of this essay will be concerned.    iil   The writers who have drawn attention to what they interpret as a  languishing of philosophical thinking about politics have mainly in  mind the political philosophy which has been an extension of moral  theory—which inquires into the ends of the State and its morally  right organization (What is the State that I should obey it?)—into  the morally necessary or morally justifiable ordering of political  society. The ‘decline of political theory’ is taken to be the decline of  the moral interest in politics. ‘On the one hand, there is a great deal  of eagerness to deal with politics in mora] terms; on the other, the  insights of psychology, anthropology and of political observation  have silenced the urge.’! It is this fact—if it is a fact—that is most in  need of explanation.    ‘Judith Shklar, Beyond Utopia (Princeton, 1957), p. 272. J..P. Plamenatz’s article  ‘The Use of Political Theory’ (Pol. Studies, vol. viii, no. 1, 1960) and H. R. Greaves,    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 37    Is it a fact that there has been a ‘slackening’ of the ‘moral urge”?  Once again it is not hard to construct a case against. There is, after  all, a very large amount of contemporary discussion of the moral  foundations and dimensions of politics; for instance, the many  fashionable criticisms of secular or positivistic liberalism such as  are examined by Frankel in his Case for Modern Man. Nor should we  overlook the moral discussion to be found in the pages of sociologists  who are interested in the non-political areas of social life. One striking  (and perhaps strange) feature of recent American sociology has been  the popularization of the notion of ‘alienation’. This, together with  the closely connected themes of anomie, depersonalization, the  atomization allegedly inherent in large-scale industrial society, the  supposed dissolution of ‘community’ and aggrandizement of the  State and other depersonalized, bureaucratized forms of organiza-  tion, is surely one of the most widely-followed fashions of social  thought at present. Perhaps there is a good reason for this; perhaps  the social conditions and changes which appear to be morally most  significant are not changes, or possible changes, in political arrange-  ments or institutions, but those at other levels of society. The kind  of lives people live in modern cities, the demands that industrial and  other great organizations make upon them, the effects of commer-  cialism, industrialization, and ‘mass media’ on popular culture—one  could argue thatitis in such contexts thatthe more importantoccasions  for moral disquiet and reflection are to be found. In other words, if  the moral interest in politics has declined, one reason could be that  questions of political organization, of allocation of political rights  and powers, &c., are not at present generally felt to be morally  critical.!    IV   I want to develop this. There now prevails in England and the  United States and in several other Western-type democracies a quite  unusual degree of political relaxation and consensus. J shall not try to  state carefully what this consensus embraces; but it obviously  embraces the fundamental constitution of the liberal-democratic  order. There is no significant social or intellectual movement which  calls into question the broad structure of rights and powers under-    ‘Political Theory Today’ (Pol. Sc. Quarterly, vol. Ixxv, no. 1, 1960) are examples of  this line of argument.    'I am speaking of course of the Western democracies; the reader will immediately  protest against this remark if it is applied to contemporary Africa.    38 P. H. PARTRIDGE    stood to constitute or define a democratic polity. There are no new  classes struggling to win a share in political power, none struggling  for an enlargement of power in ways that would entail substantial  modification of political foundations. In Western Europe since, let  us say, the beginning of the seventeenth century, it is not often that  this could have been said. One could point, of course, to important  contemporary controversies about rights or liberties (e.g. contro-  versies about limitations upon the freedom of action of trade unions),  but such controversies tend less and less to raise issues of great  generality, and generality has normally been taken to be the work of  philosophical issue in politics.   Now, if this is roughly true, it is plausible to suppose that this  consensus (and not technical changes in philosophy or the growth of  empirical social science, or other developments of extremely  circumscribed influence) is the main factor affecting the character of  contemporary political theory. If classical political theory has died,  perhaps it has been killed by the triumph of democracy. At any rate,  this seems to me to bea very relevant consideration which has not been  sufficiently noticed by those who have written about the decay of  political theory.’   In fact, the consensus appears to include more than the general  system of powers and rights and the legally established institutions  which give effect to them. It seems to embrace also objectives and  justifications of policy. Is there not an all but universal acceptance    ‘May we not suspect the influence of ideological consensus even in some of the  arguments employed by recent English philosophers? The late Miss Margaret  Macdonald, for example, in her well-known essay, The Language of Political Theory,  argues that the orthodox question Why should I obey the State, or Why should I  obey the law? is in principle unanswerable. I can give reasons why I should obey  (or disobey) this particular law; but there is no answer to the general question  Why should I obey the law (or the State)? Now, apart from the question whether  this argument does justice to what such a philosopher as T. H. Green was really  saying, we may ask whether the argument would in fact always hold. If we give  the State a content (let us take it to be, for example, a secular political authority  claiming ultimate or sovereign political power over all other institutions), have  there not been theocrats and anarchists to whom it was by no means obvious that  the State, as distinct from other institutions, was entitled to claim final obedience?  If there is, then, a real general issue, is it pointless to try to make a case in general  terms for the supremacy of the State ae its law, though we may admit that it is  a general case only, and that there may quite well be conditions—as Green, along  with other political philosophers admitted—under which the case for the State’s  final authority does not hold? May not Miss Macdonald’s argument derive some  plausibility from the fact that the State and its legal supremacy are now so firml  established as a matter of historical fact that to ask in general, Why should I obey  the State? seems as sensible as to ask why I should obey the laws of gravity?    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 39    of the belief that continuous technological and economic innovation,  uninterrupted expansion of economic resources, a continuously rising  standard of ‘material welfare’, are the main purposes of social life  and political action, and also the main criteria for judging the success  and validity of a social order? No doubt, there is in any of the  societies I have referred to some public questioning and criticism of  these objectives and criteria; nevertheless, these are the objectives  and criteria which define the course of contemporary democratic  politics. They are the ‘built-in’ criteria which render irrelevant and  impotent any alternative social philosophy.’   To speak of unusual ideological consensus when it is popularly  supposed that the world is divided by warring ideologies may seem  paradoxical; but the career of communism in England, the U.S.A.,  and some other democracies reinforces the argument. Communism  has had no important effect in these countries as an alternative  political philosophy; in England, as Miss Iris Murdoch has put it,  communism has been left to the communists: one of the chief forces  in creating and consolidating democratic consensus has been the  repudiation of the consequences of communist revolutions. And one  might document the growth of consensus in England by examining  the history of socialist thought over the past three or four decades.  There are now few socialist writers who advocate any systematic alter-  native to the basic political assumptions and arrangements of a  liberal-democratic system. Most of the specifically socialist notions  of extended democratic rights and institutions which had some  currency earlier in the century—industrial democracy, workers’ parti-  cipation in management, guild socialism, and so on—are not much  heard of now in serious politics. One of the most interesting points  about such recent English works as Crosland’s The Future of Socialism  and Strachey’s Contemporary Capitalism is that they disclose very plainly  indeed how the standard institutions and procedures of liberal  parliamentary democracy are now accepted as common ground.    Nt is possible, of course, that the political and moral consensus may be more  superficial than appears; and that there may be conflicts or frustrations growing  in the deeper social soils that most of us are not sensitive enough to perceive. If  the sociologists to whom I earlier referred are right in much of what they say about  the psychological dissatisfactions and social dislocations of industrial society, then  this may be so. At any rate, they have not yet become significant in practical  politics, and, except for a few writers of the ‘new Left’ in England and America,  they have not provided material for new political formulations. In his Beyond the  Welfare State, Myrdal tries to describe in more detail the consensus that exists in  the stable democracies; he seems to have no doubt about the stability of the  prevailing agreement upon the arrangements and objectives of the Welfare State.    40 P. H. PARTRIDGE    Vv   But, further, there is the even more interesting and important fact  that some of the most influential political theorists of the day have  become consciously anti-ideological. A closer look at some of the  arguments which have been brought to bear against ideological  politics will help us to see more clearly what is happening in con-  temporary English and American political theory.   By and large, the ruling trend of contemporary theory has been  reacting against the more optimistic philosophies or ideologies of the  past two centuries; consciously or implicitly, it has set about deflating  the larger ideas of human possibilities that recommended themselves  to many thinkers in the past, and has engaged in the job of cutting  down our notions of man’s nature to size.   The argument against ‘ideological politics’ has taken a number of  different lines. It may simply assert that ideological ways of formulat-  ing political attitudes and objectives have declined in the course of  this century as a matter of fact. But most writers who have touched on  this theme have intended to do more; they have produced an account  of what they believe to be rational political action. One argument is  that ideologically-dominated thinking has no relevance to the  controlling facts of contemporary social structure and change. ‘Grand  alternatives’ like capitalism and socialis™ are irrelevant, because our  choice is not between all-inclusive and mutually exclusive alternatives ;  in any society, there may be an indefinite number of ways in which  different institutions and social mechanisms may be arranged and  administered. Sometimes, this point is connected with a wider point—  that ideological thinking has usually been totalistic; that is, that it  has assumed that every important characteristic of a society is con-  nected with a single governing mechanism, and that the whole of  human life can be transformed from a central point. Thus, it is  suggested, ideological thinking tends to adopt global views of social  structure and political action.!   Again, it has been argued that this totalistic illusion has been  responsible, in those countries which have suffered ideologically-  inspired revolution, for much of the barbarism of the twentieth-  century upheavals. The attempt to transform society globally can  never be successful, and demands the employment of force on a  monstrous scale and ina never-ending process. The logic of the idea   'This is suggested by the way in which some followers of Marx have talked about    ‘the’ revolution; as if there were one revolution that would transform society, and  the eradication of all social evils waited upon ‘the’ revolution.    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 41    of total transformation leads to perpetual force, apart from the fact  that ideological conviction is often associated with moral and political  fanaticism.   Finally, I must mention the criticism of ideological politics that  Edward Shils has developed because it is theoretically the most  penetrating and interesting. Shils’s criticism connects with his theory  of social groups and kinds of social cohesion. His argument is meant  to suggest, I think, that those who have defined political action (or  the change to be accomplished by political action) ideologically have  erred by imposing upon civil society a character repugnant to it, one  which rather characterizes other types of social grouping and adhesion.  Civil society, according to Shils, is characterized by a plurality of  groups, interests, and values, and the attachment of the members of  civil society to the common set of values is normally moderate, luke-  warm, sporadic, and intermittent. Thus, those who envisage a civil  society as embodying a shared and intensely experienced set of  common values are really imputing to civil society the emotional,  psychological, or moral qualities that are characteristic of quite  different types of social group, for instance, the sect or the community  bound by ‘primordial’ ties of blood or propinquity. The attempt to  create a civil society possessing a heightened emotionalism, and a  more intense, inclusive, and continuous integration around a  common ‘centre’, is thus bound to be destructive of liberty and other  political values of civil society.’   For such reasons, much recent British and American political  theory has been concerned with the devaluation of ideology and  ideologies, with showing the importance of ‘technique’ as opposed  to ideology, or with showing that ‘incrementalism’ (Dahl and  Lindblom), or ‘piecemeal engineering’ (Popper), are the most rational  methods of political change. Now, this quite considerable body of  recent writing obviously raises some very important questions (the  question of the nature and function of ideologies in politics has  certainly not been exhausted); and it seems odd, therefore, that  there should be so much talk about the decline or decay of political    'The reference is primarily to the article, ‘Primordial, Personal, Sacred and Civil  Ties’, in British Journal of Sociology, vol. 8, no. 2. Some of the bearings of this view  upon questions of political philosophy are suggested in The Torment of Secrecy. Mary  other lines of contemporary political thinking are allied to those I have summarized.  For example, Talmon’s studies of the history of political ideas, Totalitarian Democracy  and Political Messianism, have a similar tendency; as have the various articles that  have recently appeared discussing the positive functions of political apathy in  democracies, for example, W. H. Morris Jones, ‘In Defence of Apathy’ (Pol. Studies,  vol. iv, no. 6, 1954).    42 P. H. PARTRIDGE    theory. Nor does this particular line of thought justify the suggestion  that political theory has been entirely supplanted by factual or purely  descriptive and explanatory political ‘science’; for these writers are  concerned with the justification of forms of political action and  organization, just as political philosophers have always been. The  method of justification is no doubt different; writers like Shils ground  their conclusions on sociological premises rather than on more  general philosophical ones. But this is but another illustration of the  point already made that in twentieth-century political theory the  discussion of the general issues is being detached from ‘philosophy’  and more and more closely linked with empirical social inquiry.   It could be argued, I think, that the thorough-going pluralism  of present-day Anglo-American political theory has tended strongly  to inhibit the formulation of general principles, values, or objectives  of political life. It is the pervasive belief of current English and  American political science that the ‘essence’ of democratic politics  is a process of bargaining and of finding adjustments between compet-  ing demands, interests, values, ways of life-adjustments that will be  more or less temporary and shifting as conditions change within and  without society. In the more stable and affluent democracies this is  the character that present political life has assumed. And this, surely,  is enough to account for the relaxed atmosphere of modern demo-  cratic politics, the absence of political ideas of general range and  importance, and of comprehensive political doctrine. In general,  the politics of adjustment is one that directs itself to separate and  limited issues, most of which affect only limited sections of a com-  munity, and any one of which engages rarely, and usually only  marginally and casually, the interests or passions of a large span of  the public, and which are unlikely, therefore, to generate political  movements or coherent bodies of theory which aim to articulate a  whole cluster of issues. It is evident that this corresponds very closely  to Shils’s account of the nature of ‘civil society’.    4It is not only in political thinking that particularism or piecemealism is the  prevailing habic of thought. Wright Mill’s recent book, The Sociological Imagination,  may be read as a protest against this habit of thought in a wider context. If I follow  him correctly, when he advocates the ‘sociological imagination’, he is protesting  against the practice of many sociologists—the ‘abstracted empiricists’—of concentrating  upon the separate and circumscribed social phenomenon or problem. He still believes  that one can explore the structure of society as a whole; that there are controlling  areas (or at least especially strategic areas) through which a wide range of social life can  be affected; and that contemporary social theorists fail to attend to those strategic areas  within the social system which have the widest influence on freedom and other values  of democratic society.    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 43    It would take me too far afield to try to examine in detail the  now standard arguments against ‘ideological politics’; I shall make  only one or two observations. One might argue, to begin with,  that the writers to whom I am referring are incautious in their  acclaim of the passing of ideologies; that they are generalizing too  boldly from the special conditions that now happen to obtain ina  few societies. Again, it may even be misleading to say that in  these societies the function of ideology has vanished. It can be  argued that the politics of ‘incrementalism’, of bargaining and  adjustment, of the pursuit of limited objectives, can itself operate  as it does only because of the strong and wide ideological con-  sensus that happens to rule in these societies. In his Preface to  Democratic Theory, Dah! makes the point that the processes of  bargaining and adjustment of claims involve agreed values and  principles which keep political conflicts within bounds, limit the  demands which minorities will seek to have granted, define the  range within which acceptable solutions are known to lie, and so  on. But this is a point of general importance. Recent political  theorists have been apt to under-emphasize the extent to which  all the elements which enter into the consensus operate as a  necessary condition of effective political bargaining and com-  promise. Ideology may be no less an important element in a  political and social system because it lies below the level of general  political controversy.   Again, just because of the special circumstances of our time, we  may be too ready to conclude that ideology is a false, irrational, and  even disastrous guide to political action. We look back over recent  history, and we see that the aspirations and expectations of ideological  and utopian thinkers or agitators differ ludicrously from the states  of affairs that actually came to be: such highly-charged ideas as  equality, fraternity, ‘positive’ freedom in the sense of general partici-  pation in the control of social affairs, and notions about a classless  society, common ownership and the like, seem to have come to very  little. And these large moral intimations have apparently not only  been held to be irrelevant to the actual course of events: it is often  argued that they have been pernicious in their effects: they have  encouraged colossal blundering, they have blinded men to the under-  standing of their own limitations, to the reality of original sin  (Reinhold Niebuhr’s account of the human situation accords with  many of the other fashionable currents of present-day social thought) ;  they have provided facile justifications for ruthlessness and terror.    44 P. H. PARTRIDGE    Michael Polanyi has somewhere argued that the revolutionary excesses  of this century have resulted partly from ‘the excess of theoretical  aspiration over practical wisdom’. Consequently, it is not hard to find  grounds for arguing, as Popper does in effect in The Open Society and  its Enemies, that gradual, piecemeal, ‘experimental’ attack on limited  and particular problems, the pragmatic alleviation of particular  evils, is the only rational method of political change.   In a sense, this sort of argument is incontrovertible. Political  ideology has often been mainly faith, myth, superstition, political  and moral dogmatism and fanaticism; when at full flood it has  sometimes produced the most appalling destruction of existing  institutions, traditions, and values. It would indeed be difficult to  hold that there was anything rational about such ideology-  impregnated social upheavals: to say that they are a ‘rational’ way  of bringing about desired social change would be as strange as to  say that an earthquake is a good way of producing a lake.   Yet it seems to me that none of these arguments suffices to dismiss  ‘ideological politics’ as an obsolete and irrational method of social  change. They cannot be ‘justified’; but they may be inevitable in some  circumstances; and we may also be able to argue—with the wisdom of  hindsight and from the point of view of historical determinism—  that they were the necessary condition for the production of certain  social changes now accepted as desirable. ‘Justification’ and ‘ration-  ality’ are categories applicable only within spheres of social action  and change where calculated choice can be made; they apply only  within the means-end model of social change and explanation. But  could we not argue that there are certain types of social change which  are (or were) desirable changes, but which could not have come about  as a result of rational calculation and piecemeal adjustment, but only  as the short- or long-term consequences of widespread ideological  and even utopian upsurge and agitation?   I am aware that in these very swift remarks I have run together  with. nothing like sufficiently careful definition and discrimination  some exceedingly hard questions of political analysis and theory. And  I confess that I do not know how to prove that phases or periods of  intense ideological activity (such as the activity of the Levellers and  the Diggers in the English civil war, or the ideological ferment that  preceded and accompanied the French Revolution, or the swell of  socialist myth-making, moralizing, and social criticism that grew  throughout the nineteenth century) are a necessary lever of political  change, even though they never succeed in bringing about the results    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 45    that ideologists believe they are bringing about. But one can argue  negatively. One can argue that the ‘unideological’ politics of adjust-  ment and piecemeal change must necessarily accept limited goals and  types of social change, or again, that the many built-in pressures  that support order and stability, the natural need and desire to  go on living the daily life, operate to sift and narrow the objectives  that are likely to be put on the agenda of responsible politics. (This, in  fact, was one of the stock Marxist arguments against the politics of  gradualism and reform—that the policy of incrementalism or rational  calculation will involve us in accepting as constants certain structural  features of the existing system, and certain moral or ideological  elements that are embedded in that structure.)   To put this in another way—in any given state of society there will  be well-established institutions and habits of moral thinking, which  are central in the sense that they protect important elements, and  which operate to limit the objectives, methods and types of change  which are accepted as matters for political policy and governmental  action, so that at any given time that part of the social structure that  is at all generally recognized as subject to political action and change  is always comparatively small. But it is in relation to what must be  called the institutional and ideological infrastructure that ideological  ferment and ideological politics have a very important function. They  have their important effects below the level of ‘rational’ or program-  matic political action, in eroding or loosening established moral and  ideological habits and certainties, in producing the climate of opinion  in which it is ultimately possible for new sorts of political or social  objectives, new forms of social control and organization, new tech-  niques of social action, to be accepted as parts of the ordinary  programmes of political parties.’   However, it is not my intention in this article to embark upona  thorough examination of this question. My comments are simply  meant to illustrate two main points: (a) That recent political scientists    'The only support that one could give to this assertion would be in the form of  extended historical analysis. One would have to show how prolonged periods of  ideological ferment, no matter how ‘utopian’ the ideologies might have been,  ultimately produced important political results in the form of quite common-place  programmes and policies. Examples are the revolutionary current in France from  the late eighteenth century to the end of the nineteenth, or the nineteenth-century  British movement of utopian socialism. A more extreme, and large-scale, example  would be the rise, spread and ultimate political effects of the great world religions.  There are some interesting remarks about some of the topics I have touched on in  the last few paragraphs in Howard Horsburgh’s article, ‘The Relevance of the Utopian’  (Ethics, vol. Ixvii, no. 2).    46 P. H. PARTRIDGE    have in fact been raising interesting and important problems of  political theory and their discussion is a continuation of discussions  that have been going on in Western political theory for centuries.  (It is evident that some of the issues raised are very close to those  raised by Burke about the French Revolution or by Marxists in their  controversies with ‘gradualists’ and reformers.) (b) Yet, at the same  time, this example does illustrate an important shift of interest in  recent political speculation. In the democratic countries practical  politics are mainly concerned for the time being with limited object-  ives and adjustments: many political scientists have come to accept  this style of politics as the rational norm for all political activity: the  discounting of ideology has been accompanied by a scepticism  concerning general speculation about the moral issues of politics, a  disposition to assume that thinking about ‘techniques’ alone qualifies  as really rational or practical political thinking.    VI    Let me take two other examples. The anti-ideological trend of so  much recent political theory (‘anti-ideological’ both in the sense of  discounting the importance of ideologies in politics, and in the sense  of attacking and debunking political ideologies that have been very  influential) is very plain in much of what is now being said about the  nature of democracy and about the working of democratic institutions,  especially political parties.   I will start with Schumpeter’s brilliant discussion in Capitalism,  Socialism and Democracy which expresses a line of thought and an  emphasis which reappears substantially in later books.’ Schumpeter  begins, it will be remembered, by rejecting ‘The Classical Theory of  Democracy’ which he formulates in this way: “The democratic method  is that institutional arrangement for arriving at political decisions  which realizes the common good by making the people itself decide  issues through the election of individuals who are to assemble in  order to carry out its will.’ He rejects this view because it involves  assumptions and concepts about non-existents—a common good, a  popular will, &c. He goes on to expound and defend ‘Another Theory  of Democracy’ of which the formula is: ‘The democratic method is  that institutional way for arriving at political decisions in which  individuals acquire the power to decide by means of a competitive  struggle for the people’s vote.’    ‘For example, Dahl’s Preface to Democratic Theory and Down’s An Economic Theory of  Government Decision-Making in a Democracy.    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 47    Obviously, this involves a very different notion of the functions  of the ‘elements’ in a democratic system and the relations between  them. The leaders of the political parties decide, not ‘the people’.  It is the more or less organized groups of men competing for power  who have the initiative and supply the political drive: ‘so far as there  are genuine group-wise volitions at all... [they] do not assert them-  selves directly... | but} remain latent, often for decades, until they  are called to life by some political leader who turns them into political  factors’ (p. 270, 2nd edition). Policies and programmes are to be  viewed as weapons employed in the competition for office, taken up  or discarded according as they help or prejudice the party’s compet-  itive position; some question will become an ‘jssue’ in politics when  a leader or party judges it to be ‘a good horse to back’. And a political  party ‘is a group whose members propose to act in concert in the  competitive struggle for political power’ (p. 283).'   A model like Schumpeter’s is not to be criticized for being un-  realistic. Any model involves selection and simplification: it is to be  judged by its capacity to explain (and perhaps predict) the facts itis  intended to explain. No doubt we could explain within the limits of  Schumpeter’s assumptions a great many of the political events ofa  democratic state. Nevertheless, I want to comment on a couple of the  interesting features of his simplification.   In the first place, his model places heavy emphasis on manipulation  and leadership—on the making and propagating of policy—and its  tendency is to draw attention away from the ‘infrastructure’. I do  not. intend to imply that he would deny the importance of the  infrastructure; nevertheless, it is important to be quite explicit that  this special emphasis is there.   Now, if we like, we may apply the word ‘politics’ to one level of  activity only—to the level where policy operates, where individuals  and groups more or less explicitly and deliberately seek adjustments  and arrangements of their particular interests and activities. But, if  we define the political in this way, it is very important to remember  that the range of the political is always oscillating, and may at times  oscillate somewhat violently.? And for Schumpeter to say that ‘so far    ‘$0 also Downs, on Economic Theory and Democracy, p. 28: ‘parties formulate policies  in order to win elections, rather than win elections in order to formulate policies’. This  is described as ‘the fundamental hypothesis of our model’.   2It seems to me that recent political science has suffered from concentrating so  heavily on the study of short-term political events (e.g. the study of the single election),  on the act of decision-making’, on ‘bargaining models’ and so on. This may have had  advantages from the point of view of concreteness, empirical exactness and rigour.    48 P. H. PARTRIDGE    as there are genuine group-wise volitions at all . . . they do not assert  themselves directly... but remain latent often for decades until they  are called to life by some political leader who turns them into  political factors’ is to be guilty of a very considerable over-simplifica-  tion. It is true, of course, that this is how things often happen;  political leaders formulate policies which are not formulated by  other social groups; they crystallize or focus attitudes or demands that  would otherwise remain uncrystallized; they may propose solutions  that no one else has proposed. But to leave the matter there would  be to postulate a gap between the politician (and the political party)  and other social organizations which may be wider in some societies  than in others, but which is not an invariable feature of all democracies.  The party politician who appears in the political theory of Schumpeter  and many other present-day political theorists is an abstraction. In  ‘real life’ not all politicians are members only of a political party, or  committed only to the success of a party (as ‘success’ is defined in the  sort of model I am discussing). They are often also members of other  social organizations; and very often they may be said to belong to  a movement—and a movement is a social as well as a political pheno-  menon, and something it would be difficult to define except (at least  partly) by reference to doctrine.   Now it is a matter of common observation that politicians are  very often in the grip of a conflict between the beliefs or interest  of their organizations or movements and of their party. And how  they act in the end will not always be explicable solely by reference  to the conditions of party success in the competition for power.  Moreover, democratic societies differ from one another as regards  the latitude for manoeuvre that parties enjoy. Within the one society  there is an oscillation over time: the relations between parties and  ‘society’ change, and there are occasions when the impact of demands,  or of more general social and political ideas generated within social  movements or organizations, upon the life and actions of parties is  much greater than at others.! This being so, the model of democratic    But it has brought about a very drastic abstraction from a great deal of political  reality. Rostow, it will be remembered, in his British Economy in the Nineteenth Century  suggests an outline of the relations between economic change and political action. His  schema involves two inter-related tripartite divisions: one between long term, trend  or medium term, and short-term economic processes, the other a division between  economy, society and politics; his suggestions concerning the different ways in which  the three types of economic change operate at the political level could be profitably  explored further by political theorists.   ‘And sometimes a difference as regards the current ‘issues’ of politics: as regards  some issues, a party may have no alternative but to obey pressure ‘from below’;    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 49    politics which Schumpeter proposes will be helpful for explanation  only in certan cases. And, even with this limitation, it is more likely  to be helpful in the understanding of short-term runs of political  decisions than in the understanding of a long-term direction of  political change.   This, then, is the kind of emphasis and selection which the now  fashionable Schumpeterian model of democracy contains. It is  relatively uninterested in the important Marxian notion of ‘shifts in  the foundation’ or infrastructure and their long-run political effects;  or, if we may use a different image, it largely ignores the series of  concentric circles within which, in some societies and at some times,  the generation of social attitudes, ideas, and ideologies takes place.  Perhaps the most important point I want to make is that these circles  oscillate as conditions change: they grow wider or narrower, as  regards both the range of social institutions or conditions which  become subjects of social questioning and idea-making, and the  numbers of those who are to some degree caught up in social  criticism.!   One thing that may be said about Schumpeter’s account is that it  tends to stress the specialized and professional character of political  activity; that its intention and effect is one of ideological deflation.  And this brings me to the other comment I wish to make about his  theory. Most of the so-called theories of democracy in the history of  political thought have been primarily normative or prescriptive.    as regards others, it may be able to play the electoral market in the manner  Schumpeter describes.   ‘In his review of de Jouvenel’s Sovereignty in World Politics to which I have already  referred, Dahl employs this concept of oscillation in speculating about the nature of  democratic ‘consensus’. His point, of course, is very closely related to mine. It would  be a legitimate comment that Schumpeter does not pretend to be providing a model of  any political system but only of democratic systems. And he might argue—indeed, there  are plain indications that he would argue—that a democratic system will operate  successfully (in the sense of maintaining over a long period its character or structure)  only if conditions are as I have described them, in particular, only if the range of  matters that come up for political decision and action remains narrow. This is now,  of course, a widely-held view; one aspect of the reaction against socialist ideologies,  or against notions of ‘holistic’ planning, is the argument that democracy is a method  and system of government which requires as a condition that ‘the effective range of  political decision should not be extended too far’ (Schumpeter). It is dubious whether  this particular hypothesis can be given any hard meaning: what I have already said  about the way in which consensus oscillates suggests that how much a government can  do and get away with—or a party propose and get away with—will be affected by many  different conditions which are far from being stable. However, it will be clear that  this particular theory about democracy is closely allied with Shils’s account of the  nature of ‘civil society’ to which I referred earlier.    50 P. H. PARTRIDGE    One important strain of democratic thought has connected demo-  cracy with the enlargement and greater equalization of opportunities  for participating in the control or management of common affairs  for sharing effective social responsibility. On this view, part of the  task of a theory of democracy would be to investigate the means by  which self-government or participation in the direction of affairs  could be more widely extended. Mill puts very succinctly what has  been a pretty constant problem and theme in the growth of democratic  theory: ‘A democratic constitution not supported by democratic  institutions in detail, but confined to the central government, not only  is not political freedom, but often creates a spirit precisely the reverse,  carrying down to the lowest grade in society the desire and ambition  of political domination.’ This is not only succinct, but also percep-  tive—as the post-Millian growth of party discipline and party  machines, of political bosses, and of publicity agents and carefully  managed publicity campaigns remind us.   Perhaps there is no logical incompatibility between this and the  Schumpeterian model; one might, for instance, say that Schumpeter  is specifying the minimum conditions of democracy at the level of  central government, and that his specification is not affected by how  much or how little decentralization and diversification of control  there might be down below. But I doubt it. I suspect that the more  the two positions were developed, the more theoretical conflict would  become apparent. On Schumpeter’s view, it is the function of political  parties to compete for votes by raising issues and proposing policies;  it is the function of the public to express a preference between  competing leaders and would-be governments. He appears to be  saying that so far as democracy is concerned, this is not merely how  democratic systems happen to work now, but that it is the most that can  be expected. In effect, his model has a normative or prescriptive ring  about it; and this is the more so when it is examined in the contextin  which he places it, viz. the rejection of the ‘classical theory of  democracy’ with its very different conception of the meaning of self-  government and of individual political participation and respons-  ability.   My second example is Dahl’s model in Preface to Democratic Theory.  This differs a little from Schumpeter’s in that Dahl assigns a less  prominent place to parties and the electoral competition and a more  prominent place to organized minorities and pressure groups. He  warns us against attributing too rich a function to elections; in his  view, the main function of elections in the democratic system is that    POLITICS, PHILOSOPHY, IDEOLOGY 51    they extend the range of the minorities which exert an influence on   governmental decisions. According to Dahl, democracy is neither»  rule by the majority nor rule by a minority, but rule by minorities.   ‘Thus the making of governmental decisions is not a majestic march   of great majorities united on certain matters of basic policy. It   is the steady appeasement of relatively small groups’ (p. 146).   (Dahl at least has it in common with Schumpeter that he rejects the   majority and anything that smacks of the notion of the general   will.)   One might say that Dahl’s assertion is just not true as a universal  proposition; that there are not a few occasions and issues on which  a majority does form and exert its influence. Recent political theory  has no doubt gained in getting rid of loose and muddled concepts like  ‘the general will’ and the “common good’, and uncriticized, question-  begging ones like ‘the majority’; but it is another matter whether it  is fortunate in what it has substituted. In Dahl (and in the whole  tribe of ‘pressure group’ analysts) the emphasis falls heavily on the  notion of the determinate, relatively ‘given’, or impermeable,  minority or group, possessing its own clear and determinate interests  which have to be attended to by parties and governments. This, no  one will want to deny, is one sub-system within the very complex system  of democratic politics; but it exists in interplay with other sub-  systems, including the interaction of interests, institutions, movements,  ways of life within a process of general influence, and ‘discussion’  (if I may fall back on one of the governing conceptions of older  theorists of democracy), and the resulting slow spread of general  attitudes or bodies of belief which certainly affect the course of  politics in the long run. In rejecting the categories and assumptions  of the older philosophical idealists and monists, some of the  more recent school of pluralists have tended to play down the  social processes by means of which some sort of common deno-  minator of sentiment and idea is created within a society, pro-  cesses which are undoubtedly important for politics, and which  their idealist predecessors rightly took to be pretty central for  political theory, even if they misrepresented or unduly magnified  them.   In an earlier section I illustrated the general reaction against  ideology which has marked recent political and sociological thought.  Correspondingly, then, in some recent democratic theory there has  been an undermining of versions of democratic ideology which have  been very prominent until quite recently.    52 P. H. PARTRIDGE    VII    I have already explained that it is not my object to examine the  theoretical strength of the views I have been considering. My  main object has been to draw attention to some very common  characteristics of recent political thought with a view to explaining  the widely shared impression that political theory or political  philosophy has lost its inspiration. If we take the work of such writers  as Schumpeter and Dahl, it is absurd to say that the energy or the  rigour of political theorizing have declined; on the contrary, it has  acquired .an analytical thoroughness and sharpness, a closeness in  argument, that is pretty new. But what this more recent work does  show is a narrowing of moral interests and expectations, a dismissal  of wider notions of equality, freedom, participation, &c.,! and,  accompanying this, the tendency to be most interested in the existing  machinery of democratic systems. This is not simply a matter of  science replacing the more philosophical interest in principles, values,  or objectives. The ambition to lay the foundations of an empirical  science of politics is no doubt a very important intellectual influence;  but the present tren. 1s also critical: it expresses an ideological or  philosophical standpoint of its own, an inclination to accept as  inevitable, or at least as more rational than any alternative, the  broad types of organization, the distribution of rights and roles, the  methods of adjusting existing interests, which have by now come to  define democracy in the Anglo-Saxon democracies. In short, as I have  said before, the current feeling that there is no very persuasive  alternative to the prevailing methods and orthodoxies of Anglo-  American democracy is at least one of the reasons for the shortcomings  (if shortcomings they are) of contemporary political theory.    ‘Instead of illustrating my general thesis by dealing with recent theories of demo-  cracy, I might have taken recent writing about liberty, one striking feature of which has  been an emphasis on the value or importance of ‘negative freedom’ and the distrust  of notions of ‘positive freedom’. Berlin’s Two Concepts of Liberty is quite typical in this  respect. Berlin’s way of reviewing somewhat indiscriminately many different concepts  of ‘positive freedom’, ranging from the special views of Hegel to much more prosaic  attempts to connect liberty with the exercise of political initiative, is surprising  and questionable; all the same, in his sensitiveness to the possibly illusory and dangerous  character of ideas of ‘positive freedom’, he is very much in tune with his time. Ona  different point: the trend of thought I describe in the text is not of course entirely  novel, as readers of Michels’s Political Parties will be well aware; the argument between  the oe of a radical democratic ideology and those who insist upon the hard  logic of social organization has been going on for some time. Whatis perhaps character-  istic of more recent years is the unusual weakness of the strain of moral criticism and  speculation.    8  ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS?!  H. L. A. HART    it follows that there is at least one natural right, the equal right of    all men to be free. By saying that there is this right, I mean that in the  absence of certain special conditions which are consistent with the  right being an equal right, any adult human being capable of choice  (1) has the right to forbearance on the part of all others from the use  of coercion or restraint against him save to hinder coercion or re-  straint and (2) is at liberty to do (i.e., is under no obligation to  abstain from) any action which is not one coercing or restraining or  designed to injure other persons.’   I have two reasons for describing the equal right of all men  to be free as a natural right; both of them were always emphasized  by the classical theorists of natural rights. (1) This right is one which  all men have if they are capable of choice: they have it qua men and not  only if they are members of some society or stand in some special  relation to each other. (2) This right is not created or conferred by    From Philosophical Review, Vol. 64 (1955), pp. 175-91- Reprinted by permission of  the author and the Philosophical Review.    1] was first stimulated to think along these lines by Mr. Stuart Hampshire, and I  have reached by different routes a conclusion similar to his.   ?Further explanation of the perplexing terminology of freedom is, I fear,  necessary. Coercion includes, besides preventing a person from doing what he chooses,  making his choice less eligible by threats; restraint includes any action designed to  make the exercise of choice impossible and so includes killing or enslaving a person.  But neither coercion nor restraint includes competition. In terms of the distinction  between ‘having a right to’ and ‘being at liberty to’, used above and further dis-  cussed in Section I, B, all men may have, consistently with the obligation to forbear  from coercion, the Liberty to satisfy if they can such at least of their desires as are  not designed to coerce or injure others, even though in fact, owing to scarcity, one  man’s satisfaction causes another’s frustration. In conditions of extreme scarcity  this distinction between competition and coercion will not be worth drawing;  natural rights are only of importance ‘where peace is possible’ (Locke). Further,  freedom (the absence of coercion) can be valueless to those victims of unrestricted  competition too poor to make use of it; so it will be pedantic to point out to them  that though starving they are free. This is the truth exaggerated by the Marxists  whose identification of poverty with lack of freedom confuses two different evils.    54 H. L. A. HART    men’s voluntary action; other moral rights are.' Of course, it is quite  obvious that my thesis is not as ambitious as the traditional theories  of natural rights; for although on my view all men are equally en-  titled to be free in the sense explained, no man has an absolute or  unconditional right to do or not to do any particular thing or to be  treated in any particular way; coercion or restraint of any action may  be justified in special conditions consistently with the general prin-  ciple. So my argument will not show that men have any right (save the  equal right of all to be free) which is ‘absolute’, ‘indefeasible’, or  ‘imprescriptble’. This may for many reduce the importance of my  contention, but I think that the principle that all men have an equal  right to be free, meagre as it may seem, is probably all that the poli-  tical philosophers of the liberal tradition need have claimed to  support any programme of action even if they have claimed more. But  my contention that there is this one natural right may appear unsatis-  fying in another respect; it is only the conditional assertion thati/there  are any moral rights then there must be this one natural right. Perhaps  few would now deny, as some have, that there are moral rights; for the  point of that denial was usually to object to some philosophical claim  as to the ‘ontological status’ of rights, and this objection is now  expressed not as a denial that there are any moral rights but as a  denial of some assumed logical similarity between sentences used to  assert the existence of rights and other kinds of sentences. But it is  still important to remember that there may be codes of conduct quite  properly termed moral codes (though we can of course say they are  ‘imperfect’) which do not employ the notion of a right, and there is  nothing contradictory or otherwise absurd in a code or morality con-  sisting wholly of prescriptions or ina code which prescribed only what  should be done for the realization of happiness or some ideal of per-  sonal perfection.?, Human actions in such systems would be evaluated  or criticized as compliances with prescriptions or as good or bad,  night or wrong, wise or foolish, fitting or unfitting, but no one in sucha  system would have, exercise, or claim rights, or violate or infringe  them. So those who lived by such systems could not of course be    ‘Save those general rights (cf. Section II, B) which are particular exempli-  fications of the right of all men to be free.    7Is the notion of a right found in either Plato or Aristotle? There seems to be  no Greek word for it as distinct from ‘right’ or ‘just’ (Stxaiov), thought expressions  like ta tua Sixava are I believe fourth-century legal idioms. The natural ex-  pressions in Plato are 16 éavrov (éxew) or ta tiwi ddetAdueva, but these seem  confined to property or debts. There is no place for a moral right unless the moral  value of individual freedom is recognized.    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 55    committed to the recognition of the equal right of all to be free; nor,  1 think (and this is one respect in which the notion of a right differs  from other moral notions), could any parallel argument be con-  structed to show that, from the bare fact that actions were recognized  as ones which ought or ought not to be done, as right, wrong, good  or bad, it followed that some specific kind of conduct fell under these  categories.    I    (A) Lawyers have for their own purposes carried the dissection of  the notion of a legal right some distance, and some of their results!  are of value in the elucidation of statements of the form ‘X has a  right to...’ outside legal contexts. There is of course no simple  identification to be made between moral and legal rights, but there  is an intimate connexion between the two, and this itself is one  feature which distinguishes a moral right from other fundamental  moral concepts. It is not merely that as a matter of fact men speak of  their moral rights mainly when advocating their incorporation in a  legal system, but that the concept of a right belongs to that branch  of morality which is specifically concerned to determine when one  person’s freedom may be limited by another’s? and so to determine  what actions may appropriately be made the subject of coercive  legal rules. The words ‘droit’, ‘diritto’, and ‘Recht’, used by con-  tinental jurists, have no simple English translation and seem to  English jurists to hover uncertainly between law and morals, but they  do in fact mark off an area of morality (the morality of law) which  has special characteristics. It is occupied by the concepts of justice,  fairness, rights, and obligation (if this last is not used as it is by  many moral philosophers as an obscuring general label to cover every  action that morally we ought to do or forbear from doing). The most  important common characteristic of this group of moral concepts is  that there is no incongruity, but a special congruity in the use of    1As W. D. Lamont has seen: cf. his Principles of Moral Judgement (Oxford, 1946);  for the jurists, cf. Hohfeld’s Fundamental Legal Conceptions (New Haven, 1923).    2Here and subsequently I use ‘interfere with another’s freedom’, ‘limit an-  other’s freedom’, ‘determine how another shall act’, to mean either the use of  ccercion or demanding that a person shall do or not do some action. The connexion  between these two types of ‘interference’ is too complex for discussion here; I  think it is enough for present purposes to point out that having a justification  for demanding that a person shall or shall not do some action is a necessary  though not a sufficient condition for justifying coercion.    56 H. L. A. HART    force or the threat of force to secure that what is just or fair or some-  one’s right to have done shall in fact be done; for it is in just these  circumstances that coercion of another human being is legitimate.  Kant, in the Rechtslehre, discusses the obligations which arise in this  branch of morality under the title of officia juris, ‘which do not require  that respect for duty shall be of itself the determining principle of  the will’, and contrasts them with officia virtutis, which have no moral  worth unless done for the sake of the moral principle. His point is,  I think, that we must distinguish from the rest of morality those  principles regulating the proper distribution of human freedom  which alone make it morally legitimate for one human being to  determine by his choice how another should act; and a certain specific  moral value is secured (to be distinguished from moral virtue in which  the good will is manifested) if human relationships are conducted  in accordance with these principles even though coercion has to be  used to secure this, for only if these principles are regarded will free-  dom be distributed among human beings as it should be. And it is I  think a very important feature of a moral right that the possessor of  it is conceived as having a moral justification for limiting the freedom  of another and that he has this justification not because the action he  is entitled to require of another has some moral quality but simply  because in the circumstances a certain distribution of human freedom  will be maintained if he by his choice is allowed to determine how that  other shall act.   (B) I can best exhibit this feature of a moral right by reconsidering  the question whether moral rights and ‘duties’! are correlative. The  contention that they are means, presumably, that every statement of  the form ‘X has a right to...’ entails and is entailed by ‘Y has a duty  (not) to ...’, and at this stage we must not assume that the values of  the name-variables “X’ and ‘Y’ must be different persons. Now there  is certainly one sense of ‘a right’ (which J have already mentioned) such  that it does not follow from X’s having a right that X or someone else  has any duty. Jurists have isolated rights in this sense and have re-   ‘1 write ‘duties’ here because one factor obscuring the nature of a right is the  philosophical use of ‘duty’ and ‘obligation’ for all cases where there are moral  reasons for saying an action ought to be done or not done. In fact ‘duty’, ‘obligation’,  ‘right’, and ‘good’ come from different segments of morality, concern different  types of conduct, and make different es of moral criticism or evaluation.  Most important are the points (1) that obligations may be voluntarily incurred  or created, (2) that they are owed to special persons (who have rights), (3) that  they do not arise out of the character of the actions which are obligatory but out    of the relationship of the parties. Language roughly though not consistently confines  the use of ‘having an obligation’ to such cases.    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 57    ferred to them as ‘liberties’ just to distinguish them from rights in the  centrally important sense of ‘right’ which has ‘duty’ as a correlative.  The former sense of ‘right’ is needed to describe those areas of social  life where competition is at least morally unobjectionable. Two  people walking along both see a ten-dollar bill in the road twenty  yards away, and there is no clue as to the owner. Neither of the two  are under a ‘duty’ to allow the other to pick it up; each has in this  sense a right to pick it up. Of course there may be many things which  each has a ‘duty’ not to do in the course of the race to the spot—  neither may kill or wound the other—and corresponding to these  ‘duties’ there are rights to forbearances. The moral propriety of all  economic competition implies this minimum sense of ‘a right’ in  which to say that ‘X has a right to’ means merely that X is under  no ‘duty’ not to. Hobbes saw that the expression ‘a right’ could have  this sense but he was wrong if he thought that there is no sense in which  it does folluw from X’s having a right that Y has a duty or at any rate  an obligation.   (C) More important for our purpose is the question whether for  all moral ‘duties’ there are correlative moral rights, because those  who have given an affirmative answer to this question have usually  assumed without adequate scrutiny that to have a right is simply  to be capable of benefiting by the performance of a ‘duty’; whereas  in fact this is not a sufficient condition (and probably not a necessary  condition) of having a right. Thus animals and babies who stand to  benefit by our performance of our ‘duty’ not to ill-treat them are  said therefore to have rights to proper treatment. The full consequence  of this reasoning is not usually followed out; most have shrunk from  saying that we have rights against ourselves because we stand to bene-  fit from our performance of our ‘duty’ to keep ourselves alive or  develop our talents. But the moral situation which arises from a  promise (where the legal-sounding terminology of rights and obli-  gations is most appropriate) illustrates most clearly that the notion  of having a right and that of benefiting by the performance of a ‘duty’  are not identical. X promises Y in return for some favour that he will  look after Y’s aged mother in his absence. Rights arise out of this  transaction, but it is surely Y to whom the promise has been made and  not his mother who has or possesses these rights. Certainly Y’s mother  is a person concerning whom X has an obligation and a person who  will benefit by its performance, but the person ¢o whom he has an obli-  gation to look after her is Y. This is something due to or owed to Y,  so it is Y, not his mother, whose right X will disregard and to whom    58 H. L. A. HART    X will have done wrong if he fails to keep his promise, though the  mother may be physically injured. And it is Y who has a moral claim  upon X, is entitled to have his mother looked after, and who can waive  the claim and release Y from the obligation. Y is, in other words,  morally in a position to determine by his choice how X shall act and  in this way to limit X’s freedom of choice; and it is this fact, not  the fact that he stands to benefit, that makes it appropriate to say  that he has a nght. Of course often the person to whom a promise has  been made will be the only person who stands to benefit by its per-  formance, but this does not justify the identification of ‘having a  right’ with ‘benefiting by the performance of a duty’. It is important  for the whole logic of rights that, while the person who stands to  benefit by the performance of a duty is discovered by considering what  will happen if the duty is not performed, the person who has a right  (to whom performance is owed or due) is discovered by examining  the transaction or antecedent situation or relations of the parties out  of which the ‘duty’ arises. These considerations should incline us not  to extend to animals and babies whom it is wrong to ill-treat the  notion of a right to proper treatment, for the moral situation can be  simply and adequately described here by saying that it is wrong or that  we ought not to ill-treat them or, in the philosopher’s generalized  sense of ‘duty’, that we have a duty not to ill-treat them.! If common  usage sanctions talk of the rights of animals or babies it makes an idle  use of the expression ‘a right’, which will confuse the situation with  other different moral situations where the expression ‘a right’ hasa  specific force and cannot be replaced by the other moral expressions  which I have mentioned. Perhaps some clarity on this matter is to be  gained by considering the force of the preposition ‘to’ in the ex-  pression ‘having a duty to Y’ or ‘being under an obligation to Y  (where ‘Y’ is the name of a person); for it is significantly different  from the meaning of ‘to’ in ‘doing something to Y’ or ‘doing harm  to Y’, where it indicates the person affected by some action. In the  first pair of expressions, ‘to’ obviously does not have this force,  but indicates the person to whom the person morally bound is  bound. This is an intelligible development of the figure of a bond  (vinculum juris : obligare); the precise figure is not that of two persons  bound by a chain, but of one person bound, the other end of the chain  lying in the hands of another to use if he chooses.? So it appears   'The use here of the generalized ‘duty’ is apt to prejudice the question whether  animals and babies have rights.   2Cf. A. H. Campbell, The Structure of Statr’s Institutes (Glasgow, 1954), p. 31-    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 59    absurd to speak of having duties or owing obligations to ourselves—  of course we may have ‘duties’ not to do harm to ourselves, but what  could be meant (once the distinction between these different meanings  of ‘to’ has been grasped) by insisting that we have duties or obligations  to ourselves not to do harm to ourselves?   (D) The essential connexion between the notion of a right and  the justified limitation of one person’s freedom by another may be  thrown into relief if we consider codes of behaviour which do not  purport to confer rights but only to prescribe what shall be done.  Most natural law thinkers down to Hooker conceived of natural law  in this way: there were natural duties compliance with which would  certainly benefit man—things to be done to achieve man’s natural  end—but not natural rights. And there are of course many types of  codes of behaviour which only prescribe what is to be done, e.g.,  those regulating certain ceremonies. It would be absurd to regard  these codes as conferring rights, but illuminating to contrast them  with rules of games, which often create rights, though not, of  course, moral rights. But even a code which is plainly a moral code  need not establish rights; the Decalogue is perhaps the most im-  portant example. Of course, quite apart from heavenly rewards  human beings stand to benefit by general obedience to the Ten  Commandments: disobedience is wrong and will certainly harm in-  dividuals. But it would be a surprising interpretation of them that  treated them as conferring rights. In such an interpretation obedience  to the Ten Commandments would have to be conceived as due to or  owed to individuals, not merely to God, and disobedience not merely  as wrong but as a wrong to (as well as harm to) individuals. The  Commandments would cease to read like penal statutes designed  only to rule out certain types of behaviour and would have to be  thought of as rules placed at the disposal of individuals and regulating  the extent to which they may demand certain behaviour from others.  Rights are typically conceived of as possessed or owned by or belonging to  individuals, and these expressions reflect the conception of moral  rules as not only prescribing conduct but as forming a kind of moral  property of individuals to which they are as individuals entitled;  only when rules are conceived in this way can we speak of rights and  wrongs as well as right and wrong actions.’    ‘Continental jurists distinguish between ‘subjektives’ and ‘objektives Recht’, which  parpesponde very well to the distinction between a right, which an individual] has,  and what it is right to do.    60 H. L. A. HART    I    So far I have sought to establish that to have a right entails having  a moral justification for limiting the freedom of another person and  for determining how he should act; it is now important to see that  the moral justification must be of a special kind if it is to constitute  a right, and this will emerge most clearly from an examination of the  circumstances in which rights are asserted with the typical ex-  pression ‘I have a right to... ’. It is I think the case that this form of  words is used in two main types of situations: (A) when the claimant  has some special justification for interference with another’s freedom  which other persons do not have (‘J have a right to be paid what you  promised for my services’); (B) when the claimant is concerned to resist  or object to some interference by another person as having no  justification (‘7 have a right to say what I think’).   (A) Special rights. When rights arise out of special transactions  between individuals or out of some special relationship in which they  stand to each other, both the persons who have the right and those  who have the corresponding obligation are limited to the parties to  the special transaction or relationship. I call such rights special  rights to distinguish them from those moral rights which are thought  of as rights against (i.e., as imposing obligations upon)! everyone,  such as those that are asserted when some unjustified interference is  made or threatened as in (B) above.   (i) The most obvious cases of special rights are those that arise  from promises. By promising to do or not to do something, we  voluntarily incur obligations and create or confer rights on those  to whom we promise; we alter the existing moral independence of the  parties’ freedom of choice in relation to some action and create  a new moral relationship between them, so that it becomes morally  legitimate for the person to whom the promise is given to determine  how the promisor shall act. The promisee has a temporary authority  or sovereignty in relation to some specific matter over the other’s  will which we express by saying that the promisor is under an  obligation to the promisee to do what he has promised. To some  philosophers the notion that moral phenomena—rights and duties  or obligations—can be brought into existence by the voluntary action  of individuals has appeared utterly mysterious; but this I think has  been so because they have not clearly seen how special the moral  notions of a right and an obligation are, nor how peculiarly they are    1 Cf Section (B} below.    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 61    connected with the distribution of freedom of choice; it would  indeed be mysterious if we could make actions morally good or bad  by voluntary choice. The simplest case of promising illustrates  two points characteristic of all special rights: (1) the right and  obligation arise not because the promised action has itself any  particular moral quality, but just because of the voluntary trans-  action between the parties; (2) the identity of the parties concerned  is vital—only this person (the promisee) has the moral justification  for determining how the promisor shall act. It is his right; only in  relation to him is the promisor’s freedom of choice diminished, so  that if he chooses to release the promisor no one else can complain.  (ii) But a promise is not the only kind of transaction whereby  rights are conferred. They may be accorded by a person consenting  or authorizing another to interfere in matters which but for this  consent or authorization he would be free to determine for himself.  If I consent to your taking precautions for my health or happiness  or authorize you to look after my interests, then you have a right  which others have not, and I cannot complain of your interference if  it is within the sphere of your authority. This is what is meant bya  person surrendering his rights to another; and again the typical  characteristics of a right are present in this situation: the person  authorized has the right to interfere not because of its intrinsic  character but because these persons have stood in this relationship.  No one else (not similarly authorized) has any mght' to interfere  in theory even if the person authorized does not exercise his right.  (iii) Special rights are not only those created by the deliberate  choice of the party on whom the obligation falls, as they are when  they are accorded or spring from promises, and not all obligations to  other persons are deliberately incurred, though I think it is true of  all special rights that they arise from previous voluntary actions.  A third very important source of special rights and obligations which  we recognize in many spheres of life is what may be termed mutuality  of restrictions, and I think political obligation is intelligible only if  we see what precisely this is and how it differs from the other right-  creating transactions (consent, promising) to which philosophers  have assimilated it. In its bare schematic outline-it is this: when  a number of persons conduct any joint enterprise according to rules  and thus restrict their liberty, those who have submitted to these  restrictions when required have a right to a similar submission from  those who have benefited by their submission. The rules may provide  ' Though it may be better (the lesser of two evils) that he should: cf. p. 62 below.    62 H. L. A. HART    that officials should have authority to enforce obedience and make  further rules, and this will create a structure of legal rights and duties,  but the moral obligation to obey the rules in such circumstances is  due to the co-operating members of the society, and they have the  correlative moral right to obedience. In social situations of this  sort (of which political society is the most complex example) the  obligation to obey the rules is something distinct from whatever  other moral reasons there may be for obedience in terms of good  consequences (e.g., the prevention of suffering); the obligation is  due to the co-operating members of the society as such and not  because they are human beings on whom it would be wrong to in-  flict. suffering. The utilitarian explanation of political obligation  fails to take account of this feature of the situation both in its  simple version that the obligation exists because and only if the  direct consequences of a particular act of disobedience are worse  than obedience, and also in its more sophisticated version that the  obligation exists even when this is not so, if disobedience increases  the probability that the law in question or other laws will be dis-  obeyed on other occasions when the direct consequences of obedience  are better than those of disobedience.   Of course to say that there is such a moral obligation upon those  who have benefited by the submission of other members of society  to restrictive rules to obey these rules in their turn does not entail  either that this is the only kind of moral reason for obedience or that  there can be no cases where disobedience will be morally justified.  There is no contradiction or other impropriety in saying ‘I have an  obligation to do X, someone has a right to ask me to, but I now see  I ought not to do it’. It will in painful situations sometimes be the  lesser of two moral evils to disregard what really are people’s rights  and not perform our obligations to them. This seems to me parti-  cularly obvious from the case of promises: I may promise to do some-  thing and thereby incur an obligation just because that is one way in  which obligations (to be distinguished from other forms of moral  reasons for acting) are created; reflection may show that it would in  the circumstances be wrong to keep this promise because of the suf-  fering it might cause, and we can express this by saying ‘J ought not to  do it though J have an obligation to him to do it’ just because the  italicized expressions are not synonyms but come from different  dimensions of morality. The attempt to explain this situation by  saying that our real obligation here is to avoid the suffering and  that there is only a prima facie obligation to keep the promise seems    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 63    to me to confuse two quite different kinds of moral reason, and in  practice such a terminology obscures the precise character of what  is at stake when ‘for some greater good’ we infringe people’s rights  or do not perform our obligations to them.   The social-contract theorists rightly fastened on the fact that  the obligation to obey the law is not merely a special case of bene-  volence (direct or indirect), but something which arises between  members of a particular political society out of their mutual relation-  ship. Their mistake was to identify this right-creating situation of  mutual restrictions with the paradigm case of promising; there are  of course important similarities, and these are just the points which  all special rights have in common, viz., that they arise out of special  relationships between human beings and not out of the character of  the action to be done or its effects.   (iv) There remains a type of situation which may be thought of as  creating rights and obligations: where the parties have a special  natural relationship, as in the case of parent and child. The parent’s  moral right to obedience from his child would I suppose now be  thought to terminate when the child reaches the age ‘of discretion’,  but the case is worth mentioning because some political philosophies  have had recourse to analogies with this case as an explanation of  political obligation, and also because even this case has some of the  features we have distinguished in special rights, viz., the right arises  out of the special relationship of the parties (though it is in this case  a natural relationship) and not out of the character of the actions to  the performance of which there is a right.   (v) To be distinguished from special rights, of course, are special  liberties, where, exceptionally, one person is exempted from obli-  gations to which most are subject but does not thereby acquire a nght  to which there is a correlative obligation. If you catch me reading  your brother’s diary, you say, ‘You have no right to read itv’. I say, ‘I  have a right to read it—your brother said I might unless he told me  not to, and he has not told me not to’. Here I have been specially  licensed by your brother who had a right to require me not to read  his diary, so lam exempted from the moral obligation not to read it,  but your brother is under no obligation to let me go on reading it.  Cases where rights, not liberties, are accorded to manage or inter-  fere with another person’s affairs are those where the licence is not  revocable at will by the person according the right.   (B) General rights. In contrast with special rights, which constitute  a justification peculiar to the holder of the right for interfering    64 H. L. A. HART    with another’s freedom, are general rights, which are asserted defen-  sively, when some unjustified interference is anticipated or threatened,  in order to point out that the interference is unjustified. ‘I have the  right to say what I think’.! ‘I have the right to worship as I please’.  Such rights share two important characteristics with special rights.  (1) To have them is to have a moral justification for determining how  another shall act, viz., that he shall not interfere.? (2) The moral  justification does not arise from the character of the particular action  to the performance of which the claimant has a right; what justifies  the claim is simply—there being no special relation between him and  those who are threatening to interfere to justify that interference—  that this is a particular exemplification of the equal right to be free.  But there are of course striking differences between such defensive  general rights and special rights. (1) General rights do not arise out  of any special relationship or transaction between men. (2) They are  not rights which are peculiar to those who have them but are rights  which all men capable of choice have in the absence of those special  conditions which give rise to special rights. (3) General rights have  as correlatives obligations not to interfere to which everyone else is  subject and not merely the parties to some special relationship or  transaction, though of course they will often be asserted when some  particular persons threaten to interfere as a moral objection to that  interference. To assert a general right is to claim in relation to some  particular action the equal right of all men to be free in the absence  of any of those special conditions which constitute a special right  to limit another’s freedom; to assert a special right is to assert in  relation to some particular action a right constituted by such special  conditions to limit another’s freedom. The assertion of general rights  directly invokes the principle that all men equally have the right to  be free; the assertion of a special right (as I attempt to show in  Section III) invokes it indirectly.   1In speech the difference between general and special rights if often marked  by stressing the pronoun where a special right is claimed or where the special! right  is denied. ‘You have no right to stop him reading that book’ refers to the reader’s    general right. ‘You have no right to stop him reading that book’ denies that the  person addressed has a special right to interfere though others may have.    ?Strictly, in the assertion of a general right both the right to forbearance from  coercion and the iberty to do the specified action are asserted, the first in the face  of actual or threatened coercion, the second as an objection to an actual or anti-  cipated demand that the action should not be done. The first has as its correlative  an obligation upon everyone to forbear from coercion; the second the absence in any  one of a justification for such a demand. Here, in Hohfeld’s words, the correlative  is not an obligation but a ‘no-right’.    ARE THERE ANY NATURAL RIGHTS? 65  Il    It is, I hope, clear that unless it is recognized that interference with  another’s freedom requires a moral justification the notion of a right  could have no place in morals; for to assert a right is to assert that  there is such a justification. The characteristic function in moral  discourse of those sentences in which the meaning of the expression  ‘a right’ is to be found—‘I have a right to...’, ‘You have no right  to...’, ‘What right have you to...?’—is to bring to bear on inter-  eeees with another’s freedom, or on claims to interfere, a type of  moral evaluation or criticism specially appropriate to interference  with freedom and characteristically different from the moral criticism  of actions made with the use of expressions like ‘right’, ‘wrong’,  ‘good’, and ‘bad’. And this is only one of many different types of  moral ground for saying “You ought...’ or ‘You ought not...’. The  use of the expression ‘What right have: you to...?’ shows this more  clearly, perhaps, than the others; for we use it , just atthe point where  interference is actual or threatened, to call for the moral title of the  person addressed to interfere; and we do this often without any  suggestion at all that what he proposes to do is otherwise wrong and  sometimes with the implication that the same interference on the  part of another person would be unobjectionable.   But though our use in moral discourse of ‘a right’ does pre-  suppose the recognition that interference with another’s freedom  requires a moral justification, this would not itself suffice to establish,  except in a sense easily trivialized, that in the recognition of moral  rights there is implied the recognition that all men have a right to  equal freedom; for unless there is some restriction inherent in the  meaning of ‘a right’ on the type of moral justification for interference  which can constitute a right, the principle could be made wholly  vacuous. It would, for example, be possible to adopt the principle  and then assert that some characteristic or behaviour of some human  beings (that they are improvident, or atheists, or Jews, or Negroes)  constitutes a moral justification for interfering with their freedom;  any differences between men could, so far as my argument has yet  gone, be treated as a moral justification for interference and so  constitute a right, so that the equal right of all men to be free would  be compatible with gross inequality. It may well be that the expression  ‘moral’ itself imports some restriction on what can constitute a moral  justification for interference which would avoid this consequence,  but I cannot myself yet show that this is so. It is, on the other hand,    66 H. L. A. HART    clear to me that the moral justification for interference which is to  constitute a right to interfere (as distinct from merely making it  morally good or desirable to interfere) is restricted to certain special  conditions and that this is inherent in the meaning of ‘a right’ (unless  this is used so loosely that it could be replaced by the other moral  expressions mentioned). Claims to interfere with another’s freedom  based on the general character of the activities interfered with (e.g.,  the folly or cruelty of ‘native’ practices) or the general character of  the parties (‘We are Germans; they are Jews’) even when well founded  are not matters of morat right or obligation. Submission in such cases  even where proper is not due to or owed to the individuals who inter-  fere; it would be equally proper whoever of the same class of persons  interfered. Hence other elements in our moral vocabulary suffice to  describe this case, and it is confusing here to talk of rights. We saw  in Section II that the types of justification for interference involved  in special rights was independent of the character of the action to the  performance of which there was a right but depended upon certain  previous transactions and relations between individuals (such as  promises, consent, authorization, submission to mutual restrictions).  Two questions here suggest themselves: (1) On what intelligible  principle could these bare forms of promising, consenting, sub-  mission to mutual restrictions, be either necessary or sufficient,  irrespective of their content, to justify interference with another’s  freedom? (2) What characteristics have these types of transaction or  relationship incommon? The answer to both these questions is I think  this: If we justify interference on such grounds as we give when we  claim a moral right, we are in fact indirectly invoking as our justi-  fication the principle that all men have an equal right to be free.  For we are in fact saying in the case of promises and consents or  authorizations that this claim to interfere with another’s freedom is  justified because he has, in exercise of his equal right to be free,  freely chosen to create this claim; and in the case of mutual restrict-  ions we are in fact saying that this claim to interfere with another's  freedom is justified because it is fair; and it is fair because only so  will there be an equal distribution of restrictions and so of freedom  among this group of men. So in the case of special rights as well as  of general rights recognition of them implies the recognition of the  equal right of all men to be free.    IV  THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’    STANLEY I. BENN    JEAN BODIN defined ‘sovereignty’ as ‘supreme power over citizens and  subjects, unrestrained by law’. Since then criticisms of theories in  which the term has been employed have led to repeated attempts to  redefine it and to distinguish different kinds of ‘supreme power’ and  examine the relations between them. For Austin the sovereign is ‘a  determinate human superior, not_in a habit of obedience to a like.  superior, (receiving) habitual obedience from the bulk of a given  society .! Applying this notion to the British Constitution Dicey finds  it necessary to distinguish ‘legal sovereignty’ and ‘political sove-  reignty’.? Lord Bryce employs a different distinction. ‘Legal sove-  reignty’, he says, is primarily the concern of the lawyer: “The sovereign  authority is to him the person (or body) to whose directions the law  attributes legal force.’? This kind of sovereignty, Bryce says, “is created  by and concerned with law, and law only’.+ But it is also possible to  detect a ‘practical sovereign’: ‘The person (or body of persons) who  can make his (or their) will prevail whether with the law or against  the law. He (or they) is the de facto ruler.’> More recently Mr. W. J.  Rees has attempted an exhaustive analysis of the ways in which  ‘sovereignty’ has been used and has tried to establish three possible  senses. He begins with ‘power’: ‘To exercise power .. . is to deter-  mine the actions of persons in certain intended ways. There are,  however, different species of power, and these may be distinguished  according to the means used to determine persons’ actions.” He    From Political Studies, Vol. 3 (Clarendon Press, 1955), pp. 109-22. Reprinted by  permission of the author and the Clarendon Press.   J. Austin, Lectures on Jurisprudence (5th ed.), p. 221.   2A. V. Dicey, Law of the Constitution (gth ed.), p. 72.   3Lord Bryce, Studies in History and Jurisprudence, vol. ii (1901), p. 51-   *Tbid., p. 56.   *Ibid., p. 59-60.   Sw. J. Rees, ‘The Theory of Sovereignty Restated’, in Mind, vol. lix (1950).   "Ibid., p. 511.    68 STANLEY I. BENN    distinguishes three such species to each of which corresponds a species  of supreme power, or sovereignty.    ‘Legal sovereignty’ is a capacity ‘to determine the actions of persons in  certain intended ways by means of a law. . . where the actions of those who  exercise the authority, in those respects in which they do exercise it, are  not subject to any exercise by other persons of the kind of authority  which they are exercising.' ‘A person or a body of persons may be said  to exercise coercive Sovereignty, or supreme coercive power, if it determines  the actions of persons in certain intended ways by means of force or the  threat of force, and if the actions of the persons who exercise the power,  in those respects in which they do exercise it, are not themselves capable  of being similarly determined.? ‘To exercise political influence ...is to  determine in certain intended ways the actions, jointly or severally, of  the legal and coercive sovereigns, provided always that their actions are  determined by some means other than a rule of law or a threat of force... .  To exercise sovereignty in this sense is to exercise political influence, as  now defined, to a greater degree than anyone else... .’8    ‘Legal sovereignty’, it seems, might be attributed to Parliaments  or amending organs or constitutions ;* ‘coercive sovereignty’ to armies  or similar organized forces or a socially coercive power such as  existed under the frank-pledge system;> ‘influential sovereignty’ to  a ruling class, the majority of the electorate, a priesthood, or some  other such group.®   I propose in this paper to isolate and examine these and other  usages, to try to discover in what kinds of study, if any, each is likely  to be useful; and to determine whether they possess any common  element that would justify the use of the one word ‘sovereignty’ to  cover them all.    II. Legal Sovereignty    It has often been said that a ‘legal sovereign’ is necessary in every    'W. J. Rees, ‘The Theory of Sovereignty Restated’, in Mind, vol. lix (1950), p- 508.  (My italics $.1.B.)   *tbid., p. 511. (My italics S.1.B.)   3Ibid., p. 514. (My italics S.1.B.)   *Ybid., pp. 516-17. It is not clear from this passage that Mr. Rees would ascribe  legal sovereignty to a constitution. Such an ascription has been made by other  writers, however (e.g. by Sir Ernest Barker in Principles of Social and Political Theory,  p- 61, and Lord Lindsay in The Modern Democratic State, pp. 222-9), and I propose to  examine the implications of this usage.   SW. J. Rees, op. cit., p. 509.   *Ibid., p. 513.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 69    state if legal issues are to be settled with certainty and finality.’ From  one point of view, this necessity derives from the nature of a judicial  decision understood as one determining a dispute within the frame-  work of established rules (as distinct from one made according to  subjective criteria). The judge called upon co settle a dispute sees  law as a system of rules to guide his decision; and sucha system needs  criteria of validity determining which rules belong to it; it needs  a supreme norm, providing directly or indirectly the criteria of  validity of all other norms, and not itself open to challenge.’   Where a written constitution exists, it is approximately true to  say that the constitution itself provides such a supreme norm; and  in this sense one may speak of the ‘legal sovereignty of the consti-  tution’. An amendable written constitution will provide criteria for   ‘E.g. Sir Ernest Barker, op. cit., p. 59: “There must exist in the State, as a legal  association, a power of final legal adjustment of all legal issues which arise in its ambit.’  W. J. Rees, op. cit., p. 501: ‘Laws can only be effectively administered if there exists    some final legal authority beyond which there is no further legal appeal. In the absence  of such a final legal authority no legal issue could ever be certainly decided, and    government would become impossible.’ J. W. Salmond: Jurisprudence (10th ed. by -  Glanville Williams), App. I, p. 490: ‘It seems clear that every political society involves ”    the presence of supreme power... . For otherwise all power would be subordinate,  and this supposition involves the absurdity of a series of superiors and inferiors ad  infinitum.’ But contrast John Chipman Gray, The Nature and Sources of the Law, p. 79  (quoted by W. Friedmann, Legal Theory, 2nd ed., p. 147): ‘The real rulers of a political  society are undiscoverable. They are the persons who dominate over the wills of their  fellows. In every political society we find the machinery of government . .. . We have  to postulate one ideal entity to which to attach this machinery, but why insist on  interposing another entity, that of a sovereign? Nothing seems gained by it, and to  introduce it is to place at the threshold of Jurisprudence a very difficult, a purely  academic, and an irrelevant question.’ Gray seems to argue (a) that the influential  sovereign is undiscoverable; (6) that the jurist is needlessly multiplying the entities  by postulating a legal sovereign. But (b) is not a necessary inference from (a).    2Cf. H. Kelsen, General Theory of Law and State (1945), p. 124: “The legal order...  is therefore not a system of norms coérdinated to each other, standing, so to speak,  side by side on the same level, but a hierarchy of different levels of norms. The unity  of these norms is constituted by the fact that the creation of one norm—the lower one—  is determined by another—the higher—the creation of which is determined by a still  higher norm, and that this regressus is terminated by a highest, the basic norm which,  being the supremé reason of validity of the whole legal order, constitutes its unity.’  And Salmond, op. cit., sec. 50: ‘It is requisite that the law should postulate one or  more first causes whose operation is ultimate, and whose authority is underived. In  other words, there must be found in every legal system certain ultimate principles from  which all others are derived, but which are themselves self-existent. ... Whence  comes the rule that Acts of Parliament have the force of law? This is legally ultimate;  its source is historical only, not legal....No Statute lays it down. It is certainly  recognized by many precedents, but no precedent can confer authority upon pre-  cedent. It must first possess authority before it can confer it. If we enquire as to the  number of these ultimate principles, the answer is that a legal system is free to  recognize any number of them, but it is not bound to recognize more than one.’    70 STANLEY I. BENN    identifying valid amendment. But even so the constitution may not be  altogether identified with the supreme norm; for there may be rules  for its interpretation which judges accept as binding but which are  not prescribed in the constitution. Effectively, therefore, it is the  traditional judicial interpretation of the constitution that is the  supreme norm.   The absence of a written document does not vastly alter the situ-  ation. The supreme norm in English law is provided in part by the  maxim ‘Parliament is sovereign’. But this leaves open the question  ‘What is an Act of Parliament?’ A judge must be able to refer to a  criterion superior in status to an Act, which will establish which rules  are Acts. (In a recent article! Mr. Geoffrey Marshall has drawn at-  tention to the way in which the interpretation of Parliamentary  sovereignty is changing. The critical question, in his view, is: “What is  Parliament?’ This seems to me to put the problem the wrong way. A  judge requires not a definition of the organ Parliament, but a  criterion by which to recognize a norm of the type ‘Act of Parliament’.  For judicial decisions are reached in the light of norms, not of organs.  Mr. Marshall seems to argue that there is a difference in principle  between the view typified by Lord Campbell’s dictum that the Parlia-  ment roll provides conclusive evidence of a statute’s validity? and the  rule in Harris v. Dénges which implies that a rule issuing from  Parliament by a procedure other than that legally prescribed is not  an Act.? But the difference is not that Parliament is held, in the one  view, to be above the law, and, in the other, to be subject to law; it  lies in the stringency of the criteria which, in the view of the court,  a rule must satisfy in order to be deemed an Act of Parliament.)   An Act of Parliament, therefore, is subordinate to the supreme  constitutional norm. It is, however, a rule of a special type in that its  binding force cannot be challenged on the grounds that it is in  substantial conflict with any superior norm. (In this respect it differs  from an Act of Congress or a statutory instrument.) In view of this    'G. Marshall, ‘What is Parliament? The Changing Concept of Parliamentary  Sovereignty’, in Political Studies, vol. ii, no. 3 (1954), pp. 193-209.    2In Edinburgh and Dalkeith Rly. Co. v. Wauchope (1842): ‘All that a Court of Justice  can do is to look to the Parliamentary roll: if from that it should appear that a bill  has passed both Houses and received the Royal assent, no Court of Justice can inquire  into the mode in which it was introduced into Parliament, nor into what was done  previous to its introduction, of what passed in Parliament during its progress in its  various stages through both Houses.’    3See G. Marshall, op. cit., for a full discussion of this and other relevant cases.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 71    peculiarity, it might be useful to ascribe to Acts of Parliament  immediate supremacy as decisive rules in questions of substance, while  the norm from which their validity derives might be termed ultimately  supreme. This is a reinterpretation ofa distinction made by Sir Ernest  Barker, who ascribes ultimate sovereignty to the constitution and  immediate sovereignty to a supreme legislative organ; but it avoids  the awkward asymmetry of his ascription:' the word ‘sovereignty’  can scarcely be precisely and unambiguously defined and yet fit with  equal comfort both an organ and a norm.’   The interpretation of ‘legal sovereignty’ I have offered has, I  believe, the advantage that while meeting the judicial need for an  ultimate point of reference, it avoids the criticisms directed against  the command theory with which the notion of sovereignty has  traditionally been associated. Whether law is command is irrelevant.  For the judge is interested in the ‘source’ of a law only if by ‘source’  is meant the higher norm from which its validity derives; its legis-  lative origin is a fact to be assessed according to established legal  criteria. Further, ‘legal sovereignty’, as I conceive it, need not imply  that law is ‘effective’, i.e. generally observed in an actual conimunity.  A student might apply ancient legal principles to hypothetical cases;  in so doing he would be acting in a way closely parallel to a judge on  an English bench, and would find the same necessity for a supreme  norm. The same would apply to the student of Utopian or Erewhon-  ian law. Again, ‘sanction’ is non-essential to ‘sovereignty’ in this sense,  and the difficulties which arise in applying some legal theories of  sovereignty to constitutional and administrative law thus do not  arise here.’   This notion of the ‘supreme norm’ is essential to any study of the  rules governing decisions within a normative order. It is of primary  importance for the practising lawyer, and for the jurist. It is also    ‘Sir Ernest Barker, op. cit., bk. ii, sec. 5. Sir Ernest recognizes the asymmetry, but  considers it ‘inherent in the nature of the case’ (p. 63).  *Ibid., loc. cit.; and W. J. Rees, op. cit., pp. 516-17.    3Cf. L. Duguit, Law and the Modern State, p. 31: ‘In those great state services which  increase every day... the state... intervenes in a manner that has to be regulated  and ordered by a system of public law. But this system can no longer be based on the  theory of sovereignty. It is applied to acts where no trace of power to command is  to be found. Of necessity a new system is being built, attached indeed by close bonds  to the old, but founded on an entirely new theory. Modern institutions . . . take their  origin not from the theory of sovereignty, but from the notion of public service.’  (Quoted in H. E. Cohen, Recent Theories of Sovereignty, p. 40.) This notion is in no way  incompatible with the view of sovereignty I am suggesting.    72 STANLEY I. BENN    of significance to the administrator, and to the student of adminis-  tration interested in the legal sources and limitations of admin-  istrative discretion rather than in the motives which determine the  exercise of discretion.   In historical or sociological studies and those concerned with  moral questions the notion of a supreme norm is at most only  indirectly relevant. If we ask such questions as ‘How do laws  develop?’, “What governs the content of law in this (or any) com-  munity?’, “What is the role of law in this (or any) society ?’,’ we shall  need a way of distinguishing law from other modes of social control,  but the judicial criterion of validity will not necessarily be an element  in such a principle of differentiation. Of course, any description of  the life of a community must, to be complete, include an account of  its judicial system, and so of the assumptions made by the men whose  business it is to reach decisions within this normative order; but the  supreme norm will figure in a sociologist’s account as a feature of the  conceptual apparatus employed by lawyers, not as part of his own.   Similarly, in asking the moral question ‘What ought laws to be like?’  we need to distinguish laws from, say, conventional moral rules. But  the principle of differentiation must now be related to those aspects  of law which constitute it a distinct problem (e.g. the coercive  sanction, or the presumption that most people will obey it), and the  judicial criterion of validity will not necessarily figure as part of it.   The questions of political science are both normative and des-  criptive. If the political scientist is concerned with the state as a  normative order, the idea of the supreme norm will have the same  relevance for him as it has for the lawyer; but if his questions concern  men’s actual political behaviour, his view of law will be much more  that of the sociologist.    III. Legislative Sovereignty    The approach to ‘legal sovereignty’ that I have suggested derives  from reflection upon the activities of a judge, for whom the law  appears, at any particular moment, as a body of given rules to guide  his judgement. For the political scientist, however, law appears in the  process of creation; he is concerned with law-making and law-    'Cf. R. Wollheim’s distinction between questions about law which are in Juris-  rudence, and those which are not, in ‘The Nature of Law’, in Political Studies, vol. ii    1954), Pp. 139-40.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 73    makers;! he is interested in ‘legislative organs’, and not merely in  ‘legal norms’. I propose accordingly to inquire now whether there is  a place in the political scientist’s vocabulary for ‘supreme legis-  lative organ’, and what it might mean to attribute ‘supremacy’ in  this way. To distinguish the supremacy of a norm from that of a  legislative organ, I propose to use ‘legal sovereignty’ for the former  and ‘legislative sovereignty’ for the latter.   A political scientist might significantly classify legislative organs  in a legal order into superior and inferior (or subordinate), and he  might arrange them hierarchically as a sort of reflection of the judge's  hierarchy of norms. The judge will deem an Act of Parliament super-  ior in status to a statutory instrument; the political scientist will  deem Parliament superior in competence to a minister acting as  legislator. But does it follow that the necessity which leads the judge  to postulate a supreme norm is paralleled by a similar necessity  leading the political scientist to postulate a supreme legislative organ?  Such an organ would be omnicompetent, that is, competent to legis-  late on all matters without the possibility that any of its rules might be  invalidated by reason of conflict with some other rule not of its own  making.’ It might reasonably, therefore, be called ‘legislative sove-  reign’. But such a sovereign is not logically necessary to a legal order.  A constitution might allocate fields of legislative competence between  co-ordinate organs, or place certain matters beyond the competence  of any organ (e.g. by a Bill of Rights); and in respect of such limit-  ations the constitution might be unamendable. (This qualification  is important, since the competence to amend the constitution in these  respects would be, on an ultimate analysis, omnicompetence.) In such  a case, there would be no omnicompetent organ. On the other hand,  one might speak of one organ with supreme competence in a particular  field or of several such organs; and that would mean that though the  rules of such an organ might be invalidated by reason of conflict with  the constitution they could not be invalidated through conflict with  the rules of any other organ. But one cannot say a priori that every  legal order must possess one or more ‘supreme legislative organs’ even    'Cf. Kelsen, op. cit., p. 39: ‘If we adopt a static point of view, that is, if we consider  the legal order oniy in its completed form or im a state of rest, then we notice  only the norms by which the legal acts are determined. If, on the other hand, we adopt  a dynamic outlook, if we consider the process through which the legal order is created  and executed, then we see only the law-creating and law-executing acts.’    Except for a rule of another organ to which this one had expressly delegated a  limited competence to make rules, in a given field, of equal status to its own (e.g. by  a ‘Henry VIII’ clause).    74 STANLEY I. BENN    in this sense. A constitution that is unamendable (at least in respect  of its allocation of fields of competence) might constitute two (or  more) organs co-ordinate in the same field, so that a rule enacted by  either might set aside a rule of the other. A judge operating such an  order would require only some general prescription to show which  of conflicting rules enacted by different organs he should deem  binding; and this could be met by the principle that in case of  conflict a later rule should repeal an earlier. This might be highly  inconvenient if the co-ordinate organs were operated by men  of different opinions, and competition developed for the latest  place. But this could be avoided without making one organ supreme  in each field, if, for example, co-ordinate organs were operated by  members of one highly disciplined political party, or by men who  reached decisions by mutual agreement before legislating. The  judge need not then be faced with conflicts any oftener than he is  in England.   There is thus neither logical nor practical necessity for a legislative  sovereign in every state, though there may be states in which such  organs are discoverable. But it should be stressed that to ascribe  ‘sovereignty’ to a legislative organ in either of the senses just con-  sidered is to attribute to it not ‘power’, in the sense of ability ‘to  determine the actions of persons in certain intended ways’, but legal  capacity or ‘competence’; it is to say no more than that a judge  will set an organ’s rules in a particular kind of relation to the rules  of other organs. It is, indeed, a statement about the formal structure  of a legal order. It does not presuppose any actual ability possessed by  the men acting through an organ to determine the actions of other  persons in intended ways. It does not even require that the action of  the judge himself should be so determined; for the person occupying  judicial office may disregard the law. Law is normative: it prescribes  how a person must act to function as a judge within the legal order;  it does not predict that he will so act.   Yet it is true that law-making is one way of ‘determining the  actions of persons in certain intended ways’. A sociologist seeking  to explain behaviour in a community would need to take its statutes    ‘*Power’ suffers from a systematic ambiguity. When we refer to ‘the powers of Local  Authorities’, ‘Parliament’s power to legislate on any subject whatsoever’, or ‘legisla-  tive powers of Ministers’, we mean ‘competence’ or ‘entitlement’—i.e. that they are  ‘empowered’ to act in this or that way. This is a quite different sense from that implied  by Mr. Rees’s definition: ‘to determine the actions of persons in certain intended ways’.  The ‘power’ possessed by a Local Authority to orginize concerts is clearly not power  in this second sense. Neither is it a species of a ‘power’ genus. Mr. Rees’s argument  suffers from his failure to make this distinction. Vide op. cit., p. 511.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 75    into account, since the knowledge that a particular rule is a statute  may condition the behaviour of those subject to it. Consequently,  legislators can often be regarded as determining the actions of persons  in intended ways. But there is no warrant for automatically trans-  ferring ‘supremacy’ as applied to competence to any power deriving  from such competence. It is not, for instance, necessarily true that  the men who operate the organ termed ‘supreme’ receive more  obedience than those operating a ‘subordinate’ organ. The amending  organ of the U.S.A.—Congress together with three-fourths of the  States—is omnicompetent (or very nearly so), yet the Eighteenth  Amendment was much less effective than most Acts of Congress.'  ‘Supremacy’, then, is relevant, when applied to legislative organs,  only when a legislative act is considered as a directive to a judge: in  all other contexts it is out of place.    IV. The Sovereignty of the State in its international aspect    There remains to be considered, before leaving the juristic field,  the sense of ‘sovereignty’ as applied in international relations.   It has often been argued that state ‘sovereignty’ is incompatible  with international law. The term implies that the state is a self-  sufficient legal order; and this must mean that a judge operating that  order need seek no further than its own supreme norm. The tra-  ditional problem then arising is put by Kelsen in the following terms:    ‘That the State is sovereign means that the national legal order is an  order above which there is no higher order. The only order that could be  assumed to be superior to that of the national legal order is the inter-.  national legal order. The question whether the State is sovereign or not  thus coincides with the question whether or not international law is an  order superior to national law.”?    1This is not to suggest that ‘supreme legislative power’ is necessarily meaningless.  It could conceivably be used in historical and sociological studies. To attribute it to  A might mean (1) that all the laws he made were invariably effective and could not be  overturned (which would be the ‘power’ equivalent to ‘supreme competence’); (2) that  they were more generally effective than anyone else’s (though the use of ‘superior’  rather than ‘supreme’ might accord better with common usage); or (3) that his laws  were usually effective, and his conduct was not determined by laws made - others.  Examples of (1) probably cannot be found; (2) would be useful only if the effec-  tiveness of laws depended on their sources, which seems improbable; (g) might be  true of a few autocrats, but must be unusual. A fourth apparent possibility, viz. that  in consequence of A’s possessing supreme legislative competence his laws are more  likely to be effective, ceteris paribus, than rules liable to invalidation, is really only  another way of saying that the legal order is effective. None of these senses seems  important and I shall not consider them further.    ?Kelsen, op. cit., p. 384.    76 STANLEY I. BENN    A pluralistic position, he argues, is inadmissible: two legal orders  with conflicting norms cannot be simultaneously valid for the same  territory.’ The choice lies, therefore, between the primacy of inter-  national law, with non-‘sovereign’ national legal orders deriving  validity from it, and the primacy of national law endowing inter-  national law with validity to the extent that it recognizes it. But the  consequence of the second view is ‘state solipsism’,? for now only one  State can be held to be sovereign; other legal orders exist for it only  as derivatives of itself, either directly or inuirectly through its re-    cognition of international law. Kelsen adds:    ‘It is, however, logically possible that different theorists interpret the  world of law by proceeding from the sovereignty of different States. Each  theorist may presuppose the sovereignty of his own State, that is to say, he  may accept the hypothesis of the primacy of his own national legal order.  Then he has to consider the international law which establishes the relations  to the legal orders of the other States and these national legal orders as  parts of the legal order of his own State, conceived of as a universal legal  order. This means that the picture of the world of law would vary according  to what State is made the basis of the interpretation. Within each of these  systems, erected on the hypothesis of the primacy of national law, one State  only i is sovereign, but in no two of them would this be the same State.”    Kelsen appears to regard this solution as irrefutable but unsatis-  factory. I believe, however, that otherwise stated it can throw light on  the place of ‘sovereignty’ in international law, and of international law  within the structure of ‘sovereign’ national orders.   Within the English legal framework an English judge will take  cognizance of international law as a part of English law to the extent  that its rules do not conflict with other rules of English law; the  national laws of other states will equally be subject to the criteria  of validity of the English legal order, and in so far as they are re-  cognized by a judge will become parts of that order. In this sense,  then, it is true that for the English judge, the only sovereign order is  his own. But mutatis mutandis the same is true of a French or any other  national judge. Each can operate only within his own order, and for  him it is self-sufficient. This is again true of the international lawver.  His order is a self-sufficient order embracing national orders as sub-  ordinate parts. A given rule may well be valid in one of these orders    ‘Ibid., p. 363.  *Ibid., p. 387.  3Ibid., p. 386.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 77    (national or international) and invalid in another. But there is not  here, as Kelsen supposes, any contradiction, and if it involves ‘State  solipsism’, this need cause no embarrassment. Kelsen’s argument,  that ‘two norms which by their significance contradict and hence  logically exclude one another, cannot be simultaneously valid’, misses  the point. He requires that there shall be only one objectively valid  legal order. But to ascribe ‘self-sufficiency’ to an order rules out the  ascription to it of ‘validity’, which for Kelsen is meaningful only  within an order. Accordingly, many such systems can logically exist,  side by side, and none can claim greater legal validity than another.   It follows, as a corollary to this analysis, that if the international  lawyer refers to ‘sovereign orders’, or the national lawyer to ‘other  sovereign states’, then the sense of the word ‘sovereign’ as here used  must be different from that in which either applies the term to his  own order, as self-sufficient. He is now using it of a particular type  of partial order, analogous to other partial orders, like ‘corporations’,  recognized by various legal orders. The precise definition of ‘a  sovereign state’ in any given legal order is a question of particular  not of general jurisprudence and cannot be settled by reflection upon  the nature of legal systems in general.    V. Sovereignty as ‘supreme coercive power’    ‘Sovereignty’ as ‘supreme coercive power’ is not, I believe, relevant  to or meaningful in a normative study of political institutions.   If we begin by defining the state as a coercive order, that is, as an  order maintained by the exercise or threat of physical force, then  coercive power is, by definition, necessary to it. If we define it in  some other way, then,.in Mr. Rees’s phrase, coercive power is  ‘causally necessary’ to it, if it is to be capable of surviving violent  opposition. In either case, the coercive power attributed is a mode of  operation, or an institutional framework, within which action is  undertaken by. whatever men happen to occupy ‘the appropriate  offices or to fit the constitutional categories which the order provides.   For instance, to say that ina particular state the coercive power is  exercised by the Army is to say that this mode of state action is the  proper function of any group which satisfies a set of legal or con-  ventional conditions constituting it the coercive organ of the state,  and which acts according to the procedures proper to such an organ  (e.g. under orders from the Minister for War or the Commander-in-  Chief). In this context only one coercive power is possible in a state:    78 STANLEY I. BENN    for the term must refer either to a mode of action within the single   _ normative order, or to the organs whose mode of action it is. If  several organs employ this mode, they all operate within the same   _order, and so jointly constitute its coercive power. The state’s coercive  power may therefore in a sense be divided, but so long as we think of  the state as an order there is no point in saying of one or other organ,  or of a group of organs, that itis supreme. For ‘supremacy’ implies the  possibility of conflict, and a conflict of coercive organs is incompatible  with the conception of the state as an order. Thus if conflict does  arise between groups qualified to act as coercive organs, then at least  one group must be acting otherwise than as a state organ. For  example, an army in rebellion against the established Government  is not acting as a state organ. (Of course, in any territory at any  moment there may well be more than one actual coercive organ-  ization: in 1932, besides the coercive forces of the German Republic  there existed the Brown Shirts. But the Brown Shirts were not part  of the state order.)   One further point—the distinction drawn by Mr. Rees between  political orders in which coercive sovereignty is exercised by an  institutionally coercive power and those in which itis exercised bya  socially coercive power! is misleading in two ways. To reserve the  term ‘institutional’ for coercive power exercised by professional  armies, &c., obscures the fact that where all, or nearly all, the  members of a community collectively constitute the coercive organ,  their function is ‘institutional’. Secondly, inasmuch as Mr. Rees has  in mind the classification of political orders, the attribution of  ‘supremacy’ to coercive organs is redundant, and nothing is lost by  abandoning the term.   In historical and sociological studies, ‘supreme coercive power’  may well be meaningfully used. A statement like: “By 1649, the New  Model Army had emerged as the supreme coercive power in England’  is not concerned with institutional relations in the English constitu-  tional order, but with power relations between groups of men ina  particular territory. In such studies we may well compare the coercive   ower of one group with that of another. For the historian, Brown  Shirts and Communists are as much factors of the 1932 German  situation as were the armed forces of the Republic, and he might  declare one of them ‘supreme’, in the sense that, had armed conflict  developed, it could have defeated its rivals. It is doubtful, however,  whether the term is helpful in describing any but the simplest situa-  1W. J. Rees, op, cit., pp. 509-10, and Section I above.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 79    tions. In peaceful conditions we could say that coercive sovereignty  is exercised by the coercive organs of the state; and after a civil war  we could attribute it to a victorious army that remained united. But  it would rather mislead to try to apply it, for example, to Sicily in  the days of the Mafia or France in the days of the Maquis.’ In any  case, even if the seat of coercive sovereignty can be located, the  possibilities of inquiry opened up are limited. It will give us no way  of understanding the importance in the determination of policy of  those controlling the coercive organs of the state. Taken collectively,  the Germany army, navy, air force, Gestapo, and S.S. may have con-  stituted the coercive sovereign in Hitler’s Germany; but to understand  the part played by those controlling these organs in shaping political  events we have to consider them separately, not collectively, and  to examine their mutual relations and rivalries and the power each  exercised at any given moment. To lump in problems of this sort is  to obscure rather than to illumine.    VI. Sovereignty as ‘the strongest political influence’    The first question here concerns the type of discussion to which  ‘influence’ may be relevant. I drewa distinction earlier? between words  of two logical types—‘competence’ and ‘power’ (as ability to deter-  mine the actions of persons in intended ways). ‘Influence’ is a word  of the same type as ‘power’. To establish A’s competence we examine  his status in a normative order; to establish his influence we must  observe how men behave in relation to him, whether for instance  they act on his suggestions or consult his wishes. ‘Influence’, and  consequently ‘the strongest political influence’, have thus no place  in a normative study. It is only in historical or sociological studies  that they can be meaningfully employed. It is of course true that a  man’s status in a normative order may be a source of influence; but  the extent of that influence, and, indeed, its very existence, cannot  be established by normative study.   Is the search for ‘an influential sovereign’ likely to be fruitful in  historical and sociological studies? We must distinguish, first, two  senses of ‘influence’: as in (1) ‘Climate influences vegetation’ and (2)  ‘Rasputin’s influence over Nicholas IJ’. In (1) no more than ‘effect’  is implied: there is no suggestion of intention; in(2) the effect produced  is one intended. When we speak of ‘the strongest political influence’   1Cf. Lord Bryce, op. cit., p. 63.   2Section III above.    80 STANLEY I. BENN    we are presumably thinking of some group which can shape govern-  mental policy to its own purposes. We are using ‘influence’ therefore  in sense (g).   Now we should not say that a group was the ‘influential sovereign’  merely because it had occasionally shaped government policy as it  intended. That would multiply sovereigns endlessly and deprive the  term of all point. As Mr. Rees has pointed out, ‘sovereignty’ r resembles  dispositional words in that it implies recurrent capacity to determine  policy in tended ways under understood conditions.’ In seeking an  influential sovereign, therefore, we should be seeking a stable domi-  nant influence over a fairly wide range of political issues.   In states of one type a single group (e.g. a ruling class), able  decisively to influence policy whenever it operated, could be regarded  as such an influence. The value of this approach, however, would  depend on the range of common interests from which the group’s  identity derived and which therefore constituted its field of operation.  In states of another type Governments are sensitive to pressures  from diverse interests, and political decisions are thus the outcome of  an interplay of influences rather than expressions ofa single dominant  influence. If we seek an influential sovereign here, then, we are likely  to be seriously misled; terms like ‘lobby’ and ‘pressure group’ will  be much more appropriate analytical concepts.   Sometimes influence is attributed to ‘the electorate’ or ‘the  majority’ as one might attribute it to ‘the bankers’ or a ‘ruling class’.  This is a mistake. Groups such as ‘the bankers’ or ‘the ruling class’  derive identity from common interest and homogeneity of intention;  ‘the electorate’ denotes a state organ. All that electors have in common  is the right to vote. Severally, or in groups, they may exercise influence  deriving from electoral competence; but there is not therefore one  super-influence of the electorate as such. An election is a procedure  in which influences are pitted against one other; what emerges is a  result, or an ‘effect’, not a new influence. We cannot say of the elec-  torate that it influences policy as it intends; it has no single intention,  only a multitude of intentions given different weights by the electoral  process. It is no more accurate to assign influential sovereignty to  ‘the majority’ (as Mr. Rees seems to do).? In any election a certain  aggregate of interests is more numerous than another, and this  arithmetical relation, corresponding to a recognized legal procedure,  is a source of influence for the groups concerned. But the aggregates   1W. J. Rees, op. cit., pp. 514-15.    ?Tbid., pp. 512-13.    THE USES OF ‘SOVEREIGNTY’ 81    at the next election will be differently constituted; in five elections  there will be five majorities; and we should not treat them as though  they were one group, the majority, exercising a stable dominant  influence. Consequently, the inference to be drawn from ‘The majority  (or the electorate) is sovereign’ is not that Government is sensitive to  a specified influence but that it is sensitive to all influences.   Finally, ‘influential sovereignty’ might be applied to an organiza-  tion, like a Church or a Communist party, which has a policy on all,  or most, matters, and is able to make it effective. Bur here again the  policy is not the intention of a group identifiable by common interest,  but the result of an interplay of influences within the organization.  The internal politics of influential organizations need to be inter-  preted in terms of pressure groups just as much as do the politics  of states. To attribute sovereignty to the Communist party is not to  provide an explanation of the changes in Soviet policy since 1917:  it is the struggle for power within the party that is the point of interest  for the student of Soviet history.   The concept ‘influential sovereignty’ has the disadvantage, then,  that it may direct attention to the wrong questions, or conceal the  need for inquiry beyond the point where the influential sovereign has  been identified.    Vil    In this paper I have identified six senses in which ‘sovereignty’   might be meaningfully employed:   (a) to express the supremacy of a norm in a legal hierarchy, as  viewed by a lawyer, or by a student concerned with the legal  limits of discretion;   (b) in a study of constitutions as normative orders, to refer either  to the omnicompetence, or to the supreme competence within its  field, of a legislative organ;   (c) to express the self-sufficency of a legal order from the point of  view of a lawyer operating within it;   (d) to refer to a particular kind of partial order, the definition of  which may vary from one legal order to another (its utility in this  sense being limited to particular jurisprudence);   (e) to express the ability of bodies such as armed forces to defeat  all probable rivals;   (f) to express the ability of a sectional interest decisively to influence    policy.    82 STANLEY I. BENN    The first four senses are relevant to normative studies and cannot  be directly utilized in historical or sociological studies without  confusion. Each of them is a useful concept in its own field, but they  seem to have little in common. The first two share the idea of ‘su-  premacy’ but in slightly different senses of that word; the third is  an expression of totality, rather than supremacy; the fourth implies  neither notion. The fifth and sixth senses, unlike the first four, do  imply ability to determine other people’s conduct; and it is in these  senses alone that sovereignty implies supreme power. These two  senses may be relevant to historical or sociological studies, and are  not relevant to normative studies; their usefulness where they are  relevant is limited, for they can be seriously misleading.   In the light of this analysis it would appear to be a mistake to treat  ‘sovereignty’ as denoting a genus of which the species can be distin-  guished by suitable adjectives, and there would seem to be a strong  case for giving up so Protean a word.    Vv    AUTHORITY  (1) R. S. PETERS    1. Authority and Artifice.   THERE are good reasons as well as personal excuses for ushering in  Hobbes at the outset of a discussion on ‘authority’ ; for Hobbes him-  self introduced the concept to deal with difficult problems connected  with the analysis of human institutions. And there is little point  in making a list of the different ways in which the term ‘authority’  can be used unless the distinctions are made with an eye on the  problem or cluster of problems that can be clarified by means of  them.   Hobbes was impressed by the fact that a civil society is not a  natural whole like a rook or a beehive; yet it is not a mere multitude  of men. A multitude of men becomes an artificial person when each  man authorizes the actions of a representative. ‘Of persons artificial,  some have their words and actions owned by those whom they  represent. And then the person is the actor; and he that owneth his  words and actions is the AUTHOR: in which case the actor acteth by  authority ...and as the right of possession, 1s called dominion; so  the right of doing any action, is called AUTHORITY. So that by  authority, is always understood a right of doing any act; and done by  authority, done by commission, or licence, from him whose right itis.’  (Leviathan, Ed. Oakeshott pp. 105-6.) De Jouvenel, also, uses the  concept of ‘authority’ in the context of the same type of problem.  Having rejected the view that civil societies come into being through  voluntary association or through domination from without, he  claims that authority is ‘the efficient cause of voluntary asso-  ciations’ .. . ‘Everywhere and at all levels social life offers us the  daily spectacle of authority fulfilling its primary function—of man  leading man on, of the ascendancy of a settled will which summons  and orients uncertain wills ..’. Society in fact exists only because    Symposium by R. S. Peters and Peter Winch. From Proceedings of the Aristotelian Society,  Supp. Vol. 32 (1958), pp. 207-40. Reprinted by courtesy of the authors and the Editor of  the Aristotelian Society, with a postscript to his paper by Peter Winch.    84 R. S. PETERS    man is capable of proposing and affecting by his proposals an-  other’s dispositions; it is by the acceptance of proposals that  contracts are clinched, disputes settled and alliances formed  between individuals... What I mean by “authority” is the  ability of a man to get his proposals accepted’. (Sovereignty pp.    29-31.)    2. The de jure and de facto senses of ‘authority’.   I have chosen to start off with these quotations from Hobbes and  de Jouvenel partly because they both introduce the concept of ‘autho-  rity’ in the context of the attempt to elucidate what is meant by a  society as distinct from a multitude of men, and partly because the  two quotations illustrate an important difference in the ways in which  the term ‘authority’ is used in the context of the same sort of problem.  For Hobbes ‘authority’ is what might be called a de jure concept; for  de Jouvenel it seems to be a de facto one. In other words, for Hobbes  the term indicates or proclaims that someone has a right to do some-  thing. ‘Done by authority’ means ‘done by commission or licence from  him whose right it is’. Now I am not concerned to defend Hobbes’  odd conception of the handing over of rights or his account of  ‘authorization’. But, whatever the correct analysis of the connexion  between ‘authority’ and ‘right’, it is quite clear that there is a very  important use of the term ‘authority’, which is favoured by Hobbes,  which connects the two concepts. A man who is ‘in authority’ for  instance, clearly has a right to do certain sorts of things. This use of  ‘authority’ is to be contrasted with the de facto use favoured by de  Jouvenel. For he says “What I mean by “authority” is the ability of  a man to get his proposals accepted’. The Oxford English Dictionary  seems to permit both usages; for it gives ‘power or right to enforce  obedience’. It also speaks of ‘power to influence the conduct and  actions of others; ... personal or practical influence; power over the  opinion of others; intellectual influence’; as well as ‘moral or legal  supremacy; the right to command or give an ultimate decision. . .  title to be believed’. And in ordinary conversation the two senses  can be used without danger of misunderstanding in one sentence when  we say things like ‘The headmaster and others in authority had,  unfortunately, no authority with the boys’. The question quite natur-  ally arises how these two senses of ‘authority’ are related and whether  both senses are important, as Hobbes and de Jouvenel maintain, for  saying certain sorts of things about specifically human relationships  and organizations.    AUTHORITY 85    3. Hobbes’ rendering of the de jure sense.   The de jure concept of authority presupposes a system of rules which  determine who may legitimately take certain types of decision, make  certain sorts of pronouncements, issue commands of a certain sort,  and perform certain types of symbolic acts. Hobbes brings this out  by saying that the actions of a representative are authorized. He  relies on the sense of ‘authorize’ which assimilates it to commissioning  or giving a warrant to a man to do certain types of things. The  subjects are conceived of as having words and actions which they own,  of which they are the ‘authors’, and to which they have a right. They  then appoint a representative to whom they transfer their right. He  is now commissioned or ‘authorized’ to act on their behalf. “So that  by authority is always understood a right of doing any act; and done by  authority, done by commission or licence trom him whose rightitis.’  Now Hobbes, as is well known, and as Mr. Warrender has recently  shown in such stimulating detail, had a very strange view of natural  rights which permeates this picture of authority. He was led by it to  conceive of authority in general in terms of the particular case where  a man is the author of a word or act, to which he also has aright, and  where he commissions someone else to act in this matter on his behalf.  This is indeed a case of an authorized act; but there is a more general  meaning of ‘authorize’ which is to set up or acknowledge as authorit-  ative; to give legal force or formal approval to. Similarly ‘authorized’  in its most general meaning is equivalent to ‘possessed of authority’.  ‘Authorization’ is better understood in terms of the general concept  of ‘authority’ rather than vice-versa. Hobbes pictured ‘authority’ in  terms of ‘authorization’ which is one of its derivatives. But he did bring  out the obvious connexion between ‘authority’ and the existence of an  ‘author’ in the realm of acts and words, which is the key to seeing how  the concept works.    4. ‘Auctoritas’ as the key to ‘authority’.   The concept of ‘authority’ is obviously derived from the old  concepts of ‘auctor’ and ‘auctoritas’. An ‘auctor’ was, to quote Lewis  and Short, ‘he that brings about the existence of any object, or  promotes the increase or prosperity of it, whether he first originates  it, or by his efforts gives greater permanence or continuance to it’.  ‘Auctoritas’ which is a producing, invention, or cause, can be  exercised in the spheres of opinion, counsel or command. The point  of this little excursion into philology is to stress not only the sphere of  opinion, command and so on, in which ‘auctoritas’ 1s regarded as    86 R. S. PETERS    being exercised, but also the connexion of the concept with ‘produc-  ing’, ‘originating’, ‘inventing’—in short, with there being an author.   Now in some spheres of social life it is imperative to have such  ‘auctores’ who are producers or originators of orders, pronounce-  ments, decisions and so on. It is also the case that in social life,  whether we like it or not, there are such ‘auctores’ to whom commands,  decisions and pronouncements are to be traced back in any factual  survey of how social regulation is brought about. This is the sense of  ‘authority’ stressed by de Jouvenel. The notion of ‘authority’ involves  therefore either a set of rules which determine who shall be the auctor  and about what, or, in its de facto sense, a reference to a man whose  word in fact goes in these spheres. The de jure sense of ‘authority’  proclaims that a man has a right to be an ‘auctor’; the de facto sense  states that he is a matter of fact one. Hobbes’ account of ‘authoriza-  tion’ relates to the particular case where a man has a right to bean  ‘auctor’, as laid down by a set of rules, and where he commissions  someone else to do what he himself has a right to do. Indeed, often, as  in a bureaucratic system, there are subordinate sets of rules which lay  down procedures for the granting of such warrants and commissions.  But all authority cannot adequately be conceived in this fashion.    5.Weber’s legal-rational and traditional rules for determining who is IN  authority.   Indeed, one of the great services done by the sociologist, Max  Weber, has been to stress the different types of normative systems  which are connected with different types of authority. For legitimacy  may be bestowed in different ways on the commands or decisions or  pronouncements issuing from an ‘auctor’. In what he calls a legal-  rational system the claim to legitimacy rests on ‘a belief in the  “legality” of patterns of normative rules and the right of those  elevated to authority under such rules to issue commands’. (Theory of  Economic and Social Organization, Ed. Talcot Parsons, pp. 300/1.) There  is also, however, traditional authority ‘resting on an established  belief in the sanctity of immemorial traditions and the legitimacy of  the status of those exercising authority under them’.   There are most important and interesting differences between these  types of authority but this is not the place to investigate the difference  between traditional and legal rules, or to comment on the adequacy  of Weber’s analysis—but in both cases to speak of ‘the authorities’ or  ‘those in authority’ or those who ‘hold authority’ is to proclaim that  on certain matters certain people are entitled, licensed, commissioned    AUTHORITY 87    or have a right to be auctores. And the right is bestowed by a set  pattern of rules.    6.Weber’s charismatic authority.   This type of authority is to be distinguished clearly from other  types of authority where the right derives from personal history,  personal credentials, and personal achievements, which, as will be  argued later, are intimately bound up with the exercise of authority  in its de facto sense. There is a gradation from the pure de jure sense  of ‘authority’ as when we say that ‘Wittgenstein held a position of  authority in Cambridge’, through the notion of ‘an authority’ as  when we say ‘Wittgenstein was an authority on William James’ to the  de facto sense as when we say ‘Wittgenstein exerted considerable  authority over the Moral Science Club’. Both the last two senses of  ‘authority’, unlike the first, imply something about the attributes  or qualifications of the individual in question. But the details of  this transition are very difficult to make explicit.   Weber, as a matter of fact, made much of authority deriving from  personal characteristics when he spoke of ‘charismatic authority’—  ‘resting on devotion to the specific and exceptional sanctity, heroism  or exemplary character of an individual person, and of the normative  patterns or order revealed or ordained by him’ (op. cit. p. 301). He  was thinking primarily of the outstanding religious and military  leaders like Jesus and Napoleon. He therefore pitched his account  rather high and personal ‘authority’ is decked with the trappings of  vocation, miracles and revelation. Nevertheless, there is something  distinctive about the charismatic leader which he shares in an exag-  gerated form with other ‘natural’ leaders who exercise authority in  virtue of personal claims and personal characteristics. For he is  unlike the moral reformer who gives reasons of a general kind for his  innovations, reasons which he expects everyone to appreciate. He  appeals to revelation or claims that he has a call. These are not  really justifications of his innovations; they are ways of stressing  that he need give no justification because he is a spectal sort of man.    7. Gradations in the concept of ‘AN authority’.   This notion of presenting credentials of a personal sort is an  intermediary between the purely de jure and the de facto senses of  ‘authority’. For the reference to personal characteristics is a way  of establishing that a man has a right to make pronouncements and  issue commands because he is a special sort of person. And, although    88 R. S. PETERS    in some societies a man who sees visions and goes into trance states  is in danger of electric shock treatment, in other societies pointing  to such peculiarities of personal biography are ways of establishing  a man as an authority in certain spheres. In societies where the  claim to vocation or revelation is acceptable there are also, usually,  collateral tests for eliminating charlatans and the mentally deranged.  But his claims rest, as it were, on some kind of personal initiation  into mysteries that are a closed book to most men. In a similar way  years of study of inaccessible manuscripts would establish a man  as ‘an authority’ on a special period of history, or years spent in  Peru might establish a man as ‘an authority’ on the Incas. Collateral  tests would, of course, be necessary to vouch for his trustworthiness.  But in many fields people become ‘authorities’ by some process of  personal absorption in matters that are generally held to be either  inaccessible or inscrutable. Dodds suggested that the Forms were  objects of this sort for Plato—objects which the initiated had to  scrutinize by a kind of bi-location of personality as practised by  shamans. And the scrutiny of such objects gave the philosopher kings  a right to make decisions and issue commands—in short, made them  authorities. (The Greeks and the Irrational, pp. 210/11.)   Weber stresses the importance of success as a necessary condition  for the maintenance of charismatic authority. If success deserts  the leader he tends to think of his god as having deserted him or his  exceptional powers as failing him. And his authority will be corres-  pondingly reduced. The disciples, it is said, were in despair when  Jesus had been crucified. It was only when he accomplished the  supreme feat of rising from the dead that they recovered their faith  in him and in his claims. To a certain extent the charismatic leader  is in the position of a man who keeps spotting Derby winners without  a system. His authority depends on always being right by virtue of a  ‘flair’ or a ‘hunch’—words which point to his inability to give grounds  for his pronouncements. It is because his authority derives from such  personal pecularities that failure tends to be fatal. This is a very  important empirical generalization about a necessary condition for  the exercise of authority which applies at much more mundane levels.’   The point, however, is that in the case of these extreme types of  charismatic authority revelation and success are not simply necessary  conditions for the exercise of authority de facto. They are also grounds    ‘Ernest Gellner has pointed out to me that in many societies there are institutional  devices for covering up failure so that the authority can’t be wrong.    AUTHORITY 89    for establishing the right to be an auctor. This can be shown, too, in  more mundane spheres where we speak of a person being an authoritv.  He has not been putin authority; he does not hold authority according  to any system of rules. But because of his training, competence and  past success in this sphere he comes to be regarded as an authority.  He has a right to speak. It may be the case that people do not exercise  authority in various spheres unless they are competent and successful  as a matter of fact; but it is also the case that they come to be regarded  as authorities because these necessary conditions come to be regarded  as grounds for a right. The notion of an authority, therefore, implies,  as it were, a self-generating system of entitlement which is confined  to specific spheres of pronouncement and decision. We speak ofan  authority on art, music or nuclear physics. The grounds which entitle  a manare directly connected with his personal history and achievements  in a specific sphere. These grounds vary from the extremes of revel-  ation, initiation and vocation, through less esoteric grounds like study  of inaccessible material in history, to the more public and accessible  training of a scientist. But in all these spheres success seems to be  a usual ground of entitlement.    8. De facto authority: its necessary conditions and meaning.   It was suggested by reference to the Wittgenstein example, that  there was a gradation from the purely de jure sense of ‘authority’,  through the concept of ‘an authority’ to the de facto sense of ‘authority’.  The analysis of de facto authority must now be tackled and the question  faced whether the term ‘authority’ can ever be used properly if there  is no suggestion of a right to make decisions and issue commands or  pronouncements. Does the exercise of authority de facto presuppose  that the person who exercises it must be in authority or an authority?  In the Admirable Crichton situation the butler, in fact, exercised  authority, though the lord was in authority. Are we to assume that, in  some sense the butler had a right to make decisions? Or does saying  that the butler had authority over the lord mean simply that the lord  accepted the butler’s decisions just because they issued from a parti-  cular man in whose presence his ‘genius was rebuked’?   Of course most people who exert authority de facto do so because  of the deference paid to their office or status rather than because of  any outstanding personal characteristics. But there is often a mixture  of both as in the case of Julius Caesar or Queen Elizabeth the First.  Indeed there is subtle interweaving of these institutional and personal  conditions for the exercise of authority de facto. For, as we say, the office    go R. S. PETERS    makes the man; and often the man gives dignity to the office. The same  tendency is to be observed in cases where it is more appropriate to  speak of there being an authority. The entitlement accorded has a  snowball effect. Often the outcome is disastrous—portentous pro-  nouncements which are unquestionably accepted but which turn out  to be erroneous. The generalization to other spheres is also a well-  known phenomenon—one which Socrates spent so much time  attacking.   There is, therefore, a widespread connexion between being in  authority or an authority and the de facto exercise of authority. But  this is a contingent connexion, not a necessary one. And as Admirable  Crichton situations are not unusual, it looks as if being in authority  or an authority are only frequently conditions for exercising authority;  it does not look as if they are even necessary conditions.   What then of the cases where a man exercises authority de facto  purely because of certain personal characteristics—when either there  is no deference paid to his office if he is an official, or when he is not  in a position of authority at all? There are two questions here which  need to be distinguished. The first is about the conditions other than  being in authority or an authority which are necessary to the exercise of  authority de facto. The second is the logical question of what it means to  exercise authority de facto in this tenuous sense. Is it the case that always  the exercise of authority implies that in some sense, a man must be  regarded as entitled to command, make decisions and so on? Are there  necessary conditions which, as in the case of ‘anauthority’ come to be  regarded as grounds for aright? To answer this it will be as well to deal  briefly with the sorts of things which might be suggested as necessary  conditions.   A variety of generalizations can be made about necessary conditions  for bringing about unquestioning conformity—for instance, that a  man’s decisions tend to be accepted in proportion to the extent to  which he has been proved right before. Success, too, strengthens  another necessary condition for the exercise of authority—the expect-  ation of being believed, followed or obeyed. People will tend to accept  decisions and obey orders in proportion as the man who makes them  or gives them expects that they will. The more successful he is, the less  questioning there will be and the greater will be the confidence sa  which he utters them. We have phrases like ‘an air of authority’, ‘  authoritative voice’, and Jesus, it is said, produced ae oh  because as a boy he spoke ‘with authority’ in the temple. Such descrip-  tions draw attention to the outward signs of the inner certitude which    AUTHORITY gi    is usually necessary for the exercise of authority. For itis not sufficient  for a man to be in fact wise or shrewd or a felicitous prophet, if he is  to exercise authority. He must also be known to be so. It is said that  Attlee’s authority in the country suffered in his early days as Prime  Minister because he did not have a good public relations officer. A  man cannot exercise authority if he hides his light under a bushel.  Such empirical generalizations are the province of the social  psychologist. The question of philosophical interest is whether any  such empirical conditions must come to be regarded as grounds for  a right if a man is to be said properly to exercise authority without  being in authority or an authority. A concrete case will help here.  Suppose there is an explosion ina street ora fire ina cinema. Someone  comes forward who is not a policeman or a fireman or manager of the  cinema and who is quite unknown toall present—.e. he is not regard-  ed as ‘an authority’ in virtue of his personal history or known  competence in an emergency. Suppose he starts issuing orders and  making announcements. And suppose that he is unquestioningly  obeyed and believed. Would we say that such a man exerted authority  in a crisis? I think we would only say so if we thought that his orders  were obeyed simply -because they were his. There would have to be some-  thing about him in virtue of which his orders or pronouncements were  _regarded as being in some way legitimately issued. Maybe it would be  his features; maybe it would be the tone of his voice.! Maybe he would  have a habit of command. But those who heard him would have to  think in an embryonic way that he was the sort of man who could be  trusted. It would put the matter altogether too strongly to say that they  thought he had a right to take control. For obviously, in any useful  sense of ‘right’, he has not got a right. He has not been appointed;  he is nota status-holder; he possesses no credentials of a more person-  al sort. All that can be said is that there is something about him which  people recognize in virtue of which they do what he says simply  because he says it. Perhaps the word ‘faith’ is required here; for, as  Hobbes put it, the word ‘faith’ is required when our reasons for assent  derive ‘not from the proposition itself but from the person pro-  pounding’.  It may be, however, that the search for some vague ground for the  acceptance of orders in this unquestioning way is to approach the    'Cf. King Lear, Act. 1 Sc. IV. Lear: Who wouldst thou serve? Kent: You.  Lear: Dost thou know me fellow? Kent: No sir: but you have that in your countenance  which I would fain call master. Lear: What’s that? Kent: Authority.    92 R. S. PETERS    analysis of ‘authority’ in its de facto sense in too positive a manner.  Perhaps the use of the term ‘authority’ is to deny certain characteristic  suggestions rather than to assert a positive ground for unquestioning  obedience. People often do what theyare told because they are threat-  ened or bribed or physically forced. After all, obedience in a crisis can  be produced by a fire-hose or machine gun, irrespective of who is  manning it. Maybe the term ‘authority’ is necessary for describing  those situations where conformity is brought about without recourse  to force, bribes, incentives or propaganda and without a lot of argu-  ment and discussion, as in moral situations. We describe such situa-  tions by saying that an order is obeyed or a decision is accepted simply  because X gave it or made it. This is a way of excluding both that action  was taken on moral grounds and that the person acted under con-  straint or pressure or influence. The use of authority, in other words,  is a manner of regulating human behaviour which is an intermediary  between moral argument and the use of force, incentives and pro-  paganda.    g. Common features of all uses of ‘authority’.   There are, therefore, features which all uses of the term ‘authority’  have in common. In so far as the de facto sense implies that, in an  indeterminate and embryonic sense, the person who exercises author-  ity is regarded as ‘having a right’ to be obeyed, and so on, the de facto  sense is parasitic on the de jure sense. But the common features of both  senses are, perhaps, best brought out by summarizing and making  explicit the peculiar nature and réle of authority in the regulation of  human behaviour—the point at which I embarked on this analysis in  the company of Hobbes and de Jouvenel.   (a) In contrast to ‘power’. The first feature to stress is the connexion  between ‘authority’ and the use of certain types of regulatory utter-  ances, gestures and symbolic acts. A person in authority has a right to  make decisions, isstie pronouncements, give commands and perhaps  perform certain sorts of symbolic significant acts. To have authority  with another man is to get him to do things by giving orders to him,  by making pronouncements and decisions.   The main function of the term ‘authority’ in the analysis of a social  situation is to stress these ways of regulating behaviour by certain  types of utterance in contrast to other ways of regulating behaviour.  This is to reject the more usual attempts to analyse ‘authority’ in terms  of ‘power’ as exemplified by Weldon, for instance, who claims that  ‘authority’ means power exercised with the general approval of those    AUTHORITY 93    concerned. (Vocabulary of Politics, p. 56.) This, of course, is not to deny  that it may be important, as Warrender stresses, to distinguish physical  power from political power, the latter being confined to cases where an  element of ‘consent’ is involved, as when a man does something  because he is threatened, cajoled or duped, in contrast to when he is  physically coerced—e.g., bound and put into prison. (See The Political  Philosophy of Hobbes pp. 312/3.) It might, therefore, be tempting to  regard the exercise of authority as a species of the exercise of political  power distinguished by approval as opposed to mere acceptance on  the part of the victim. But this, surely, is an over-simplification. For  often what we want to bring out when we say that men are in authority  or exert authority over other men is that they get their way or ought  to get their way by means other than those of force, threats, incentives and  propaganda, which are the usual ways of exercising power. It is only  when a system of authority breaks down ora given individual loses his  authority that there must be recourse to power if conformity is to be  ensured. The concept of ‘authority’ is necessary to bring out the  ways in which behaviour is regulated without recourse to power—to  force, incentives and propaganda. These ways are intimately bound  up with issuing pronouncements, making decisions and giving com-  mands. I suppose the concept of ‘power’ can be extended to cover  these ways of influencing people. But my claim is that ‘power’ usually  has meaning by contrast with ‘authority’ rather than as a generic  term of which ‘authority’ is just one species.   In so far as there is a positive connexion between ‘power’ and  ‘authority’ it is better conceived along other lines. For instance,  it might well be true that a common condition for the exercise of  authority de facto is the ability to dispose of overwhelming power,  if necessary. Or, alternatively, power might be regarded as a ground  of entitlement. The old saying that there can be no legitimacy without  power might be interpreted in this second way—as claiming that one  of the grounds which give a man a right to command must always be,  directly or indirectly, the ability to dispose of power, if necessary. Or  it could be interpreted in the first way as an assertion that the posses-  sion of power is a necessary condition for the de facto exercise of  authority, the legitimacy of which might be established in other ways.  And, of course, this necessary condition, like others which I have  mentioned before, can come to be regarded as a ground of entitle-  ment. There is, however, no need to explore this positive connexion  in detail. For my claim is that these are answers to other questions—  questions about the grounds of entitlement or about the necessary    94 R. S. PETERS    conditions for the exercise of authority, not questions about the  meaning of ‘authority’.   There is little mystery about why authority should be so intimately  connected with the problem of the analysis of human institutions. For  men, pace Aristotle, are rule-following animals; they talk and regulate  their own behaviour and that of others by means of speech. Men  perform predictably in relation to each other and form what is called  a social system to a large extent because they accept systems of rules  which are infinitely variable and alterable by human decision. Such  systems can only be maintained if there is general acceptance of  procedural rules which lay down who is to originate rules, who is to  decide about their concrete application to concrete cases, and who is  entitled to introduce changes. In other words, if this peculiarly human  type of order is to be maintained there are spheres where it is essential  that decisions should be accepted simply because somebody, specified  by rules of procedure, has made them. It is very difficult to play cricket  without an umpire, just as it is difficult to conceive of an army working  without a hierarchical system of command. The term ‘authority’ is  essential in those contexts where a pronouncement, decision or com-  mand must be accepted simply because some person, conforming to  specifications laid down by the normative system, has made or given  it—where there must be a recognized ‘auctor’. More liberal societies,  of course, guard against injustice and stupidity by instituting further  procedures for appealing against decisions of those in authority. But  this ismerely a device whereby a higher authority is instituted tocorrect  the mistakes of a lower one. It is still a regulatory device which relies  on the institution of authority and in no way abrogates the duty of  obedience to the lower authority, provided that the lower authority is  acting intra vires.   (b) Incontrast tomoral and sctentific regulation of conduct and opinions. This  analysis of ‘authority’ accounts also for a long tradition which stresses  the incompatibility between authority and certain specific human  enterprises like science and morality. For it would be held that in  science the importance of the ‘auctor’ or originator is at a minimum,  it never being justifiable in scientific institutions to set up individuals  or bodies who will either be the originators of pronouncements or who  will decide finally on the truth of pronouncements made. The pro-  cedural rules of science lay it down, roughly speaking, that hypotheses  must be decided by looking at the evidence, not by appealing to a man.  There are also, and can be, no rules to decide who will be the origin-  ators of scientific theories. In a similar way, it would be held thata rule    AUTHORITY 95    cannot be a moral one if it is to be accepted just because someone has  laid it down or made a decision between competing alternatives.  Reasons must be given for it, not originators or umpires produced. Of  course, in both enterprises provisional authorities can be consulted.  But there are usually good reasons for their choice and their pro-  nouncements are never to be regarded as final just because they have  made them. In science and morality there are no appointed law- givers  or judges or policemen. This is one of the ways in which life in the  laboratory differs from life in the army and law-courts.   This analysis of ‘authority’ readily explains, too, the connexions  so often made between ‘authority’ and ‘command’. For commands,  roughly speaking, are the sorts of regulatory utterances for which no  reasons need to be given. A man can only give a command ifhe is ina  position of authority or if he exerts authority i in a de facto sense. For  as an occupant of an office or as a status holder he has a right to make  decisions which are binding and to issue orders. Similarly, if the de facto  sense of authority is being used, to say that a man has authority over  other men is to say, amongst other things, that they will do what they  are told without questioning the prudence, wisdom and good sense of  the decision. They may, of course, question its legality; for questions  can be raised about a man’s right to issue commands in general or in  a particular sphere. These are questions about his right to an office  or status, or about the sphere of its competence or his prerogative. But  once it is granted that he occupies an office or holds a status legitim-  ately, and once it is made clear that he is not straying from its sphere  of competence or exceeding his prerogative, there can be no further  question of justifying his commands. For commands just are the type  of regulatory utterance where questions of justification are ruled out.   Authority, however, is not exercised only in the giving of commands.  There are also the spheres of making pronouncements and decisions  and the performance of symbolic acts. Behaviour or opinion in these  spheres is regulated by the utterance of a man which carries with it the  obligation for others to accept, follow or obey. The claim put forward  by Hobbes and Austin, that law is command, is right in stressing the  connexion between law and authority but wrong in conceiving of  commands as the only form of authoritative utterance. Similarly those  who speak of ‘the authority of the individual conscience’ cannot be  supposed merely to be saying that in moral matters a man must give  himself orders, which sounds, in any case, a little quaint; rather they  are saying that in moral matters a man must decide himself between  conflicting claims and principles and not accept the pronouncements    96 R. S$. PETERS    and decisions of others simply because they issue from determinate  sources. In morals a man must be his own ‘auctor’.    10. Conclusion.   To conclude: my thesis is that the concept of ‘authority’ can  be used in a de jure and a de facto sense. Amongst the former uses  it is very important to distinguish the kind of entitlement implied  in being i authority from that implied in being an authority.  Authority in a de facto sense is parasitic on the de jure sense in  that it implies that decisions are in fact accepted or commands  obeyed simply because they issue from a certain person whose  attributes are in some way regarded as bestowing legitimacy on  them. The grounds for this legitimacy are often much more indeter-  minate than those more impersonal grounds characteristic of de jure  authority. There are, however, more general negative features which  all senses of ‘authority’ share. The term is always used to speak of  ways in which conduct is regulated as distinct from the mere use  of power—e.g. the giving of commands, the making of decisions and  pronouncements, as distinct from the use of force, incentives and  propaganda. Secondly, within the sphere of decisions, pronounce-  ments and other such regulatory utterances, authority is confined to  those which are or must be obeyed simply because someone has made  them. This second feature of ‘authority’ brings out the contrast  between laws, commands and religious utterances, on the one hand,  and those of science and morality on the other. Both these features  of ‘authority’ are rooted in the Latin word ‘auctoritas’ which implies  an originator in the sphere of opinion, counsel and command.    (2) PETER WINCH    The concept of authority does not merely give rise to isolated  philosophical difficulties of its own. It is intimately connected with  some of the most central issues in philosophy. Hence Dr. Peters is  right to start with Hobbes: for Hobbes’ account of authority is closely  bound up with his general philosophical account of the nature of  human life, thought and society. Indeed, the connexions between the  philosophy of society and politics on the one hand and metaphysics  and epistemology on the other have probably never been so clearly  brought out as they were by Hobbes. (Thus I think itis a great mistake  to try, as some have lately tried, to treat Hobbes’ account of politics  as if it had nothing logically to do with his epistemological presup-  positions. It is not merely a mistaken interpretation of Hobbes but  is also a symptom of wrong ideas about the relevance of philosophy  to politics. Of course, in saying this I should not be taken as endorsing  the specific account Hobbes gives of epistemology and of politics.)   But my agreement with Dr. Peters, fortunately for the future of  this symposium, ends there. Although I think that he starts off with  a genuine philosophical problem, and one which an analysis of the  concept of authority should have much to contribute to, I do not  accept the analysis which he offers; I should like to suggest, moreover,  that the defects in it which I hope to be able to point out arise out of  a failure on Peters’ part to keep his initial problem clearly in mind  and go deeply enough into it. My method, therefore, will be to develop  my argument independently from the same starting point as Peters’,  trying to show en passant what seems to me wrong with the account of  authority which he offers.   What light then does the notion of authority throw on the nature  of the cohesion or unity which is characteristic of societies of human  beings as opposed to what Peters calls ‘natural wholes’? As Peters  notes, Hobbes uses the notion in a legalistic way: for him, the unity  of a society is a sort of legal fiction, involving the quasi-legal notion  of representation, which he regards as closely analogous to author-  ization and hence as involving the notion of authority.    A multitude of men, are made one person, when they are by one man, or one  person, represented; so that it be done with the consent of every one of that  multitude in particular. For it is the unity of the representer, not the unity of    98 PETER WINCH    the represented, that maketh the person one. And it is the representer that  beareth the person, and but one person; and unity, cannot otherwise be under-  stood in multitude.   (Leviathan, Ed. Oakeshott, p. 107.)    What is important here for my purposes is that the real unit, in  Hobbes’ conception, is the individual will. His problem is to say how  a large number of wills can be conceived as co-ordinated in the way  with which we are familiar in human societies. Now M. de Jouvenel  equally, in those passages which Peters cites, seems to take the indivi-  dual will as his starting point: he thinks of a society in terms of the  mutual influence of such wills. Social movements, for him, start as  the projects of individual wills; authority is the faculty of interesting  the wills of others in one’s own projects.   Peters himself does not, I think, explicitly declare himself on  this issue. Nevertheless, I think it is fair to ascribe to him too the  view that the starting point in the analysis of authority should be  the success of the individual in getting his decisions accepted by other  individuals. This is implicit, for instance, in his account of the notion  of ‘natural’, ‘de facto’ authority, with his stress on the importance of  purely personal qualities.   My paper starts from a point of view which is opposed to this.  Although a man who exercises authority does indeed influence the  wills of other men, authority cannot be understood as a peculiar sort  of influence of one will upon another. If that sounds paradoxical, let  us recall that although a man who has knowledge does indeed believe  something, knowledge cannot be understood as a peculiar kind of  belief. This analogy points to a parallel, which I think may be quite  illuminating, between the problem in political philosophy of giving  an account of the distinction between authority and power and the  problem in epistemology of giving an account of the distinction  between knowledge and belief. The connexions between these ques-  tions are brought out in the argument of Plato’s Gorgias; I shall return  to the parallel subsequently.   Authority is not a sort of influence. It is not a kind of causal relation  between individual wills but an internal relation. The very notion of a  human will, capable of deliberating and making decisions, presup-  poses the notion of authority. I shall try to show this by considering  the whole question of the nature of the unity of a human society from  a different point of view.   I want to say first that the chief way in which this unity differs from    AUTHORITY 99    that of what Peters calls ‘natural’ wholes is that it is a unity essentially  involving concepts. It would obviously be going much too far to say  that a human society is a conceptual unity in the sense in which one  can say this of a system of ideas; but there are analogies. For the  interaction of human beings in society, unlike that of animals, involves  communication, speech and mutual understanding (or, of course,  misunderstanding). It is a type of interaction which can be accounted  for adequately neither in terms of instinct nor of conditioned reflex.’   It follows from this that one cannot give a full account of the nature  of a human society without giving an account of the way in which con-  cepts enter into the relations which men have to each other in sucha  society.   Wittgenstein has shown how notions like communication and  understanding presuppose the notion of following a rule. He has also  offered an account of this latter notion which brings out the peculiar  kind of social interaction which it involves: what he calls “agreement  to go on in the same way’. Now Peters mentions, in Section g of his  paper, that activities which are governed by rules can be carried on  only if there is agreement that somebody should be in authority to  make crucial decisions. But he does not seem to me to see the full  bearing of this fact on the analysis of the concept of authority. Itis not  clear whether he regards the connexion between rule-governed activ-  ities and authority as merely contingent (arising out of the tendency of  men to come into mutual conflict), or whether he is making a gram-  matical statement about what is involved in the.very notion of a rule.  1 think it is important to see that the connexion is conceptual rather  than contingent.   The acceptance of authority is not just something which, as a matter  of fact, you cannot get along without if you want to participate in rule-  governed activities; rather, to participate in rule-governed activities  is, in a certain way, to accept authority. For to participate in such an  activity is to accept that there is a right and a wrong way of doing things,  and the decision as to what is right and wrong ina given case can never  depend completely on one’s own caprice. (Cf. Wittgenstein: Philoso-  phical Investigations, I, 258.) For instance, pace Humpty Dumpty, J  cannot (at least in general) make words mean what J want them to mean:  I can use them meaningfully only if other people can come to under-  stand how I am using them. Of course, I can decide, in a certain  context, to make the sound ‘red’ mean what is commonly meant by the    ‘For reasons of space much must be taken for granted here. I have argued the point  at greater length in The Idea of a Social Science (Routledge & Kegan Paul, 1958).    100 PETER WINCH    sound ‘blue’; but I can do this only in so far as I also understand the  meanings of a great many words which J have not decided upon. In  other words, when it comes to following rules I must (as a matter of  logic) accept what certain other people say or do as authoritative.   This approach suggests that there is an intimate conceptual con-  nexion between the notion of authority on the one hand and, on the  other hand, the notion of there being a right and a wrong way of  doing things. That is the position that I propose to maintain and  develop in what follows.   It may sound far-fetched to start a discussion of the concept of  authority at this point; for the activity of speaking a language is not  one in which the exercise of authority is at all obtrusive.’ When we  use words in the right way we do not think of ourselves as bowing to the  dictates of an alien will. No; but then I want to say that to submit to  authority (as opposed to being subjected to power) is not to be subject  to an alien will. What one does is directed rather by the idea of the  right way of doing things in connexion with the activity one is perform-  ing; and the authoritative character of an individual’s will derives  from its connexion with that idea of aright way of doing things. (This,  I think, is partof the truth beind Collingwood’s odd, but in some ways  illuminating, definition of authority in The New Leviathan, 20. 45:  “Something capable of ruling itself sometimes appears to be (but is not  in fact) ruled by something else. I refer to the case in which one thing  is said to have authority over another.’)   The réle of authority in activities like speaking a language is ob-  scured by the fact that the authority in question is not esoteric. All  educated Englishmen are authorities on the correct speaking of  English. This makes it particularly easy to, and important not to,  overlook the interwovenness of the idea of there being a correct way  of speaking, on the one hand, and the established practice of a certain  group of people (the ‘authorities’: in this case a very wide group), on  the other.   All characteristically human activities involve a reference to an  established way of doing things. The idea of such an established way of  doing things in its turn presupposes that the practices and pronounce-  ments of a certain group of people shall be authoritative in connexion  with the activity in question. Further, we can give no account of the    ‘Though, as Max Weber several times emphasizes, the exercise of authority (in a more  obvious sense) is certainly essential to the maintenance of a language. Cf. Wirtschaft und  Gesellschaft. Kapitel III: ‘It is the authority exercised in school which puts the seal on  what counts as the orthodox, correct way of writing and speaking’ etc.    AUTHORITY 101    nature of the wholes which we call human societies, as opposed to that  of ‘natural’ wholes, except by giving an account of what is involved in  characteristically human activity. It is in this way, I suggest, that the  notion of authority is important to the conception of a human society.  It should be noted that I have made no explicit reference here to the  idea of one individual human will’s influencing another. A relation of  authority, as opposed to one of power, is an indirect relation between X  and ¥ involving as an intermediary the established way of performing  the activity on which X and Y are engaged.   I can now amplify my earlier remark that authority is an internal  rather than a causal relation. It is so because of its connexion with  the ideas embodied in the form of activity within which it is exercised.  (I use the notion of a ‘form of activity’ here in an extended sense to  include not merely activities like tree-felling, chess-playing, etc., but  also moral and political behaviour, which constitute forms of activity  in a somewhat different sense. De Jouvenel’s distinction, to which |  shall return shortly, between the ‘team of action’ and the ‘milieu of  existence’, may be helpful in explicating this distinction.) If N is trying  toteach mechess and Iam trying to learn, N and I are internally related  by way of my acceptance of his authority on the right way to play chess.  Again, if Nis a judge trying a case in which I am litigating, his authority  over me is an internal relation which can only be understood in terms  of the system of (legal, moral and political) ideas which give such legal  processes their sense in our society. In neither of these two examples  can the relation of authority between N and me be understood in  purely causal (sociological or psychological) terms.   Much of Peters’ argument turns on his belief that ‘it is very impor-  tant to distinguish the kind of entitlement implied in being in  authority from that implied in being an authority’ (Section 10). His  Weberian idea of ‘natural’ authority, depending on purely personal  qualities, commits him to a denial of my assertion that the notion of  an ‘established’ way of doing things 1s essential to the notion of  authority as such. I am saying, in a sense, however, that someone  who is in authority is always an authority on something. I am aware  of the difficulties this way of speaking raises, especially in connexion  with those situations where Weber speaks of the exercise of ‘charis-  matic’ authority; I shall reserve discussion of these until later. I  should like first to show that the kind of analysis I propose is capable  of easing certain long-standing philosophical difficulties which the  notion of authority gives rise to.   Earlier I cited a remark of Collingwood’s to the effect that to    102 PETER WINCH    be subject to authority is not to be in somebody else’s power. This  brings us face to face with the whole question of how the necessity  for authority in human affairs fits in with men’s freedom of choice.  To be subject to somebody else’s will is for one’s own freedom  of choice to be reduced; but there is a powerful philosophical  tradition to the effect that the exercise of legitimate authority is not  a curtailment of this freedom. De Jouvenel, for instance, writes:  ‘Authority is the faculty of inducing assent. To follow an authority  is a voluntary act. Authority ends where voluntary assent ends. There  is in every state a margin of obedience which is won only by the use  of force or the threat of force: it is this margin which breaches  liberty and demonstrates the failure of authority.’ (Sovereignty, Pp. 33.)  This line of thought seems to me one which it is important to empha-  size. I shall now try to show that authority, according to the acceunt  I have been giving of it, is not by any means a curtailment of liberty  but is, on the contrary, a precondition of it.   The liberty in question is the liberty to choose. Now choice, as  Hobbes (though in a misleading way) emphasized, goes together with  deliberation (Leviathan, Ch. 6). To be able to choose is to be able to  consider reasons for and against. But to consider reasons is not, as  Hobbes supposed, to be subject to the influence of forces. Considering  reasons is a function of acting according to rules; reasons are  intelligible only in the context of the rules governing the kind of  activity in which one is participating. Only human beings are capable  of participating in rule-governed activities, hence other animals  cannot be said to deliberate and choose, though Hobbes, consistently  with his premises, maintained otherwise. Thus it is only in the context  of rule-governed activities that it makes sense to speak of freedom of  choice; to eschew all rules—supposing for a moment that we under-  stood what that meant—would not be to gain perfect freedom, but to  create a situation in which the notion of freedom could no longer find  a foothold. But I have already tried to show that the acceptance of  authority is conceptually inseparable from participation in rule-  governed activities. It follows that this acceptance is a precondition  of the possibility of freedom of choice. Somebody who said that he was  going to renounce all authority in order to ensure that he had perfect  freedom of choice would thus be contradicting himself. (A conceptual  version of the man who thought that he could fly more easily if only  he could escape the inhibiting pressure of the atmosphere.)   Consider an example. If 1 am being taught chess, then the pro-  nouncements of my teacher are authoritative for me because of my    AUTHORITY 103    recognition of the fact that he is telling me the correct way to move  the pieces. If I make a wrong move and he corrects me, this is not in  any intelligible sense an encroachment on my freedom of action. Until  I know how to play chess the question of my being free or not to play  the sort of game I choose cannot arise. And I can only learn how to  play by accepting the pronouncements or example of some mentor or  mentors as authoritative.   I realize that this example loads all the dice in my favour, and it is  time now to consider some cases which give me more difliculty. In this  connexion I must draw attention to two aspects of the chess example.  (1) Playing or not playing chess is itself a matter of choice; but it  is certainly not true of all cases of authority that it is accepted volun-  tarily in this sense. Very often authority cannot be accepted or  rejected at will because it is not a matter of choice for us to participate  or not to participate in the form of activity within which it is exercised.  Indeed, one of the most telling criticisms frequently made of social  contract theories of authority is precisely that they overlook this point.  (2) In the chess example the meaning of the expression ‘the right way to  proceed’ is clear and unambiguous. People who know how to play  chess do not dispute about what moves of the various pieces are  legitimate (and this fact belongs to our idea of the game of chess).  But this feature is lacking from many of the cases in which authority  is exercised, and particularly from those which give the most  philosophical trouble. There will, for example, certainly be no general  agreement about whether or not a given exercise of political authority  was ‘right’ or not (and this belongs to our idea of politics). Peters  is so impressed by this that he is led to think that the concept of  authority becomes applicable precisely where the concept of ‘the  right way to proceed’ ceases to apply. That, at any rate, is how I  interpret his insistence that an appeal to authority is a way of avoiding  having to give reasons for what one does or says. Now I agree that  this lack of agreement about what is right creates philosophical diffi-  culties; but I do not think that Peters’ way of dealing with them is  satisfactory.   I shall now deal with these two objections in turn.   (1) Consider the following two cases in which the authority  exercised over a person clearly does not depend on his choice to  participate in any particular form of activity: (a) the authority of  adults over children; (b) political authority.   (a) The point about children is that they are not yet ina position  to exercise freedom of choice in the full sense, because they have not    104 PETER WINCH    yet been sufficiently educated in modes of social life to be able to  deliberate. The exercise of authority over them, therefore, cannot be  an encroachment on their freedom: it is via the exercise of authority  that they will be inducted into modes of social life and thus be made  capable of deliberating and exercising choice. A child is obviously  not in a position to choose to do this or that until he has learned how  to do this and that.   (6) The difficulty raised by political authority is quite different.  It is not, characteristically, exercised over children (and any attempt to  derive it from the notion of paternal authority is, I think, completely  misconceived). But still, like the liability of children to adult authority,  one’s liability to political authority does not depend on a decision to  subject oneself to it; in this way it is unlike the case of someone who  subjects himself to the authority of those who know howto play chess  in deciding to learn chess himself, or the case of someone who  subjects himself to the authority of the priest by deciding to become  a Roman Catholic.   To deal with this I shall use a modified version of de Jouvenel’s  distinction, already alluded to, between the ‘milieu of existence’ and  the ‘team of action’ (op. cit., Chapter 4). Activities like playing  chess, building bridges, performing religious duties, going to war,  etc., do not take place in isolation. Thev presuppose an established  social framework. No society can be understood as just one big action  group. But neither can it be properly understood as just the sum of  the various action groups which compose it. For new (political)  problems (that is, problems not specific to any particular action  group) arise out of the fact that action groups influence each other:  either by mutual assistance or by conflict. Moreover, no indivi-  dual will belong to just one action group, with the result that  (moral) problems of divided loyalty occur within the life of the  individual. Along with those new problems go specific ways of  treating and thinking about them: conventions dealing with right  and wrong ways of settling conflicts, for example. And the carrying  out of those conventions will, in the public sphere, involve the  exercise of authority. This is the sphere of Jouvenel’s ‘milieu of  existence’ and the authority exercised within it is what he calls the  authority of the rex as opposed to that of the dux who leads the team  of action.   For my purposes it is important to emphasize that our very idea  of the kind of activity carried on by the action group carries with  it the idea of a milieu of existence in which some kind of political    AUTHORITY 105    authority is exercised in the settling of conflicts. We do not know  what it would be like for such a mode of activity to be carried on in  complete isolation: apart, that is, from other modes of activity with  which it is in contact, with which it may conflict, and for which  conflicts there must be conventions governing their equitable settle-  ment. Although, therefore, one does not choose to accept political  authority; although its applicability to one does not depend on any  decision one may or may not have made to ‘engage in politics’;  nevertheless, the fact that one is a human social being, engaged in  rule-governed activities and on that account able to deliberate and to  choose, is in itself sufficient to commit one to the acceptance of  legitimate political authority. For the exercise of such authority isa  precondition of rule-governed activities. There would, therefore, bea  sort of inconsistency in “choosing to reject’ all such authority.  And since the acceptance of such authority is implied in the kind of  behaviour to which alone the category of freedom of choice is  applicable, it would be absurd to regard it as a derogation from a  man’s freedom of choice.    (2) I turn now to the other objection: that whereas there is  general agreement on what counts as ‘right’ when we are dealing with  the moves of chessmen, this is not true of other situations in which  authority is exercised—of politics, for instance. Now I agree that  here—and in some other contexts too—general agreement on the right  course of action is lacking; I agree, too, that it is precisely here  that it is necessary to have someone in authority. That is, where we  have no agreement about what is to be done, we must, unless we are  to lapse into chaos, have some agreement about who is to decide what  is to be done. But I still wish to maintain, in opposition to what I  take to be implied by Peters’ position, that we have to deal with  genuine authority, as opposed to bare power or ability to influence,  only where he who decides does so under the idea of what he conceives  to be the right decision. This fundamental fact is not altered by the  controversial character of the distinction between right and wrong  here.    Consider for instance the authority of the Pope over Roman  Catholics which is, in a sense, absolute in religious matters. All the  same, if a Pope were to issue an Encyclical denying the existence of  God and advocating the practice of free love, 1 doubt whether this  would be recognized as carrying the papal authority along with it.  Papal authority, that is, is not completely beyond the possibility    106 PETER WINCH    .of all criticism;! and this, I want to say, is true of all authority,  because authority is essentially bound up with systems of ideas, and  systems of ideas essentially involve the possibility of discussion and  criticism.   Again, certainly not everyone would agree that the Labour  Government acted rightly in nationalizing the steel industry. Never-  theless part of that act’s authoritative character derived from the  fact that it was claimed to be the right thing to do in the circumstances  (and some sort of case had to be made out for it). A great deal of  authority would have been lost if the action had been generally and  seriously regarded as an arbitrary act of dispossession for the sake of  personal enrichment or for the sake of a social grudge. An authority  can be allowed to make mistakes (up to a certain point) about what  is the right course to follow, and still retain its authoritative character:  but for it to be thought that it no longer cares about what is right  and what is wrong (in the sense appropriate to the context in which  it operates) is for it to degenerate from authority into force. For  reasons connected with this, M. de Jouvenel seems to me to be saying  something of considerable philosophical importance, in his book on  Sovereignty, when he recalls the attention of political philosophers  from the problem of who is to decide to the problem of what is to be  decided. This second problem is not merely pragmatically important;  it is conceptually interwoven with the first problem via the concept  of authority.   I shall now consider the implications of what I have been say-  ing for the distinctions which Dr. Peters attempts to draw in his  paper. His position appears to be the following. On the one hand  we have authority of what Weber called the ‘traditional’ and ‘legal-  rational’ types. It is characteristic of these that the authority in  question attaches to a status or an office defined and held accord-  ing to some more or less explicit system of rules. On the other  hand we have ‘de facto authority’ a watered-down version of Weber’s  ‘charismatic’ authority, which attaches to a specific person in  view of certain personal qualities which he exhibits—as in Peters’  quotation from King Lear. Intermediately, we have authority which   ' Peters said, in an earlier version of his paper, that a man who supports what he says  by claiming to speak with the voice of God (cf. Hobbes, op. cit., p. 243) is trying to  rule out the need to produce arguments. Perhaps he is ruling out arguments of acertain    sort; but what he is producing is itself an argument of a different sort, which a religious  man may give (religious) reasons for accepting or rejecting.    2Cf. G. C. Homans: The Human Group, p. 171 for an illuminating illustration of the  close connexion between the idea of authority and that of the right way to behave.    AUTHORITY 107    is accepted by virtue of what Peters calls ‘credentials of a personal  sort’—a history of outstanding success, for example, in a given field  of activity.   Peters has difficulty with the notion of ‘de facto authority’; for  while, on the one hand, he is unwilling to say that this may depend on  a set of rules of some sort—as this would seem to endanger its distinct-  ness from ‘de jure authority’; yet, on the other hand, in order to  distinguish it from mere power, he has somehow to bring in the notion  of there being some right to exercise it on the part of the person who  does so. He concludes: ‘All that can be said is that there is something  about him (sc.the wielder of de facto authority) which people recognize  in virtue of which they do what he says simply because he says it.’  This sounds to me suspiciously evasive. Either people do what he says  simply because he says it, or else they do what he says in virtue of  something else about him, which they recognize. If the latter, then it  will be part of the philosopher’s job to say what that ‘something else’  is. I suggest that the way in which Peters has drawn his distinctions  precludes him from doing this.   I can show this better by considering the distinctions of Max  Weber’s on which Peters leans. According to Weber ‘traditional’,  ‘legal-rational’, and ‘charismatic’ authority represent three ‘ideal  types’. That is, they are conceptually distinct though seldom, if ever,  found in their pure forms in actuality. I want to suggest, on the  contrary, that these three types are not even conceptually distinct.  Both the idea of the ‘legal-rational’ and that of the ‘charismatic’  presuppose the idea of a tradition.   I will concentrate here on the notion of charisma. Weber says  quite explicitly that charismatic authority is not at all tied to a  tradition. (Cf. Wirtschaft und Gesellschaft, p. 555.) In the same strain he  remarks that the characteristic attitude of the charismatic leader  is: ‘It is written that....But I say unto you....(Ibid., p. 141.)  Charismatic authority is conceived as a revolutionary force, as one  of the main agencies by which new ways of living and thinking are  introduced into a society.   Granted that this is so, it is still very misleading to oppose  charisma to tradition. The point about it is not that it stands apart  from established ways of doing things but that it stands to them in  a very special relation. Apart from the tradition to which it stands  in such a relation it is quite unintelligible and inconceivable.   Jesus Christ certainly revolutionized the religion of the Jews.  The authority that he exercised was clearly very different from that    108 PETER WINCH    of an orthodox rabbi. But what Jesus was, what he did and said, and  the kind of authority he exercised, are completely unintelligible  apart from the Jewish religious tradition. He came to fulfil the Law.  When he opposed what he said to what was written he cannot sensibly  be taken to have meant that he was replacing what was written by  something completely different. Rather, he threw new light on what  was written; and what he said could not be understood as it was  intended except by someone who had some knowledge of what was  written. (This question is discussed with great illumination by  Schweitzer in his The Psychiatric Study of Jesus.)   Or, to take a very different example, William Webb Ellis when in  1823 he picked up the ball and ran and thereby created the game of  Rugby Football, exercised a sort of charismatic authority over his  fellow-participants in the game: an authority very different in kind  from the legal-rational sort wielded by the duly appointed captain of  a football team. But still, Ellis could not have done what he did apart  from the rules of the game as they then existed; and we can only  understand the nature of the authority which he exercised by  considering what he did, and the effects of what he did, in relation to  those rules.   Peters says that the charismatic or natural de facto leader is unable  to give reasons for what he does. Perhaps so. Nevertheless, what he  does or proposes has a sense; and it derives this sense from the tra-  dition of activity in the context of which it occurs, whether this bea  context of religious thought and practice, rules of football, or  whatever.   To say that X is exercising de facto authority when his decisions are  accepted simply because they are his does not go far enough. As Peters  implicitly recognizes when he says that his decisions are accepted  because people recognize ‘something about him’, we must look  further than the mere fact that his decisions are accepted, if we are to  account for his authority. We must ask what lies behind that accep-  tance. And what will be found to lie behind it is the tradition of  activity which gives his proposals and decisions, and other people’s  acceptance of them, their sense. His authority consists in the fact that  his followers trust him to show them the right course to pursue in the  context of that activity. And his exercise of that authority. may, in  genuinely charismatic cases, result in the giving of a new sense to the  notion of ‘the right course to pursue’.   Let us consider a little more closely the external marks of natural  authority which Peters emphasizes in Section 8 of his paper. Let us    AUTHORITY 109    ask what makes a certain air, a certain tone of voice, a certain demean-  our, a sign of authority. Certainly not anything intrinsic to the  demeanour itself. In the film about the exploits of H.M.S. Amethyst,  ‘Yangtse Incident’, the ‘authoritative’ demeanour of the rating who  dressed up as an officer in order to bluff the Chinese commandant  was merely laughed at by his fellow ratings. A given demeanour can  only be a sign of authority in a special sort of context.   If we try to explain what (even de facto) authority 1s in terms of  these external marks—as when Peters wonders ‘whether any such  empirical conditions must come to be regarded as grounds fora right’ —  we shall get into the same kind of difficulty as Descartes got into in  trying to account tor knowledge in terms of the clearness and distinct-  ness of ideas. The clearness and distinctness of one’s ideas may bea  sign that one knows what one is talking about, but will not by itself  serve as a criterion of the truth of what one is saying. Similarly,  the confidence of one’s demeanour may be a sign that one knows the  right thing to do and that what one proposes may therefore be  accepted as authoritative. But even the success of one’s confident  demeanour in inducing others to do what one proposes is not the  ultimate test of one’s authority. The test of whether or not other  people were right to accept one’s authority will be the subsequent  assessment of the rectitude of what was done at one’s instigation.   The parallels are close between the misguided attempts in political  philosophy to account for authority in terms of the properties and  relations between individual wills and the equally misguided attempts  in epistemology to account for knowledge as a property of the  individual mind. Authority is no more a sociological concept than  knowledge is a psychological one.    Postscript (1967)    The subject of this symposium was authority sans phrase, rather  than political authority, and I want to emphasize that my paper was  concerned with the more general question. This is important for the  following reason: what I wrote about specifically political authority  is badly mistaken {as I realized as soon as the original paper had  gone to the press) and the mistake tends to some extent to give a  misleading appearance to my whole argument.   It is a central point of Hobbes’s thesis that the answer to the  question, “What constitutes the unity of the state?’ also provides  the answer to the question, ‘What are the conditions under which we    110 PETER WINCH    are entitled to call a collection of individuals a human society?’ Now  I believe it is a consequence of my line of argument that Hobbes is  quite mistaken in what he says about this. But this is obscured by the  impression my paper gives that it is concerned with just the same  question as Hobbes was concerned with in the passages quoted by  Peters and myself. The question to which my remarks are relevant is,  ‘What is it about human life that makes the concept of authority  applicable at all?’; and I tried to show that the answer to this question  is also part of the answer to the question ‘What is a human society ?’  But though these latter questions have to be answered by anyone  who wishes to clarify the peculiar nature of political authority,  their answers will not in themselves provide such a clarification,  which requires an analysis not just of the way concepts in general  enter into life in human societies, but of the way a particular  set of political concepts enters into the life of a body politic  and into the binding together of its members under a common  regime.   My failure, in my paper, to make these distinctions clear enough  led me to make the following quite false remark: ‘the fact that one is  a human social being, engaged in rule-governed activities and on that  account able to deliberate and to choose, is in itself sufficient to  commit one to the acceptance of legitimate political authority’. This  position is close to Locke’s analogy between a political ruler and an  umpire; and there are two considerations which show it to be quite  mistaken. (1) There is, it now seems to me, no good reason to  suppose that social life is impossible in the absence of anything like  the authority of the state. (2) The authority of the state, where it  exists, is suz generis and somehow imposed from without on other  social institutions. (This is one of the main points of Hume’s criticism  of Locke in his essay ‘Of the Original Contract’, the argument of which  I think is by and large correct.)   But J still think that Hume’s argument needs to be supplemented  by something like the main argument of my paper. Though the state  faces other social institutions as something like an external force  with its own, in a way independent, sources of authority, still this  force and this authority are what they are by virtue of the fact that  there exists a concept of the state in the society within which they  are exercised—a concept which enters into what subjects will and will  not submit to from the state and into the activities of the officers of  the state. This concept is not itself imposed by the state; it manifests  itself in the spontaneous life of the society, even though its existence    AUTHORITY 111    makes possible the imposition of certain things in a way which would  not otherwise be possible.   To say this much is to do no more than state a problem: what is the  peculiar character of this concept and what difference does its  existence make to the life of a society? I do not attempt to answer this  question here; the purpose of this postscript is simply to correct the  misleading appearance of my original paper to claim to have provided  an answer.    VI  THE PUBLIC INTEREST    BRIAN BARRY  I    A TRIBUNAL of Enquiry claims that the public interest requires  journalists to disclose their sources of information; the Restrictive  Practices Court invalidates an agreement among certain manufac-  turers as contrary to the Restrictive Practices Act and therefore  contrary to the public interest; the National Incomes Commission  says that a proposed rise for the workers in an industry would be  against the public interest. These examples could be multiplied end-  lessly. Each day’s newspaper brings fresh ones. In arguments about  concrete issues (as opposed to general rhetoric in favour of political  parties or entire societies) ‘the public interest’ is more popular than  ‘justice’, ‘fairness’, ‘equality’, or ‘freedom’.   Why is this? Roughly, there are two possible answers. One is that  ‘the public interest’ points to a fairly clearly definable range of  considerations in support ofa policy and ifitisa very popular concept  at the moment all this shows is that (for better or worse) these  considerations are highly valued by many people at the moment. This  is my own view. The other answer is that politicians and civil servants  find it a handy smoke-screen to cover their decisions, which are  actually designed to conciliate the most effectively deployed interest.   These sceptics often buttress their arguments by pointing out that  most theoretical writing about ‘the public interest’ is vague and  confused. This theme is copiously illustrated by Frank J. Soraufin his  article ‘The Public Interest Reconsidered’, Journal of Politics, XIX  (Nov. 1957) and by Glendon Schubert in his book The Public Interest :  Critique of a Concept. But it is a familiar idea that people who are  perfectly well able to use a concept may nevertheless talk rubbish  about it, so even if many of the writings about the concept are confused  it does not follow that the concept itself is. A more cogent line of  argument is to construct a definition of ‘the public interest’ and then    From Proceedings of the Aristotelian Society, Supp. Vol. 38 (1964), pp. 1-18. Reprinted  by courtesy of the author and the Editor of the Aristotelian Society.    THE PUBLIC INTEREST 113    show that, so defined, nothing (or not much) satisfies it. From this, it  can be deduced that most uses of the phrase in political discussion  must be either fraudulent or vacuous. Like Sorauf and Schubert, the  best known expositors of the view are Americans—one may mention  A. F. Bentley’s The Process of Government and D. B. Truman’s The  Governmental Process. But the most succinct and recent treatment is to  be found in Chapters Three and Four of The Nature of Politics byJ.D.B.  Miller, and it is to a criticism of these chapters that I now turn.    I]    Miller defines ‘interest’ as follows: ‘we can say that an interest  exists when we see some body of persons showing a common concern  about particular matters’ (p. 39). On the basis of this he later puts  forward two propositions. First, one is not ‘justified in going beyond  people’s own inclinations in order to tell them that their true interest  lies somewhere else’ (p. 41). It ‘seems absurd’ to suppose that an  interest can exist if those whose interest it is are not aware of it  (p. 40). And secondly, a ‘common concern. . . must be present if we  are to say that a general interest exists’. “A common concern will  sometimes be found in the society at large, and sometimes not. More  often it will not be there’ (p. 54).   Apart from the last point, which is a statement of fact and one I  shall not query here, these propositions follow analytically from the  original definition of ‘interest’, though Miller does not see this clearly.  Everything hinges on that slippery word ‘concern’ which plays sucha  crucial part in the definition. One can be concerned at (a state of  affairs) or concerned about (an issue) or concerned with (an organiza-  tion or activity) or, finally, concerned dy (an action, policy, rule, eéc.).  The noun, as in ‘so-and-so’s concerns’ can correspond to any of the  first three constructions, and it seems plain enough that in these three  kinds of use nobody can be concerned without knowing it. In the  fourth use, where ‘concerned by’ is roughly equivalent to ‘affected  by’, this is not so: someone might well be affected by an economic  policy of which he had never heard. But the noun ‘concern’ does not  have a sense corresponding to this, nor does Miller stretch it to cover  it. Naturally, if ‘interest’ is understood in terms of actual striving,  no sense can be given to the idea of someone’s having an interest  but not pursuing it. Similarly, if ‘interest’ is defined as ‘concern’ it  hardly needs several pages of huffing and puffing against rival  conceptions (pp. 52-54) to establish that “common or general    114 BRIAN BARRY    interest’ must be equivalent to ‘common or general concern’.   Since, then, Miller’s conclusions follow analytically from his  definition of ‘interest’, with the addition of a factual premise which  1 am not here disputing. I must, if I am to reject his conclusions,  reject his definition. Miller can, of course, define ‘interest’ any way  he likes; but if he chooses a completely idiosyncratic definition he  can hardly claim to have proved much if it turns out that most of the  things that people have traditionally said about interests then become  false or meaningless. He clearly believes himself to be taking part  in a debate with previous writers and it is because of this that he is  open to criticism.   Let us start from the other end. Let us begin by considering the  things we normally want to say about interests, the distinctions which  we normally want to draw by using the concept, and then see whether  it is not possible to construct a definition of ‘interest’ which  will make sense of these ordinary speech habits.   The first part of Miller’s definition, which makes interests shared  concerns, conflicts with our normal wish to drawa distinction between  someone’s private or personal interests on the one hand and the  interests which he shares with various groups of people on the other  hand. Simply to rule out the former by fiat as Miller does seems to  have nothing to recommend it. It might perhaps be argued in defence  of the limitation that only interests shared among a number of people  are politically important, but it can surely be validly replied that this  is neither a necessary nor a sufficient condition.   The second part of the definition equates a man’s interests with  his concerns. This conflicts with a great many things we ordinarily  want to say about interests. We want to say that people can mistake  their interests, and that while some conflicts are conflicts of interests,  others (e.g., “conflicts of principle’) are not. We distinguish between  ‘disinterested’ concern and ‘interested’ concern ina particular matter;  we find it convenient to distinguish ‘interest groups’ (e.g., The  National Farmers’ Union) from ‘cause’ or ‘promotional’ groups(e.g.,  The Abortion Law Reform Association). ‘They co-operate because  they have a common interest’ is ordinarily taken as a genuine explana-  tion, rather than a pseudo-explanation of the ‘vis dormitiva’ type, as  it would be if co-operation were identified with (or regarded as a direct  manifestation of) acommon interest. We allow that one can recognize  something as being in one’s interest without pursuing it. Finally, we do  not regard it as a contradiction in terms to say, ‘I realize that so-and-  so would be in my interests but nevertheless I am against it’. These    THE PUBLIC INTEREST 115    points are all inconsistent with Miller’s definition, and in addition  the last of them is inconsistent with any attempt such as that of S. I.  Benn to define a man’s interests as ‘something he thought he could  reasonably ask for’ (‘“Interest’’ in Politics’, Proceedings of the Aristotelian  Society, 1960, p. 127).   Can a definition be found which will make sense of all these uses  of ‘interest’ ? I suggest this: a policy, law or institution is in someone’s  interest if it increases his opportunities to get what he wants—what-  ever that may be. Notice that this is a definition of ‘in so-and-so’s  interests’. Other uses of ‘interest’ all seem to me either irrelevant or  reducible to sentences with this construction. Thus, the only unforced  sense that one can give to “What are your interests ?’, which Benn  imagines being put seriously to a farmer, is that it is an enquiry into  his favourite intellectual preoccupations or perhaps into his leisure  activities—applications of ‘interest’ whose irrelevance Benn himself  affirms. Otherwise, it has no normal application, though a ‘plain man’  with an analytical turn of mind (such as John Locke) might reply:    ‘Civil interest I call life, liberty, health and indolency of body; and the  possession of outward things, such as money, lands, houses, furniture and  the like’ (Letter Concerning Toleration).    This might be regarded as a specification of the kinds of ways in which  a policy, law or institution must impinge on someone before it can be  said to be ‘in his interests’. Unpacked into more logically trans-  parent (if more long-winded) terms it might read: ‘A policy, law or  institution may be said to be in someone’s interests if it satisfies the  following conditions... .’   The main point about my proposed definition, however, is that it  is always a policy that is said to be ‘in so-and-so’s interest’—not the  actual manner in which he is impinged upon. (From now on I shall  use ‘policy’ to cover ‘policy, law or institution’.) There are straight-  forward criteria specifying the way in which someone has to be  affected by a policy before that policy can be truly described as being  ‘in his interests’; but whether or not a given policy will bring about  such results may quite often be an open question.   It is this feature of ‘interest’ which explains how people can  ‘mistake their interests’—item number one on the list of ‘things we  want to say about interests’. The stock argument against this possibi-  lity is that if you assert it you must commit yourself to the view that  ‘some people know what’s good for other people better than they do  themselves’. But this can now be seen to rest on a gross equivocation.    116 BRIAN BARRY    The presumably illiberal, and therefore damaging, view to be saddled  with would be the view that policies which impinge on people in  ways which they dislike may nevertheless be said to be ‘in their  interests’. But this is not entailed by the statement that people  may ‘mistake their interests’. All that one has to believe is that  they may think a policy will impinge upon them in a way which will  increase their opportunities to get what they want when in fact it  will do the opposite. Whether his opportunities are increased or  narrowed by being unemployed is something each man may judge for  himself; but it is surely only sensible to recognize that most people’s  opinions about the most effective economic policies for securing  given ends are likely to be worthless. In his Fireside Chat on June 28,  1934, President Roosevelt said:    ‘The simplest way for each of you to judge recovery lies in the plain facts  of your own individual situation. Are you better off than you were last year?  Are your debts less burdensome? Is your bank account more secure? Are  your working conditions better? Is your faith in your own individual future  more firmly grounded?’    It is quite consistusc to say that people can ‘judge recovery for  themselves’ without respecting their opinions about the efficacy of  deficit financing.   The other ‘things we normally want to say’ also fit the proposed  definition. People may want policies other than those calculated to  increase their opportunities—hence the possibility of ‘disinterested  action’ and ‘promotional groups’. Similarly, a man may definitely not  want a policy which will increase his opportunities (perhaps because  he thinks that the policy is unfair and that others should get the  increase instead). Hence the possibility of someone’s not wanting  something that he acknowledges would be in his interests. Finally,  nothing is more common than for someone to agree that a policy  would increase his opportunities if adopted, and to want it to be  adopted, but at the same time to say that the addition of his own  efforts to the campaign to secure its adoption would have such a small  probability of making the decisive difference between success and  failure for the campaign that it is simply not worth making the effort;  and of course if everyone is in the habit of reasoning like this a policy  which is in the interests of a great many people, but not greatly in  the interests of any of them, may well fail to receive any organized  support at all.   No doubt there is room for amplification of my definition of what    THE PUBLIC INTEREST 117    it is for a policy to be in someone’s interest. In particular the phrase  ‘opportunities to get what he wants’ needs closer analysis, and  account should be taken of the expression ‘so-and-so’s best interests’  which tends to be used where it is thought that the person in question  would make such an unwise use of increased opportunities that he  would be better off without them (e.g., a heavy drinker winning  a first dividend on the football pools). However, 1 doubt whether  refinements in the definition of ‘interest’ would alter the correctness  or incorrectness of what I have to say about ‘the public interest’, so  I turn now to that expression.    iil    If ‘interest’ is defined in such a way that ‘this policy is in A’s interest’  is equivalent to ‘A is trying to get this policy adopted’ it is decisive  evidence against there being in any but a few cases a ‘public interest’  that there is conflict over the adoption of nearly all policies in a state.  But on the definition of ‘interest’ I have proposed this would no longer  be so. A policy might be truly describable as ‘in the public interest’  even though some people opposed it. This could come about ina way  already mentioned: those who oppose the policy might have ‘mistaken  their interests’. In other words, they may think the policy in question  is not in their interests when it really is. Most opposition in the  U.S.A. to unbalanced budgets can be explained in this way, for  example. Disagreements about defence and disarmament policy are  also largely disagreements about the most effective means to fairly  obvious common goals such as national survival and (if possible)  independence.   There are two other possibilities. One is that the group opposing  the measure is doing so in order to further a different measure which  is outside the range of relevant comparisons. The other possibility  is that the opposing group have a special interest in the matter which  counteracts their interest as members of the public. I do not expect  these two descriptions to be clear; I shall devote the remainder of the  paper to trying to make them so, taking up the former in this section  and IV, and the latter in V.   Comparison enters into any evaluation in terms of interests. To  say that a policy would be in someone’s interests is implicitly to,  compare it with some other policy—often simply the continuance of  the status quo. So if you say that a number of people have a common  interest in something you must have in mind some alternative to it    118 BRIAN BARRY    which you believe would be worse for all of them. The selection of  alternatives for comparison thus assumes a position of crucial impor-  tance. Any policy can be made ‘preferable’ by arbitrarily contrasting it  with one sufficiently unpleasant. Unemployment and stagnation look  rosy compared with nuclear war; common interests in the most  unlikely proposals can be manufactured by putting forward as the  alternative a simultaneous attack by our so-called ‘independent  deterrent’ on Russia and the U.S.A. All this need do is remind one that  one thing may be ‘in somebody’s interest’ compared with something else  but still undesirable compared with other possibilities. The problem  remains: is there (in most matters) any one course of action which is  better for everyone than any other? Fairly obviously, the answer is:  No. Any ordinary proposal would be less in my interest than a poll  tax of a pound a head, the proceeds to be given to me. And this can  be repeated for everybody else, taking each person one at a time.  This, however, seems as thin a reason for denying the possibility of  common interests as the parallel manoeuvre in reverse was for assert-  ing their ubiquity. In both cases the comparison is really irrelevant.  But what are the criteria for relevance? The simplest answer (which  will later have to have complications added) is that the only proposals  to be taken into account when estimating ‘common interests’ should  be proposals which treat everyone affected in exactly the same way.  Take the traditional example of a law prohibiting assault (including  murder). If no limitation is imposed upon the range of alternatives it  is easy to show that there is no ‘common interest’ among all the  members of a society in having such a law directed equally at everyone.  For one could always propose that instead the society should be  divided into two classes, the members of the first class being allowed  to assault the members of the second class with impunity but not vice  versa, as with Spartans and Helots; or each member of the first group  might be put in this position only vis-d-vis particular members of  the second group. (Examples of this can be drawn from slave-holding,  patriarchal, or racially discriminatory systems such as the ante-  bellum South, ancient Rome and Nazi Germany respectively.) It could  perhaps be argued that the ‘beneficiaries’ under such an unequal  system become brutalized and are therefore in some sense ‘worse off’  than they would be under a regime of equality. But the whole point of  ‘interest’—and its great claim in the eyes of liberals—is that the  concept is indifferent to moral character and looks only at oppor-  tunities.   Yet even the most sceptical writers often admit that a law prohibiting    THE PUBLIC INTEREST 119    assault by anyone against anyone is a genuine example of something  which is ‘in the public interest’ or ‘in everyone’s interest’. This  becomes perfectly true when the alternatives are restricted to those  which affect all equally, for then the most obvious possibilities are  (a) that nobody should assault anybody else and (b) that anybody  should be allowed to assault anybody else. And of these two itis hardly  necessary to call on the authority of Hobbes to establish that, given  the natural equality of strength and vulnerability which prevents any-  one from having reasonable hopes of gaining from the latter set-up,  the former is ‘everyone’s interest’.    IV    A convenient way of examining some of the ramifications of this  theory is to work over some of the things Rousseau says in the Social  Contract about the ‘General Will’. Judging from critiques in which  Rousseau figures as a charlatan whose philosophical emptiness is  disguised by his superficial rhetoric, it is hard to see why we should  waste time reading him, except perhaps on account of his supposedly  malign influence on Robespierre. I doubt the fairness of this estimate,  and J am also inclined to deprecate the tendency (often though not  always combined with the other) to look on Rousseau through  Hegelian spectacles. We need to dismantle the implausible psycholo-  gical and metaphysical theories (e.g., ‘compulsory rational freedom’  and ‘group mind’) which have been foisted on Rousseau by taking  certain phrases and sentences (e.g., ‘forced to be free’ and ‘moral  person’) out of context. As a small contribution to this process of  demythologiziny Rousseau I want to suggest here that what he says  about ‘the general will’ forms a coherent and ingenious unity if it  is understood as a treatment of the theme of common interests.   Rousseau’s starting point, which he frequently makes use of, is  that any group will have a will that is general in relation to its  constituent members, but particular with respect to groups in which  it in turn is included. Translating this into talk about interests it means  that any policy which is equally favourable to all the members of a  given group will be less favourable to member A than the policy most  favourable to A, less favourable to member B than the policy most  favourable to B, and so on; but it will be more favourable to each of  the members of the group than any policy which has to be equally  beneficial to an even larger number of people. Suppose, for example,  that a fixed sum—say a million pounds—is available for wage increases    120 BRIAN BARRY    in a certain industry. If each kind of employee had a separate trade  union one might expect as many incompatible claims as there were  unions, each seeking to appropriate most of the increase for its own  members. If for example there were a hundred unions with a  thousand members apiece each employee might have a thousand  pounds (a thousandth of the total) claimed on his behalf, and the  total claims would add up to a hundred million pounds. At the  other extreme if there were only one union, there would be no point  in its putting in a claim totalling more than a million pounds (we  assume for convenience that the union accepts the unalterability of  this amount) and if it made an equal claim on behaif of each of its  members this would come to only ten pounds a head. Intermediate  numbers of unions would produce intermediate results.   Rousseau’s distinction between the ‘will of all’ and the ‘general  will’ now fits in neatly. The ‘will of all’ is simply shorthand for ‘the  policy most in A’s interests, taking A in isolation; the policy most  in B’s interests, taking B in isolation; and so on’. (These will of  course normally be different policies for A, B and the rest.) The  ‘general will’ is a single policy which is equally in the interests  of all the members of the group. It will usually be different from  any of the policies mentioned before, and less beneficial to anyone  than the policy most beneficial to himself alone.   We can throw light on some of the other things Rousseau says in  the one-page chapter II.iii. of the Social Contract by returning to the  trade union example. Suppose now that the leaders of the hundred  trade unions are told that the money will be forthcoming only ifa  majority of them can reach agreement on a way of dividing it up. A  possible method would be for each leader to write down his preferred  solution on a slip of paper, and for these to be compared, the process  continuing until a requisite number of papers have the same proposal  written on them. If each started by writing down his maximum  demand there would be as many proposals as leaders— the total result  would be the ‘will of all’. This is obviously a dead end, and if no  discussion is allowed among the leaders, there is a good chance that  they would all propose, as a second best, an equal division of the  money. (There is some experimental evidence for this, presented in  Chapter 3 of Thomas Schelling’s The Strategy of Conflict.) Such a  solution would be in accordance with the ‘general will’ and represents  a sort of highest common factor of agreement. As Rousseau puts it, it  arises when the pluses and minuses of the conflicting first choices are  cancelled out.    THE PUBLIC INTEREST 121    If instead of these arrangements communication is allowed, and  even more if the groups are fewer and some leaders contro} large  block votes, it becomes less likely that an equal solution will be  everyone’s second choice. It will be possible for some leaders to  agree together to support a proposal which is less favourable to any  of their members than each leader’s first choice was to his own  members, but still more favourable than any solution equally bene-  ficial to all the participants. Thus, as Rousseau says, a ‘less general  will’ prevails.   In IL.iii. Rousseau suggests that this should be prevented by not  allowing groups to form or, if they do form, by seeing that they are  many and small. In the less optimistic mood of IV.i., when he returns  to the question, he places less faith in mechanical methods and more in  widespread civic virtue. He now says that the real answer is for  everyone to ask himself ‘the right question’, i.e., ‘What measure will  benefit me in common with everyone else, rather than me at the  expense of everyone else?’ (I have never seen attention drawn to the  fact that this famous doctrine is something of an afterthought whose  first and only occurrence in the Social Contract is towards the end.)  However, this is a difference only about the most effective means of  getting a majority to vote for what is in the common interest of all.  The essential point remains the same: that only where all are equally  affected by the policy adopted can an equitable solution be expected.    ‘The undertakings which bind us to the social body are obligatory only  because they are mutual; and their nature is such that in fulfilling them we  we cannot work for others without working for ourselves... ... What makes  the will general is less the number of voters than the common interest  uniting them; for, under this system, each necessarily submits to the conditions  he imposes on others: and this admirable agreement between interest and  justice gives to the common deliberations an equitable character which at  once vanishes when any particular question is discussed, in the absence of a  common interest to unite and identify the ruling of the judge with that of the    party. (I1.iv. Cole’s translation.)    Provided this condition is met, nobody will deliberately vote for a  burdensome law because it will be burdensome to him too: this is why  no specific limitations on ‘the general will’ are needed. Disagreements  can then be due only to conflicts of opinion—not to conflicts of  interest. Among the various policies which would affect everyone in  the same way, each person has to decide which would benefit himself  most—and, since everyone else is similarly circumstanced, he is    122 BRIAN BARRY    automatically deciding at the same time which would benefit everyone  else most. Thus, to go back to our example of a law prohibiting  assault: disagreement will arise, if at all, because some think  they (in common with everyone else) would make a net gain of  opportunities from the absence of any law against assault, while  others think the opposite. This is, in principle, a dispute with a  right and a wrong answer; and evervone benefits from the right  answer’s being reached rather than the wrong one. Rousseau claims  that a majority is more likely to be right than any given voter, so that  someone in the minority will in fact gain from the majority’s decision  carrying the day. This has often been regarded as sophistical or  paradoxical, but it is quite reasonable once one allows Rousseau his  definition of the situation as one in which everyone is co-operating to  find a mutually beneficial answer, for so long ; as everyone is taken as  having an equal, better than even chance of giving the right answer,  the majority view will (in the long run) be right more often than that  of any given voter. (Of course, the same thing applies in reverse:  if each one has on average a less than even chance of being right,  the majority will be wrong more often than any given voter.) The  formula for this was discovered by Condorcet and has been presented  by Duncan Black on page 164 of his Theory of Committees and Elections.  To illustrate its power, here is an example: if we have a voting body  of a thousand, each member of which is right on average fifty-one per  cent of the time, what is the probability in any particular instance  that a fifty-one per cent majority has the right answer? The answer,  rather surprisingly perhaps, is: better than two to one (69%). More-  over, if the required majority is kept at fifty-one per cent and  the number of voters raised to ten thousand, or if the number of  voters stays at one thousand and the required majority is raised to  sixty per cent, the probability that the majority (5,100 to 4,900  in the first case or 600 to 400 in. the second) has the right  answer rises virtually to unity (99.97%). None of this, of course,  shows that ‘Rousseau was right’ but it does suggest that he was no  simpleton.   To sum up, Rousseau calls for the citizen’s deliberations to com-  prise two elements: (a) the decision to forgo (either as unattainable  or as immoral) policies which would be in one’s own personal  interest alone, or in the common interest of a group smaller than the  whole, and (b) the attempt to calculate which, of the various lines of  policy that would affect oneself equally with all others, is best for  him (and, since others are like him, for others). This kind of two-step  deliberation is obviously reminiscent of the method recommended in    THE PUBLIC INTEREST 123    Mr Hare’s Freedom and Reason, with the crucial difference that whereas  Mr Hare will settle for a willingness to be affected by the policy in  certain hypothetical circumstances, Rousseau insists that my being  affected by the policy must actually be in prospect. There is no need  to construct a special planet to test my good faith—my bluff is called  every time. By the same token, the theory I have attributed to Rousseau  requires far more stringent conditions to be met before something can  be said to be in the common interest of all than the vague requirement  of ‘equal consideration’ put forward by Benn and Peters in their  Social Principles and the Democratic State.    Vv    Even if Rousseau can be shown to be consistent it does not follow  that the doctrine of the Social Contract has wide application. Rousseau  himself sets out a number of requirements that have to be met before  it applies at all: political virtue (reinforced by a civil religion),  smallness of state, and rough economic equality among the citizens.  And even then, as he points out plainly, it is only a few questions  which allow solutions that touch all in the same way. If only some are  affected by a matter the ‘general will’ cannot operate. It is no longera  case of each man legislating for himself along with others, but merely  one of some men legislating for others. It is fairly obvious that  Rousseau’s requirements are not met in a great modern nation  state—a conclusion that would not have worried him. But since lam  trying to show that ‘the public interest’ is applicable in just such a  state it does have to worry me. It is here that I must introduce my  remaining explanation of the way in which something can be ‘in the  public interest’ while still arousing opposition from some.   Think again of the examples with which I began this paper. The  thing that is claimed to be ‘in the public interest’ is not prima face in  the interests of the journalist whose sources may dry up, the workers  whose rise is condemned or the businessmen whose restrictive prac-  tices are outlawed. But do first appearances mislead? After all, the  journalist along with the rest gains from national security, and  workers or industrialists gain along with the rest from lower prices.  To avoid a flat contradiction we need more refined tools; and they  exist in ordinary speech. Instead of simply saying that some measure  is ‘in his interests’ a man will often specify some réle or capacity in  which it is favourable to him: ‘as a parent’, ‘as a businessman’, ‘asa  house owner’ and so on. One of the capacities in which everyone finds  himself is that of ‘a member of the public’. Some issues allow a    124 BRIAN BARRY    policy to be produced which will affect everyone in his capacity as  a ‘member of the public’ and nobody in any other capacity. This is  the pure ‘Rousseau’ situation. Then there are other issues which  lack this simplicity but still do not raise any problems because those  who are affected in a capacity other than that of ‘member of the public’  are either affected in that capacity in the same direction as they are  in their other capacity of ‘member of the public’ or at least are not  affected so strongly in the contrary direction as to tip the overall  balance of their interest (what I shall call their ‘net interest’) that way.  Although this is not quite what I have called the ‘Rousseau’ situation,  the ‘Rousseau’ formula still works. Indeed, Rousseau sometimes  seems explicitly to accept this kind of situation as satisfactory,  as when he says (III.xv.) that ina well-ordered state ‘the aggregate of  the common happiness furnishes a greater proportion of that of each  individual’.   Finally, we have the familiar case where for some people a special  interest outweighs their share in the public interest. The journalist  may think, for example, that compulsory disclosure of sources would  indeed be in the public interest but at the same time conclude that  his own special interest as a journalist in getting information from  people who want to stay anonymous is more important to him than  the marginal gain in security that is at ‘stake. In such cases as this  Rousseau’s formula will not work, for although everyone still has a  common interest in the adoption of a certain policy gua ‘member of  the public’, some have a net interest in opposing it.   To adopt the policy which is ‘in the public interest’ in such a case  is still different from deliberately passing over an available policy  which would treat everyone equally, for in the present case there 1s  no such policy available. Even so, it involves favouring some at the  expense of others, which makes it reasonable to ask whether it is  justifiable to recommend it. Various lines of justification are possible.  Bentham seerris to have assumed that in most matters there was a  public interest on one side (e.g., in cheap and speedy legal procedures)  and on the other side the ‘sinister’ interest of those who stood to  gain on balance from abuses (e.g., ‘Judge & Co.’) and to have believed  (what is surely not unreasonable) that a utilitarian calculation would  generally give the verdict to the policy favouring ‘the public’. Ona  different tack, it might be argued that it is inequitable for anyone  to benefit from ‘special privileges’ at the expense of the rest of the  community. But unfortunately neither of these is as clear as it looks  because a hidden process of evaluation has already gone on to decide    THE PUBLIC INTEREST 125    at what point an interest becomes ‘sinister’ and how well placed  someone must be to be ‘privileged’. The cheapest and speediest dis-  pensation of law could be obtained by conscripting the legal profes-  sion and making them work twelve hours a day for subsistence rations;  but this would no doubt be ruled out by a utilitarian as imposing  ‘hardship’ and by the believer in distributive justice as not giving a  ‘just reward’ for the work done. Thus, by the time one has fixed the  level of rewards beyond which one is going to say that ‘privilege’ and  ‘sinister interest’ lie it is virtually analytic that one has defined a  ‘good’ solution (whether the criteria be utilitarian or those of dis-  tributive justice).   It is clearer to say that in these ‘non-Rousseauan’ situations the  public interest has to be balanced against the special interests  involved and cannot therefore be followed exclusively. But ‘the public  interest’ remains of prime importance in politics, even when it runs  against the net interest of some, because interests which are shared  by few can be promoted by them whereas interests shared by many  have to be furthered by the state if they are to be furthered at all.  Only the state has the universality and the coercive power necessary  to prevent people from doing what they want to do when it harms the  public and to raise money to provide benefits for the public which  cannot, or cannot conveniently, be sold on the market: and these  are the two main ways in which ‘the public interest’ is promoted.  This line of thought brings us into touch with the long tradition that  finds in the advancement of the interests common to all ane of the  main tasks of the state. The peculiarity of the last two centuries or  so has lain in the widespread view that the other traditional candi-  dates—the promotion of True Religion or the enforcement of the Laws  of Nature and God—should be eliminated. This naturally increases  the relative importance of ‘the public interest’.   A contributory factor to this tendency is the still continuing process  of social and economic change which one writer has dubbed the  ‘organizational revolution’. These developments have in many-ways  made for a more humane society than the smaller-scale, more loosely  articulated, nineteenth-century pattern of organization could   rovide. But they have had the incidental result of making obsolete  a good deal of our inherited conceptual equipment. Among the  victims of this technological unemployment are ‘public opinion’  and ‘the will of the people’. On most of the bills, statutory instruments  and questions of administrative policy which come before Parliament  there is little corresponding to the nineteenth-century construct of    126 BRIAN BARRY    ‘public opinion’: the bulk of the electorate holding well-informed,  principled, serious views. Even when an issue is sufficiently defined  and publicized for there to be a widespread body of ‘opinion’ about  it these opinions are likely to be based on such a small proportion  of the relevant data that any government which conceived its job as  one of automatically implementing the majority opinion would be  inviting disaster.   This does not entail that voting with universal suffrage is not a  better way of choosing political leaders than any alternative; but if  ‘public opinion’ is a horse that won’t run this means that ‘public  interest’ has to run all the harder to make up, since as we have seen  it has the advantage of operating where those affected by the policy  in question have not even heard of it and would not understand it if  they did. Consider for example the arrangements which enable the  staffs of organizations whose members are affected by impending or  existing legislation to consult with their opposite numbers in govern-  ment departments about its drafting and administration. This system  of ‘functional representation’, which now has almost constitutional  status, would not get far if each side tried to argue from the opinions  of its clients (the organization members and ‘the public’ respectively)  on the matter; but their interests do provide a basis for discussion,  a basis which leaves room for the uncomfortable fact that in a large  organization (whether it be a trade union, a limited company or a  state) information and expertise are just as likely to be concentrated  in a few hands as is the formal power to make decisions.    VI    At the beginning of this paper I suggested that the popularity of  ‘the public interest’ as a political justification could be attributed  either to its vacuity or to its being used to adduce in support of  policies definite considerations of a kind which are as a matter of  fact valued highly by many people. If my analysis of ‘the public  interest’ is correct, it may be expected to flourish in a society where  the state is expected to produce affluence and maintain civil liberties  but not virtue or religious conformity, a society which has no distinc-  tion between different grades of citizen, and a society with large  complex organizations exhibiting a high degree of rank and file apathy.  I do not think it is necessary to look any further for an explanation  of the concept’s present popularity.    VII  LIBERTY AND EQUALITY.  E. F. CARRITT    IN a recently published collection of essays called ‘Why am I a Demo-  crat?’!' Mr. Ronald Cartland says: ‘What we must settle at once is  whether we rate freedom? above equality.’ ‘Equality involves subjug-  ation and repression.’ I select this statement only as a candid and  contemporary expression of a doctrine that has always seemed to me  both paradoxical and muddled. Left to myself I should have thought  that liberty and equality involved one another; indeed I should have  found it hard to separate them. Mr. Cartland himself seems not quite  free from confusion here for, between the two remarks which I have  just quoted, he says: “Toleration and equal justice are possible only ina  democracy’, where toleration, I suppose, means freedom of speech,—  equal freedom,—and democracy means political equality; equal  justice, I suppose, is simply justice, for unequal justice would be  injustice. So it is implied that freedom should be equal, and that itand  justice are only possible with equal political power. What then is the  equality with which freedom is supposed to be incompatible? To  answer this question I think we must go back to the history of the  doctrine. For it is no new one.   Burke paid tribute to liberty, which he thought was conferred and  safeguarded by the British Constitution of his day, but to that  constitution he thought democracy or political equality was abhorrent.  With the enlargement of the franchise during the nineteenth century  it began to be assumed, at first by revolutionaries, later by Whigs,  young Tories and Tory Democrats, finally by almost all public  speakers, not only that we desired liberty but that what conferred and  safeguarded it was democracy, that is political equality, which they  identified with the British Constitution as revised. Consequently  Burke on their view had been wrong. But in the spirit of Burke it was    From Law Quarterly Review, Vol. 56 (1940), pp. 61-74. Reprinted by permission  of the author’s executors and the Law Quarterly Review.    ‘Edited by R. Acland (Lawrencé and Wishart).  71 use the words liberty and freedom in the same sense.    128 E. F. CARRITT    still declared, for instance by both Gladstone and Disraeli, that this  freedom was incompatible with some other equality.   These are platform politics, but if we look at the considered  statements of political theorists and especially of historians, we  find the same thing.   Acton in his Lectures on Liberty says that in the course of the French  Revolution ‘the passion for equality made vain the hope of freedom’.  Lecky in Democracy and Liberty (1, 212-215) says that ‘Democracy (ie.  equality of political power) may often prove, the direct opposite of  liberty... it destroys the balance of classes’ (i.e. introduces class  equality). Bagehot in The English Constitution and Erskine May in  Democracy in Europe (11, 333) work the same theme, but perhaps the  most striking exposition is in Sir James Fitzjames Stephen’s Liberty,  Equality and Fraternity (p. 250):   ‘I doubt much whether the power of particular persons over their  neighbours has ever in any age of the world been so well defined and  safely exercised as it is at present. If, in old times, a slave was  inattentive, his master might no doubt have him maimed or put to  death or flogged; but he had to consider that in doing so he was  damaging his own property, that when the slave had been flogged he  would continue to be his slave; and that the flogging might make him  mischievous or revengeful and so forth. If a modern servant mis-  conducts himself he can be turned out of the house on the spot, and  another hired as easily as you would calla cab. To refuse the dismissed  person a character may very likely be equivalent to sentencing him to  months of suffering and to a permanent fall in the social scale.’   Now what can Sir James have been driving at? I think it is clear  that he deplored the power which employers have over their servants, as  being so great that the latter have less freedom than slaves. And he  seems to attribute this inequality of freedom, which of course is the  correlative of an inequality of power, to their equality in some other  respect, I suppose to their political equality. He gives no grounds for  this attribution, except the suggestion that it is seldom to the interest  of a slave-owner or cattle-breeder to injure his chattels. I can hardly  think he would have proposed to remedy the insecurity of wage-    'M. Arnold (Mixed Essays, Equality) cites a speech of Lord Beaconsfield to  Glasgow students about 1856 and quotes Mr. Gladstone as ‘in his copious and  eloquent way’ saying: ‘Call this love of inequality by what name you please,—the  complement of the love of freedom, or its negative pole, or the shadow which the  love of freedom casts, or the reverberation of its voice in the halls of the constitution,—  it is an active, living, and life-giving power.’    LIBERTY AND EQUALITY 129    earners by substituting an extreme servitude with a legal right in the  owner to kill, flog or maim his slaves. Nor does it seem likely that he  is consciously arguing for the more obvious remedy, that of increasing  freedom by adding economic to political equality. I cannot tell what  he wants. All he has shown is, what nobody can have doubted, that  majority government does not necessarily and immediately secure the  maximum of equal freedom. Nor does any form of government. He  might have gone further and said that it is possible for a majority  government not only to allow economic inequality and consequent  interferences with liberty, but actually itself to be as intolerant as  any other government of free speech and action. James Mill (Govern-  ment, Encyclopedia Britannica) is brutally frank : “Whenever the powers  of the Government are placed in any hands other than those of the  community, whether those of one man, of a few, or of several, those  principles of human nature which imply that Government is at all  necessary, imply that those persons will make use of them to defeat  the very end for which Government exists.’ For the word several which  I have italicized he ought to have substituted the majority. But he  ought also to have added that those principles of human nature which  make stable government at all possible may counteract the principles  he has described. As Maitland points out (Liberty, Collected Papers I)  no form of government can guarantee liberty, but only ‘an opinion of  right’. (The phrase is Hume’s.) But I know of little reason to think  that majority governments are less favourable to economic equality  and the resulting equal liberty than are plutocracies, aristocracies  or despotisms. Even Plato, idealizing aristocracy, thought it must  be precluded by communism from the temptation to oppression. And  I know of no reason to think that democracies are less tolerant of  free speech and propaganda than other kinds of government. Such  tolerance probably depends upon the amount of security a govern-  ment feels, which is apt to be in proportion to the equality of  political power.  éveoti pap nw¢ todto TH Tupavvidt  véonpa, toic pidowor uy nenobévan  (Aesch. Prom. Desm, 226).   The only way, then, in which I can rationalize the lamentations  of Sir James Fitzjames Stephen is to suppose’ him an unconscious  socialist, who so desired equality of liberty to be secured by economic  equality that he was willing to sacrifice equality of political power  and to institute some class or personal dictatorship.   Perhaps the most influential source for this vague antithesis of    130 E. F. CARRITT    freedom to equality is De Tocqueville’s L’Anaen Régime (1856). He  says that countries without an aristocracy are peculiarly liable to  despotic or ‘absolute’ government in its worst forms, and he quotes  Mirabeau: ‘Cette surface égale facilite exercise du pouvoir.’ He  does not seem to think that an aristocratic government could be  despotic. The elements of aristocracy he enumerates are: ‘parlement,  pays d’état, corps de clergé, privilégiés, noblesse’.   The reason he gives for his view is that ‘When men are no longer  united by bonds of caste, class, corporation, family, they tend to be  wholly preoccupied with their private interests’, and in particular  with money-making.   The inequality he thinks necessary for freedom is clearly not  economic; that existed in the France of his own day, which he con-  siders servile. He must mean political inequality.   He seems to have two points in mind:   (1) A highly centralized government is apt to be oppressive even  if unwillingly. But he shows no reason for supposing that democracy  (i.e. political equality) is especially favourable to centralization.  He emphasizes the high degree of centralization in the ancien régime.   (2) A ‘privileged nobility’ enjoys a good deal of freedom, though  the unprivileged masses may have none. This freedom, for instance  exemption from taxation, they will certainly try to defend against  aggression, and De Tocqueville seems to think that in doing so they  may incidentally defend or achieve some freedom for the unprivileged.  In England such defence happened to some extent in 1688, and such  achievement in 1832. In the ‘glorious revolution’ a land-owning  aristocracy resisted royal encroachment, with some advantage to the  liberty of the middle class. In the Reform Bill a new industrial  aristocracy by gaining liberty and political equality for itself made  them somewhat more accessible to the working classes; but it was  opposed by the landed and ecclesiastical aristocracy. Those who had  neither political nor economic privileges profited to some extent by  the battle between those who had both and those who had one and  coveted the other.   What evidence is there that democracy is more susceptible than  aristocracy to dictatorship? Napoleon, Hitler, Mussolini perhaps  all rose with the aid of something like democracy. Louis XIV, Lenin  and Franco did not. England, France, America, the Scandinavian  countries, Switzerland, Belgium, Holland are as democratic as any  countries, but have as yet no dictators. Whether economic equality  favours dictatorship is a question on which there can be little historical    LIBERTY AND EQUALITY 131    evidence, since no near approach to economic equality, unless in the  U.S.S.R., as a result of ‘the dictatorship of the proletariat’, has been  made. But most countries where the contrasts of wealth are com-  paratively small, such as the Scandinavian, have remained democratic.  Ancient tyrannies generally arose out of economic inequality, to  champion those who feared either exploitation or expropriation.  Modern dictatorships have found backing both from depressed  middle classes and from frightened capitalists. Among a people secure  in anything like economic equality such backing would be hard to  find. A dictator, thought to have established such equality, as in the  U.S.S.R., might indeed be enthusiastically retained, but that would  be in the belief, perhaps short-sighted, that he would maintain the  liberty he had thereby secured.   How unequal was the liberty which De Tocqueville thought equality  endangered can be shown by one or two quotations.In spite of corvée,  milice, arbitrary arrest, aristocratic exemption from taxation, he says:  “Il régnait dans l’ancien régime beaucoup plus de liberté que de nos  jours, mais une liberté toujours liée a Vidée d’exception et de  privilége, toujours contractée dans la limite des classes.’ ‘France dans  ses classes supérieures était libre.’ ‘Les nobles ne se préoccupaient  guere de la liberté générale des citoyens.”!   De Tocqueville then thinks political equality leads to governmental  oppression, and is not afraid of class or personal oppression. Stephen  thinks just the opposite; that political equality leads to class or  personal oppression. He feared the infraction of one subject’s liberty  by another more than its restriction by government. But his con-  temporaries who, like Mr. Cartland to-day, preached the incom-  patibility of liberty and equality, were mostly in the tradition of  laisser faire. Like De Tocqueville they were so frightened of any  governmental attempt to regulate or reform the economic system of  their day that they were careless how much that system itself allowed  of personal oppression. Lecky says (op. cit. pp. 212-215): “Equality  is only attained by a stringent repression of natural development.’  Nature is a familiar stalking horse for prejudice. It is equally true  that peace, order, security of life, limb, property are only attained  by a stringent repression of ‘natural’ development in one sense of  nature; and in that sense Hobbes thought the state of nature was one  of pretty equal fear and misery. The security of one man’s millions  or hundreds from crowds of overworked or unemployed is an    IMy italics.    132 E. F. CARRITT    inequality only maintained by a stringent repression of the ‘natural’  development called ‘helping oneself’ .! But there is another meaning of  the word nature, a meaning which, in the wilderness of the nineteenth  century, Matthew Arnold raised his voice to express. In his lecture to  the Royal Institution on Equality (Mixed Essays) he said:   ‘Property is created and maintained by law. It would disappear in  that state of private war and scramble which legal society supersedes.  That property should exist and that it should be held with a sense of  security” and with some power of disposal, may be taken, by us here  at any rate, as a settled maticr.* But that the power of disposal should  be practically unlimited, that the inequality should be enormous, or  that the degree of inequality admitted at one time should be admitted  always—this is by no means so certain. The right of bequest was in early  times .. . seldom recognized. In later times it has been limited in many  countries.... The cause of your being ill at ease is the profound  imperfectness of your social civilization .... The remedy is social  equality. Let me direct your attention to a reform of the law of bequest.  On the one side inequality harms by pampering; on the other by  vulgarizing and depressing.’   The characteristic Arnoldian refrain of the lecture is ‘Choose  Equality’. And equality is to be chosen because, far from repressing  ‘natural’ development, it liberates a ‘natural and vital instinct’ of  men, the instinct of ‘expansion’ or ‘humanization’. I think Arnold’s  diagnosis was right. The equality which his contemporaries thought  incompatible with liberty was mainly economic equality. They  thought that the promotion of this by law would somehow impair  the liberty of more people, or to a greater degree, than does the  maintenance of economic inequality (for of course they did not think  there should be xo laws of property). In order to make up our minds  how far, if at all, this is so, we must decide as nearly as we can  what we mean by liberty. Vaguely of course we all know; that is to  say we all agree on extreme cases: that a manacled man is not so free  as we are. But there are dubious instances where we might differ  from one another, or from ourselves at another time. For example:  how far is a man free who cannot throw up an ill-paid job without    'Cf. Dickinson, Justice and Liberty: ‘No regulation is more constant, more  crushing, more radical and severe, than that which is involved in property and the  police.’   ?This clause is otiose since Arnold clearly means by ‘property’ legal security  of possession.   *Consumption necessitates appropriation.’ Locke, Civ. Gout. I], 25-51.    LIBERTY AND EQUALITY 133    losing his house when there is an extreme shortage of housing?"   To make discussion profitable we must try to fix precisely the  sense in which we are now going to use the word. In this we must be  careful to depart as little as possible from normal usage, while avoid-  ing as far as possible its vagueness. Many of the confusions of theor-  izing on this topic have arisen from arbitrary definitions which went  against the very usages where all plain men would agree. But those  who adopt such arbitrary definitions seldom succeed in ridding  themselves or their readers of the ordinary associations of the word,  and so their procedure increases the very ambiguity it was meant to  avoid. Hegel, for instance identified freedom with obedience to the  laws of my State.? But the inescapable associations of the word  enabled him to suggest that therefore in obeying my State I am always  doing what I really want to do. Hardly less at variance with usage,  and. consequently hardly less confusing, has been the identification  of liberty with the unimpeded power to do what we ought? (or  perhaps what we think we ought) or to ‘contribute to the common  good’.t But it would go dead against ordinary usage to say that am  quite free if I am forbidden under penalties to smoke or to play  tennis on Sunday, though J never thought that either of these were  duties or ‘contributions to a common good’.   I think our definition of liberty should avoid the use of any moral  terms suchas ‘ought’, ‘right’, ‘good’. Only so can we avoid prejudicing  the subsequent questions whether liberty is incompatible with equality,  and if so, which we ought to promote, or which is ‘better’.   I offer a preliminary definition of liberty as ‘the power of doing  what one would choose without interference by other persons’ action’ .°    1*We should not be searching for the definition if we already knew precisely the  meaning of the term; but the fact that we accept a certain definition as correct shows  that we think the definition expresses more clearly the very thing we had in mind when  we used the term without knowing its definition. The correctness of a definition is  tested by two methods: by asking (i) whether the denotation of the term and that of  the proposed definition are the same; (ii) does the definition express explicitly what  we had implicitly in mind when we used the term?’ Ross, Foundations of Ethics, p. 259.   2Phil. d. Rechts. §§ 15, 140 (e), 206. Cf. Bradley, Ethical Studies. My Station  and its Duties; and Bosanquet, Philosophical Theory of the State, pp. 96, 181, 240,  and especially 107, 127. ct my Morals and Politics under ‘Hegel’ and “‘Bosanquet’  and ‘Liberty’.   3 Acton, op, cit. and, inconsistently enough, Hegel and Bosanquet.   4Green, Political Obligation, §§ 24, 120, etc.   5Maitland, Liberty (Collected Papers, 1) defines it as the absence of ‘External  restraints on human action which are themselves the results of human action’,  This is much the best discussion of Liberty which I know. I assume that by ‘restraint’    134 E. F. CARRITT    A maximum interference with liberty would be imprisonment with  manacles; a minimum, exclusion from one house or locked safe which  I wished to enter. Some of the elements of this definition need justifica-  tion.   (1) ‘Doing’. (a) Our thinking cannot be directly constrained (though  it can be influenced) by other persons. Thought is always free; (b) Our  feelings can be very painfully affected by others, for instance if they  smack us or whistle out of tune, or (when we love them) by their  indifference or neglect. And we do speak of ‘freedom from anxiety’ ;  but the qualification is necessary. A lover or anxious parent is not  thereby smpliciter unfree.   (2) ‘What one would choose’. (a) If I am ‘prevented’! from doing  what I should not choose to do, for instance, from cock-fighting or  stepping over a cliff in the dark, my freedom is not impaired. A  penal law against murder, then, limits the freedom of all who want to  murder but not of others. This is acceptable, but less welcome results  seem to follow. It might be plausibly argued that many, possibly most  people in this country, are so law-abiding that though they would  gladly be better fed, and though there is no just reason why they  should not be, they would not choose to help themselves, and that  therefore the laws of property and theft do not impair their freedom.  They refrain from stealing even where detection is impossible, and  therefore not through fear. The answer I think is that they act from an  inarticulate recognition of the admitted truth, that almost any  system of law giving some security of possession is better than none;  even bad laws secure more equal freedom than anarchy does, and so  it is our duty to support any system of security unless the contrary  behaviour will, with reasonable probability, contribute to substituting  a better system, which pilfering and swindling cannot do. If people  willingly conformed to a law forbidding access to mountains but  gladly profited by its repeal, I think usage compels us to say it had  inpaired their freedom. If, however, they actually voted or agitated  against its repeal, I think we must say it did not. If by long custom  people actually prefer and petition to remain slaves, or if they cease  even to wish to enjoy what is in the occupation of others, then their  slavery or exclusion does not diminish their freedom, unless they  change their mind. We may call them free fools and blame somebody    he means actual restraint. And potential restraint only becomes actual when I begin  to want to do what is forbidden. If freedom were power to do what I do not want, it  would be worthless.   ‘Or forbidden under penalty. See below.    LIBERTY AND EQUALITY 135    for their folly.’ (b) Bribes and promises do not impair freedom. The  man likes earning the bribe better than not earning it, whereas the  man deterred by threats would have preferred to act otherwise could  he have done so fearlessly.   (3) ‘Other persons’. (a) We can be prevented from doing what we  want by geographical conditions, weather, wild beasts or our own  bodily state. A swollen stream, a wolf, a broken leg do not impair our  freedom. If anybody thinks that usage is in favour of calling such  impediments a lack of freedom I would ask him to read in this essay  for ‘freedom (or liberty)’ ‘social freedom’. The same I think applies to  those who are prevented from doing what they like by belief about the  supernatural. They may be unfree from superstition or the fear of God  but not (socially or) sempliciter unfree. What influences their action  is not persons but the supposed nature of the universe. (b) But any  persons may impair my freedom: a neighbour, a dictator or a majority.  The fact that I have voted for the restriction makes no difference if  I should now like to break it. Ulysses’ sailors impaired his freedom by  his own orders when they prevented him from joining the Sirens. I  can even limit my own freedom by locking myself in an upper storey  and throwing the key out of the window; but not by vows or promises  without enforceable penalty. I am free to break them.   (4) ‘Interference’: so far as our action is impeded not by other  people’s action but merely by their failure to act, I think we should not  say our freedom was impaired. But the distinction here is clearly very  difficult to draw. To block my path limits my freedom. Not to clear  or repair it does not.   (5) ‘Action’. (a) I mean action here to include the credible threat  of action, since the most usual diminution of freedom is not by  physical constraint or violence but by the fear of it. (b) But I mean it,  though I am not sure I am right, to exclude deception. It seems clear  that our freedom is not impaired by the withholding of useful inform-  ation, and I am inclined to think not even by the giving of false  information. That wrongs us in some other way. I should say that  drugging a man, or (if that is possible) hypnotizing him against his    1Many women, e.g. resisted ‘emancipation’ from traditional domestic inferiority.  Their economic inferiority, which had only become conspicuous with newconditions,  was much more resented. Cf. Hume, Essays, H, xvi: ‘The bulk of mankind being  governed by authority, not reason, and never attributing authority to anything that has  not the recommendation of antiquity.” How dangerous this innate conservatism is he  shows two pages later: ‘Exorbitant power proceeds not, in any government, from new  laws, so much as from neglecting to remedy the abuses, which frequently rise from the  old ones.’ And cf. I, iv, ‘Antiquity always begets the opinion of right’.    136 E. F. CARRITT    will, impaired his freedom, but am inclined to think that propaganda  and excitement by rhetoric, music and similar tricks do not. To  prevent or forbid his access to contrary propaganda of course would  impair his freedom to obtain it if he wanted to do so.   If our definition, so explained, is accepted as the nearest we can  get to consistency without much violating common usage, two points  become clear.   (1) The first is that there are other good things, or other things  to which a man has claims and which it may be our duty to secure him,  besides liberty; for instance education, food, society, a good water-  supply.’ And it is possible that such claims might conflict with  the claim to liberty, and a compromise have to be struck. The writers  I have quoted seem to think equality is one of these things.   (2) The second point is that one man’s liberty is apt to be inimical  to his neighbour’s. I suppose the ideally free man outside a desert  island would be an irresponsible world-despot not even threatened  with assassination, but his freedom would almost certainly involve a  great deal of servitude for others. When therefore we say that men  have a right to freedom or that freedom is good (unless we mean  merely that each wants for himself all the freedom he can get) we can  only mean equal freedom. Indeed, if we use the language of natural  rights, the right to equality must be more fundamental than that to  liberty or life or anything else, since men cannot have absolute  rights to any of these things (for one man’s possession of them may  be incompatible with another’s) but only (ceteris paribus) equal clarms.?  Aristotle indeed identified justice (other than legal) with equality,  though an equality taking account of ‘desert’.? And justice (Recht)  is natural right. It is ‘the treatment of every man as an end’, ‘counting    ‘Maitland points out that Alexander Selkirk was completely free and very miserable.  1 may add that he might have a right to be rescued, but the moment he set foot on  ship his liberty would be diminished. He must obey the captain.   ?Equal claims to what is divisible (as liberty is) imply rights to equal shares,  e.g. to ten shillings in the pound where the assets are half the liabilities.   ‘An equal admission to the means of improvement and pleasure is a law  vigorously enjoined upon mankind by the voice of justice. All other changes in  society are good only as they are fragments of this or steps to its attainment. Godwin,  Political Justice, VIII, iv. Here the utilitarian joins hands with the adherent of natural  rights.   SEth. Nic. 129a 34, 130b 9, 131a 11, 158b 30, wat dfiav which I have rendered  ‘desert’ might I think include ‘need’ and be paraphrased ‘ceteris paribus’. Need is so  hard to assess that perhaps law should only attempt to assess it in relation to efficient  work. Does one man ‘need’ a first-rate execution of Bach but only a country-inn  parlour, and another a ‘luxury hotel’ but only a cinema-organ? : :    LIBERTY AND EQUALITY 137    every man for one’, an equality numerical till reason is shown to the  contrary. And, if for the moment we neglect other possibly conflicting  claims, the amount of freedom a man has a right to, the amount we  ought prima facie to secure him, is just so much as is compatible with  an equal amount for others. The maximum of freedom would be  obtained if men were never interfered with by others in doing anything  they chose except when what they chose to do interfered with others,  and if they then always were. One thing most people want to do which  can hardly affect the liberty of others is to express their opinions and  feelings. So, if we are merely considering maximum liberty, speech  should be free, even, I think, arguments for slavery or censorship.   It remains then to ask how far equal liberty is favoured or impaired  by equality in other respects.   (1) So far as ‘political equality’ goes, we have admitted that  majority government does not infallibly guarantee liberty any more  than any other form of government does. Empirically in most circum-  stances, certainly in modern civilization, it seems the most favourable  to it. At any rate our allegiance to a democratic or any other form of  government would seem to depend upon the degree in which it is likely  (or more likely than anything we could substitute) to secure men their  rights,’ prominent among which would be the right to equal liberty.   (2) ‘Equality before the law’, if, as I suppose, that only means law  effectively carried out and not arbitrarily perverted by caprice or  partiality, 1 is implied i in the very nature of law. And any system of law  giving some security of person and property is more favourable to  liberty than the anarchic state of ‘private war and scramble’. If    'Cf. Maitland, Liberty (Collected Papers, 1): ‘It is not possible to decide who  ought to govern until we know what a government ought to do.’  Cf. Hume, Essays, 1, v: ‘Government having ultimately no other object or purpose  i.e. justification? but the distribution of justice... obedience is a new duty  which must be invented to support that of justice.’ ‘No other’ is an exaggeration unless  justice is used in a very wide sense to include beneficence. A Sumerian king claims  fame as having given his people ‘equal justice and canals’ (Woolley, Abraham).    ?Known general laws, however bad, interfere less with freedom than decisions  based on no previously known rule.’ Maitland, op. cit. p. 81. In weighing the risks of  insecurity from innovation and of injustice from obsolescence, we may remember the  wise maxim of Hume that the breakdown of order would be the worse evil but the loss  of liberty is the more probable. Essays, I, v, vii. The best reasoned defence of anarchy  is perhaps Godwin, Political Justice, VII, viii, Of Law. Since ‘every case is a rule to  itself; it should be judged by pure equity, assessed by the unguided reason of the  judges. Presumably laws of conformity in indifferent matters, like the rule of the road,  would be allowed. Yet later (VIII, ii) Godwin says: ‘It is not easy to say whether  misery or absurdity would be most conspicuous in a plan which should invite every  man to seize upon everything he conceived himself to want’, and ‘Unless I can foresee,    138 E. F. CARRITT    “Equality before the law’ means not only that the rules are kept, but  also that they are made for the equal advantage of all whose needs or  deserts are equal (as it might be maintained most of our laws of murder  and assault are) then the question is raised how far this is also true of  our property laws. But I prefer to avoid the wider question whether  our property laws are just and confine myself to the question whether  the inequality which they protect and favour is, as has been suggested,  favourable to liberty. To decide the wider question we should have to  ascertain whether these now are (even if they once were) favourable to  the securing of all men’s other claims, such as those to improved  opportunities for health, education, enjoyment, as well as to the equal  distribution of the opportunities already available. And that might  involve us in economic considerations.   (3) What distribution of property then should be promoted and  protected by law if it is to secure men the maximum amount of doing  as they choose without interference? It is clear that all laws and all  taxes diminish, and are intended to diminish, somebody’s liberty,  frequently to the increase of general liberty, sometimes justifiably on  other grounds.’ A law which forbids me to appropriate what is in  my brother’s possession, if I want to do so, impairs my liberty as  truly as a law compelling me to give him half what is inmine. We may  not all covet our neighbour’s husband or wife, his ox or his ass. But  if we never covet his manservant or his maidservant, his leisure, job,  education, something that his money can buy, we are lucky.   What sort of property-distribution would produce the general  minimum of liberty as defined? Surely literal monopoly. Take an  extreme and simple case. If the total water supply of an island were  the legal property of one landlord and water-theft were a capital  offence, the rest of the population would desire more passionately  than anything else to do something which they were either prevented  from doing or could only do in fear of their lives. They would be  extremely unfree. No doubt the owner might be willing to sell at a  ‘reasonable’ rate, but so far as he had a monopoly also of other goods  he could not sell at a rate ‘reasonable’ to the purchasers. He would  have either to watch them perish, to sell water for labour, or to stand  drinks. Laws are not made good laws by being too absurd or inhuman  for enforcement.    in a considerable degree, the treatment I shall receive from my species . . . [can engage  in no valuable undertaking’.   “No law can be made that does not take something from liberty.’ Bentham;  Anarchical Fallacies. Preamble.    LIBERTY AND EQUALITY 139    Now just in proportion as the ownership of water were eq ualized,  the prohibition of water-theft would become less burdensome, less  obstructive of what each desired to do, even though still nobody  had so much as he would have liked. The only loss of liberty would be  in the original monopolist, and probably his loss would not be so  great as the gain of any one of his neighbours, since he could hardly  have desired to use his superfluity of water (say in watering orchids)  so passionately as the other had desired to moisten his tongue. To be  forcibly deprived of superabundance or even of conveniences impairs  liberty less than to be forcibly prevented from appropriating  necessities.!   If then we consider laws and institutions of property merely so  far as they directly affect liberty I think we must conclude that those  are most favourable to it which most favour equality in proportion to  need. Against such equality there may of course be other reasons.   There remains to notice the obvious relation of economic equality  with political equality and equality before the law. Clearly, without  freedom of speech, discussion, and information, the bare possession  of the vote is almost valueless, and great economic inequality gives  influence and power of propaganda which are as destructive of any  real equality of political power as a censorship itself. Even  ‘equality before the law’, that is legal justice itself, is endangered  by economic inequality in well-known ways. The expense of expert  legal advice and of protracted legislation heavily handicaps the poor.  From great economic inequalities rise class differences of education,  speech, standard of life, which may make it very difficult for judges to  sympathize with some of those who come before them.?   Those who contend that liberty and equality are incompatible  inherit Burke’s naive conservatism, the belief that the present  British social system is ideal and merely needs to be ideally admin-  istered:—the machine is perfect, if only we could eliminate friction,  but to plana machine with less friction is utopian. The liberty they  praise is a liberty within that system, with just the present institutions  of ownership, inheritance, taxation, combination, limited liability,  banking, all compulsory. The equality they condemn is any alteration  of that system which would secure a greater amount of liberty to a  greater number of persons; within the sacred system laisser-faire is    ‘Hume, Enquiry, Mil: ‘Whenever we depart from equality we rob the poor of  more satisfaction |and liberty] than we add to the rich’; and Essays, 1, vii: ‘Property  when united causes much greater dependence than the same property when dispersed.’   2And cf. Bentham, Book of Fallacies, 1: Appendix on ‘Sinister interest of Lawyers’.    140 E. F. CARRITT    divinely guided; but if we do not enforce just that system, providence  they think will lead us to ruin.   But ‘economics’ and ‘politics’ cannot be thus separated. We must  follow the same principle in judging what administration of the lawis  just and in judging what laws are just. If men have a right to liberty  and equality within the law, for the same reason they have a right to  laws that promote liberty and equality. Harrington in his Oceana  said that ‘Equality of estates causes equality of power, and equality  of power is liberty’, and Maitland (Equality, Collected Papers 11) adds  the rider that equality of political power tends to produce equality  of property. And that tends to produce liberty. Godwin! briefly  stated a position sometimes attributed to later writers: ‘It is only by  means of accumulation that one man obtains an unresisted sway over  multitudes of others. It is by means ofa certain distribution of income  that the present governments of the world are retained in existence.  Nothing more easy than to plunge nations, so organized, into war.’  Godwin really believed in both liberty and equality. His peculiarity  is that he could also believe in Jaisser-faire because he believed in  fraternity.    ' Political Justice, VIII, iii (1793).    Vil ~  TWO CONCEPTS OF LIBERTY’    SiR ISAIAH BERLIN    TO coerce a man is to deprive him of freedom—freedom from what?  Almost every moralist in human history has praised freedom. Like  happiness and goodness, like nature and reality, the meaning of this  term is so porous that there is little interpretation that it seems able  to resist. | do not propose to discuss either the history or the more  than two hundred senses of this protean word, recorded by historians  of ideas. I propose to examine no more than two of these senses—but  those central ones, with a great deal of human history behind them,  and, I dare say, still to come. The first of these political senses of  freedom or liberty (I shall use both words to mean the same), which  (following much precedent) I shall call the ‘negative’ sense, is involved  in the answer to the question “What is the area within which the  subject—a person or group of persons—is or should be left to do or be  what he is able to do or be, without interference by other persons?’  The second, which I shall call the positive sense, is involved in the  answer to the question ‘What, or who, is the source of control or  interference, that can determine someone to do, or be, one thing  rather than another?’ The two questions are clearly different, even  though the answers to them may overlap.    The notion of ‘negative’ freedom  Iam normally said to be free to the degree to which no human being  interferes with my activity. Political liberty in this sense is simply the  area within which a man can act unobstructed by others. If I am  prevented by other persons from doing what I could otherwise do, I    From the revised version of his Inaugural Lecture “Two Concepts of Liberty’  (Clarendon Press, 1958, pp. 6-19) in Four Essays on Liberty by Sir Isaiah Berlin  to be published as an Oxford University Press Paperback. Reprinted by permission  of the author and the Clarendon Press.    , ‘ine pages of the beginning and end of the original text have here been omitted.  Ed.    142 SIR ISAIAH BERLIN    am to that degree unfree; and if this area is contracted by other men  beyond a certain minimum, I can be described as being coerced, or, it  may be, enslaved. Coercion is not, however, a term that covers every  form of inability. If I say that I am unable to jump more than 10 feet  in the air, or cannot read because I am blind, or cannot understand  the darker pages of Hegel, it would be eccentric to say that lam to that  degree enslaved or coerced. Coercion. implies the deliberate inter-  ference of other human beings within the area in which I could other-  wise act. You lack political liberty or freedom only if you are prevented  from attaining a goal by human beings.' Mere incapacity to attaina  goal is not lack of political freedom. This is brought out by the use  of such modern expressions as ‘economic freedom’ and its counter-  part, ‘economic slavery’. It is argued, very plausibly, that ifa man is  too poor to afford something on which there is no legal ban—a loaf  of bread, a journey round the world, recourse to the law courts—he  is as little free to have it as he would be if it were forbidden him bylaw.  If my poverty were a kind of disease, which prevented me from buying  bread or paying for the journey round the world, or getting my case  heard, as lameness prevents me from running, this inability would not  naturally be described as a lack of freedom, least of all political  freedom. It is only because I believe that my inability to get a given  thing is due to the fact that other human beings have made arrange-  ments whereby I am, whereas others are not, prevented from having  enough money with which to pay for it, that I think myself a victim of  coercion or slavery. In other words, this use of the term depends on  a particular social and economic theory about the causes of my  poverty or weakness. If my lack of material means is due to my lack  of mental or physical capacity, then I begin to speak of being deprived  of freedom (and not simply of poverty) only if I accept the theory.  If, in addition, I believe that 1 am being kept in want by a specific  arrangement which | consider unjust or unfair, I speak of economic  slavery or oppression. ‘The nature of things does not maddenus, only  ill will does’, said Rousseau. The criterion of oppression is the part  that I believe to be played by other human beings, directly or    1T do not, of course, mean to imply the truth of the converse.   ?Helvétius made this point very clearly: ‘The free man is the man who is not in  irons, nor imprisoned in a gaol, nor terrorized like a slave by the fear of punish-  ment. .. it is not lack of freedom not to fly like an eagle or swim like a whale.’   3The Marxist conception of social laws is, of course, the best-known version  of this theory, but it forms a large element in some Christian and utilitarian, and  all socialist, doctrines.    TWO CONCEPTS OF LIBERTY 143    indirectly, with or without the intention of doing so, in frustrating  my wishes. By being free in this sense I mean not being interfered with  by others. The wider the area of non-interference the wider my  freedom.   This is what the classical English political philosophers meant  when they used this word.! They disagreed about how wide the area  could or should be. They supposed that it could not, as things were,  be unlimited, because if it were, it would entail a state in which all  men could boundlessly interfere with all other men; and this kind of  ‘natural’ freedom would lead to social chaos in which men’s minimum  needs would not be satisfied; or else the liberties of the weak would be  suppressed by the strong. Because they perceived that human  purposes and activities do not automatically harmonize with one  another; and, because (whatever their official doctrines) they put  high value on other goals, such as justice, or happiness, or culture,  or security, or varying degrees of equality, they were prepared to  curtail freedom in the interests of other values and, indeed, of freedom  itself. For, without this, it was impossible to create the kind of  association that they thought desirable. Consequently, it is assumed by  these thinkers that the area of men’s free action must be limited by  law. But equally it is assumed, especially by such libertarians as  Locke and Mill in England, and Constant and Tocqueville in France,  that there ought to exist a certain minimum area of personal freedom  which must on no account be violated; for if it is overstepped, the  individual will find himself in an area too narrow for even that  minimum development of his natural faculties which alone makes it  possible to pursue, and even to conceive, the various ends which men  hold good or right or sacred. It follows that a frontier must be drawn  between the area of private life and that of public authority. Where it  is to be drawn is a matter of argument, indeed of haggling. Men are  largely interdependent, and no man’s activity is so completely private  as never to obstruct the lives of others in any way. ‘Freedom for the  pike is death for the minnows’ ; the liberty of some must depend on the  restraint of others.? Still, a practical compromise has to be found.    1*A free man’, said Hobbes, ‘is he that...is not hindered to do what he hath  the will to do.’ Law is always a ‘fetter’, even if it protects you from being bound  in chains that are heavier than those of the law, say, arbitrary despotism or chaos.  Bentham says much the same.    2‘Freedom for an Oxford don’, others have been known to add, ‘is a very dif-  ferent thing from freedom for an Egyptian peasant.’   This proposition derives its force from something that is both true and important,  but the phrase itself remains a piece of political claptrap. It is true that to offer    144 SIR ISAIAH BERLIN    Philosophers with an optimistic view of human nature, and a beliet  in the possibility of harmonizing human interests, such as Locke or  Adam Smith and, in some moods, Mill, believed that social harmony  and progress were compatible with reserving a large area for private  life over which neither the state nor any other authority must be    olitical rights, or safeguards against intervention by the state, to men who are  palf-naked. illiterate, underfed, and diseased is to mock their condition; they need  medical help or education before they can understand, or make use of, an increase  in their freedom. What is freedom to those who cannot make use of it? Without  adequate conditions of freedom what is the value of freedom? First things come  first: there are situations, as a nineteenth-century Russian radical writer declared,  in which boots are superior to the works of Shakespeare; individual freedom is not  everyone’s primary need. For freedom is not the mere absence of frustration of what-  ever kind; this would inflate the meaning of the word until it meant too much or too  little. The Egyptian peasant needs clothes or medicine before, and more than,  personal liberty, but the minimum freedom that he needs today, and the greater  degree of freedom that he may need tomorrow, is not some species of freedom  peculiar to him, but identical with that of professors, artists, and millionaires.   What troubles the consciences of Western liberals is not, I think, the belief that  the freedom that men seek differs according to their social or economic conditions,    but that the minority who possess it have gained it by exploiting or, at least, averting  their gaze from the vast majority who do not. They believe, with good reason,  that if individual liberty is an ultimate end for human beings, none should be de-  prived of it by others; least of all that some should enjoy it at the expense of  others. Equality of liberty; not to treat others as I should not wish them to treat  me; repayment of my debt to those who alone have made possible my liberty or pros-  pertty or enlightenment; justice, in its simplest and most universal sense—these  are the foundations of liberal morality. Liberty is not the only goal of men. I can,  like the Russian critic Belinsky, say that if others are to be deprived of it—f my  brothers are to remain in poverty, squalor, and chains—then I do not want it for  myself, I reject it with both hands and infinitely prefer to share their fate. But  nothing is gained by a confusion of terms. To avoid glaring inequality or wide-  spread misery I am ready to sacrifice some, or all, of my freedom: I spe do so  willingly and freely: but it is freedom that I am giving up for the sake of justice  or equality or the love of my fellow men. I should be guilt-stricken, and rightly  so, if I were not, in some circumstances, ready to make this sacrifice. But a sacrifice  is not an increase in what is being sacrificed, namely freedom, however great the  moral need or the compensation for it. Everything is what it is: liberty is liberty,  not equality or fairness or justice or culture or human happiness or a quiet con-  science. If the liberty of myself or my class or nation depends on the misery of a  number of other human beings, the system which promotes this is unjust and  immoral. But if I curtail or lose my freedom, in order to lessen the a eels of  such inequality, and do not thereby materially increase the individual liberty of  others, an absolute loss of liberty occurs. This may be compensated for by a gain in  Justice or in happiness or in peace, but the loss remains, and it is a confusion of  values to say that although my ‘liberal’, individual freedom may go by the board, some  other kind of freedom—‘social’ or ‘economic’—is increased. Yet it remains true  that the freedom of some must at times be curtailed to secure the freedom of others.  Upon what principle should this be done? If freedom is a sacred, untouchable  value, there can be no such principle. One or other of these conflicting principles  must at any rate in practice yells not always for reasons which can be dearly  stated, let alone generalized into rules or universal maxims.    TWO CONCEPTS OF LIBERTY 145    allowed to trespass, Hobbes, and those who agreed with him,  especially conservative or reactionary thinkers, argued that if men  were to be prevented from destroying one another, and making social  life a jungle or a wilderness, greater safeguards must be instituted to  keep them in their places, and wished correspondingly to increase the  area of centralized control, and decrease that of the individual. But  both sides agreed that some portion of human existence must remain  independent of the sphere of social control. To invade that preserve,  however small, would be despotism. The most eloquent of all  defenders of freedom and privacy, Benjamin Constant, who had not  forgotten the Jacobin dictatorship, declared that at the very least  the liberty of religion, opinion, expression, property, must be guaran-  teed against arbitrary invasion. Jefferson, Burke, Paine, Mill,  compiled different catalogues of individual liberties, but the argument  for keeping authority at bay is always substantially the same. We must  preserve a minimum area of personal freedom if we are not to  ‘degrade or deny our nature’. We cannot remain absolutely free, and  must give up some of our liberty to preserve the rest. But total self-  surrender is self-defeating. What then must the minimum be? That  which a man cannot give up without offending against the essence of  his human nature. What is this essence? Whatare the standards which  it entails? This has been, and perhaps always will be, a matter of  infinite debate. But whatever the principle in terms of which the area  of non-interference is to be drawn, whether it is that of natural law  or natural rights, or of utility or the pronouncements of a categorical  imperative, or the sanctity of the social contract, or any other  concept with which men have sought to clarify and justify their  convictions, liberty in this sense means liberty from; absence of inter-  ference beyond the shifting, but always recognizable, frontier. “The  only freedom which deserves the name is that of pursuing our own  good in our own way ’, said the most celebrated of its champions. If this  is so, is compulsion ever justified? Mill had no doubt that it was. Since  justice demands that all individuals be entitled to a minimum of  freedom, all other individuals were of necessity to be restrained, if  need be by force, from depriving anyone of it. Indeed, the whole  function of law was the prevention of just such collisions: the state  was reduced to what Lassalle contemptuously described as the func-  tions of a nightwatchman or traffic policeman.   What made the protection of individual liberty so sacred to Mill?  In his famous essay he declares that unless men are left to live as  they wish ‘in the path which merely concerns themselves’, civilization    146 SIR ISAIAH BERLIN    cannot advance; the truth will not, for lack of a free market in ideas,  come to light; there will be no scope for spontaneity, originality,  genius, for mental energy, for moral courage. Society will be crushed  by the weight of ‘collective mediocrity’. Whatever is rich and diver-  sified will be crushed by the weight of custom, by men’s constant  tendency to conformity, which breeds only ‘withered capacities’,  ‘pinched and hidebound’, ‘cramped and warped’ human beings.  ‘Pagan self-assertion is as worthy as Christian self-denial.’ ‘All  the errors which a man is likely to commit against advice and warning  are far outweighed by the evil of allowing others to constrain him  to what they deem is good.’ The defence of liberty consists in the  ‘negative’ goal of warding off interference. To threaten a man with  persecution unless he submits to a life in which he exercises no choices  of his goals; to block before him every door but one, no matter how  noble the prospect upon which it opens, or how benevolent the  motives of those who arrange this, is to sin against the truth that he  is.a man, a being with a life of his own to live. This is liberty as it  has been conceived by liberals in the modern world from the days of  Erasmus (some would say of Occam) to our own. Every plea for civil  liberties and individual rights, every protest against exploitation and  humiliation, against the encroachment of public authority, or the  mass hypnosis of custom or organized propaganda, springs from this  individualistic, and much disputed, conception of man.   Three facts about this position may be noted. In the first place Mill  confuses two distinct notions. One is that all coercion is, in so far  as it frustrates human desires, bad as such, although it may have to be  applied to prevent other, greater evils; while non-interference,  which is the opposite of coercion, is good as such, although it is not  the only good. This is the ‘negative’ conception of liberty in its  classical form./The other is that men should seek to discover the  truth, or to develop ‘a certain type of character of which Mill  approved—fearless, original, imaginative, independent, non-  conforming to the point of etteiitiicity, and so on—and that truth  can be found, and such character can be bred, only in conditions of  freedom. Both these are liberal views, but they are not identical, and  the connexion between them is, at best, empirical. No one would  argue that truth or freedom of self-expression could flourish where  dogma crushes all thought. But the evidence of history tends to show  (as, indeed, was argued by James Stephen in his formidable attack on  Mill in his Liberty, Equality, Fraternity) that integrity,-love of truth  and fiery individualism grow at least as often in severely disciplined    fave    one se    om    TWO CONCEPTS OF LIBERTY 147    communities among, for example, the puritan Calvinists of Scotland  or New England, or under military discipline, as in more tolerant or  indifferent societies; and if this is so accepted, Mill’s argument for  liberty as a necessary condition for the growth of human genius falls  to the ground. If his two goals proved incompatible, Mill would be  faced with a cruel dilemma, quite apart from the further difficulties  created by the inconsistency of his doctrines with strict utilitarianism,  even in his own humane version of it.   In the second place, the doctrine is comparatively modern. There   seems to be scarcely any discussion of individual liberty as a conscious  political ideal (as opposed to its actual existence) in the ancient world.  Condorcet has already remarked that the notion of individual rights is  absent from the legal conceptions of the Romans and Greeks; this  seems to hold equally of the Jewish, Chinese, and all other ancient  civilizations that have since come to light.? The domination of this  ideal has been the exception rather than the rule, even in the recent  history of the West. Nor has liberty in this sense often formed a  rallying cry for the great masses of mankind. The desire not to be  impinged upon, to be left to oneself, has been a mark of high civiliza-  tion both on the part of individuals and communities. The sense of  privacy itself, of the area of personal relationships as something  sacred in its own right, derives from a conception of freedom which,  for all its religious roots, is scarcely older, in its developed state,  than the Renaissance or the Reformation.’ Yet its decline would mark  the death of a civilization, of an entire moral outlook.   The third characteristic of this notion of liberty is of greater  importance. It is that liberty in this sense is not incompatible with  some kinds of autocracy, or at any rate with the absence of self-  government. Liberty in this sense is principally concerned with the  area of control, not with its source. Just as a democracy may, in fact,    ‘This is but another illustration of the natural tendency of all but a very few  thinkers to believe that all the things they hold good must be intimately connected, or  at least compatible, with one another. The history of thought, like the history of  nations, is strewn with examples of inconsistent, or at least disparate, elements  artificially yoked together in a despotic system, or held together by the danger  of some common enemy. In due course the danger passes, and conflicts between the  allies arise, which often disrupt the system, sometimes to the great benefit of mankind.    2See the valuable discussion of this in Michel Villey, Lecons d’Histotre de la Philosophie  du Droit, who traces the embryo of the notion of subjective rights to Occam.   Christian (and Jewish or Moslem) belief in the absohute authority of divine or  natural laws, or in the equality of all men in the sight of God, is very different from  belief in freedom to live as one prefers.    (ane!  (2-6)    148 SIR ISAIAH BERLIN    deprive the individual citizen of a great many liberties which he might  have in some other form of society, so it is perfectly conceivable that  a liberal-minded despot would allow his subjects a large measure of  personal freedom. The despot who leaves his subjects a wide area of  liberty may be unjust, or encourage the wildest inequalities, care  little for order, or virtue, or knowledge; but provided he does not  curb their liberty, or at least curbs it less than many other régimes, he  meets with Mill’s specification.'! Freedom in this sense is not, at any  rate logically, connected with democracy or self-government. Self-  government may, on the whole, provide a better guarantee of the  preservation of civil liberties than other régimes, and has been  defended as such by libertarians. But there is no necessary connexion  between individual liberty and democratic rule. The answer to the  question “Who governs me?’ is logically distinct from the question  ‘How far does government interfere with me?’ It is in this difference  that the great contrast between the two concepts of negative and  positive liberty, in the end, consists.! For the ‘positive’ sense of  liberty comes to light if we try to answer the question, not ‘Whatam I  free to do or be?’, but ‘By whom am I ruled?’ or ‘Whois to say what I  am, and what I am not, to be or do?’ The connexion between demo-  cracy and individual liberty is a good deal more tenuous than it seemed  to many advocates of both. The desire to be governed by myself, or at  any rate to participate in the process by which my life is to be control-  led, may be as deep a wish as that of a free area for action, and perhaps  historically older. But it is not a desire for the same thing. So different  is it, indeed, as to have led in the end to the great clash of ideologies  that dominates our world. For it is this—the ‘positive’ conception of  liberty: not freedom from, but freedom to—which the adherents of  the ‘negative’ notion represent as being, at times, no better than a  specious disguise for brutal tyranny.    ‘Indeed, it is arguable that in the Prussia of Frederick the Great or in the Austria  of Josef IJ, men of imagination, originality, and creative genius, and, indeed, minorities  of all kinds, were less persecuted and felt the pressure, both of institutions and  custom, less heavy upon them than in many an earlier or later democracy.    *‘Negative liberty’ is something the extent of which, in a given case, it is difficult  to estimate. It might, prima facie, seem to depend nape on the power to choose  between at any rate two alternatives. Nevertheless, not all choices are equally free,  or free at all. If in a totalitarian state I betray my friend under threat of torture,  perhaps even if I act from fear of losing my job, I can reasonably say that I did not  act freely. Nevertheless, I did, of course, make a choice, and could, at any rate in  theory, have chosen to be killed or tortured or imprisoned. The mere existence of  alternatives is not, therefore, enough to make my action free (although it may be    TWO CONCEPTS OF LIBERTY 149  II    The Notion of Positive Freedom   The ‘positive’ sense of the word ‘liberty’ derives from the wish on the  part of the individual to be his own master. I wish my life and decisions  to depend on myself, not on external forces of whatever kind. I wish to  be the instrument of my own, not of other men’s, acts of will. I wish to  be a subject, not an object; to be moved by reasons, by conscious  purposes which are my own, not by causes which affect me, as it were,  from outside. I wish to be somebody, not nobody; a doer—deciding,  not being decided for, self-directed and not acted upon by external  nature or by other men as if I were a thing, or an animal, or a slave  incapable of playing a human role, that is, of conceiving goals and  policies of my own and realizing them. This is at least part of what I  mean when I say that I am rational, and that it is my reason that  distinguishes me as a human being from the rest of the world. I wish,  above all, to be conscious of myself as a thinking, willing, active  being, bearing responsibility for his choices and able to explain them  by reference to his own ideas and purposes. I feel free to the degree that  I believe this to be true, and enslaved to the degree that I am made to  realize that it is not.   The freedom which consists in being one’s own master, and the  freedom which consists in not being prevented from choosing as I do    voluntary) in the normal sense of the word. The extent of my freedom seems to  depend on (a) how many possibilities are open to me (although the method of  counting these can never be more than impressionistic. Possibilities of action are  not discrete entities like apples, which can be exhaustively enumerated); (b) how  easy or difficult each of these possibilities is to actualize; (c) how important in my  plan of life, given my character and circumstances, these possibilities are when com-  pared with each other; (d) how far they are closed and opened by deliberate human  acts; (e) what value not merely the agent, but the general sentiment of the society in  which he lives, puts on the various possibilities. All these magnitudes must be ‘in-  tegrated’, and a conclusion, necessarily never precise, or indisputable, drawn from  this process. It may well be that there are many incommensurable degrees of freedom,  and that they cannot be drawn up on a single scale of magnitude, however conceived.  Moreover, in the case of societies, we are faced by such (logically absurd) questions  as ‘Would arrangement X increase the liberty of Mr. A more than it would that of  Messrs. B, C, and D between them, added together?’ The same difficulties arise in  applying utilitarian criteria. Nevertheless, provided we do not demand precise  measurement, we can give valid reasons for saying that the average subject of the  King of Sweden is, on the whole, a good deal freer today than the average citizen of  the Republic of Rumania. Total patterns of life must be compared directly as wholes,  although the method by which we make the comparison, and the truth of the con-  clusions, are difficult or impossible to demonstrate. But the vagueness of the concepts,  and the multiplicity of the criteria involved, is an attribute of the subject-matter  itself, not of our imperfect methods of measurement, or incapacity for precise thought.    150 SIR ISAIAH BERLIN    by other men, may, on the face of it, seem concepts at no great logical  distance from each other—no more than negative and positive ways  of saying the same thing. Yet the ‘positive’ and ‘negative’ notions of  freedom historically developed in divergent directions not always by  logically reputable steps, until, in the end, they came into direct  conflict with each other.   One way of making this clear is in terms of the independent  momentum which the, initially perhaps quite harmless, metaphor of  self-mastery acquired. ‘I am my own master’; ‘I am slave to noman’;  but may I not (as, for instance, T. H. Green is always saying) be a  slave to nature? Or to my own ‘unbridled’ passions? Are these not so  many species of the identical genus ‘slave’-—some political or legal,  others moral or spiritual? Have not men had the experience of  liberating themselves from spiritual slavery, or slavery to nature, and  do they not in the course of it become aware, on the one hand, ofa  self which dominates, and, on the other, of something in them which is  brought to heel? This dominant self is then variously identified with  reason, with my ‘higher nature’, with the self which calculates and aims  at what will satisfy it in the long run, with my ‘real’, or ‘ideal’, or  ‘autonomous’ self, or with my self ‘at its best’; which is then contrasted  with irrational impulse, uncontrolled desires, my ‘lower’ nature, the  pursuit of immediate pleasures, my ‘empirical’ or ‘heteronomous’  self, swept by every gust of desire and passion, needing to be rigidly  disciplined if it is ever to rise to the full height of its ‘real’ nature.  Presently the two selves may be represented as divided by an even  larger gap: the real self may be conceived as something wider than the  individual (as the term is normally understood), as a social ‘whole’  of which the individual is an element or aspect: a tribe, a race, a church,  a state, the great society of the living and the dead and the yet unborn.  This entity is then identified as being the ‘true’ self which, by imposing  its collective, or ‘organic’, single will upon its recalcitrant ‘members’,  achieves its own, and, therefore, their, ‘higher’ freedom. The perils  of using organic metaphors to justify the coercion of some men by  others in order to raise them to a ‘higher’ level of freedom have often  been pointed out. But what gives such plausibility as it has to this  kind of language is that we recognize that it is possible, and at times  justifiable, to coerce men in the name of some goal (let us say, justice  or public health) which they would, if they were more enlightened,  themselves pursue, but do not, because they are blind or ignorant or  corrupt. This renders it easy for me to conceive of myself as coercing  others for their own sake, in their, not my, interest. I am then    TWO CONCEPTS OF LIBERTY 151    claiming that I know what they truly need better than they know it  themselves. What, at most, this entails is that they would not resist  me if they were rational, andas wise as I, and understood their interests  as I do. But I may go on to claim a good deal more than this. I may  declare that they are actually aiming at what in their benighted state  they consciously resist, because there exists within them an occult  enuty—their latent rational will, or their ‘true’ purpose—and that  this entity, although it is belied by all that they overtly feel and do and  say, is their ‘real’ self, of which the poor empirical self in space and  time may know nothing or little; and that this inner spirit is the only  self that deserves to have its wishes taken into account.! Once I take  this view, I am in a position to ignore the actual wishes of men or  societies, to bully, oppress, torture them in the name, and on behalf,  of their ‘real’ selves, in the secure knowledge that whatever is the true  goal of man (happiness, fulfilment of duty, wisdom, a just society,  self-fulfilment) must be identical with his freedom—the free choice of  his ‘true’, albeit submerged and inarticulate, self.   This paradox has been often exposed. It is one thing to say that I  know what is good for X, while he himself does not; and even to ignore  his wishes for its—and his—sake; and a very different one to say that.  he has eo ipso chosen it, not indeed consciously, not as he seems in  everyday life, but in his role as a rational self which his empirical  self may not know—the ‘real’ self which discerns the good, and cannot  help choosing it once it is revealed. This monstrous impersonation,  which consists in equating what X would choose ifhe were something he  is not, or at least not yet, with what X actually seeks and chooses, is  at the heart of all political theories of self-realization. It is one thing  to say that I may be coerced for my own good which I am too blind  to see: this may, on occasion, be for my benefit; indeed it may enlarge  the scope of my liberty; it is another to say that if it is my good,  then I am not being coerced, for I have willed it, whether I know this  or not, and am free—or ‘truly’ free—even while my poor earthly body  and foolish mind bitterly reject it, and struggle against those who seek  however benevolently to impose it, with the greatest desperation.   This magical transformation, or sleight of hand (for which William    “The ideal of true freedom is the maximum of power for all the members of  human society alive to make the best of themselves’, said T. H. Green in 1881.  Apart from the confusion of freedom with equality, this entails that if a man chose  some immediate pleasure—which (in whose view?) would not enable him to make  the best of himself (what self?) what he is exercising is not ‘true’ freedom: and, if  deprived of it, he would not lose anything that mattered. Green was a genuine liberal:  but many a tyrant could use this formula to justify his worst oppression.    152 SIR ISAIAH BERLIN    James so justly mocked the Hegelians), can no doubt be perpetrated  just as easily with the ‘negative’ concept of freedom, where the self  that should not be interfered with is no longer the individual with  his actual wishes and needs as they are normally conceived, but the  ‘real’ man within, identified with the pursuit of some ideal purpose  not dreamed of by his empirical self. And, as in the case of the  ‘positively’ free self, this entity may be inflated into some super-  personal entity—a state, a class, a nation, or the march of history  itself, regarded as a more ‘real’ subject of attributes than the empirical  self. But the ‘positive’ conception of freedom as self-mastery, with its  suggestion of a man divided against himself, has, in fact, and as a  matter of the history of doctrines and of practice, lent itself more  easily to this splitting of personality into two: the transcendent,  dominant controller, and the: empirical bundle of desires and  passions to be disciplined and brought to heel. This demonstrates (if  demonstration of so obvious a truth is needed) that the conception of  freedom directly derives from the view that is taken of what constitutes  a self, a person, a man. Enough manipulation with the definition of  man, and freedom can be made to mean whatever the manipulator  wishes. Recent history has made it only too clear that the issue is not  merely academic.    IX  TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY    JOSEPH SCHUMPETER  1-THE CLASSICAL DOCTRINE OF DEMOCRACY  1. THE COMMON GOOD AND THE WILL OF THE PEOPLE    THE eighteenth-century philosophy of democracy may be couched in  the following definition: the democratic method is that institutional  arrangement for arriving at political decisions which realizes the  common good by making the people itself decide issues through the  election of individuals who are to assemble in order to carry out its  will. Let us develop the implications of this.   It is held, then, that there exists a Common Good, the obvious  beacon light of policy, which is always simple to define and which every  normal person can be made to see by means of rational argument.  There is hence no excuse for not seeing it and in fact no explanation  for the presence of people who do not see it except ignorance—which  can be removed—stupidity and anti-social interest. Moreover, this  common good implies definite answers to all questions so that every  social fact and every measure taken or to be taken can unequivocally  be classed as ‘good’ or ‘bad’. All people having therefore to agree,  in principle at least, there is also a Common Will of the people  (= will of all reasonable individuals) that is exactly coterminous with  the common good or interest or welfare or happiness. The only thing,  barring stupidity and sinister interests, that can possibly bring in  disagreement and account for the presence of an opposition is a  difference of opinion as to the speed with which the goal, itself  common to nearly all, is to be approached. Thus every member of the  community, conscious of that goal, knowing his or her mind, dis-  cerning what is good and what is bad, takes part, actively and  responsibly, in furthering the former and fighting the latter and all  the members taken together control their public affairs.    From Capitalism, Socialism and Democracy by Joseph Schumpeter (grd edn., Allen  & Unwin, 1950), pp. 250-83. Copyright 1942, 1947, by Joseph A. Schumpeter.  Copyright 1950 by peel and Brothers. Reprinted by permission of George Allen and  Unwin and Harper and Row, Publishers.    154 JOSEPH SCHUMPETER    It is true that the management of some of these affairs requires  special aptitudes and techniques and will therefore have to be  entrusted to specialists who have them. This does not affect the  principle, however, because these specialists simply act in order to  carry out the will of the people exactly as a doctor acts in order to  carry out the will of the patient to get well. It is also true that ina  community of any size, especially if it displays the phenomenon of  division of labour, it would be highly inconvenient for every individual  citizen to have to get into contact with all the other citizens on every  issue in order to do his part in ruling or governing. It will be more  convenient to reserve only the most important decisions for the indivi-  dual citizens to pronounce upon—say by referendum—and to deal  with the rest through a committee appointed by them—an assembly or  parliament whose members will be elected by popular vote. This  committee or body of delegates, as we have seen, will not represent  the people in a legal sense but it will do so in a less technical one—it  will voice, reflect or represent the will of the electorate. Again as a  matter of convenience, this committee, being large, may resolve itself  into smaller ones for the various departments of public affairs. Finally,  among these smaller committees there will be a general-purpose  committee, mainly for dealing with current administration, called  cabinet or government, possibly with a general secretary or scapegoat  at its head, a so-called prime minister."   As soon as we accept all the assumptions that are being made by  this theory of the polity—or implied by it—democracy indeed acquires  a perfectly unambiguous meaning and there is no problem in conne-  xion with it except how to bring itabout. Moreover we need only forget  a few logical qualms in order to be able to add that in this case the  democratic arrangement would not only be the best ofall conceivable  ones, but that few people would care to consider any other. It is no  less obvious however that these assumptions are so many statements of  fact every one of which would have to be proved if we are to arrive at  that conclusion. And it is much easier to disprove them.   [There is, first, no such thing as a uniquely determined common  ood that all people could agree on or be made to agree on by the  force of rational argument] This is due not primarily to the fact that  some people may want thirigs other than the common good but to the  much more fundamental fact that to different individuals and groups    'The official theory of the functions of a cabinet minister holds in fact that he is  appointed in order to see to it that in his department the will of the people prevails.    Y    (3)    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 155    the common good is bound to mean different things. This fact, hidden  from the utilitarian by the narrowness of his outlook on the world  of human valuations, will introduce rifts on questions of principle  which cannot be reconciled by rational argument because ultimate,    value ur. conceptions of what life and what society should be—are  beyond the range of mere logic. They may be bridged by compro-    mise in some cases but notin others. Americans who say, “We want this  country to arm to its teeth and then to fight for what we conceive  to be right all over the globe’ and Americans who say, ‘We want this  country to work outits own problems which is the only way it can serve  humanity’ are facing irreducible differences of ultimate values  which compromise could only maim and degrade.   Secondly, even if a sufficiently definite common good—such as for  instance the utilitarian’s maximum of economic satisfaction'—proved  acceptable to all, this would not imply equally definite answers to  individual issues. Opinions on these might differ to an extent  important enough to produce most of the effects of ‘fundamental’  dissension about ends themselves. The problems centring in the  evaluation of present versus future satisfactions, even the case of  socialism versus capitalism, would be left still open, for instance,  after the conversion of every individual citizen to utilitarianism.  ‘Health’ might be desired by all, yet people would still disagree on  vaccination and vasectomy. And so on.   The utilitarian fathers of democratic doctrine failed to see the  full importance of this simply because none of them seriously con-  sidered any substantial change in the economic framework and the  habits of bourgeois society. They saw little beyond the world of an  eighteenth-century ironmonger.   But, third, as a consequence of both preceding propositions, the  particular concept of the will of the poops or the volonté générale  that the utilitarians made their own vanishes into thin air. For that  concept presupposes the existence ofa uniquely determined common  good discernible to all. Unlike the romanticists the utilitarians had no  notion of that semi-mvystic entity endowed with a will of its own—that  ‘soul of the people’ which the historical school of jurisprudence made  so much of. They frankly derived their will of the people from the    ‘The very meaning of ‘greatest happiness’ is open to serious doubt. But even if this  doubt could be removed and definite meaning could be attached to the sum total of  economic satisfaction of a group of people, that maximum would still be relative to  geven situations and valuations which it may be impossible to alter, or compromise  on, in a democratic way.    156 JOSEPH SCHUMPETER    wills of individuals. And unless there is a centre, the common good,  toward which, in the long run at least, a// individual wills gravitate,  we shall not get that particular tvpe of ‘natural’ volonté generale.  The utilitarian centre of gravity, on the one hand, unifies individual  wills, tends to weld them by means of rational discussion into the  will of the people and, on the other hand, confers upon the latter the  exclusive ethical dignity claimed by the classic democratic creed.  This creed does not consist simply in worshipping the will of the people as such  but rests on certain assumptions about the ‘natural’ object of that will  which object is sanctioned by utilitarian reason. Both the existence and  the dignity of this kind of volonté générale are gone as soon as the  idea of the common good fails us. And both the pillars of the classical  doctrine inevitably crumble into dust.    IJ. THE WILL OF THE PEOPLE AND INDIVIDUAL VOLITION    Of course, however conclusively those arguments may tell against  this particular conception of the will of the people, they do not debar  us from trying to build up another and more realistic one. I do not  intend to question either the reality or the importance of the socio-  psychological facts we think of when speaking of the will of a nation.  Their analysis is certainly the prerequisite for making headway with  the problems of democracy. It would however be better not to retain  the term because this tends to obscure the fact that as soon as we  have severed the will of the people from its utilitarian connotation  we are building not merely a different theory of the same thing, but a  theory of a completely different thing. We have every reason to be on  our guard against the pitfalls that lie on the path of those defenders  of democracy who while accepting, under pressure of accumulating  evidence, more and more of the facts of the democratic process, yet  try to anoint the results that process turns out with oil taken from  eighteenth-century jars.   But though a common will or public opinion of some sort may still  be said to emerge from the infinitely complex jumble of individual and  group-wise situations, volitions, influences, actions and reactions of  the ‘democratic process’, the result lacks not only rational unity but  also rational sanction. The former means that, though from the stand-  point of analysis, the democratic pvocess is not simply chaotic—for  the analyst nothing is chaotic thai can be brought within the reach of  explanatory principles—yet the results would not, except by chance,  be meaningful in themselves—as for instance the realization of any    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 157    definite end or ideal would be. The latter means, since that will is no  longer congruent with any ‘good’, that in order to claim ethical  dignity for the result it will now be necessary to fall back upon an  unqualified confidence in democratic forms of government as such—  a belief that in principle would have to be independent of the desir-  ability of results. As we have seen, it is not easy to place oneself on that  standpoint. But even if we do so, the dropping of the utilitarian  common good still leaves us with plenty of difficulties onour hands.   In particular, we still remain under the practical necessity of  attributing to the will of the individual an independence and a  rational quality that are altogether unrealistic. If we are to argue  that the will of the citizens per se is a political factor entitled to respect,  it must first exist. That is to say, it must be something more than an  indeterminate bundle of vague impulses loosely playing about given  slogans and mistaken impressions. Everyone would have to know  definitely what he wants to stand for. This definite will would have  to be implemented by the ability to observe and interpret correctly  the facts that are directly accessible to everyone and to sift critically  the information about the facts that are not. Finally, from that  definite will and from these ascertained facts a clear and prompt con-  clusion as to particular issues would have to be derived according to  the rules of logical inference—with so high a degree of general  efficiency moreover that one man’s opinion could be held, without  glaring absurdity, to be roughly as good as every other man’s." Andall  this the modal citizen would have to perform for himself and  independently of pressure groups and propaganda,” for volitions and   ‘This accounts for the strongly equalitarian character both of the classical doctrine  of democracy and of popular democratic beliefs. Ic will be pointed out later on how  Equality may acquire the status of an ethical postulate. As a factual statement about  human nature it cannot be true in any conceivable sense. In recognition of this the  postulate itself has often been reformulated so as to mean ‘equality of opportunity’.  But, disregarding even the difficulties inherent in the word opportunity, this reformu-  lation does not help us much because it is actual and not potential equality of  performance in matters of political behaviour that is required if each man’s vote 1s to  carry the same weight in the decision of issues.   It should be noted in passing that democratic phraseology has been instrumental  in fostering the association of inequality of any kind with ‘injustice’ which is so  impartant an element in the psychic pattern of the cnsucdiadlell and in the arsenal  of the politician who uses him. One of the most curious syenproms of this was the  Athenian institution of ostracism or rather the use to which it was sometimes put.  Ostracism consisted in banishing an individual by popular vote, not necessarily    for any ‘veaie? reason: it sometimes served as a method of eliminating an un-  comfortably prominent citizen who was felt to ‘count for more than one’.    2This term is here being used in its original sense and not in the sense which it is  rapidly acquiring at present and which suggests the definition: propaganda is any    158 JOSEPH SCHUMPETER    inferences that are imposed upon the electorate obviously do not  qualify for ultimate data of the democratic process. The question  whether these conditions are fulfilled to the extent required in order  to make democracy work should not be answered by reckless assertion  or equally reckless denial. It can be answered only by a laborious  appraisal of a maze of conflicting evidence.   Before embarking upon this, however, I want to make quite sure  that the reader fully appreciates another point that has been made  already. I will therefore repeat that even if the opinions and desires  of individual citizens were perfectly definite and independent data for  the democratic process to work with, and if everyone acted on them  with ideal rationality and promptitude, it would not necessarily  follow that the political decisions produced by that process from the  raw material of those individual volitions would represent anything  that could in any convincing sense be called the will of the people. It is    not only conceivable but, whenever individual wills are much divided, —  very likely that the political decisions produced will not conform te  ‘what people really want’. Nor can it be replied that, if not exactly  what de want, they will get a ‘fair compromise’. This may be so. The  chances for this to happen are greatest with those issues which are  quantitative in nature or admit of gradation, such as the question how  much is to be spent on unemployment relief provided everybody  favours some expenditure for that purpose. But with qualitative issues,  such as the question whether to persecute heretics or to enter upon  a war, the result attained may well, though for different reasons, be  equally distasteful to all the people whereas the decision imposed by  a non-democratic agency might prove much more acceptable to them.  An example will illustrate. I may, I take it, describe the rule of  Napoleon, when First Consul, as a military dictatorship. One of the  most pressing political needs of the moment wasa religious settlement  that would clear the chaos left by the revolution and the directorate  and bring peace to millions of hearts. This he achieved by a number  of master strokes, culminating in a concordat with the Pope (1801) and  the ‘organic articles’ (1802) that, reconciling the irreconcilable, gave  just the right amount of freedom to religious worship while strongly    statement emanating from a source that we do not like. I suppose that the term derives  from the name of the committee of cardinals which deals with matters concerning the  spreading of the Catholic faith, the congregatio de propaganda fide. In itself therefore it   es not carry any derogatory meaning and in particular it does not imply distortion  of facts. One can make propaganda, for instance, for a scientific method. It simply  means the presentation of facts and arguments with a view to influencing people’s  actions or opinions in a definite direction.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 159    upholding the authority of the state. He also reorganized and  refinanced the French Catholic church, solved the delicate question of  the ‘constitutional’ clergy, and most successfully launched the new  establishment with a minimum of friction. If ever there was any  justification at all for holding that the people actually want some-  thing definite, this arrangement affords one of the best instances in  history. This must be obvious to anyone who looks at the French class  structure of that time and it is amply borne out by the fact that this  ecclesiastical policy greatly contributed to the almost universal  popularity which the consular regime enjoyed. But it is difficult to see  how this result could have been achieved in a democratic way. Anti-  church sentiment had not died out and was by no means confined to  the vanquished Jacobins. People of that persuasion, or their leaders,  could not possibly have compromised to that extent.' On the other  end of the scale, a strong wave of wrathful Catholic sentiment was  steadily gaining momentum. People who shared that sentiment, or  leaders dependent on their good will, could not possibly have stopped  at the Napoleonic limit; in particular, they could not have dealt so  firmly with the Holy See for which moreover there would have been no  motive to give in, seeing which way things were moving. And the will  of the peasants who more than anything else wanted their priests, their  churches and processions would have been paralyzed by the very  natural fear that the revolutionary settlement of the land question  might be endangered once the clergy—the bishops especially—were  in the saddle again. Deadlock or interminable struggle, engendering  increasing irritation, would have been the most probable outcome of  any attempt to settle the question democratically. But Napoleon was  able to settle it reasonably, precisely because all those groups which  could not yield their points of their own accord were at the same time  able and willing to accept the arrangement if imposed.   This instance of course is not an isolated one.” Ifresults that prove in  the long run satisfactory to the people at large are made the test of  government for the people, than government by the people, as  conceived by the classical doctrine of democracy, would often fail to  meet it.   'The legislative bodies, cowed though they were, completely failed in fact to support  Napoleon in this policy. And some of his most trusted paladins opposed it.    2Other instances could in fact be adduced from Napoleon’s practice. He was an  autocrat who, whenever his dynastic interests and his foreign policy were not con-  cerned, simply strove to do what he conceived the people wanted or needed. This is  what the advice amounted to which he gave to Eugéne Beauharnais concerning the  latter’s administration of northern Italy.    160 JOSEPH SCHUMPETER    III. HUMAN NATURE IN POLITICS    It remains to answer our question about the definiteness and  independence of the voter’s will, his powers of observation and  interpretation of facts, and his ability to draw, clearly and promptly,  rational inferences from both. This subject belongs to a chapter  of social psychology that might be enutled Human Nature in Politics.’   During the second half of the last century, the idea of the human  personality that is a homogeneous unit and the idea of a definite  will that is the prime mover of action have been steadily fading—even  before the times of Théodule Ribot and of Sigmund Freud. In  particular, these ideas have been increasingly discounted in the  field of social sciences where the importance of the extra-rational and  irrational element in our behaviour has been receiving more and  more attention, witness Pareto’s Mind and Society. Of the many sources  of the evidence that accumulated against the hypothesis of rationality,  I shall mention only two.   The one—in spite of much more careful later work—may still be  associated with the name of Gustave Le Bon, the founder or, at an  rate, the first effective exponent of the psychology of crowds (psychologie  des foules).? By showing up, though overstressing, the realities of  human behaviour when under the influence of agglomeration—in  particular the sudden disappearance, in a state of excitement, of  moral restraints and civilized modes of thinking and feeling, the  sudden eruption of primitive impulses, infantilisms and criminal  propensities—he made us face gruesome facts that everybody knew  but nobody wished to see and he thereby dealt a serious blow to the    ‘This is the title of the frank and charming book by one of the most lovable English  radicals who ever lived, Graham Wallas. In spite of all that has since been written on the  subject and especially in spite of all the‘detailed case studies that now make it possible  to see so much more clearly, that book may still be recommended as the best introduc-  tion to political psychology. Yet, after having stated with admirable honesty the case  against the uncritical acceptance of the classical doctrine, the author fails to draw the  obvious conclusion. This is all the more remarkable because he rightly insists on the  necessity of a scientific attitude of mind and because he does not fail to take Lord  Bryce to task for having, in his book on the American commonwealth, professed him-  self ‘grimly’ resolved to see some blue sky in the midst of clouds of disillusioning facts.  Why, so Graham Wallas seems to exclaim, what should we say of a meteorologist who  insisted from the outset that he saw some blue sky? Nevertheless in the constructive  part of his book he takes much the same ground. |   *The German term, Massenpsychologie, suggests a warning: the psychology of crowds  must not be confused with the psychology of the masses. The former does not neces-  sarily carry any class connotation and in itself has nothing to do with a study of the  ways of thinking and feeling of, say, the working class.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 161    picture of man’s nature which underlies the classical doctrine of  democracy and democratic folklore about revolutions. No doubt  there is much to be said about the narrowness of the factual basis of  Le Bon’s inferences which, for instance, do not fit at all well the  normal behaviour of an English or Anglo-American crowd. Critics,  especially those to whom the implications of this branch of social  psychology were uncongenial, did not fail to make the most of its  vulnerable points. But on the other hand it must not be forgotten  that the phenomena of crowd psychology are by no means confined to  mobs rioting in the narrow streets of a Latin town. Every parliament,  every committee, every council of war composed ofa dozen generals in  their sixties, displays, in however mild a form, some of those features  that stand out so glaringly in the case of the rabble, in particular a re-  duced sense of responsibility, a lower level of energy of thought and  greater sensitiveness to non-logical influences. Moreover, those  phenomena are not confined to a crowd in the sense of a physical  agglomeration of many people. Newspaper readers, radio audiences,  members of a party even if not physically gathered together are  terribly easy to work up into a psychological crowd and into a state  of frenzy in which attempt at rational argument only spurs the animal  spirits.   The other source of disillusioning evidence that I am going to  mention is a much humbler one—no blood flows from it, only  nonsense. Economists, learning to observe their facts more closely,  have begun to discover that, even in the most ordinary currents of  daily life, their consumers do not quite live up to the idea that the  economic text-book used to convey. On the one hand their wants are  nothing like as definite and their actions upon those wants nothing  like as rational and prompt. On the other hand they are so amenable  to the influence of advertising and other methods of persuasion that  producers often seem to dictate to them instead of being directed by  them. The technique of successful advertising is particularly instruc-  tive. There is indeed nearly always some appeal to reason. But mere  assertion, often repeated, counts more than rational argument and so  does the direct attack upon the subconscious which takes the form of  attempts to evoke and crystallize pleasant associations of an entirely  extra-rational, very frequently of a sexual, nature.   The conclusion, while obvious, must be drawn with care. In the  ordinary run of often repeated decisions the individual is subject to  the salutary and rationalizing influence of favourable and unfavour-  able experience. He is also under the influence of relatively simple and    162 JOSEPH SCHUMPETER    unproblematical motives and interests which are but occasionally  interfered with by excitement. Historically, the consumers’ desire for  shoes may, at least in part, have been shaped by the action of pro-  ducers offering attractive footgear and campaigning for it; yet at any  given time it is a genuine want, the definiteness of which extends  beyond ‘shoes in general’ and which prolonged experimenting clears  of much of the irrationalities that may originally have surrounded  it.! Moreover, under the stimulus of those simple motives consumers  learn to act upon unbiased expert advice about some things (houses,  motor-cars) and themselves become experts in others. Itis simply not  true that housewives are easily fooled in the matter of foods, familiar  household articles, wearing apparel. And, as every salesman knows to  his cost, most of them have a way of insisting on the exact article they  want.   This of course holds true still more obviously on the producers’  side of the picture. No doubt, a manufacturer may be indolent, a bad  judge of opportunities or otherwise incompetent; but there is an  effective mechanism that will reform or eliminate him. Again  Taylorism rests on the fact that man may perform simple handicraft  operations for thousands of years and yet perform them inefficiently.  But neither the intention to act as rationally as possible nor a steady  pressure toward rationality can seriously be called into question at  whatever level of industrial or commercial activity we choose to look.?   And so it is with most of the decisions of daily life that lie within the  little field which the individual citizen’s mind encompasses with a full  sense of its reality. Roughly, it consists of the things that directly  concern himself, his family, his business dealings, his hobbies, his  friends and enemies, his township or ward, his class, church, trade  union or any other social group of which he is an active member—  the things under his personal observation, the things which are  familiar to him independently of what his newspaper tells him, which  he can directly influence or manage and for which he develops the kind    ‘In the above passage irrationality means failure to act rationally upon a given wish.  It does not refer to the reasonableness of the wish itself in the opinion of the observer.  This is important to note because economists in appraising the extent of consumers’  irrationality sometimes exaggerate it by confusing the two things. Thus, a ee Es  finery may seem to a professor an indication of irrational behaviour for which there is  no other explanation but the advertiser’s arts. Actually, it may be all she craves for.  If so her expenditure on it may be ideally rational in the above sense.   2This level differs of course not only as between epochs and places but also, ata given  time and place, as between different industrial sectors and classes. There is no such  thing as a universal pattern of rationality.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 163    of responsibility that is induced by a direct relation to the favourable  or unfavourable effects of a course of action.   Once more: definiteness and rationality in thought and action’ are  not guaranteed by this familiarity with men and things or by that  sense of reality or responsibility. Quite a few other conditions which  often fail to be fulfilled would be necessary for that. For instance,  generation after generation may suffer from irrational behaviour in  matters of hygiene and yet fail to link their sufferings with their  noxious habits. As long as this is not done, objective consequences,  however regular, of course do not produce subjective experience.  Thus it proved unbelievably hard for humanity to realize the relation  between infection and epidemics: the facts pointed to it with what to  us seems unmistakable clearness; yet to the end of the eighteenth  century doctors did next to nothing to keep people afflicted with  infectious disease, such as measles or smallpox, from mixing with  other people. And things must be expected to be still worse whenever  there is not only inability but reluctance to recognize causal relations  or when some interest fights against recognizing them.   Nevertheless and in spite of all the qualifications that impose them-  selves, there is for everyone, within a much wider horizon, a narrower  field—widely differing in extent as between different groups and  individuals and bounded by a broad zone rather than a sharp line—  which is distinguished by a sense of reality or familiarity or respon-  sibility. And this field harbours relatively definite individual volitions.  These may often strike us as unintelligent, narrow, egotistical; and it  may not be obvious to everyone why, when it comes to political  decisions, we should worship at their shrine, still less why we should  feel bound to count each of them for one and none of them for more  than one. If, however, we do choose to worship we shall at least not  find the shrine empty.?    ‘Rationality of thought and rationality of action are two different things. Rationality  of thought does not always guarantee rationality of action. And the latter may be  present without any conscious deliberation and irrespective of any ability to formulate  the rationale of one’s action correctly. The observer, particularly the observer who  uses interview and questionnaire methods, often overlooks this and hence acquires an  exaggerated idea of the importance of irrationality in behaviour. This is another source  of those overstatements which we meet so often.    21t should be observed that in speaking of definite and genuine volitions I do not  mean to exalt them into ultimate data for all kinds of social analysis Of course they are  themselves the product of the social process and the social environment. All Imean  is that they may serve as data for the kind of special-purpose analysis which the  economist has in mind when he derives prices from tastes or wants that are ‘given’ at  any moment and need not be further analysed each time. Similarly we may for our pur-    164 JOSEPH SCHUMPETER    Now this comparative definiteness of volition and rationality of  behaviour does not suddenly vanish as we move away from those  _concerns of daily life in the home and in business which educate  and discipline us. In the realm of public affairs there are sectors  that are more within the reach of the citizen’s mind than others.  This is true, first, of local affairs. Even there we find a reduced power  of discerning facts, areduced preparedness toact upon them, areduced  sense of responsibility. We all know the man—and a very good speci-  men he frequently is—who says that the local administration is not his  business and callously shrugs his shoulders at practices which he  would rather die than suffer in his own office. High-minded citizens  in a hortatory mood who preach the responsibility of the individual  voter or taxpayer invariably discover the fact that this voter does  not feel responsible for what the local politicians do. Still, especially  in communities not too big for personal contacts, local patriotism  may be a very important factor in ‘making democracy work’, Also, the  problems of a town are in many respects akin to the problems ofa  manufacturing concern. The man who understands the latter also  understands, to some extent, the former. The manufacturer, grocer or  workman need not step out of his world to havea rationally defensible  view (that may of course be right or wrong) on street cleaning or town  halls.   Second, there are many national issues that concern individuals and  groups so directly and unmistakably as to evoke volitions that are  genuine and definite enough. The most important instance is afforded  by issues involving immediate and personal pecuniary profit to  individual voters and groups of voters, such as direct payments, pro-  tective duties, silver policies and so on. Experience that goes back to  antiquity shows that by and large voters react promptly and rationally  to any such chance. But the classical doctrine of democracy evidently  stands to gain little from displays of rationality of this kind. Voters  thereby prove themselves bad and indeed corrupt judges of such  issues,’ and often they even prove themselves bad judges of their own    ps speak of genuine and definite volitions that at any moment are given independent-  of attempts to manufacture them, although we recognize that these genuine volitions  themselves are the result of environmental influences in the past, propagandist  influences included. This distinction between genuine and mukeldared will (see  below) is a difficult one and cannot be applied in all cases and for all purposes. For  our purpose however it is sufficient to point to the obvious common-sense case which  can be made for it.   'The reason why the Benthamites so completely overlooked this is that they did not    consider the possibilities of mass corruption in modern capitalism. Committing in  their political theory the same error which they committed in their economic theory,    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 165    long-run interests, for it is only the short-run promise that tells  politically and only short-run rationality that asserts itself effectively.   However, when we move still farther away from the private con-  cerns of the family and the business office into those regions of  national and international affairs that lack a direct and unmistakable  link with those private concerns, individual volition, command of facts  and method of inference soon cease to fulfil the requirements of the  classical doctrine. What strikes me most of all and seems to me to be  the core of the trouble is the fact that the sense of reality’ is so  completely lost. Normally, the great political questions take their  place in the psychic economy of the typical citizen with those leisure-  hour interests that have not attained the rank of hobbies, and with  the subjects of irresponsible conversation. These things seem so far  off; they are not at all like a business proposition; dangers may not  materialize at all and if they should they may not prove so very  serious; one feels oneself to be moving ina fictitious world.   This reduced sense of reality accounts not only for a reduced  sense of responsibility but also for the absence of effective volition.  One has one’s phrases, of course, and one’s wishes and daydreams  and grumbles; especially, one has one’s likes and dislikes. But  ordinarily they do not amount to what we call a will—the psychic  counterpart of purposeful responsible action. In fact, for the  private citizen musing over national affairs there is no scope for such  a will and no task at which it could develop. He is a member of an  unworkable committee, the committee of the whole nation, and this  is why he expends less disciplined effort on mastering a political  problem than he expends on a game of bridge.”    they felt no compunction about postulating that, ‘the people’ were the best judges  of their own individual interests and that these must necessarily coincide with the  interests of all the people taken together. Of course this was made easier for them  because actually though not intentionally they philosophized in terms of bourgeois  interests which had more to gain from a parsimonious state than from any direct  bribes.    ‘William James’ ‘pungent sense of reality’. The relevance of this point has been  particularly emphasized by Graham Wallas.    2It will help to clarify the point if we ask ourselves why so much more intelligence  and clear-headedness show up at a bridge table than in, say, political discussion among  non-politicians. At the bridge table we have a definite task; we have rules that  discipline us; success and failure are clearly defined; and we are prevented from  behaving irresponsibly because every mistake we make will not only immediately tell  but also be immediately allocated to us. These conditions, by iheit failure to be  fulfilled for the political behaviour of the ordinary citizen, show why it is that in  politics he lacks a 1 the alertness and the judgement he may display in his profession.    166 JOSEPH SCHUMPETER    The reduced sense of responsibility and the absence of effective  volition in turn explain the ordinary citizen’s ignorance and lack of  judgement in matters of domestic and foreign policy which are ifany-  thing more shocking in the case of educated people and of people who  are successfully active in non-political walks of life than it is with  uneducated people in humble stations. Information is plentiful and  readily available. But this does not seem to make any difference. Nor  should we wonder at it. We need only compare a lawyer’s attitude to  his brief and the same lawyer’s attitude to the statements of political  fact presented in his newspaper in order to see what is the matter. In  the one case the lawyer has qualified for appreciating the relevance of  his facts by years of purposeful labour done under the definite  stimulus of interest in his professional competence; and under a  stimulus that is no less powerful he then bends his acquirements, his  intellect, his will to the contents of the brief. In the other case, he  has not taken the trouble to qualify; he does not care to absorb the  information or to apply to it the canons of criticism he knows so well  how to handle; and he is impatient of long or complicated argument.  All of this goes to show that without the initiative that comes from  immediate responsibility, ignorance will persist in the face of masses  of information however complete and correct. It persists even in the  face of the meritorious efforts that are being made to go beyond  presenting information and to teach the use ofit by means of lectures,  classes, discussion groups. Results are not zero. But they are small.  People cannot be carried up the ladder.   Thus the typical citizen drops down to a lower level of mental  performance as soon as he enters the political field. He argues and  analyses in a way which he would readily recognize as infantile within  the sphere of his real interests. He becomes a primitive again. His  thinking becomes associative and affective.’ And this entails two  further consequences of ominous significance.   First, even if there were no political groups trying to influence  him, the typical citizen would in political matters tend to yield to  extra-rational or irrational prejudice and impulse. The weakness of  the rational processes he applies to politics and the absence of  effective logical control over the results he arrives at would in  themselves suffice to account for that. Moreover, simply because he  is not ‘all there’, he will relax his usual moral standards as well and  occasionally give in to dark urges which the conditions of private    1See ch. xii.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 167    life help him to repress. But as to the wisdom or rationality of his  inferences and conclusions, it may be just as bad if he gives in to a  burst of generous indignation. This will make it still more difficult  for him to see things in their correct proportions or even to see more  than one aspect of one thing at a time. Hence, if for once he-does  emerge from his usual vagueness and does display the definite will  postulated by the classical doctrine of democracy, he is as likely as  not to become still more unintelligent and irresponsible than he  usually is. At certain junctures, this may prove fatal to his nation.’   Second, however, the weaker the logical element in the processes of  the public mind and the more complete the absence of rational criti-  cism and of the rationalizing influence of personal experience and  responsibility, the greater are the opportunities for groups with an  axe to grind. These groups may consist of professional politicians or of  exponents of an economic interest or of idealists of one kind or  another or of people simply interested in staging and managing  political shows. The sociology of such groups is immaterial to the  argument in hand. The only point that matters here is that, Human  Nature in Politics being what it is, they are able to fashion and,  within very wide limits, even to create the will of the people. What we  are confronted with in the analysis of political processes is largely  not a genuine but a manufactured will. And often this artefact is all  that in reality corresponds to the volonté générale of the classical  doctrine. So far as this is so, the will of the people is the product and  not the motive power of the political process.   The ways in which issues and the popular will on any issue are being  manufactured is exactly analogous to the ways ot commercial advertis-  ing. We find the same attempts to contact the subconscious. We find  the same technique of creating favourable and unfavourable associa-  tions which are the more effective the less rational they are. We find  the same evasions and reticences and the same trick of producing  opinion by reiterated assertion that is successful precisely to the  extent to which it avoids rational argument and the danger of  awakening the critical faculties of the people. And so on. Only, all    ‘The importance of such bursts cannot be doubted. But it is possible to doubt  their genuineness. Analysis will show in many instances that they are induced by  the action of some group and do not spontaneously arise from the people. In this  case they enter into a (second) class of phenomena which we are about to deal with.  Persona! ly, I do believe that genuine instances exist. But I cannot be sure that more  thorough analysis would not reveal some psycho-technical effort at the bottom of  them.    168 JOSEPH SCHUMPETER    these arts have infinitely more scope in the sphere of public affairs  than they have in the sphere of private and professional life. The  picture of the prettiest girl that ever lived will in the long run prove  powerless to maintain the sales of a bad cigarette. There is no equally  effective safeguard in the case of political decisions. Many decisions of  fateful importance are of a nature that makes it impossible for the  public to experiment with them at its leisure and at moderate cost.  Even if that is possible, however, judgement is as a rule not so easy to  arrive at as it is in the case of the cigarette, because effects are less easy  to interpret.   But such arts also vitiate, to an extent quite unknown in the field of  commercial advertising, those forms of political advertising that  profess to address themselves to reason. To the observer, the antira-  tional or, at all events, the extra-rational appeal and the defenceless-  ness of the victim stand out more and not less clearly when cloaked in  facts and arguments. We have seen above why it is so difficult to impart  to the public unbiased information about political problems and  logically correct inferences from it and why it is that information and  arguments in political matters will ‘register’ only if they link up  with the citizen’s preconceived ideas. As a rule, however, these  ideas are not definite enough to determine particular conclusions.  Since they can themselves be manufactured, effective political argu-  ment almost inevitably implies the attempt to twist existing volitional  premises into a particular shape and not merely the attempt to im-  plement them or to help the citizen to make up his mind.   Thus information and arguments that are really driven home are  likely to be the servants of political intent. Since the first thing man  will do for his ideal or interest is to lie, we shall expect, and as a  matter of fact we find, that effective information is almost always  adulterated or selective! and that effective reasoning in politics  consists mainly in trying to exalt certain propositions into axioms  and to put others out of court; it thus reduces to the psycho-technics  mentioned before. The reader who thinks me unduly pessimistic need  only ask himself whether he has never heard—or said himself—that  this or that awkward fact must not be told publicly, or that a certain  line of reasoning, though valid, is undesirable. If men who according  to any current standard are perfectly honourable or even high-  minded reconcile themselves to the implications of this, do they not  thereby show what they think about the merits or even the existence  of the will of the people?    Selective information, if in itself correct, is an attempt to lie by speaking the truth.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 169    There are of course limits to all this.! And there is truth in Jefferson’s  dictum that in the end the people are wiser than any single individual    can be, or in Lincoln’s about the impossibility of ‘fooling all the    peaple all the time’. But both dicta stress the long-run aspect ina  highly significant way. It is no doubt possible to argue that given time  us_as highly reasonable and even shrewd. History however consists  “of a succession of short-run situations that may alter the course of  events for good. If all the people can in the short run be ‘fooled’ step  by step into something they do not really want, and if this is not an  exceptional case which we could afford to neglect, then no amount  of retrospective common sense will alter the fact that in reality they  neither raise nor decide issues but that the issues that shape their fate  are normally raised and decided for them. More than anyone else the  lover of democracy has every reason to accept this fact and to clear his  creed from the aspersion that it rests upon make-believe.    IV. REASONS FOR THE SURVIVAL OF THE CLASSICAL DOCTRINE    But how is it possible that a doctrine so patently contrary to fact  should have survived to this day and continued to hold its place in the  hearts of the people and in the official language of governments ? The  refuting facts are known to all; everybody admits them with perfect,  frequently with cynical, frankness. The theoretical basis, utilitarian  rationalism, is dead; nobody accepts it as a correct theory of the body  politic. Nevertheless that question is not difficult to answer.   First of all, though the classical doctrine of collective action may  not be supported by the results of empirical analysis, it is powerfully  supported by that association with religious belief to which I have  adverted already. This may not be obvious at first sight. The utilitarian  leaders were anything but religious in the ordinary sense of the term.  In fact they believed themselves to be anti-religious and they were so  considered almost universally. They took pride in what they thought  was precisely an unmetaphysical attitude and they were quite out of  sympathy with the religious institutions and the religious move-  ments of their time. But we need only cast another glance at the picture  they drew of the social process in order to discover that it embodied  essential features of the faith of protestant Christianity and was in    ‘Possibly they might show more clearly if issues were more frequently decided  by referertdum. Politicians presumably know why they are almost invariably hostile  to that institution, ;    170 JOSEPH SCHUMPETER    fact derived from that faith. For the intellectual who had cast off his  religion the utilitarian creed provided a substitute for it. For many of  those who had retained their religious belief the classical doctrine  became the political complement of it.!   Thus transposed into the categories of religion, this doctrine—and  in consequence the kind of democratic persuasion which is based  upon it—changes its very nature. There is no longer any need for  logical scruples about the Common Good and Ultimate Values. All  this is settled for us by the plan of the Creator whose purpose defines  and sanctions everything. What seemed indefinite or unmotivated  before is suddenly quite definite and convincing. The voice of the  people that is the voice of God for instance. Or take Equality. Its  very meaning is in doubt, and there is hardly any rational warrant for  exalting it into a postulate, so long as we move in the sphere of  empirical analysis. But Christianity harbours a strong equalitarian  element. The Redeemer died for all: He did not differentiate between  individuals of different social status. In doing so, He testified to the  intrinsic value of the individual soul, a value that admits of no grada-  tions. Is not this a sanction—and, as it seems to me, the only possible  sanction’—of ‘everyone to count for one, no one to count for more  than one’—a sanction that pours super-mundane meaning into  articles of the democratic creed for which it is not easy to find any  other? To be sure this interpretation does not cover the whole ground.  However, so far as it goes, it seems to explain many things that other-  wise would be unexplainable and in fact meaningless. In particular,  it explains the believer’s attitude toward criticism: again, as in the  case of socialism, fundamental dissent is looked upon not merely as  error but as sin; it elicits not merely logical counterargument but  also moral indignation.   We may put our problem differently and say that democracy, when  motivated in this way, ceases to be a mere method that can be dis-    ‘Observe the analogy with socialist belief which also is a substitute for Christian  belief to some and a complement of it to others.    It might be objected that, however difficult it may be to attach a general meaning  to the word Equality, such meaning can be unravelled from its context in most if not  all cases. For instance, it may be permissible to infer from the circumstances in which  the ge pi address was delivered that by the ‘proposition that all men are created  free and equal’, Lincoln simply meant equality ae legal status versus the kind of  inequality that is implied in the recognition of slavery. This meaning would be  definite enough. But if we ask why that proposition should be morally and politically  binding and if we refuse to answer ‘Because every man is by nature exactly like every  other man’, then we can only fall back upon the divine sanction supplied by Christian  belief. This solution is conceivably implied in the word ‘created’.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 171    cussed rationally like a steam engine or a disinfectant. It actually  becomes what from another standpoint I have held it incapable of  becoming, viz., an ideal or rather a part of an ideal schema of things.  The very word may become a flag, a symbol of alla man holds dear, of  everything that he loves about his nation whether rationally con-  tingent to it or not. On the one hand, the question how the various  propositions implied in the democratic belief are related to the facts  of politics will then become as irrelevant to him as is, to the believing  Catholic, the question how the doings of Alexander VI tally with the  supernatural halo surrounding the papal office. On the other hand,  the democrat of this type, while accepting postulates carrying large  implications about equality and brotherliness, will be in a position  also to accept, in all sincerity, almost any amount of deviations from  them that his own behaviour or position may involve. That is not even  illogical. Mere distance from fact is no argument against an ethical  maxim or a mystical hope.   Second, there is the fact that the forms and phrases of classical  democracy are for many nations associated with events and develop-  ments in their history which are enthusiastically approved by large  majorities. Any opposition to an established regime is likely to use  these forms and phrases whatever its meaning and social roots may  be. If it prevails and if subsequent developments prove satisfactory,  then these forms will take root in the national ideology.   The United States is the outstanding example. Its very existence  as a sovereign state is associated with a struggle against a monarchial  and aristocratic England. A minority of loyalists excepted, Americans  had, at the time of the Grenville administration, probably ceased to  look upon the English monarch as their king and the English aristo-  cracy as their aristocracy. In the War of Independence they fought  what in fact as well as in their feeling had become a foreign monarch  and a foreign aristocracy who interfered with their political and  economic interests. Yet from an early stage of the troubles they  presented their case, which really was a national one, as a case of the  ‘people’ versus its ‘ruler’, in terms of inalienable Rights of Man and  in the light of the general principles of classical democracy. The  wording of the Declaration of Independence and of the Constitution    ‘It might seem that an exception should be made for oppositions that issue into  frankly autocratic regimes, But even most of these rose, as a matter of history, in  democratic ways and based their rule on the approval of the people. Caesar was  not killed by plebeians. But the aristocratic oligarchs who did kil him also used  democratic phrases.    172 JOSEPH SCHUMPETER    adopted these principles. A prodigious development followed that  absorbed and satisfied most people and thereby seemed to verify the  doctrine embalmed in the sacred documents of the nation.  Oppositions rarely conquer when the groups in possession are in  the prime of their power and success. In the first half of the nineteenth  century, the oppositions that professed the classical creed of democracy  rose and eventually prevailed against governments some of which—  especially in Italy—were obviously in a state of decay and had become  bywords of incompetence, brutality and corruption. Naturally though  not quite logically, this redounded to the credit of that creed which  moreover showed up to advantage when compared with the benighted  superstitions sponsored by those governments. Under these cir-  cumstances, democratic revolution meant the advent of freedom and  decency, and the democratic creed meant a gospel of reason and  betterment. To be sure, this advantage was bound to be lost and the  gulf between the doctrine and the practice of democracy was bound  to be discovered. But the glamour of the dawn was slow to fade.  Third, it must not be forgotten that there are social patterns in  which the classical doctrine will actually fit facts with a sufficient  degree of approximation. As has been pointed out, this is the case  with many small and primitive societies which as a matter of fact  served as a prototype to the authors of that doctrine. It may be the  case also with societies that are not primitive provided they are not  too differentiated and do not harbour any serious problems.  Switzerland is the best example. There is so little to quarrel about in  a world of peasants which, excepting hotels and banks, contains no  great capitalist industry, and the problems of public policy are so  simple and so stable that an overwhelming majority can be expected  to understand them and to agree about them. But if we can conclude  that in such cases the classical doctrine approximates reality we  have to add immediately that it does so not because it describes an  effective mechanism of political decision but only because there are  no great decisions to be made. Finally, the case of the United States  may again be invoked in order to show that the classical doctrine  sometimes appears to fit facts even in a society that is big and highly  differentiated and in which there are great issues to decide provided  the sting is taken out of them by favourable conditions. Until this  country’s entry into the First World War, the public mind was con-  cerned mainly with the business of exploiting the economic possi-  bilities of the environment. So long as this business was not seriously  interfered with nothing mattered fundamentally to the average citizen    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 173    who looked on the antics of politicians with good-natured contempt.  Sections might get excited over the tariff, over silver, over local  misgovernment, or over an occasional squabble with England. The  people at large did not care much, except in the one case of serious  disagreement which in fact produced national disaster, the Civil War.   And fourth, of course, politicians appreciate a phraseology that  flatters the masses and offers an excellent opportunity not only for  evading responsibility but also for crushing opponents in the name of  the people.    2-ANOTHER THEORY OF DEMOCRACY  I. COMPETITION FOR POLITICAL LEADERSHIP    I THINK that most students of politics have by now come to accept the  criticisms levelled at the classical doctrine of democracy in the preced-  ing chapter. I also think that most of them agree, or will agree before  long, in accepting another theory which is much truer to life and at  the same time salvages much of what sponsors of the democratic  method really mean by this term. Like the classical theory, it may be  put into the nutshell of a definition.   It will be remembered that our chief troubles about the classical  theory centred in the proposition that ‘the people’ hold a definite  and rational opinion about every individual question and that they  give effect to this opinion—in a democracy—by choosing ‘represent-  atives’ who will see to it that that opinion is carried out. Thus the  selection of the representatives is made secondary to the primary  purpose of the democratic arrangement which is to vest the power of  deciding political issues in the electorate. Suppose we reverse the  roles of these two elements and make the deciding of issues by the  electorate secondary to the election of the men who are to do the  deciding. To put it differently, we now take the view that the role of  the people is to produce a government, or else an intermediate body  which in turn will produce a national executive!or government. And  we define: the democratic method is that institutional arrangement  for arriving at political decisions in which individuals acquire the    1The insincere word ‘executive’ really points in the wrong direction. It ceases  however to do so if we use it in the sense in which we speak of the ‘executives’ of a  business corporation who also do a great deal more than ‘execute’ the will of stock-  holders.    174 JOSEPH SCHUMPETER    power to decide by means of a competitive struggle for the people’s  vote.   Defence and explanation of this idea will speedily show that, as  to both plausibility of assumptions and tenability of propositions,  it greatly improves the theory of the democratic process.   First of all, we are provided with a reasonably efficient criterion  by which to distinguish democratic governments from others. We  have seen that the classical theory meets with difficulties on that score  because both the will and the good of the people may be, and inmany  historical instances have been, served just as well or better by govern-  ments that cannot be described as democratic according to any  accepted usage of the term. Now we are ina somewhat better position  partly because we are resolved to stress a modus procedendi the presence  or absence of which it is in most cases easy to verify.   For instance, a parliamentary monarchy like the English one ful-  fils the requirements of the democratic method because the monarch  is practically constrained to appoint to cabinet office the same people  as parliament would elect. A ‘constitutional’ monarchy does not  qualify to be called democratic because electorates and parliaments,  while having all the other rights that electorates and parliaments have  in parliamentary monarchies, lack the power to impose their choice  as to the governing committee: the cabinet ministers are in this case  servants of the monarch, in substance as well as in name, and can in  principle be dismissed as well as appointed by him. Such an arrange-  ment may satisfy the people. The electorate may reaffirm this fact by  voting against any proposal for change. The monarch may be so  popular as to be able to defeat any competition for the supreme  office. But since no machinery is provided for making this competition  effective the case does not come within our definition.   Second, the theory embodied in this definition leaves all the room  we may wish to have for a proper recognition of the vital fact of  leadership. The classical theory did not do this but, as we have seen,  attributed to the electorate an altogether unrealistic degree of in-  itiative which practically amounted to ignoring leadership. But  collectives act almost exclusively by accepting leadership—this is  the dominant mechanism of practically any collective action which is  more than a reflex. Propositions about the working and the results of  the democratic method that take account of this are bound to be  infinitely more realistic than propositions which do not. They will not    ‘See however the fourth point below.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 175    stop at the execution of a volonté générale but will go some way toward  showing how it emerges or how it is substituted or faked. What we have  termed Manufactured Will is no longer outside the theory, an aberra-  tion for the absence of which we piously pray; it enters on the ground  floor as it should.   Third, however, so far as there are genuine group-wise volitions  at all—for instance the will of the unemployed to receive unemploy-  ment benefit or the will of other groups to help—our theory does not  neglect them. On the contrary we are now able to insert them in  exactly the role they actually play. Such volitions do not as a rule  assert themselves directly. Even if strong and definite they remain  latent, often for decades, until they are called to life by some political  leader who turns them into political factors. This he does, or else his  agents do it for him, by organizing these volitions, by working them up  and by including eventually appropriate items in his competitive  offering. The interaction between sectional interests and public  opinion and the way in which they produce the pattern we call the  political situation appear from this angle in a new and much clearer  light.   Fourth, our theory is of course no more definite than is the concept  of competition for leadership. This concept presents similar difficulties  as the concept of competition in the economic sphere, with which it  may be usefully compared. In economic life competition is never com-  pletely lacking, but hardly ever is it perfect.! Similarly, in political  life there is always some competition, though perhaps only a potential  one, for the allegiance of the people. To simplify matters we have  restricted the kind of competition for leadership which is to define  democracy, to free competition for a free vote. The justification for  this is that democracy seems to imply a recognized method by which  to conduct the competitive struggle, and that the electoral method is  practically the only one available for communities of any size. But  though this excludes many ways of securing leadership which should  be excluded,? such as competition by military insurrection, it does  not exclude the cases that are strikingly analogous to the economic    ‘In Part II we had examples of the problems which arise out of this.    21It also excludes methods which should not be excluded, for instance, the acquisition  of political leadership by the people’s tacit acceptance of it or by election guast per  inspirationem. The latter differs ee election by voting only by a technicality. But the  former is not quite without importance even in modern politics; the swa held by a  party boss within his party is often based on nothing but tacit acceptance of his leader-  ship. Comparatively speaking however these are details which may, I think, be  neglected in a sketch like this.    176 JOSEPH SCHUMPETER    phenomena we label ‘unfair’ or ‘fraudulent’ competition or restraint  of competition. And we cannot exclude them because if we did we  should be left with a completely unrealistic ideal.! Between this ideal  case which does not exist and the cases in which all competition with  the established leader is prevented by force, there is a continuous  range of variation within which the democratic method of government  shades off into the autocratic one by imperceptible steps. But if we  wish to understand and not to philosophize, this is as it should be.  The value of our criterion is not seriously impaired thereby.   Fifth, our theory seems to clarify the relation that subsists between  democracy and individual freedom. If by the latter we mean the  existence of a sphere of individual self-government the boundaries of  which are historically variable—no society tolerates absolute freedom  even of conscience and of speech, no society reduces that sphere to  zero—the question clearly becomes a matter of degree. We have seen  that the democratic method does not necessarily guarantee a greater  amount of individual freedom than another political method would  permit in similar circumstances. It may well be the other way round.  But there is still a relation between the two. If, on principle at least,  everyone is free to compete for political leadership? by presenting  himself to the electorate, this will in most cases though not in all  mean a considerable amount of freedom of discussion for all. In  particular it will normally mean a considerable amount of freedom of  the press. This relation between democracy and freedom is notabsolute-  ly stringent and can be tampered with. But, from the standpoint of  the intellectual, it is nevertheless very important. At the same ume,  it is all there is to that relation.   Sixth, it should be observed that in making it the primary function  of the electorate to produce a government (directly or through an  intermediate body) I intended to include in this phrase also the func-  tion of evicting it. The one means simply the acceptance of a leader  or a group of leaders, the other means simply the withdrawal of this  acceptance. This takes care of an element the reader may have missed.  He may have thought that the electorate controls as well as installs.  But since electorates normally do not control their political leaders  in any way except by refusing to reelect them or the parliamentary  majorities that support them, it seems well to reduce our ideas about  this control in the way indicated by our definition. Occasionally,   1As in the economic field, some restrictions are implicit in the legal and moral  principles of the community.   ? Free, that is, in the same sense in which everyone is free to start another textile mill.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 177    spontaneous revulsions occur which upset a government or an in-  dividual minister directly or else enforce a certain course of action.  But they are not only exceptional, they are, as we shall see, contrary  to the spirit of the democratic method.   Seventh, our theory sheds much-needed light onan old controversy.  Whoever accepts the classical doctrine of democracy and in con-  sequence believes that the democratic method is to guarantee that  issues be decided and policies framed according to the will of the  people must be struck by the fact that, even if that will were undeniably  real and definite, decision by simple majorities would in many cases  distort it rather than give effect to it. Evidently the will of the majority  is the will of the majority and not the will of ‘the people’. The latter  is a mosaic that the former completely fails to ‘represent’. To equate  both by definition is not to solve the problem. Attempts at real  solutions have however been made by the authors of the various plans  for Proportional Representation.   These plans have met with adverse criticism on practical grounds.  It is in fact obvious not only that proportional representation will  offer opportunities for all sorts of idiosyncrasies to assert themselves  but also that it may prevent democracy from producing efficient  governments and thus prove a danger in times of stress.’ But before  concluding that democracy becomes unworkable if its principle is  carried out consistently, it is just as well to ask ourselves whether  this principle really implies proportional representation. As a matter  of fact it does not. If acceptance of leadership is the true function  of the electorate’s vote, the case for proportional representation  collapses because its premises are no longer binding. The principle  of democracy then merely means that the reins of government should  be handed to those who command more support than do any of the  competing individuals or teams. And this in turn seems to assure the  standing of the majority system within the logic of the democratic  method, although we might still condemn it on grounds that lie  outside of that logic.    Il. THE PRINCIPLE APPLIED    The theory outlined in the preceding section we are now going to  try out on some of the more important features of the structure and  working of the political engine in democratic countries.   'The argument against proportional representation has been ably stated by    Professor F. A. Hermens in ‘The Trojan Horse of Democracy’, Social Research,  November 1938.    178 JOSEPH SCHUMPETER    1. In a democracy, as I have said, the primary function of the  elector’s vote is to produce government. This may mean the election  of a complete set of individual officers. This practice however is in  the main a feature of local government and will be neglected hence-  forth.! Considering national government only, we may say that  producing government practically amounts to deciding who the  leading man shall be.? As before, we shall call him Prime Minister.   There is only one democracy in which the electorate’s vote does  this directly, viz., the United States.* In all other cases the electorate’s    'This we shall do for simplicity’s sake only. The phenomenon fits perfectly into our  schema.    *This is only eerie! true. The elector’s vote does indeed put into power  a group that in all normal cases acknowledges an individual leader but there are as  a rule leaders of second and third rank who carry political guns in their own right and  whom the leader has no choice but to put into appropriate offices. This fact will be  recognized presently.  Another point must be kept in mind. Although there is reason to expect that a man  who rises to a position of supreme command will in general be a man of considerable  ersonal force, whatever else he may be—to this we shall return later on—it does not  ollow that this will always be the case. Therefore the term ‘leader’ or ‘leading man’  is not to imply that the individuals thus designated are necessarily endowed with  qualities of leadership or that they always do give any personal leads. There are political  situations favourable to the rise of men deficient in leadership (and other qualities)  and unfavourable to the establishment of strong individual positions. A party or a  combination of parties hence may occasionally be acephalous. But everyone recognizes  that this is a paidloged state and one of the typical causes of defeat.    3We may, I take it, disregard the electoral college. In calling the President of the  United States a prime minister I wish to stress the fundamental similarity of his  position to that of prime ministers in other democracies. But I do not wish to minimize  the differences, although some of them are more formal than real. The least important  of them is that the President also fulfils those largely ceremonial functions of, say,  the French presidents. Much more important is it that he cannot dissolve Congress—  but neither could the French Prime Minister do so. On the other hand, his position  is stronger than that of the English Prime Minister by virtue of the fact that his  leadership is independent of his having a majority in Congress—at least legally; for  as a matter of fact he is checkmated if he has none. Also, he can appoint and dismiss  cabinet officers (almost) at will. The latter can hardly be called ministers in the  English sense of the word and are really no more than the word ‘secretary’ conveys  in common parlance. We might say, therefore, that in a sense the pens Me is not  only prime minister but sole minister, unless we find an analogy between the functions  of an English Cabinet minister and the functions of the managers of the administra-  tion’s forces in Congress.   There is no difficulty about interpreting and explaining these and many other  peculiarities in this or any other country that uses the democratic method. But in  order to save space we shall mainly think of the English pattern and consider all  other cases as more or less important ‘deviations’ on the theory that thus far the logic  of democratic government has worked itself out most completely in the English practice  though not in its legal forms.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 179    vote does not directly produce government but an intermediate organ,  henceforth called parliament,! upon which the government-producing  function devolves. It might seem to account for the adoption or  rather the evolution of this arrangement, both on historical grounds  and on grounds of expediency, and for the various forms it took in  different social patterns. But it is nota logical construct; it isa natural  growth the subtle meanings and results of which completely escape  the official, let alone legal, doctrines.   How does a parliament produce government? The most obvious  method is to elect it or, more realistically, to elect the prime minister  and then to vote the list of ministers he presents. This method is  rarely used.? But it brings out the nature of the procedure better than  any of the others. Moreover, these can all be reduced to it, because  the man who becomes prime minister is in all normal cases the one  whom parliament would elect. The wayinwhich heis actually appoint-  ed to office, by a monarch as in England, bya President as in France  or by a special agency or committee as in the Prussian Free State of  the Weimar period, is merely a matter of form.   The classical English practice is this. After a general election the  victorious party normally commands a majority of seats in Parliament  and thus is in a position to carry a vote of want of confidence against  everyone except its own leader who in this negative way is designated  ‘by Parliament’ for national leadership. He receives his commission  from the monarch—kisses hands’—and presents to him his list of  ministers of which the list of cabinet ministers is a part. In this he  includes, first, some party veterans who receive what might be called  complimentary office; secondly, the leaders of the second rank, those  men on whom he counts for the current fighting in Parliament and  who owe their preferment partly to their positive political value and  partly to their value as potential nuisances; third, the rising men  whom he invites to the charmed circle of office in order to “extract  the brains from below the gangway’; and sometimes, fourth, a few  men whom he thinks particularly well qualified to fill certain offices.*    ‘It will be recalled that I have defined parliament as an organ of the state. Although  that was done simply for reasons of formal (legal) logic, this definition fits in par-  ticularly well with our conception of the democratic method: Membership in parlia-  ment is hence an office.   For example, it was adopted in Austria after the breakdown in 1918.   ’To lament, as some people do, how little fimess for office counts in these arrange-  ments is beside the point where description is concerned; it is of the essence of  democratic government that political valles should count primarily and fitness only  incidentally.    180 JOSEPH SCHUMPETER    But again, in all normal cases this practice will tend to produce the  same result as election by Parliament would. The reader will also  see that where, as in England, the prime minister has the actual power  to dissolve (‘to go to the country’), the result will to some extent  approximate the result we should expect trom direct election of the  cabinet by the electorate so long as the latter supports him.! This may  be illustrated by a famous instance.   2. In 1879, when the Beaconsfield (Disraeli) government, after  almost six years of prosperous tenure of power culminating in the  spectacular success of the Congress of Berlin,? was on all ordinary  counts entitled to expect a success at the polls, Gladstone suddenly  roused the country by a series of addresses of unsurpassable force  (Midlothian campaign) which played up Turkish atrocities so success-  fully as to place him on the crest of a wave of popular enthusiasm  for him personally. The official party had nothing to do with it. Several  of its leaders in fact disapproved. Gladstone had resigned the leader-  ship years before and tackled the country single-handed. But when  the liberal party under this impetus had wona smashing victory, it was  obvious to everyone that he had to be again accepted as the party  leader—nay, that he had become the party leader by virtue of his  national leadership and that there simply was no room for any other.  He came into power in a halo of glory.    1If, as was the case in France, the prime minister has no such power, parliamentary  cotenes acquire so much independence that this parallelism between acceptance of a  man by parliament and acceptance of the same man by the electorate is weakened or  destroyed. This is the situation in which the parlour game of parliamentary politics  runs riot. From our standpoint this is a deviation from the design of the machine.  Raymond Poincaré was of the same opinion.   Of course, such situations also occur in England. For the Prime Minister’s power  to dissolve—strictly, his power to ‘advise’ the monarch to dissolve the House of  Commons—is inoperative either if his party’s inner circle sets its face against it or  if there is no chance that elections will strengthen his hold upon Parliament. That is  to say, he may be stronger (though pase still weak) in Parliament than he is in the  country. Such a state of things tends to develop with some regularity after a govern-  ment has been in power for some years. But under the English system this deviation  from design cannot last very long.    21 do not mean that the temporary settlement of the questions raised by the Russo-  Turkish War and the acquisition of the perfectly useless island of Cyprus were in  themselves such masterpieces of statesmanship. But I do mean that from the stand-  pan of domestic politics they were just the kind of showy success that would normally   atter the average citizen’s vanity and would greatly enhance the government’s  prospects in an atmosphere of jingo patriotism. In fact it was the general opinion that  Disraeli would have won if he had dissolved immediately on returning from Berlin.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 181    Now this instance teaches us a lot about the working of the demo-  cratic method. To begin with, it must be realized that it is unique only  in its dramatic quality, but in nothing else. It is the oversized specimen  of a normal genus. The cases of both Pitts, Peel, Palmerston, Disraeli,  Campbell Bannerman and others differ from it only in degree.   First, as to the Prime Minister’s political leadership.! Our example  shows that it is composed of three different elements which must not  be confused and which in every case mix in different proportions, the  mixture then determining the nature of every individual Prime  Minister’s rule. On the face of it, he comes into office as the leading  man of his party in Parliament. As soon as installed however, he  becomes in a sense the leader of Parliament, directly of the house of  which he is a member, indirectly also of the other. This is more than  an official euphemism, more also than is implied in his hold upon  his own party. He acquires influence on, or excites the antipathy of,    ‘It is characteristic of the English way of doing things that official recognition  of the existence of the Prime Minister’s office was deferred until 1907, when it was  allowed to appear in the official order of precedence at court. But it is as old as  democratic government. However, since democratic government was never introduced  by a distinct act but slowly evolved as part of a comprehensive social process, it is not  easy to indicate even an approximate birthday or birth eae There is a long stretch  that presents embryonic cases. It is tempting to date the institution from the reign  of William III, whose position, so much weaker than that of the native rulers had been,  seems to give colour to the idea. The objection to this however is not so much that  England was no ‘democracy’ then—the reader will recall that we do not define demo-  cracy by the extent of eects ae that, on the one hand, the embryonic case of  aay haa occurred under Charles II and that, on the other hand, William III never  reconciled himself to the arrangement and kept certain matters successfully in his own  hands. We must not of course confuse prime ministers with mere advisers, however  powerful with their sovereign and however firmly entrenched in the very centre of the  public power plant they may be—such men as Richelieu, Mazarin or Strafford for  instance. Godolphin and Harley under Queen Anne were clearly transitional cases.  The first man to be universally recognized at the time and by political historians  was Sir Robert Walpole. But he as well as the Duke of Newcastle (or his brother Henry  Pelham or both jointly) and in fact all the leading men down to Lord Shelburne  (including the elder Pitt who even as foreign secretary came very near to fulfilling our  requirements in substance) lack one or another of Me characteristics. The first full-  fledged specimen was the younger Pitt.   It is interesting to note that what his own time recognized in the case of Sir Robert  Walpole (and later in that of Lord Carteret Earl of Granville]) was not that here was an  organ essential to democratic government that was breaking through atrophic tissues.  On the contrary, public opinion felt it to be a most vicious cancer the growth of which  was a menace to the national welfare ahd to democracy—‘sole minister’ or ‘first  minister’ was a term of opprobrium hurled at Walpole by his enemies. This fact is  significant. It not only indicates the resistance new institutions usually meet with. It  also indicates that this institution was felt to be incompatible with the classic doctrine  of democracy which in fact has no place for political leadership in our sense, hence  no place for the realities of the position of a prime minister.    182 JOSEPH SCHUMPETER    the other parties and individual members of the other parties as  well, and this makes a lot of difference in his chances of success. In  the limiting case, best exemplified by the practice of Sir Robert Peel,  he may coerce his own party by means of another. Finally, though in  all normal cases he will also be the head of his party in the country,  the well-developed specimen of the prime ministerial genus will have  a position in the country distinct from what he automatically acquires  by heading the party organization. He willlead party opinion creative-  ly—shape it—and eventually rise toward a formative leadership of  public opinion beyond the lines of party, toward national leadership  that may to some extent become independent of mere party opinion.  It is needless to say how very personal such an achievement is and  how great the importance of such a foothold outside of both party and  Parliament. It puts a whip into the hand of the leader the crack of  which may bring unwilling and conspiring followers to heel, though  its thong will sharply hit the hand that uses it unsuccessfully.   This suggests an important qualification to our proposition that  in a parliamentary system the function of producing a government  devolves upon parliament. Parliament does normally decide who  will be Prime Minister, but in doing so it is not completely free. It  decides by acceptance rather than by initiative. Excepting patho-  logical cases like the French chambre, the wishes of members are not  as a rule the ultimate data of the process from which government  emerges. Members are not only handcuffed by party obligations. They  also are driven by the man whom they ‘elect’—driven to the act of  the ‘election’ itself exactly as they are driven by him once they have  ‘elected’ him. Every horse is of course free to kick over the traces and  it does not always run up to its bit. But revolt or passive resistance  against the leader’s lead only shows up the normal relation. And this  normal relation is of the essence of the democratic method. Gladstone’s  personal victory in 1880 is the answer to the official theory that  Parliament creates and cashiers government.!   ‘Gladstone himself upheld that theory strongly. In 1874, when defeated at the polls,  he still argued for meeting Parliament because it was up to Parliament to pass the  sentence of dismissal. This of course means nothing at all. In the same way he studiously  professed unbounded deference to the crown. One biographer after another has  marvelled at this courtly attitude of the great democratic leader. But surely Queen  Victoria showed better discernment than did those biographers if we may judge trom  the strong dislike which she displayed for Gladstone from 1879 on aid which the  biographers attribute simply to the baleful influence of Disraeli. Is it really necessary  to point out that professions of deference may mean two different things? The man  who treats his wife with elaborate courtliness is not as a rule the one to accept comrade-    ship between the sexes on terms of equality. As a matter of fact, the courtly attitude  is precisely a method to evade this.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 183    3. Next, as to the nature and role of the cabinet.’ It is a curiously  double-faced thing, the joint product of Parliament and Prime  Minister. The latter designates its members for appointment, as we  have seen, and the former accepts but also influences his choice.  Looked at from the party’s standpointitisanassemblage of subleaders  more or less reflecting its own structure. Looked at from the Prime  Minister’s standpoint it is an assemblage not only of comrades in  arms but of party men who have their own interests and prospects to  consider—a miniature Parliament. For the combination to come  about and to work it is necessary for prospective cabinet ministers  to make up their minds—not necessarily from enthusiastic love—to  serve under Mr. X and for Mr. X to shape his programme so that his  colleagues in the cabinet will not too often feel like ‘reconsidering  their position’, as official phraseology has it, or like going ona sit-  down strike. Thus the cabinet—and the same applies to the wider  ministry that comprises also the political officers not in the cabinet—  has a distinct function in the democratic process as against Prime  Minister, party, Parliament and electorate. This function of inter-  mediate leadership is associated with, but by no means based upon,  the current business transacted by the individual cabinet officers in the  several departments to which they are appointed in order to keep  the leading group’s hands on the bureaucratic engine. And it has only  a distant relation, if any, with ‘seeing to it that the will of the people  is carried out in each of them’. Precisely in the best instances, the  people are presented with results they never thought of and would  not have approved of in advance.   4. Again, as to Parliament. I have both defined what seems to me  to be its primary function and qualified that definition. But itmight  be objected that my definition fails to do justice to its other functions.  Parliament obviously does a lot of other things besides setting up  and pulling down governments. It legislates. And it even administers.  For although every act of a parliament, except resolutions and    1§till more than the evolution of the prime minister’s office, that of the cabinet is  blurred by the historical continuity that covers changes in the nature of an institution.  To this day the English cabinet is legally the operative part of the Privy Council, which  of course was an instrument of government in decidedly predemocratic times. But  below this surface an entirely different organ has evolved. As soon as we realize this  we find the task of dating its emergence somewhat easier than we found the analogous  task in the case of the prime minister. Though embryonic cabinets existed in the time  of Charles II (the ‘cabal’ ministry was one, and the committee of four that was formed  in connexion with Temple’s experiment was another), the Whig ‘junto’ under  William UI is a fair candidate for first place. From the reign of Anne on only minor  points of membership or functioning remain to disagree on.    184 JOSEPH SCHUMPETER    declarations of policy, makes ‘law’ in a formal sense, there are man  acts which must be considered as administrative measures. The budget  is the most important instance. To make it is an administrative  function. Yet in this country it is drawn up by Congress. Even where  it is drawn up by the minister of finance with the approval of the  cabinet, as it is in England, Parliament has to vote on it and by this  vote it becomes an act of Parliament. Does not this refute our theory?  When two armies operate against each other, their individual moves  are always centred upon particular objects that are determined by  their strategical or tactical situations. They may contend for a par-  ticular stretch of country or for a particular hill. But the desirability  of conquering that stretch or hill must be derived from the strategical  or tactical purpose, which is to beat the enemy. It would be obviously  absurd to attempt to derive it from any extra-military properties the  stretch or hill may have. Similarly, the first and foremost aim of  each political party is to prevail over the others in order to get into  ower or to stay in it. Like the conquest of the stretch of country or  the hill, the decision of the political issues is, from the standpoint of  the politician, not the end but only the material of parliamentary  activity. Since politicians fire off words instead of bullets and since  those words are unavoidably supplied by the issues under debate, this  may not always be as clear as it is in the ~ilitary case. But victory over  the opponent is nevertheless the essence of both games.!  Fundamentally, then, the current production of parliamentary  decisions on national questions is the very method by which Parlia-  ment keeps or refuses to keep a government in power or by which  Parliament accepts or refuses to accept the Prime Minister’s leader-  ship.? With the exceptions to be noticed presently, every vote is a vote    ‘Sometimes politicians do emerge from phraseological mists. To cite an example  to which no objection can be raised on the score of frivolity: no lesser politician  than Sir Robert Peel characterized the nature of his craft when he said after his   arliamentary victory over the Whig government on the issue of the latter’s policy  in Jamaica: ‘Jamaica was a good horse to start’. The reader should ponder over this.    2This of course pee to the pre-Vichy French and pre-Fascist Italian practice  just as much as to the English practice. It may however be called in question in the  case of the United States where defeat of the administration on a major issue does  not entail resignation of the President. But this is merely due to the fact that the  Constitution, which embodies a different political theory, did not permit parlia-  mentary practice to develop according to its logic. In actual fact this logic did not  entirely fail to assert itself. Defeats on major issues, though they cannot displace the  President, will in general so weaken his prestige as to oust him from a position of  leadership. For the time being this creates an abnormal situation. But whether he wins  or loses the subsequent presidential election; the conflict is then settled in a way that  does not fundamentally differ from the way in which an English Prime Minister deals  with a similar situation when he dissolves Parliament.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 185    of confidence or want of confidence, and the votes that are technically  so called merely bring out in abstracto the essential element that is  common to all. Of this we can satisfy ourselves by observing that the  initiative in bringing up matters for parliamentary decision as a rule  lies with the government or else with the opposition’s shadow cabinet  and not with private members.   It is the Prime Minister who selects from the incessant stream of  current problems those which he is going to make parliamentary  issues, that is to say, those on which his government proposes to  introduce bills or, if he is not sure of his ground, at least resolutions.  Of course every government receives from its predecessor a legacy  of open questions which it may be unable to shelve; others are taken  up as a matter of routine politics; it is only in the case of the most  brilliant achievement that a Prime Minister is in a position to impose  measures about a political issue which he has created himself. In any  case however the government’s choice or lead, whether free or not,  is the factor that dominates parliamentary activity. If a bill is brought  in by the opposition, this means that it is offering battle: such a move  is an attack which the government must either thwart by purloining  the issue or else defeat. If a major bill that is not on the governmental  menu is brought in by a group of the governmental party, this spells  revolt and it is from this angle and not from the extra-tactical merits  of the case that it is looked upon by the ministers. This even extends  to the raising of a debate. Unless suggested or sanctioned by the  government, these are symptoms of the government forces’ getting  out of hand. Finally, if a measure is carried by inter-party agreement,  this means a drawn battle or a battle avoided on strategical grounds.!   5. The exceptions to this principle of governmental leadership in  ‘representative’ assemblies only serve to show how realistic it is.  They are of two kinds.   ‘Another highly significant piece of English technique may be mentioned in this  connexion. A major bill is or was usually not proceeded with if the majority for it fell  to a very low figure on the second reading. This practice first of all recognized an  important limitation of the majority principle as actually applied in well-managed  democracies: it would not be correct to say that in a democracy the minority is always  compelled to surrender. But there is a second point. While the minority is not always  compelled to yield to the majority on the particular issue under debate, it is practically  eae ante oa were exceptions even to this—compelled to yield to it on the question  whether the cabinet is to stay in power. Such a vote on the second reading of a major  government measure may be said to combine a vote of confidence with a vote for shelv-  ing a bill. If the contents of the bill were all that mattered there would hardly be any  sense in voting for it if it is not to make the statute book. But if Parliament is primarily    concerned with keeping the cabinet in office, then such tactics become at once under-  standable.    186 JOSEPH SCHUMPETER    First, no leadership is absolute. Political leadership exerted accord-  ing to the democratic method is even less so than are others because  of that competitive element which is of the essence of democracy.  Since theoretically every follower has the right of displacing his  leader and since there are nearly always some followers who have a  real chance of doing so, the private member and—f he feels that he  could do with a bigger hat—the minister within and without the inner  circle steers a middle course between an unconditional allegiance to  the leader’s standard and an unconditional raising of a standard of  his own, balancing risks and chances with a nicety that is sometimes  truly admirable.! The leader in turn responds by steering a middle  course between insisting on discipline and allowing himself to be  thwarted. He tempers pressure with more or less judicious con-  cessions, frowns with compliments, punishments with benefits. This  game results, according to the relative strength of individuals and their  positions, in a very variable but in most cases considerable amount  of freedom. In particular, groups that are strong enough to make  their resentment felt yet not strong enough to make it profitable to in-  clude their protagonists and their programmes in the governmental  arrangement will in general be allowed to have their way in minor  questions or, at any rate, in questions which the Prime Minister can  be induced to consider as of minor or only sectional importance.  Thus, groups of followers or even individual members may occa-  sionally have the opportunity of carrying bills of their own and still  more indulgence will of course be extended to mere criticism or to  failure to vote mechanically for every government measure. But we  need only look at this in a practical spirit in order to realize, from the  limits that are set to the use of this freedom, that it embodies not  the principle of the working of a parliament but deviations from it.   Second, there are cases in which the political engine fails to absorb  certain issues either because the high commands of the government’s  and the opposition’s forces do not appreciate their political values  or because these values are in fact doubtful.? Such issues may then    ‘One of the most instructive examples by which the above can be illustrated is  afforded by the course taken by Joseph Chamberlain with respect to the Irish question  in the 1880’s. He finally outmanoeuvered Gladstone, but he started the campaign while  officially an ardent adherent. And the case is exceptional only in the force and  brilliance of the man. As every political captain knows, only mediocrities can be  counted on for loyalty. That is why some of the greatest of those captains, Disraeli  for instance, surrounded themselves by thoroughly second-rate men.    *An issue that has never been tried out is the typical instance of the first class. The  typical reasons why a government and the shadow cabinet of the opposition may tacitly  agree to leave an issue alone in spite of their realizing its potentialities are technical  difficulty of handling it and the fear that it will cause sectional difficulties.    TWO CONCEPTS OF DEMOCRACY 187    be taken up by outsiders who prefer making an independent bid for  power to serving in the ranks of one of the existing parties. This of  course is perfectly normal politics. But there is another possibility.  A man may feel so strongly about a particular question that he may  enter the political arena merely in order to have it solved in his way  and without harbouring any wish to start in on a normal political  career. This however is so unusual that it is difficult to find instances  of first-rank importance of it. Perhaps Richard Cobden was one. It  is true that instances of second-rank importance are more frequent,  especially instances of the crusader type. But nobody will hold that  they are anything but deviations from standard practice.  ~ We may sum up as follows. In observing human societies we do not  as a rule find it difficult to specify, as least in a rough common-sense  manner, the various ends that the societies under study struggle to  attain. These ends may be said to provide the rationale or meaning  of corresponding individual activities. But it does not follow that  the social meaning of a type of activity will necessarily provide the  motive power, hence the explanation of the latter. If it does not, a  theory that contents itself with an analysis of the social end or need  to be served cannot be accepted as an adequate account of the activi-  ties that serve it. For instance, the reason why there is such a thing as  economic activity is of course that people want to eat, to clothe them-  selves and so on. To provide the means to satisfy those wants is the  social end or meaning of production. Nevertheless we all agree that  this proposition would make a most unrealistic starting point fora  theory of economic activity in commercial society and that we shall  do much better if we start from propositions about profits. Similarly,  the social meaning or function of parliamentary activity is no doubt  to turn out legislation and, in part, administrative measures. But  in order to understand how democratic politics serve this social end,  we must start from the competitive struggle for power and office and  realize that the social function is fulfilled, as it were, incidentally—  in the same sense as production is incidental to the making of profits.  6. Finally, as to the role of the electorate, only one additional  point need be mentioned. We have seen that the wishes of the  members of a parliament are not the ultimate data of the process  that produces government. A similar statement must be made con-  cerning the electorate. Its choice—ideologically glorified into the  Call from the People—does not flow from its initiative but is being  shaped, and the shaping of it is an essential part of the democratic  process. Voters do not decide issues. But neither do they pick their  members of parliament from the eligible population with a perfectly    188 JOSEPH SCHUMPETER    open mind. In all normal cases the initiative lies with the candidate  who makes a bid for the office of member of parliament and such local  leadership as that may imply. Voters confine themselves to accepting  this bid in preference to others or refusing to accept it. Even most of  those exceptional cases in which a man is genuinely drafted by the  electors come into the same category for either of two reasons:  naturally a man need not bid for leadership if he has acquired leader-  ship already; or it may happen that a local leader who can control  or influence the vote but is unable or unwilling to compete for election  himself designates another man who then may seem to have been  sought out by the voters acting on their own initiative.   But even as much of electoral initiative as acceptance of one of the  competing candidates would in itself imply is further restricted by  the existence of parties. A party is not, as classical doctrine (or  Edmund Burke) would have us believe, a group of men who intend to  promote public welfare ‘upon some principle on which they are all  agreed’. This rationalization is so dangerous because it is so tempting.  For all parties will of course, at any given time, provide themselves  with a stock of principles or planks and these principles or planks  may be as characteristic of the party that adopts them and as im-  portant for its success as the brands of goods a department store sells  are characteristic of it and important for its success. But the depart-  ment store cannot be defined in terms ofits brands and a party cannot  be defined in terms of its principles. A party is a group whose members  propose to act in concert in the competitive struggle for political  power. If that were not so it would be impossible for different parties  to adopt exactly or almost exactly the same programme. Yet this  happens as everyone knows. Party and machine politicians are simply  the response to the fact that the electoral mass is incapable of action  other than a stampede, and they constitute an attempt to regulate  political competition exactly similar to the corresponding practices    of a trade association. The psycho-technics of party management  and party advertising, slogans and marching tunes, are not accessor-  ies. They are of the essence of politics. So is the political boss.    Xx  JUSTICE AND THE COMMON GOOD    BRIAN BARRY  I    Social Principles and the Democratic State, by S. 1. Benn and R. S. Peters  (George Allen & Unwin, London, 1959) is far more than a textbook;  for the authors’ object is not merely to say, ‘Justice means this,  equality means that, freedom means the other. Where they conflict you  take your pick’. Their thesis is the daring one that all political  arguments fit into a single pattern and that this pattern is identical  with morality.   The authors reject any sociological definition of ‘moral rule’.  According to them, a rule is moral if and only if it is:    critically accepted by the individual in the light of certain criteria. The  criteria can be summarized by saying that a rule should be considered in the  light of the needs and interests of people likely to be affected by it with no  partiality towards the claims of any of those whose needs and interests are at  stake. (p. 56)   People have interests and needs which they put forward as claims. The  criteria of impersonality and respect for persons are satisfied when claims  are assessed on relevant grounds, and privileges excluded as a basis for  allowing a claim. (p. 51)    I think the inconvenience of this definition is fairly clear: it follows from  it, for example, that one can never talk about the moral rules of a  group unless one has first ascertained whether everyone who acts on  the rules and expects others to act on them has accepted them after an  impartial consideration of their effects. The theoretical disadvantages  of making stipulative restrictions on the expression ‘moral rules’ are  very similar to the disadvantages (which the authors recognize) of  calling only good laws ‘laws’.   My main objection, however, is that no single scheme can be suf-  ficient to cover all the arguments which even in liberal-democratic    From Analysis, Vol. 21 (Blackwell, 1960-61), pp. 86-g0. Reprinted by permission  of the author, Analysis, and Basil Blackwell.    fy    190 BRIAN BARRY    communities would ordinarily be thought ‘moral’. If Benn and Peters  do succeed in interpreting their schema so as to fitany argument pre-  sented into it, this is ata cost of both misrepresenting most arguments  and making the schema vacuous.    II    This must be so, I suggest, because when we are dealing with  interests there are two conflicting principles at work: aggregative and  distributive. They are both, it seems to me, independently operative  in most men’s minds; and where they give conflicting answers there is  no higher principle to which the conflict can be referred.   Suppose, for example, that one can see no reason in terms of desert  or need why science teachers should be paid more than others; but  that one also believes that unless all the money available for raising  pay goes to them the standard of science teaching will decline with  grave results. Or again, suppose that one believes on the one hand  that dropping two atomic bombs on Japan will cause less suffering  than continuing the war with ‘conventional’ weapons, but that it is  unjust to use weapons which rely on devastating civilian populations  rather than military targets. In both cases we have a conflict between  an aggregative result and a distributive principle. If these were all  the relevant considerations (which in fact they are not) then how one  decided would depend on how highly one ranked the two kinds of  principle (moral philosophers can be divided according to which side  they exaggerate at the expense of the other).   The point I wish to make is that ‘impartiality’ is no help here in  providing a schema for decision. If it means ‘everyone to count for one  and nobody for more than one’, this is satisfied by the result of aggre-  gation, which may still be morally unacceptable to many people. Ifon  the other hand one is to say, ‘The arts teachers aren’t given enough con-  sideration by straight aggregation; they must be given some more’,  my objection is that the formula is now useless as a guide to decision.  It merely gives us a thoroughly misleading way of justifying ex post  facto whatever decision we may in fact reach.    Ill    There is still, however, one possible escape route for the authors’  formula. This lies in emphasizing the bit about ‘relevant grounds for  treating people differently’. But this manoeuvre fails in one of two    JUSTICE AND THE COMMON GOOD 191    ways, depending on the construction of ‘relevant’. If you say that what  subject someone teaches is not a relevant criterion in determining  his pay, you certainly get the answer that scientists ought not to be  paid more. But this is too good a demonstration, for according to the  authors, anyone who admits this and still says that science teachers  ought to be paid more is not arguing morally; yet such a position  seems to me perfectly reasonable. Some one who takes this view has  chosen in favour of the education of children and against professional  equity—surely a perfectly reputable thing to do. If on the other hand  you say that what subject someone teaches is made relevant simply by  the fact that science teachers are in shorter supply than others and  paying them more will keep up educational standards, you are right  back at a simple aggregationist position.   In fact the authors give some support to each interpretation. Thus,  on p. 112, they say‘... it is up to whoever should make distinctions  to justify the criteria in terms . . . ultimately of a balance ofadvantage  to all concerned’. Phrases such as ‘beneficent consequences’ and  ‘beneficial results’ occur in a similar context on pp. 169 and 170.  This sounds like a straight aggregationist position: you show that  something is just, or for the common good, by showing that it makes  relevant distinctions, and these distinctions are relevant if they  provide ‘a balance of advantage to all concerned’. This form of  argument is certainly used by the authors and I shall discuss an  example in section IV.   Against this, they say on pp. 272-3:    Two politicians may each say, with perfect sincerity, that he is seeking  the public interest, or the common good, though one proposes to ex-  propriate private capital and the other to defend it for the death. Does one  of them have to be wrong... ? Is the disagreement about fact at all? It may  be...but the probability is that this is less important than a disagree-  ment on moral principle. One holds private capital to be an immoral thing  in itself, the other that it represents the legitimate fruits of thrift, industry,  and other economic virtues..,. What then have the two politicians in  common that enables them to appeal, with equal sincerity to ‘the common  good’? ... (Each) is saying, in effect, that having considered the claims of  all sections in a spirit of impartiality, the balance of advantage lies in the  course he recommends.    Here it is quite clear that ‘the balance of advantage’ is not something  obtainable by aggregation; it is simply a repetition of the procedural  point that one must have considered all claims impartially. To say on  thus analysis that relevant distinctions are those based on a balance    192 BRIAN BARRY    of advantage is to add nothing. ‘We have to decide what is relevant’ (p.  113).   My object in pointing out this inconsistency is not to score a  cheap debating point but to substantiate my view that it is impossible  to fit into one theory questions of distributive principle (the sort of  thing the two politicians in the argument are disagreeing about) and  aggregative ones (which phrases such as ‘balance of advantage’ would  naturally be thought to refer to).    IV    In this section I shall apply the above analysis to two of the  discussions of particular questions in the book to illustrate how the  authors’ insistence on trying to show all concepts as aspects of a single  criterion leads them to distort characteristic forms of argument. In  the first example, we see a straight question of distribution obscured  by reference to an aggregative concept. On p. 272, the authors say:    ...the government would have resented being told in 1957 that decon-  trolling rents was not for the common good. But the government clearly  had to choose between the interests of the landlords and the interest of the  tenants. Whether or not it chose rightly, it did little good to the tenants.    Now if it is correct that the issue is one where one side’s losses are  the other side’s gains, I would suggest that the ‘common good’ is out  of place. Of course the government would resent being told its action  was not for the common good; but neither would it justify the measure  by saying it was for the common good. The concept is out of place. If  the government is willing to admit that it is simply transferring money  from one set of pockets to another, it will say, for example, that  control was unfair between owners of different forms of property, or  between owner-occupiers and tenants, or that it was unjust between  landlords and tenants; i.e., it would support a distributive change  by distributive arguments. (More likely, of course, it would deny that  only one side would be benefited, pointing to the benefits of a free  market in producing a rational allocation of resources, and then it  could talk about the common good; but I follow the authors’ assump-  tion for the sake of the argument.)   What I am trying to show is that it is not an accident that we have  different concepts; they really do have different jobs. We have one set  which point out various distributive comparisons, such as justice,  fairness, equity, equality (that these all differ is not hard to show but    JUSTICE AND THE COMMON GOOD 193    it would take me out of my way here. One example: a lottery is fair if  honestly run, but a lottery which distributed prizes justly, i.e.,  according to desert or need, would no longer be fair). And we have  another set which point out the results of various methods of aggrega-  tion, such as ‘public interest’, ‘common good’ and ‘general welfare’  (‘good’ and ‘interest’ for example require one to include different  ways in which people are affected). To say, as Benn and Peters do,  that ‘to seek the common good’ means ‘to try to act justly’, is to make  nonsense of the subtle and complex way in which we go about criti-  cizing political programmes, in the pursuit of a tidy but barren  theory.   My second example shows the same error operating in reverse. In  chapters 4 and 5, the authors have an excellent study of the grounds  on which one might justify various claims to income. Unfortunately,  however, they are again hampered by their theoretical apparatus, for  all claims, according to their general theory, must be established  by being shown to be just. This works excellently for claims based on  personal desert and need; but it does not work at all for arguments  for property based on the advantage of having a group of politically  independent or cultured citizens (pp. 167-70):    If it were true that fortunes based on inheritable property were indis-  pensable for an elite of this sort, and if such an elite were really so valuable,  the property system would be justified by its beneficient consequences.  (p. 169) ; .    Now, this is fine; and the situation should in my view be summed  up by saying that in this case justice would have to be qualified by  utilitarian considerations.   But this course is not open to Benn and Peters. They have to say  that the general advantage of property makes the amount of money  your father had a relevant and therefore just ground for differences  in income (pp. 169-70). This seems to me highly misleading.  Although Hume used the expression ‘rules of justice’ to cover  precisely such things as property rules, ‘justice’ is nowadays  analytically tied to ‘desert’ and ‘need’, so that one could quite  properly say that some of what Hume called ‘rules of justice’ were  unjust. Again, we see how the attempt to reduce all arguments to  one pattern forces Benn and Peters to assimilate quite different  kinds of arguments to one another.    NOTES ON THE CONTRIBUTORS    JOHN PLAMENATzZ is Chichele Professor of Social and Political Theory  at Oxford and a Fellow of All Souls College. He was formerly a Fellow  of Nuffield College. His German Marxism and Russian Communism was  published in 1961, and Man and Society, in two volumes, in 1963.    P. H. PARTRIDGE teaches at the Australian National University,  Canberra.    H. L. A. HART has been Professor of Jurisprudence in Oxford since  1952. Among his publications are Causation in the Law (1961), and Law,  Liberty, and Morality, (1963).    STANLEY I. BENN, until recently Lecturer in Government at the  University of Southampton, is now at the Australian National  University, Canberra. He is the author, with R. S. Peters, of Social  Principles and the Democratic State (1959).    R. S. PETERS is Professor of the Philosophy of Education in the  University of London Institute of Education. Among his publications  are The Concept of Motivation (1958), Soctal Principles and the Democratic  State (with S. I. Benn, 1959), and Ethics and Education (1966).    PETER WINCH, formerly of the University College of Swansea, is now  Professor of Philosophy at King’s College, London; his The Idea of a  Social Science was published in 1958.    BRIAN BARRY has been a Fellow of Nuffield College, Oxford, since  1966. His book Political Argument was published in 1965.    E. F. CARRITT, who’ died in 1963, was for many years a Fellow of  University College, Oxford. His book Ethical and Political Thinking was  published in 1947, and he wrote also on the philosophical problems of  aesthetics.    Sir IsataH BERLIN is President of Wolfson College, Oxford. He was  Chichele Professor of Social and Political Theory at Oxford from  1957 to 1967. Among his publications are The Hedgehog and the Fox  (1953), a study of Tolstoy, and Karl Marx (2nd. edn., 1956).    JOSEPH A. SCHUMPETER went to Harvard from his native Austria in  1932, and taught there for many years before his death in 1950. He  published a number of widely influential works in the field of econo-  mics.    BIBLIOGRAPHY    (not including material in this volume)    I. General and Methodological   The best elementary introduction to political theory is J. D.  Mabbott’s The State and the Citizen (Hutchinson, London, 1948). ©  Charles Vereker’s The Development of Political Theory (Hutchinson,  London, 1957) gives an overall survey of the historical development  of the subject. S. I. Benn and R. S. Peters, in Social Principles and the  Democratic State (Allen and Unwin, London, 1959), cover the main  topics of political theory from the point of view of analytic philosophy.  Arnold Brecht’s massive Political Theory (Princeton U.P., Princeton,  1959) does the same thing in a more Teutonic and elaborately scholarly  way.   G. H. Sabine’s History of Political Theory (Harrap, London, 1937)  deserves its reputation as a model text-book, being lucid, thorough  and reliable to a very high degree. J. P. Plamenatz’s Man and Society  (Longmans, London, 1963) is confined to the major figures in the  history of political thought but subjects their ideas to a full critical  examination. Sheldon Wolin’s Politics and Vision (Allen and Unwin,  London, 1961) is more interpretative again and is as much concerned  with the historical setting as with the logical cogency of political  theories; a most impressively intelligent and original book.   A useful, if somewhat mechanically written, survey of methodolo-  gical issues is The Study of Political Theory by Thomas P. Jenkin (Random  House, New York, 1955). The relations between political philosophy  and political science are thoroughly and penetratingly examined with  a wealth of references in David Easton’s The Political System (Knopf,  New York, 1953). T. D. Weldon’s The Vocabulary of Politics (Penguin  Books, London, 1953) expresses the hostility of some analytic philo-  sophers to political theory with the artless enthusiasm ofaconvert. At  the opposite extreme is the defence of the traditional attitude, which  takes political theory to be concerned to demonstrate the timeless,  essential nature of the state, in Leo Strauss’s What is Political Philosophy  (Free Press, Glencoe, 1959). G. H. Sabine’s ‘What is political theory ?  in the Jowmal of Politics (1939), and Isaiah Berlin’s ‘Does political theory  still exist?’, in Philosophy, Politics and Society, second series, ed. Laslett  and Runciman (Blackwell, Oxford, 1962) are noteworthy brief general    196 BIBLIOGRAPHY    statements. Cf. also J. D. Mabbott, ‘Political Concepts’ in Philosophy,  (1938); J. M. CameronandT. D. Weldon, ‘The Justification of Political  Attitudes’ in the Proceedings of the Aristotelian Society, Supplementary  Volume (1955); H. B. Action ‘Political Justification’ in Contemporary  British Philosophy, Third Series, ed. H. D. Lewis (Allen and Unwin,  London, 1956).   R. M. Maclver’s The Web of Government (Macmillan, New York, 1947)  is a large, reflective survey of the field of political science. Robert A.  Dahl’s Modern Political Analysis (Prentice-Hall, New Jersey, 1963) is an  elementary introduction to political science with a strong methodo-  logical emphasis. S. M. Lipset’s Political Man (Doubleday, New York,  1960) is a notable example of political sociology.    II. State, law and morality   A definition of the political is developed in chapter 2 of Robert  A. Dahl’s Modern Political Analysis (Prentice-Hall, New Jersey, 1963).  For sovereignty and related issues see S. 1. Bennand R. S. Peters, Social  Prinaples and the Democratic State (Allen and Unwin, London, 1959),  chapters 11, 12 andiz- A.D. Lindsay’s ‘Sovereignty’ in Proceedings of  the Aristotelian Society (1923-4); W. J. Rees’s ‘The Theory of Sovereignty  Restated’ in Mind (1950) and in Philosophy, Politics and Society, first series,  ed. Laslett (Blackwell, Oxford, 1956).   A classical and much-discussed definition of law is to be found in  H. Kelsen’s General Theory of Law and the State (Harvard 1945). There isa  most delicate and penetrating discussion of the subject in H. L. A.  Hart’s The Concept of Law (Clarendon Press, Oxford, 1961). See also  Benn and Peters, Op. cit., chapter 3.   On rights in general and natural rights in particular see E. F.  Carritt, Morals and Politics (Clarendon Press, Oxford, 1935), chapter  13, and also his Ethical and Political Thinking (Clarendon Press,  Oxford, 1947); J. P. Plamenatz, Consent, Freedom and Political Obliga-  tion (Clarendon Press, Oxford, 1938); A. C. Ewing, ‘The Rights of the  Individual against the State’ in Revue Internationale de Philosophie (1948),  and in chapter 2 of his Individual, State and World Government (Mac-  millan, New York, 1947); M. Macdonald, ‘Natural Rights’, in Proceed-  ings of the Aristotelian Society (1946-7), and in Philosophy, Politics and  Society, first series, ed. Laslett (Blackwell, Oxford, 1956); J. D. Mabbott  The State and the Citizen (Hutchinson, London, 1948), part B; A. P.  d’Entréves Natural Law (Hutchinson, London, 1951); J. P. Plamenatz  and H. B. Acton, ‘Rights’, in Proceedings of the Aristotelian Society,  Supplementary Volume (1950); A. I. Melden and W. K. Frankena,    BIBLIOGRAPHY 197    ‘Human Rights’, in Proceedings of the American Philosophical Association,  Eastern Division, volume 1 (1952); S$. M. Brown and W. K. Frankena,  in Philosophical Review (1955) (commenting on chapter 3 of this antho-  logy, Hart’s ‘Are There Any Natural Rights ?’); Benn and Peters, op.  cit., chapter 4; R. B. Brandt, Ethical Theory (Prentice-Hall, New Jersey,  1959) chapter 17; J. Hospers, Human Conduct (Harcourt Brace, New  York, 1961), chapter 19.    III. Political Obligation   The first chapter of J. P. Plamenatz’s Consent, Freedom and Polttical  Obligation (Clarendon Press, Oxford, 1938) on consent is an excellent  example of the clarificatory power of philosphical analysis in the field  of political ideas. Chapter 7 of the same book deals with political  obligation. Theories of obligation are discussed in E. F. Carritt’s  Morals and Politics (Clarendon Press, Oxford, 1935), chapter 14, and  in his Ethical and Political Thinking (Clarendon Press, Oxford, 1947),  part II, chapter 14. Benn and Peters, op. cit., chapter 14, give a brief  and convenient survey of different grounds of political obligation.   The social contract theory is reinterpreted in a somewhat far-  fetched way in H. D. Lewis’s ‘Is there a Social Contract?’ in Philosophy  (1940). A survey of the history of the contract theory from its first  beginnings in Greek thought is given in J. W. Gough, The Social  Contract (Clarendon Press, Oxford, 1936).   Discussions of the general will theory are more numerous. See  H. D. Lewis ‘Natural Rights and the General Will’ in Mind (1937);  J. P. Plamenatz, Constant, Freedom and Political Obligation (Clarendon  Press, Oxford, 1938) chapters 2 and 3; J. D. Mabbott, The State and The  Citizen (Hutchinson, London, 1948), part D; G. R. G. Mure, ‘The  Organic State’ in Philosophy (1949); B. Mayo, ‘Is there a case for the  general will?’, in Philosophy (1951), and in Philosophy, Politics and  Society, first series, ed. Laslett (Blackwell, Oxford, 1956); B. Blanshard,  Reason and Goodness (Allen and Unwin, London, 1961), chapter 14.   Traditionalism is examined in H. B. Action, ‘Tradition and some  other forms of order’, in Proceedings of the Aristotelian Soctety (1952-3),  and supported in M. Oakeshott, Rationalism in Politics (Methuen,  London, 1962).    IV. The ends of government   J. R. Pennock’s Liberal Democracy (Rinehart, New York, 1950) is a  good general survey of liberal ideals, from the point of view of both  meaning and justification, and contains a most valuable bibliography.    198 BIBLIOGRAPHY    As a counterpoise mention may be made of a piece of writing much  older than any other included here, J. F. Stephen’s Liberty, Equality,  Fraternity (Smith Elder, London, 1873), both on account of its analytic  clarity and the trenchancy of its opinions. B. M. Barry, Political  Argument (Routledge, London, 1965) is a recent work of comparable  scope, much greater philosophical technicality and utterly different  opinions.   Liberty is defined in chapter 5 and justified in chapter 6 of J. P.  Plamenatz, Consent, Freedom and Political Obligation (Clarendon Press,  Oxford, 1938) with the author’s characteristic clarity and definiteness.  C. I. Lewis’s ‘The Meaning of Liberty’, in Revue Internationale de  Philosophie (1948), is brief but all-embracing. See also Benn and  Peters, op. cit., chapter 10.   On democracy see R. A. Dahl, Preface to Democratic Theory (Chicago  U. P., 1961); Benn and Peters, op. cit., chapter 15; J. Hospers, Human  Conduct (Harcourt Brace, New York, 1961) chapter 18; R. Wollheim,  ‘A Paradox in the Theory of Democracy’, in Philosophy, Politics and  Society, second series, ed. Laslett and Runciman (Blackwell, Oxford,  1962); C. B. Macpherson, The Real World of Democracy (Clarendon  Press, Oxford, 1966).   On justice and equality see H. Spiegelberg in Philosophical Review  (1944); D. D. Raphael, ‘Equality and Equity’, in Philosophy (1946),  and his ‘Justice and Liberty’ in Proceedings of the Aristotelian Society  (1950-51). I. Berlin and R. Wollheim, ‘Equality’, in Proceedings of the  Anstotelian Society, Supplementary Volume, (1955); R. B. Brandt,  Ethical Theory (Prentice-Hall, New Jersey, 1959), chapter 16; J. Rawls,  ‘Justice as fairness’, in Philosophical Review (19 58); J. Hospers, Human  Conduct (Harcourt Brace, New York, 1961), chapters 20-22; Bennand  Peters, op. cit., chapters 5 and 6; B. A. O. Williams, ‘The idea of  equality’ in Philosophy, Politics and Society, second series, ed. Laslett  and Runciman (Blackwell, Oxford, 1962).    INDEX OF NAMES  (not including authors mentioned only in the Bibliography)    Acton, Lord, 128   Aristotle, 1, 54n., 136   Arnold, Matthew, 132   Austin, John, 6, 67, 95   Bagehot, W., 34, 128   Barker, Sir Ernest, 68n., 6gn., 71n.  Barry, B. M., 3, 13, 18   Benn, S. I., 3, 9, 115, 123, 189-93  Bentham, Jeremy, 7, 138n., 139n.  Bentley, A. F., 113   Berlin, Sir Isaiah, 17, 52n.   Black, D., 122   Bodin, J., 67   Bosanquet, B., 34, 133n.   Bradley, F. H., 133n.   Braybrooke, D., 32n.   Brecht, A., 32n.   Bryce, Lord, 67, 79n., 160n.  Burke, Edmund, 24, 25, 46, 127, 139, 145, 188    Campbell, A. H., 58n.  Carritt, E. F., 18   Cartland, R., 127, 131  Catlin, G. E. G., 32n.  Cobban, A., 32n.  Collingwood, R. G., 100, 101  Condorcet, 147   Constant, Benjamin, 143, 145  Crosland, A., 39    Dahl, R. A., 35, 41, 43, 46n., 50-52  Descartes, 109  Dicey, A. V., 67  Dodds, E. R., 88  Downs, E., 46n, 47N., 49n.  Duguit, L., 71n.  Durkheim, E., 21  Engels, F., 30  199    200 INDEX    Erasmus, 146    Field, G. C., 32n.  Freud, S., 29n., 160    Gallie, W. B., 4   Gellner, E., 88n.   Godwin, W., 140   Gray, J. C., 6gn.   Greaves, H. B., 32n., 36n.   Green, T. H., 34, 38n., 133n., 150, 151n.    Hampshire, S., 53n.   Hare, R. M., 123   Harrison, W., 32n.   Hart, H. L.A., 9   Hayek, F. A., 2   Hegel, 1, 7, 12, 13, 22, 33, 34, 52M., 133, 142   Helvetius, 142n.   Hermens, F. A., 177n.   Hobbes, 1, 12, 15, 33, 34, 83-6, 91, 95, 97-8, 102, 109, 110, 119,  131, 143N., 145   Hohfeld, W. N., 55n., 64n.   Homans, G. C., 106n.   Horsburgh, H., 45n.   Hume, 10, 11, 110, 129, 135N., 137N., 139N., 193    Jaffa, H. V., 32n.   James, William, 152, 165n.   Jefferson, 145, 169   Jouvenel, B. de, 83-4, 86, 98, 101-2, 104, 106  Kant, 56   Kelsen, H., 69n., 73n., 75~7   Lamont, W. D., 55n.   Laslett, P., 32n.   Lassalle, F., 145   Le Bon, G., 160, 161   Lecky, W. E., 128, 131   Lincoln, Abraham, 169, 170n.   Lindsay, Lord, 68n.   Locke, 1, 5, 7, 12, 33, 110, 115, 143, 144  Macdonald, M., 38n.   Machiavelli, 1   Maitland, F. W., 129, 133n., 136n., 137N., 140  Marshall, G., 70   Marx, 2, 23, 24, 30, 40n.    INDEX 201    May, Erskine, 128   Mill, James, 129   Mill, J. S., 1, 17, 50, 143-8  Miller, J. D. B., 113-5  Morris Jones, W. H., 41n.  Murdoch, Iris, 39   Myrdal, G., 39   Niebuhr, R., 43    Paine, Thomas, 145   Pareto, V., 160   Peters, R. S., 3, 13, 97-9, 101, 103, 105-10, 123, 189-93  Plamenaw, J., 3, 5, 32N., 36n.   Plato, 1, 33, 54n., 88, 129   Polanyi, M., 44   Popper, Sir Karl, 4, 41, 44    Rees, J. C., gan.   Rees, W. J., 67, 68n., 6gn., 71n., 74n., 77-8, 80  Ribot, T., 160   Ross, Sir David, 133n.   Rostow, W. W., 48n.   Rousseau, 1, 12, 13, 15, 22, 34, 119-24, 142    Salmond, J. W., 6gn.   Schelling, T., 120   Schubert, G., 112   Schumpeter, J. A., 17, 46-50, 51  Shils, E., 41, 497.   Shkiar, J., 36n.   Smith, Adam, 144   Sorauf, F. J., 112   Stephen, Sir J. F., 128, 129, 146  Strachey, J., 39   Strauss, R., 32n.   Tocqueville, A. de, 34, 130, 131, 143  Truman, D. B., 113    Villey, M., 147n.    Wallas, G., 34, 160n., 165n.   Warrender, H., 85, 93   Weber, M., 6, 86-8, 100n., 101, 106, 107  Weldon, T. D., 2, 22, 23, 33, 92   Winch, P. G., 13   Wittgenstein, L., 99   Wollheim, R. A., 72n.  “At Oxford,” Grice said, “we hear a lot about Macchiavelli – as he should not! We should hear so much more about Guicciardini: my kind of decent chap!” Keywords: Grice, Guicciardini, giustizia politico-legale, giustizia politica, giustizia legale, giustizia morale. Aristotle, logically developing series, constituzione. Filosofo fiorentino. Filosoco toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana, Italia. Guicciardini. Grice: “Guicciardini is what I call an Italian classic; some like Machiavelli, as Austin used to say, “but Guicciardini is MY Renaissance man!” – Grice: “There are various topics of interest: the italian of Machiavelli and Guicciardini in the development of a philosophical political lexicon; there’s the trope of the centaur –‘all’ombra del centauro.’ – Pure political philosophy of the type enjoyed by members of the Debating Union at Oxford!”  Terzogenito dei Guicciardini, famiglia tra le più fedeli al governo mediceo. Dopo una prima formazione umanistica in ambito familiare dedicata alla lettura dei grandi storici dell'antichità (Senofonte, Tucidide, Livio, Tacito), studia a Firenze seguendo le lezioni di Pepi. Soggiornò a Ferrara per poi trasferirsi a Padova per seguire le lezioni di docenti di maggior importanza. Rientrato a Firenze, esercita l'incarico di istituzioni di diritto civile. Nominato capitane dello Spedale del Ceppo. Inizia la stesura delle Storie fiorentine e dei Ricordi. Dieci anni prima si chiudono quelle Cronache forlivesi di Leone Cobelli che espongono le premesse degli avvenimenti riguardanti Caterina Sforza e Cesare Borgia di cui G. si occupa, nelle sue Storie, per i notevoli riflessi che hanno sulla politica fiorentina. In occasione della guerra contro Pisa, venne chiamato a pratica dalla signoria, ottenendo l'avvocatura del capitolo di Santa Liberata. Questi progressi portarono G. anche ad una rapida ascesa nella politica, ricevendo dalla Repubblica Fiorentina l'incarico di ambasciatore presso Ferdinando il Cattolico. Da questa sua esperienza nell'attività diplomatica nacque la Relazione, e anche il "Discorso di Logrogno", un'opera di teoria politica in cui G. sostiene una riforma in senso aristocratico della Repubblica fiorentina. Fece parte degli Otto di Guardia e Balia ed entra a far parte della signoria, divenendo, grazie ai suoi servigi resi ai Medici, avvocato concistoriale e governatore di Modena, con la salita al soglio pontificio di Giovanni de' Medici, col nome di Leone X. Il suo ruolo di primo piano nella politica emiliano-romagnola si rinforza con la nomina a governatore di Reggio Emilia e di Parma. Nominato  commissario generale dell'esercito pontificio, alleato di Carlo V contro i francesi, matura quell'esperienza che sarebbe stata cruciale nella redazione dei suoi Ricordi e della Storia d'Italia.  Alla morte di Leone X, si trova a contrastare l'assedio di Parma, argomento trattato nella Relazione della difesa di Parma. Dopo l'assunzione al papato di Giulio de' Medici, col nome di Clemente VII, venne inviato a governare la Romagna, una terra agitata dalle lotte tra le famiglie più potenti. Diede ampio sfoggio delle sue notevoli abilità diplomatiche.  Per contrastare lo strapotere di Carlo V, propaganda un'alleanza fra gli stati regionali allora presenti in Italia e la Francia, in modo da salvaguardare in un certo qual modo l'indipendenza della penisola. L'accordo fu sottoscritto a Cognac, ma si rivelò ben presto fallimentare; di questo periodo è il Dialogo del reggimento di Firenze, in cui si ripropone il modello della repubblica aristocratica. La Lega subì una cocente disfatta e Roma fu messa al sacco dai Lanzichenecchi, mentre a Firenze veniva instaurata la repubblica. Coinvolto in queste vicissitudini, e visto con diffidenza dai repubblicani per i suoi trascorsi medicei, si ritira nella villa G. di Finocchieto, nei pressi di Firenze. Qui compose due orazioni, l'Oratio accusatoria e la defensoria, ed una Lettera Consolatoria, che segue il modello dell'oratio ficta, nella quale espose le accuse imputabili alla sua condotta con le adeguate confutazioni, e finse di ricevere consolazioni da un amico. Scrisse le Considerazioni intorno ai "Discorsi" del Machiavelli "sopra la prima deca di Livio", in cui accese una polemica nei confronti della mentalità pessimistica dell'illustre concittadino. Completa anche la redazione definitiva dei Ricordi. Lasce Firenze e ritorna a Roma, per rimettersi di nuovo al servizio di Clemente VII, che gli offrì l'incarico di diplomatico a Bologna. Dopo il rientro dei Medici a Firenze, fu accolto alla corte medicea come consigliere del duca Alessandro e scrisse i Discorsi del modo di riformare lo stato dopo la caduta della Repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Non fu tenuto tuttavia in altrettanta considerazione dal successore di Alessandro, Cosimo I, che lo lascia in disparte. Si ritira nella sua villa Guicciardini di Santa Margherita in Montici ad Arcetri. Rriordina i Ricordi politici e civili, raccolse i suoi Discorsi politici e scrisse la “Storia d'Italia. Morì ad Arcetri, quando da circa due anni si era ormai ritirato a vita privata.  Guicciardini è noto soprattutto per la Storia d'Italia, vasto e dettagliato affresco delle vicende italiane tra l’anno della discesa in italia del Re francese Carlo VIII e il anno della morte di Papa Clemente VII. -- è un monumento al ceto italiano e più specificamente alla scuola fiorentina di filosofi di cui fecero parte anche Machiavelli, Segni, Pitti, Nardi, Varchi, Vettori e Giannotti.  L'opera districa la rete attorcigliata della politica degli stati italiani del Rinascimento con pazienza ed intuito. L'autore volutamente si pone come spettatore imparziale, come critico freddo e curioso, raggiungendo risultati eccellenti come analista e filosofo (anche se più debole è la comprensione delle forze in gioco nel più vasto quadro europeo).  G. è l'uomo dei programmi che mutano "per la varietà delle circunstanze" per cui al saggio è richiesta la discrezione (Ricordi), ovvero la capacità di percepire "con buono e perspicace occhio" tutti gli elementi da cui si determina la varietà delle circostanze. La realtà non è quindi costituita da leggi universali immutabili come per Machiavelli. Altro concetto saliente del pensiero guicciardiniano è il particulare (Ricordi) a cui si deve attenere il saggio, cioè il proprio interesse inteso nel suo significato più nobile come realizzazione piena della propria intelligenza e della propria capacità di agire a favore di se stesso e dello stato. In altre parole, il particulare non va inteso ego-isticamente, come un invito a prendere in considerazione solamente l'interesse personale, ma come un invito a considerare pragmaticamente quanto ognuno può effettivamente realizzare nella specifica situazione in cui si trova (dottrina che collima con quello di Machiavelli).  In netta polemica, Pitti scrisse l'opuscolo Apologia dei Cappucci, a difesa della fazione dei democratici. E considerato il progenitore della storiografia moderna, per il suo pionieristico impiego di documenti ufficiali a fini di verifica della sua Storia d'Italia.  La reputazione di G. poggia sulla Storia d'Italia e su alcuni estratti dai suoi aforismi. I suoi discendenti aprirono gli archivi di famiglia e diedero incarico a Canestrini di pubblicare le sue memorie.  Furono pubblicati i suoi Carteggi, che contribuirono ad un'accurata conoscenza della sua personalità.  «L’angolo di prospettiva dal quale si prese a considerare, nella prima metà del secolo XVII, l’opera guicciardiniana, la posizione di questa nel giudizio dei lettori secenteschi, sono bene indicati da uno spirito acuto dell’epoca, A. G. Brignole Sale. “Quindi non per altro, a mio giudizio, porta pregio G. sopra il Giovio, sol che questi, qual pittor gentile, de’ soggetti ch’egli ha per le mani colorisce agli occhi altrui con vivacissimi ritratti, senza inviscerarsi, la superficie, quegli per contrario, qual esperto notomista, trascurando anzi dilacerando la vaghezza della pelle, vien con l’acutezza della sua sagacità fino a mostrarci il cuore e il cervello de’ famosi personaggi ben penetrato.” All’affiatamento con lo spirito dell’opera guicciardiniana si accompagnò, sul piano letterario, una migliore intelligenza del suo stile, di cui si cominciò ad ammirare, superando le pedanti riserve linguistiche, la scorrevolezza, l’intima misura e precisione pur nel tono sostenuto. Tuttavia, proprio dal più accreditato esponente letterario del tacitismo, Boccalini, fu formulato un giudizio tra i meno benevoli alla Storia.»  Il giudizio di Francesco De Sanctis  Copertina di un'antica edizione della Storia d'Italia Sanctis non ebbe simpatia per G. ed infatti non nascose di apprezzare maggiormente Machiavelli. Nella sua Storia della letteratura italiana il critico irpino mise in evidenza come G. fosse, sì, in linea con le aspirazioni di Machiavelli, ma se il secondo agì in linea con i suoi ideali, il primo invece "non metterebbe un dito a realizzarli". De Sanctis affirma:“Il dio del G. è il suo particolare.” “Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici, o lo stato del Machiavelli.” “Tutti gli ideali scompaiono.” “Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato.” “Non rimane sulla scena del mondo che l'INDIVIDUO.” “Ciascuno per sé, verso e contro tutti.” “Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita”. E poco più in basso aggiunse. “Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli, l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare. Né altro è il sistema. G. nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa, e ammette quello che è più logico e più conseguente. Poiché la base è il mondo com'è, crede un'illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo, quando esso le ha di asino, e lo piglia com'è e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento".  Nel Romanticismo, la mancanza di evidenti passioni per l'oggetto dell'opera era infatti vista come un grave difetto, nei confronti sia del lettore che dell'arte letteraria. A ciò si aggiunga che G. vale più come analista e filosofo che come scrittore. Lo stile è infatti prolisso, preciso a prezzo di circonlocuzioni e di perdita del senso generale della narrazione. "Qualsiasi oggetto egli tocchi, giace già cadavere sul tavolo delle autopsie".  Altre opera: Scritti autobiografici e rari (Laterza), Storie fiorentine; Discorso di Logrogno, Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, Ricordi politici e civili Dialogo del Reggimento di Firenze, Storia d'Italia, Scritti sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia (Firenze, Olschki); Le cose fiorentine, R. Ridolfi, Firenze, Olschki, Carteggi,  presso Zanichelli, Bologna;  presso Istituto per gli studi di politica, Firenze; presso Istituto storico italiano, Roma; presso G. Ricci, Roma. "Donna di grandissimo animo e molto virile", secondo G. (Storie fiorentine). N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, A. G. BRIGNOLE-SALE, Tacito abburatato, Genova, «Or chi non vedescriveva il Tassoniche questo è uno stil maestoso e nobile, quale appunto conviensi alla grandezza delle cose proposte e alla prudenza politica dell’Istorico che le tratta? e che non ostante i periodi sien tutti numerosi e sostenuti, per esser ben collocate le parole fra loro, e però l’ordine, e ’l senso facile e piano in maniera che ’l lettore non trova scabrosità né intoppi, come nello stil di Villani, che va saltellando e intoppando a ogni passo etc. A. TASSONI, Pensieri diversi, Venezia,  Il legame del pensiero politico tassoniano con quello di G. (incluso, a differenza del Machiavelli, tra gli storici della «prima schiera» con Comines e Giovio, ossia considerato pari agli antichi; v. Pensieri) e del Machiavelli è noto: i due fiorentini, come dice il Fassò, furono «i due poli» a cui si volse la sua riflessione politica. (Introduz. a TASSONI, Opere, Milano-Roma,  T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, I, Bari,  Binni, I classici italiani nella storia della critica: Da Dante al Marino, Nuova Italia, Testi Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze” (Bari, Laterza); “Historia di Italia, Pisa, Capurro; Historia di Italia. Libri (Venezia, Angelieri): Scritti autobiografici e rari” (Bari, Laterza); “Scritti politici” (Bari, Laterza); “Storia d'Italia” (Bari, Laterza); “Storie fiorentine” (Bari, Laterza); Studi R. Ridolfi, 'Vita', Milano, Rusconi Treves, Il realismo politico, Firenze, R. Ramat, “La tragedia d'Italia” Firenze, V. De Caprariis, G. Dalla politica alla storia, Napoli, (ristampa Bologna, G. Sasso, Per G. Quattro studi, Roma, E. Cutinelli-Rèndina, G., Roma, Famiglia G.. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Propositioni, overo Considerationi in materia di cose di Stato, sotto titolo di Avvertimenti, Avvedimenti Civili, et Concetti Politici di G., Lottini, Sansovini, Venezia, Presso Altobello Salicato, Opere illustrate da Canestrini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., (Bari, Gius. Laterza); biblioteca italiana. Il principe, che colmezo del suo Ambasciatore vuole ingannar Paltro, deue prima ingannar l'Ambasciatore, perche opera, en parla con maggior efficaccia, credendo che cosi sia la mente del fuo Principei, lche non farebbese credesse essere simulatione, eg il medesimo ricordousi ogn'uno, che permezo d'altrivuoleper Juaderea un'altro il falso. DAL fareò non fare una cosa che paiaminima, depende ben spejlo momento di cose importantissime, o però nelle cosepiccole deue fieffere auuertito, ceonsiderato. FÁCIL cosa è guastarsi un bel'esere dificile al racquistarlo, però chi si truong in buon grado deue fareogni sforzo di non lasciar selovscirdimano. E' Pazzia sdegnarsi con quelle persone con le quali per la grandezza loro, tu non puoi sperare di poter uendicarti, però se bena pare essere ingiuriato da questi, bisogna patire, e simulare NELLE cose di guerra nasconoda un'hora à vn'altra infinite varietà, però non fide uepigliare troppo animo dele nuoue prospere, nè uiltà delle auuerse, perche speso nasce qualche mutatione, ma questo deue insegnare, che a chi se li presenta l'occasione non la perda, perche dura poco. COME il fine de mercanti è il piu delle volte il fallire; quello de nauiganti il fom mergere, cofi spesso di chi lungamente gouerna il fine è capitar male QYESTI ricordi son REGOLE, che in qualche caso particolare che ha diversa   LE cose che sono uniuerfalmente desiderate, rare uolte riescono, la ragione è cheli pochi sono quelli che communemente danno il motto alle cose, e a li fini, di che sono contrarij al jaigli appetitidi molti TVTTE le sicurtà che si possono hauere del'inimico son buone, di fede, di amici, di promesse, ed'altre assicurationi, ma per la mala conditione degli huomini, e variatione de tempi nissuna altraè migliore, et piu ferma, che accommodarsi in modo, chel'inimico non habbia poteftà d'offenderti. Nessuna cosa deve desiderare piu l'huomo in questo modo, nè attribuirlo piu a fua felicità, che uedere l'inimico fuo prostrato in terrae ridotto a termini tali, che tu l ' habbia a discretione. Ma quanto è felice a chi accade questo, tanto deve farsi glorioso conl'ofarla laudabilmente, cioè esser clemente a perdonare, cofa propria degli animi generofi, et eccellenti: ragione,   ragione, hanna eccettione, ma quali fiano quei casi particolari, si pofono male insegnare altrimenti, chceon la difcrettione. diuèdicarsi dite, non lo faccia precipitosamente, anzi aspetti il tempo e l'occasione, la quale senza dubbio liuerrà di forte, che senzas coprirsi maligno, o appasionato, potrà sodisfareal fuo desiderio. Chi ha da gouernare Città, opopolieli vogliatenercoreti, Sappia che ordina riamente basta punire i delinquenti aföldiquindici per lira, ma è necessario punirli tutti, che in effetto si acustigato ogni delitto, ma si può ben far qualche misericordia, eccetto delli casi atroci, che bisogna dar essempio. Il ricordo di sopra, bisogna usarlo in modo chel'acquistarno medinoneser bene. fattore, nonfaccia, chegl'huomini fugghino, et a questo si prouedefacilmente, con beneficiar n feuor della REGOLA qualch’ono, perche naturalmente ha tanta si g noria negl’huomini LA SPERANZA che piuti valerà presso agl’altri, et piu essempio favno che tu haba bia beneficiato, che cento che non habbino datehauutor emuneratione.  S. Auuertimenti di ingengnate vi di non venire in mal concetto appresso di chi è superiore nella patria vostra, ne uifidate del buon gouerno del uiuer nostro, che sia tale, che non pensiate d'hauerglia capitar nelle mani; per che nascono infiniti, e non pensati casi di hauer bisogno di lui, è conuerso il Superiore se ha voglia di punire. Tutti gli huomini sono buoni, cioe doue non cauano piacere o utilità del male, piace piu loro il ben che il male: ma sono varie le corruttele del mondo e fragilità loro; et spesso perl'interesse proprio inclinano al male. Però da faui Legislatorifie per fondamento delle Republiche trovato il premio e la pena, non per violentare gli huomini, ma per che seguiti ng l’inclinatione naturale. Piu tengono a memoria gl'huomini l'ingiuria, che i beneficij riceuuti, anzi quando pure si ricordano dei benefici, lo fanno nell’imagine sua minore, che non furiputun dosimeritar piu che non meritano. Il contrario si fa dell'ingiuria, che duolead ogniuno E 'laudato appresso gl'antichi,& è verissimo prouerbio: Magistratus virumostédit, perche con questo paragone non solo si conosce per il peso che siba, sel'huomo è d'assai o da poco, ma per lapoteftà, e licenza si scuoprono le affettioni dell'animo, cioè di che natural'huomo fia, perche quanto altrui è piu grande tanto manco freno, e rispetto ha ala sciarsi guidare da quel chegl'è naturale. SE li Scrittori fufero discreti, o gratisarebbe honesto, e debito, che li padroni li beneficiassero quanto potesero, ma perche sono il piu delle volte d'altr anatura, e quando fono pieni, o li lasciano, ò li straccano, però è piu vtile andare con loro con la mano stretta, e trattenendoli con SPERANZA, darloro di effetti tanto che bastia fare che non si di Sperino. piu, che ragione nol mente non doveria dolere, però douegl'altri termini. forpara guardate uidi far quelli piaceri, che di necessità fanno ad un altro dispiacere vguale, perche per la ragione detta di sopra, si perde in grosso, piu chen on si guadagna., perche per esperienza si vede che gli huomini non son grati, però nel fare i calcoli tuoi, òneldi segnar disponer degli huomini fa maggior fondamento in chi ne consegue vtilità, che in chi s’ha da muouer folo per rimunerarti, perche in effetto i beneficij si dimenticano. che procede da bron’animo, fi vede, che pur tal volta è remunerato qualche beneficio, e anche spesso di forte, che ne paga molti, et è credibile che aquella potestà ch'èso pragli buomini piaccino l'ationinobili, e però non consenta che sia no senza frutto: Ingegnate vid’hauere degli amici, perche son buoni in tempi, luo ghie casi, che voi non pensarete, e questo ricordo ben che vulgato, non lo può considerare profondamente quanto vaglia, achinon è accaduto in qualche fua importanza fen tirne l'esperienza: PIACE vniuersalmente, chi è dinatara vera e liberă, et è cosa generosa, ma talvolta nuoce. Ma dall'altro canto, la simulatione è vtile,ma'è odiata, G hadelbrut the è necessaria per le male nature de glialtri, però non sò quale si debba eleggere, Credo però, che si possa vsare l'onaordinariamente, senza abbandonarl'altra, cioè nel corsotuo ordinario comume vjarla prima in modo, che acquisti no medi persona libera, non dimeno in certi casi importanti potrai sare la simulatione, la quale à chi vi ue così è tanto piu vtile, e si crede meglio quanto per bauernome del contrario, tiè facilmente creduto E INCREDIBILE quanto giouia chi ha amministratione, che le cose sue fieno segrete, perche non solo i disegni suo qiuando sifanno, possono eser prenenuti, e interrotti, ma ancora l'ignorare i suoi pensieri, fa che gl'huomini fanno sempre attoniti. Piu fondamento potete fare invnoc'habbia bisogno divoi, oc'habbia in qua! Che caso l'interese commune che in vnoc'habbia riceuuto daboi beneficio. Ho posto i ricordi di sopra, perche sappiate viuere, e riconosciate quelche le cose possono, non accio che viritiriate dal beneficiare, perche oltreche è cosa generosa, en PER Le cagioni di sopra, non laudo chi viue sempre con simulatione, et con arte, mascufo benechi qualche voltal'vja.  $1A certo che se tu desideri, che non si sappia che hai fatto, ò tentato qualche cosa, che è sempre a proposito il negarla. Perche ancora che il contrario sia quas iscoperto et publico, tutta uia negandola efficacemente, sebene non lo persuadia chi hai ndi tij, o crede il contrario, non dimeno per la negatione gagliardasegli mette il ceruello à partito. A 3 e sospetti,   e fofpetti, aoßeruare le sue attioni. Ed'ogni fuominimo moto, si fannomille commente ti,& interpretationi, il che glidà gran riputatione, però chi è in tal gradodo uerebbe auezzare i suoi ministri non solo à tacere le cose che mai sifappino, ma ancor tutte quel le che non è ptilechesi publichino. Ancora quelli che attribuendo tutto alla prudenza, o virtů, s'ingegnano escludere la fortunna, o n possono negare, che non si agrandissi ma forte nascere d quel tempo, o abbattersi a quelle occasioni, che sienoin prezzo quelle parti,o pirtùinchę tu vali . NON voglio già ritirar quelli che infiammati dall'amore delta Patriasi metto Ho a pericolo per rimetterla in libertà, e liberarla da Tiranni; ma dico bene, che chi cerca mutatione distato per suo intereffe non è sauio, perche è cofa pericolosa, eli vede cõeffettiche pochissimi trattati sono qui che riescano, e poi quando bene è successo, fide e quasisempre che nella mutatione tu no conseguisci di gran lunga quel che tu hai disegnato, et in oltre ti oblighià vno perpetuo trauaglio, perche sempre tu hai da dubitare, non tornino quelli, che tu hai fcacciatijeti vecidino. Chi pur puo leattendere'atratati,si ricordi, che nefunacosa lirouinapiucheit desiderio di volerli condurre troppo fieuri, perchéchi vuolfarperinter ponere manco tē po, implica piu huomini, e mescola piu cose, dalla qual causa si scopronosempre fimili pratiche. Et anco è da credere che la fortuna, sotto l'animo di chi son qoueste cose si j de gniconchi vuolliberarsi dalla potestà fua et asicurarsi, però è piu sécuro volerli esem quire con qualche pericolo, che controppasicurta. Non disegnates ù quello, che non hauete, nè spendete fuli guadagni futuri; perche molte volte non fuccedono, eti troui inuiluppato, et si vede il piu dele volte, che li mercanti groffifalliscono per quefto, quando per SPERANZA d'vin maggior guadagno futuro, entrano suo cambi; la moltiplicatione de quali è certa, et ha tempo determinato, ma li guadagni molte volte,o non nengono, o fiallungano piu che ildia. Osserva I quando ere Ambasciatore in Ispagna appresso il Re Ferdinan do d'Aragona Principefauio, et glorioso, che egli quando voleua fare una guerra, impresa nuoua, ò altra cosa d'importanza, non prima lap ublicaua, e poi la giustificaua, ma per il contrario vsaua arte che innāzi s'intendesse quellocʻbaueuain animo, er fi diuulgana il Re douerebbe per letali cagionifar questo in modo, che doppo publicandosi quelche già pareuagiufto ad ogni unoo necesario, è incredibile con quanta lände erano riceuute le fue deliberationi. Rcon vi affaticatea quelle mutationi che non parteris con oaltro, she mutarei viside gl’huomini: perche che beneficio ti recafe quel medesimo male, o dispeto che ti faccia Pietro ti faccia Giovanni? Jegne,   Tegno, di modo, che quella impresa che tu haueni cominciata come vtile, tiriescedania nofiffima SE hauete falit openfate la bene, e misurate la bene, tananzi che entriate inprigio ne perche ancorach'il cafo fusse molto dificile a scoprire, tamen è incredibile, a quante cose pensa il giudice diligente e desideroso di trovare la verità,& ogni minimo spiras glio è bastante a far uenire tutto a luce, o fa tiche. Ma quelchela fa forse desiderabile ancora all'anime purgate, è l'appetito che s'had'essere fuperiore agl'altrihuomini, il che è certo. cafa bella et beata, attesomaffia me ch’innessuna altra cosa ci pesamo assomigliare a Dio denti subiti de repentini, cosa che agiudiciomio è rarissima pericoli,& mai la medesima ragione fa, che quanto piul'huomo inuecchia, tanto pingli per fatica il morire, e sempre piu conleattioni, e con li penfieri viue, comes ejapesenon ha weremaia morire. SI CREDE, et anco spesso fe uede per esperienza che le ricchezz emale acquistate, non passano la terza generatione. Sant'Agoftino dice, che Dio permette, che chi l'haacquistate goda in rimuneratione di qualche bene, che ha fatto in vita, ma poi non passano troppo innanzi, perche è giudicio di Dio ordinariamente, che cosi nada di male larob amale acquistata. Iodiligiàadun Padre, che ameoccor reua un'altra ragione, perche chi ha acquistata la roba, è communemente allenato dapouero, l'amascsal'arte di conferuarla, ma i figliuoli che sono nati et allcuatida ho desiderato come glialtri huomini l'honore et l'otile, et infinquiper gram tia di Dio è fucceduto sopra il disegno, e nondimeno quando ho conseguito quelche desiderauo, non uiho ritronato dentro alcuna di quelle cose che mi haueuo imaginato, ragione, à chi ben la considerasse, che doueri abastare ad eftinguere affai la fete degli huomini. La grandezza di ftato vniuersalmente è desiderata, per che tuto il bene ch'èin Jei-apparisce difuori, il male stà dentro occulto, il quale chinedesse non ebarebbe forse tant anoglia, perche è pienasenza dubbio di pericoli, di sospetto di mille trauagli. Le cose non prenedute, nuocono senza comaratione pisa, che le prouifte; però chiama moio animo grande e perito, quelo che regge, e non si sbigotisce porili  Non è dubbio, che quanto piu l'huomo inuecchia, piu cresce l'auaritia. Si dice communemente esserne causà, perche l'animo diminuisce, ragione, che amenon è capace, perche è bene ignorante quel uecchio, che non conosce hauerne minor bisogno, quan ldpiu inuecchia, et inoltre ueggo, che ne'uecchi s'augmenta per il cotrario la lusuri dico l'apetito e non la forza la crudeltà, egl'altriuitij però credo, che la ragion ue-: safia, che quanto piu si uiue, tanto piu l'huom os'habitua alle cose del mondo o per consequente piu l'amaricchi, A 4   ricchi, non sanno che cosa sij l'acquistar roba, et non hauendo arte, ò modo di conservarla facilmente la disipano. Non fi può biasimare l'apetito di hauer figliuoli, perche è naturale: ma dico bene, che è fpecie di felicità non hauorne, perche etiandio chi gli ha buoni, e saur,' perdita ditenpošle quali cosesono tenute male neli nostri giudicij, che l’impossibile, chel'huomo se bene è d'ottimo ingegno, e giudicion a turale posa aggiugnère s& bene intendere certi particolari, però è necessaria le sperienza, la qual non altro gli insegna, e questo ricordo lo intenderà meglio, chi ha maneggiato facende assai, perche con le sperienza medesima ha imparato quantovan glia, e sia buona l'esperienza. Stretto non toglie à nessuno, pinsono quelli che patiscono del le grauezze del prodigo, che quelli che hanno beneficio della fica larghezza: La ragione dunque al mio giudicio è, che neglihuomini puo piu la SPERANZA che il timore, et piu Sono quelli che ferono coseguire qualche cosa dalui, che qui, che temono essere oppressi. Auuertimenti di senza dubbi omolto piu dispiacere di loro, che cosolatione. L'esempio l'ho veduto in mio Padre, che a suoi dì era essempio a Firenze di padre ben dotato di figliuoti, però pensa secomestia, chi gli ha di mala forte. Piace senza dubbio piu vn Principe c'habbia de lprodigo, chevnoo’habbia dello stretto, ő tamendo uer ebbe essere il contrario perche il prodigo è neceßitato fa reestorsioni, Grapine, lo sha messia sua volontà, et afuo beneplacito, perche la legge non gli ha voluto dar poteftà di farne gratia, ma non potendo nei casi particolari, per la varietà delle circostanze darne precisa determinarione,si rimette all'arbitrio del giudice,cioè alla sua conscienza, che considerato il tutto, faccia quelche glipare piu giusto, et bonefo, et chi altija menti l'intendesse, s'inganna, perche la forza della legge lo affolue di hauerne a dar conto, perche non hauendo il caso determinato, si può sempre scusare, ma non gli dàf a caltàdi far dono della roba d'altri. Si ved per esperienza, che i padroni tengono poco conto de seruitori, e per ogn si ua commodità, et appetito gli mettono da parte. Tolaudoque seruitori, che pigliando essempio da padroni, tengono più conto dele interesi suoi, che di loro, il che però consiglio che si faccia, salvando sempre l'honore e la fede. Erra chi crede che li casi, che la leggerí mette ad arbitrio del giudice, fienorin. Non biasimo interamente la giustitia ciuile del Turco, che è piu tosto precipitosa, che fommaria: perche chi giudica a occhi chi usi ragionevolmente, spedisce la meta delle cause giustamente, e liberale parti daspese, et spesso farebbe piu per chi ha ragione ha uere hauuto da prima la sentenza contra, che conseguirla doppo tanto difpendio, do ti trauagli, senza che à per malignità, o per ignoranza delli giudici;ó ancora per oflervanza delle leggi si fa del bianconero. L’in deui offeruare questa opinione, etiamcon qualche tua incommodità, et in questo s'ingannano spesso gli huomini, perche si muovondo a qualche poco di danno, che apparisce, et non confiderano quanto siano grandi i beni, che non si veggono, perche i sudditi non veggono, e non misurano appunto quelche tu puoi fare, anzi imaginando si molte voltela potestà tua maggiore, che non è, credono a quelle cose che tu non li potresti costringerė. Sono alcuni huomini saui a sperare quello che desiderano, altri che ma i lo crea dono, in fin, che non neson obensicuri, et senza dubbio piuv tileè sperare in simili casi poco, che molto, perche la SPERANZA ti fa mancare di diligenza, e ti dà piu dispiacere, quando la cosa non succede. Quanto bendisse colui. Ducunt volente sfatano lentestrahunt, se ne veg gono ogni dìtante esperienze, che a me non pare, che mai cosa alcuna sia icelj imeglio.  Saui, che si devgeodere il beneficio del tempo. L’intendersi bene con li frateli, e con li parenti, fa infiniti beni, che tu non conosci, perche non appariscono advi per vno, ma infinite cose ti profitta, fatti hauere in rispetto, però altrimenti è impossibile che lungamente sia tenuto buono.  Chi non sicura d'essere buono, ma desidera buona fama, bisogna che sia buono. Fuigid d'opinione dinonvedereetiam col pensare assai, quelche non vedeuo presto: ma conl'esperienza ho conosciuto esere falsissimo, però fáteuibefe di chi di ce altrimenti. Quanto piu si pensano le cose, tanto meglio s'intendono, á si fanno: Quando ti verrà occasione di cosa che tu desideri pigliala senza perdere tempo, perche le cose del mondo si variano tanto spello, che non si può dire di hauer cofa alcuña, finche non si a in mano. Et quando ti è proposta qualchecosa che ti dispiace, cerca il diferirla piu che tu puoi, perche ogni borasi vede che il tempo porta accidenti, che ti cauano di queste difficoltà, e così s’ha da intendere quel prouerbio, che dicono i ILTIRANNO faestrema diligenza di scoprire l'anitzetio, ciodseti con tentidel tuostato, consider agliandamenti Ünnodituoi, concetičare dritesdiertocat chi chi ha autorità, et signoria puo fpingersi, et flenderla ancora sopra le forze sue. Se tu vuoi conoscere quali fieno i pensieri de Tiranni, legi CORNELIO TACITO (si veda), quan do fa mentione degloltimi ragionamenti c'hebbe OTTAVIANO con TIBERIO. Il medesimo CORNELIO TACITO achibenlo considera, insegnaper eccellenza come s'ha da gouernarechi vine sotto a un tiranno. Thì CONVERSA teco, e con ragionarte co di varie cofe, et ponerti domandarti partiti, et parere, però se non vuoi che t'intenda, bisogna che ti guardi congrandissima diligenza, da mezzi che egli vsa, non vsartermir: A chi ha conditione nella patria, efiafotoon tiranno fanguinofo et beftia le, si posjondare poche REGOLE, chseieno buone, eccettoiltorso l'esilio Ma quando il tiranno, o per prudenza, ò per necessità del suo stato si gouerna con sospetto, on’huomo ben qualificato deue cercare di essere tenuto da affai, e animoso, ma di natura quieto, nè cupido d'alteraresenon è sforzato, perche in tal caso il Tiranno ti accarezza, e cerca dinondarti caufa di farnouità, il che non fariaseti conoscesse in quieto, perche all’hora pensa in ogni modo che tu non sia perftarefermo, onde è neceffitato pensare sempreťoccasione di spegnesti. Secondo il termine di sopra,è meglio non esere de li piu intimie confidenti del Tiranno, perche non solo ti accarezza, ma in molte cose, famanco asicurtàte co, che conli suoi, cosìtugodilasua grandezza, et nella rouina sua diuenti grande, ma di questo ricordo non se ne può valere chi non ha conditione grande nella sua patria. E differenza dhauereli fudditi disperati, ad hanerli malcontenti, perche quelinon pensa no mai ad altro, che a mutatione di stato, e la cercano etiam con suo pericolo, questi sébenenon si contentano, e desiderano cose nuouteamennoninui tanole occasioni, ma aspettano che da seuenghino. Non posono gouernare i suditi bene senza le verità, perche la malignità de gli buomini cerca cosim, asiuvolemescolar destrezza, et fardimostratione, accioche glihuominicredano,chelacrudeltànon piace,ma che l'usiper necessità, esalute publica. Si doverij atendere a li efeti non ale dimostrationi, esuperficie, e non di manco dincredibile quanta gratia, cöfauoveticöcilino appresoglihuominileca rezze, et lahumanità di parole. l ragione credo che sia, perche ogni uno sistima, par meritare piu che non uale, e però sisdegna', quandonede, chetunontieniquel contodilui, che gli pare che se gli conuenga.  Avvertimenti di che babbino a dar sospetto, guardandoco meparli, etiam conlintimi tuoi, e secoragionando, e rispondendo di forte, chenonti poljacauare, i!che tiriuscirà, seti presupponi sempre que l'obbietto, che egli quanto puoticirconuieneperscoprirti. E cosa honoreuoleà un'huomonon prometterese non quello cheuuole offer nare,ma communemente tuttiquelligachituneghi,á giustamente, restano malfo dif fatti, perche gli huomini non Jilalano gouernare dalla ragione: Il contrario intra uiénea chi promette, perche intra uengono molti casi, che fanno che non accade fare l'esperienza di quello, chetuhaipromello, e cosihaiso disfatto conlamēteyetse pure s'hadauenire al'ato non mancano Spedoscuse, emoltisonofigrofli, che si lasciano aggirare con parole, nondimeno è fi brutto mancare alla parola sua, chequestopre pondera ogni utilità ch esitragga dal contrario, e però l'huomo sideue ingegnaredi trattenersi  quanto puo con risposte generali, e piene di buona SPERANZA, ma non difor techeti oblighino precisamente. Perche è paz giafarsi nimico senza proposito, et ueloricordo, perche quafi ogni unoerrainque fta leggerezza. Chi entrane' pericolisenza confiderarequel chepossono, oimportino, si chiama bestiale, maanimosoè quello che conoscendo i pericoli uientra francamente, operne cefftà, o per honoreuol cagione. ranno. mad ti i popoli, Credono molti, che unfauio, perche uede tuti i pericoli, non possaessere animoso: io sono di contraria opinione, che non possa essere savio chi non è animoso, per che manca di giudicio, chi stima a d auuenire il pericolo, piuc he non si deve, ma per auuentura questopaso, che è confuso, deue si considerare, che non tutti i pericoli hanno effetto, perche alcuni neschi fal'humo cola diligenza, et industria, et franchezza sua, altriil caso iftesoet mille accidenti che nascono portano uia, però chi conoscos pericoli, no li deve mettere tutti ad entrata, e presupponere che tutti succedano,m a discorrerecon prudenza quelche altruipuò sperare d'aiutarsi, edoue il caso verisimilmente gli può farfauore, farsianimo, nè ritirarsi dall’impresedirili, e honoreuoli per paura di tutti i pericoli che conosce esser nel caso. Erra chidice che le lettere e gli studij guaftano il cervello degli huomini, perche forseè veroachil' ha debole, ma doueleletteretrouanoil naturale buono, lo fanno perfetto, perche il buon naturale congiunto coʻl buono accidentale fanno buonif Jima compositione. Livi E sen a  comparatione piudetestabilein vn principe l'avaritia,cheinun priuato, non solo perch ehauendopiú facultà da diftribuire, priua gli huomini tanto più: maetiam perche quello che ha vn priuato è tutto fuo, et per uso fuo, e nepuòsenze giufta querel ad'alcuno disponere, ma tutto quello che ha il principe, gli èdatopervalós e beneficio d'altri, et per òritenendolo in fe, frauda gli huomini di quel ch edeueloro. Guardate vI da tutto quello cheuipuonuoceree non giouare, però in presenza d'altri, non ditemai senza necessità cose, che dispiaccino, Non furonotrouatii Principipe rfarbeneficioaloro, perchenessunofefareb bemessoinseruitù grauiffima, ma perinteresedepopoli, perchefuserobenegouernati, peròcomeonPrincipehapiurispettoafe,cheaipopoli, nonèpiu Principe Dico che il Principe che famercantia, questononsolofacosavergognosa, ma è Tiranno, facendo quelloche è oficio de priuati, enonde Principi, et peccatanto verfa   Auuertimenti di ipopoli, quanto peccherienoi popoliversolui, volendointromettersiinquel che è oficio solo del Principe. Le cosedelmondo sono varie, edipendonodatanticasi, e accidenti, che difficilmente si puo far giudicio del futuro, et sivedeperesperienza, che quasi sempre le conietture de sanij sono fallaci, però non laudo il consiglio di quelli che lasciano la commodità d'onben presente, ben che minore, per paura d'on mal futuro, benche maggiore, se non è molto propinquo, et moltocerto, peichenon succedendo poispessoquello dichete meui, titrouipervna pauravanahauerlasciato quello chetipiaceua, et peròèfauio quelprouerbio. Dicosanascecosa. Nelle cose dello stato ho veduto spessoerrarechi fa giudicio, perche esamina quello che ragione uolmentedouerebbfear questoe quel Principe, et no consideraquel loche farà,verbigratiail Re di Francia, perche deue hauer piu rispeto, qualsialana tura& costumi don Francese, che àquello douerebbe farciascun Principe, prudente, faggio, e giusto. Ho detto molte volte, etlodicodinuouo, ch’oningegno capace, et chesappia farecapitaled el tempo, non ha causa di lamentarsi, chelauitasiabreue, perche può attendereadinfinitecose, e spendereytilmente il tempo, gli auanza tempo. Non èfaciletrouarequestiricordi, ma è piu dificileesequirli, perche spesso l'huomoconosce, manonmetteinatto, però volendo vsarlisforzate la natura,e fate niunbuonhabito, colmezodelquale, nonfolo farete questi, ma ancoravi verrà fatto senza fatica, tutto quello che vi comanda la ragione. sottol'Imperio, che Tiberio huomo tiranno, et superbo haueuaesofa tantadappocagine. SE hauetemala satisfattione d'ono, ingegnateui quantopotete,chenonsen'accor ga, perche subitofialienaràdavoi, et vengonomoltitempi, e occafioni chevipollo noferuire, viseruirebbe, secol dimostrare d'haverlo in mal concetto, nonvelbauesti giocato, e ioconmiavtili tàn 'ho fatto l'esperienza, che inqualchetempoho hauuto mal animo versod'ono, che non accorgendosenem 'hapožinqualche occasionegiouato, com'è statoamico. L'AM. Non simarauigliardd ell'animobasoeseruilede molti popoli chi leggera in CORNELIO TACITO che li ROMANI solitià dominare il mondo et viuere in tanta gloria, ferui uanosivilmente. Chi vuoletrauagliare, nonsilascicanaredi possessionedellefacende, perchedal l'onanascel'altra, siperl'aditochedàlaprimacaufaalaseconda,comeperlariputa tione che tiportailtrouartiin negotio, et peròsipuo. Ancoa questo adattare il prouerbio: Di cosa nasce cosa. 1 1 e nefas, como ècausad'infinitimali. Però veggiamo cheli Signori fimilichehannoquestoobiet to, nonhannofreno alcuna, o fannounpiano dellaroba, et vita degli altri, purche, cosigli conforti il rispetto dela sua grandezza. similimodi, ha piu lungo trattocheprimanons'haveb becreduto, come ancora intrauieneadvno che muore d'etico o ditisico, chelasuavi tasempresipro lungaoltra l'opinione che hanno hauutoimedici, colivnmercăteinan zichefalisca, peresere consumato dagli interesi fireggepiutēpo, cbenöera creduto. M'e parfasempredificilea credere, che Dio babbiaa per mettere, chelifigliuoli del Duca Lodovico, habbinoagoder quello stato, quando ioconsidero, cheilpadresuo l'havfurpatofceleratamente, é pervfurparloèstato causadellarouina, seruity d'ITALIA editantitraua gli seguiti in tutta Christianità, a questichelibiasimama no sono pazzi, perche starebbefrescala Città, cóloro, seiltiranno non hauesseattor noaltrichetristi. L'ambitione dell'honore, e della gloria è laudabile, et vtilealmondo, perche da caujaa gl’huominidipēsareefarecosegenerose,&ecelse. Nonècosi quella dela grandezza, perchechilapigliaperidolo, vuolhauerlaperfas, L'imprese e cose, che hanno da accaderen on per impeto, ma perche prima si consumano, vannoassai piu in lungo, chenonsicredeuadaprincipio, perchegli huominisiostinanoapatire, apatiscono, lopportano molto piu, chenonsisarebbe creduto. Perùveggiamo, ch'unaguerra ches'babbiaa finire per fame, per l'incomodità, per mancamento didanari, et  Favev1beffe di questi che predicano lalibertà, non dicoditutiman’ec cettuo benpochi, perche ogni unodiquestitali, chesperasjehauerepiubeneinvnosta tostreto, cheinun libero, vicorrerebbeperleposte, perchequasituttipostponeran noilrispeto del'intereseloro, esonpochifimi queli che conoscono quanto vagliala gloria et l'honore. gottirti, e coltenere il capo franco non tilassar eleuare facilmente. Chi conversa congrandinonfilafcileuara cavallo da carezzee dimostrationi fuperficiali, conlequaliefe fanno communementebalzar gli huomini come vogliono, @affogarli nel fauore. Et quantoquestoè piu dificile adifendersitanto piudeuesbir Non potetehauermigliorparte, chetenereconto dell'honore, perche chi faque ftonontemei pericoli, nefamaicosa che sia brutta, perotenetefermo questo capo, ú faraquasiimpossibile, chetuttononvi succeda.bene, expertusloquor. Dico cheunbuoncittadino, e amatoredella patria, nonfolodeuetrattenersi coltirrannopersua sicurtà, perche è in pericolo quando è hauuto insospeto, ma anco ta per beneficio de la patria, perche gouernandosi cosi, gli viene occasione con consigli, e conopere di favorire molti buoni, e disfauorire molti mali Lav   städod imezzo tu sempre rilieuietuincachisi uoglia. La natura de popoli è come quella de privati, diuoleresempre augumentare del gradoinchesitrouano, peròèprudenzanegareloroleprime cose, che domandono, per che concedendo non lifermi, anzigliinuitiadomandar piu, et con maggior instanza, che non faceuonoda principio, perche col.darlispessodaberesegli accresce lasete. Osservate con diligenza le cose de tempi passati, perche fannolumealle future, cumsitcheilmondofia sempred'unamedesimaforte, e che tutto quello che è, sarà,èstatoinaltro tempo, perchele medesime coseritornano, mafotodiuerfinomiz e colori, però ogni uno non le conosce, ma solo chi è sauio, e le considera diligentemente. SE Oferuate bene, trouate che d'età in età si mutano non solamente i uocaboli, modideluejlire, eticostumi, maancoraquelcheèpiui gusti el'inclinationi dell'arme, et questa diuersità si vede etiam in un tempo medesimo dipaeseinpaese, douenonso lo è diuersità delle inftrutioni, maancorade gusti decibiedegliappetitiuarij degli huomini.  Lamene pericolo dell auittoria, ma Auuertimenti di i . Laudo chi nelle guerre d'altri staneutrale, chi è potentediforte, hatalconsi d erationedistato, che non ha da temere il uincitore, perchefuggeilpericolo, elaspesa, ela Stracchezza, di disordini d'altri possono pararti qualche buona occasione: fuordi questi termini la neutralità è una pazzia, perch eattacãdoticonuna delle parti corriso Senza dubbio hamigliortempoinquestomondo,piulungavita, esipuochia mareinuncertomodo felice, chi èd'ingegno piubasso, che questi intellett ieleuati, pero chel'ingegnonobile, seruepiutostoa trauaglio, et cruciato diehi l'ha, nondimeno l’uno participapiu dell'animal brutto che d'huomo, l'altro trascende il grado dell'huomo, s'accosta piu alle nature celesti.  Inanzi a nelqualtempol'ambitione, &cecita del Duca Ludouico aperse la uia alla rouina d'Italia, erano come ogn'unosaimodidels la guerra molto diuersi da questiloppugnatione delle città, le uccisioni, i conflit id'ale traforte, et quasisenzafanguein modo che chihaueuaunostato difficilmente glipote wa effertolto, dipo ifiridusse, che chi era padrone della campagna, haueua uinta la guerra, comein un momento, se erano due eserciti in campagna siueniua in un trattoale la giornata, et era data la sentêza dela guerra, cosi uedemo senza rompere lancia per dersi il Regno di Napoli, il Ducato di Milano, econla fortuna d'unsologiocarsi tutto lostato de Venetiani. Hoggi il Signor Profpero primo ha dimostrato diuerfo modo di guerra, che col mettersi nelle terre hafoggiogato l'impeto di chi era padrone della camopagna, ma non riuscirebbe bene questo, a chi non hauesse dispositione de popoli fauor e wole, cornehahauuto egli quella di Milano contra Francesi. Le medesime impres eche fatte fuordi tempo, Sono štate dificiliseme, ò impoffibile, 1 quando   quando sono accompagnate daltempoe dall'occasiones ono facilißime, però nonsiuuo letentarle attrimenti, perche setuletenti fuor del tempo suo, non solononti fuccedono, ma porti pericolo, checon l'hauerle tentate non leguasti per quel tempo, che facilmente farebbono riuscite, però sono tenuti sauiji patienti. Non è gran cosa, ch'un gouernatore vsando spesoaffrezza, ò efetidife uerità, si facciatemere, percheisudditi hanno facilmente paura di chi li puo sforzare, erouinare, et viene facilmente all'esecutione, ma laudo io quelli governatori, che con far poche affrezge, et esecutioni, fanno acquistarsi, et conferuarno medi terribili. Ricordate vi di quello che altre volte ho detto di questi ricordi scheno s'hanno ad osseruare sempre indistintamente, ma in qualche caso particolare, che ara gionediuer fanonsono buoni, et quali sieno questi casi, non sipuocomprendereconrego laalcuna, nesitroua libroche l'insegni, ma è necessario che questolumetelodia prima la natura, et poil'esperienza cui diseon popolo, diseveramente un pazzo, perche egli è un moftro pieno di tonfusione; ó d'errore, perche le sue opinionisonotanto lontan de alla uerità, quanto secondo Tolomeo, la Spagna dall'India. Come A mio giudicio innesjungrado, ò antoritàsiricercapiu prudenza, et qualitàec cellente, cheinvn Capitano d'onoesercito, perche sono infinite quelle cose, a cheproue deré, et comandare sinfiniti accidenti, etcasivarijsche d'hora in hora se gli presentano, in modo che peramente bisogna che habbia piu occhi d'Argo, e non soloper l'importanza sua, ma per la prudenza, che li bisognare putoinogni altro peso niente. E differenzaa desereanimoso, et non fuggire ipericoliper rispeto del'bonore, Psta noe l'altro conosce i pericoli, ma quello seconfidapoterfenedifendere, efenonfusseque sta confidēza nõ gliaspetarebe, questo puoeferschetema piu del debito znè sia faldo, perche non habbia paura, ma perche si risolueavolerpintosto ild ãnocbe la uergogna. Ho osseruatowe' mieigouerni, che quando mièvenutain anzi vna causa, cheho hauutoper qualche giusto rispetto desiderio d'accordarla, nonhoparlatod'accordo, ma folmetterevariedilationi, et ftrachezzehofatto chelemedesime partilhannoricer cato, cosiquello, che se nel principio io l'haueßi proposto, sariastatoributtato, s'eridotto intermine, chequando è venuto il tempo suo, io ne sono stato pregato. Non, che chi tiene gli stati non sia necessitato, metterle mani nel sangue, ma di cobene che non si de vefarsenzagran neceßità, et che ilpiy delle volte se ne perde, piuchenonseneacquista, perchenon solo s'offende quellichesonotocchi, ma ancorasa dispiace all'vniuerfale deglialtri, efebenetuleui quello inimico, o quello ostacola, non pero se ne spegne il seme, cumsits che in luogo di quello sott'entrano degli altri, et fpeffo intrauiene, come si dice dell'hidra; che per ognuno jnenafcesette. Non possoio, ne sofarmibello, ne darmi riputatione diquelle cose, che inperin tànonsono cosi, et tamenfariapiuvtile fare il contrario, perche è incredibile quanto giouila riputatione, e opinioneche hanno gli huomini, che tu siagrande. Con questoru mor esolo ti corrono dietro, senza che tun'habbiavenireacimento. che ilpadrone,eproportionatamenteil superiore li sudditi, perche non si presenta ianzialuitali quali si presentano agl'altri, anzi cercano coprirsialui, et parered'altra forte che inveronon sono, e pericoli, qual forte habbia piu ad esiderare una città, òdicadere nel gouernod'vno, òdimolti, odipochi. perch e d'hora in hora nascono occasioni, che egli commette a chi vede, ò a chi gli è piu e propinquo, che seti hauesse a cercare ò aspettarenonti si commetterebbe, e chi perde vn principio benche piccolo, per despesso l'introduttione, e aditaarose grandi. Fawpus ēruitori che fanno il medesimo versoi padroni, non facendo peracosa che sia contra l afede, l'honore. Auvertimenti di Com Ecolui c'haagiutato, òeftata caufa, che unosalgainun grado, louuolgouer nareinquelgrado, giàcominciaa cancellare il beneficio, che gliha fato, volendo usarper se, quelche prima ha operato, che sia di quell'altro, eglihagiusta causa di non comportarlo, ne pe rquesto merita eserechiamato ingrato. Ron s'atribuisca a laudedifa, ò chi non fa quelle cose, lequalife potefse, ofa cesje meriteriabiasimo. Dice il prouerbio Castigliano, il filsirompedallatopiudebole, sempreche pensi venire in concorrenza è compa ratione di chi è piu potente o rispettato, piu succumbe il piudebole, nonostante, che la ragione è l'honestà, ò la gratitudine volesse il contrario, perche communemente; s'ha piu rispeto al'interese, che al debito: Niuno conosce peggio liferuitorisuoi  ve lo dico di nuouo, li padroni fanno poco conto de seruitori, et per ogni interesse listrascinano senza rispeto, perosono. Tu chéstai in cortë, et seguition grande, e desideriessereado per atodaluiinfa cende, ingegnati di Starli tutta niadinanzia gl'occhi, pome Concordano tutiefere megliore lo stato d'vno quando è buono, ibedi pochiedimolti,o buoni, e le ragioni sono manifeste, cosi concludono, che quellod'ono piu facilmente di buono diuenta cattiuo, chegl'altri, et quando è cattivo è peggiore di tutti, tanto piu quando vaperfiu è ceffione, percherade volte ad un padre buono fa uio, succedeun figliuolo simile. Pero vorrei che questi politici m'haueJero dichiarato, considerate tute queste conditioni Chi si conosce hauere buonaforte, puotentarl'imprese con maggior animo, ma è da auuertire che la forte non solo pko essere varia di tempo in tempo, ma anco in un tempo medesimo puoelervaria nellecose, perche chiosseruauedr à per esperienza, mol tiessere fortuna tiinunaspeciedicoje, et in un'altra essere sfortunati, et io in mio parricolare ho hauutoin fino a questo dàtre di.in molte cose bonißima forte, tamen non Pho simile nelle mercantie, one glihonori, cheiocerco d'havere, perche noncercandolimicorrono naturalmente dietro,ma come cominciò a cercarli, pare chesidiscostino. Le cose del mondo non stānoferme, anzi hanno sempre progresso al camino, àche ragione uolmente per fua naturahannodaandare, e finire, ma tardanospeso piache il credere nostro perche non le misuriamo secondo la vita nostra, che è breue, e non secondo il tempo suo, cheèlungo, et però ipaffifuoifono piu tardi, che non sonoino fri,& fitærdipersua natura, cheancorachefimoui non onci accorgiamo spesode fuoi moti, e per questo sono fpefjofalsii giudicij, chenoi facciamo, Ron sosesideuono chiamare: fortunatiquelli, a chi vnavoltasipresentavna grande occasione, perchechino nè prudente, non lafa bene vsare, masenzadubbiofo no fortuna tiffimi quelli, aqualivna medesima grande occasione sipresentadue uol te, perche non è buomo cosi dappoco, che la seconda volta non la sappia vsare, cosi in questocasosecondos' hadahauere tutta l'obligatione conla fortuna, done nel primo ha luogo ancora la prudenza, che uiuonoinlibertà, ma queli, nei qualiera meglio prouifto alla conferuatione delle leggi e della giuftitia. fannoinuentione diquel löche s'aspeta, òsicrede, e piuorecchivi preftosefononuoue strauaganti, o'inaspettate, perche mancooccorre agli buomini fare inuentioni, ò persuadersi quello chenon è in alcuna consideratione, e di questo ho veduto io molte uolte l'esperienza. Gruan forte è quelladegli astrologi, che ancora, che la loro profeffione fiava  Non ha maggiore inimico l'huomo, che fe fteso, perche quasi tutii mali, pericoli, et trauagli superflui, che ha non procedono da altro, che dalla sua troppa cupiditate. L’appetito  della robanasceda animo balo, o malcomposto, fenonside. fiderasseperaltro, che per poterlagodere, ma essendocorrottoilviuere delmondo, co me èchidefidera riputatione, è neceßitato à desiderareroba, perche.coneffarilucono Levirti,cfono inprezzo lequaliinunpouerosono pocoftimate, et mã coconosciute.  La libertà delle republiche è ministra della giustitia, perche non è fondataa dal trofine, se non per difensione, chel'onononsiao presso dal'altro, però chi potesse efsore sicuro, che in uno stato d'unoòdipochis'ofjeruaje la giustitia, non harebbetau fa di desiderare la libertà. Questa è la ragione, che gli antichisauij, e FILOSOFI non laudornopiu degli altrique'gouerni Quando lenuoue s'hanno d'Autore incerto, et fieno nuoue verisimili, d aspettate, io li presto poca fede, perche gli huomini facilmente; nito, Auuertimenti di mità, ò perdiffettodell'arte, ofuo,tamenpiufedeglidàvna verità, chepronostica no, checento falsità, é tamenne gli huominiintrauiene il contrario, cheunabugia, chse  a reprobata da vno,  a, che s i s tàsospeso a crederli tutte l'altre verità, et procede daldesiderio grande c'hanno gl ibuomini di sapere il futuro, diche non hauendo altro modo dihauerecertezza; credonofacilmente, a chi fa professione di saperlolor dire, comeall'infermoilmedico, che li promette la salute, ò dalla uoluntàdiquelli, chedominano, perche non han uendesia cūbattere con ragioni immutabili, ocon giudicijstabili, nasconoogni dimille cafi, che facilmente tisolleuanoda chi puo pretendere di leuartidiposeso. scarso, perche nessuna cosaof fende più l'animo d’un fuperiore che il parergliche non lisiahauuto quel rispet oeri uerenza, che giudica conuenirseli. Ë ogni cosa per non trouarui done si perde, perche ancora, chenonuisia colpa isoftra, ne hauete sõprecarico, nè si puo andareatuttele piazze getbanchiagiu Stificarsi, come chi si troua doue fi vince, siporta sempre laudeetia Jenza suo merito. fa nellecosepriuate, trouarsi in poffeffione antica, chele ragioni non fi mutano, imodidegiuditye di consignareil suo fono ordinarü, et fer mi, masenza cumparatione è molto maggiore vantaggio in quelle cose che dependono dagli accidenti delli stati Fu crudele il decreto de Siracusani, dichefamentione Liuio, che insino alle donne nate de tiranni fussero ammazate, ma non però al tutto senza ragione, perche mă Catoiltiranno, quelli che uiueuano uolentieri sotto di lui, sepotefjerone farebbono un'altrodicera, e non essendo cosi facile uoltare la riputationea un'huomo nuouo,si ri tirano sottoogni reliquia, che refti di quello. Però una città, che esca nuouamente dalla tirannide, non ha mai bensicura la libertà Se non spegnetutta la razza, et pro genie de tiranni, dicoperò glimaschi, e non le femine. Non è inpoteftà d'ogniuno eleggersiil grado, e le facende, chel'huomo uno le, ma non bisogna spessofarquelle, che t'appresentalatuaforte, et che sonoconfor mialostatoincheseinato, però tutta lalode consiste in farla sua bene, comeinuna comedia, nonèmancolodato, chi ben rappresenta la perfona d'unferuo, chequelli, a chi sono meffiindosso i panni del Re, od'altra persona degna, ogni unoinefeto nel grado fuopufoarsi honore. E vantaggio come ognun Chi desidera eseramato da superiori, bisogna mostrare d'hauere loro rispetto, e riuerenza,e con questo efer piutofto abbondante, che Ogniuno in questo mondo fa deglierrori, daqualinascemaggioreomi nordanno, secondo gli accidenti, et casicheseguitano, ma buona forte hanno quelli, che s'abbattono adevrarein cofe di minore importanza, ò dalle quali nes eguitaman codisordine. E 'gran felicità potere viuere in modo che non siriceua, nè f ifaccia ingiuria ad altri, ma chi s'adduce in grado, che sia necessitato, o aggrauare, ò apatire, deue per mio consiglio pigliare il tratto auantaggio, percheè cosi giusta difesa, quella chesifa pernonesser offeso, comequella, chesifaquando l'offesati è fatta, èneroche bisogna bendiftinguericasi, nè per superflupaauradarsi senza causa adintendere d'eserene ceshtato a preuenire, nèpercupidità, nè per malignità, doue in vero non hainèdeui hauere sospetto volere con allargare questo timore giustificare la violenza, chetufai. Ne glihuominie lapatienza, el'impetosono bastantiapartorirecosegranuis perche l'onoopera conl'urtare gli buomini, esforzare le cose, l'altra con lostraccara li, evineerlicol tempo, el'occasioni, però in quello chenuocel'ono, gioual'altro, Grå conuerfo, et chi potesse congiugnerli, et vsareciascuno al tempo suo sarebbe diuino, ma perche questo è impoßibile, credo che ožbus cõputatis, la patienza e moderationfi: landabile in un Principe percõdurre maggior coseafine, chel'impeto e la pcipit. iticne.  Nelle cose dellEconomica il uerbo principale è risecaretute lespese superflue, ma quello in che mi pare, che consista l'industria, è chi fa le medesime spese con piu vantaggio, e come si dice volgarmente, spendere il foldo per quattro quattrini.  Diceva un padre, che piu bonoretifa un ducato in borsa, chediecichene baispesi, parolemoltodanotare, non per diventar fordido, nè per mancare nelle cose honoreuoli,e ragionevoli, maperchetifafrenoafuggirelecose superflue. la malitia, o che nel maneggiare le cose s'accorgono di quello harebbono di bisogno, si cerca fardireal iStruméti quello che l'huomo vorrebbe ch edicese, però quando sono gli inftrumenti di cose vostre d'importanza, habbiate pervfariza faruelilenare subito, et hauerliincasainforma autentica.  Rarissimi sonogliinstrumenti, chedaprincipiosifalsificano, madopo fatisecondo che gli huomiui pensano. Se bengli huomini deliberano con buono consiglio, gliefetisono peròlpelocat tiui, tanto sono incerte le cose future, non dimenononsiuuole come bestiadarsiinpicito da alla fortuna, ma come huomoandarconta ragione, et chièSauio, hadacontentar fi, diessersimoltoconconsiglio, ancor chel'efeto sia stato cattiuo, che feconvá con figlio cattivo, hauessehauuto l'effetto buono. Tenete amente, chechiguadagna, seben puo spendere qualche cosadi piu che non guadagna, tame nè pazzia spendere largamente sul fondamento de guadagni, seprimanonhai fato buono capitale, perche l'occasione del guadagnare non dura sempre, et fe mentre essa dura non ti sei acconcio, passata che ella èytitroui pouero come prima, ed i piu hai perduto il tempo, e l'honore, perche alla fine è tenuto di poco ceruello, chi hahauuta l'occasione bella,& non l'ha saputa usare bene, e questo ricordo tenetelo bene a mente, perche ho visto amjeidi infiniti errori. E Cer B2   puo alcuna uolta mettendo insieme la gratitudine che si sente datuttiefere notabile. Del fare un'opera buona, et laudabile non si vede sempre il frutto, peròchi non sisatisfafolum del ben fare di sesteso, lascidifarlo, non parendo gli trarneuti lità, maquesto è inganno degli huomini non piccolo, perche il farelaudabilmente, se ben non ti portasje altro frutto euidente, spargebuonome, et buona opinione dite, la qual in molti tempi et cafitire cautilità incredibile. Progresso di tempo si poche cofe verificate, come s i trova a capo dell'anno degli astrolpogei, rche le cose del mondo sonotroppouarie. Nelle cose importantinonpuo fare buono giudicio, chi non fa bene tuttii particolari, perche speso una circonftantias et minima, nariatutto il caso, mauidice bene, che non hanotitiaad altro, chedigenerali, et questo medefimo giudica peggio intesii particolari, perche chi non hailceruello molto perfetto e molto netto dalle paf fioni, facilmente intendend o molti particolari si confondeeuaria. Se d'unos'intendedlegge, che senza alcuno fuo commodo, è interefe, ampor. E' eerto, chenonsitien conto deliseruitij fattial i popoli in uniuersale, comedi quellichesifanno in particolare, perche toccando col commune, nessuno sitienseruito inproprio, peròchi s'affaticcaperli popoli, et vniuersità, nosperiche s'affatichin oper luiinunsuo pericolo, ò bisogno, ò che per memoria de beneficij, la fcino una loro como modità, non dimeno non sprezzate tanto il fare seruitio a popoli che quando ui si presenti l'occasione la perdiate, perche se ne uiene in buon nome, e buon concetto, cheè fruttoasai dela fatica, senzapure, chein qualche casogioua quella memoria, e rin mzoneachiè beneficiatosenonsi calda mente, comeli benefici propri, al manco sarà parte di quanto si conuiene, et fonotanti questi achi tocca questa lorleggieraimpres fione, che  Chi facesse fu un'accidente giudicareda un'buomo sauio gli effetti, che nasce ranno, et scriuese il giudicio, trouerebbe tornando a uederlo in Spesso s'inganna, chi sirifoluesui primiauuifi, cheuengono delle coseper ebeuengono semprepiu caldi, et piu spaventosi, che non riefconopoi congli effettin però chino nè neceffitato aspetti semprei secondi, ed imano in mano gli altri. Chi ha la cura d'una terra, che babbiaa essere combattuta, ò assediata, deue fa repochiffimo fondamento in tutti quei rimedij, che allunganogestimare assai ogni cosa che tolga tempo, etiam piccolo aliiniinici, perche spessoundì piu, o un'borapor taqualche accidente, chelalibera. Non combattere mai con la religione, neconle coseche pare che dependono immediate da Dio, perche questo obietto ha troppa forza nelle menti degli huomini. Il male E' buon mezo aguadagnarsi fauori il mostrarea quelli, da chi tu duoi guadagnare il fauore di farli capis Quando si fa una cosa, se si potesse sapere quel che farebbe seguito, senon sifufefatta, sòi fusse fatto il cotrario, senza dubbio molte cose sono da gli huominilau dati,chenon fariano, anzi meriter ebbono contraria sentenza: Accade: molte uolte in una deliberatione cheha ragione da ogni banda, che ancora chel'huomo habbia diligentemente penfato, ch e poiche ha fatto la deliberatione, gli parebauere letto la parte peggiore, laragioneè, che poiche tu hai deliberato tisi rappresentano solamente alla fantasia le ragioni, cheeranonell'opinione contra riale quali confiderate senz a il contrapeso dell'altre ti paiono piu graui,e pire importanti  Ir i male,cheilbene; fi deue chiamarbeftiae, t non huomo, poichemanca dell'appetia naturale, no a fauorire quello, che per altr o harebbono disfauorito  NON credete aquestiche predicano cheamano laquiete, etd'essere Stracchi dell'ambitione, et hauere lasjatele. facende, perche quasi sempre hanno nel cuore il contrario, esisonoridottia vita appartata, et quieta, òpersdegno, òpernecessità, ò per pazzia, l'essempio seneuede tutto il dì, perchea questi tali subito ches'appres Senta qualche spiraglio di grandezza, abbandon erannola tanta lodata quiete, et nifi mettono con quel pericolo, che fa il fuoco, ad una cosa fecca. L’inclinationi, e deliberationi de popoli sono tanto fallaci, et Menate piuspesso dal caso, chedallaragione, che chi regola il traino deluiuer fuo, non in altro che infüi la speranza d'hauere adesere grande colpo polozhapocogiuditios per che oppor si è piutosto venturacbe fenno. autoridiquellacosa, nella qualen'haidibisogno, perche la piupartede glihuomini, presida quella uanità, ò ambitione, uisiaffettionanoinmo do, che dimèticatii rispetti contrari, ancora depiu ragione uolie piuur genti comincia. Infinite sono le varietà delle nature, da de pensieri deg’uomini, però non si puo imaginare cosa, nè sìstrauagante, nè si contra ragione, che non sia secondo il cervello d'alcuno, per questo quando sentirete dire, ch'altri habbia detto, ofattoco. Facche non ui parra uerifimile, nè che possa cadere in concetto d'huomo, nonuënefat te leggiermente beffe, perche quello che non quadraate, puo facilmente trouareachi piaccia, òpaiaragionevole. Pare che i principi siene piu liberi,e piupadroni delle loro volontà, che gl’altri uomi nózno nè uero ne principi che si governano prudentemente, perches o non e cefsitati procedere con infinite considerationi, rispetti, in modoche molte voltecat tiuanoi lor disegni, i loro appetiti, el'altre volontà loro, io che l'ho osservato, n'ho pedutemolte esperienze, diriandare tutte le ragioni, che sono hinc, e inde, perche queen sto concorso e contrarietà, che  tiapprefentiinanzi, fa, che leragioni che si concede ilano, non ti paiane piu di maggiorpesoso importanzadiquello, cheveramente quando nelle consulsteono pareri contrarij, se alcuno esce fuora con qual. Che partito di mezo, quasiche sempre è approuato, non perche i partiti di mezo, il piu delle volte nonsier: o peggiori, ma perchei contradittori calano piu volentierid quello, che all'openione contraria, e ancoglialtri, ò per non dispiacere, opernonef jerecapaci, si gettano aquello che parloro, che habbia manco disputa. Possono malegli huomini priuati, biafimareolo dare molto leationide principi, non solo per non sapere le cose come stanno e per essergli interessi, e ilo to finiin cognitismi ancora perche la differenza è dall'hauere avverzo il cervello advsode Principi, ad hauerlo aurezzoadvsode privati, fa che ancor che lo stato, i fini delle cose, e gli intereshfulero all'uno noticome al'altro, le considerationi  Auvertimentidi portanti, che non pareuanoin anzi, che tu deliberasi: Il rimedio di liberarsi da questo molestia, è sforzarsi No huomo, chenonsia prudente, non si puo reggere senza  consiglio, nondime no egli è molto pericoloso pigliar consiglio, perche chi dà consiglio, ha speso piu consideratione all'interesse suo, che aquello che lo domanda, anzi propone ogni suopicciolo rispetto, et fodisfattione all'interesse, benche grauissimo,a importantijimo diquela l'altro, peròdico, cheintalgradobifogna, che s'abbatta conamici fedeli, altrimenti porta pericolo di non far male apigliar consiglio, et male et peggiofa, ànolopigliare. molte volte in terzo o quarto caso, che non fumai in consideratione, e che difficilmente fisar ebbe imaginato, che potese essere molte utolte si trova ingannato. Non si puo chiamare infelice vna città, che fiorita lungamente, uieneabal Sezza, perche questo è il fine delle cose humane, në sipuoimputareinfelicitàlelle resoto postoa quellalegge, che è commune atuti gl’altri, mainfelicesonoque i cittadini,a i quali ha dato la forte nascere piu presto nella declinatione della sua patria, chenel tempo della sua buona fortuna. fono. Però Si chi sul far giudicio del futuro vuol pigliare  qualchedeliberatione, comespesso calcula, la tal cosa anderà, ònel tal modo, ò nel tale., e su questo discorso pigliail suo partito, perche per la varietà delle cose, ed egli accidenti del mondo, viene  il principe, che volessetorreil creditoagli Astrologi, che stampano i giudicij vniuersalmente, non harebbe il piu facilmodo, che comandare, che quando si stampa il giudicio loro, perl'anno futuro, fusseri stampato, e appiccato conesso loro il giudicio dell'annopaljato, perche gl’uomini rileggendoin quelloquantopoco fifienoa p posti del passato, farel bono sforzati non prestar fede al futuro, et hauendosi dimenticato le bugie dell'annopaljato, la curiosità naturale, che hanno gli huomini di sapere, quelche ha da essere, gliinclina facilmente a prestarli fede. 1 però sono molto diverse, äsi discorrono le cose con diuerso occhio, sigiudicano condiversogiudicio,& infine, l'uno le misura con diversa misura dall'altro. fareogni opera possibile, fa checoluiilpiu delleuoltè cominci a acre dere, che non lo voglia seruire; il contrario intrauienea chi fa larghezza disperan 2a,  e di facilità, perche s'acquista piu colui, ancorche l'efeto non riesca, cosi si Dede, che chi si governa con arte, o perdir meglio con qualche avvertenza, è piu grato, et piu fa il fatto suo, nè procede da altro, se non da essere la piu parte degli huomini ignoranti al mondo, che s'ingannano facilmente in quello che desiderano onesto ma utilitario, ambizioso e positivo, considerato il dramma della ruina italica, in mezzo al quale si svolse l'agitata sua esi stenza, voi avrete nelle mani il segreto per giudicare la sua energia morale anche nelle opere scritte, in cui manifesta l'anima sua,che vibra d'ambizione, di collera, discoraggiamento, dibeffardo scetticismo e anche di nobili entusiasmi. e Machiavelli posemano ai suoi Discorsi sulle deche di LIVIO (si veda), elifinìmolto più tardi: liandò leggendo negl’orti oricellari, circondato dai fiorentini,che pendeno ammirati dalle sue labbra. Egli dice, sin dal principio, di essere stato spinto a svolgere sì alto argomento dal bisogno di operare quelle cose che crede adatte a recare comune beneficio a ciascuno. E se l'ingegno povero,la poca esperienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche, faranno questo suo conato difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno, il quale,con più virtù,discorso e giudizio, possa a questa sua intenzione soddisfare. Più apertamente manifesta questo suo desiderio, concludendo. Benchè questa impresa sia difficile, nondimeno aiutato da coloro, che mi hanno ad entrare sotto questo peso confortato, credo portarlo in modo che ad un altro resterà breve cammino a condurlo al luogo destinato. G. ne accetta l'invito e scrive le sue osservazioni intorno ai discorsi di MACHIAVELLI, fermandosi a con Machiavelli, nel proemio al primo libro dei Discorsi. MACHIAVELLI tratta delle origini delle città e os serva che se trovansi in luoghi sterili, i cittadini d i ventano energici ed operosi : ma se si stabiliscono in luoghi fertili, cadono nell'ignavia,se non si cerca con le leggi di correggere il male morale portato dalla fecondità della terra. Se non che la sterilità dei luo ghi non offre facile via alle conquiste,e per questo I ROMANI fondarono la loro città in luogo fertile e adatto a spianare ad essi la via dell'imperio. Al ri manente rimediarono con leggi severissime, le quali resero armigero il popolo. Su quest'ultima parte G., che assai ammira l'arte militare dei ROMANI e non troppo il governo e la politica loro, osserva che Roma e bensìposta in paese fertile, ma per non avere contado e essere cinta di popoli potenti, e forzata allargarsi con la virtù delle armi e con la concordia; e questo si discorre non in una città che voglia vivere alla filosofica, ma in quelle che vo  siderare i primi due libri e appena qualche capitolo del terzo, perchè gli mancò iltempo a continuare il lavoro intrapreso.In esse spicca la differenza di mente fra G. e Machiavelli: questi guarda le questioni da sublime altezza e sotto un aspetto più generale, abbandonandosi alla sua geniale idealità, nello studiare l'organizzazione dello stato. G. invece, ricco di tanta esperienza,vero genio del senso pratico, non segue il suo amico nei voli poetici, ma si ferma soltanto a rettificare quelle idee di Machiavelli a lui sembrate erronee. In ciò mostra forza e sicurezza di indagine, conoscenza profonda dei governi. Egli discute i mezzi di reggere le repubbliche e i principati, ne studia l'indole per cercare il governo migliore. Parla dei modi di comportarsi coi soggetti e di aumentare fuori l'imperio degli stati,di condurre le guerre, dell'efficacia delle religioni sulla civiltà delle nazioni. Ragiona sulla natura umana, dominata dai due istinti del bene e del male. gliono  governarsi secondo il comune uso del mondo, come è necessario fare; altrimenti sarebbono,essendo deboli, oppresse e conculcate da’ vicini. Moltissime sono le osservazioni di G. circa le varie specie di governo, le guarentigie da prendersi per custodire la libertà, le qualità e condizioni necessarie ad un regime per essere forte.” Degne di studio sono pure quelle riguardanti il principato,ilgoverno popolare e quello degli ottimati. Il frutto del governo regio, così  G., è che molto meglio, con più ordine, con più celerità, con più segreto, con più risoluzione si governano le cose pubbliche quando dipendono dalla volontà di un solo, che quando sono nell'arbitrio di più. Ma se il sovrano è cattivo, gl’effetti ne sono pessimi. E però, secondo lui, è necessario farlo perpetuo, ma limitargli l'autorità, con fare che da sè solo non possa disporre di alcuna cosa e solamente abbia libertà d'azione in quelle che sono di minore importanza. Dichiara che nel governo degl’ottimati è il bene, perchè essendo in più non possono cadere tanto facilmente nella ti rannide, come avviene nel principato :essendo uomini qualificati governano con più prudenza e intelletto del popolo.Il male è che favoriscono troppo le cose proprie e opprimono il popolo: l’ambizione fa nascere in essi le sedizioni e per via della tirannide si produce la ruina della città. Se poi, invece del governo degli ottimati, per elezione o per qualità, che si potrebbe rendere buono con acconci provvedimenti, si avesse quello degli ottimati per nascita o per eredità,questo sarebbe il peggiore di tutti. « Nel governo di popolo è di buono che mentre dura non vi è tirannide ; pos sono più le leggi che gli uomini ; e il fine di tutte le deliberazioni è badare al bene universale. Di male 1 FEgli, nei suoi giudizî così temperato, lascia ogni prudenza allorchè parla del popolo che disprezza,m e n tre il segretario fiorentino lo esalta e l'ama.Intorno alla ignoranza e malvagità,fondate in sulla invidia, opina che senza comparazione il popolo sia più in grato; perchè, e per essere gli uomini distratti in varie faccende, e per altre cagioni, manco intende, manco distingue e manco conosce che non fa il prin cipe ; e quanto alla invidia,cade più facilmente negli uomini popolari,a’quali ogni grandezza punto emi nente o di nobiltà o di ricchezze o di virtù o di ri putazione è ordinariamente molesta ; nè cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino più qualità di loro e questi sempre desiderano abbas  vi è che il popolo,per la ignoranza sua,non è capace di deliberare le cose importanti. è instabile e desi deroso sempre di cose nuove e però facile a essere -mosso e ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi ; batte volentieri i cittadini qualificati, che gli neces sita a cercare novità e perturbazioni. G., inchinevole più al governo di uno, quando sia temperato da savie leggi,anzichè al popolare, si di scosta in ciò da Machiavelli,che nel popolo ripone grandi speranze : questo è uno dei punti,in cui la dif ferenza deigiudizî si fa più spiccata fra di essi. Del resto G. reputa ottima la forma del governo misto di principe,popolo,ottimati,togliendo da ciascuna specie il buono e lasciando indietro il cattivo, cercando di conciliare tutti gl'interessi; la qual forma presenta delle somiglianze coi governi co stituzionali dei nostri tempi,ed è quellalodatapure da Machiavelli. I due grandi statisti fiorentini discor rono dei governi secondo le idee di Polibio, ma G., profondo conoscitore delle condizioni dei suoi tempi,con acume più pratico parla dei varî re gimi e delle passioni e appetiti che muovono iprin cipi, i nobili e il popolo ad impadronirsi dello Stato.  sare. Crede  G. di non saper bene ciò che voglia dire la questione presentata da Machiavelli, se si deve porre l a guardia  della libertà nel popolo o ne'grandi. Se intendesi discorrere di chi deve partecipare al governo, ciò spetta,nei governi misti c o m e quello di Roma, tanto ai patrizî c o m e ai plebei, che salvarono spesso la libertà della patria. Ma quando fosse necessario mettere in una città o un governo meramente di nobili o un governo di plebe, è manco errore farlo di nobili, perchè essendovi più prudenza ed avendo più qualità,sipotràpiùsperare si mettino in qualche forma ragionevole, che in una plebe,la quale essendo piena d'ignoranza,di confu sione e di molte male qualità, non si può sperare se non che precipiti e commetta ogni colpa. Lo stesso disprezzo per il popolo lo rivela nelle pagine, in cui d i mostra essere stati i Romani meno ingrati degl’ateniesi verso iloro cittadini più illustri.Ciò accade per chè nella natura dei Romani non è la leggerezza degl’ateniesi e anche per la diversità del governo. In Atene poterono i cittadini con le arti popolari salire presto in potenza e farsi grandi: ma i capi, in questo g o verno popolare, caddero più facilmente in sospetto e con più leggerezza e meno considerazione furono oppressi. La plebe romana trova il contrappeso della nobiltà, poichè nel Senato si trattavano le cose più gravi. La qualità quindi del governo dei Romani,più tempe rato e prudente, fu causa che icittadini ebbero meno degli Ateniesi aperta la via alla tirannide e vi furon meno battuti. Ma quando G. vuol dimostrare che la costanza e la prudenza sono qualità meno del popolo regolato da leggi e più del principe e degli ottimati regolati dalle leggi,egli diviene aspro e quasi violento contro il popolo. Perchè dove è minor numero, èlavirtùpiùunita,epiùabileapro durre gli effetti suoi ; vi è più ordine nelle cose, più pensiero edesame, ne'negozî più risoluzione; ma dove è moltitudine,quivi è confusione; e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono varî giudizî,varî pensieri, varî fini, non può essere nè discorso ragionevole, nè riso luzione fondata, nè azione ferma. Però non senza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le qualis econdo i venti che tiranovannoora in qua ora in là, senza alcuna regola, senza alcuna fermezza.'  I principi e con essi i più eminenti statisti della Rinascenza avevano la convinzione essere le istitu zioni un trovato dell'ingegno,e da questo unicamente dipendere senza badare alla responsabilità delle azioni, nè alla violenza che isovrani avrebbero esercitata so pra i soggetti. Essi non sospettavano che il governo di un popolo dovesse sgorgare direttamente dal suo spirito e trovare un sostegno nelle tradizioni del paese. G. soltanto in parte era di ciò persuaso ; vagheggiava un governo misto, ma inten deva accordare al popolo la minore ingerenza possibile in esso:pure ilregime desiderato da Firenze,eche era stato la gloria della repubblica, era il democra tico, malgrado gli errori in cui era caduto.Tuttavia a lui, osservatore profondo, non sfugge mại la realtà delle cose e dice che un popolo,uso a vivere sotto un principe, se diventa libero,con difficoltà mantiene gli ordini liberi:ciò non accade invece ad un altro che sia stato libero e per qualche accidente abbia perduto la libertà,perchè in questo caso si possono ripigliare gli ordini liberi, vivendo con chi già li pos sedette, ed essendo nei cuori la memoria dell'antica repubblica. Afferma anche la difficoltà di educare un popolo alla libertà se mai non la conobbe :in tal caso necessita fondare un governo temperato,opprimere i nemici, lasciando sicuri quelli che vogliono vivere bene.E più avanti:un principe che ha inimico il popolo,per la oppressione male esercitata, vi rime dierà levando via le ingiurie e governando giusta mente,ma non vi rimedierà se si trova davanti un popolo che vuole essere libero per aver mano al go verno,perchè in questo caso sono vane le dolcezze.? A G., nel meditare sulle vicende storiche del passato, appariva vana la speranza di ritrovare il buono assoluto nelle forme di governo,perciò ne cer cava il buono relativo che potesse reggersi in mezzo al trambusto degli avvenimenti tempestosi che scon volgevano l'Italia,invasa dagli stranieri.La società trasformatasi manifestava nuove aspirazioni e nuovi bisogni che occorreva seguire e accontentare : si d o vevano evitare i mezzi estremi col cercare l'armonia dei varî interessi. Ma, ripetiamo, egli accordava al popolo una piccola partecipazione al governo, mentre l'aveva avuta grandissima, e quindi urtava contro le tradizionipatrie:scordava che la natura delude con le sue leggi il nostro volere e si vendica di chi,col l'intenzione di dominarla, non cerca innanzi tutto di assecondarla. Nella Considerazione G. mostra la differenza fra l'indole sua e quella del Machiavelli, il quale assicurava che in ROMA antica non si puo trovare mezzo più efficace per cementare la libertà che ammazzare i figli di Bruto. G., rispondendogli, riconosce la necessità di tuffare a suo tempo le mani nel sangue, tuttavia fa voti perchè « non desideri la nuova libertà che vi siano figliuoli di Bruto,cioè chi macchini contro allo Stato, per avere causa di acquistare riputazione e tenere con la severità ;perchè se bene è necessario in simili casi mettere mano nel sangue, sarebbe stato meglio non avere avuto necessità, e che BRUTO (si veda) non avesse figliuoli, che averne per avergli ammazzare. Nell'agitare la quistione sulla bontà dei governi, si discute, da G. e da Machiavelli,non solo intorno ai mezzi di ringagliardire la repubblica,ma anche il principato . Se un principe, secondo il G., si trova di fronte a un popolo che ami la li bertà,ilsolo rimedio sarà quello  o di farsi dei par tigiani di qualità, che siano potenti a opprimere il popolo, ovvero, co l battere e annichilire il popolo di sorte che non possa muoversi,introdurre nuovi abi tatori e di qualità che non abbino a avere causa di desiderare la libertà? » Così, senza parere, egli sembra accostarsi molto alle idee di Machiavelli, ma tosto cerca di rendere meno cruda e assoluta la sentenza emessa. Però bisogna che il principe abbia animo a usare questi estraordinarî, quando sia necessario; e nondimeno sia sì prudente che non pretermetta q u a lunque occasione se gli presenti di stabilire le cose sue con la umanità e co’benefizî, non pigliando così per regola assoluta quello che dice lo scrittore, al quale sempre piacquono sopra modo e rimedi estraor dinarî e violenti.?» Il Machiavelli è d'opinione che a fondare una re pubblica bisogni essere solo e che per questo fece bene Romolo ad ammazzare ilfratello.A luir isponde G. Non è dubbio che uno solo può porre migliore ordine alle cose che non fanno molti, e che uno in una città disordinata merita laude, se, non potendo riordinarla altrimenti,lo fa con la vio lenza e con la fraude e modi estraordinarî. Ma è da pregare Dio che le repubbliche non abbino necessità diesserer acconceper similevia, perchè gl’animi degl’uomini sono fallaci e può uno sotto questo onesto colore occupare la tirannide. Inoltre bi sogna prima bene leggere e considerare la vita di ROMOLO, il quale sebbene mi ricordo si dubitò non fosse ammazzato dal senato per arrogarsi troppa autorità. E mentre Machiavelli entusiasmato parla della generosità d'animo del suo principe legislatore, che, compiuta l'opera, senza lasciare lo stato ai figliuoli, lo affida alle cure vigili del popolo, ecco G. interromperlo e osservare che questi pensieri che i tiranni deponghino le tirannidi,e che i re ordinino bene i regni, privando la loro posterità della successione,si dipingono più facilmente in su'li bri e nelle immaginazioni degli uomini,che non se ne eseguiscono in fatto. Ammette, con Machiavelli, la frode, la violenza, l'inganno,per cementare salda mente uno Stato, ma vuole attenuare il fatto, e ne discorre con parole moderate e suggerite dal buon senso. Così pure non condivide gli entusiasmi del Machiavelli sull'uomo destinato a dare nuova vita a un popolo, sebbene egli creda gli uomini meno cattivi di quelloche sono reputati dal segretario fiorentino. Dimostra Machiavelli che si viene di bassa a gran fortuna, più con fraude che con la forza ; ma G. Osserva. Se lo scrittore chiama fraude ogni astuzia o dissimulazione che si usa anche senza dolo, può essere vera la conclusione sua,che la forza sola,non dico mai,che è vocabolo troppo assoluto, ma rarissime volte conduca gli uomini da bassa a grande fortuna.Ma se chiama fraude quella che è proprio fraude, cioè il mancamento di fede, o altro procedere doloso,credo si trovino molti che hanno senza fraude acquistato regni e imperî grandissimi. Di questi fu Alessandro Magno, di questi Cesare, che di cittadino privato con altre arti che di fraude si 1Presuppone Machiavelli che tutti gli uomini sono cattivi ed essere necessario all'ordinatore di una re pubblica infrenarli con le leggi,perchè non operano mai ilbene se non per necessità.IlGuicciardini è con trario a questa sentenza eccessiva, e crede la maggior parte degli uomini inchinevoli più al bene che al male : e se alcuno ha altra inclinazione, è così diffe rente dagli altri e spoglio dell'istinto che ci porge lanatura,da doversi più prestochiamaremostroche uomo.È adunque ogni uomo inclinato al bene, ma, essendo la natura sua fragile, può essere deviata dal retto cammino,dalla volontà,dall'ambizione e dal l'avarizia: leleggi si devono fare in maniera da impe dirgli di fare il male di cui sente l'impulso, e nel tempo stesso allettarlo al bene coi premî. Sostiene Machiavelli essere sempre la frode un mezzo di in grandimento. G.  talora la crede inutile e la vorrebbe lasciata da parte,non in nome della morale, m a di un ben inteso interesse. Machiavelli sostiene che nel mondo fu tanto di buono in un'età quanto in un'altra,benchè varino i  condusse a tanta grandezza,scoprendo sempre l'am bizione sua e lo appetito di dominare Ma,quanto alla fraude, può essere disputabile se sia sempre buono istrumento di pervenire alla grandezza ;perchè spesso coll'inganno si fanno di molti belli tratti,spesso anche l'avere nome di fraudolento toglie l'occasione di con seguire gl'intenti suoi. Tutti e due eran d'accordo che l'inganno è necessario per riuscire ad un buon fine, però G. non accetta in modo asso luto le massime del Machiavelli e dimostra la diffe renza della sua indole, molto più pratica,se si para gona a quella di Machiavelli ; più sistematica nel venire a considerare i casi in cui la frode conduce o non conduce alla meta agognata. Considerazioni al proemio del lib . luoghi, la qual cosa equivale a dire che sempre nella umana famiglia il bene e il male si equilibrano. All’incontro G., con mirabile penetrazione, e v o cando dinanzi a sè le età passate,risponde di no :e anche riconoscendo che l'antica non è superiore ai tempi che la seguirono e che verranno,afferma che la somma del bene e del male è differente nelle diverse età e ne porge gli esempî: Chi non sa in quanta eccellenza fussino a tempo de' Greci e poi de’ ROMANI la pittura e la scultura, e quanto di poi restassino oscure in tutto il mondo ; e come dopo essere state sepolte per molti secoli siano da centocinquanta o dugento anni in qua ritornate in luce ? Chi non sa quanto a'tempi antichi fiorì non solo appresso a'Romani,ma in molte pro vincie la disciplina militare, della quale i tempi n o stri e quelli de'nostri padri e avoli non hanno veduto in qualunque parte del mondo se non piccoli e oscuri vestigî ? Il medesimo si può dire delle lettere, della religione, che senza dubbio in alcune età sono state sepolte per tutto, in altre sono state in molti luoghi eccellenti e in sommo prezzo. Ha visto qualche età ilmondo pieno di guerre,un'altra ha sentito e go duto la pace ; dalle quali variazioni delle arti, della religione,dei movimeti delle cose umane,non èm a raviglia siano anche variati i costumi degli uomini, i quali spesso pigliano il moto suo dalla istituzione, dalle occasioni,dalla necessità.?» Per G. è indispensabile ai popoli la reli gione, in ispecie quando viene usata come elemento di forza nello stato, e ad esso sottomessa : tuttavia non condivide col Machiavelli l'opinione che i romani doveno alla religione una sì gran parte della loro potenza, e dimostra avere l’armi maggiormente contribuito ai trionfi delle aquile latine sulla terra. Alla questione sulla religione dei romani si collega Considerazioni al proemio. e e 2  particolare circa l'influenza del papato sui destini d'Italia, in cuii due eminenti filosofi hanno punti di contatto e altri che li dividono. Afferma Machiavelli avere la chiesa cattolica di Roma tenuta l'Italia divisa, ed essere stata causa che non potesse venire sotto un capo e rimanesse sotto a più principi e signori, dai quali le venne tanta disunione e debo lezza da cadere preda dei barbari potenti e di chiun quel'assaltasse. G. risponde. Non si può dire tanto male della corte romana, che non m e riti se ne dica più, perchè è un'infamia, un esemplo di tutti i vituperî e obbrobrî del mondo. È con vinto essere stata causa la grandezza della chiesa che l'Italia non è caduta in una monarchia. Pure è dubbioso se il non essersi organata nella monarchia sia stata felicità o infelicità di questa nostra terra, poichè la divisione sua in tanti dominî, malgrado le sofferte calamità, produsse le sue glorie comunali. Osservazione profonda e vera, poichè se l'Italia fosse caduta sotto il dominio di uno solo, le varie regioni, in cui si divise, non produceno l'energia in dividuale dei comuni, che crea tanti tesori in molte parti dello scibile e della attività umana, nei commerci e nelle industrie, preparando gli splendori della Rinascenza, che sono fiaccola alla civiltà del mondo. G. rimane ad osservare la realtà delle cose che aveva d'attorno e non voleva seguire Machiavelli, che lancia il suo guardo di aquila oltre i confini d'Italia, a osservare il formarsi delle nazioni unitarie, giovani e forti, aventi un vivo sentimento patrio. Secondo il segretario fiorentino, l'Italia, divisa e debole, non puo difendersi dalle loro cupidigie d'ingrandimento, e già cade sotto i loro colpi brutali, mentre nei secoli passati, senza la piaga del papato, essa pure puo divenire di mano in mano una nazione unita e forte sotto i suoi legislatori, ed ora non si sarebbe trovata immersa in tante infelicità. Nella quistione sulla lotta fra la plebe e la nobiltà, che agita ROMA e Firenze, non vanno d'accordo. Machiavelli osserva che le divisioni di Firenze sono esiziali alla città, perchè la vittoria del popolo porto la rovina dei grandi: quelle di Roma inveceriescirono di grandezza allo stato, perchè il popolo, rimasto a combattere sulla via della legalità, si accontenta di rivendicare i suoi giusti diritti; e, conseguitili, divise coll’aristocrazia il governo. A queste giuste e originali osservazioni risponde G., e combatte la maniera assoluta con cui sono dette. Se da principio o non è stata questa distinzione tra patrizî e plebei, o se al manco si è data la metà degl’onori alla plebe come si fa poi, non nasceno quelle divisioni, le quali non possono essere laudabili, nè si può negare non fossero dannose, sebbene in qualche altra repubblica manco virtuosa avrebbero fatto più nocumento. Laudare le disunioni è come laudare in uno infermo la infermità, per la bontà del rimedio che gl’è stato applicato. E ponendo mente all'ambizione di uomini cospicui, che approfittarono delle lotte fra popolo e nobiltà per impadronirsi del governo, G. dice come APPIO CLAUDIO (vedasi) e rovesciato dal potere non per essersi unito ai grandi a combattere il popolo, mentre doveva fare altrimenti, ma perchè tenta di rovesciare la repubblica, la quale e allora governata da ottime leggi, piena di santissimi costumi e ardentissima nel desiderio della libertà. MANLIO CAPITOLINO, sebbene procedesse contro il senato con arte meramente popolare, pure fu oppresso dal popolo medesimo, appena capì che cercava di spegnere la libertà. SILLA occupa la tirannide a Roma elastabili con l'aiuto della nobiltà; il duca d’Atene si fece tiranno a Firenze col favore dei grandi, che non seppe mantenersi fedeli per la sua imprudenza e leggerezza. GIULIO CESARE si fa signore di Roma col favore della plebe.Così nell'una parte e nell'al tra si trovano molti esempi e ciascuna parte ha le sue buone ragioni. I partiti non si possono pigliare con una regola generale, ma la conclusione s'ha a cavare dagli umori della città, dall'essere delle cose che varia secondo le condizioni dei tempi e altre oc correnze che girano. Secondo G. chi ha seco la nobiltà ha un fondamento più gagliardo di riuscita : chi ha il popolo dalla sua parte ha più seguaci, ma la potenza sua è meno sicura, per il mutarsi degli umori della moltitudine. Il principio annunziato dal Machiavelli che sono lodevoli i fondatori di una repubblica o di un regno quanto vituperevoli quelli di una tirannide, è dal G, trovato giusto. Però,egli dice con rettitu dine,non bisogna confondere gli esempî, perchè qual che volta può darsi che le forme della libertà sieno così disordinate e le città ripiene tanto di discordie civili,da condurre qualche cittadino,non potendo sal varsi altrimenti,a cercare la tirannide o ad aderire a chi la cerca. Mentre è detestabile in GIULIO CESARE, pieno dialtavirtù,ma oppresso dall'ambizione del dominare : accade pure al governo della plebe di diventare tirannico e allora,dai perseguitati,si desidera la m u tazione dello Stato. G., quando siferma a meditare sulla storia di Roma antica, vi guarda dentro con l'occhio del politico,non con quello dello storico.Non si cura di ricercare se i re sono esistiti veramente ovvero se simboleggiano le varie età che si succedettero presso la gente romana così famosa : questi dubbî,già balenati alla mente degli umanisti delsecoloXV, non la tocca nonemmeno. Egliguarda soltanto ai caratteri della politica romana, e, contro il parere del Machiavelli, afferma che, eccettuata disciplina militare, Roma ebbe un governo in molte partidifettoso, come,peresempio,lafacoltà accor data ad un uomo di fermare le azionipubbliche e le deliberazioni della città,come feceroiconsoli, anche togliendo ilfreno deltribuno.In potestà dei consoli fu il diritto di privare dell'autorità senatoria uomini onorandi come MAMERCO EMILIO. Egli è pure del parere del Machiavelli che la prolungazione degl'imperî fu occasione grande a chi volle occupare la repub blica, perchè era istrumento a farsi amici i soldati eseguitocoire. Ma il fondamento dei malifula corruzione della città, la quale, datasi all'avarizia,alle delizie, era in modo degenerata dagli antichi costumi che ne nacquero le divisioni sanguinose della città, dalle quali sempre ne'popoli si viene alle tirannidi. Però quando Roma non fu corrotta,la prolungazione degl'imperî e la continuazione del consolato, che nei tempi difficili usò molte volte, furono cosa utile e santa. Conchiude che se non fussino state le pro lungazioni,non sarebbe mancato nè a Cesare nè agli altri che occuparono la repubblica, nè pensiero ne facoltà di travagliarla per altra via, essendo la città corrotta? Non ostante la loro somiglianza,idue grandi po litici fiorentini avevano tendenze intellettuali diffe renti, e spesso si trovavano in disaccordo.Nelle m a s sime che risguardano laguerra, Machiavelli sostiene che si deve fare col ferro e non coll'oro: ibuoni sol dati soltanto sono il nervo della guerra e non l'oro: occorrono certo I danari,ma in secondo luogo,essendo impossibile che abbino a mancare ai buoni soldati. Guicciardini, che si attiene alla vita reale, in cui nonc'erano armi proprie,se si eccettua il tentativo fatto in Firenze sotto il gonfaloniere SODERINI, per impulso generoso di Machiavelli; CONSIDERAZIONI INTORNO AI DISCORSI DEL MACHIAVELLI. G., ilquale era stato governatore di pro vincie, commissario generale negli eserciti e cono sceva la venalità dei capitani e delle milizie, che per il danaro calpestavano la fede giurata e rinne gavano sin anche la patria,non poteva essere dello stesso avviso,sapendo per esperienza che occorreva danaro per avere illustri capitani, milizie e buone fortezze. Del resto, se egli sostiene che il danaro è il nervo della guerra, non intende che i danari soli bastino a fare la guerra, nè siano più necessarî dei soldati, perchè sarebbe stata opinione falsa e ridi cola. All'incontro intese « che chi faceva la guerra, aveva bisogno grandissimo di danari e che senza quelli era impossibile a sostenerla, perchè non solo sononecessarîperpagareisoldati,ma per provve derelearmi,levettovaglie,lespie,lemunizioni e tanti istrumenti che si adoperano nella guerra ;iquali ne ricercano tanto profluvio,che a chi non l'ha pro vato è impossibile a immaginarlo. E sebbene qualche volta un esercito scarso a danari con la virtù sua e col favore delle vittorie li provvede, nondimeno ai tempi nostri massime sono esempli rarissimi :e in ogni caso e in ogni tempo non corronoidanari dietro agli eserciti, se non da poi che hanno vinto.'» A questo disaccordo si aggiunse l'altro intorno alle fortezze e alle armi da fuoco,che Machiavelli, per stare troppo attaccato all'esempio dei Romani, non tiene in nessun conto,dicendo le fortezze più dan nose che utili. G. lo riprende con ragione e dice. Non si deve lodare tanto l'antichità che l'uomo biasimi tutti gli ordini moderni che non erano in uso appresso a’ Romani, perchè la esperienza ha scoperte molte cose che non furon considerate dagli antichi, e, per essereinoltrei fondamenti diversi,con vengono o sono necessarie a una delle cose che non convenivano,o non erano necessarie all'altre.Però se i Romani nelle città suddite non usarono edificare fortezze, non è per questo che erri chi oggidi ve le edifica : perchè accadono molti casi,per i quali è molto utile avere fortezze. E quella ragione che si adduce nel Discorso, che le fortezze danno animo a'principi a essere insolenti e fare mali portamenti, è molto fri vola,perchè se s’avesse a considerare questo,avrebbe un principe a stare senza guardia, senza esercito, senza armi. Dipoi le cose che in sè sono utili,non si debbon fuggire, sebbene la sicurtà che tu trai da loro tipossa dare animo a essere cattivo:verbigra zia,sideve biasimarelamedicina, perchè gliuomini, sotto fidanza di quella, si posson guardare manco da 'disordini e dalle cagioni che fanno infermare? Certo si deve deplorare che queste fortezze G. l’estimasse utili soltanto ai principi per guar darsi dai popoli,desiderosi di cose nuove,e tenerli obbedienti col terrore. Però, come è maraviglioso questo duello tra due ingegni grandissimi che s'incontrano sul campo del l'antica sapienza governativa:sono due gigantiuguali di forze, muniti delle stesse armi,che si contendono una gloriosa vittoria nel più difficile conflitto. G., come uomo di stato, supera d'assai Machiavelli, e bastano a dimostrarlole osservazioni che di mano in mano contrappone ai discorsi del celebre segretario sulla prima deca di LIVIO (vedasi), nelle quali, colla fredda acutezza della sua mente calma, colpisce sempre il lato debole dell'avversario e ne distrugge, colla sua logica implacabile, i ragionamenti poetici ed entusiastici, mettendone a nudo ora la fallacia, ora la indeterminata incertezza. Nella storia dei filosofi italiani non si trova una figura che puo reggergli a paro. È da lamentare che il tempo sia mancato a G. per continuare il suo esame intorno ai discorsi del Machiavelli sulla prima deca di LIVIO (vedasi), perchè ci avrebbe rivelato maggior mente la potenza della vigorosa argomentazione del suo genio pratico di fronte a quello idealista del se gretario fiorentino. Nome compiuto: Francesco Guicciardini. Guicciardini. Keywords: implicatura, il concetto di stato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guicciardini: l’implicatura particolarizzata” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guzzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della lingua inaudita -- la lingua inaudibile, la lingua audita – filosofia lazia – scuola di Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Roma). Abstract. Grice: “There’s something self-consciously witty about the Italianism of a ‘lingua inaudita.’ But even in the ‘positive’ – lingua audita – is a bit of a figure of speech already – it’s not a TONGUE that we hear – but a sound – Indeed, “Someone is hearing a noise” is my example in ‘Personal identity’ and ‘Negation and Privation’ (Somone is NOT hearing a sound’). But it is not strictly ‘noise’ or ‘sound’ we hear – we hear phones, and phonemes – these are THEORETICAL CONCEPTS, in the sense that, as I reflect on ‘soot’ versus ‘suit’ – they require an analysis – a componential analysis – in terms of ‘distinctive features’. The phenomenon of ‘suit’ being pronounced like ‘soot’ – as in ‘foot’ or ‘put’ – is best understood through the lens of phonological variation and the evolution of English vowel ounds. Here’s a breakdown of the phonological explanations. VOWEL MERGER AND historical sound changes. Historically, the vowel in words like ‘suit’ – originating from French loans – involved a DIPTHONG like /ju:/ -- a ‘yoo’ sound. Over time, particularly in certain dialects and regions, the initial ‘j/ or “y” sound in the dipthong was LOST, leaving only the /u:/ sound – as in ‘moon’ or ‘boot’ --.Meanwhile, ‘soot,’ a native English word, has typically been pronounced with the SHORTER, laxer /u/ sound – like in ‘foot’ or ‘put’. However, in SOME DIALECTS, a MERGER between /u:/ and the /u/ sound has occurred, especially when these vowels are in similar phonological environments. This means that in these specific dialects, words like ‘suit’ and ‘soot’ can become homophones, pronounced identically. The pronunciatn of ‘suit’a ‘soot’ is not universal across all English dialects. Some tend to retain the /u:/ sound in ‘suit,’ while certain dialects exhibit the pronunciation with the /u/ sound. The fact that ‘soot’ can be used as an informal rendering of ‘suit’ in writing highligs the phenomenon of homophony, were words wth different meanings and spellings are pronounced IDENTICALLY. In essence the pronunciation variation in ‘suit’ can be attributed to historical sound changes – th loss of the /j/ sound and potential vowel mergers – and regional and dialectal differences: variations in how the English language has evolved and in spoken across different regions. It is important to remember that language is constantly evolving, and pronunciation shifts are a natural part of that process!” Keywords: Grice, Guzzi. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “My favourite is his dictionary of the unheard tongue – with a foreword like sounds like Blair on newspeak!” - Filosofo. Studia al Liceo classico statale Giulio Cesare. Direttore dei seminari del Centro studi Eugenio Montale. La poetica di G., fin dall'inizio, si è concepita come un'esperienza spirituale, una ricerca di stati più dilatati della coscienza, sulla scia della linea che da Hölderlin, e attraverso Rimbaud, arriva fino al nostro migliore ermetismo. La ricerca teoretica di G, ha affrontato, in particolare nel saggio filosofico La svolta, significativamente sottotitolato "La fine della storia e la via del ritorno", il tema del cambiamento epocale che a suo avviso l'uomo è chiamato a conoscere e riconoscere, dentro e fuori di sé. Opere: Raccolte di poesia Anima in vetrina,  Il Giorno, Scheiwiller, Teatro Cattolico, Jaca, Figure dell'ira e dell'indulgenza, Jaca,  Preparativi alla vita terrena, Passigli, Nella mia storia Dio, Passigli, Parole per nascere,Paoline,  Saggi di filosofia e di religione La Svolta, Jaca, Rivolgimenti, Marietti, L'Uomo Nascente, Red, Passaggi di millennio, Paoline, L'Ordine del Giorno, Paoline, Cristo e la nuova era, Paoline, La profezia dei poeti, Moretti e Vitali, Darsi pace, Paoline, La nuova umanità, Paoline, Per donarsi, Paoline, Yoga e preghiera cristiana, Paoline, Dalla fine all'inizio, Paoline,  Dodici parole per ricominciare, Ancora  Il cuore a nudo, Paoline,  Buone Notizie, Ed. Messaggero  Imparare ad amare, Paoline  L'Insurrezione dell'umanità nascente, Edizioni Paoline,  Fede e Rivoluzione, Paoline  Il profilo dell'Uomo di Dio, Paoline  Alla ricerca del continente della gioia, Paoline  “Dizionario della lingua inaudita” Lingua e Rivoluzione, Paoline. Grice: “Guzzi plays with ‘lingua inaudita’ – literally ‘unheard of’ – but ultra-literally turns his dictionary into a magical oxymoron! Nome compiuto: Marco Guzzi. Guzzi. Keywords: lingua inaudita, lingua audita, lingua e rivoluzione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzi” --- The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Guzzo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- pagine di filosofi – idealisti ed empiristi -- filosofia campanese – filosofia napoletana – la scuola di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Napoli). Abstract. Grice: The Italians have the BIBLIOTECA ITALIANA DI FILOSOFIA – Oxonians don’t!” – Guzzo published “Idealisti ed empiristi’ for the Biblioteca!” Grice’s philosophical formation was admirable. Having been accepted as a scholar at Corpus, it did not come as a surprise to him that Philosophy was only introduced after the completion of the third term. Whereas in Italy, “they teach philosophy in the licei!” -- Keywords: Grice, Guzzo, pagine di filosofi pei giovani italiani. Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I admire Guzzo; he founded ‘Filosofia,’ a philosophy magazine and led a school at Torino, but he selected ‘pagine di filosofi per i giovani italiani.’ He wrote interesting essays on “Gli hegeliani d’Italia” and Croce versus Gentile – a very systematic philosopher. The logo of his revista shows Oedipus and thes sphynx – that says it all!” Si laurea a Napoli, dove fu allievo di Maturi. Insegna a Torino e Pisa. Fonda "Erma”. Esponente dell'idealismo, si avvicinò all'attualismo di Gentile. È considerato quindi uno dei più grandi esponenti dello spiritualismo. Saggi: “Spinoza”; “Kant”; “Verità e realtà”; “Apologia dell'idealismo”; “Idealisti ed empiristi”; “Aquino”, “Bruno”; “Storia della filosofia”, “L'uomo” (Brescia, Morcelliana); “L'io e la ragione”; “Moralità”; “Scienza”; “Arte”; “Religione; “Filosofia” – P. Quarta, “Guzzo e la sua scuola, Urbino, Argalìa; Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani.L’ISAGOGE DI PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO TORINO L’ERMA, ESTRATTO dagl’Annali dell’ Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. TORINO - L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio. Il Commento di Porfirio alle Categorie di Aristotele. Questioni su le Categorie. L’Isagoge. Il prologo. Il primo commento di Boezio al prologo dell’Isagoge. Il secondo commento di Boezio. Le cinque voci. Il genere. La specie. La differenza. La qualità. L’accidente. Quel che hanno di comune le cinque voci. Comparazione del genere con le alti e quattro voci. Comparazione della differenza con le altre quattro voci. Comparazione della specie con le altre quattro voci. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. Il primo commento di Boezio alla dottrina delle cinque voci. Il dialogo premesso al primo commento di Boezio. Divisione della filosofia. Il secondo commento di Boezio. Conclusione. Queste esposizioni di antichi testi molto famosi ma poco letti costituirono l’argomento del corso di Pedagogia da me professato nell’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte, Volevo dare una conoscenza possibilmente precisa di quel che e l’istruzione e la cultura nell’alto medioevo ed esposi i testi che in quei secoli sono più meditati lumeggiando, di scorcio, anche lo sfondo d’idee su cui sorse più tardi, sui primi periodi dell’Isagoge, la disputa degli universali. Porfirio, che è autore della celebre Isagoge, o Introduzione alle X Categorie di Aristotele, è anche autore di un meno noto commentario alle medesime categorie. Sarà utile studiare almeno la prima parte, cioè la parte introduttiva di tale commentario. Forse si troverà in essa la spiegazione del punto di vista dal quale si pone Porfirio nell’Isagoge. Questo commentario ci è pervenuto mancante dell’ultima parte - quella riguardante le ultime quattro categorie e i post-predicamenti - e assai scorretto e guasto anche nella parte precedente. Lo si trova in un codice modenese miniato, in un codice della Marciana, in uno dell’Escuriale, in uno parigino, in uno della Laurenziana. E' però dimostrato che di tutti questi codici il primo, da cui tutti gli altri dipendono direttamente, è quello modenese. Di sul codice parigino il commento e stampato a Parigi apud Bogardum. Su questa edizione, che è l’edizione principe, del commentario, e condotta la versione latina di Feliciano, stampata in Venezia apud Scotum. L’ edizione critica si deve alle cure ogica che, ad esporli, si può tutt’al più riescire chiari. Ma avviciuarli alla comune cultura può forse essere utile. Anche questo corso, che e rimasto inedito, va messo tra i lavori da me preparati per l’Istituto Superiore di Magistero del Piemonte. Mi sia permesso enumerarli: Apologia dell’idealismo (Discorso inaugurale), Torino, Paravia; Introduzione e Commento al i^edone di Platone, Commento alla Repubblica di Platone, Agostino: dai Contra Academicos al De Vera Religione^Firenze, Vallecchi; Agostino, Il maestro^ Traduzione, Intro- duzione, Commento e Appendici, Firenze, Vallecchi; Tommaso d’Aquino, Il maestro, Traduzione, Introduzione e Commento, Firenze, Vallecchi; Giudizio e azione, Venezia, «La Nuova Italia»; Agostino e il sistema della grazia, Torino, «L’Erma»; Il concetto di individuazione e il problema morale (Discorso inaugurale), Torino, L’Erma; La Summa contra Gentiles, Torino, « L’Erma », 1931 ; I Dialoghi del Bruno, Torino, « L’Erma] di Busse, nell’edizione dei commenti ad Aristotele, promossa dall’Accademia Prussiana: Porphyrii Isagoge et in Aristotelis Categorias commentarium edidit Busse. — Berolini, Typis et impensis Reimer). Il commento procede per yììx di domanda e risposta. E’, in londo, un dialogo, ma in cui le persone degli interlocutori non hanno alcun rilievo ; la domanda parte da uno che non sa e chiede spiegazioni. La risposta enuncia, evidentemente, la soluzione che Porfirio crede si possa e si debba dare alle varie questioni. Le quali se, da un certo momento in poi, riguardano il più giusto significato da attribuire alla lettera del testo del LIZIO, prima vertono su problemi che investono rimpianto stesso del piccolo saggio del LIZIO. Prima questione. “Categoria” in greco vuol dire accusa, denunzia, fatta all’AGORA, o assamblea. Come mai Aristotele chiama categorie l' I essenza, la II quantità, la III qualità, ecc.? La risposa è che il filosofo, costretto talvolta a coniar parole nuove, tal’altra a dare un significato nuovo a parole consuete, adopra la parola “categoria” per indicare le espressioni enunciative delle cose (tàc twv Xé^soov twv a'ijjxavttxwv y.arà twv TUpaYixatcov xat- YjYopta? TrpoosìTcsv). Sicché, ogni semplice espressione enunciativa, quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice categoria. Per esempio: se la cosa che vien mostrata è questa pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo: «questa è pietra», l'espressione «pietra» è il categorèma, giacché indica la cosa e vien detta di essa. Seconda questione. — Il LIZIO chiama il suo scritto Categorie o, come altri, Le X Categorie? Porfirio risponde respingendo tanto questo titolo dello scritto quanto gli altri. Prima della Topica, dei generi dell'essere, dei X GENERI generi. Non Prima della Topica perché in tal caso sarebbe stato più esatto dire Prima degl’Analitici, anzi prima dell’interpretazione, chè il saggio delle Categorie è il più elementare e introduttivo a tutte le parti della filosofìa, E piuttosto sarebbe Prima della parte fisica della filosofia. Anziché Prima della Topica: chè è opera della natura l’ I essenza, il quale e simili. Nè il saggio potrebbe in nessun caso intitolarsi “Dei generi dell’essere” o “dei X generi,” perchè gl’esseri e i loro generi e le specie e le differenze sono cose e non voci. Invece, Aristotele, enumerando le X categorie, l’ I essenza, il II quale, il III quanto e le rimanenti, dice che ciascuna delle dette si dice per sé stessa, non per attribuzione, mentre l’attribuzione, o affermazione, avviene mediante connessione di esse tra loro. Or se è la connessione delle categorie quella che dà luogo all’asserzione, e se l’asserzione consiste in voce indicativa e discorso dimostrativo (èv oyjaavrix-^ xai àTio^avTixij)), il saggio aristotelico non può riguardare i generi dell’essere, nè in generale le cose. Chè non la connessione delle cose costituisce l’asserzione, bensì la connessione della voce significativa che indica la cosa. E Aristotele stesso dice che ciascuna delle categorie dette senza alcuna connessione significa o l’essenza o il quanto, con quel che segue. Ora, se Aristotele parla di cose, non direbbe “”significa” l’essenza, chè la cosa NON SIGNIFICA, bensì E SIGNIFICATA. Ciò che SIGNIFICA è la voce, la parola: di voci, di parole dunque, tratta Aristotele nelle Categorie. Perchè, poi, debba essere questo il titolo dello scritto, e chiaro - dice Porfirio - quando si sia dimostrato il contenuto proprio del saggio. Quale è dunque il contenuto proprio delle Categorie? Porfirio risponde rifacendosi di lontano. L’uomo - egli scrive - giunto a indicare e significare le cose circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con questo mezzo ciascuna di esse. Il primo uso che egli fa delle parole e rivolto a mostrare ciascuna cosa per mezzo di voci e di parole; col quale riferimento delle voci alle cose questo chiama “sedile”, quello “uomo”, quell’altro “cane” e quell’altro “sole”. E ancora questo colore chiama “bianco”, quello “nero”; e questo chiamò numero, quello grandezza ; questo “due cubiti”, quello “tre cubiti”; e cosi per ciascuna cosa stabili parole e nomi significativi di esse e indicativi mediante determinati suoni della voce. Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune parole, l’uomo, passando ad una seconda impresa e riflettendo sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agl’articoli chiamò nomi, e quelle come io passeggio, tu passeggi chiamò verbi. Di modo che, se nella prima imposizione di nomi questo chiamò oro e quello sole, nella seconda la voce oro chiamò nome e la voce passeggio verbo. Ora il contenuto delle Categorìe del LIZIO è precisamente il primo stabilimento delle parole, quello che mostra le cose: giacché studia le voci significative semplici, in quanto significative delle cose, distinguendole non l’una dall’altra individualmente, chè, di numero, le voci sono infinite come le cose che significano, ma distinguendole secondo il genere a cui appartengono. Ora l’infinità degl’enti e delle parole che li significano si lasciano ridurre a X generi: giacché X sono le differenze di genere degl’enti, e X anche le voci che le indicano. Ma questo fatto che le voci, simili a messaggere, prendano le differenze dalle cose che annunziano, non toglie che la ricerca principale sia, nelle Categorie intorno alle voci significative, e non intorno alle differenze di genere degli enti. X sono i generi delle parole in quanto significative di cose: ché significano o l’essere (la I sostanza), ó la II quantità, la III qualità, la IV relazione, ecc. (i IX ACCIDENTI della SOSTANZA). Due, invece, sono le parole che significano il tipo a cui appartengono; giacché tutte le voci sono di due tipi: o nomi o verbi. Alla quale seconda ricerca - grammaticale, non logica, diremmo noi appartiene anche distinguere la espressione propria dalla metaforica e dagli altri tropi. Presentata cosi la ricerca delle Categorie come una ricerca nè metafìsica, nè grammaticale, nè retorica. Non metafìsica perchè secondo Porfirio, è incidentale il riferimento ai generi dell’essere, essendo l’attenzione rivolta ai generi delle parole significative, in quanto appunto significano questo o quello. Non grammaticale, perchè nelle « Categorie » non si distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è distinzione tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo ciò che significano, non secondo che siano proprie, metaforiche, ecc. Porfirio osserva che, contro la sua interpretazione che intende la ricerca delle Categorie come una ricerca, noi diremmo, di filosofia del linguaggio, e gl’antichi dicevano di logica, comunemente identificando col pensiero la sua significazione verbale, si schieravano tanto quelli che ritenevano oggetto principale delle Categorie la ricerca metafisica intorno ai generi dell’essere, quanto quelli che. credendo oggetto delle Categorie la ricerca retorica delle espressioni proprie e delle figurate, ritenevano la distinzione aristotelica delle Categorie o insufficiente o incomprensiva o, al contrario, sovrabbondante. Fra questi ultimi, per esempio, i seguaci di ATENODORO e di CORNUTO, studiando le espressioni proprie ed improprie, e volendo sapere a quali categorie esse appartenessero, non trovando nel saggio aristotelico risposta a tale domanda, ritennero manchevole e difettosa l’enumerazione aristotelica, come non comprensiva di tutte le voci significative. Invece, secondo Porfirio, rettamente intesero lo scritto d’Aristotele POETO nel suo commento alle Categorie, e più brevemente ERMINIO. Il quale dice che la ricerca non verte nè su quelli che in natura sono i primi e generalissimi generi nè studia quali siano le prime ed elementari differenze delle parole, come se la trattazione riguardasse le parti del discorso; ma piuttosto verte sulla specie di parole che risulti appropriata a ciascun genere di enti: onde e necessario toccare in qualche modo dei generi, a cui le parole si riferiscono -- chè non si intende la significazione propria di ciascun genere se qualcosa intorno ad esso non s’anticipa. Poiché X sono i generi, X sono le categorie. E si potrebbe magari anche intitolare lo scritto aristotelico Dei X generi se con ciò si significasse solo un riferimento ai X generi, giacché non di essi si occupa principalmente il saggio. Perchè il libro verte su le Categorie e s’inizia con una trattazione su gl’omonimi e i sinonimi? Perchè queste sono distinzioni delle quali Aristotele deve fare uso in tutto l’Organo: perciò le premette ad ogni altra considerazione. Tralasciamo, ora, il seguito del commento Porfiriano; ma ci gioverà aver visto come Porfirio intende quelle Categorie alle quali s’assunse lo storico compito di introdurre . La celebre Isagoge di Porfirio tratta del genere, della differenza (che, entro ciascun genere, distingue l’una dall’altra le specie), della specie, della proprietà (che caratterizza ciascun genere e ciascuna specie) e dell’accidente, che, senza essere intrinsecamente proprio d’una sostanza, le si attaglia in talune circostanze. La trattazione del genere è, però, preceduta da una famosa introduzione, nella quale Porfirio si rivolge a CRISAORIO, patrizio romano suo discepolo, dicendo. oiché, o Crisaorio, è necessario anche per la dottrina aristotelica delle Categorie, sapere che sia genere e che differenza, e che sia specie e che proprietà e che accidente; siccome e per assegnar le definizioni e in generale per quel che riguarda la divisione e la- dimostrazione è utile l’indagine di tali cose: io, facendo per te una compendiosa trattazione, tento brevemente, come a mo’di introduzione, di spiegare il pensiero degli antichi, astenendomi dalle ricerche, più € profonde e investigando, invece, opportunamente le più semplici. Le ricerche più profonde, da cui Porfirio professa di astenersi, riguardano la realtà dei generi e delle specie, in una parola degli universali. Difatti Porfirio continua. Ora, riguardo ai generi e alle specie, se esistano o invece c stiano solo nel pensiero e, dato che esistano, se siano corpi o incorporei, e se separati o esistenti nei sensibili e non fuori di essi, io evito di dire, profondissima essendo questa questione e richiedendo essa altra maggiore ricerca. Onde Porfirio conclude dicendo che si limiterà a cercare d’esporre a CRISAORIO ciò che gli’antichi meditarono intorno a questi argomenti, e tra essi specialmente il LIZIO. Porfirio, dunque, tratta dei generi e delle specie senza determinare se siano idee, cioè enti metafisici, o semplici concetti, esistenti solo nella mente che li pensa. Ma, per conto suo, per quale di queste dottrine propende? Grià si è visto che egli considera generi, specie e differenze cose, non voci e che, in generale, ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro ragion d’esseie in altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno espressione. Per Porfirio dunque, generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude alla logica aristotelica trattando d’essi, in fondo egli ridà alla logica d’Aristotele il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta a distinguere generi e specie e valida, nella filosofia di Platone, tanto oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente, come logica. Questo punto di vista realistico da cui è scritta l’intera Isagoge non sfugge, nonostante tutto, al commentatore BOEZIO, il quale torna sulla importante questione cosi nel primo come nel secondo dei suoi commenti all’Isagoge. È noto che i due commenti son diversi tra loro in quanto il primo si dirige ai principianti e quindi evita le discussioni troppo complicate e sottili, il secondo, invece, vuol indurre i discepoli già provetti a una ginnastica mentale adatta alle loro forze e alla loro preparazione. Non è meraviglia, quindi, che la questione degli universali, giacché ormai di essa si tratta, e impostata diversamente nei due commenti, sebbene la trattazione giunga a risultati assai affini. Il primo commento di BOEZIO giunge a interpretare il prologo dell’isagoge solo al decimo capitolo, e mostra chiaro lo sforzo di ricorrere alle argomentazioni e dimostrazioni più semplici, affinchè i principianti possano intenderle ed afferrarle. In verità Porfirio pone e rinvia tre questioni: se generi e specie esìstano davvero o stiano solo neirintelletto e nella mente; se siano corporei o incorporei; se siano separati o uniti con i sensibili. Rispetto alla prima questione, se generi e specie esistano davvero, o stiano solo nell’intelletto e nella mente, BOEZIO sembra interpretarla in un modo che forse non coincide interamente con ciò che intende Porfirio. Questi intende domandarsi: generi e specie sono idee platoniche, cioè enti, o invece concetti aristotelici, cioè universali puramente mentali nati nel pensiero e dal pensiero? Se sono idee platoniche, si intende che sono, non solo incorporee, ma separate. Se invece sono concetti aristotelici, essi corrispondono, nella mente, a forme che nella realtà vivono intrinsecate nelle cose sensibili. La questione, dunque, è: gli universali vanno concepiti platonicamente, ante rem, o aristotelicamente, post rem, giacché in re essi esistono, ma intimi alle stesse cose particolari? Se questo è ciò che intende domandarsi Porfirio, si capisce come egli preferisca rimandare questa controversia prò ACCADEMIA o prò LIZIO a un momento in cui il suo discepolo CRISAORIO sia già innanzi negli studi filosofici. Ma BOEZIO intende la questione in maniera assai diversa. Egli non intende i generi e le specie se non come universali mentali post rem, come concetti aristotelici. La conoscenza si inizia con la sensazione: per sensuum qualitatem res sensibus subiectas (animus) intellegit. Dalla sensazione lo spirito parte per concepire le specie ed i generi: et ex bis -- le cose sensibili -- quadam speculatione concepta, viam sibi ad incorporalia intellegenda praemunit. Così, quando vede i singoli individui umani, sa d’aver visto uomini, sa che sono uomini quelli che ha visti. Di qui lo spirito sale a discernere la stessa specie uomo, incorporea perchè non si concepisce che con la mente e l’intelligenza. Ma, come movendo dalla sensazione lo spirito giunge a comprendere le cose incorporee, così, movendo dalle stesse sensazioni, lo spirito arriva a immaginarsi, per esempio, un centauro, la cui fallace immagine si compone di elementi della forma umana ed elementi della forma equina. Or si domanda: generi e specie sono concepiti con verità, sicché comprendiamo la specie uomo giustamente ricavandola dai singoli uomini corporei, o invece sono immaginati con finzione mentale pari a quella di cui parla ORAZIO nell’Arte Poetica, quando dice: fiumano capiti cervicem pictor equinam iungere si velit? Come si vede, BOEZIO non crede che la domanda di Porfirio sia rivolta a sapere se gl’universali siano reali o puramente mentali, ma se siano concetti veri o pure finzioni dell’immaginazione. Il che significa porsi già su terreno prettamente aristotelico, giacché tutto si riduce a domandare se gl’universali post rem siano rettamente pensati o fallacemente immaginati, o, con altre espressioni, se siano concetti o puri sogni e chimere. La risposta che BOEZIO dà a questa domanda è, se non erriamo, singolarmente infelice. Per lui non è dubbio che i generi e le specie sono veramente. Difatti, come tutte le cose che veramente sono senza queste cinque: non possono essere, così non si può dubitare che anche queste cinque son concepite con verità -- vere intellectas. Che è una strana maniera di presupporre gl’universali reali nelle cose sensibili, quando proprio la domanda è se gli universali siano reali o fallaci. Per BOEZIO, genere, specie, differenza, proprietà, ed accidente, queste cinque distinzioni nelle cose sono conglutinatae et quodam- modo coniunctae atque compactae. Difatti, perchè Aristotele parla delle prime X espressioni (sermonibus) significanti i generi delle cose, o perchè raccoglierebbe le loro differenze e proprietà e toccherebbe degl’accidenti, se non li avesse visti nelle cose intrinsecati e in qualche modo riuniti -- in rebus intima et quodammodo adunata ? In base a questa argomentazione BOEZIO conclude che se è cosi, non c’è dubbio che siano veramente e sian tenute (le cinque distinzioni) con giusta riflessione -- certa animi consideratione. Ma si vede chiarissimo che BOEZIO dà per certa e dimostrata la concezione aristotelica degl’universali come forme immanenti nelle cose particolari, onde conclude che lo spirito, pensandoli, è nel vero e non nell’errore delle pure finzioni immaginarie. Ma se la questione erper Porfirio se gli universali fossero reali o puramente mentali, e per BOEZIO se fossero concetti veri o mere finzioni immaginarie, nè la questione porfiriana, nè quella boeziana possono essere risolte con l’appellarsi alla concezione aristotelica di universali reali nei particolari, e quindi veri, post rem, nello spirito umano. Questo è un affermare il temperato realismo aristotelico, non un risolvere la questione con un procedimento dimostrativo. BOEZIO presuppone dimostrato l’aristotelismo per decidere in senso aristotelico e su l’autorità del LIZIO la questione da lui posta. Senonchè BOEZIO trova un’altra conferma realistica- della sua opinione nell’assenso, per quanto tacito, dello stesso Porfirio. Giacché, egli dice, Porfirio, come se già fosse risaputa e provata la realtà degl;universali, domanda se siano corporei o incorporei. La quale domanda sarebbe troppo frivola e assurda se non si fosse prima assodata, per gl’universali, quella realtà che ora si domanda se sia corporea o incorporea. Ma anche qui forse BOEZIO, neirinterpretare Porfirio, va lontano da quello che egli intende dire. Porfirio domanda: — generi e specie sono reali o puramente mentali? Se reali, nel senso platonico, sono enti incorporei; se meramente mentali, non si può ad essi attribuire altra realtà che nei corpi stessi. Vale a dire, se reali, nel senso platonico, sono separati: se meramente men- tali, non possono concepirsi che immanenti nei corpi, congiunti con essi e da essi inseparabili, tranne che per astrazione nel pensiero umano. Se questa che qui proponiamo fosse una interpretazione plausibile del celebre prologo porfiriano, le domande ivi contenute in realtà non sarebbero tre, ma una sola: gli universali sono reali, o mentali? vale a dire, sono incorporei, o esistono nei corpi? cioè, sono separati, o intrinsecati nei corpi e da essi inseparabili? Ma BOEZIO le intende come tre domande, ciascuna delle quali presupponga già risolta in un determinalo senso le precedenti. Difatti, egli dice: solo se alla prima domanda se gli universali siano reali si risponde affermativamente, si può poi domandare se esistano come corpi o come incorporei ; e parimenti, solo se a questa domanda si risponda affermando Tincorporeità degli universali, si può domandare se, essendo incorporei, esistano separati dai corpi o siano da essi inseparabili. Rispetto alla seconda questione se gli universali siano corpi o incorporei BOEZIO tratta separatamente il genere dalla specie. Quanto al genere egli dice, quia incorporeorum prima natura est, può una cosa incorporea essere madre di una corporea, ma non viceversa, giacché, la sostanza essendo il genere, e corporale e incorporale le specie, il genere non può essere corporale, chè, se fosse tale, la specie incorporea non potrebbe subordinarglisi. Dal che discende che il genere non deve essere nè corporeo nè incorporeo, si da poter avere per specie così il corporeo come Tincorporeo. E qui Boezio solleva una questione di grandissima importanza. Se il genere non può avere nessuna delle determinazioni che costituiscono le proprietà delle specie e le loro reciproche differenze, donde nascono nelle specie queste differenze che nel genere, da cui pure le specie derivano, non ci sono? Non si può pensare che il genere animale possegga tanto la proprietà della ragionevolezza quanto quella della irragionevolezza: chè posse- dere in sè due contrari sarebbe impossibile. Bisogna dunque che, per poter dare luogo cosi alBuna come alEaltra delle due specie, il genere non abbia nè Buna nè Taltra delle due differenze specifiche: non sia nè Tuna nè l’altra specie, pur contenendole entrambe « vi sua et potestate. Ed anche questa è, come si deve, una soluzione prettamente aristotelica della questione: il genere è «in potenza» le sue specie, senza essere « in atto » nessuna di esse. Ma non è qui il caso di saggiare la consistenza o la inconsistenza di un simile tentativo di spiegazione che, non riuscendo a dar ragione del nascere delle differenze, le presuppone già esistenti, e tuttavia non ancora reali, giacché sono potenziali, virtuali. Si è visto dunque che per Boezio il genere non è nè corporeo, nè incorporeo : il che significa, su questo punto, non rispondere alla domanda di Porfirio, ma sottrarsi ad essa. E la ragione di tutto ciò è chiara. Porfirio è tutt’ altro che convinto che gli universali siano puri concetti: ecco perchè egli tende ad affermarli reali e incorporei. Ma per Boezio gli universali sono semplici concetti: e però, per quanto sia anch’egli convinto con Platone ed anche con Aristotele, che Tincorporeo è, per natura, prima del corporeo, pure è costretto, dalla sua concezione mera- mente logica e non metafisica degli universali come concetti e non come idee, a pensare il genere come privo delle determinazioni che saranno proprie delle specie: a costo di non sapere più d donde derivino alle specie queste differenze, che sono estrai alla sola fonte delle specie che è il genere. Ma BOEZIO si illude che ammettere la potenziale presei delle differenze specifiche nel genere sciolga la difficoltà: (inoltra nella considerazione meramente logica del genere co semplice concetto, adatto esclusivamente alle classificazi scolastiche dei concetti secondo la loro estensione, mentre, ] Platone, il genere era pregnanza di realtà o idea. Quanto alle specie BOEZIO ne ammette di corporee e di ine poree: specie corporea l’uomo; incorporea: il divino. Parimenti le differenze: quadrupede è differenza cor rea ; ragionevole differenza incorporea. Cosi anche le proprietà: corporee di cose corporee; ine poree di cose incorporee. E lo stesso è degli accidenti: accidente incorporeo è nello s ritolascienza: accidente corporeo èsul capo la capigliatura cres Insomma per BOEZIO, solo il genere è neutro, nè corpor nè incorporeo: ma le specie, le differenze, le proprietà e accidenti sono corporei se appartengono ai corpi, incorporei appartengono allo spirito. Senonchè, in questa teoria, lo stesso BOEZIO, che non potuto riconoscere incorporeo il genere per la sua conside zione meramente logica di esso, ammettendo corporee le spe( le differenze, le proprietà e gl’accidenti delle cose corpor rinunzia a considerare specie, differenze ecc. come distinzi meramente logiche, e non solo le pensa metafisicamente intr secate nelle cose singole, ma fatte una cosa sola con esse, da ricevere la loro stessa natura. Torna, bensì, a una considerazione meramente logica de distinzioni porfiriane, stabilendo, dopo la prima, ora espos una seconda teoria, che peraltro egli presenta come una teo altrui. Secondo questa teoria il genere va considerato coi genere, come pura determinazione logica o concetto. E se sostanza è genere, non dev’essere considerata come una sostanza, ma come un genere, cioè come qualcosa che ha delle specie sotto di sè. Cosi pure la specie. Corporeo e incorporeo saranno specie della sostanza. Ma essi vanno considerati come pure specie, cioè come concetti che stanno sotto un genere. Parimenti le differenze: bipede e quadrupede sono differenze in quanto l’uno contrapposto all’altro: vanno, dunque, considerati non come un bipede e un quadrupede, ma come pure differenze logiche. Similmente le proprietà non vanno considerate nel loro contenuto, ma come pure caratteristiche logiche della specie. Così intesi, generi, specie, differenze e proprietà, come pure distinzioni logiche, non possono essere, secondo la teoria che Boezio espone senza aderii-vi, se non incorporei. Mentre gli accidenti avrebbero la natura delle cose a cui accadono: sareb- bero quindi corporei o incorporei a seconda delle sostanze. Sia qui notato subito che questa affermazione metafìsica della incorporeità di quattro fra le cinque distinzioni porfiriane proprio perchè distinzioni meramente logiche, è una affermazione cosi male impostata da non poter resistere alla più semplice critica. Come semplici distinzioni logiche esse non hanno nessuna natura: il loro contenuto ha una determinata natura, non esse: nella specie uomo, l’uomo è corporeo e ragionevole, ma € la specie nè corporea nè ragionevole. Affermare quindi la incorporeità della specie come distinzione logica, come concetto, è impossibile; per dirla incorporea bisogna considerarla come idea, come ente metafìsico, non come determinazione logica. Ma dirla incorporea perchè logica è un abuso inammissibile di pensiero, e, in ogni caso, attesta quel continuo oscillar e tra logica e metafìsica che è cosi caratteristico nella tradizione LIZIA. Pensati gli universali come concetti, essi non sarebbero più suscettibili di nessuna considerazione metafìsica: invece continuano a essere dichiarati, metafìsicamente, incorporei, primi per natura, ecc., mentre, come puri concetti, essi non sono che vuoti termini classifìcatorii. Ma Boezio continua a esporre la teoria della incorporeità delle distinzioni logiche, dicendo che coloro i quali sostengono tale teoria s’appoggiano all’autorità di Porfirio stesso, il quale, come se fosse già dimostrata la incorporeità dei generi, delle differenze, ecc., domanda se siano separati o uniti alle cose sensibili: chè, se fossero corporei, sarebbe assurdo domandare se siano disgiunti dalle cose sensibili o congiunti. BOEZIO, invece, dà tutt’altra interpretazione a questa domanda porfiriana, in quanto la intende come se suonasse: gli universali sono sempre separabili dai particolari sensibili, o a volte inseparabili?, e però non gli sembra che la domanda porfiriana presupponga, come se già fosse risaputa e dimostrata, l’incorporeità di tutte le specie, differenze, proprietà, ecc. in quanto pure determinazioni logiche. Egli passa perciò a interpretare direttamente la terza domanda, lasciando da parte la teoria della incorporeità dei concetti, ed ha l’aria di averla riferita a puro titolo di informazione, ma ritenendola infondata e insostenibile. Per lui, dunque, le specie sono talune corporee, talune incorporee. Si domanda se siano sempre congiunte alle cose particolari, o possano a volte disgiungersene. BOEZIO, per chiarire la domanda porfiriana, distingue tre specie di cose incorporee: Cose incorporee affatto insuscettive di corpo, come lo spirito e Dio; Cose incorporee inconcepibili senza i corpi, come lo spazio vuoto che è immediatamente oltre i termini di una figura geometrica ; Cose incorporee che sono corpi e possono essere senza corpo, come l’anima. Si domanda se generi, specie, differenze, ecc. siano di quegli incorporei sempre separati da corpo, o di quegli altri che mai non possono separarsene, o infine di quelli che a volte si uniscono, a volte si separano. La risposta di BOEZIO è che possono congiungersi e possono separarsi: che nelle cose corpoi'ee son congiunti a corpo, nelle incorporee disgiunti da corpo. Ma non bisogna credere che tutte le specie, le differenze, le proprietà, ecc. siano congiungibili o disgiungibili dai corpi; al contrario quelle delle cose corporee sono inseparabili da tali cose corporee, come lo spazio è inseparabile dai corpi che limita; e quelle delle cose incorporee, come le proprietà dello spirito non si trovano che nello spirito, che è perfettamente separato dal corpo. BOEZIO ribadisce la sua concezione: ci sono due ordini di realtà: corporee ed incorporee; le incorporee sono per natura e dignità anteriori alle corporee, e andrebbero considerate come loro fonte: senonchè Boezio concepisce le corporee e le incorporee come tra loro coordinate, e le subordina entrambe ad un genere nè corporeo nè incorporeo, che avrà magari in sè la potenza delle une e delle altre, ma che intanto, così astratto e sopraordinato ad esse, è il vertice di una classificazione logica da scuola, non la genesi del reale. Nel secondo commento di BOEZIO le domande di Porfirio sono presentate ed interpretate come nel primo: ma ne è diversa la trattazione. Le questioni et perutiles et secretæ, et temptatæ quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutæ, non trattate ancora da Porfirio per non ingenerare oscurità nel lettore impreparato, ma tuttavia accennate affinchè il lettore, una volta rafforzato dal sapere, sappia che domandare, sono da BOEZIO formulate così: Lo spirito o, con l’intelletto, concepisce, afferra quello che realmente esiste in natura e, con la ragione, lo copia in sé stesso; oppure, con vuota immaginazione, dipinge a sé medesimo ciò che non esiste. Si domanda dunque come sia Pintendimento che noi abbiamo del genere^ della specie, ecc.: se intendiamo generi e specie come cose esistenti delle quali prendiamo vera comprensione, o se invece noi stessi ci inganniamo immaginandoci con vano pensiero cose che non sono. Che se si ammette che dei generi, delle specie, ecc. abbiamo un vero concetto, rimane da determinare se siano corporei o incorporei: giacché tutto ciò che esiste deve essere corporeo o incorporeo, e non si intenderà bene cosa siano i generi e le specie finché non si sappia se porli tra le cose corporee o le incorporee. Che, se si ammette che generi, specie, ecc. siano incorporei, rimane ancora da stabilire se, pur essendo incorporei, esistano nei corpi, o se invece sembrino essere sussistenze indipendenti anche senza corpi. Giacché ci cono due specie di cose incorporee (qui BOEZIO sopprime la terza specie da lui distinta nel primo commento: quella delle cose incorporee che a volte si uniscono ai corpi, a volte se ne separano, e la fonde senz’altro con la prima specie): ci son cose incorporee che possono esistere senza corpo e, separate dai corpi, perdurano nella loro incorporeità, come Dio, la mente, Tanima ; altre cose incorporee, invece, non possono esistere senza i corpi, come la linea, la superficie, il numero e le varie qualità, che noi diciamo incorporee perchè non si estendono nelle tre dimensioni, ma che esistono nei corpi siffattamente da non poterne essere strappate o separate, o da svanire se separate dai corpi. Come si vede, le questioni sono impostate come nel primo commento. Ma qui BOEZIO si propone di trattarle altrimenti: primum quidem panca sub quaestionis ambiguitate proponam, post vero eundem dubitationis nodum absolvere atque explicare temptabo. nsomma, prima egli moverà un attacco, che vorrebbe essere a fondo, contro ogni concezione dell’ACCADEMIA o del LIZIO degl’universali, sia come reali, sia come concetti: poi giustificherà la concezione aristotelica tentando di dimostrare che son veri, nel pensiero, gli universali, pur non essendo reali, in natura, se non nei particolari. BOEZIO scrive: i generi e le specie o sono e sussistono, o si formano con l’intelletto ed esistono solo nel pensiero, ma non possono essere generi e specie. Anzitutto, generi e specie possono essere considerati reali? Una cosa che nello stesso tempo sia comune a più altre, non può essere una: specialmente se sia tutta in molte contempora- neamente. Ora il genere dovrebbe essere uno in tutte le sue specie: e non nel senso che ogni singola specie prenda per sè una parte del genere, ma nel senso che ogni singola specie ha in sè tutto il genere. Or questo genere che è tutto in ciascuna delle sue specie contemporaneamente, come può essere uno? giacché, se è tutto in più specie, in sè non può essere uno di numero. E se non può essere uno, non è nulla assolutamente, perchè tutto ciò che è, è perchè è uno. E lo stesso va detto della specie. Che se si dice che la specie o il genere esiste, ma molteplice di numero, non uno, non sarà il genere ultimo, bensì avrà sopra di sè un altro genere, che includa quella moltepli- cità nella propria unità. E, daccapo, se questo nuovo genere sarà a sua volta molteplice, non uno, rinvierà ancor esso a un altro genere: e cosi di seguito, airinfinito, senza che sia dato trovare un genere che sia uno di numero pur essendo comune a tutte le sue specie. Che se si dice che il genere è uno di numero, non potrà essere comune a molti. Giacché una cosa può essere comune a molte, ma solo in uno di questi tre casi: che ciascuna sua parte si applichi ad un particolare diverso: sicché il genere non stia tutto in ciascuna specie, ma in ogni specie una sola parte del genere; che più persone abbiano in comune l’uso di alcunché, ma l’usino, beninteso, ciascuna in tempi diversi. Esempio : più persone hanno un solo servo o un solo cavallo: si capisce che non possono servirsene tutte con temporaneamente, ma l’una prima, Taltra dopo); che qualcosa sia comune a molte persone, ma senza costituire la loro essenza. Esempio : il teatro è luogo comune a tutti gli spettatori ; ed anche lo spettacolo è uno e comune ad essi tutti). Ma il genere non è comune alle specie in nessuna delle tre forme ora dette: giacché deve essere tutto in ciascuna specie, deve essere contemporaneamente in tutte le specie, e deve costi- tuire Tessenza delle specie a cui è comune. Ora, se il genere non è nè uno (giacché è comune), nè molteplice (giacché, se fosse tale, richiederebbe un genere ulteriore), il genere non è per nulla. E lo stesso va detto delle specie, delle diiferenze, delle proprietà e degli accidenti. Se genere, specie, ecc. non sono, resta che siano còlti solo con rintelligenza. Ma di nuovo, ogni concetto si torma da una realtà o conformemente al suo vero essere o difformemente da esso. Se conformemente, genere, specie, ecc. esistono non solo nel pensiero, ma anche nella realtà, e risorge la domanda come possano essere uni e molteplici ad un tempo, con la conclusione di pocanzi, che cioè, genere, specie, ecc. non sono. Se difformemente, non possono essere che vani e falsi dei concetti difformi dalla realtà nel suo vero essere. Conclusione: se genere, specie, ecc. nè sono, nè, quando son pensati, sono pensati con verità, non rimane più alcun dubbio che si debba abbandonare ogni discussione circa le cinque distinzioni porfìriane, non vertendo esse nè su qualcosa di reale nè su qualcosa di cui sia possibile farsi un vero concetto. A questa obiezione che mirerebbe, come si vede, a scalzare tutta intera la dottrina porfiriana delle cinque primissime distinzioni logiche, BOEZIO risponde, appellandosi all’autoritàdi Alessandro di Afrodisia, di cui accetta e riproduce Targo - montare. Non è vero, scrive BOEZIO, che sia falso e vano ogni concetto che si scosti dall’essere reale delle cose. Se la mente mette insieme elementi di cose disparate fino a formarsi una immagine non rispondente a realtà, certamente erra e si inganna, come quando si immagina i centauri, componendone mentalmente la figura con elementi del corpo umano e dell’equino. Ma quando la mente procede non per composizione, ma per divisione ed astrazione, il concetto non corrisponde a nulla di obbiettivo, e tuttavia non è falso. Esempio: la linea non è concepibile che in un corpo: staccata da qualsiasi corpo, la linea non è nulla; e difatti chi potè mai cogliere con un qualsiasi senso una linea separata da ogni corpo? Ma ciò non esclude che possa separarla lo spirito e pensarla per sè sola, fuori di qualsiasi corpo. Onde risulta, nel pensiero, incorporea e separata quella linea che nella realtà è inseparabilmente unita al corpo e confusa con esso. Ora, i generi, le specie, ecc. sono proprio cosi fatti: esistono nei corpi singoli, ma possono essere separati dai corpi, come puri universali. E come nessuno può dir falso il concetto della linea perchè si pensa separata da ogni corpo mentre essa fuori dei corpi non sussiste, cosi non si deve ritenere falso il concetto di genere, specie, ecc. perchè si isolano come puri universali mentre essi non esistono che nei particolari. Gtli è che è prerogativa dell’ntelletto cogliere la somiglianza dei vari particolari sensibili, fissarla per sè sola e farne una specie; e poi ancora, cogliere la somiglianza delle varie specie, fissarla e farne un genere. Sicché la specie è un concetto ricavato dalla somiglianza d’essenza di individui diversi numericamente l’uno dall’altio: e il genere è un concetto ricavato dalla somiglianza delle specie. Ma questa somiglianza, quando è nelle cose singole, è sensibile; quando nelle universali, è intelligibile. O, che è lo stesso, sentita, è nelle cose singole; pensata, è universale. Sicché generi. specie, ecc. esistono nei sensibili, son còlti e pensati fuori dei corpi; universali quando son pensati, singolari quando son sentiti nei corpi in cui hanno esistenza. Rimane cosi risolta Tintera questione: giacché generi e specie esistono in un modo - nei particolari - e son pensati in un altro - fuori dei particolari - come se esistessero per sé stessi e non avessero nei particolari l’esser loro. Ma questa soluzione è aristotelica, e Boezio Tavverte esplicitamente: giacché per il LIZIO generi e specie son pensati incorporei ed universali, mentre esistono nei particolari sensibili. Platone invece - BOEZIO ama rammentarlo - ritiene che generi e specie non solo siano pensati come universali, ma anche siano tali ed esistano separati dai corpi. E BOEZIO dichiara espressamente d^aver presentato la soluzione aristotelica della questione non perché egli la approvi di più, ma perché un lavoro, come il suo commento, destinato a servir di introduzione alle Categorie del LIZIO, ha il dovere di adottare, in questa questione, preliminare importantissimo, il punto di vista aristotelico. Dopo il prologo del quale si é ampiamente discorso, l’Isagoge - alla quale ci conviene ormai ritornare - può intendersi divisa in due parti: la prima studia separatamente il genere, la specie, la differenza, la proprietà e Taccidente; la seconda paragona prima il genere alla differenza, alla specie, alla proprietà e all’accidente; poi la differenza alla specie, alla proprietà e all’accidente; infine tra loro la proprietà e l’accidente. Cominciamo ora lo studio delle cinque distinzioni logiche prese separatamente ad una ad una. Porfirio osserva che la parola “genere” si usa con significati diversi. Primo significato é quello per il quale genere (o piuttosto gente) vuol dire stirpe. Esempi: Oreste è delle gente di Tantalo, cioè discende da Tantalo; Pindaro è della gente tebana, cioè è tebano di nascita. Nel primo caso è indicato il progenitore, nel secondo la patria. In entrambi il termine da cui la stirpe, o gente, o genere proviene. Secondo significato è quello per il quale il genere (o gente, vuol dire quella collettività che è stretta da un’origine comune Esempio: Gl’Eraclidi costituiscono una gente (o genere) perchè discendono tutti da un comune capostipite: Eracle. Terzo significato è quello per il quale si dice genere quello a cui si subordinano le specie, la cui moltitudine esso contiene sotto di sè. Questo terzo significato, che è quello che la parola genere ha per i filosofi, è probabilmente imitato dai primi due in quanto, in logica si chiama genere quello che in altri casi si dice piuttosto stirpe, cioè l’origine da cui le specie derivano, da essa prendendo il nome e con tal nome distinguendosi da tutte la altre specie che rientrano sotto altri generi. In questo terzo significato genere è quel che si predica di più cose, differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. La quale definizione ha bisogno di essere chiarita punto per punto. Quel che si predica di più cose. Difatti, un predicato (“shaggy”) o si riferiscono ad una cosa singola o a più cose. Ad una cosa sola si rifere l’individuo, come quando si dice: questi è Socrate, questi e Fido -- e anche a una cosa sola si riferiscono: questi e questo. Invece a più cose si riferiscono i generi, le specie, le differenze e le proprietà e quegli accidenti che risultano comuni, non propri di una cosa sola. Esempio di genere: animale. Esempio di specie : uomo. Esempio di differenza (che contraddistingue l’uomo dagli altri animali): ragionevole. Esempio di proprietà dell’uomo: la capacità di ridere. Esempi di accidenti dell’uomo: bianco, nero, muoversi. Ora il genere differisce dall’individuo perchè si predica di più cose, non di una. Ma la definizione precisa è: Genere è ciò che si predica di più cose differenti tra loro per la specie», in quanto anche la specie si predica di più cose, ma di cose differenti tra loro per numero, non per specie. Esempio: La specie uomo si predica di Socrate e di Platone o CATONE e CICERONE, che differiscono numericamente in quanto Socrate e Platone sono due individui diversi, mentre il genere animale si predica dell’uomo, del bue, del cavallo, differenti tra loro non solo numericamente, ma per specie. Inoltre: genere è ciò che si predica di più cose differenti tra loro per la specie, e indica cosa esse sono. Giacché anche le differenze si predicano di cose differenti tra loro per la specie, ma indicano qitali esse sono, non cosa sono. Esempio: se ci domandano che cosa è Puorao, rispondiamo indicando il genere a cui appartiene, e diciamo: Puoino è animale; ma se ci domandano le qualità dell’uomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri differenziali, la ragionevolezza e la mortalità. Com’è chiaro, il genere differisce dalla proprietà, perchè questa si predica d’una sola specie e degli individui di essa, mentre il genere si predica di più specie. E differisce dagli accidenti comuni perchè, sebbene questi si predichino di più cose differenti tra loro per specie, ne indicano la qualità, non l’essenza -- come, ad esempio, il color nero. Ricapitolando: il predicarsi di più cose divide il genere dagli individui; il predicarsi di più cose differenti di specie lo separa dalle specie e dalle proprietà; Pindicare la quiddità o essenza lo divide dalle differenze e dagli accidenti comuni che indicano la qualità. E questa trattazione del genere non contiene nulla nè di superfluo, nè di manchevole. Anche specie ha più significati. Significa forma e significa, in logica, ciò che rientra in un genere (uomo è specie compresa nel genere animale; bianco è specie del genere colore; triangolo è specie del genere figura). Beninteso, come il genere è genere solo rispetto alle sue specie, cosi le specie sono specie solo rispetto al loro genere. Genere e specie cioè sono concetti correlativi. Cosi la specie vien definita: ciò che è posto sotto il genere, e di cui il genere si predica per indicarne l'essenza o quiddità. Ma questa definizione conviene solo alle specie specialissime che sono sempre specie e non mai generi, mentre le precedenti definizioni convengono anche alle specie che non sono specialissime. Sono generi generalissimi quelli al di sopra dei quali non esiste altro genere, come ad esempio I sostanza. Sono specie specialissime quelle al di sotto delle quali non esistono altre specie, come, ad esempio, uomo, che ha sotto di sè immediatamente i vari individui umani. Tra i generi generalissimi e le specie specialissime intercorrono generi subalterni, come ad esempio sostanza animata, sostanza animata sensibile, sostanza sensibile ragionevole. Ciascuno di questi concetti, intermedi tra sostanza e uomo, è specie rispetto al concetto più ampio nel quale rientra, è genere rispetto al concetto più ristretto che in esso rientra. Ad esempio: «sostanza animata» è specie rispetto a sostanza, è genere rispetto a sostanza animata sensibile. Ai due estremi della scala c'è la « sostanza», genere generalissimo che non è mai specie, e l’uomo, specie specialissima che non è mai genere, mentre in mezzo i generi subalterni sono a volte generi, a volte specie. Ora, mentre le genealogie famigliari, risalendo di proge- nitore in progenitore, raggiungono il comune capostipite di tuttele famiglie, Giove, non è dato rinvenire un genere generalissimo unico, a cui tutti i generi subalterni si lascino ridurre. Al contrario, secondo Aristotele sono X i generi generalissimi, assolutamente primi e irriducibili: uno è la sostanza e nove gli acci- denti (qualità, quantità, luogo, tempo, ecc.). Nè è valida obiezione che se questi X PREDICAMENTI sono, essi sembrano ridursi ad un genere generalissimo unico, Ve^%ere\ chè, dice Porfirio, l’esenza si predica in senso assai diverso della sostanza e dei vari accidenti, sicché l’unificazione delle X categorie neir^ss^r^ è soltanto nominale, non reale, variando il significato essere dall’uno all’altro predicamento. Ora, se i generi generalissimi sono X, i generi subalterni sono di numero assai grande, ma tuttavia finito : infiniti, invece, sono gli individui che vengono dopo le specie specialissime, e di essi non si dà scienza. L’ACCADEMIA insegna a dividere, mediante le differenze specifiche, ciascun genere in due, e poi ancora in due fino a raggiungere le specie specialissime, che si dirompono negli individui. Chi discende dai generi generalissimi alle specie specialissime divide, cioè moltiplica l’unità. Chi, al contrario sale dalle specie specialissime ai generi generalissimi, raccoglie la moltitudine in unità. Giacché ciò che è singolare divide, ciò che è comune aduna. Adunque, il genere si divide in più specie e si predica di esse. Giacché i concetti più estesi si predicano dei meno estesi (il genere si predica delle specie), i concetti equipollenti si predicano l’uno dell’altro e l’altro dell’uno (la proprietà di nitrire si predica del cavallo nella proposizione: Il cavallo è l’animale che nitrisce, e il cavallo si predica del nitrire nella reciproca: L’animale che nitrisce è il cavallo), ma non mai i concetti meno estesi si predicano dei più estesi (la proposizione: l’uomo è un animale » non può convertirsi nella reciproca: l’animale è uomo. Così i generi generalissimi si predicano di tutti i generi subalterni o specie, delle specie specialissime e degli individui ad esse sottoposti; i generi subalterni si predicano di tutte le specie ad essi inferiori, delle specie specialissime e degli individui ; le specie specialissime si pre- dicano degli individui, e gli individui d’un solo particolare. Gli individui sono parti della specie, che rispetto ad essi è totalità, mentre rispetto al genere è parte. Si parla di differenza nel significato comune della parola, in senso proprio, e in senso rigoroso. Nel significato comune differenza esprime la diversità d’una cosa da un’altra o da sè stessa. Socrate differisce da Platone e differisce da sè stesso bambino. In senso proprio, una cosa si dice differire da un’altra quando ne differisce per un accidente inseparabile. Accidente inseparabile è, per esempio, avere il naso curvo, essere ciechi, avere una cicatrice causata da una ferita. In senso rigoroso una cosa si dice differire da un’altra quando se ne distingue per differenza di specie. Ad esempio, un uomo differisce da un cavallo perchè appartengono a specie diverse, l’uno essendo ragionevole, l’altro no. In generale dunque, ogni differenza altera ciò a cui si innesta: ma le differenze comuni e proprie si limitano a renderlo alterato, le rigorose lo rendono addirittura altro. E queste differenze rigorose che rendono altro ciò a cui si applicano, si dicono differenze specifiche, le altre si dicono semplicemente differenze. Queste non producono che un’alterazione o un mutamento di stato, per esempio, il muoversi rispetto al giacere, quelle, invece, dal genere fanno le specie, le quali si definiscono appunto col genere e le differenze. Altra classificazione delle differenze è la seguente: differenze separabili come il muoversi e lo star fermi, l’essere sani o malati, e differenze inseparabili^ come l’avere un naso aquilino o camuso e l’essere ragionevoli o irragionevoli. Le differenze separabili si dividono ancora in differenze per se e differenze per accidens. Differenza per se è, nell’uomo, la ragionevolezza, la mortalità, la capacità di apprendere. Differenza per accidens è l’avere il naso aquilino o camuso. Le differenze per se entrano nel concetto della cosa e la rendono altra (la mortalità entra nel concetto di uomo e lo differenzia dall’altro essere animato sensibile e ragionevole, ma immortale che è Dio); invece, le differenze accidens, anche se insensibili, non entrano nel concetto della cosa e non la ren- dono altra, ma solo alterata (il naso camuso non entra nel concetto di uomo, e altera un individuo, ma non lo rende altro dai rimanenti uomini. Parimenti le differenze per se non ammettono aumenti o diminuzioni (tutti gli individui umani sono uomini egualmente, invece, le differenze per accidens ammettono aumento o diminuzione (si ha la pelle più o meno bianca, il naso più o meno curvo, ecc.. Fra le differenze inseparabili per se talune servono a dividere i generi in specie, tali altre, invece, a specificare i generi già divisi. Differenze inseparabili per se sono animato e inanimato, sensibile e insensibile, ragionevole e irragionevole, mortale e immortale. Di queste differenze, animato e sensibile sono differenze costitutive della sostanza animale; mortale e ragionevole sono, invece, divisive della sostanza animale in quanto per esse si giunge dal concetto del genere « animale al concetto della specie uomo. Senonchè quelle differenze che son divisive pei generi, sono costitutive per le specie: difatti, nelPesempio ora addotto, le differenze ragionevole e mortale, introducendo una divisione nel genere animale, costituiscono proprio cosi la specie uomo. Divisive e costitutive poi sono tutte le differenze specifiche, utilissime per le divisioni dei generi e le definizioni delle specie, mentre a ciò non giovano nè le differenze inseparabili per accidens, nè, molto meno, le separa- bili (sarebbe ridicolo dividere gli uomini secondo che abbiano il naso aquilino o camuso, differenze inseparabili per accidens, o, peggio ancora, secondo che stiano in piedi o a sedere). La differenza viene anche determinata come quella che la specie ha in più del genere. L’uomo, ad esempio, ha in più delhanimale Tessere ragionevole e mortale, qualità che il concetto di animale non include. (Or si domanda: se il genere non ha in sè le differenze che caratterizzano le varie specie, queste donde le traggono? Giacché le specie non derivano che dai generi, e questi non posseggono le differenze, nè pos- sono possederle, chè, se le possedessero, potrebbero riunire in sè differenze opposte tra loro, come sono quelle che contraddistinguono runa dalbaltra le varie specie. La soluzione di questa difficoltà è che non è necessario ammettere nè che le differenze specifiche nascano dal nulla, nè che il genere aduni in sè differenze contraddittorie, perchè il genere ha in potenza le differenze che da esso nascono, senza averle in atto. Altra definizione della differenza è: ciò che si predica di più cose differenti tra loro per specie, per indicarne la qualità. Infatti, se uno ci domanda: « che cosa è l’uomo?, noi rispondiamo indicando il genere a cui la specie umana appartiene, e diciamo: l’uomo è un animale ; ma se uno ci domanda la qualità delbuomo, rispondiamo indicando i suoi caratteri differenziali, e diciamo: L’uomo è ragionevole e mortale. Porfirio paragona così il genere alla materia e la differenza alla forma, e dice che come la figura rende statua il bronzo, cosi la differenza rende specie il genere. Altra determinazione della differenza è: ciò che è atto a dividere le cose che sono sotto il medesimo genere. Difatti, ragionevole e irragionevole sono differenze atte a dividere l’uomo dal cavallo, entrambi compresi nel genere animale. Altra definizione: differenza è quella per la quale differiscono fra loro le varie cose, giacché per il genere non differiscono. Per esempio: siamo animali mortali noi e gli irragionevoli: la differenza ragionevoli vale a separarci da essi. E ancora: siamo ragionevoli noi e gli Dei: la differenza mortali ci separa da essi. Definizione più profonda è la seguente: Differenza non è una qualsiasi di quelle determinazioni che valgono a dividere le cose che sono sotto il medesimo genere ; ma quella determinazione che riguarda l’essere ed è parte dell’essere d’una cosa. Per esempio: poter navigare, è particolarità esclusivamente umana, e tuttavia non è differenza che costituisca la sostanza dell’uomo. Differenze specifiche sono quelle che fanno altra la specie e sono accolte nel concetto di essa indicandone la qualità. Ci sono quattro sorte di qualità: Proprietà che convengono ad una sola specie, sebbene non intera, come per l’uomo essere medico o geometra. Solo gli uomini sono medici e geometri; ma non tutti gli uomini sono tali. Proprietà che convengono a tutta una specie, sebbene non solo ad essa, come per Tuomo essere bipede (sono bipedi anche gli uccelli). Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta la sua estensione, ma solo in un determinato tempo, come per Puomo imbiancare nella sua vecchiezza. Proprietà che convengono ad una sola specie in tutta la sua estensione e sempre, come per Tuomo poter ridere. (Non importa che non rida sempre: importa che abbia natura di poter ridere. Sono queste ultime le vere proprietà giacché possono con- vertirsi con ciò di cui sono proprietà. Chi è cavallo, può nitrire; chi può nitrire è cavallo. Accidente è quello che può essere presente o assente senza che il soggetto si corrompa. Ci sono intanto accidenti separabili e accidenti inseparabili. Separabile è dormire; inseparabile il color nero. E tuttavia, per quanto inseparabile, rimane accidente perchè, sebbene corvi e etiopi sono neri, si può sempre pensare un corvo e un etiope bianchi (albini). L'accidente è definito anche ciò che può contingentemente esserci e non esserci; oppure ciò che senza essere nè genere nè specie nè differenza nè proprietà, tuttavia sussiste in un oggetto. Determinate ormai tutte e cinque le distinzioni logiche, bisogna paragonarle tra loro per vedere cosa hanno di comune e cosa hanno di diverso. Di comune hanno il potersi predicare di più cose ; ma il genere si predica delle specie e degli individui (animale si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo bue); la differenza similmente delle specie e degli individui (irragionevole si predica dei cavalli e dei buoi, e di questo cavallo e di questo bue); la specie degli individui che sono sotto di essa (uomini si predica solo degli individui umani); la proprietà tanto della specie di cui è propria, quanto degli individui di tale specie (poter ridere si predica tanto deiruomo quanto dei singoli uomini); l’accidente cosi della specie come degli individui (nero si predica cosi della specie dei corvi come dei corvi particolari, ed è accidente inseparabile; muoversi si predica dell’uomo e del cavallo, ed è accidente separabile), ma anzitutto si predica degl’individui, e in secondo luogo delle specie che contengono gli individui. Ma conviene ora paragonare a due a due le cinque distinzioni logiche. Comparazione del genere con le altre quattro voci. Genere e differenza Cosa hanno di comune: Il genere e la differenza entrambi contengono specie. Bensì la differenza non contiene tante specie quante ne contiene il genere. Esempio: la differenza «ragionevole» contiene due specie: uomo e il divino; mentre il genere animale contiene e le due anzidetto e tutte le altre specie animali. Quel che si predica del genere come genere, si predica anche delle specie comprese in tale genere: e quel che si predica della differenza come differenza, si predica anche delle specie comprese in tale differenza. Esempi: del genere animale si predica l’esser sostanza e l’essere animato: che si predicano anche delle specie del genere animale e perfino degli individui di tali specie. Della differenza ragionevole si predica l’esser provvisto di ragione: che si predica anche delle specie comprese sotto tal differenza, uomo e il divino, e degli individui di tali specie, i singoli uomini e gli dei. Tolto il genere o la differenza, son tolte contempo- raneamente le specie che sono sotto di essi. Esempio: tolto il genere animale, è tolta anche la specie uomo; tolta la differenza « ragionevole », non ci sarà più nessun animale provvisto di ragione. Cosa hanno di diverso: È proprio del genere predicarsi di più cose che non la differenza, la specie, la proprietà e l’accidente. Esempio: il genere animale si predica egualmente dell’uomo, del cavallo, dell’uccello e del serpente, mentre la differenza quadrupede si predica solo degli animali di quattro piedi, la specie uomo solo degli individui umani, mentre la proprietà del nitrire solo della specie cavallo e dei cavalli particolari, e l’accidente star in piedi ancora di più poche cose. Il genere contiene la differenza in potenza. Esempio: il genere animale si divide in specie animali ragionevoli e specie irragionevoli, ragionevole e irragionevole essendo le differenze che dividono il genere animale in specie diverse. I generi sono anteriori alle differenze poste sotto di essi: tolti i generi, son tolte contemporaneamente anche le diffe- renze, ma non viceversa. Esempio: tolto il genere animale, son tolte tutte le differenze (ragionevole e irragionevole; mentre, tolte tutte le differenze, si può ancora pensare la sostnza animata sensibile, cioè l’animale. Il genere riguarda l’essenza o quiddità d’una cosa: la differenza la sua qualità. Esempio: Cos’è l’uomo? Un animale. Com’è l’uomo? Ragionevole. Ogni specie ha un sol genere, ma moltissime differenze. Esempio: il genere dell’uomo è animale; le differenze sono: ragionevole, mortale, suscettibile di intendere e d’imparare. Il genere è come la materia, la differenza è come la forma. Giacché è la differenza che determina il genere, come la forma determina la materia. Genere e specie Cosa hanno di comune: Tanto il genere quanto la specie si predicano di più cose. Entrambi sono anteriori a quelle cose delle quali si predicano. Cosi il genere come la specie costituiscono ciascuno un tutto. Cosa hanno di diverso: Il genere contiene la specie sotto di sè, le specie sono contenute, non contengono i generi. Giacché sono i generi che, determinati da differenze specifiche, producono le specie: onde sono naturalmente ad esse anteriori, e, tolti, tolgono anche le specie, ma non viceversa, chè, posta la specie, è posto anche il genere, ma posto il genere, non è posta con ciò stesso la specie. I generi si predicano univocamente delle specie: non cosi le specie dei generi. I generi sono superiori per le specie che comprendono sotto di sè, le specie per le differenze che le determinano. I generi possono anche essere contemporaneamente specie, ma non specie specialissime; e le specie possono essere contemporaneamente generi, ma non generi generalissimi. Genere e proprietà Cosa hanno di comune: Tanto il genere quanto le proprietà seguono le specie. Esempio: Se uno è uomo quanto alla sua specie, è animale quanto al genere; e se di specie è uomo, ha la proprietà di poter ridere. Egualmente si predicano il genere della specie e la proprietà di quelli che ne partecipano. L’uomo e il bue sono animali allo stesso titolo; e cosi CATONE e CICERONE hanno egualmente la proprietà di poter ridere. Si predicano univocamente il genere delle sue specie e la proprietà di quelle cose di cui è propria. Cosa hanno di diverso: Il genere è anteriore; la proprietà posteriore. Esempio: Bisogna che ci sia il genere ahimale, poi sia diviso dalle differenze e dalle proprietà. Il genere si predica di più specie, la proprietà di una sola specie, di cui è propria. La proprietà si predica di ciò di cui è propria, cosi come ciò di cui è propria si predica di essa: mentre il genere non si converte con nessun suo predicato. Esempio: La proposizione che l’uomo è l’animale che ride si converte che es animale che ride è l’uomo. Ma la proposizione che l’uomo è animale non si potrà mai convertire: c l’animale è l’uomo. La proprietà è in tutta la specie di cui è propria, in essa sola, e sempre: mentre il genere è in tutta la specie di cui è genere, e sempre, ma non in essa sola. Esempio: la proprietà di ridere è di tutti gli uomini, solo degli uomini, e sempre rimane in essi : il genere animale è in tutta la specie umana, è costante in essa, ma si trova anche in molte altre specie oltreché neirumana. Poiché la proprietà e ciò di cui é proprietà si convertono, tolta la proprietà é tolto ciò di cui é proprietà, tolto ciò di cui é proprietà é tolta la proprietà. Esempio: tolta la proprietà del ridere é tolto l’uomo: tolto l’uomo é tolta la proprietà del ridere. Al contrario, tolte le specie non sono tolti i generi. Esempio : tolta la specie umana non é tolto il genere animale. Genere e accidente Cosa hanno di comune: Si é già detto che ci sono accidenti separabili come il muoversi, e accidenti inseparabili come, ad esempio, il color nero: ora, cosi gli accidenti separabili come gli inseparabili hanno di comune col genere il potersi predicare di più cose. Neri sono i corvi, ma anche gl’etiopi e talune cose inanimate. Cosa hanno di diverso: Il genere é avanti le specie, mentre gli accidenti sono posteriori ad esse, anche se si tratti di accidenti inseparabili, giacché prima è ciò a cui accade, poi é Taccidente. Del genere tutte le specie che partecipano, partecipano egualmente; mentre degli accidenti si partecipa più o meno. Dii accidenti sussistono principalmente negli individui, mentre generi e specie sono, di natura, anteriori alle sostanze individuali. Il genere dice quel che è una cosa. L’accidente quale è e come è. Esempio: Come è l’etiope? Nero. Comparazione della differenza con le altre quattro voci. Differenza e genere sono già comparati quando si esaminano insieme genere e differenza. Differenza e specie Cosa hanno di comune: Della differenza e della specie si partecipa egualmente. Esempio: Gl’uomini singoli partecipano egualmente della specie uomo e della differenza ragionevole. La differenza e la specie sono sempre presenti in ciò che di esse partecipa. Esempio: Socrate è sempre ragionevole e sempre uomo. Cosa hanno di diverso: La differenza dice sempre la qualità delle cose, la specie la loro essenza o quiddità. Esempio: Uomo non è qualità, se non per le differenze che, determinando il genere animale, costituiscono la specie uomo. La differenza è in più specie. Esempio: la differenza quadrupede è in vari animali di specie differente. La specie è solo negli individui che sono sotto di essa. La differenza è altra cosa dalla specie a cui dà luogo. Difatti, se si toglie la differenza ragionevole, si toglie la specie uomo. Ma se si toglie la specie uomo, non si toglie la differenza ragionevole, perchè vi è il divino. Una differenza si combina con un’altra: ragionevole e mortale compongono la sostanza dell’uomo; mentre una specie non si combina con un’altra per produrne una terza. Un cavallo e un’asina generano un mulo. Ma non la specie cavallo con la specie asino generano la specie mulo. Differenza e proprietà. Cosa hanno di comune. Della differenza e della proprietà le cose partecipano egualmente. Esempio: gl’esseri ragionevoli partecipano della differenza ragionevolezza, quanto gl’esseri che possono ridere partecipano della proprietà di poter ridere. Differenze e proprietà sono sempre presenti nelle cose che le hanno. Si potrebbe obiettare. Se un bipede perde una gamba, non ha più la sua differenza di essere bipede. Ma l’obiezione non é giusta. L’amputazione non toglie la natura di bipede al manco. Del resto, anche la proprietà di poter ridere riguarda la natura umana, senza che gl’uomini ridano sempre. Cosa hanno di diverso. La differenza si predica di più specie: ragionevole si dice dell’uomo e del divino. La proprietà si predica di quella sola specie di cui è propria. La proprietà e ciò di cui è proprietà si convertono. La proposizione che l’uomo è l’animale che ride ammette la reciproca, che l’animale che ride è l’uomo. Mentre la differenza segue quella cosa di cui è differenza, e non si converte con essa. Posto l’uomo, è posta la ragionevolezza; ma, posta la ragionevolezza, non è posto l'uomo, perchè ragionevole è anche il divino. Differenza e accidente Cosa hanno di comune: Differenza ed accidente entrambi si predicano di più cose. Esempio: Tanto la differenza della ragionevolezza quanto l’accidente del muoversi si applicano a molte cose diverse. Tanto la differenza quanto gli accidenti inseparabili sono presenti sempre e in tutte le cose di cui si predicano. Esempio: Tanto la differenza bipede quanto l’accidente inseparabile nero riguardano tutti i corvi e li riguardano sempre. Cosa hanno di diverso: la differenza contiene, non è contenuta. La ragionevolezza contiene l’uomo perchè non è solo di lui. Gl’accidenti, invece, per un verso, contengono perchè sono in più cose) il muoversi è più esteso dell’uomo; per un altro sono contenuti, perchè il soggetto aduna in sè parecchi accidenti. L’uomo, oltre al muoversi, è anche bianco, alto, ecc. La differenza non ha aumento e diminuzione, gl’accidenti sì. O si è ragionevoli, o no. Ma si è più o meno alti. Le differenze contrarie non possono mescolarsi, bensì si mescolano gli accidenti contrari. Bipede e quadrupede si escludono. Ma bianco e nero si mescolano a produrre il grigio nella zebra. Comparazione della specie con le altre quattro voci. Specie e genere sono già comparati quando si esaminano insieme Genere e specie. Specie e differenza sono già comparati quando si esaminano insieme Differenza e specie. Specie e proprietà Cosa hanno di comune: Specie e proprietà si predicano l’una dell’altra: se è uomo, ha la proprietà di ridere; se ha la proprietà di ridere, è uomo; giacché le cose partecipano egualmente delle specie a cui appartengono e delle proprietà che le caratterizzano. Cosa hanno di diverso: La specie può essere genere ad altre specie; la proprietà non può essere di altre specie oltre quella di cui è propria. La specie sussiste prima della proprietà, poi la proprietà ha luogo nella specie. Esempio: bisogna essere uomo per avere la proprietà di ridere. La specie è sempre presente in atto, nel soggetto; la proprietà, a volte, vi è presente solo in potenza. Esempio: Socrate è sempre uomo in atto, ma non sempre ride sebbene abbia natura di poter ridere. La specie sempre è sotto il genere e si predica di più cose, differenti tra loro numericamente, indicandone l’essenza o quiddità; mentre la proprietà è solo in ciò di cui è propria, e in esso è sempre, e inerisce a tutta la sua estensione. Esempio: la proprietà del ridere è di tutti gl’uomini, solo negl’uomini e sempre negl’uomini. Specie e accidente Cosa hanno di comune: Si predicano di più cose. Cosa hanno di diverso: La specie dice il che di una cosa, l’accidente il quale e il come. Ogni sostanza può partecipare di una sola specie, ma di più accidenti separabili ed inseparabili. La specie si concepisce prima degli accidenti, anche se inseparabili, chè bisogna ci sia il soggetto, perchè qualcosa gli accada. Gl’accidenti invece sono posteriori e avventizi. Della specie si partecipa sempre in egual misura, ma dell’accidente, anche inseparabile, in misure diverse. Esempio: un etiope è più nero di un altro. Comparazione della proprietà con le altre quattro voci. Proprietà e genere sono già comparate quando si esaminano insieme Genere e proprietà. Proprietà e differenza sono già comparate quando si esaminarono insieme Differenza e proprietà. Proprietà e specie sono già comparate quando si esaminarono insieme Specie e proprietà. Proprietà e accidente Cosa hanno di comune. Tanto la proprietà quanto l’accidente inseparabile sono indispensabili a ciò in cui si osservano. Esempio: Come senza la proprietà del ridere non esiste uomo, cosi senza color nero non esiste etiope. Tanto la proprietà quanto l’accidente inseparabile sono sempre presenti a ciò che li possiede, e in tutta la loro estensione. Esempio: Tutti gl’etiopi sono neri, e sempre. Cosa hanno di diverso. La proprietà è presente in una sola specie. L’accidente inseparabile in molte. Esempio: La proprietà del ridere è solo dell’uomo. L’accidente inseparabile del color nero è dell’etiope, ma anche del corvo, del carbone, dell’ebano, ecc. Sicché la proprietà si converte con ciò di cui è proprietà, non cosi l’accidente con ciò di cui è accidente. Esempio: Che l'uomo ha la proprietà di ridere si converte in che chi ride è l'uomo. Ma che l'etiope è nero non si converte in che chi è nero è l'etiope, perchè anche il corvo, il carbone, ecc. sono neri. Della proprietà si partecipa sempre egualmente, degl’accidenti in diversa misura. Si è più o meno neri. Comparazione dell’accidente con le altre quattro voci. Accidente e genere sono già comparati quando si esaminano insieme Genere e accidente. Accidente e differenza sono già comparati quando si esaminano Differenza e accidente. Accidente e specie sono già comparati quando si esaminano insieme Specie e accidente. Accidente e proprietà Or ora esaminati come Proprietà ed accidente. L'Isagoge si chiude con l’osservazione che altri elementi comuni o diversi tra le cinque voci oltre i già notati ci sono, ma quelli notati bastano a distinguerli e ad intendere quel che hanno di comune. Nei due commenti boeziani s’espone ciò che riguarda il celebre prologo sulla realtà o meno degl’universali. Ci tocca ora dire qualche cosa sul complesso dei due commenti, che tanta autorità ha in tutto il Medio Evo, e tanto contribuirono a dare alla mentalità delle nazioni di cultura latina quella struttura rigorosamente logica che è rimasta loro caratteristica. Lo scopo da BOEZIO assegnato ad un commento è assai semplice, giacché non va oltre la illustrazione del testo. BOEZIO evita di accendere questioni, anche se il testo vi si presti. Solo quando l;obiezioni vengono cosi spontanee che non risolverle vorrebbe dire non comprendere quel che dice Porfirio, solo allora Boezio interviene per chiarire il pensiero dell’autore, giustificare le sue espressioni, e quindi, sgombrate le difficoltà, tornare alla illustrazione del testo. Dove Porfirio propone più classificazioni, BOEZIO cerca di connetterle tra loro, in maniera da renderle più facilmente assimilabili al lettore. E dove Porfirio accenna appena a teorie assai note fra gli studiosi, ma forse poco possedute dai principianti, BOEZIO interviene a rammentare tali teorie, e a trattarle, sebbene compendiosamente, in modo da fornire al lettore princicipiante, al quale il primo commento è diretto, le nozioni necessarie per intendere il testo di Porfirio. Così BOEZIO torna due volte sulla teoria della definizione, la quale, facendosi per genus et differentia nij è possibile solo per gl’individui definiti entro la loro specie, per le specie definite entro il loro genere, e per i generi subalterni definiti entro il genere immediatamente superiore, fino ai generi generalissimi, ma non per i generi generalissimi, i quali, non avendo nessun concetto più elevato sopra di sé, non possono essere definiti, cioè determinati entro l’ambito di un concetto più vasto. Onde, non potendosi definire, possono solo descriversi, con l’indicarne le proprietà. Un accenno, abbastanza ampio, è fatto da Boezio, come già da Porfirio, alla teoria dell’ACCADEMIA della divisione, che da ciascun genere generalissimo, mediante dicotomia, cioè divisione in due, giunge fino alle specie specialissime. BOEZIO cerca di rendere più evidente il nesso che stringe talune classificazioni che Porfirio presenta l’una dopo l’altra, senza unificarle in un solo quadro comprensivo. Questo avviene specialmente per le classificazioni che riguardano le differenze. Si rammenterà che Porfirio anzitutto classifica le differenze in differenze comuni, proprie e più proprie o rigorose; comuni, tutte le differenze per le quali siamo diversi da altri o da noi stessi (tu cammini, io seggo, oppure: ora io seggo, dopo cammino. Proprie le differenze individuali: capelli crespi, occhio cieco, ecc. Rigorose le differenze che riguardano tutta la specie: ragionevole, irragionevole, ecc.. Le quali ultime differenze sono le differenze specifiche, con le quali si procede a dividere i generi in specie. Ma questa prima classificazione può semplificarsi quando si avverta che tanto le differenze comuni quanto le proprie si limitano a rendere alterato il soggetto, mentre solo le differenze specifiche lo rendono altro. Si può dire dunque che le differenze si dividono in differenze che rendono alterato il soggetto e differenze che lo rendono altro. A questa prima classificazione Porfirio fa seguire la seconda. Le differenze sono o separabili o inseparabili. Questa seconda classificazione si può collegare con la prima osservando che solo le differenze comuni sono separabili: il sedere, il correre, ecc. Sono diff'erenze che non persistono, e sono quindi separabili dal loro soggetto, mentre le differenze proprie e più proprie, cioè quelle che riguardano l’individuo persistendo in lui e quelle che riguardano l’intera specie, sono inseparabili: tanto un occhio cieco quanto la ragionevolezza sono caratteri differenziali permanenti, e quindi inseparabili dal soggetto che li possiede. Senonchè, di queste differenze inseparabili, le individuali o proprie alterano il soggetto, ma non lo rendono altro -- la cecità altera un uomo, ma lo lascia uomo --, mentre le specifiche o più proprie rendono altro il soggetto (la ragionevolezza rende l’uomo altro dai bruti). E inoltre, delle differenze inseparabili, le individuali sono partecipate in misura diseguale, le specifiche sempre egualmente. Ad esempio, i capelli biondi son carattere differenziale di individui che sono l’uno più biondo, l’altro meno biondo; mentre la ragionevolezza è carattere differenziale della intera specie umana, i cui individui, in quanto sono uomini, sono tutti egualmente partecipi della ragione. Terza classificazione è quella per la quale le differenze si dividono in differenze divisive del genere e differenze costitutive delle specie. Son le medesime differenze che, prese in modo diverso, risultano una volta divisive del genere, un'altra costitutive delle specie. Se prendiamo le differenze contrarie ragionevole e irragionevole, esse dividono il genere animale; e se, dopo, prendiamo le differenze contrarie mortale e immortale, esse dividono l'inferiore genere animale ragionevole. Ma se prendiamo le differenze subalterne ragionevole, concetto più ampio, e mortale, concetto restrittivo, queste differenze subalterne costituiscono la specie dell'animale ragionevole mortale, cioè dell'uomo. Cosi la teoria delle differenze si avvia nel primo commento boeziano a quella matura unità che raggiungerà pienamente nel secondo commento. Ma forse più di queste particolari delucidazioni, che tuttavia contribuiscono alla elaborazione della salda logica medievale, riesce interessante il breve schizzo che del sapere del tempo BOEZIO premette al suo commento. Nel dialogo filosofico che egli immagina si fa chiedere da Fabio una illustrazione e prima una introduzione all'Isagoge di Porfirio. L'introduzione indicherà del’Isagoge VintentOy Vutiliià\ se ci sia altro libro ad essa germano; la ragione del titolo, ed a qual parte della filosofia si riconduca. Sei punti, dunque, tratta BOEZIO, sulle orme di quel che già aveva fatto Ammonio nel suo commento all’lsagoge. \Jintenio è trattare del genere, della specie, delle differenze, delle proprietà e degli accidenti. futilità deirisagoge è anzitutto quella d’introdurre alle Categorie del LIZIO, ma è anche più vasta. Occorre, però, per intenderla, avere un chiaro concetto di che sia la filosofia. Essa è amor di sapienza, che, non bisognosa di nulla, vivax mens et sola rerum primaeva ratio est. E questo amore di sapienza è illuminazione dello spirito che conosce da parte di quella pura Sapienza, e in qualche modo è un richiamo che questa fa dell’animo umano perchè torni ad essa, di maniera che il desiderio di sapienza è desiderio e amore della divinità e amore della pura mente divina. È questa sapienza che riconduce alla forza e purezza naturale le anime umane. Da essa nasce la verità delle speculazioni e dei pensieri e la santa e pura castità delle azioni. Il che mena direttamente alla divisione della filosofia, che è il genere, in teoretica o speculativa, e pratica o attiva. (0 e II sono le due lettere che spiccano su la veste della Filosofia nel De Consolatione Philosophiae). La teoretica, poi, ha tante parti quanti sono gli oggetti che considera: si divide quindi in: Teologia o dottrina di ciò che è sempre uno e medesimo, fermo sempre nella sua divinità, non accessibile ai sensi, ma solo alla mente ed all’intelletto: la quale speculazione studia Dio e la incorporeità dello spirito; Dottrina che si occupa di tutte le opere celesti del supremo divino, di ciò che nel mondo sublunare ha animo più beato e sostanza più pura, ed infine delle anime umane: tutte cose che, fatte di sostanza intelligibile, al contatto dei corpi, da intelligibili divennero soltanto intelligenti, in maniera che possono ora divenire più beate per purezza ed intelligenza quando si volgano ed applichino alle cose intelligibili; Dottrina dei corpi, o Fisica, che illustra la natura e le passioni dei corpi. Di queste tre parti della filosofia teoretica la seconda è meri- tamente collocata nel mezzo perchè ha da una parte l’animazione e vivificazione dei corpi, dalFaltra la considerazione e conoscenza delle cose intelligibili. Anche la filosofia pratica si divide in tre parti: L’Etica che s’orna ed accresce di virtù, nulla ammettendo nella vita di cui non possa essere soddisfatta, e niente facendo di cui debba pentirsi; la Politica, che assumendosi la cura dello Stato provvede alla salvezza di tutti con la saldezza della sua 'preveggenza e prudenza, con l’equilibrio della giustizia, con la sal- dezza della fortezza e la pazienza della temperanza; L’economia, che si occupa del buon andamento della vita famigliare. Alle quali parti già descritte della filosofia si aggiunge da vicino queirarte che i greci chiamano Logica: parte della filosofia 0 suo strumento? BOEZIO rimette la trattazione di questa questione ad una altra opera, che è poi il secondo commento. Intanto osserva che questa disputa sul genere, la specie, la differenza, la proprietà e l’accidente prepara la via a tutto lo studio della filo- sofia. Col dire cosa sia genere e cosa sia specie ci fa inten- dere che la filosofia è genere, e teoretica e pratica sono specie. Col dire cosa sia differenza, ci rende possibile di intendere se la logica sia una specie della filosofia, differente, quindi, dalle altre specie. Col dire cosa sia proprietà, ci spiega la natura propria di ciascuna differenza della filosofia. Col dire cosa sia accidente ci guarda dal mettere tra le cose principali ciò che è secondario. Cosi la conoscenza di queste cinque voci spande i suoi rami in tutte le parti della filosofia. Utile alla grammatica a cui insegna che il discorso è il genere e otto sono le sue parti o specie. Utile alla retorica, a cui permette di distinguere tre generi di causa, ciascuno diviso in specie a seconda dei soggetti. Utilissima alla logica, che nulla puo definire, per genere e differenza, se non sapesse cos'è genere, cos’è specie, cos’è differenza, ecc.; nulla puo dividere se non e guidata dalla conoscenza delle cose che divide: i generi e le specie. E nulla puo dimostrare giacché la verità delle dimostrazioni sta nei provare ciò che si divide o qualcos’altro mediante le cose che si son divise. E l’Isagoge di Porfirio precede tutta la logica del LIZIO, perchè senza di essa non si intenderebbero la sostanza e i nove accidenti di cui è parola nelle Categorie. Le quali voci significative sono quelle di cui si compongono le proposizioni, di cui si tratta nel De interpretatione. Le quali proposizioni sono quelle di cui si compone il sillogismo, il cui ordine, la cui struttura e le cui figure sono studiati negl’Analitici primi, perchè sia poi possibile studiare il sillogismo dialettico nella Topica e il sillogismo dimostrativo negl’Analitici secondi. Cosi l’Isagoge di Porfirio è la base prima di tutta la logica del LIZIO. Come nel corso del primo commento non sono rare le occasioni in cui BOEZIO è costretto a notare le imperfezioni e le oscurità della versione VITTORINO (si veda), cosi nel secondo commento Boezio presenta una traduzione propria, che indubbiamente è assai più scorrevole e chiara dell’altra. La versione è intercalata nella esposizione, che procede meno pedestre che nel primo commento, e che, specialmente nei primi fra i cinque libri, mostra un vigoroso proposito di rendere più robusta, più rigorosa ed organica la trattazione porfiriana. Il secondo commento si inizia con alcuni paragrafi dedicati alla filosofia in generale, alle sue parti, alle sue utilità, ecc. Se la filosofia - dice Boezio - è il più alto bene degli animi, convene precisamente muovere dalle facoltà dell’anima. Una forza dell’anima è quella vegetativa, comune anche alle piante, che non hanno sensi. Un’altra è la sensitiva, che dove sorge assume la prima come sua parte. Una terza è la intellettiva, che non si limita a sentire e a rammentare, ma anche esplica e conferma, con pieno atto di intelligenza, quel che l’immaginazione sopperisce. La qual potenza della ragione si esercita a indagare, anzitutto, se una cosa sia, poi che sia, poi quale sia, infine perchè sia. Ma, perchè il pensiero sia preservato dal pericolo di cadere nel falso, occorre anzitutto una disciplina che, studiando le maniere di disputare e gli stessi ragionamenti, possa additare qual ragionamento risulti ora falso, ora vero, quale sempre falso quale non mai falso. Della quale scienza - la logica - è duplice l’uso nell’inventare e nel giudicare: topica e dialettica, trattate entrambe dal LIZIO, ma la prima trascurata dal PORTICO. Ora, questa logica è una parte della filosofia o è solo il suo strumento? Quelli che la considerano parte della filosofia ragionano così. Delle proposizioni, dei sillogismi, ecc. solo la filosofia si occupa. Dunqne sono oggetto di filosofia. Ma, delle due grandi parti della filosofia, la speculativa che si occupa delle cose naturali, e l’attiva che si occupa della morale, nessuna tratta del discorso, dei giudizi, dei ragionamenti. Dunque, quella disciplina filosofica che d’essi si occupa non può non essere considerata una nuova parte della filosofia; donde la tripartizione di questa in: logica, fisica, etica. Coloro i quali invece sostengono che la logica sia strumento della filosofia, non sua parte, osservano che questa scienza della ragione è diretta o a conoscere le cose (fisica) o a trovare quei principi di morale che producono la beatitudine. Dunque, essi, dicono la logica serve sempre o alla fisica o all’etica. Boezio è del parere che le due teorie non si escludano a vicenda. Niente vieta che la logica sia ad un tempo parte e strumento della filosofia; parte in quanto ha innegabilmente un fine proprio, distinto dalla fisica e dall’etica; strumento in quanto, altrettanto innegabilmente, essa serve così all’una come all’altra. Del resto, nel nostro corpo, ciascun organo è al tempo stesso parte e strumento: la mano rispetto all’organismo intero è strumento; per sè, intanto, è parte. Ma veniamo allo scopo di questa introduzione porfiriana alle Categorie del LIZIO. Queste sono i X generi di predicamenti: può intenderli dunque chi sappia che sia il genere. Di ciascuno di essi si dànno varie specie --varie specie di sostanza, di qualità, ecc. 00: ed anche ciò presuppone si sappia che sia specie, e che sia la differenza per la quale ciascuna specie si allontana dall’altra e l’un genere dall’altro. Inoltre, ogni genere ha le sue proprietà, mediante le quali può essere descritto. E dei X predicamenti, IX sono accidenti. Donde la necessità di saper bene che sia proprietà e che sia accidente per intendere le Categorie del LIZIO. Ma Porfirio spesso indica l’utilità della sua introduzione per le definizioni, le divisioni e le dimostrazioni, oltreché, come già si è visto, per l’intendimento delle Categorie del LIZIO. Per le definizioni, perchè bisogna ben distinguere il genere prossimo e la differenza specifica per fare una giusta definizione; per la divisione in tutte le varie sue specie, giacché vanno distinte divisioni dei concetti presi in sè stessi e divisioni accidentali. Le divisioni dei concetti presi per sè stessi sono di tre ordini -- divisione del genere nelle sue specie -- distinzione dei vari significati di una parola; -- partizione d’un tutto nelle sue varie parti. Le divisioni accidentali sono anche di tre ordini: divisione di un accidente secondo i soggetti che lo ricettano ( c dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo -- divisione di un soggetto secondo gli accidenti (dei corpi, taluni sono (bianchi, altri sono neri -- divisione di un accidente secondo altri accidenti (delle cose bianche, alcune sono dure, altre liquide, altre molli. Per tutte queste divisioni occorre sapere che sia genere e che sia differenza, quando luna parola ha un significato solo univoca e quando più significati equivoca, e che sia una parte e che una specie; occorre inoltre ben distinguere sostanze ed accidenti. Infine, l’introduzione porfiriana è utile per le dimostrazioni, giacché queste si fanno o da cose già note, o da cose convenienti, o dalle prime cose, o dalla causa, o dalle cose connesse, o dalle cose inerenti. In ciascuno di questi casi bisogna sapere che è genere e che è differenza, e che è specie, giacché sono i generi quelli che sono anteriori per natura alle specie, e quindi di esse più noti, e sono i generi e le differenze le cause delle specie. BOEZIO tratta del genere con un manifesto desiderio di porre più rigore nella trattazione porfiriana, magari rifacendosi da teorie più vaste, che sembrano essere presupposte da ciò che dice Porfirio. Cosi, per esempio, per illustrare i significati, che Porfirio espone, della parola genere, che si riferisce a volte al progenitore da cui una gente deriva, a volte al luogo da cui una gente proviene, BOEZIO richiama la celebre dottrina aristotelica delle quattro cause, efficiente, materiale, formale e finale, alle quali aggiunge due principi accidentali, il luogo e il tempo. Quando si parla del genere dei ROMANI, cioè dei discendenti da ROMOLO, si indica in costui la causa efficiente della stirpe. Quando invece si dice Pindaro tebano, si indica in Tebe il luogo da cui Pindaro i proviene. BOEZIO insiste ancora sulla differenza tra descrizione e definizione. Il genere non può essere definito, chè, per essere definito, dovrebbe avere un altro genere sopra di sè, e, quando avesse un genere sopra di sè, sarebbe specie, non genere. Sicché, non potendo essere definito, il genere è *descritto*, cioè ne vengono indicate le proprietà, che sono come i colori con i quali si dipinge un quadro. L’intera teoria del genere, della differenza, della specie, della proprietà e dell’accidente, è chiusa come in un prospetto nelle seguenti classificazioni boeziane. Ciò che si Ciò che si predica predica di di più cose una cosa sola | S o in O ® og O ce 05 S ce p! ce<e •1-Ph o u Ph o <v Ph m 'Pce ^03 S OM ■Tj■ pP ceP■ cr cS a^ p p p iJ} OJ co a? a; pO o a O) G *S (p o S *02 OO ce 03 .3 P •'P P - p cr .2 P *o p ■| £• — xs ce G 'P ce P np P P P U sé ce N. 2 G ’B ® p 02 P m I a; 'p 03 rQ O .P O ■TP O O (D VP ce ^ P. P P ce p sostanzialmente accidentalmente l’isagoge di PORFIRIO E I COMMENTI DI BOEZIO. BOEZIO prosegue, poi, illustrando via via i passi porfìriani che traduce e riporta: e le sue sono delucidazioni speciali, del resto assai utili. Per esempio: in che senso si dice che gl’uomini differiscono tra loro numericamente? Nel senso che si dice: Socrate è un uomo, Platone è un altro uomo. B. tratta delle specie e non prima della differenza nonostante che la differenza, contenendo in sè più specie, sia ad essa anteriore, perchè la specie è specie del genere, come il genere è genere della specie, epperò vanno studiati in connessione l’uno con l’altra. Le illustrazioni, per solito, non aggiungono nulla di nuovo. Interessante può essere l’atteggiamento di osseqio al LIZIO su le questioni delle X categorie; atteggiamento che è di Porfirio e non viene mutato da Boezio. Nè i X predicamenti possono ridursi tutti dXVente [GRICE, ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING], perchè ente ha significati diversi secondo che s’applichi alla sostanza, alla qualità, alla quantità, ecc. Vale a dire è un nome di più significati, e non un genere d’un significato solo. Del resto, come ogni predicamento cosi ogni predicamento è un predicamento; sicché se ente fosse genere, i X predicamenti avrebbero *due* generi: ente e uno\ e ciò è assurdo, perchè non si può appartenere a più di un genere. B. tratta della differenza, ripetendo lo sforzo, visibile già nel primo commento, di dare organicità ed unità alla trattazione porfiriana dell’argomento col connettere insieme le varie classificazioni, tutte svolte da una distinzione fondamentale, tra differenze sostanziali e differenze accidentali, e col condannare più risolutamente di Porfirio quelle definizioni che idem per idem definiunt, quando dicono che differenza è ciò per cui una cosa *differisce* da un’altra, e che non precisano davvero cosa sia differenza quando la definiscono ciò per cui una cosa dista da un’altra, potendosi una cosa allontanare da un'altra per qualità del tutto accidentali che non costituiscono diiferenze in senso proprio. BOEZIO tratta anche della proprietà, rispetto alla quale osserva che, se l’essere di una cosa è espressa dal suo genere, dalla sua differenza e dalla sua specie, le sue proprietà non costituiscono la sua sostanza, ma qualcosa di accidentale, sebbene si chiamino proprietà, e che quando Porfirio distingue proprietà di quattro sorte, non intende enumerare quattro specie del genere proprietà, ma indicare i quattro significati diversi nei quali si parla di proprietà. Il IV libro tratta infine dell’accidente, condannando, più di Porfirio, la distinzione puramente negativa, per la quale accidente è ciò che non è nè genere, nè differenza, nè specie, nè proprietà. BOEZIO illustra la comparazione che Porfirio istituisce tra le cinque voci senza alcuna particolare osservazione. Notevole è tuttavia che BOEZIO non lascia passare la divisione porfiriana dell’animale razionale in animale razionale mortale (l’uomo) e animale razionale immortale (il divino) senza notare che ciò si poteva dire quando si riteneno il sole e gl’altri corpi celesti animati e divini. Su questi testi si chinarono, per generazioni e generazioni, gl’uomini del medioevo, come su libri di profondissima sapienza. Se l’Europa usce dal medioevo cosi fortemente razionalistica, essa s'e fatta la sua potente quadratura logica meditando su questi ultimi fra gl’antichi, lungamente venerati e studiati. Grice: “I like Guzzo. For one, he spent a tutorial or two on the very same ‘tratarello’ I did: Boezio’s latinizing Porphyry!”Nome compiuto: Augusto Guzzo. Guzzo. Keywords: pagine di filosofi per i giovani italiani; il Vico di Guzzo, il Galluppi di Guzzo, il Bruno di Guzzo, Gentile, Gli hegeliani d’Italia, Vera, Spaventa, Jaja, Maturi, Gentile, dirito, stato, Biblioteca Italiana di Filosofia, spunti e contrattacchi, Della causa, del principio e del uno, dell’analisi e la sintesi, autobiografia e scienza nuova per giovani italiani dei licei classici, il manual di filosofia di Fiorentino. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guzzo: tra idealismo ed empirismo” – The Swimming-Pool Library.

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